La Pagina novembre 2015

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Numero 1 2 9 novembre 2015

Mensile a diffusione gratuita di attualitĂ e cultura

Foto Marco Barcarotti


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Ques t i o n i d i re sp o n s a b ilità Il termine più appropriato è immunizzazione. La parola più usata, vaccinazione, si rifà alla prima scoperta di Edward Jenner del 1796, quando notò che i mungitori di vacche che venivano infettati dal vaiolo bovino, più blando e meno pericoloso di quello umano, risultavano poi immuni anche alla forma più letale della malattia. Ebbe allora l’idea di inoculare il vaiolo debole (appunto vaccino) al fine di rendere immuni i pazienti. Non si può certo dire che il metodo non ebbe detrattori: si possono ancora trovare delle vignette satiriche in cui si vedono disegnati pazienti vaccinati da Jenner ai quali spuntano dal corpo escrescenze a forma di mucca. Ma funzionò: una delle malattie più perniciose della storia (nel suo periodo peggiore, solo in Europa, i morti per vaiolo erano quattrocentomila all’anno) non era più inarrestabile. Ci vollero anni di impegno ma, dopo una finale campagna mondiale di vaccinazione attuata negli anni Cinquanta del XX secolo (quando c’erano nel mondo ancora 50 milioni di infezioni all’anno), il vaiolo è stato totalmente eradicato dalla faccia della Terra, come ha ufficializzato l’OMS nel 1979. Per quanto vecchia ormai di più di due secoli, la storia della scoperta di Jenner contiene già tutti gli elementi che sono tornati agli onori delle cronache in questi giorni. Innanzitutto, il meccanismo: la vaccinazione non è una cura, è un’azione preventiva. Addestra il sistema immunitario a riconoscere e a eliminare i portatori della malattia: lo fa inducendo una forma molto blanda del morbo, in modo che il corpo possa imparare a riconoscere il nemico, e rendendolo quindi capace di eliminarlo prima che possa fare danni anche quando si presenta in forze. È un po’ come mandare i globuli bianchi a scuola. Esiste un rischio nella vaccinazione? Sì, ma è davvero molto, molto piccolo: anche perché dai tempi di Jenner le tecniche di immunizzazione si sono assai evolute. Resta il fatto che il principio della vaccinazione rimane quello di immettere nel corpo degli agenti patogeni, anche se in forma molto blanda: in rarissimi casi questi possono regredire in forma nociva. Ma forse l’informazione più importante che ci porta la storia della lotta al vaiolo è che le malattie epidemiche si possono eliminare del tutto, se ne esiste il vaccino. La forza dei virus sta nella loro estrema capacità di passare da un ospite all’altro, tant’è che la parola virale ha ormai assunto il significato

