La pagina marzo 2011

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Mensile gratuito

N째 03 - Marzo 2011 (83째)


Senatori della città

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Le memorie di Augusto - F Patrizi Una e indivisibile - P Fabbri Tecnologie persuasive - A Melasecche Servizi?! Ma di che, oh?! - V Policreti ALFIO La fonte e la chiesa de Santermene - V Grechi Italia 150: Senato italiano e Senato americano - A Liberati Ritrovata a Capo Verde l’isola che non c’è - AL Fondamentalmente Amore! - B Ratini La corsa non è più sulle strade, ma nei laboratori - G Talamonti Stilosissimo - C Mansueti Per qualche telespettatore in più - P Seri PROGETTO MANDELA DIRITTI UMANI Il processo di Norimberga - M Ricci ; NEOPOP 150 ANNI ITALIA LICEO CLASSICO - Verga e il verismo - G Scuderi, SM Fantini, M Micheli Quale sarà il tuo progetto? - M Rotaru L’elemento umano - C Colasanti ; No al bullismo, sì all’integrazione - GT SALA PAOLO CANDELORI - Fondazione Carit I giovani e il lavoro - LB ; Via Lattea a... S. Erasmo? - F Capitoli Mostra di pittura Contemporanea Sarah, Yara... chi sarà la prossima? - L Bellucci Giulietta e Romeo: uno spettacolo dal tocco aureo - LB TERNI - C’è chi ama la matematica - G Raspetti San Valentino Patrono della città di Terni - L Piccioni Mostra fotografica della visita a Terni di Papa Giovanni Paolo II Crittografia, crittologia, critto... cosa? - E Lucci Vittorio Emanuele II - F Neri SUTEL Astronomia - T Scacciafratte, G Cozzari, P Casali, F Valentini SUPERCONTI

LA

PA G I N A

Mensile di attualità e cultura

Registrazione n. 9 del 12 novembre 2002, Tribunale di Terni Redazione: Terni, Vico Catina 13 --- Tipolitografia: Federici - Terni

DISTRIBUZIONE GRATUITA Direttore responsabile Michele Rito Liposi Editrice Projecta di Giampiero Raspetti

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Direttore editoriale Giampiero Raspetti

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Le collaborazioni sono, salvo diversi accordi scritti, gratuite e non retribuite. E’ vietata la riproduzione anche parziale dei testi.

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E' tempo di trasformare le forme della politica. Urge una politica assiologica, o valutativa, che sostituisca quella assiale (dell’asse o retta cartesiana: destra, centro, sinistra). Occorre anteporre a vetuste ideologie, utilizzate ormai solo per comodo, alcuni valori condivisi, da contrapporre, in forma diadica (o dicotomica) a valori opposti. In una diade (formata da due polarità) i concetti sono antitetici e complementari. Tali concetti sono reciprocamente esclusivi, nel senso che nessuna dottrina o nessun movimento può essere contemporaneamente tanto in un polo quanto nell’altro e congiuntamente esaustivi, nel senso che una dottrina o un movimento possono essere soltanto o in un polo o nell’altro. Fiore di pesco il nome di questo movimento che non avrà mai presidenti, segretari, o candidati in una sua lista, ma si impegnerà per l’orientamento politicopartitico dei cittadini. In esso i simpatizzanti non si accatastano per rubacchiare o per pietire privilegi, non fanno comunella per sparlare degli avversari politici o per giocherellare con la partitica, ma si riconoscono dal comportamento, quello di tutti i giorni, non quello dei dì di festa. Non si nutre interesse per fede ideologica, ma solo per ragione e cultura. Sentimenti di solidarietà, non di carità. Nella politica assiologica centro altro non è che l’atollo in cui si concentrano valori condivisi; fuori, estremo, né a destra né a sinistra, è l’atollo di quelli opposti. Si tratta di un bipolarismo cristallino: da una parte o dall’altra, ma rispetto a comportamenti netti, solari, a categorie fondamentali condivise da molte persone, qualunque sia la loro appartenenza partitica. FdP non è dalla parte di chi amministra alle spalle dei lavoratori, di chi cioè dice di difenderli, ma non ha mai lavorato o, se lo ha fatto, è stato solo per incarico di partito. Chi ha dato esempio di essersi realizzato da solo, senza l’ausilio di eredità o di compagnucci, di merenda o di consorteria, potrà rappresentare i cittadini, altrimenti, se è stato una nullità in precedenza, come si può pensare che possa essere qualcuno in operazioni così delicate? La legge, poi, per FdP è uguale per tutti. Identicamente uguale. Se qualche sua piega consentisse favori o privilegi a ricchi e potenti, e non a tutti, allora tale orpello non sarà da noi considerato giusto, ma solo violenta prevaricazione. Non staremo mai in un partito, perché non vogliamo servirci delle forze degli altri: quello che faremo sarà frutto autentico del lavoro di ognuno di noi. Non difenderemo mai chi dovesse incappare anche in una sola multa. Chi dovesse avere qualche guaio con la giustizia dovrà risolverlo in modo definitivo prima di impegnarsi con noi. Non nasconderemo il problema, non difenderemo sempre e a priori chi è dalla nostra parte politica, anzi, prima di avventurarci nella critica in casa d’altri, vogliamo che la nostra casa sia esente, in modo assoluto, da ombre e sospetti. Scenderemo in campo anche noi, senza una lira in tasca, onesti però e ricchi nel cuore e nella mente. Senza padroni, saremo al servizio soltanto del paese al quale daremo senza chiedere, ricevendone in cambio solo la serena consapevolezza di aver ben operato per i nostri figli e per i figli degli altri. Non vogliamo emolumenti né incarichi, siamo già troppo impegnati ad interessarci davvero del nostro prossimo, ognuno nell’ambito delle rispettive capacità, versatilità, competenze. Il nostro obiettivo è nella ricerca dell’alfabeto morale comune, di cosa unisce senza presse, ipocrisie, messe in scena. In FdP, i cui partecipanti provengono già da varie appartenenze partitiche, i Senatori della città non brigano per avere ancora e ancora incarichi. Terminato il proprio impegno lavorativo (per la politica attiva determiniamo in non più di 3 incarichi o legislature), mette a disposizione della città, dei giovani della città in particolare, il proprio sapere e le proprie esperienze. Un risultato concreto è già in TERNI - C’è chi ama la matematica (a pagina 18). Se sei interessato fai pervenire la tua adesione a Fiore di pesco, comunicando nome, numero di telefono ed eventuale indirizzo email a: info@lapagina.info o in Vico Catina 13, Terni. Noi, nel frattempo, andiamo avanti. Giampiero Raspetti


L e m emor i e d i A u g u st o Come curare l’anima con la card aziendale

laboratori

Mio caro Masi, tu mi chiedi di tanta pecunia e dell’esoso ozio presso le terme di Saturnia le ragioni. Siedi e leggi questa mia epistola. Era giunto il termine della settimana, non ero più costretto a destreggiarmi, le mie opere si imponevano e le buone intenzioni davano i loro frutti. Sotto all’occhio attento del mio TG1 erano sfilati composti tutti i labari del Monte Citorio. Con quale sforzo tentai di dare un ordine morale a questo mondo sferzato dalla Fortuna, dove gli Dei vengono derisi e inquisiti, dove Giove non può più farsi pioggia e fecondare le giumente né mutarsi in toro per risollevare le sorti capricciose delle vaghe stelline della volta dell’etere. Volsi le spalle alla corrotta Roma e mi avvolsi nella candida tunica di spugna di un centro termale caro al dio Saturno. Come ben sai, mio direttore Masi, già l’imperatore Adriano era solito cullare quella prigione dell’anima che è il nostro corpo, giacché i benefici delle divine Thermae trapassano i pori, portano via i cattivi umori e giungono diritti alla nostra anima smarrita tra le sirene dell’auditel e i comunicati ingrati della mia stessa redazione giornalistica. Ma non è forse compito di un direttore patire le sofferenze dei nostri tempi e cercare la via che conduce alla Verità, per poi additarla agli amati tele-concittadini? Deposi allora la tunica di spugna e, nudo e inerme, mi immolai alla macchina del fango. Hic sunt massaggi. L’odore sulfureo ridestò in me i ricordi delle battaglie, il pieno di ascolti per il terremoto dell’Aquila (ah, ce ne fossero!) e quegli scandali pruriginosi che mai troveranno eco nella scaletta del mio TG, giacché più che una scaletta, è una scala che conduce l’animula vagula blandula dell’abbonato RAI per aspera ad astra, dal gossip alla Verità. Proseguimmo, io, la mia dolce compagna di vita, il pacchetto lusso et lux delle Terme di Saturnia. Passammo dalla sauna al frigidarium, dal thepidarium all’idromassaggio. Sostammo in tutto pochi giorni e lasciai strisciare la carta di credito aziendale della RAI per saldare il conto. Non era forse un’esperienza da fare e poi raccontare? Infatti realizzai subito un ottimo servizio sull’esoso albergo saturnino nel TG delle 13, espletando così il mio dovere di giornalista. Se qualcuno oggi rimprovera l’uso della pubblica pecunia per gli ozi privati, ricordagli, mio caro Masi, che servì all’anima di un direttore di telegiornale per compiere un viaggio iniziatico: mi gettarono del fango addosso, nudo e inerme fui consegnato a giovani mani straniere, mi avvolsero in un sudario e mi deposero su di un marmo fumante; dopo tre ore risorsi, vagai in una nebbiolina calda e passai tra i flutti di una vasca sulfurea. Così tornai a riveder le stelle, ancor più forte e purificato dal pacchetto de lux. Augustus Massimus Minzolini (Traduzione a cura di Francesco Patrizi)

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U n a

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i n d i v i s i b i l e

Quale Italia festeggeremo, il 17 marzo? Solo quella di Metternich, la misera espressione geografica ribadita dal Congresso di Vienna? O quella tutto sommato imprevista e sorprendente che, meno di mezzo secolo dopo, sorprendeva il mondo unendosi e prendendo forma grazie agli artifici diplomatici di Cavour, all’avventura sconsiderata d’un migliaio di camicie rosse e al sogno sfacciato e dirompente d’una manciata di giovani sedotti da un ideale impossibile quasi quanto lo era calpestare la luna? Oppure l’Italia che, spaccata e divisa, si ritrovò controvoglia nelle trincee del Carso, quasi un secolo fa? O quella percorsa in largo e lungo nella guerra successiva dai carri armati tedeschi, inglesi, americani, proprietà violata d’un popolo prima aggressivo e guerreggiante, poi disilluso e non belligerante? O l’Italia degli anni di piombo, infangata dalle P38 e dalle bombe piazzate nelle retine portabagagli dei treni o nelle sale d’aspetto delle banche e delle stazioni? O quella che, appena nata, già apriva i conti con questioni tuttora irrisolte: la questione meridionale, la questione romana. E il brigantaggio prima e le mafie poi, e la diarchia nostrana tra Stato e Chiesa, con l’oscillare continuo tra potere confessionale e potere laico? Nella parte di Nordafrica che adesso brucia più violentemente, tra la Cirenaica e la Sirte, gli italiani vengono ancora dipinti come occidentali colonialisti e impiccatori d’eroi, oppressori contro cui chiamare a raccolta il senso nazionale del popolo libico, quasi potessero gli antichi rancori dell’irredentismo tripolitano sedare gli animi eccitati e furiosi dei ribelli che dirigono oggi la loro furia contro il tiranno indigeno. Nessun italiano di oggi riesce neppure a far finta d’identificarsi con quegli italiani invasori, ma è certo che per alcuni, tra il Sahara e la costa meridionale del Mediterraneo, sia ancora quella, l’immagine dell’italiano. Più a nord e a ovest, nell’occidente confratello, milioni di sopracciglia si alzano, e sorrisi a mezzo tra la sorpresa e il compatimento si allargano nel giudicare le sorprendenti follie degli abitanti della penisola. Cattivi soldati, buoni artisti, creativi ma disorganizzati; pessimi pagatori di tasse, abilissimi nel godersi la vita, bravi amanti e bravi calciatori; inaffidabili alleati, spiriti a un tempo geniali e meschini; e questo solo nel migliore dei luoghi comuni. E dimenticano spesso che l’Italia è stata un laboratorio protetto in cui si sviluppavano infezioni pericolose: la parola fascismo, secondo gli storici, è l’unico termine italiano entrato in tutti i dizionari del mondo nell’ultimo secolo. Altri poi l’hanno elaborato ed esasperato, e basterebbe ricordare questo per non divertirsi troppo nel notare come gli italiani di oggi riescano a farsi sedurre e incantare dal potere ipnotico dei media, dall’appiattimento seriale dei sogni e dei desideri. Altri, prima o poi, potrebbero ripetere e migliorare l’effetto, anche altrove. C’è anche l’Italia che, una e indivisibile come recita l’articolo 5 della Costituzione, onora ministri che rivendicano orgogliosamente il loro appartenere ad un partito che ha come principio fondatore proprio la frantumazione dell’Italia stessa, alla faccia della contraddizione in termini, autorità nazionali che osteggiano e disprezzano con certosina precisione ogni espressione dell’unità nazionale. E c’è l’Italia dei nostalgici delle monarchie spietate e ridicole di regni che erano già vecchi nell’Ottocento, cultori dell’orgoglio del campanile, che vorrebbero una nazione non meno monca e ridicola. E certo c’è l’Italia ridotta all’azzurro slavato delle nazionali sportive, che rincorre il suo orgoglio in un gol sul filo del fuorigioco o sulla rapidità d’un cambio gomme ai box. E c’è quella che si invoca rabbiosi per un sussidio più o meno meritato, salvo poi aggirarla con furbesca soddisfazione quando si riesce ad evitare una tassa o un balzello. Ci sarebbe, infine, anche l’Italia che si riesce a sentire nell’identità degli sguardi delle persone, nella somiglianza dei modi di ridere, nella coincidenza delle emozioni suscitate dalle stesse parole, poesie, canzoni. Potrebbe esserci l’Italia che scorre allegra sottopelle, quando di riconosce un connazionale all’estero, simile tra altri meno simili. Dovrebbe esserci l’Italia che fa sentire il dialetto napoletano e il fiorentino come articolazioni musicali della stessa lingua, che fa riconoscere il candore accecante delle spiagge calabre simile al bianco splendente delle nevi sulle Dolomiti. L’Italia che riconosce lo stesso gusto, uguale e diverso, nella pastasciutta di Verona e in quella di Campobasso, entrambe seguite dallo stesso caffè che, appena varcati i confini, già cambia e perde tutto il suo sapore. Dovrebbe esserci una strana e dimenticata Italia, che nasconde le sue somiglianze quasi per timidezza, e si lascia distrarre stupidamente dalle differenze, vere o presunte che siano. Un’Italia che accoglie perché sa farlo, che ride perché sa ridere, che sa prendersi in giro senza essere ridicola. Speriamo sia quest’Italia, quella che festeggeremo il prossimo 17 marzo. Piero Fabbri

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Te c n o l o g i e p e r s u a s i v e

Vi è mai capitato di pentirvi di un acquisto appena effettuato? Della confidenza fatta on line ad una persona mai incontrata prima? Avete mai avuto l’impressione di essere stati in qualche modo guidati? E se l’occulto persuasore fosse il vostro computer? La Captologia studia proprio i computer come tecnologie persuasive. B. J. Fogg, direttore del Laboratorio di Tecnologia Persuasiva della Stanford University, un vero guru dei media, ha coniato il termine nel 1996, derivandolo dall’acronimo Computers As Persuasive Technologies (i computer come tecnologie persuasive). Questa scienza si fonda sullo studio delle risposte sociali a tv e nuovi media e sviluppa un campo di ricerca dove l’arte della persuasione e la scienza dei computer si sovrappongono. Sia ben chiaro però, i computer con volontà propria li troviamo solo nei vecchi film di fantascienza, come 2001 Odissea nello spazio tanto per citare uno degli esempi più noti; nella realtà non

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hanno, ancora, una propria intenzionalità, ma altrettanto non si può dire dei loro progettisti e dei loro utilizzatori. Anche perché l’arte della persuasione è ben più datata delle nuove tecnologie, basti pensare all’uso della retorica per strutturare discorsi convincenti sin dai tempi antichi e della psicologia per agire sui comportamenti altrui. Poi queste tecniche gradualmente hanno permeato la nostra quotidianità, trovando nuove vie. Ne sono un esempio le soap opera, chiamate così proprio perché inframezzavano le pubblicità dei saponi. La persuasione si distingue chiaramente dalla coercizione, la prima non obbliga, piuttosto seduce. La chiave di volta è sapere quale stimolo possa sollecitare la risposta ricercata. E mentre siamo più o meno vaccinati a persuasori dalla foggia umana, non lo siamo davanti a soggetti/oggetti che pensiamo essere neutrali. In questo caso l’utente viene sollecitato, sia razionalmente che attra-

verso esperienze emotive. Come? Rendendoci più facile l’esecuzione di un compito, come ad esempio le schermate che ci portano a comprare un prodotto in rete agevolandone l’acquisto, oppure dandoci una visibilità sociale, basti pensare ai social network, o ancora permettendoci di accedere ad esperienze improbabili nella realtà grazie alle tecnologie di simulazione. Ma, tra tutte, l’area di ricerca più promettente è senza dubbio quella che si occupa di internet, perché ci affidiamo ogni giorno sempre di più alla rete, e quella dei telefonini, perché possono sfruttare il principio del kairos, offrire il suggerimento giusto al momento giusto. Per evitare fraintendimenti, è il caso di sottolineare che l’intenzione della Captologia di B.J. Fogg è assolutamente etica, almeno nelle sue iniziali intenzioni. I princìpi sono ideati per persuadere l’utente a cambiare atteggiamenti e comportamenti per lui dannosi, nella direzione di un suo personale vantaggio, perché le tecnologie persuasive, se conosciute e usate bene, possono aiutare la società ad essere più responsabile, portando i singoli ad esempio a smettere di fumare, ad evitare di alzare il gomito prima di mettersi alla guida, a convincerli a non inquinare, riducendo i costi sociali e umani di abitudini decisamente deleterie per loro e per gli altri. alessia.melasecche@libero.it

w w w. l a p i a z z e t t a r i s t o r a n t e . i t l a p i a z z e t t a . t e r n i @ l i b e ro . i t

Servizi?! Ma di che, oh?!