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di “capace di propagarsi velocissimamente”: ma questa loro caratteristica è anche un punto debole, perché se un virus non riesce a propagarsi, è destinato a sparire. A differenza delle cure delle malattie non infettive, che restano prevalentemente un dramma privato del malato che deve fronteggiarle, le malattie epidemiche richiedono un’assunzione plurale di responsabilità. Come malati, dobbiamo decidere come curare noi stessi; come genitori, dobbiamo assumerci le responsabilità di curare e decidere come proteggere i nostri figli; come esseri umani, dobbiamo farci carico di proteggere l’umanità. È quest’ultimo aspetto che spesso non viene considerato. Pochi giorni fa, a Bologna è morta una bambina per complicazioni di pertosse. È morta di una complicazione derivata dalla vaccinazione? No. È morta perché non è stata debitamente vaccinata? No. La risposta “no” ad entrambe le domande discende dal semplice fatto che la bimba era troppo piccola per essere vaccinata. Ma la pertosse l’ha colpita, e questo significa che qualcuno non immune alla pertosse l’ha contagiata. A giugno, una bambina spagnola è morta di difterite, dopo trent’anni che non si registravano casi europei di difterite. La vaccinazione è una protezione di massa, prima ancora che individuale: se in un gruppo sociale il numero degli immunizzati è inferiore ad una certa percentuale, quel gruppo è vulnerabile al morbo. Decidere se vaccinarsi o meno non è una scelta che riguarda solo l’individuo, ma coinvolge tutta la società di cui è parte. Il 7 ottobre, il presidente dell’Istituto Superiore di Sanità, Walter Ricciardi, ha dichiarato che “la copertura vaccinale in Italia è ormai al limite della soglia di sicurezza, e diventa ormai improcrastinabile l’approvazione di un nuovo piano nazionale per la prevenzione vaccinale”. Il numero di vaccinazioni in Italia sta calando pericolosamente, sotto la soglia critica del 95%. C’è un ampio fronte di persone e personaggi contrari alla vaccinazione: c’è chi dice che servono solo ad arricchire le case farmaceutiche, chi opta per le cure naturali (forse dimenticando che virus e batteri hanno la stessa dignità naturale che abbiamo noi), chi porta evidenze assurde e pericolose (Andrew Wakefield, che pubblicò un articolo in cui metteva in correlazione vaccinazioni e autismo, è stato giudicato disonesto e irresponsabile dal General Medical Council Britannico); chi, forse più semplicemente, pensa che ormai i vaccini siano inutili perché le malattie sono debellate, e che quindi il rischio connesso alla vaccinazione, per quanto irrisorio, sia meglio non correrlo. A questi ultimi, forse i soli in grado di essere convinti, vale la pena ricordare che non è così, non ancora. E che ogni mancata vaccinazione è un passo indietro, un’apertura a quelle malattie che sembravano dimenticate; e soprattutto che ogni mancata vaccinazione non è solo una questione privata, come sanno bene i genitori della bambina spagnola e di quella Piero Fabbri di Bologna.


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Tern i n o n h a v i n t o Recentemente Terni ha partecipato alla selezione di capitale italiana della cultura. Non ha vinto. Mantova ha avuto l’alloro. Il prossimo anno si ritenta. Vorrei fare poche considerazioni in merito a questo. Per molti Terni non avrebbe mai potuto vincere perché città considerata non bella, non ricca di monumenti, non turistica, non attrattiva insomma. Ma non è su questi elementi che si giocava l’avventura. Era sui progetti da mettere o messi in campo, sulla loro fattibilità, sul loro valore culturale. Una città non viene designata Capitale unicamente per ciò che è/ha e per quanto ha fatto -così recita il bando-, ma per quanto propone di fare. Per questo anche Terni aveva tutti i titoli per poter partecipare e vincere. Non entro nel merito dei progetti presentati: possono essere buoni o no, fattibili o no, fantasiosi, incisivi, rivoluzionari, concreti, utopici. L’elemento discriminante è un altro e, a guardar bene, di sostanza. Infatti, non ho percepito il coinvolgimento della cittadinanza: se anche alcune associazioni (dicono 60, ma quante e valide sono rimaste fuori!) hanno partecipato all’elaborazione del dossier, nulla è pervenuto ai cittadini. Si sente lo scollamento completo e deludente tra amministrazione comunale e popolazione, come se fossero due entità distinte che non interagiscono, non comunicano. La maggior parte delle persone, è vero, non fa altro che criticare e brontolare su tutto, ma è anche vero che dall’alto delle sedie comunali, non si è trovato troppo spesso il modo di far partecipare, di condividere, di dialogare se non formalmente. Uno scollamento, dunque, che ci fa sentire più sudditi, che cittadini! Quando Matera si è candidata come capitale della cultura europea, la popolazione e il Comune sono scesi in piazza con le magliette e le bandiere per sostenere la propria città. A Mantova, oltre alle consuete magliette, è stato allestito una specie di “Libro delle idee” in cui ogni cittadino poteva proporre un progetto, un contributo. Era a disposizione in piazza e contemporaneamente si tenevano videointerviste, laboratori, incontri per raccogliere e confrontare idee. Perché a Terni no? Manca l’orgoglio cittadino? Tutto questo è avvenuto per scelta dei cittadini perché indifferenti alla cosa pubblica o perché non sono stati coinvolti, interessati, resi consapevoli e soprattutto appassionati all’evento? Perché è stato dato loro solo l’annuncio di questo bando, ma tutto si è poi risolto nel chiuso delle stanze istituzionali? Ci si meraviglia poi dei sorrisi ironici su Terni “capitale della cultura”? Manca ormai la reciproca fiducia, deteriorata e affossata da anni di “bivaccamento” sterile su progetti rimasti parole e carta straccia, su discussioni -anch’esse sterili-, su promesse spesso elettorali, accantonate in un angolo della mente per essere rispolverate all’occorrenza, su annosi problemi della città rimasti purtroppo senza soluzione come quelli citati nel precedente articolo: dalle opere non finite come il Teatro Verdi o la Fontana, alla metropolitana di superficie fino all’enorme problema dell’inquinamento. Pensiamo all’ISRIM che doveva essere il fiore all’occhiello per la ricerca di nuove tecnologie e che doveva far assumere a Terni un ruolo primario nell’era postindustriale. Pensiamo all’ICSIM che doveva occuparsi del grande e importante patrimonio di archeologia industriale tra i più vasti e importanti in Europa. Morti. Tutti morti. Pensiamo a Papigno che doveva diventare la sede di Studios Cinematografici e per qualche brevissimo tempo lo è stata. Pensiamo al Videocentro, luogo di tecnologia informatica all’avanguardia. Morti. Morti e sepolti.

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JACARONI CENTRO DIAGNOSTICO Questioni di responsabilità - P F a b b r i CNA Fornitori di risposte Terni non ha vinto - L S a n t i n i B . M . P. - Soluzioni tecnologiche per il trasporto verticale Colori... distensivi - A Melasecche I colori dell’Araba Fenice - B Galigani ARABA FENICE L a b a m b i n a c h e a m a v a l a s c u o l a - F Patrizi La llezzione de cavallu - P C a s a l i L A B O R AT O R I S A L VAT I A Z I E N D A O S P E D A L I E R A S A N TA M A R I A D I T E R N I I m m i g r a z i o n e e s o l i d a r i e t à - PL Seri N U O VA G A L E N O L’assegno di mantenimento... si prescrive? - M P e t r o c c h i FA R M A C I A B E T T I E n e a A r m e n i L ’ i n g e g n o e i l m a r c h i n g e g n o - S Lupi C M T - C O O P E R AT I VA M O B I L I T À T R A S P O R T I Il gabbiolino - V Grechi F O N D A Z I O N E C A S S A D I R I S PA R M I O UGO ANTINORI - F Calzavacca G L O B A L S E RV I C E SUPERCONTI

Cosa deve pensare il cittadino che ha sperato in qualcosa di nuovo che portasse la città a un rilancio, a una nuova identità che non fosse più solo quella di “città operaia”, a una nuova cultura sulla strada del progresso e dell’innovazione e, invece, ha assistito allo spreco di denaro pubblico e a un nulla di fatto? Alla fine si sfiducia, resta scettico e ironizza su qualunque iniziativa, tanto che rimane a guardare, indifferente e spesso sarcastico, apatico e molto spesso arrabbiato o lavora in solitudine, allontanato dalle istituzioni e lontano da esse. È difficile riconquistare i cittadini, ma si può. Bisogna saperli ascoltare e renderli partecipi, non con le promesse, ma con i fatti, cercando di uscire da questo torpore, questo vegetare che da anni immobilizza la città o che ha affossato quelle idee e quei progetti che erano innovativi e che avevano le carte in regola per dare una svolta all’identità culturale di Terni. La candidatura di Terni capitale della cultura era una grande sfida, ma anche un’occasione per ascoltare, per aggregare professionalità ed esperienze, per rendere orgogliosi i cittadini e farli sentire attivi, per riscoprire insieme le qualità -ormai assopite-, la storia, la bellezza della città, magari con una maglietta stampata con la scritta “Terni capitale” o “Terni è bella, anzi bellissima”, con le bandierine e con un libro delle idee in piazza. Le commissioni vanno bene, ma restano al chiuso, lontane, inaccessibili ai più, asettiche, come asettici sono i comunicati stampa. Ci serve un po’ d’amore in più per questa città e per riconquistarla! Loretta Santini

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PA G I N A

Mensile di attualità e cultura

Registrazione n. 9 del 12 novembre 2002, Tribunale di Terni Redazione: Terni, Via Anastasio De Filis, 12 --- Tipolitografia: Federici - Terni

DISTRIBUZIONE GRATUITA Direttore responsabile Michele Rito Liposi Vicedirettore Luisa Romano Editrice Projecta di Giampiero Raspetti

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Direttore editoriale Giampiero Raspetti Grafico Francesco Stufara

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Le collaborazioni sono, salvo diversi accordi scritti, gratuite e non retribuite. È vietata la riproduzione anche parziale dei testi.