Bene ha fatto la Gelmini a licenziare i precari, tutti li doveva mandar via. Bene faranno le Poste (ma perché si chiamano ancora così?) a non recapitare più le lettere. Bene fanno gli ospedali a non curare i pazienti che non rendono. Bene fanno i governanti a portare la mano alla rivoltella appena sentono la parola cultura. E fanno bene perché sarebbe ora di ficcarci in testa che la società contemporanea (per definizione la migliore) ha un unico metro di utilità: il danaro immediato. Se una cosa rende, è utile e se non rende (cioè è inutile) non si deve fare e non si fa. Non sfugge a noi del popolo che questo principio elimina fatalmente il concetto di servizio pubblico. Anzi, lo rende addirittura inintelligibile, in quanto antitetico a quello di utilità economica immediata. Per l’utilità a lungo termine ci sarebbe il concetto di investimento. Ma noi oggi siamo qui, domani chissà. Dopo di noi, il diluvio e chi ci affoga, peggio per lui. Purtroppo la società non ha ancora del tutto compiuto questo passo in avanti; vi sono ancora sacche, ancorché obsolete, di servizi che vanno eliminate e prima lo si fa, meglio è. Per cominciare, proprio la cultura: vi sono ancora, nonostante i lodevoli sforzi del Governo, istituzioni che, utilissime se mai la cultura fosse un valore, diventano palle al piede se non lo è: musei, orchestre, teatri, enti lirici e tante altre. Qualcuno mi sa dire a che mai servano Mozart, Michelangelo, Socrate? Per eseguire il primo occorre pagare un’orchestra, mentre con una tastiera e casse da 40.000 si può fare molto più rumore a prezzi incomparabilmente più bassi. Per restaurare la Sistina sono state spese somme enormi, mentre vi sono oggi ottime vernici sintetiche che con il computer possono ottenere sfumature che Michelangelo nemmeno si sognava e possono essere date a macchina su tutta la volta. Un attimo: per vedere la Sistina si pagano un sacco di soldi (lo Stato Vaticano è più moderno e coerente di quello italiano) e questo c’induce a ripensarci: per la Sistina -se rende- il discorso potrebbe essere diverso. Non così per tutte le chiese in cui si entra gratis. Salvo la simonia, la religione è improduttiva. Quanto a Socrate e la filosofia: ma andiamo! Un’intelligenza astratta! Ma s’è mai sentito niente di più assurdo? Mille volte meglio il Corriere dello sport, che diffonde chiacchiere altrettanto inutili, ma almeno promuove iniziative ad assai più alto reddito. Tuttavia il punto sul quale non si batterà mai abbastanza è quello dell’educazione che i genitori ancora praticano senza rientro economico. Si può immaginare niente di peggio? L’impartire un’educazione ai figli è un lavoro difficilissimo, qualificatissimo (tanto che in esso gli errori sono fisiologici anziché patologici), che dura decenni. Tradotto in euro esso corrisponderebbe ad una cifra a sei zeri, e invece i genitori che fanno? Non solo sperperano gratis tutte queste energie, ma addirittura pagano, mantenendo i bamboccioni, vestendoli, nutrendoli e spesso foraggiandone anche i vizi. A meno che non lo si faccia al fine di avviare in tempi brevi i propri figli alla prostituzione o alla pedofilia passiva, attività redditizie che remunerano l’investimento, la formazione dei giovani non si giustifica con niente. Si obietterà che il giovane, lasciato a se stesso, svilupperà grande infelicità, quindi rabbia e ciò ne farà un tossicodipendente o un paziente, presumibilmente psichiatrico ma non solo, un delinquente o un relitto umano. Ma è proprio questo il vantaggio: tossicodipendenti e delinquenti infatti causano grande circolazione di denaro, malati e relitti umani in genere, sono i presupposti di enormi strutture che raramente giovano a loro (che per lo più vi peggiorano), ma procurano immani profitti a case farmaceutiche e strutture ospedaliere o assistenziali: per ogni malato che arriva, vi sono dieci sani che fanno soldi. E siccome, per definizione, il denaro è benessere, la società diventa sempre più felice e il popolo sempre più allegro. O no? Vincenzo Policreti


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La fonte e la chiesa de Santermene, di S. Ermete o di San Termine? Alcuni ricercatori hanno appurato che tutta la zona a destra e a sinistra della forca d'Arrone, venendo da Arrone, era abitata fin dalla preistoria. Poco dopo la trattoria di Peppe Scappa, lungo la strada provinciale, chiamata dai vecchi del posto la strada romana, c'è a sinistra una fontana e ancora poco più avanti, sulla destra, i ruderi di una chiesa ricoperta di edera. Sia la fontana che la chiesa vengono chiamate in dialetto la fonte e la chiesa de Santermene. Quando poi qualcuno decide di parlare fino vengono dette la fonte e la chiesa di S. Ermete o di S. Termine. Come mai due nomi diversi ma foneticamente simili? Questa domanda mi è ronzata nelle orecchie per oltre cinquant'anni. Adesso forse c'è la risposta! Provo a raccontarvi con parole mie il prezioso lavoro di ricerca archivistica fatto da persone molto capaci e colte. La Forca, dal latino FURCA, biforcazione o passo di monte, ha sempre delimitato i confini tra le zone di Piediluco e di Arrone, anche in epoca romana. Giuseppe Marini, il famoso ultimo Peppe Scappa che ha dato il nome alla trattoria, ricordava il rudere di una garitta delle guardie da dove veniva esercitato l'ufficio della gabella. Infatti nel catasto redatto nel 1729 la zona viene indicata con il toponimo di Forca daziaria e la strada che passa in mezzo alla valle e sbocca sul canale che porta l'acqua del Nera al lago di Piediluco, ora asfaltata, viene indicata come Via della Dugana vecchia. Come fino a qualche tempo fa si usava (e forse si usa ancora perché le superstizioni sono dure a morire) appendere dietro la porta di casa un ferro di cavallo come portafortuna, così nel mondo greco-romano si esponevano le erme , immagini scolpite del dio Hermès-Mercurio con il fallo in erezione in posizione evidente, sopra colonne squadrate presso l'entrata della casa, i crocicchi ed i confini. Queste colonne costituivano quello che ancora oggi si chiama il termine, la pietra che infissa nella terra delimita due proprietà. Allora i nostri antenati romani, visto che erano sulle spese, edificarono pure un tempietto alla divinità per ingraziarsela. Dopo qualche secolo, con l'avvento del cristianesimo, gli abitanti della forca, utilizzando i materiali del tempio, costruirono una chiesa e la dedicarono a S.Ermete. Secondo qualche maligno, sostituire Hermès con Ermete fu un colpo da maestro. Per gli abitanti del posto che si tramandavano oralmente gli avvenimenti, essendo in quell'epoca probabilmente non dediti alla scrittura, avere una continuità fonetica col culto abituale non era di poco conto. Nel passare da una generazione all'altra i nomi trasmessi oralmente, piano piano, visto che il Cippo che costituiva il Termine c'era davvero, e che forse il culto del Santo andava scemando fino a scomparire del tutto, entrò in uso dire la chiesa e la fonte di S. Termine o di Santermene e via confusionando. Sarà andata così sul serio? Oppure S. Ermete era un santo per il quale gli abitanti della zona avevano tanta devozione da dedicargli una chiesa, a prescindere da Hermès-Mercurio? Non lo sappiamo. Sappiamo però che era molto facile alterare i nomi, facendo cambiare loro anche significato, non solo a causa della trasmissione orale, ma anche per il passaggio dal latino al volgare e infine all'italiano. Ecco due esempi che ci stanno bene come il cacio sui maccheroni. Primo esempio: sul versante della valle opposto ai ruderi della chiesa di S. Ermete, nei pressi di casa Eusebio ( l'ultima casa a destra della Forca) c'è una fonte con relativo fosso, che viene chiamata Fonte li cani. Dagli archivi notarili di Piediluco il ruscello in questione veniva chiamato in latino Fonte Lucanus, perchè nasceva dal monte Luco. Smarritosi nel tempo il significato del termine lucanus, lo si è inteso come lu-canus, ovvero lu cane. Nella trasmissione orale poi da un solo cane ne sono venuti fuori erroneamente più di uno. A questo si può aggiungere, con un pò di fantasia, che quando il villico locale andava dal notaio a Piediluco a registrare i passaggi di proprietà, il notaio poteva anche capire male o sbagliare a scrivere. Niente niente gli errori di scrittura e quelli di trasmissione orale sono una delle tante ragioni che fanno sì che una lingua sia considerata una cosa viva in continuo mutamento? Secondo esempio: fino a qualche decennio fa, diciamo fino agli anni '50, i bambini ternani, in dialetto stretto, venivano chiamati dai vecchi nonni bbuelli e le ragazze bbuelle, con tutti i diminutivi, vezzeggiativi e dispregiativi del caso. Siccome si era persa nella popolazione non acculturata l'origine latina e il significato di tale sostantivo, alcuni pensavano di dare a tale nome il significato di insaziabile, sempre affamato. Invece in latino si chiamavano proprio così: puellus il fanciulletto, puella la fanciulla. Torniamo ora alla chiesa di S. Ermete. Se la zona era abitata fin dalla preistoria allora dovevano esserci delle tombe. Infatti, secondo voci, alcuni ritrovamenti casuali di sepolture furono trovate in un terreno prossimo alla chiesa, detto Campalesiu (Campi Elisi?) e in altri terreni limitrofi. Se c'erano sepolture allora dovevano esserci anche le monete, che da tempo immemorabile venivano messe insieme al defunto per consentirgli di pagare il pedaggio per il passaggio all'aldilà. Inoltre se un brigante doveva nascondere un tesoro, quale posto migliore di una chiesa di campagna o di una tomba poteva trovare? Ecco allora che spunta fuori chi, armato di cultura classica, di abnegazione, di vocabolari e di intuito, ricerca le origini e le modifiche che subiscono le parole nel corso dei secoli, mentre c'è chi, armato più prosaicamente di zappa e pala, scava fuori e dentro le chiese e in ogni luogo dove pensa di poter trovare la famosa pigna co' li sòrdi. Si racconta che intorno alle mura della chiesa di S. Ermete, nel secolo scorso, fu trovato un bronzetto raffigurante la lupa Capitolina ritenuta d'oro per il suo luccichìo. Dopo la vendita però, visto lo scarno realizzo di moneta, si sparse la voce che d'oro non era ma di bronzo. Poco prima dell'inizio del 1900, una sera d'estate tra lusco e brusco, un bambino passava nei pressi della chiesa di S. Ermete che era ancora in discrete condizioni, anche se semi abbandonata. Vide aggirarsi intorno ai muri perimetrali un vecchio con una lunga barba bianca che era abbastanza ben vestito e non era del luogo. Il bambino curioso, visto che conosceva tutti gli abitanti della zona e non solo, chiese all'uomo chi fosse. Lo sconosciuto rispose però in malo modo, minacciando l'importuno con un attrezzo di ferro che brandiva come una clava. Il ragazzo impaurito scappò a gambe levate, ma il mattino successivo fu costretto a ripercorrere la stessa strada per portare la colazione al padre che lavorava in un campo vicino. Dietro l'abside della chiesa, dove aveva visto quel figuro, c'era una buca scavata di fresco e sul bordo di essa c'era una moneta d'oro luccicante, un unico marengo perduto dei tanti che il vecchio aveva asportato in solitudine e al buio. Eccitato dal ritrovamento, il fanciullo corse a portare la moneta al genitore. Da quel momento della moneta d'oro non se ne ebbe più traccia. Quel bambino si chiamava Vittorio ed era mio nonno. Vittorio Grechi

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ITALIA 150: Senato italiano e Senato americano ancora non si parlano

Crediamo importante la cooperazione parlamentare con le massime entità politiche d’Oltreoceano? Wikileaks o meno, la sensibilità al riguardo sta crescendo. La Camera dei deputati ha già stretto anni fa un protocollo d’intesa con l’omologa assemblea degli Stati Uniti - House of Representatives. Tali accordi consentono la promozione di perma-

nenti relazioni di scambio con evidenti ricadute in termini di immagine e ulteriori benefici nelle relazioni interistituzionali e, in fin dei conti, tra i popoli. Tagliato fuori finora il Senato della Repubblica italiana, carente di intese di alcun tipo (Protocolli, Memorandum, Dichiarazioni di intenti o Gemellaggi) con gli USA. Il nostro Senato ha infatti stretto sin qui accordi

bilaterali con le Camere alte di sette Stati sugli 80 che prevedono tale organismo. Le nazioni gemellate sono le seguenti: Bulgaria, Canada, Polonia, Romania, Russia, Spagna, Ucraina. Il Senato degli Stati Uniti -U.S. Senate- rappresenta la Camera Alta del Congresso, formato appunto da Camera dei Rappresentanti -House- e Senato. Ogni Stato americano, a prescindere dalla popolazione, elegge con sistema maggioritario due senatori. Il Distretto di Washington D.C. non vi ha rappresentanza. Una rilevante differenza in termini di prestigio della carica ricoperta emana dalla durata del mandato dei senatori, pari a sei anni contro i due anni dei deputati

dell’House. Il vicepresidente dell’Unione -oggi Joe Bidenè ex officio presidente del Senato, ma svolge un ruolo per lo più cerimoniale, votando soltanto in caso di parità. E’ spesso sostituito dal presidente pro tempore, solitamente il senatore più anziano della maggioranza. Il Senato americano, istituzione cui la politica italiana dovrebbe rivolgere maggiore attenzione anche per capire cosa accadrà domani nel mondo, ha funzioni esclusive in materia di trattati internazionali, nonché in tema di nomina e conferma di giudici federali, ambasciatori e personale militare. Può procedere a emendamenti, tuttavia non può

proporre leggi di Bilancio, competenza delegata alla Camera dei Rappresentanti. Non sarebbe male se per i 150 anni dell’unità del nostro Paese, al di là delle parole, riuscissimo a guardare un po’ più lontano, a quegli States che, con il presidente abolizionista Abraham Lincoln, riconobbero l’allora Regno d’Italia il 13 aprile 1861, proprio mentre gli USA si dilaniavano nella loro sanguinosa guerra civile. Ebbene, già all’epoca erano attivi sia il Senato italiano -si riuniva a Torino- che quello americano: potrà apparire assurdo, ma oggi, a 150 anni di distanza, mancando un’intesa interistituzionale, ancora non si parlano. Andrea Liberati

che volano tra l’emisfero australe e quello boreale, a circa 1.000 km dalle coste brasiliane e a nemmeno 1.500 dall’Africa. Sembrerebbe un sito quasi perfetto, ma in realtà gli intervistati mostrano interesse per una posizione mediana nei confronti dell’Europa -non del Continente Nero. In realtà l’unica equidistanza fisica possibile resta proprio quella tra Europa e Sud America attraverso il tramite dell’ar-

cipelago di Capo Verde, sito a circa 2.500 km dal Brasile e a quasi 3.000 dalla penisola iberica. A metà tra Nord America ed Europa non c’è infatti uno scalo all’orizzonte, un porto sicuro. Nulla di nulla. Peggio: il rischio è che, in questa affannosa ricerca dell’isola che non c’è, si finisca nelle acque stagnanti e piene di rifiuti del Mar dei Sargassi. Certi malinconici globetrotter ne tengano conto. AL

Ritrovata a Capo Verde l’isola che non c’è Una recente ricerca antropologica euro-americana ha messo in luce risultati sorprendenti. Lo studio analizzava desideri e aspirazioni di 1.000 persone adulte emigrate per un periodo superiore a sei mesi nel Nuovo Mondo o nel Vecchio Continente. L’esito è stato il seguente: il 78% degli intervistati ha manifestato volontà di continuare a vivere altrove, ma non più in Europa e nemmeno in Nord o Sud America. Dove dunque? Un’ulteriore 56% di costoro ha precisato che si trasferirebbe volentieri su un’isola dell’Oceano Atlantico, testimoniando equidistanza -o equivicinanza, se si preferisce- tra conti-

nenti, culture e ricordi. Questo anelito di equilibrio -che assume una consistenza mentale ancor prima che fisica- sembra però destinato a essere frustrato: per quanto sia perfetta, la Terra non presenterebbe uno spazio dove ospitare con una certa simmetria tali strambe tipologie di naufraghi. Esclusi luoghi inospitali quali arcipelaghi subartici o subantartici, superando le Colonne d’Ercole approderemmo presto nella Macaronesia o Isole dei Beati, terre ove trovavano eterno albergo i più virtuosi tra gli eroi, secondo la tradizione riferita agli antichi geografi. La Macaronesia ricomprende le Canarie, ma, più lata-

mente, si estenderebbe dalle Azzorre giù giù fino a Capo Verde. Tuttavia le Isole dei Beati sarebbero troppo vicine all’Europa e troppo lontane dall’America. In questa pretesa simmetria intercontinentale, veleggiando più a ovest -e con un buon motore a rinforzo- arriveremmo alle Bermuda, con ogni evidenza troppo vicine al continente americano. Che fare allora? Proviamo a scendere più a sud. Il microscopico arcipelago di San Pietro e Paolo, dodici isolotti di appena 10.000 m² dispersi nell’immensità oceanica, si trova appena sotto l’Equatore sulla rotta incrociata dagli aerei