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Rumori... distensivi Non tutti i rumori sono uguali. Spesso tale termine viene associato alle parole fastidio o disturbo, perché è questo che generalmente produce. Tecnicamente consiste nelle variazioni di pressione sonora che vengono percepite dal timpano dell’orecchio umano. In ambito scientifico i diversi tipi di rumore possono essere quantitativamente e qualitativamente caratterizzati, studiandone lo spettro. Una prima differenza fondamentale è quella tra suono e rumore caratterizzata anche dalla sua periodicità. L’orecchio umano è un organo molto sensibile in grado di percepire una gamma di frequenze comprese fra 20 Hz e 20.000 Hz. Ma pensando alla vita di tutti i giorni, vi è mai capitato di ascoltare determinati rumori e di rilassarvi inspiegabilmente? Pensate quando i vostri figli neonati si addormentavano con più facilità con un phon acceso o quando a casa di amici viene improvvisamente acceso l’aspirapolvere nelle vicinanze di un pargoletto poco propenso ad addormentarsi all’ora giusta: si chiama rumore bianco e prende questo nome dalla sua analogia con la luce bianca. È risaputo che il colore bianco è la somma di tutti i colori dell’iride, allo stesso modo il rumore bianco deriva dalla somma di tutte le frequenze udibili in maniera quasi costante e cadenzata. Ed è proprio il fatto che questi suoni siano ripetitivi e o ritmici a far sì che il cervello non li registri come fonte di disturbo, anzi… È infatti scientificamente provato che il rumore bianco, in sé, abbia un effetto distensivo, non solo, pare anche che contribuisca ad innalzare il livello della concentrazione. Il suo vantaggio è proprio quello di comportarsi come una sorta di “cuscino sonoro” e quindi coprire eventuali suoni esterni, più fastidiosi. E in America, in molti uffici hanno già installato generatori di rumore bianco per favorire il rilassamento e la concentrazione dei lavoratori e molte mamme, invece del più comune phon o aspirapolvere, lo usano per far addormentare i loro bambini.

Fuori dai laboratori, però, il rumore bianco puro non esiste, perché nulla è effettivamente in grado di generare uno spettro uniforme per tutte le frequenze da zero a infinito, e quindi il rumore bianco è generalmente riferito ad un intervallo di frequenze. Il rumore bianco è solo uno dei tanti. Esistono vari tipi di rumore associati anch’essi ad un colore e caratterizzati dal fatto di avere alcune componenti dello spettro prevalenti sulle altre. Per citarne alcuni: rosa è più delicato di quello bianco e risulta più simile ad una cascata d’acqua, quindi con effetto antistress mentre marrone è quello riferibile ad una cascata in lontananza e risulterebbe più rilassante di tutti, un po’ effetto love&peace per la mente e il corpo. Si passa poi al rumore rosso che viene percepito come un rimbombo molto basso tipo una vibrazione e trova un grande impiego nella musica elettronica e nella musica da film. Il rumore blu, invece, è il complementare del rumore rosa e suona come una sorta di sibilo stridulo. Infine il rumore violetto, complementare del marrone, produce un effetto sibilante ed è più fastidioso del blu. Quando il rumore di fondo nel quale siamo immersi diventa intollerabile, allora prende il sopravvento sulle nostre normali abitudini, peggiora la nostra qualità della vita e provoca conseguentemente danni alla salute al pari di altri agenti esterni. Negli Stati Uniti in particolare si sta sempre di più diffondendo in ambito industriale, la buona pratica del buy quiet, ovvero del “compra il più silenzioso”. Viene messo in luce come l’acquisto di macchinari, strumenti, sistemi produttivi meno rumorosi porti benefici non solo alla qualità della vita dei propri dipendenti, ma anche vantaggi economici per l’azienda. E questo può essere applicato facilmente anche in casa nostra ogni volta che possiamo cambiare elettrodomestici, sempre che questi non svolgano la fondamentale funzione di far addormentare nostro alessia.melasecche@libero.it figlio.