Fondamentalmente Amore! Per iniziare una riflessione seria, e soprattutto “fuori schema” sull’argomento più in voga da quando esiste l’uomo, ci si ritrova sabato 19 marzo a partire dalle 15.30 presso Villa Spirito Santo (strada di Collerolletta 15 - Terni). L’incontro Fondamentalmente Amore! sarà tenuto da Padre Giovanni Marini, frate francescano di Assisi; alle 20.00 è prevista una cena a buffet. Padre Marini sa parlare alle persone perché parla della vita e non dei massimi sistemi. Nell’introduzione dei corsi che richiamano nella città di San Francesco migliaia di giovani da tutta Italia ogni anno, egli parte da una semplice considerazione: per tutto ciò che conta nella vita, le persone studiano, si impegnano, spendono molte energie. E per l’amore? Non ci si pone il problema, si agisce per istinto, e si va “dove ti porta il cuore”. Ma attorno all’amore, sostiene il frate, ruota tutta l’esistenza di un individuo, ed è proprio in questo campo che si gioca la felicità o l’infelicità delle persone. Tutti vogliamo amare ed essere amati, anche se viviamo sulla nostra pelle la contraddizione e il limite, e rischiamo di rimanere eterni adolescenti in balìa del sentimento. La proposta è cercare di capire come amare da Colui che l’amore l’ha inventato: Cristo. Chi meglio di lui, che ha amato fino a morire per i propri nemici, può indicarci come si ama? Beatrice Ratini

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La corsa non è più sulle strade, ma nei laboratori

S t i l o s i s s i m o

Nelle prove pratiche di suicidio, Riccardo Riccò ha affossato tutto il ciclismo. Da appassionato di questa disciplina, avevo creduto che la squalifica di due anni, affibbiatagli per doping al Tour del 2008, gli fosse stata sufficiente per meditare sul vizietto. Ma invano. Beccato a iniettarsi il suo stesso sangue, mal conservato in frigo dopo abbondante ossigenazione, il gesto richiama alla mente una mammona intenta a procurare un aborto clandestino. Immaginarlo lì, fra aghi e lacci, buste di sangue e aste per ipodermoclisi è stato, anche per me, come ricevere un calcio nel bassoventre, sferrato con tutta la forza dalla mia stessa ingenuità. Qualcuno potrebbe accusarmi di insistere con troppo olimpica credulità a sperare nel recupero di una pratica continuamente sputtanata da trasgressioni, ma la passione per questa disciplina e soprattutto la fiducia nello sport e negli uomini che lo praticano non riesco a spegnerle. Riccò deve scomparire da questo e da ogni altro sport dovesse venirgli in mente di praticare per guadagnarsi la vita. Eppure, nel prendere atto della gravità del gesto, occorre fare qualche distinguo e chiedersi se la colpa è tutta sua. Viviamo un contesto sociale, oltre che sportivo, in cui arrivare secondo o ultimo non fa molta differenza. Se non vinci, non sei nessuno. Gli sponsor, i fan, i giornali e le tv ti spalancano le braccia solo se arrivi primo o se sei in grado di lottare, sbagliando al massimo per il 50%, per il podio più alto. Sono pochissimi, fra gli sportivi, quanti sanno chi è arrivato secondo al Giro d’Italia del 2010, oppure al Tour de France, o alla Vuelta di Spagna. E’ materia da statistiche, utile ai commentatori TV per passare un po’ di tempo in attesa dei corridori. Non c’è sponsor disposto a cacciare un euro per una squadra che, in un modo o nell’altro, non sia in grado di garantire un minuto di pubblicità televisiva al marchio che la sostiene finanziariamente. Ad assicurare la visibilità della maglia concorrono direttori sportivi, massaggiatori, allenatori ma, soprattutto medici. Farmacologi professionisti, maghi della provetta, studiosi di chimica, ladri di sogni e di passioni in grado di far scomparire le prove di lenti omicidi e alimentare illusioni nei giovani atleti. Costoro sono, o meglio, dovrebbero essere i primi ad essere radiati e messi in condizioni di non fare più danni. A far loro compagnia dovrebbero andare i giornalisti, pronti ad esaltare sempre e solo il vincitore e passare sotto silenzio i gesti sportivi, specie quando ispirati da valori atletici ed etici. A ruota, dovrebbero seguire gli sponsor, con qualche attenuante per la natura mercenaria delle loro scelte. Un ruolo determinante nel processo degenerativo di questa disciplina è da addebitare alle norme che regolano lo svolgimento delle gare nel mondo e in Italia. Mi riferisco alla durata delle corse, all’esasperazione delle difficoltà per aumentare lo spettacolo e il richiamo degli spettatori. Il corridore che voglia superare la lunga serie di fatiche è obbligato a ricorrere a scorciatoie che con lo spirito decubertiano hanno a che fare come il diavolo con l’acqua santa. La condanna di un quadro oramai decomposto, quanto a correttezza e lealtà, è lecita da parte del pubblico che pretende di non essere ingannato da false prestazioni; condanna alla quale non devono aggregarsi, però, i colleghi ciclisti, troppo solleciti, come nel caso di Riccò a prendere fariseiche distanze dal compagno, schifati dalla colpa, come se loro fossero immuni da interventi o pericoli dello stesso tenore. E’ l’aspetto più insopportabile, falso e vergognoso, sia per la loro che per la dignità del collega, indicato come un appestato, fingendo di essere migliori. Un ciclismo così non serve a nessuno. Non serve ai giovani, che hanno bisogno di ben altri esempi; non serve allo sport, che vede offesi i suoi princìpi vitali; non serve neppure agli sponsor che rischiano di veder penalizzata la vendita dei propri prodotti; non serve al giornalismo, obbligato a dare immagini edificanti inesistenti, o a ignorare il problema. La corsa, quella vera non è più sulle strade, ma nei laboratori, dove si fronteggiano i chimici della morte, impegnati a scovare nuove sostanze non intercettabili e controllori rassegnati a giocare il ruolo di eterni perdenti. L’intera società, con la famiglia in testa, deve guardare a nuovi orizzonti, a modelli edificanti, utili a restituire alla vita individuale e collettiva significati perduti. Dovrà affiancarsi a questo progetto di recupero la Scuola, alla quale dovrà essere riconosciuta un’autorità sottrattale a vantaggio di un menefreghismo diffuso e scambiato per diritto di libertà. Giocondo Talamonti

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Il mese scorso abbiamo parlato della ergonomia degli spazi e riflettuto sulla cultura del paese in cui ci si trova. Se ora state continuando a rinnovare la vostra casa, bisogna scegliere lo stile, ovvero capire come vorremmo che fosse. Per capire come vorremmo la nostra casa faccio un elenco di vari tipi di arredamento. Classico: con mobili antichi, preferibilmente artigianali, o quanto meno riproduzioni moderne di pezzi antichi, tappeti persiani e carte da parati, ritratti di famiglia o nature morte olio su tela. Rustico: con mobili di legni non pregiati, arte povera e mattoncini a vista, pareti con colori caldi. Moderno: le superfici tecnologiche ed innovative rendono questo arredo abbastanza freddo, ma pulitissimo nelle linee, con colori chiari e fusione di elementi in pietra o legno. Queste macro-categorie hanno a loro volta delle sotto-categorie in cui si suddividono, in quanto ogni paese ha il proprio stile che lo caratterizza (es. classicoinglese, nordico-contemporaneo, etc...); bisogna solo capire quale di questi stili incontra i nostri gusti. Nel secolo appena trascorso si sono avvicendati, nel mondo, una moltitudine di stili, dall'Art Nouveau al Cubismo, tutti importantissimi, che hanno caratterizzato il periodo storico in cui hanno avuto la loro massima espressione e viceversa. Perdere questi stili sarebbe un peccato, ma anche mantenerli invariati sarebbe come tuffarsi ogni volta nel passato, così, grazie a designer ed arredatori, possiamo continuare a godere dei vecchi stili in chiave moderna. Ad esempio un moderno stile francese potrebbe essere caratterizzato da bellissime carte da parati dai colori tenui, da boiserie alle pareti, da poltrone stile Luigi XVI di legno bianco intagliato con velluti color avorio, da tappeti damascati, da pavimenti in legno di rovere decapato posati con fascia e bindello e da lampadari importanti. Un moderno stile nordico potrebbe essere caratterizzato da legni chiari come faggio, acero o rovere sbiancato, grandi tappeti a pelo lungo dai colori chiari, linee pulite, camini in pietra a faccia vista, pareti dipinte con colori caldi. Lo stile orientale moderno lo vedo con legni scuri come il wengè o teak o doussiè, sete pregiate dai colori forti che ricoprono i cuscini, tavolini bassi, futon per sedersi, paraventi, tende leggere. Siamo entrati nel XXI secolo dove la tecnologia fa da padrone, ma ciò non significa che dobbiamo abbandonare quello che più ci è piaciuto, basta solo adeguarlo ai tempi in cui viviamo. Claudia Mansueti info@claudiamansueti.it


Per qua l c h e t e l e s p e t t a t o re i n p i ù Il titolo di questo articolo ricorda uno di quei famosi Spaghetti western stile anni Settanta che fanno tanto Sergio Leone, ma qui non siamo al cinema né abbiamo la colonna sonora di Ennio Morricone; siamo invece proiettati bruscamente nella realtà della televisione di oggi. Non c’è dubbio: la televisione ci ha abituati a tutto, dal giallo di Avetrana dove si è consumata la tragedia della sfortunata adolescente Sara Scazzi e il calvario va avanti in una serie infinita di colpi di scena, rivelazioni, ritrattazioni, all’enigma di Brembate dove Yara Gambiraso, poco più che una bambina, di ritorno dalla palestra è sparita nel nulla, volatilizzata, senza lasciare traccia, per poi essere ritrovata cadavere tre mesi dopo e infine all’angosciante caso delle gemelle Alessia e Livia scomparse durante un viaggio con il padre Matthias Schepp attraverso Svizzera, Francia e Italia, terminato con il suicidio di quest’ultimo nella stazione di Cerignola, straziato da un treno. Non c’è trasmissione di qualsiasi fascia oraria, non c’è rete pubblica o privata, non c’è canale che non perda l’occasione per propinare ai telespettatori le novità, le sensazionali rivelazioni, i clamorosi sviluppi dei rispettivi casi. Conduttrici e conduttori di provata esperienza come la Panicucci, Barbara D’Urso, Daria Bignardi, Mara Venier, Bruno Vespa ecc..vanno quotidianamente in onda nelle rispettive trasmissioni, manipolando da autentici mattatori le vite degli altri, spettacolarizzando laceranti tragedie private, frugando con occhio impietoso nella privacy altrui. Si organizzano puntualmente collegamenti in diretta sullo scenario del crimine, incontri con esperti, psicologi, criminologi, investigatori, allo scopo indubbio di offrire allo spettatore l’informazione più completa in merito, ma con lo sguardo sempre puntato sugli indici d’ascolto, sull’audience… perché alla fine dei conti di questo si tratta! Sì, anche la televisione in questi ultimi decenni si è modellata sulle leggi di mercato che sono dure e, come si può constatare, spietate. In poche parole bisogna realizzare, trarre profitto, ottenere il risultato a qualsiasi costo, altrimenti si è fuori. Nel caso specifico il profitto è rappresentato dal numero degli ascolti, quindi cosa c’è di meglio di approfittare di un fatto di cronaca per fare, come si dice in gergo, audience? Naturalmente il dolore, le lacrime, i sentimenti delle persone coinvolte passano in seconda linea, fanno da sfondo, sono il backstage della trasmissione, anzi a volte, cosa ancora più cinica, rappresentano il collante necessario per catturare l’attenzione del telespettatore inchiodandolo alla trasmissione. Il tutto quindi, tolti gli aspetti tecnici della vicenda, rappresentati dagli interventi degli esperti di turno, dalla scenografia architettonica dello studio e dalla toletta a volte sexy della conduttrice, si trasforma in un tragico tritacarne nei cui ingranaggi finiscono volti, storie, lacrime, affetti di genitori, fratelli, amici, parenti che hanno vissuto la tragedia sulla loro pelle, non certo seduti comodamente sul divano del salotto di fronte al teleschermo su cui scorrono come un fiume inarrestabile immagini su immagini senza che si abbia tempo di memorizzarle, di immagazzinarle. Qualche giorno fa Lamberto Sposini, da gentleman che conosce bene il suo mestiere, perfettamente consapevole di tale problematica, ha dichiarato nella trasmissione La vita in diretta che la pubblicizzazione di tali eventi, mantenendo alta l’attenzione dei telespettatori, serve a fare in modo che essi non solo non vengano dimenticati, ma facilita anche una loro eventuale soluzione, se così possiamo chiamarla. Nessuno vuole in questa sede mettere in discussione il diritto sacrosanto all’informazione o tantomeno criminalizzare le trasmissioni televisive, ma viene spontaneo porsi una domanda: quale diritto ha una telecamera di scrutare in diretta le tragedie degli altri? Siamo diventati tutti guardoni? Ci solletica il dolore degli altri? E perché ci sono tante trasmissioni di approfondimento? Solo per le botte di ascolto? Il fatto è che la nostra è una televisione piena di violenza, violenza morale e va in onda a tutte le ore, con poco rispetto per chi sta a guardare. Frase che suona come una sentenza nel libro Quello che non si doveva dire dell’indimenticato giornalista Enzo Biagi. Viviamo nell’epoca del tempo reale dove le notizie si rincorrono velocemente, passa qualche giorno o addirittura qualche ora che poi vengono dimenticate, scavalcate da altre più fresche, più attuali che le mettono subito in ombra; allora che fare? Bisogna rincorrerle, lanciarsi all’inseguimento a scapito di quelle vecchie magari solo di qualche giorno o di qualche ora. Abbiamo dimenticato quante volte in questi ultimi tempi le luci si siano accese poi spente, poi di nuovo accese sul giallo di Avetrana o sul mistero di Brembate o sulla scomparsa delle gemelle? Francamente credo che non lo sappiamo semplicemente perché ne abbiamo perso il conto! Sono talmente tante le notizie, le immagini che il nostro cervello non ha la possibilità fisica di elaborare i dati che ci giungono dai media. Oggi i riflettori si accendono ad intermittenza sui casi predetti, ma forse, prima di concludere è bene ricordare altri casi che hanno fatto discutere, ma sui quali è calato inesorabile il velo dell’oblio. Ricordate il rapimento e l’uccisione del piccolo Tommaso Onofri? Sul dolore dei suoi genitori si sono inserite tante, troppe trasmissioni televisive, tutte a cercare lo scoop, raccogliere le dichiarazioni da M. Alessi e di A. Conserva che risultarono poi essere gli assassini, scoop a pagamento si intende! Quante dirette sono state fatte sulla strage di Erba dove vennero massacrate quattro persone tra le quali Yussef un bimbo di due anni e dove la gogna mediatica in un primo tempo si abbatté sul padre di quest’ultimo, un tunisino con precedenti penali per droga. Sembrava che tutto fosse chiaro, già tutta la rete mediatica ad indagare, a spiegare le ragioni del massacro, poi si scoprì che gli assassini erano una coppia di coniugi che ridevano cinicamente davanti alle telecamere, senza mostrare il minimo pentimento. La televisione in questi anni non ha portato solo esempi discutibili riguardanti i protagonisti di fatti di cronaca. Abbiamo assistito alle esternazioni in vari salotti tv della mamma di Cogne oppure alle trasmissioni sui due fidanzati diabolici Erika ed Omar che uccisero la mamma e il fratellino o ancora quanto si è parlato e straparlato sul delitto di Meredith Kertcher e l’elenco potrebbe continuare a lungo. A questo punto mi chiedo: è giusto che i processi si facciano negli studi di Rai o Mediaset o La 7, a Porta a Porta, a Matrix, all’Infedele? La risposta ovvia è no, ma non tutti la pensano allo stesso modo perché ogni volta che si toccano tali argomenti gli indici di ascolto impennano bruscamente verso l’alto. Prevale dunque la logica di mercato? Sembra di sì. Ancora: il telespettatore preso individualmente è contrario alla spettacolarizzazione del dolore, ma poi l’ascolto di certi programmi è elevato ed allora? La spiegazione è semplice: la gente guarda quello che la televisione offre, poi ci si abitua e alla fine gli piace! Un bel problema che non possiamo certo risolvere qui, ma, in conclusione, posso esprimere un mio personale convincimento al di là delle statistiche, dei rilevamenti degli indici di ascolto: Pierluigi Seri non sempre all’alto ascolto corrisponde l’alto gradimento.

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Chiusura Domenica Sera

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Festeggiamenti

Chi è di scena? L’aria è carica d’attesa, gli attori stanno scaldando le voci, immersi tra mille prove, gli scenografi stanno mettendo a punto gli ultimi dettagli e l’appuntamento annuale con lo spettacolo del Progetto Mandela si sta avvicinando. In prossimità dell’evento noi ragazzi del gruppo di Comunicazione non potevamo non pressare il nostro commediografo Andrea Virili, che quest’anno ha coordinato il gruppo di Drammaturgia, per farci rilasciare una piccola anticipazione sullo spettacolo. Prima di tutto ribadiamo ancora una volta il tema di quest’anno, che tratta, proprio in occasione del 150esimo dell’unità d’Italia, del senso della patria, come noi italiani vediamo gli stranieri e come gli stranieri vedono noi italiani. Un insieme di temi, l’Italia in tutte le sue contraddizioni, come una vera e propria insalata o macedonia, o anche minestrone, un buon minestrone venuto fuori dalle cucine del progetto Mandela!, ecco come Andrea ci descrive lo spettacolo di quest’anno. C’è stata e c’è un’atmosfera bellissima, in crescendo, di generale fiducia; il famoso spirito del progetto anche quest’anno non tarda a farsi sentire, afferma il nostro drammaturgo, il copione è stato accolto inizialmente con un po’ di terrore dai nostri attori e dal regista, Simone Mazzilli, che fin dal principio ha sostenuto l’idea di base dello spettacolo; adesso, però stanno lavorando con grande entusiasmo e pieni di voglia di fare. In scena va “un’ Italietta” un po’ caotica simile alla tipica famiglia delle sit-com americane degli anni ‘70 con un personaggio principale nel ruolo del capo-famiglia che fungerà da filo conduttore per attraversare la nostra storia nel corso dei secoli. Un copione simile ad una secchiata d’acqua fredda che non potrà non colpirvi in pieno e darvi, per così dire, una svegliata, con il suo tono tagliente ed ironico, capace di suscitare quel tipo di risata che alla fine ti lascia un po’ di amaro in bocca grazie a situazioni tanto assurde quanto, ahimè, reali, muovendo inevitabilmente anche una critica alla situazione attuale. La stessa linea è stata ripresa anche dal gruppo di scenografia, sempre in collaborazione col regista e il drammaturgo, per riflettere la situazione caotica generale. Bene, sperando di avervi incuriosito abbastanza ci raccomandiamo di non mancare, vi assicuriamo che sarà molto più divertente che passare una serata spalmati sul divano davanti Camilla Calcatelli alla televisione!

1861-2011. Dal 1861 siamo un paese unito. Tutta l’Italia dovrebbe festeggiare il 17 Marzo. Sì, dovrebbe, ma come? Ininterrotte polemiche sono sorte di fronte alla proposta di rendere questa data un giorno festivo, riconoscendola festa nazionale. Per molti, moltissimi, un semplice giorno di vacanza. Per pochi altri, un’occasione di ricordare la nostra storia. Sudata, combattuta, ottenuta. Come sempre, registratore alla mano, siamo andati in città alla ricerca delle più disparate opinioni, ottenendo pressoché la stessa risposta - “Sì, è giusto che sia riconosciuto giorno festivo” - affiancata da differenti motivazioni - “E’ un segno di rispetto”, “La storia siamo noi, in questo modo ci facciamo onore!”, “Come tutti, lavoro, e una giornata di riposo non mi dispiacerebbe”. Insomma, gli italiani si sentono Italiani. E i più giovani? Difficilmente il messaggio patriottico riesce a passare anche a loro, che si sono infatti mostrati poco interessati. L’Italia sta lì. E chi ce la tocca? L’Italia è sempre stata lì, ci rimarrà. Sensibilizzare i ragazzi è forse uno degli scopi più importanti da prefissarsi di raggiungere e, proprio qualche settimana fa, lo abbiamo capito grazie alla figura di Roberto Benigni a Sanremo. Intervistando i passanti, abbiamo scoperto che non tutti avevano seguito il comico in quest’occasione e che quindi si astenevano dal dare un giudizio; molti, invece, lo hanno ascoltato interessati e, a noi, hanno riferito l’ammirazione e il piacere nell’ascoltare le sue parole. “Dovrebbe davvero insegnare storia ai nostri figli, perché nessuno spiegherebbe l’inno d’Italia come ha fatto lui” e gli aggettivi che ricorrono più spesso sono “fantastico, indescrivibile, eccezionale”. Sperando che il 17 Marzo, riconosciuto in conclusione festa nazionale, possa essere occasione di riflessione e spirito comune oltre che di riposo, vi ricordiamo che lo spettacolo del Progetto Mandela, quest’anno, verterà proprio sull’argomento, intitolandosi “150 anni de che?”. Chiara Stefanelli

Si avvicina lo spettacolo

Anche quest’anno i laboratori del Progetto Mandela hanno lavorato e collaborato per la messa in scena dello spettacolo conclusivo. Si tratta di “150 anni de che?”. Il numero nel titolo dovrebbe suggerire un anniversario importante, quello dell’Unità d’Italia, e infatti è proprio così: centocinquanta anni fa la parola patria ha assunto una sfumatura diversa, ed è questo uno dei temi che hanno ispirato il lavoro dei ragazzi nei diversi laboratori di Recitazione, Drammaturgia, Scenografia, Costumi e Comunicazione. Al concetto di patria e a quello che ormai ne resta, si sono aggiunti la definizione di italiano e il tema della cittadinanza, trattati in tutte le diverse sfaccettature dai diversi laboratori. Il gruppo di Drammaturgia ha ricercato spunti e suggestioni nei lavori di Pasolini e Fellini, condividendoli con il laboratorio di Scenografia e di Costumi per quanto riguarda la parte visiva dello spettacolo. Gli attori hanno invece lavorato sulle modalità più adeguate per la rappresentazione, concentrandosi sul linguaggio del corpo e sulla dizione. Ai ragazzi di Comunicazione è spettato il compito di documentare tutto ciò che è accaduto fuori e dentro il Progetto con articoli, interviste e trasmissioni radio. Lo spettacolo verrà rappresentato al Teatro Secci il 22, 23 e 24 marzo; le prime due date comprendono una replica in mattinata, riservata a scuole medie e superiori, e una serale aperta a tutto il pubblico della città. Il 24 marzo sono in programma due repliche, entrambe riservate agli studenti di medie e superiori. Giulia Aguzzi

A p p u n t a m en t i d el m ese “150 anni de che?” spettacolo finale dei laboratori del Progetto Mandela 2011 - Teatro Secci

22-23-24 Marzo

Corso introduttivo sui Diritti Umani Palazzo di Primavera, ore 15.15 Prossimi incontri: 15 marzo, I genocidi - parte IV; 22 marzo, I genocidi - parte V; 29 marzo, La tortura ieri e oggi; 5 aprile, La schiavitù ieri e oggi; 12 aprile, La pena di morte ieri e oggi.

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Diritti Umani

- Il processo di Norimberga (1945-1946)

Nell'affermazione di una sempre maggiore consapevolezza dei diritti umani nel '900 un momento importante riveste il processo ai criminali nazisti, che le potenze vincitrici mettono in piedi immediatamente dopo la fine della guerra. Alla base di questa decisione c'è il convincimento giusnaturalistico, rilanciato nella cultura occidentale dalla Carta dell'ONU, che esistono dei diritti naturali che, se si violano, si commettono crimini contro l'umanità. Fu questo il fondamento giuridico del processo visto che era difficile trovarlo nel diritto positivo dei vari Stati o anche nel diritto internazionale, che non prevedeva questi reati. Il problema cominciò ad essere sollevato già dopo la prima guerra mondiale, quando nell'art.110 del Patto della SdN si vietava la guerra di aggressione e nell'art. 14 si prevedeva la creazione di una Corte permanente di giustizia; quando però si trattò di decidere se questa dovesse avere funzioni punitive, se cioè potesse infliggere pene, l'Assemblea generale della SdN respinse questa idea. Fin dall'inizio della prima guerra mondiale in Francia, in URSS e in Inghilterra erano state create delle commissioni per constatare la violazione dei diritti umani da parte della Germania. E quando si verificò l'affondamento del piroscafo inglese Lusitania da parte di un sommergibile tedesco, che causò 1198 morti, di cui 128 americani e che spinse gli USA ad entrare in guerra, il tribunale competente emise questo verdetto: Noi accusiamo in solido di assassinio gli ufficiali del sottomarino tedesco, l'imperatore e il Governo della Germania che hanno impartito gli ordini. La condanna era solo morale, ma si cominciò a parlare della necessità di sanzioni penali. Malgrado la Convenzione di armistizio del Novembre 1918 avesse stabilito che nessuno sarà perseguito per il fatto di aver partecipato a delle azioni di guerra precedenti la firma dell'armistizio, la conferenza preliminare di pace tenuta a Parigi designò una commissione di 15 membri che nel suo rapporto sollevò questioni che sarebbero state riprese a Norimberga. Bisognava individuare i principali responsabili della guerra e i francesi fecero subito il nome dell'imperatore Guglielmo II. Si ipotizzò anche un tribunale composto di tre giudici per ciascuna delle potenze vincitrici più altri cinque di varie nazionalità. Il Trattato di Versailles affrontò il problema e nell'art. 227 stabiliva: Le potenze alleate e associate accusano pubblicamente Guglielmo II di Hohenzollern, ex imperatore di Germania, di supremo oltraggio alla morale internazionale e alla sacra autorità dei trattati; la sua colpa infatti era quella di aver violato la neutralità del Belgio e del Lussemburgo, che la Germania si era impegnata a rispettare, e, nel tentativo di definirne le responsabilità penali concludeva: Sarà costituito un tribunale per giudicare l'accusato... composto da cinque giudici... le potenze alleate faranno richiesta ai Paesi Bassi affinché consegnino l'ex imperatore perché sia sottoposto a giudizio. Ma l'Olanda rifiutò la domanda di estradizione, anche la Germania rifiutò di consegnare i suoi generali malgrado l'art. 228 del Trattato di Versailles intimasse al governo tedesco di consegnare i responsabili dei crimini di guerra. Fu un tribunale tedesco a giudicare questi crimini, ma il processo, tenuto a Lipsia, finì quasi in farsa. Ancor prima che terminasse la seconda guerra mondiale, nel Gennaio 1942 i rappresentanti dei governi legittimi rifugiati a Londra sottoscrissero la Dichiarazione di Saint James che poneva tra i principali obiettivi della guerra la punizione con mezzi legali dei responsabili dei crimini, sia che li avessero ordinati sia che li avessero commessi. Il generale De Gaulle, capo del governo francese in esilio, dichiarò che avrebbe vigilato “a che tutti i colpevoli e i responsabili dei crimini, a qualunque livello, non sfuggano, come avvenne per quelli dell'altra guerra, alla giusta punizione”. Nel l'Ottobre 1943, nella Dichiarazione di Mosca, Roosevelt, Churchill e Stalin stabilivano che, date le continue prove dei massacri e dei crimini perpetrati dai nazisti nei paesi occupati, i criminali tedeschi dovessero essere giudicati dai paesi nei quali avevano commesso quei crimini. Ma le potenze non avevano tutte la stessa posizione e dopo molte esitazioni erano rimaste due ipotesi, una che prevedeva la eliminazione senza processo dei criminali ed era una sentenza politica, l'altra quella di istituire un processo vero e proprio attraverso un tribunale internazionale ed era un provvedimento legale. Nell'accordo di Londra dell'Agosto 1945 si decise la creazione di un tribunale militare internazionale. Dal punto di vista della tutela dei diritti era questa una scelta di grande importanza perché si creava un'autorità giuridica internazionale con valore penale cioè capace di erogare punizioni eseguibili. Ci furono molti giuristi che ebbero da eccepire a che i vincitori giudicassero i vinti, ed espressero dubbi sulla legittimità del processo. A questi il giudice americano Jackson aveva risposto: Il privilegio di inaugurare per la prima volta nella storia un processo per crimini contro l'umanità impone gravi responsabilità. I crimini che ci apprestiamo a condannare e punire sono stati così premeditati, hanno avuto conseguenze così nefaste e rovinose che la civiltà non può ignorarli, perché non potrebbe sopravvivere se tutto ciò si ripetesse. Che quattro grandi potenze esaltate dalla vittoria e profondamente ferite frenino ogni proposito di vendetta e scelgano di sottoporre i loro nemici, ora prigionieri, al giudizio della legge, è uno dei più grandi tributi che la Forza abbia mai pagato alla Ragione. Il processo si svolse dal Novembre 1945 all'ottobre 1946 e ruotò attorno ai tre capi d'imputazione previsti dall'art. 6 dello Statuto del Tribunale: 1) crimini contro la pace e guerra di aggressione; 2) crimini di guerra; 3) crimini contro l'umanità. I primi sono così definiti: crimini contro la pace: con ciò si intende la direzione, la preparazione, lo scatenamento o la prosecuzione di una guerra di aggressione o di una guerra in violazione dei trattati, impegni o accordi internazionali o la partecipazione a un complotto o piano concertato per compiere qualcuna delle suddette azioni. I secondi comprendono: l'assassinio, i maltrattamenti, la deportazione a fini di lavoro forzato o per altri scopi di popolazioni civili nei territori occupati, l'assassinio e i maltrattamenti dei prigionieri di guerra e di naufraghi, l'esecuzione di ostaggi, il saccheggio di beni pubblici e privati, la distruzione senza motivo di città e villaggi e le devastazioni non motivate da esigenze militari. I crimini contro l'umanità sono: l'assassinio, lo sterminio, la riduzione in schiavitù, la deportazione e ogni altro atto disumano commesso contro le popolazioni civili durante la guerra o prima, nonché le persecuzioni per motivi politici, razziali o religiosi... Le cose messe così sembrerebbero chiare, in realtà da parte della difesa degli imputati si sosteneva che allora anche le incursioni aeree degli americani e degli inglesi per es. su Tokyo e Dresda, per non parlare di Hiroshima e Nagasaky, dovevano essere considerati crimini di guerra, perché effettuati contro popolazioni civili inermi. E che dire allora dell'URSS che in combutta con i nazisti aveva invaso la Polonia? E si pose anche un altro problema: le condanne possono essere retroattive, se non c'era precedentemente un trattato internazionale che condannava le guerre di aggressione? Questi problemi furono messi a tacere di fronte allo sdegno morale che i crimini nazisti avevano suscitato nel mondo. Come afferma uno dei più noti studiosi del processo di Norimberga, Telford Taylor: Non c'è dubbio che per il futuro i Quattro Grandi a Londra e a Norimberga per la prima volta sanzionarono autorevolmente il carattere criminale dello scatenamento di una guerra di aggressione come principio accettato di diritto internazionale, corroborato dall'adesione di altri diciannove paesi. Il principio fu ulteriormente ribadito l'11 Dicembre 1946 dall'Assemblea generale delle Nazioni Unite, che riconfermò i principi di diritto internazionale riconosciuti dalla Carta, dal Tribunale di Norimberga e dal verdetto pronunciato dal Tribunale. Marcello Ricci

“ NE O P O P 1 5 0 A N N I I TA L I A” VA L E N T I N A PA L A Z Z A R I alla

GALLERIA GIULIA 21 17 marzo 17 aprile orari 10.00 - 19.00 Mostra neopop per l’unità d’Italia. Sculture, pannelli, istallazioni. Oggetti di uso quotidiano innovati e trasformati per celebrare l’inizio della nostra storia nazionale, nel clima di giovanile fermento di 150 anni fa.

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La p a ssi o ne p e r i l r e a l …Finalmente Verga apre la via al romanzo moderno, con quella sua insaziabile illusione di realtà, “senza rettorica e senza ipocrisie”, con quella storta e struggente bellezza dei suoi personaggi, con la loro distruttiva follia (già novecentesca), in una Sicilia che si offre in tutta la sua disarmante malia, con i suoi vinti, le sue voci, i suoi colori, le sue tenebre profonde. Ma l’Italia di fine ‘800, tutta percorsa dal fremito positivo del progresso, non ha condiviso il pessimismo materialistico dello scrittore che, mostrando i limiti di quelle “magnifiche sorti e progressive” - come già Leopardi con il suo impetuoso sarcasmo - è andato consapevolmente incontro a un “fiasco pieno e completo”. Tuttavia egli è riuscito, in anticipo sui tempi, a cambiare il romanzo, ridefinendo il patto narrativo e lo statuto etico del lettore, che, oggi, sente quello che Verga riesce, ancora, a dirgli. In questo numero de La Pagina, Sara Maria Fantini (III IT) affronta in un saggio breve la specificità del romanzo verista, definendone i caratteri, attraverso la sua lettura di Verga personale ed appassionata. Maria Micheli (III IF), invece, si concentra sul motivo della “casa violata” tra I Malavoglia e Promessi Sposi, cogliendo l’accentuarsi Prof.ssa Giovanna Scuderi del pessimismo in Verga, rispetto alla consolatoria visione manzoniana.