I Colori dell’Araba Fenice! La nuova Stagione dei Concerti di pianoforte Si apre una nuova Stagione Concertistica nata dal desiderio da cui scaturisce quel senso di libertà creativa, di fervente immaginazione e anche di quella mai doma fantasia, che ci pervade da sempre, sin dall’inizio di tutto. Quando penso alle molteplici forme dell’arte, credo che esse siano modi diversi di incantare, destinate a evocare sentimenti e passioni per renderle quasi tangibili, e comunicarne i fremiti. Da secoli gli uomini cercano di creare rapporti che avvicinino le arti, perché queste non restino linguaggi isolati, ma ciascuna si rafforzi con l’apporto dell’altra: la musica, la letteratura, il canto e per questa 19a Stagione, i “Colori”. Il padre del romanticismo, Goethe, scrisse: che esista una certa relazione del suono con il colore, questo fu sentito sempre. Un pensiero noto da molto tempo: pittori e musicisti hanno sempre cercato un ponte di collegamento fra le loro arti compositive ed espressive. Scienziati e fisici hanno dato interpretazioni sul legame fra i sette colori dello spettro e le note musicali. Ecco allora materializzarsi il “Kolors” che ci affiancherà in questa Stagione. Un viaggio che attraversa l’animo umano e le sue composizioni musicali, anche correndo il rischio di non riuscire a dare una spiegazione coerente del legame che esiste o può esistere, fra le note musicali e un colore ben definito. Eppure la nostra è una sfida a viso aperto, animati da quelle sensazioni di emozione, passione e innamoramento che ci spingono

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ad intraprendere nuove strade, a ogni Edizione della rassegna concertistica della nostra Associazione Culturale. Vogliamo continuare a proporre al nostro pubblico, idee e progetti che suscitino il piacere di seguire i concerti dell’Araba Fenice. La musica per prima, ovvio: e attraverso di essa gli artisti che la eseguono e la interpretano. Il pianoforte poi: lo strumento di Chopin, di Liszt, di Schumann, di Beethoven, di Brahms, di Rachmaninoff e di tutti gli altri compositori e pianisti fino ai giorni nostri. Il pianoforte, quell’immortale strumento la cui “voce” suscita sentimenti che affondano nelle più intime profondità creando onde di azzurri pensieri. Sempre Goethe ha scritto: ci sono diverse specie di fiori. Ce ne sono anche alcuni che possiamo raccogliere comodamente durante una passeggiata. Vi diamo dunque il benvenuto alla nuova Stagione Concertistica dell’Araba Fenice, il cui programma completo è pubblicato anche su questo numero del mensile La Pagina. Una Stagione che si apre a tutti voi con l’oro, prezioso colore, per il prezioso e talentuoso pianista Romain Descharmes, per poi spalancarsi definitivamente sul verde inglese di un assolato prato e sul giallo dorato di un campo di grano. Apriremo il nostro “primo” sipario e voi sarete i nostri ospiti più illustri. Siederete comodamente nelle vostre poltrone e ascolterete la musica che, ci auguriamo, libererà la vostra mente, sui colori del mondo. Bruno Galigani Presidente Associazione Culturale Araba Fenice