Il nido ovunque La violazione della casa. Sia per i promessi sposi manzoniani che per la famiglia Malavoglia si configura come la profanazione di ciò che hanno di più sacro, ovvero l’affetto familiare. La casa è considerata, in qualche modo, il tempio dell’amore coniugale e il sacrario di ricordi piacevoli o dolorosi, ma comunque vissuti accanto a persone amate. L’abbandono della casa e la violazione da parte di estranei, che siano i lanzichenecchi o lo zio Crocifisso con i muratori, sembra un’offesa ai tanti progetti fatti da Renzo e Lucia, alle faticose giornate di lavoro in mezzo al mare dei Malavoglia. Sembra impossibile ricostruire una nuova vita lontana dal nido. Bisogna intendere la casa, però, non nel senso strettamente materiale di edificio, ma nel senso di famiglia: è la famiglia non ancora ufficiale di Renzo e Lucia, così come quella dei Malavoglia, ad essere divisa e profanata. La forza di questi personaggi sta nella loro capacità (stoica?) di custodire “il sacrario degli affetti familiari” ( F. Gavino Olivieri) dentro di loro; tutto sommato, essi non hanno bisogno del luogo in cui sono nati e cresciuti per proteggere i valori della famiglia. Non importa quali e quante sventure i Malavoglia e i due promessi debbano sopportare finché mantengono vivi e al sicuro nella loro intimità i valori che pensano di aver perso per sempre. È finito, in Manzoni e in Verga, il mito del luogo di provenienza come Eden incorrotto di pace e tranquillità. È evidente nell’addio ai monti di Lucia, che, nell’accorato saluto ai luoghi che le sono più cari e che sta lasciando per andare incontro all’ignoto, scorge il palazzotto di Don Rodrigo che sovrasta minaccioso l’idilliaco paesino. Ed è evidente nell’atmosfera che si respira ad Aci Trezza, il luogo perfetto per nascere, crescere e faticare per tutta la vita, dove convivono l’avido zio Crocifisso e l’onesto Padron ‘Ntoni. Non c’è mai stato per loro un momento di perfezione assoluta, i tanto agognati “bei vecchi tempi” non sono mai esistiti. Per i vinti e per i promessi, la felicità sta nelle più piccole cose, ad esempio nel sognare una treccia nera che è sì lontana, ma vicina nel cuore, o nell’attesa della fiamma del focolare dopo una dura giornata di pesca: il focolare che i Malavoglia sperano di trovare non si trova però nella casa del nespolo, ma nella casuccia affittata dal beccaio, che acquista tanta importanza perché è lì che Maruzza, Mena e Lia li aspettano ogni sera. Troviamo, così, dei personaggi più che mai moderni e inconsapevolmente cosmopoliti. Renzo e Lucia non vedono affatto intaccato il loro amore in tante dolorose e faticose peripezie, e, di sicuro, non è il pensiero del nido che ha costruito per Lucia a far disperare Renzo nel lazzaretto. Alla fine, essi ritrovano la tranquillità lontani dalla casa natia e il romanzo non si conclude con il rimpianto affranto per ciò che poteva essere e che non è stato. E, in un certo senso, così accade anche per i Malavoglia: il trasloco è un’azione vergognosa, nell’ottica stravolta della ricerca dell’utile dei paesani, ed è, quindi, una vergogna anche per i Malavoglia, che non possono evitare di essere condizionati da ciò che pensa il villaggio. Ma già al momento della fuga notturna, quando la casa è ormai vuota di tutte le loro cose, i Malavoglia si accorgono che “la casa senza di esse non sembrava più quella”. Anche se l’abbandono è straziante e la partenza sembra un espatrio, i Malavoglia dovrebbero, in qualche modo, forti della loro unità familiare, riuscire a trovare la serenità lontani dai compaesani, dietro le porte serrate della casa affittata. Ma gli affetti, i valori a cui sono legati da generazioni che si perdono in un passato eterno e quasi mitico, non riescono a mantenere un equilibrio che trema sotto forze interne che cercano, insofferenti, di sfuggire all’unità. La vera violazione è quella di ‘Ntoni, che sceglie di andarsene per la sua strada, lontano da coloro che lo amano: egli non abbandona la casa riacquistata, ma la famiglia ricostituita. L’equilibrio si perde, perciò, non lontano dalla casa natia, ma - addirittura nella casa del Nespolo faticosamente riacquistata da Alessi - quando vengono a mancare, una per una, le dita della mano che stringono insieme il remo. Una casa vale l’altra, quindi? In parte no, perché alla casa sono legati ricordi, momenti e persone che non ci sono più. Tuttavia i promessi e i vinti dimostrano, i primi in positivo e i secondi in negativo, che sono gli affetti quelli che contano - gli affetti che restano e che non cambiano né a Torino né ad Alessandria d’Egitto… che più o Maria Micheli - III IF meno è la stessa cosa.

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le: V e rga e i l ve r i smo La Provincia di Terni per la cultura

Aci Trezza, 1863: Verga e il romanzo-manifesto del Verismo Un tempo i Malavoglia erano stati numerosi come i sassi della strada vecchia di Trezza; ce n’erano persino ad Ognina, e ad Aci Castello, tutti buona e brava gente di mare... Niente di preoccupante, finora; adesso lo scrittore esporrà l’antefatto, descriverà Trezza, forse anche Ognina ed Aci Castello, affinché sia tutto chiaro e la storia possa cominciare serenamente. Ovviamente, Verga non fa nulla di tutto ciò. Di fatto, la storia non inizierà mai; è iniziata molto prima che il lettore decidesse di avventurarsi per i viottoli di Aci Trezza; è iniziata, addirittura, prima che lo scrittore rendesse la sua penna portavoce della vicenda. E’ un atto di fiducia, è un atto di coraggio: fiducia nei confronti dei propri lettori e dei propri personaggi, smisurato coraggio perché lasciar andare è più difficile che intrappolare, perché donare ai propri personaggi la libertà di essere se stessi richiede una capacità di introspezione sovrumana. Questa è la rischiosa scelta di Verga: i contemporanei non la comprenderanno, il Vero stride con l’illusione, disintegra il sogno del Positivismo. L’uomo ha bisogno di ottimismo; ecco perché, in generale, ad un’epoca di incertezze profonde, di irrazionalità, sembra dover succedere necessariamente un’età dei Lumi: è istinto di autoconservazione della mente. Verga, invece, rifiuta il Positivismo nella sua accezione più tipica: sostiene infatti che le scienze esatte, applicate all’arte, alla scrittura, alla psiche umana, possano avere un valore conoscitivo, ma non progressivo, nel senso leopardiano del termine; esse, cioè, non possono cambiare il destino della Storia umana, fatta di vincitori e vinti, in ogni epoca e in ogni luogo. E, per questo, non ci si può accontentare del Naturalismo francese, dello scienziato Zola: lo scrittore d’oltralpe passeggia nei sobborghi e nelle miniere, sbircia dall’uscio socchiuso e cigolante di una casupola di contadini, annota sul taccuino, da uomo di scienza, la vita di personaggi palesemente estranei al suo modo di vivere e di pensare. Zola fa scalpore tra gli intellettuali; Zola è un vincitore: per quanto innovativa sia la sua scelta di rappresentare un mondo basso, un mondo di vinti, la sua condizione di vincitore lo allontana, immancabilmente, dai personaggi che descrive. Invece, il Verismo -che coincide quasi esclusivamente con i testi di Verga dal ‘78 in poi, con parte dell’opera di Capuana e dell’allievo De Robertocerca volontariamente la sconfitta, che diviene la chiave d’accesso per quel mondo che a Zola era rimasto, in una certa misura, precluso. Emblematico, in questo senso, è il primo romanzo del ciclo dei Vinti verghiano, I Malavoglia. Aci Trezza, 1863: i Malavoglia, famiglia onesta e operosa, “proprio all’opposto di quel che sembrava dal nomignolo, come dev’essere”, si trovano a fronteggiare una serie di disgrazie, a cominciare dalla leva obbligatoria, stabilita dal neonato Regno d’Italia, che coinvolge il primogenito ‘Ntoni. Il Regno d’Italia si configura come un’entità dai contorni quasi mitici, una spada di Damocle che opprime gli abitanti del villaggio sulla riva del mare: nel rappresentare questa presenza senza volto, Verga riesce, straordinariamente, a dimenticare il suo lungo soggiorno milanese, lo stretto contatto con un mondo che glorifica ed esalta l’Unità italiana, per eclissarsi nel non-tempo e nella non-storia di Aci Trezza; il lettore lo segue, confuso, nel viottolo polveroso che porta all’osteria, travolto dalla dimensione parallela che il villaggio rappresenta. Comare Zuppidda corre ad avvertire le altre donne di ogni novità, lo zio Santoro, con gli occhi bianchi fissi nel nulla, sente il rumore di passi familiari e la voce sorridente di comare Santuzza, che offre da bere nell’osteria dalle finestre incrostate di salsedine. Lo sguardo del lettore incontra il mare. Il mare è l’espressione più alta, forse, dell’arte di Verga, ne I Malavoglia: lo scrittore non lo descrive mai dettagliatamente, eppure l’odore, il sapore dell’acqua salata è ovunque. E non c’è gloria quando il mare offre una pesca abbondante, e non c’è compassione quando il mare in burrasca rapisce Bastianazzo. C’è solo il mare, nel modo in cui ciascun personaggio, in un particolare momento, lo vive. Capitolo quarto: Bastianazzo è morto, tutti gli abitanti di Aci Trezza sono riuniti in casa dei Malavoglia, come da usanza. E’ il trionfo della coralità, delle voci che si rincorrono e si calpestano, che siano voci udibili o interiori. Dal punto di vista tecnico, è probabilmente il capitolo più complesso: il passaggio dal discorso diretto al discorso indiretto, poi dall’indiretto all’indiretto libero, è pressoché impercettibile. In questo mondo, tra questi personaggi, è normale parlare di affari ad una veglia funebre, non c’è nulla di strano se Don Silvestro racconta barzellette, perché “né visita di morto senza riso, né sposalizio senza pianto”, recita il proverbio. Sei tu, lettore, l’intruso: non appartieni a questo microcosmo, questi proverbi non ti sono familiari. Ma, pagina dopo pagina, Aci Trezza diventa la realtà. Il rumore delle onde; sale, sole, sabbia. E’ difficile convincersi del fatto che Verga abbia teorizzato un tale capolavoro; è straordinario come un procedimento stilistico studiato a tavolino si mimetizzi perfettamente nella storia, e si faccia arte. Senza la storia, senza l’immaginazione, non esisterebbe, sarebbe soltanto una teoria fine a se stessa: come il sale che, nel mare, si unisce all’acqua, ma, se viene separato da essa, torna ad essere nient’altro che sale. Per rappresentare, per far del vivo, ci vogliono sempre quelle due divine facoltà: la fantasia, l’immaginazione (L.Capuana, Per l’arte). Gli scritti di Capuana sono una fonte irrinunciabile, per comprendere davvero l’arte di Verga: in fondo, i due scrittori hanno creato le basi teoriche del Verismo insieme, discutendo della scrittura di Zola, dell’Assommoir e dei Rougon-Macquart. Quindi Capuana, nel recensire I Malavoglia, coglie perfettamente il confine tra scelte stilistiche e arte, perché conosce il processo che ha portato l’amico Verga a quel tipo di scrittura; per il lettore standard, invece, il confine non è così evidente. E che cos’è l’arte, se non la capacità di rendere vero ciò che non è reale? Verga ha raggiunto l’obiettivo che si prefiggeva nella prefazione a L’amante di Gramigna, in Vita dei campi: “Io credo che il trionfo del romanzo [...] si raggiungerà allorché l’affinità e la coesione di ogni sua parte sarà così completa che il processo della creazione rimarrà un mistero, come lo svolgersi delle passioni umane”. Verga ha fornito, così, la chiave di lettura per capire I Malavoglia, per leggere il ciclo dei Vinti e il Verismo nella sua totalità, ma ciò non intacca affatto il fascino della sua scrittura. Non c’è nulla di artificioso. ‘Ntoni, alla fine del romanzo, è lì, di fronte al mare; accanto a lui, invisibile, c’è il lettore; “Ora che so ogni cosa devo andarmene”. E lo scrittore, in silenzio, si allontana verso la Canziria, per fotografare un’altra situazione, un altro personaggio (Mastro Don Gesualdo NdR), lontano eppure vicino, un altro vinto tra i vinti, uomo tra gli uomini. Sara Maria Fantini - III IT

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Quale sarà il tuo progetto?

Ciao a tutti, cari amici, sono Mihaela. Rumena… sì, rumena e sono orgogliosa di esserlo. Cari amici neri, gialli, bianchi, questi miei pensieri sono dedicati a voi, a voi tutti che, nel mondo intero, state cercando, come me, di comprendere l’avvincente progetto della vita. Sono arrivata in Italia nel 2006 con un bellissimo sogno: vivere una vita decente, senza povertà, senza sofferenza. Purtroppo è stato, finora, un cammino molto faticoso. Il lavoro trovato è sempre quello da badante, anche se hai studiato o se sei laureata; cominci con pochi soldi, perché non conosci la lingua, non hai esperienza, e così ti trovi sempre nel disagio e vedi aumentare la sofferenza. Cerco di spiegarlo, questo disagio. Si tratta di una routine quotidiana; sei come un robot che deve soddisfare tutte le esigenze dei padroni, che ti rassegni a ogni piccolo rimprovero, impegnandoti ancor di più a migliorare il tuo servizio… ma non va bene ugualmente perché appena la signora arriva a casa vede subito un raggio di sole che illumina una superficie e fa risaltare della polvere residua e così sembra che non hai spolverato mai… e sono altri rimproveri… poi la cena… devi correre… uno vuole pesce, l’altro la minestra, l’altro ancora la fettina… poi c’è la vecchietta che è invalida… la devi imboccare. Finita la cena… e tu?... ma non hai mangiato! Va bene, tieni queste due fette di pane, è avanzata un po’ di insalata. Ed è così, poi, anche per gli altri pasti: arrivano a contare anche le fette di pane! Finalmente ti ritiri in camera, dove ti aspetta la tua cara amica, la solitudine. La sensazione di essere soli diventa più forte e la luce potente che riaccende la fiducia nel cuore è la speranza del giorno libero. Sì, la libertà di poche ore è la tua salvezza. Il bisogno di vivere la vita si è diluito, nascosto forse dietro l’esistenza umana. Allora, mi domando: che fine ha fatto la speranza, la capacità di amare la vita in tutto ciò che essa ci offre, bello o brutto che sia? Il lavoro che stiamo facendo non è uno sbaglio, è un dono, un’azione reale per assicurare il futuro, un progetto, una speranza per tutti noi che viviamo nel disagio. Mihaela Rotaru

Noi siamo l’elemento umano nella macchina e siamo liberi, sotto le nuvole! ... mormora la gente, mormora; falla tacere praticando l’allegria! Giocano a dadi gli uomini, resta sul tavolo un avanzo di magia. Ultimamente è come se tutto quello che mi circonda, tutto quello che mi arriva dritto dritto (o con qualche giro in tangenziale, a seconda dei casi) al cuore abbia un messaggio particolare da farmi arrivare. Non so se si tratta di paranoia o di semplice coincidenze, ma ho deciso di prestare occhi, orecchie, mani, narici e sentimenti attenti a tutto quello che mi passa accanto e mi gira attorno durante queste giornate che un po’ già sanno di primavera, anche se uggiose e tristi, a volte. Così uno stralcio di canzone come quello all’inizio dell’articolo è riuscito a ricordarmi di scrollarmi di dosso tutti i pensieri stupidi che ognuno di noi può avere sopra alle difficoltà da affrontare ogni giorno in questa quotidiana convivenza con l’altro. Ma chi è questo sconosciuto? Cosa vuole da noi? Perché ne siamo così ossessionati? Ormai è da qualche giorno che ci penso, soprattutto perché le notizie che arrivano dai telegiornali non incoraggiano sicuramente i pensieri positivi e rosei circa il futuro. Ma che fine stiamo facendo? Capisco che la moralità sia andata in ferie da un pezzo, ma un minimo di rispetto per noi stessi non è rimasto? Un pizzico di dignità? Un poco di amor proprio? Penso che continuando di questo passo non tarderà ad arrivare la rivoluzione. O perlomeno me lo auguro: stiamo davvero raschiando il fondo. Il 29% di disoccupazione giovanile e come si danno da fare coloro che potrebbero cambiare la situazione o che comunque dovrebbero fare di tutto per modificarla? Fanno festini regalando somme da capogiro a ragazzine (sottolineo il fatto che il diminutivo non sia dovuto ad una questione di vezzeggiativi, ma ad una semplicissima questione di diminutivo dovuto alla giovane età, purtroppo!) che guadagneranno sempre di più essendo contese da riviste, programmi televisivi e radiofonici, locali e chi più ne ha, più ne metta. Certo, sarebbe così facile scendere a compromessi. Così bello e rassicurante sentirsi importante e famosa con il minimo sforzo. Così meraviglioso riuscire a sfruttare al meglio quel che la natura ci ha donato senza pensare a null’altro se non ai nostri interessi. Ma stiamo scherzando o cosa? No, scusate, penso di essermi persa qualche passaggio. Forse è perché non sono stata così fortunata da avere un corpo da urlo e mi piace la cioccolata più di quanto mi importi del mio aspetto esteriore che non riesco a capire di cosa si stia parlando? A chi non piacciono le luci dei riflettori? Non parlo di quelli della televisioni o delle luci dei flash dei fotografi. Parlo di quella sensazione fantastica che proviamo quando ci sentiamo importanti davvero. Quando ci sentiamo in pace con gli altri perché gli altri ci apprezzano e sanno quanto valiamo. Ma quante volte questa sensazione coincide anche con la sensazione di pace ed armonia con noi stessi? Purtroppo il più delle volte le cose non coincidono, semplicemente perché i nostri bisogni non coincidono molto spesso con quelli degli altri ed è una cosa ovvia e naturale. A cosa siamo disposti a rinunciare per essere apprezzati dagli altri? Quanto possiamo pensare di continuare a nasconderci dietro scuse ridicole che tradiscono la nostra inadeguatezza? Abbiamo tutti bisogno di attenzioni, poi c’è chi lo dimostra in un modo e chi lo dimostra in un altro, ma l’unica cosa certa è che non ci si deve assolutamente dimenticare della nostra dignità e dei punti saldi che dobbiamo sempre e comunque avere nella nostra vita. Guardando le foto, le interviste e i video che questi giorni stanno facendo il giro del mondo (facendoci davvero fare una bella figura, complimenti!) mi viene sempre più da pensare a quanto sia triste questa situazione, a quanto sia inaccettabile pensare, per un genitore, di incitare una figlia a offrirsi al miglior offerente per poter fare la bella vita. Ma chi ha deciso come deve essere questa bella vita, scusatemi? Certo, inutile nascondersi dietro un dito: i soldi servono e più sono e meglio si sta, chiaro. Ma qualche soldo in meno e qualche sorriso gratuito, qualche sentimento senza doppi fini e qualche gesto di affetto incondizionato, no? Basta aguzzare la vista e drizzare le antennine e la quotidianità saprà come stupirci, anche in periodi come questo che lasciano solo un retrogusto amaro in bocca. La vita non è sempre rose e fiori ma non è detto che non fiorirà! Chiara Colasanti

No al Bullismo, sì all’integrazione

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No al Bullismo, Sì all’integrazione è stato il tema del convegno tenutosi il 25 febbraio presso l’IIS Allievi-Pertini finalizzato ad introdurre nel processo formativo dei giovani l’esigenza di acquisire una cultura collettiva che metta al primo posto il rispetto reciproco dell’uno verso l’altro. Il processo, ovviamente, chiama in causa la famiglia e la scuola. Non si può infatti far finta di ignorare che il problema risiede nella carenza educativa dei nuclei principalmente deputati a forgiare le coscienze giovanili, a cui si aggiunge, non ultima, l’attuale società, ove intemperanze, atteggiamenti anomali, sintomi di violenza e di sopraffazione sono imperanti e alla ribalta di quasi tutti i notiziari. In conseguenza di ciò si è persa l’abitudine a controllare civilmente il dissenso e la propria opposizione. Che ci si deve aspettare, d’altronde, dalle manifestazioni di opinioni personali da contrapporre a quelle degli altri se giornalmente in televisione si assiste al turpiloquio, all’offesa continua, alla volgarità becera di sopraffare l’interlocutore alzando la voce? Nessun comportamento sociale è avulso dal tempo che lo vive. Tant’è né basta il richiamo alla moderazione di una voce che si perde nel deserto. Dobbiamo tutti reagire al bullismo puntando sull’educazione, sulla formazione, sui valori collettivi riassunti nei princìpi della solidarietà e del rispetto delle persone e delle cose. Una società basata sull’omertà non ha futuro, ha tenuto a sottolineare il docente, Stefano Amerini, che ha richiamato l’attenzione in tal senso, sugli obiettivi del patto di corresponsabilità che coinvolge la famiglia, gli studenti e la scuola. Antidoti efficaci al fenomeno sono l’amicizia e il costruire legami di stima e di considerazione reciproca. Spesso il bullo è un coniglio che non ha amici, che è spesso solo e che vuole imporre l’attenzione su di sé, prendendo in giro gli altri e spadroneggiando sui più deboli, così si è Giocondo Talamonti espresso lo psicologo Maurizio Bechi Gabrielli.


F o n d a z i o n e Cassa di Risparmio di Terni e Narni Lo scorso 11 febbraio 2011, in occasione dell’Assemblea dei Soci, la Fondazione Cassa di Risparmio di Terni e Narni ha dedicato la sala delle riunioni ed esposizioni del secondo piano di Palazzo Montani Leoni al compianto avvocato Paolo Candelori. Paolo Candelori, presidente della Fondazione Cassa di Risparmio di Terni e Narni fin dal 1996, è mancato il 24 novembre 2010. Uomo di forti valori morali e di irreprensibile rettitudine, ha lasciato in tutti coloro che lo hanno conosciuto un profondo dolore ed il rammarico di aver perduto una cara persona che, con i suoi modi discreti, cortesi ed educati, è sempre stata vicina ai bisogni della cittadinanza. Piace ricordarlo per le sue elevate capacità professionali che ha saputo dimostrare in tutti i contesti e le situazioni, ma anche e soprattutto per le sue grandi conoscenze culturali. E’ per questo che la Fondazione ha deciso di dedicargli la “Sala Paolo Candelori” che, oltre ad essere la sede delle riunioni dell’Assemblea dei Soci, ospita ogni anno eventi culturali di primo piano quali mostre d’arte di pittori per lo più moderni e contemporanei e presentazioni di volumi sulla storia locale. Iniziative, queste, tutte sostenute con entusiasmo e ammirazione dall’avvocato Candelori in oltre quattordici anni di presidenza alla Fondazione CARIT.

Analisi della postura Ipertermia Onde d’urto focalizzate Rieducazione ortopedica Rieducazione posturale globale Tecarterapia Test di valutazione e rieducazione isocinetica

Fisioterapia e Riabilitazione Dir. San. Dr. Michele A. Martella - Aut. Reg. n. 8385 del 19/09/01

Terni - Via Botticelli, 17 - Tel 0744.421523 - 401882 15


I giovani e il lavoro

Via Lattea a... S. Erasmo?

C’è crisi ma... è tempo di svegliarsi!

Terni: stazione FF.SS. – I mostri in azione

Ce l’ho fatta! Mi sono diplomato… e ora? Che lavoro posso fare? Quanto tempo mi resta per decidere? Avrò un lavoro? E l’università? Sono queste le domande che attendono ogni giovane dopo essersi diplomato e le cui risposte sembrano dipendere più dalle necessità economiche che da una decisione consapevole e personale. Soprattutto loro, i giovani intrepidi e ambiziosi, quelli che hanno degli obiettivi, dei sogni professionali da realizzare e che vedono nel lavoro una fonte di benessere, sono i primi a chiedersi quale futuro li attenda dopo la scuola superiore. Non più adolescenti, coccolati e vistosamente viziati dai genitori, ma ragazzi che vogliono scegliere il tipo di lavoro più congeniale, le cui idee e opinioni hanno un peso ingente sul futuro di un Paese. Altro che perdita di futuro, il futuro è diventato il loro tempo amico, dove potere realizzare ogni aspettativa. Carichi di energie e convinzioni, l’ambiente sociale spesso li restringe, non favorendo i loro sogni. Ebbene sì, perché la società pone in primo piano gli adulti, lasciando ai giovani un ruolo marginale, facendo decadere quell’ideale che vede nella realizzazione di ogni individuo la sua felicità, godendo del prodotto delle sue forze. Nasce allora una dicotomia nel modo di concepire il problema legato alla disoccupazione giovanile: da una parte la classe dirigente si dichiara partecipe dei problemi legati a tale condizione e propone programmi economici-politici per arginare la crisi, ma spesso non sufficienti. Dall’altra i giovani, insoddisfatti dei provvedimenti, si ritrovano senza un lavoro e scoraggiati spesso, non lo cercano, credendo di compiere uno sforzo inutile. Le istituzioni con la politica del governo, debbono impegnarsi al massimo per garantire un futuro lavorativo alle nuove generazioni, mantenendo allo stesso tempo le pensioni a chi non lavora più per anzianità, senza apportare dei tagli. Difficile è far quadrare il bilancio, ma togliere da una parte per mettere da un’altra non risolve il problema, lo sposta. Tanto più che i cari nonni, sono molto spesso una risorsa indispensabile per nipoti e figli, senza i loro aiuti economici molte famiglie si troverebbero in condizioni disastrose. Vero è, che alcuni giovani, invece, sono mossi da un discorso contrario: non far nulla finche sia possibile. È questa la categoria che rovina l’immagine ai precedenti, spingendo il governo ad identificare con quest’ultima, tutta l’intera massa, portando in passato qualche ministro a usare il termine di fannulloni. Questi giovani sono tenuti a impegnarsi al massimo. Nello studio senza perdere tempo, favorendo così anche le famiglie che sopportano l’ingente spesa delle tasse universitarie. Inoltre dovrebbero al più presto cercare un lavoro, anche in altre città, se non lo trovano nella propria, monitorando i centri per l’impiego o altre fonti d’informazione a riguardo, con tutte le offerte che questi presentano. L’autonomia deve diventare il loro vero obiettivo e soprattutto basta con la solita storia: C’è crisi, non c’è lavoro…, è tempo di prendere in pugno la vita e di indirizzarla nel verso gusto. Se il lavoro manca si inventa; la Comunità Europea ogni anno eroga dei fondi per le giovani imprese, le opportunità per creare qualcosa esistono, mancano forse le idee e lo spirito d’iniziativa, il gusto di mettersi in gioco, provando a uscire dal bunker del pensiero passivo: Prima o poi qualcuno mi verrà a cercare. Nessuno cerca nessuno. Se non ci si fa avanti, se non si mostra ciò che si è in grado di fare e soprattutto se non si ha almeno una passione nel voler realizzare un lavoro che piace, tutto si blocca. Lavorare è esprimere se stessi con il proprio impegno e le proprie abilità, sia tecniche sia sociali, creative e logiche, quello che conta è esserci e farsi avanti, mai abbassare la guardia, mai dire non sono capace. Tutto si impara, con lo studio e la pratica, tutto si può apprendere, basta volerlo. LB

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Limitare l’inquinamento luminoso non significa lasciare al buio le nostre città. Nessuna legge potrà mai fare il buio lungo Corso Tacito o Viale dello Stadio o nei borghi e strade più o meno periferiche; però, con comportamenti intelligenti è possibile ottenere un buio più buio a pochi chilometri dalla nostra città. Basterebbe rispettare la

legge regionale 20/2005 che indica come dovrebbero essere costruiti i nuovi impianti d’illuminazione pubblica e privata, ma, soprattutto, quello che non dovrebbe essere fatto. Deve essere evitato l’uso scriteriato di proiettori luminosi che sparano la radiazione luminosa nel cielo, quando invece sarebbe sufficiente illuminare

solo il suolo. Questi proiettori sprecano energia elettrica e illuminano male. Un classico e pessimo esempio d’illuminazione sbagliata è quello della Stazione Ferroviaria di Terni, dove tutte le sere si accendono veri e propri mostri. Eliminando, per quanto possibile, la propagazione della radiazione luminosa verso l’alto, si ridurrà l’alone luminescente che sovrasta Terni. In questo modo potremmo forse tornare a vedere la Via Lattea anche a S. Erasmo, la montagna sopra Cesi, dove il Comune di Terni possiede l’osservatorio astronomico. In questo osservatorio l’Associazione Ternana Astrofili volge un’intensa attività osservativa e divulgativa, per far godere ai cittadini le meraviglie della volta celeste..... inquinamento permettendo. franco.capitoli@teletu.it

M o s tr a d i p ittu r a c o n te m por ane a

Ope r a de l M ae s tro E lvio M archi onni

Mostra di pittura contemporanea dal 25 marzo al 10 aprile 2011 presso il Museo Diocesano di Terni messo a disposizione dal Vescovo Monsignor Vincenzo Paglia. Il curatore della mostra è Don Marek Sygut, Rettore della Chiesa S. Maria degli Spiazzi a Terni, in collaborazione con l’Associazione Culturale Sinergie. Membri di questa Associazione sono le 4 pittrici ternane (Angeli Valentina, Bertoloni Angelisa, Moretti Rossana e Piersigilli Cecilia) ritratte nella foto. Il tema della mostra è L’ANNUNCIAZIONE. Gli artisti partecipanti sono 16 pittori (Angeli Valentina, Bertoloni Angelisa, Caponi Alvaro, Chiocchia Mario, Cianchelli Marsilio, De Sisto Enrico, Francescangeli Luigi, Lipinska Margherita, Lomoro Wilma, Marchionni Elvio, Moretti Rossana, Nucciarelli Gianpiero, Pantaleoni Rodolfo, Piersigilli Cecilia, Sansi Alessandro, Valentini Antonio) e uno scultore: Dominioni Fernando. Si tratta di artisti di livello nazionale e internazionale. Il Maestro Elvio Marchionni vanta esposizioni anche a Parigi, Madrid e in California. Una mostra parallela sarà in una sala adiacente con opere degli stessi artisti attinente l’attività artistica di ognuno. La mostra si trasformerà in mostra itinerante e sarà presentata in Polonia, in Grecia e in molte altre Nazioni. Esposizione alternata (2/3 quadri alla volta) nella chiesetta di S. Maria degli Spiazzi a Terni.


Sarah Scazzi, Yara Gambirasio... chi sarà la prossima? L’ I t a l i a è u n p a e s e d i m o s tr i? A tte n ti a B e lz e bù! Chi sono, come sono morte, quando, dove e perché, a patto che ci sia un perché, se pur folle, lo sappiamo tutti e se ancora non fosse chiaro, lo scoprirà chi di dovere. I giornali, la tv e ogni altro mezzo di comunicazione ci hanno tartassato con speciali e servizi inerenti all’argomento, quello che invece nessuno ha mai provato ad affrontare è il motivo reale di tanta inaudita violenza che da molto tempo a questa parte sta dilagando nel nostro paese, un tempo forse “Bel paese”. L’Italia culla di bellezze artistiche, di paesaggi meravigliosi, nazione del buon vivere e mangiare, della cultura, si scopre il paese dei mostri e dell’osceno. Sarah Scazzi, Yara Gambirasio, e non sappiamo se la lista è destinata ad allungarsi, vittime della follia maligna, senza un motivo (e comunque nessun motivo può giustificare un omicidio), ragazze con una vita davanti, tanti sogni da realizzare e un mondo con persone troppo cattive da affrontare. La magistratura e gli inquirenti sono portati per legge a trovare un movente, a definire la causa di tanto male, ma, dietro questa burocratica identificazione, si nasconde qualcosa di molto più grande e indefinibile, una sorta di demonio, un belzebù che spinge i sentimenti oscuri e aberranti dell’uomo a trionfare su quelli buoni. Dobbiamo incominciare ad avere paura, perché arrivati a questo punto, il demonio esiste davvero e non è escluso che un giorno non possa venire a farci visita. Non bastano le preghiere, l’esorcista, le croci o quant’altro, dobbiamo agire e, immediatamente, fermare questo demone prima che mieta altre povere vittime. Cosa fare? Come comportarsi davanti ad un fenomeno del genere? Partendo dalla considerazione che nessuno della famiglia Scazzi o Gambirasio, prima della morte delle giovani, sapeva che sarebbe andata a finire in questo modo, lo stesso vale per ogni altra famiglia. Non sappiamo se è possibile prevenire un omicidio, forse è un po’ come il terremoto, quando arriva lo senti e solo dopo cerchi di scappare se sei fortunato. Forse le radici di questo male sono talmente profonde che non si possono estirpare, ma una cosa è certa, alla base c’è sempre uno stato d’insoddisfazione e malessere che spinge l’assassino a compiere l’insano gesto. Davanti a situazioni del genere le sole cose che possiamo fare, per cercare di prevenire sono due. La prima è istaurare un dialogo, parlare sempre in famiglia con i propri figli, conoscerli aiuta a sapere chi frequentano, i dubbi che hanno, le insicurezze, cosa vogliono e sicuramente come stanno. Parlare equivale ad abbattere i muri dove belzebù potrebbe nascondersi. La seconda è un’analisi spirituale e morale che ognuno di noi dovrebbe farsi per riflettere attentamente sul proprio agire. Tenendo presente che ogni azione ha un riscontro sui nostri simili e che se abbiamo dei problemi con loro non serve chiudersi in se stessi come dei ricci, ma anche qui il dialogo aiuta a capire e a capirsi. La violenza nasce da questo trattenere le proprie ansie, i propri dubbi. Il caso di Sarah che aveva in principio come movente dell’omicidio le gelosie della cugina ne è una prova. In ultimo, chi vede, conosce, o sospetta che potrebbe esserci qualcosa di pericoloso in agguato, deve parlare. Far luce sul buio dell’omertà e dell’indifferenza svela ogni possibile passo del mostro e riduce il rischio che l’evento avvenga. Non ci sono regole assolute in questa dimensione del “vivere così per evitare di”, ma almeno è un consiglio per cercare di arginare un problema che sembra riflettere un momento della nostra epoca, dove uccidere sembra diventata una consuetudine del vivere. Lorenzo Bellucci lorenzobellucci.lb@gmail.com

Gi u l i et ta e Ro m e o : uno spettacolo dal to c c o a ulic o Silvia Imperi e la sua visione moderna dell’amore impossibile o quasi Sublime e naturale allo stesso tempo, lo spettacolo andato in scena lo scorso 19 febbraio presso la Chiesa del Carmine di Terni, dal titolo Giulietta e Romeo, realizzato dalla compagnia ARTò, testo di P.P. Parzanese, per la regia di Silvia Imperi, nel ruolo di Giulietta, interpreti Valter Toschi, Massimo Dionisi, Angela Zampetti e Mario Merone, è stato uno spettacolo autentico, dove il dramma dei due storici innamorati, non segue la versione shakespeariana con tutto lo sfondo di battaglie tra le due famiglie dei Capuleti e dei Montecchi, ma basandosi sul testo di frate Parzanese, la storia inizia subito dopo il matrimonio di Giulietta e Romeo. Cinque i personaggi che si scontrano per affermare le loro ragioni: Frate Lorenzo, il padre di Giulietta, Capuleto, la sorella del padre, Agnese, Giulietta e Romeo. Una versione moderna, contro il patriarcato e le decisioni che da questo scaturiscono, per l’emancipazione femminile, dolcemente incarnata dalla figura di Giulietta e il personaggio enigmatico della zia Agnese, sempre trattenuta tra due forze opposte: il bene e il male, che la conducono in bilico per proteggere la struttura gerarchica della famiglia. La recitazione degli attori dal ritmo incalzante e controllata, ben sporcata dall’uso dell’italiano antico, ma pulita da ogni forma d’istrionismo o spunti recitativi del passato, favorisce le giuste atmosfere, rendendo l’intera piece ottima dal punto di vista espressivo. Nella figura di Giulietta c’è purezza e forza dei sentimenti, una donna pronta a tutto pur di vedere realizzati i propri obiettivi. In lei c’è una sorta di onore al gentil sesso e al valore delle donne, che per troppi anni sono state declassate e ingiustamente ritenute inferiori. La scenografia di Attilio Del Pico, sobria ed elegante, con l’istallazione di un pannello per le video proiezioni di Greca Campus, è una finestra sul mondo interiore dei protagonisti, dove la video arte, prettamente concettuale, amplifica il sentire di chi è in scena, rendendo lo spettacolo ancora più interessante. Le luci di GF Media Service in perfetta sintonia con lo spazio scenico hanno reso la giusta qualità all’ambiente, già di suo maestoso. I costumi di Armanda Tarquini con la loro precisione stilistica identificano il carattere di ogni personaggio, restituendo alla scena non personaggi, ma persone in carne ed ossa con i loro modi di essere e vivere. Un forte senso aulico c’è dietro tutto lo spettacolo, un mostrarsi solenne e illustre che caratterizza tutti i personaggi e li rende imponenti in ogni loro gesto. Un finale tragico ricco di pathos, che divide i due innamorati in vita, ma li unisce spiritualmente e per sempre nel segno dell’amore in morte. Infine le musiche coordinate da Gerardo Nuzzolo, sono un originale trionfo di sonorità, dove lo spettatore ritrova tutta la drammaticità del momento LB e l’emozione dell’azione.