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La bambina che amava la scuola In una giornata insolitamente piovosa Djenabou, una bambina camerunense di dieci anni, sta tornando a casa tutta orgogliosa degli ottimi voti presi a scuola. Ad aspettarla, insieme ai suoi genitori, trova un uomo sui 40 anni, suo padre le comunica che quello sarà suo marito. Djenabou non capisce cosa sta succedendo, la madre le dice di seguire l’uomo e di stare tranquilla. La bambina si incammina al seguito di questo signore silenzioso che la conduce in una casa dove abitano due donne e sei bambini: sono le mogli dell’uomo con i rispettivi i figli. Il matrimonio viene celebrato velocemente e in gran segreto. Djenabou viene ritirata da scuola senza neanche avere il tempo di salutare i compagni. La prima settimana la passa a pulire e a cucinare, le due mogli la trattano come una schiava e la picchiano. Poi, un pomeriggio, le dicono di lasciare lo strofinaccio e di sdraiarsi, mentre la tengono ferma sopraggiunge il marito e Djenabou è costretta ad adempiere ai suoi primi doveri coniugali. Dopo poche settimane si ammala e nessuno capisce perché non riesca a stare in piedi: è incinta. L’uomo teme che la sposa bambina gli muoia in casa portando sventura e, soprattutto, creando un problema con la legge poiché i matrimoni precoci in Camerun sono proibiti, così la prende in braccio e la riporta alla casa paterna, ma i genitori non ne vogliono sapere, ormai lo sposo deve provvedere a lei in tutto e per tutto. Mentre gli adulti litigano a voce alta, Djenabou rimane

accovacciata in terra con la febbre alta. Il padre sbatte la porta di casa, il marito se ne va lasciandola lì, Djenabou piange tutta la notte e la mattina dopo tenta di uccidersi. La sua compagna di scuola, che dal giorno precedente la osserva nascosta dietro la finestra, corre in soccorso e la porta in casa. Bisogna tener conto che per molte famiglie l’usanza dei matrimoni precoci è un sistema per mettere in salvo le figlie: quando in un paese si crea una situazione di instabilità a causa di una guerra o di una carestia, le più giovani sono le prime vittime di aggressioni e rapimenti; a volte a violentarle sono i vicini di casa o gli amici di famiglia, i quali approfittano della confusione che si crea nei campi di accoglienza, altre volte sono i guerriglieri dei gruppi armati, che si portano via le ragazze per impiegarle prima come mogli poi come merce sul mercato della prostituzione. E la scuola non viene considerata più un posto sicuro da quando il gruppo terroristico Boko Haram due anni fa ha rapito duecento studentesse in Nigeria senza che la polizia intervenisse, un evento traumatico che ha spinto molti paesi dell’Africa sub-sahariana a ritirare le figlie dagli studi per darle in matrimonio. Un abito a losanghe carico di colori rosso, giallo e verde è l’ultima creazione che Djenabou mostra orgogliosa nel negozio di sartoria che ha aperto in proprio. Suo figlio frequenta la stessa scuola a cui lei ha dovuto rinunciare da bambina e nel tempo libero la accompagna in giro per i villaggi a spiegare l’importanza dell’istruzione per le bambine. Djenabou non ha più rivisto suo marito. Francesco Patrizi

A llezzione de cavallu La majétta e lu mantéllu lu frustìnu de bbudéllu la ggiacchétta doppiupettu de mi’ nonnu c’éo l’erméttu... li stivàli arlucidàti pe’ llumàche l’éo addopràti... li carzùni co’ lu sbuffu sporchi d’erba... sopre ‘n ciuffu... co’ li guanti senza ditu pe’ vvestimme ero sfinitu. Me la vedo tantu scura... qui ‘ncumìncia l’avventura che ppotrebbe fini’ a ppeggiu ... so’ ‘rrìatu a lu manéggiu. Quanta gente e cche stalloni... se vvidissi che ccagoni... mica ‘ntènno quilli equini... ma ‘lla specie de fantini che pparéono gonviati e ggallitti ‘namidati. Quasi stéo pe’ vvergognàmme ...ero prontu p’argiràmme ...ma ‘na pacca su la spalla ...dice è ppronta la cavalla. Pija molla aggrànvia arràffa... co’ lu piede su la staffa ho parecchiu zzombettàtu e ‘ppo’ ‘n sella so’ assettàtu

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ma ‘ncastrànno... se cche ppena... bracciu e mmano ‘n fonnu schiena. Drittu ‘n piedi me so’ arzàtu e qquill’artu ho libberàtu... ma ‘lla mossa me tte fa... lu cavallu abbraccica’. Eccu prontu pe’ pparti’... dice fatte tu sinti’... lu cavallu sembra niru téni ‘n bo’ le bbrije ‘n tiru ... s’éssu vòle anna’ pe’ janna faje véde chi ccommànna. Mancu ‘éo ‘ncuminciatu ch’ero tuttu ‘n bo’ accallàtu... lu gargagnu co’ ccostànza io je bbatto su la panza... come gnente ‘lla cavalla l’erba ‘ntorno stéa a bbrucàlla... io cercào a falla smette... me tt’ha fattu tre pporbétte...