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TERNI Ho beneficiato, nel corso dell’insegnamento attivo, di esperienze a tutti i livelli, con esclusione delle scuole elementari. Scuola media, a Rieti, Liceo classico, a Terni. Ma anche presso Istituti per geometri, professionali, magistrali, e Licei scientifici. E alle serali, finanche. A Roma poi, come Formatore Nazionale, ho insegnato a colleghi dei licei della capitale e a docenti della Università agli studi. Davvero bello, tutto. Non paragonabile però all’esperienza attuale, ora che sono da tempo in pensione e che ho, a volte, qualche dissidio con le energie, quelle che servirebbero per tenere a bada giovanotti entusiasti del voler capire. Attualmente, ogni martedì presso la Biblioteca Comunale di Terni, con il prezioso ausilio della direzione della stessa, mi intrattengo, insieme a Paolo Casali, formidabile nell’insegnamento della geometria delle trasformazioni, con classi doppie (una cinquantina di bambini ululanti per corso, di quarta e quinta elementare). Si fatica molto, ma ne vale davvero la pena. Sono finalmente, o spero di esserlo, un maestro, magister, da magis, più, con il suffisso tero, che indica comparazione tra due, quindi il più grande tra gli educatori, ovvero sono all’apice della mia carriera professionale. Non Maestro cerimoniere, tantomeno Gran maestro, è ovvio! Ben lungi, anzi, antitetici! Soprattutto se si aspira ad essere SENATORE della città, cittadino cioè che mette a disposizione, per i concittadini, il suo sapere.

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C ’ è c h i a m a l a m a t ematica

D i ch e s i tr a tta ? Di un progetto che chiameremo Costruiamo la matematica, con tanto di sottotitolo: Dalla matematica dei modelli della “Acciaieria” alla matematica degli exhibit. Corsi di matematica Già dallo scorso anno gli iscritti ai corsi gratuiti di matematica da me tenuti sono centinaia e i ragazzi seguono con passione e mostrano elevate capacità (molti tra questi già partecipano, con i loro parenti, alla fabbrica dei modelli di matematica e alcuni già scrivono sul mio magazine La Pagina). Saranno effettuati corsi di matematica per giovani e meno giovani. I corsi per giovani sono rivolti ai ragazzi delle quarte e delle quinte elementari e delle prime e seconde classi della scuola media, studenti interessati alla nascita ed allo sviluppo del pensiero logico-matematico ed alla conoscenza delle ragioni scientifiche dei fenomeni naturali. L’iniziativa è finalizzata alla scoperta delle radici culturali e umanistiche della matematica e, pertanto, i temi affrontati non riguarderanno i programmi scolastici. Si cercherà di sviluppare nei giovani il senso della critica, della ricerca, della scoperta di elementi particolari, di regolarità, di irregolarità, di fenomeni dei quali lo studente stesso formalizzerà poi regole guida.

Il programma di matematica diventa programma di storia della matematica con il corredo di tutto quello che serve per capire (storia, lingue, filosofia, italiano... ecc). Dei corsi per adulti (due) parleremo nei prossimi numeri. M o s t r a e x hi b i t di matematica Agli inizi dello scorso secolo, gli abilissimi modellisti della Società degli Alti Forni e Fonderie di Terni (SAFFAT) elaboravano, su disegno degli ingegneri, modelli in legno di altissimo livello. Una raffinata cultura scientifica si serviva, con successo, della matematica pratica, quella per risolvere i problemi. Una nobile matematica, che ha i suoi antenati negli egiziani e che i greci chiamavano logistica. Una matematica che, a partire da Diofanto di Alessandria, porta alla analisi infinitesimale e ai tanti strumenti di calcolo di cui l’ingegneristica dispone. Oggi, a distanza di cento anni, vogliamo riproporre una modellistica, realizzata da studenti e da genitori, che motivi alla comprensione di problematiche matematiche più vaste, affrontando quell’altra nobilissima parte della matematica che da Archimede in poi chiamiamo euristica (eureka!, ho trovato!), cioè scienza della scoperta, ars inveniendi, problem solving.

Mostra libri di matematica Una mostra che possa, negli anni, ampliarsi ed impreziosirsi, che presenti al pubblico libri importantissimi ma introvabili normalmente o custoditi nelle biblioteche nazionali. Libri di matematicifilosofi come Pitagora, Platone, Aristotele, Euclide, Archimede, Porfirio, Giamblico, Fibonacci, Pacioli, Bombelli, Viète... e tantissimi altri) o che mostri che alcuni scrittori di valore sono stati in realtà matematici di professione: Omar Khayyàm delle Quartine (Rubaiyyàt), Stoker di Dracula, Carroll di Alice, via via fino a Bertrand Russell della Storia della filosofia occidentale e a Solženicyn del Gulag, per citarne solo alcuni. Per far conoscere La matematica da Pitagora a Newton di Lucio Lombardo Radice; Le equazioni differenziali di Karl Marx; Flatlandia, del reverendo Abbot o la matematica in l’Uomo senza qualità di Robert Musil, in L’Incognita di Hermann Broch, nelle opere di Jorge Luis Borges, in La vita, istruzioni per l’uso di Georges Perec, in Centomila miliardi di poemi di Raymond Queneau, in

L’incendio della casa abominevole di Italo Calvino. Ed ancora quei tanti, famosissimi e interessantissimi libri sulla divulgazione e sulla storia della matematica. Anche per ritrovarsi a Terni, ogni anno, insieme a studenti, studiosi e collezionisti di libri di tutto il mondo davanti a mostre di exhibit e di libri sapientemente gestite dai giovani corsisti. Con ch i ? Con le istituzioni, a patto che sappiano gestire il tutto senza decretare per questo progetto la stessa fine riservata alla mia mostra di astronomia Il cielo e la terra, di cui potrete sapere leggendo Germogli. Se ciò dovesse avvenire lavoreremo insieme, studenti, genitori, insegnanti. Ma non saremo soli perché sono già in molti e ben equipaggiati coloro che si dichiarano disponibili a collaborare ad un progetto originale, del tutto autoctono, senza copiare, come di norma a Terni, progetti di altri. Col l aborazi on i Per chiarimenti, commenti, ma soprattutto per collaborare: info@lapagina.info o Giampiero Raspetti 3482401774


S a n

V a l e n t i n o

P a t r o n o d e l l a c i t t à d i Te r n i Tempi che cambiano. Se San Valentino aveva l’abitudine di regalare rose quest’anno il suo successore, il vescovo Vincenzo Paglia, nel corso dell’omelia per la ricorrenza del patrono, ha scagliato pietre al posto dei fiori. E hanno colpito nel segno. Bastava osservare le espressioni di sgomento, e pure di rabbia, sulle facce di chi sedeva in prima fila davanti all’altare. Convinti di andare solo a sentire una rituale Messa in onore del patrono della città. Che errore! Qualcuno indignato se ne voleva andare, come se stesse partecipando ad una riunione, ma altri, più filoni, l’hanno fermato. La faccia va salvata, sembra che si sia sentito bisbigliare all’orecchio. E’ andato giù duro con i politici ed i potenti Vincenzo Paglia aprendo il suo discorso su una città che “sta rischiando una condizione di ripiegamento, come se rinunciasse ai propositi di cambiamento e trasformazione rassegnandosi alle politiche ed ai comportamenti di sempre. La città sembra non voler crescere più, come se stesse perdendo l’anima. Ma se non cresciamo cancelliamo già oggi il futuro nostro e dei nostri figli. Le questioni più urgenti stanno emergendo una dopo l’altra in tutta la loro problematicità”. E l’ha snocciolate proprio una dopo l’altra le questioni

urgenti: Università per prima. Per il vescovo di Terni, Narni e Amelia le difficoltà dell’Università ternana non sono dovute solo alle leggi nazionali, alla riforma Gelmini. Gli errori li hanno fatti i ternani non riuscendo a guardare con oculatezza la situazione intorno a loro. Per salvarsi bisogna trovare nuove opportunità, guardare anche oltre Perugia. Basta piangersi addosso. Basta rivendicazione di diritti che vanno conquistati con dignità e merito, non elemosinati. “Non sono più sufficienti atteggiamenti di sola rivendicazione, serve una svolta profonda. Molti errori sono stati fatti in passato. Non possiamo più costruirci un alibi. La crisi dell’università ternana non dipende dalla riforma nazionale. Dobbiamo piuttosto verificare la ragionevolezza del percorso intrapreso da oltre trent’anni, giudicarne schiettamente gli esiti e aprire strade nuove. Anche l’Università ha il dovere di ripensare le proprie responsabilità chiedendosi anche se le proprie istituzioni presenti a Terni siano le uniche possibili. In ogni caso è opportuno chiedersi se non si debbano sondare anche altre soluzioni per lo sviluppo di istituzioni di ricerca e di alta formazione” ha detto con vigore monsignor Paglia. E poi via dritto al cuore di un altro gravissimo pro-

blema che attanaglia i ternani: la crisi della chimica, la mancanza di lavoro. Salvare il polo chimico è vitale non solo per arginare la disoccupazione ma anche per assicurare un futuro alla città. La situazione dell’industria ternana “mostra al tempo stesso segnali incoraggianti e forti ritardi nei comportamenti dei soggetti locali”, ha sottolineato il Vescovo. L’Omelia del vescovo ha toccato poi la cultura, altro nodo intricato, congelato, della politica ternana. Non serve solo l’evento importante su cui focalizzare attenzione e risorse, serve invece investire nella ricerca, nella produzione di eventi culturali, nel campo delle nuove tecnologie. Serve insomma una politica culturale vera ideata, progettata, studiata, organizzata dalle istituzioni e non lasciata ad altri per incapacità. Treni persi, possibilità soffocate. Quante! “La cultura è forse l’esempio più emblematico del ripiegamento. Purtroppo la città non vede i segnali di un investimento convinto e coerente in questo settore. Al contrario, molto spesso, quello che viene presentato come investimento in cultura altro non è che la riproposizione di schemi e di modelli che, come città, ci fanno guardare al passato”, ha tuonato Paglia.

Un incitamento forte a guardare avanti, a scrollarsi di dosso pastoie antiche che hanno imbrigliato la cultura in schemi precostituiti voluti fortemente da chi voleva mantenere uno stagno in cui operare. Le acque ferme si dominano meglio. Abbiamo assistito al riemergere di una mentalità chiusa, alla proposta di vecchie ricette, alla ricerca di improbabili alibi, al fallimento di progetti fragili e gestisti in una logica di compromesso. E’ necessario fare uno sforzo comune oltre i confini dei propri interessi di gruppo -ha esortato PagliaOccorre un impegno straordinario di tutte le realtà sociali: dell’impresa e dell’economia, delle scuole e dell’università, delle famiglie e delle fondazioni bancarie, delle politiche e della Chiesa. C’è bisogno che quella

Mostra fotografica

città poliarchica di cui spesso abbiamo parlato prenda vita. Il vescovo si pone una domanda che fa riflettere: C’è ancora spazio per Terni in Umbria? E pensa ai rapporti tra l’area ternana ed i territori dell’Italia centrale. Potenzialità viste ancora con un’ottica umbra, troppo ristretta e che invece andrebbero sfruttate ben oltre l’idea di Terni città cerniera, riflettendo su i suoi possibili ruoli territoriali. E quelli a cui tutte le sassate del successore di San Valentino erano rivolte? Sono rimasti fermi, per salvare la faccia, e soprattutto zitti. Meglio non aprire bocca deve essere stata la parola d’ordine perché nessuno ha voluto replicare. Che stiano pensando a qualcosa di nuovo? Lucilla Piccioni

Patrocinio Comune di Terni

Trentennale della visita a Terni di

Papa Giovanni Paolo II dal 19 marzo al 1 maggio 2011

Diocesi Terni Narni Amelia

Foto di Ilvo Piersigilli

Mostra di macchine fotografiche d’epoca

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Cr ittog rafia, c rittologia, critt o . . . co s a ?

E’ cosa nota, ripetuta incessantemente su tutti i mezzi di comunicazione, che quest’oggi l’italiano scritto e l’uso corretto dei verbi stanno quasi scomparendo. Le nuove generazioni, anche a causa della sempre minore possibilità di comunicare ad personam con l’interlocutore poiché ci sono l’e-mail, Facebook, Messenger e i cellulari, non parlano più, o meglio: non sanno parlare! Ed è per questo che sta progressivamente pren-

dendo piede tra i ragazzi italiani, ma non solo, la moda di abbreviare le parole delle frasi che si vogliono comunicare fino a giungere ad un linguaggio non più troppo intellegibile, anzi, quasi ad un vero e proprio codice segreto. E così si trasformano che in ke; perché in xkè; comunque in cmnq... Linguaggio segreto tra ragazzi e basta? Non proprio! Chi avrebbe mai pensato che questa volontà di nascondersi, di cambiare l’alfabeto comune al fine di non farsi capire se non da chi si vuole, sia alla base di una vera e propria scienza? E già, la scienza della crittografia. Essa tratta delle scritture nascoste, ovvero di quei metodi necessari a rendere un messaggio

(CRITTOGRAMMA) incomprensibile alle persone non autorizzate a leggerlo. Invenzione moderna? Assolutamente no, infatti, la necessità di rendere segreto un messaggio è antichissima. Già la Bibbia parla di codici celati (Atabash), ma non solo: gli Spartani avevano la Scitala e i romani il Cifrario di Cesare. Lo studio della crittografia e della crittoanalisi (tecnica di analisi di un messaggio cifrato allo scopo di ricostruire il messaggio originale) è detto CRITTOLOGIA. Numerosi sono i testi di crittografia moderna tra cui il De Cifris; il Tritemio (rimasto incomprensibile per più di tre secoli) svelato dal colonnello prussiano F. Kasiski nel

1863 nel trattato Esame Kasiski; il sistema Vigenère… Ma se si crede che oggi i metodi crittografici siano usati solo dai ragazzi, si sbaglia: chiunque prelevi denaro con il Bancomat, faccia acquisti con la carta di credito o effettui una telefonata, fa uso, senza esserne cosciente, di critto algoritmi. La crittologia, nata in ambito strategico-militare, ha subìto un profondo mutamento a partire dal XIX secolo con l’invenzione del telefono e del telegrafo, strumenti all’avanguardia che hanno permesso l’intercettazione di tutti i messaggi crittati inviati. Sperimentate e brevettate in seguito, sono la Macchina Enigma, usata dai tedeschi durante la II guerra mondiale e la

Macchina Sigaba, utilizzata dagli USA , entrambe rese inutili con l’avvento del computer. E’ inoltre indispensabile ricordare che ogni metodo crittografico segue un proprio algoritmo a sé, ma è comunque subordinato alla legge dettata nel 1883 dal militare Kerckhoffs, che afferma un principio fondamentale: La sicurezza di un critto sistema non deve dipendere dal tener celato il critto algoritmo. La sicurezza dipenderà solo dal tener celata la chiave. Quesito finale. Chi sa dire cosa significa questo strano farfugliamento: sequè_tu_n_oidces_cge reosstm.oi? Elena Lucci Classe IIIG, ScM O. Nucula

Vittorio Emanuele II

Il 17 marzo, come tutti saprete, si festeggeranno i 150 anni dell’Unità d’Italia, festività esaltata in ogni programma televisivo e dai giornali. Ma quanti di noi conoscono veramente gli eventi e i protagonisti del risorgimento? La maggior parte delle persone che non hanno potuto studiare il diciannovesimo secolo a scuola, ad esempio, non

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conoscono bene il ruolo che i Savoia ricoprirono durante l’unificazione nazionale. Riflettiamo: tutti gli stati regionali ripristinati dal Congresso di Vienna erano governati da un sovrano, e tra tutti loro è bene ricordare Vittorio Emanuele II di Sardegna. Questo monarca è stato sempre trascurato dai più, dato che ormai la nostra realtà repubblicana, tende a farci dimenticare l’importanza che egli ebbe in questo momento storico. Eppure fu proprio lui a tracciare, insieme a Camillo Benso di Cavour, i lineamenti della nuova nazione italiana. Il suo primo merito fu in-

fatti proprio quello di essere riuscito a difendere lo Statuto Albertino durante le trattative di pace con l’Austria e inoltre di aver capito che, per rendere meno arretrato il proprio Paese, sarebbe stato necessario favorire il governo dei liberali, i quali riuscirono a modernizzarlo. Una sua grande vittoria fu anche quella di essersi guadagnato la fiducia dei patrioti rivoluzionari, al punto di aver fatto convertire alla causa regia perfino il mazziniano Francesco Crispi, che arrivò ad affermare: La repubblica divide, la monarchia unisce. Molto significativo inoltre il motto che Giuseppe Garibaldi usò durante la sua

spedizione nel sud della penisola: Italia e Vittorio Emanuele. Suoi grandi trionfi furono anche la presa del Lazio e la proclamazione a: Re per Grazia di Dio e volontà della nazione. Quindi, nonostante alcuni disdicevoli vizi ed importanti errori politici e militari come la Terza Guerra d’Indipendenza o l’eccessiva centralizzazione amministrativa, credo che dovremmo ammirare un sovrano come questo re. Soprattutto, però, dovremmo avere rispetto per una Dinastia che, ammettendo i propri sbagli, concesse al suo popolo nel 1946 la possibilità di scegliere il proprio Ordinamento Costituzionale.

Accettiamo dunque l’importanza che, in passato, la Monarchia dei Savoia ebbe per la nostra Patria, ma affrontiamo il futuro con la Repubblica che molto ci costò. Concludo con una frase che Vittorio Emanuele II era solito pronunciare nei suoi ultimi anni di vita: Gli stranieri non potranno mai più ricreare il giogo di tirannia che per lunghi secoli tolse all’Italia il diritto e la libertà di essere una, ed il Popolo sarà il supremo Garante di questa importante conquista che richiese il sacrificio di molte e molte vite! Francesco Neri Classe IA, ScM L. Da Vinci


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Eraclide Pontico ed Ecfanto siracusano dicono che la terra è mossa, ma non per traslazione, sì invece per rotazione: essa gira, dicono, intorno al proprio asse come una trottola, da occidente verso oriente. Aëtius, III 13, 3 [Doxographi graeci 378]

A n d i a m o i n o r b i t a - L’ e s p l o r a z i o n e d i M a r t e

(Parte Seconda)

Quest’ultimo decennio ha registrato un susseguirsi di missioni sempre più sofisticate, alcune delle quali ancora operative, che hanno studiato dall’alto Marte, con sonde in orbita, e al suolo, con rover che hanno perlustrato vaste aree, prelevato campioni e analizzato il terreno. I risultati più eclatanti sono stati una mappatura completa e dettagliata dell’intero pianeta, la prova certa che in passato c’è stata acqua allo stato liquido, la presenza di metano, grandi quantità di idrogeno e permafrost (ghiaccio sotto la superficie). In cantiere ci sono già altre sonde pronte per essere lanciate a breve e che consisteranno in rover più grandi e potenti tali da analizzare con potenti raggi laser le rocce (Mars Science Laboratory - NASA), da perforare il suolo fino a due metri di profondità per stabilire eventuale esistenza di vita passata (Exo Mars ESA- vedi foto in alto) ed ancora per studiare nuove tecnologie indispensabili per rendere possibile l’invio su Marte di esseri umani. Sì, perché alla base di tutto c’è la spasmodica ambizione della colonizzazione di questo pianeta! La prima impronta di piede umano su Marte, prevista nel 2012 e successivamente spostata al 2020, è slittata ulteriormente al 2030/2035. Gli scienziati sono concordi nell’affermare che prima di queste date è inutile farsi illusioni: ci sono ancora troppi e importanti problemi insoluti. La lunghissima permanenza nello spazio che tra andata, sosta e ritorno, si aggira intorno ai 17 mesi, provocherà forti squilibri sul corpo umano per l’assenza della forza di gravità ed è solo il primo di questi problemi. A seguire, occorrerà trovare la giusta soluzione per neutralizzare il micidiale bombardamento dei raggi solari, così tanto deleteri per il nostro DNA. Ed ancora, che peso avranno gli effetti psicologici e sociali? Come sopravviverà un gruppetto di persone relegate in spazi ristrettissimi per un tempo così lungo? Per dare una risposta a questi interrogativi, i primi sei astronauti sono già partiti per Marte il 3 giugno 2010. Beh, partiti si fa per dire, in quanto non si sono mai spostati di un millimetro da Mosca! Nell’ambito del progetto Mars 500 ideato dall’Agenzia Spaziale Europea, tre russi, un cinese, un francese e un italo-colombiano, sono stati isolati e sigillati in vari contenitori cilindrici (vedi foto a lato) con sei camere da letto, serra, palestra e dispensa e vi rimarranno per un anno e mezzo, comunicando solo tramite internet e con una differenza in tempo reale di 20 minuti, tanto è il tempo che impiega un messaggio a percorrere lo spazio Marte/Terra. Sarà in un certo senso il più gigantesco reality mai realizzato e non datemi del sadico, ma insieme agli astronauti, rinchiusi in quei tubi senza finestre, senza piscina, senza donne, senza la possibilità di uscire quando vuoi, mi sarebbe tanto piaciuto infilare e “mandare in orbita” tutti quei palestrati del Grande Fratello! Tonino Scacciafratte - Presidente A.T.A.M.B. - tonisca@gmail.com

Osservatorio Astronomico di S. Erasmo Osservazioni per il giorno venerdì 25 Marzo 2011

Saturno sarà il protagonista principale della serata. Anche se basso all’orizzonte, l’assenza della Luna favorirà l’osservazione di alcuni suoi satelliti: scontato Titano il più grande, si potranno vedere anche Tethys, Mimas, Giapeto, Dione, Rhea e forse l’ombra di Encelado sulla superficie del pianeta. Basterà spostare di pochi gradi il telescopio sopra Saturno, per inquadrare alcune galassie del famoso Ammasso della Vergine. Come di consueto vi porteremo a spasso fra le costellazioni visibili ad occhio nudo e con il computer a sbirciare le profondità spaziali. TS

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Una

costellazione

al mese

Il Centauro (parte nord) La costellazione di questo mese, il Centauro, viene associata automaticamente all’emisfero australe, ma in realtà è visibile anche, per una significativa fig 1 porzione, dal Nord Italia, e, per chi osserva dal nostro meridione, sono visibili tutti gli oggetti principali (ma non le celebri stelle alfa e beta, che appena sfiorano l’orizzonte alla latitudine del Cairo). E’ una costellazione molto grande e molto antica (una delle 48 di Tolomeo). La figura dei centauri, esseri mitologici in parte uomo e in parte cavallo, ha le sue radici nell’arte assiro babilonese. Il più celebre mito associato all’origine dei centauri narra che essi nacquero dalla relazione di Crono, padre di Giove, con la ninfa Filira. La particolare progenie deriva dal fatto che Crono si trasformava in cavallo durante le sue visite alla ninfa. Tornando alla costellazione, essa rappresenta il centauro Chirone (fig.1), che, a differenza degli altri centauri brutali e di fattezze mostruose, fu amico degli uomini ed abile musicista, poeta, matematico e medico. Avrebbe inventato le costellazioni per aiutare gli Argonauti nel loro difficile viaggio. Divenne maestro di molti eroi fra cui Ercole, che lo ferì accidentalmente con una freccia avvelenata con il sangue dell’Idra di Lerna. Chirone in preda a grandi sofferenze, ma senza alcuna possibilità di morire essendo immortale, rinunciò alla sua immortalità a favore di Prometeo e Giove, commosso da questo gesto generoso, lo collocò fra le stelle. La costellazione ha un’estensione imponente (fig.2) ed annovera due oggetti speciali ovvero il sistema stellare più vicino al Sistema Solare (alfa Cen- fig 2 tauri, sistema triplo che comprende la famosa Proxima Centauri, così chiamata perché dista da noi appena 4,2 a.l.) e l’ammasso globulare più grande e spettacolare del cielo, Omega Centauri, visibile dall’Italia attaccato all’orizzonte, più grande della Luna piena. Tra le “zampe” della figura mitologica, letteralmente incastonata nel confine meridionale del Centauro, in piena Via Lattea, si trova la splendida costellazione della Croce del Sud, invisibile dall’Italia. Duemila anni fa, da Palermo alfa e beta Centauri erano visibili, sia pure rasenti all’orizzonfig 3 te, come pure la Croce: oggi il lentissimo moto di precessione rende la vista impossibile. Per rintracciare la costellazione (fig.3) basta spostarsi verso sud, dopo aver attraversato la coda dell’Idra. Giovanna Cozzari


Viaggio tra le stelle: che c’è stasera in TV?

Li Bbuchi neri Dice bbene ‘lla canzone... Giranno pe’ Tterni... se qquante ne vidi ... però se ssai ascorta’... ne impari pure tante! E’ da ‘n bo’ de tembu che li zzicchi de la monnezza so’ ssempre pieni zzippi... e tuttu ‘ntornu ce stanno li sacchitti de plastica tutti sgarrati co’ la robbaccia sparpajata per terra. So’ li gatti che stanno a ’rcapezza’ lo magna’! Un gruppittu de ggente stea a ddiscute llì vvicinu... se ccome potea èsse. Chi ddicéa che li scupini... o mejo l’operatori ‘cologgici... non riuscivono a ppassa’ pe’ le troppe macchine ferme… chi ddicéa che non se fa ‘n tembu a svota’ li bbidoni che ggià so’ ppieni de novu… chi ddicéa che li rifiuti non sapemo più ‘n do’ buttalli e allora se lasciono llì. Unu co’ ‘n’aria d’astronommicu ha fattu... Qui ce vojono li bbuchi neri! So’ ‘ntervinutu io e j’ho dittu... Scì... cucì la bbuttamo llà ddentro ch’è ttuttu scuru e non vedemo più ‘n do’ va a ffini’... e ppo’ èsse che cce la scambiamo tra dde noi! Da come m’ha guardatu… ho ccapitu d’ave’ ddittu ‘na fregnaccia. M’ha spiegatu che... li bbuchi neri... so’ stelle che ‘n ce stanno più e... sso’ sparpajate pe’ ll’universu. Va bbe’, me potete di’, che cce so’ montoni de monnezza... ma p’arriva’ llassù... ce vòle!? Dovete sape’ che ‘lli buchi se ‘nghiottono tuttu quillu che je capita e non se embono mai, però... tocca ‘rtrovalli perchè non se vedono! Cerco da spiegamme mejo. Se llancio ‘nu scoju per aria m’arcasca su la capoccia... se lu lancio più fforte arcasca su la capoccia a quarche andru... perchè ce sta la Terra che lu riattrae... ma se lu lancio forte come Nembo Kidde... lu posso manna’ ‘n orbita! Se mme sposto su Giove... ch’è ppiù ggrossu de la Terra devo lanciallu come ddu’ Nembo Kidde e mmezzu. Cucì più li pianeti o li soli attirono le cose... più pe’ usci’ fòri da essi devi anna’ veloce! ‘Mbe’... dice che cce sta quarche corpu celeste... dove pe’ usci’ fòri non bastono li chilometri de la luce che sso’ quasi trecentomila a lu secondu. E allora neanche essa riesce a scappa’! Mo’ è cchiaru che senza luce... ‘n se vede gnente... cucì ‘llu bucu lu chiamamo... neru! P’artrovallu sarà ‘n probblema! Tocca sinti’ se ttira da che pparte come ‘n pesce c’ha ‘bboccatu e no’ lu vidi. Stemo attentu... che se ‘ncuminciamo a llancia’ li bbidoni de monnezza per aria... de ‘na cosa semo sicuri! Che sse non azzeccamo dentru a ‘llu bucu neru... ce n’accorgemo senz’andru! Allora sintirai che ppiogge acide e cche sparpajamentu... andru che li gatti! Quali gatti!?... Ah... no’ li vidi?... Speramo che non si superstizziosu... perchè quasi sicuramente allora... so’ nneri! paolo.casali48@alice.it

ASTROrime... Aldebaran Aldebaran... è una stella gigante (d= 65.000.000 km) ed una delle stelle regali... (Antares, Regolo, Fomalhaut) sessantacinque anni luce distante e ... presente nei cieli invernali. E’ brillante nel cielo stellato... ed è l’occhio del Toro... si dice... di color rosso chiaro aranciato delle Pleiadi lei è inseguitrice. (dall’arabo Al Dabaran) PC

Oggi ci vogliamo divertire un po’ parlando di stelle e partendo dal principio che i segnali televisivi si diffondono nello spazio alla velocità della luce. Il Sole è l'unica stella della quale riusciamo a vedere la superficie, tutte le altre sono così lontane da apparirci puntiformi; ed anche il Sole ci apparirebbe puntiforme qualora si trovasse alla stessa distanza della stella a noi più vicina. Le stelle che noi vediamo in cielo di notte sono come dei soli, situati però a grandissime distanze da noi. Queste distanze vengono misurate in anni luce, ovvero la distanza che la luce percorre in un anno (9461 miliardi di chilometri). La stella a noi più vicina è Proxima Centauri, che dista da noi solo 4,2 anni luce, cioè 38 mila miliardi di chilometri!! Questo significa che un segnale radio partito dalla Terra oggi, marzo 2011, arriverebbe sulla stella solo dopo la metà del 2015! …e stiamo parlando (escludendo il Sole) della stella più vicina!! Fatti questi due conti e riprendendo il concetto che i segnali radio televisivi si diffondono alla velocità della luce, inizieremo un viaggio tra le stelle più vicine a noi per verificare quali sono i segnali che, partiti dalla Terra, possono essere già arrivati a loro. Su ogni stella andremo a verificare “Che c’è stasera in TV?”. Ad esempio Aldebaran, la stella più brillante della costellazione del Toro, dista circa 65 a.l. (anni luce). Lì oggi potrebbero vedere in Tv le trasmissioni del 1946 della BBC e della NBC, compresi gli spot pubblicitari che quest’ultima iniziò a trasmettere dal 1941, ed avrebbero già visto le Olimpiadi di Berlino, trasmesse a marzo del 1936 (il primo programma televisivo regolare del mondo). Saprebbero dai TG che sul nostro pianeta è da poco terminata la Seconda Guerra Mondiale e che, ahimè, sono state sganciate due bombe atomiche (a Hiroshima e Nagasaki ). Sicuramente non iniziamo con una bella figura! Su Castore invece, stella dei Gemelli, a 52 a.l. da noi, impazzerebbero trasmissioni come il Musichiere, Lascia o Raddoppia, Canzonissima, Carosello, il Festival di Sanremo vinto da Modugno con Volare, mentre su Alderamin (costellazione di Cefeo, 49 a.l.) si vedrebbe il primo esperimento di trasmissione in mondovisione attraverso il satellite artificiale Telstar, mentre sapranno solo nel 2012 dell’assassinio di John Kennedy! Su Capella (costellazione dell’Auriga, 42 a.l.) sono già a conoscenza dell’esistenza della pay tv, nata in California nel 1964, delle prime trasmissioni a colori (in Francia e Germania) e dello sbarco dell’uomo sulla Luna. Possono seguire le vicende degli sceneggiati La Cittadella, il Commissario Maigret, il Tenente Sheridan, il Tenente Colombo, Star Trek (chissà cosa penseranno della Federazione Unita dei Pianeti….), dai TG hanno appena appreso della strage di Piazza Fontana, mentre su Arturo (costellazione di Boote, 37 a.l.) si sarebbero già appassionati alle vicende della Freccia Nera e A come Andromeda. Su Polluce (costellazione dei Gemelli, 34 a.l.) vanno in onda le vicende delle Charlie’s Angels, mentre su Fomalhaut (costellazione del Pesce Australe) e Vega (costellazione della Lira), entrambe a 25 a.l., ha successo Michele Placido con la Piovra, l’impicciona Signora in Giallo scopre un assassino dopo l’altro, Magnum P.I. indaga piacevolmente alle Hawai, Arbore fa impazzire tutti con Quelli della notte e Corrado presenta la Corrida. Gran divertimento invece su Altair (costellazione dell’Aquila, 17 a.l.) dove si ride già da quatto-cinque anni con i Simpson e dove è popolare la coppia Vianello Mondaini con gli episodi di Casa Vianello. Anche i primi episodi di E.R. Medici in prima linea sono molto apprezzati. Su Procione (costellazione del Cane Minore, 11 a.l.) si stanno stordendo con la prima edizione italiana del Grande Fratello, mentre su Sirio (costellazione del Cane Maggiore, 8,6 a.l.) conoscono la famiglia Martini del Medico in famiglia, il Maresciallo Rocca e Don Matteo, non si perdono una puntata di Sex and the City e hanno già appreso dai TG dell’11 settembre. I nostri “vicini di casa” di Proxima Centauri (costellazione del Centauro, 4,2 a.l.) si dilettano con il Dr. House e Lost, hanno già visto i funerali di Papa Wojtila e noi italiani stiamo per fare una bellissima figura con loro, perché stanno ricevendo le immagini dei mondiali di calcio del 2006! Fiorella Isoardi Valentini

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L’osservatorio astronomico di S. Erasmo è aperto gratuitamente per i cittadini l’ultimo venerdì di ogni mese dalle ore 21,30.

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