a la fine m’ha trottatu costu costu lu steccatu. Me paréo ‘n bacarozzu che cciavéa lu singhiozzu... quanno propiu a ‘n certu puntu ... mo’ ve faccio lu riassuntu ... ‘lla cavalla stéa ‘n calore m’è ppartita co’ ‘n ardore... prima pocu mo’ ‘n bo’ troppu... senza smette a lu galoppu. Penzolào ai quattro venti e bbattéo anche li denti... ...mica tantu pe’ spaventu ma sortantu fòri tembu... la cavalla venìa su... io le jiappe mannào ggiù. Dopo ‘llu ‘ncassettàmentu ch’ ha causatu quistu eventu... io penzanno a mmoje e ffije... ho ‘rtiratu più le bbrije... lu cavallu s’è ffermatu mentre io l’ho ‘rbraccicàtu. Me tt’ha datu ‘nu sgrullone ... io pe’ tterra a ppecorone... la cavalla s’è ‘mbennàta e mm’ha fattu ‘na nitràta ... ‘lla cavalla pare stracca... statte carmu non t’acciàcca! ‘Na volata a ccala’ ggiù ma lu bellu è ‘rmonta’ su... doppo questa ribardànza... la lezzione abbasta e avanza. paolo.casali48@alice.it


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AZIENDA OSPEDALIERA

Struttura Complessa

Dott. Camillo Giammartino Re s p o n s a b ile della S. C. di Endocrinologia d e lla A z ien d a O s p e d a lie r a “S. Mar ia” di Te r ni

La struttura complessa di Endocrinologia dell’Azienda Ospedaliera Santa Maria di Terni si occupa delle patologie endocrine con particolare riferimento a quelle che riguardano la tiroide, l’ipofisi, il surrene, il metabolismo calcio-fosforico (osteoporosi) ed i tumori neuroendocrini ben differenziati. L’endocrinologia è una delle discipline mediche che più ha conosciuto negli ultimi anni un aumento nella richiesta di valutazione specialistica da parte degli utenti. Senz’altro molto è dipeso dal grande aumento delle malattie tiroidee, tanto che è ormai divenuta prassi corrente che per molti disturbi venga valutata la funzionalità tiroidea. Questo dato è ricorrente nella letteratura scientifica sull’argomento, a conferma del fatto che vi è una chiara consapevolezza del ruolo svolto da questa disciplina nella gestione della salute di una persona. D’altra parte i dati epidemiologici danno ragione di queste affermazioni, infatti dalla letteratura scientifica emerge una notevole prevalenza nella popolazione delle malattie tiroidee (circa il 10-15% della popolazione soffre di malattie tiroidee), senza contare il gozzo nodulare che in alcune aree può raggiungere il 50-60% della popolazione. L’attività della struttura complessa di Endocrinologia è articolata, nell’arco della settimana, su 3 ambulatori divisionali per visite specialistiche, 3 ambulatori per ecografia tiroidea ed un ambulatorio per agoaspirato tiroideo, un ambulatorio per l’osteoporosi, un ambulatorio tiroide e gravidanza. A questo si aggiunge una attività di Day Service quotidiana attraverso la quale sono organizzate le prestazioni diagnostiche, sia di tipo emato-chimico sia di tipo strumentale, che consentano di dare completa risposta diagnostica e terapeutica al paziente con problemi di tipo endocrinologico. Infine, è presente una attività ambulatoriale quotidiana gestita direttamente dalla struttura per la presa in carico di quei pazienti che hanno necessità di controlli specialistici ravvicinati. La struttura dispone anche di 2 posti letto dedicati, situati presso il reparto di Geriatria. Tali posti letto sono utilizzati per la gestione delle condizioni più complesse che necessitano di uno stretto monitoraggio clinico e laboratoristico o di particolari procedure terapeutiche. Per quanto riguarda le patologie tiroidee, oltre alla valutazione specialistica, ecografica ed esecuzione di agoaspirato, a Terni, da molti anni, è possibile eseguire controlli nei pazienti sottoposti ad intervento chirurgico per neoplasia tiroidea. La sua prevalenza è in chiaro aumento, ma una precoce diagnosi ed una corretta gestione consentono un netto miglioramento delle possibilità di cura e, spesso, non è azzardato parlare di guarigione. Tali controlli consistono in prelievi ematici, esami ecografici e scintigrafia total body avvalendo dell’uso del TSH ricombinante e quindi non più con il vecchio metodo della sospensione della terapia con L-tiroxina. È presente, come già detto, un ambulatorio dedicato alla patologia tiroidea in corso di gravidanza, proprio per la particolare importanza e le ripercussioni che può avere una patologia funzionale ed autoimmunitaria tiroidea non gestita nel corretto svolgersi della gravidanza sia per la madre sia per il feto. È importante ricordare che sempre maggiori evidenze scientifiche indicano che una donna affetta da malattie

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autoimmuni tiroidee, ipotiroidismo o ipertiroidismo, ha la possibilità di condurre a termine la gravidanza senza alcuna conseguenza per sé e per il bambino, purché la patologia tiroidea sia correttamente gestita. Un altro aspetto, su cui già da anni si è attivata una proficua collaborazione con i colleghi oculisti, è rappresentato dalla esoftalmopatia basedowiana, una malattia infiammatoria autoimmunitaria che colpisce l’occhio ed i muscoli che ne consentono il movimento in corso di un tipo di ipertiroidismo: la malattia di Basedow-Graves. È una malattia che richiede tempi spesso lunghi, che può incidere profondamente sulla qualità di vita del paziente e la cui gestione richiede necessariamente una stretta attività multidisciplinare. L’ambulatorio dedicato alla osteoporosi, una patologia che a causa del progressivo invecchiamento della popolazione sta avendo un impatto ed un costo sociale e sanitario sempre più alti, è stato attivato da qualche anno per dare una risposta specialistica ad un grande problema epidemiologico in cui una corretta prevenzione ed una altrettanto corretta terapia sono fondamentali per evitare o quantomeno ridurre la possibilità di fratture ossee. Una delle caratteristiche del lavoro dell’endocrinologo è proprio quella di confrontarsi quotidianamente con altri specialisti in virtù della crescente evidenza di patologie endocrine (soprattutto tiroidee) indotte dalla terapia con farmaci (ad esempio di tipo cardiologico, oncologico, psichiatrico). Sebbene dal punto di vista epidemiologico le patologie tiroidee siano quelle a maggior impatto nelle loro varie declinazioni (gozzo nodulare, malattie infiammatorie, ipotiroidismo ed ipertiroidismo), l’endocrinologia non è


S A N TA M A R I A D I T E R N I

a di Endocrinologia Équipe Struttura Complessa di Endocrinologia Responsabile Dott. Camillo Giammartino Dirigenti Medici Dott.ssa Federica Burzelli Dott.ssa Eugenia Sacco Personale infermieristico Patrizia Sposino, Giuliana Terzaroli, Stefania Tomassoni Operatrice socio-sanitaria Fiorella Liti Collaborazioni ambulatoriali Dott. Roberto Macaluso (visite specialistiche ed ecografie) Contatti: tel. 0744-205387 | fax 0744-205419 | e-mail: c.giammartino@aospterni.it

Fotoservizio di Alberto Mirimao

solo patologia tiroidea, ma comprende anche lo studio e la cura di altre ghiandole endocrine. Nella struttura complessa di Endocrinologia di Terni sono correntemente gestite le patologie ipofisarie (rappresentate da alterazioni della funzionalità dell’ipofisi e da tumori benigni come gli adenomi secernenti e non secernenti), quelle surrenaliche (inquadramento diagnostico dei noduli surrenalici), fino ai tumori neuroendocrini ben differenziati, patologie rare e di gestione molto impegnativa perché richiedono strumenti diagnostici e terapeutici estremamente sofisticati, alcuni dei quali presenti solo in pochi centri italiani, centri con cui la struttura di Endocrinologia di Terni collabora da anni. Anche in questi casi l’integrazione con altri specialisti è parte integrante dell’approccio diagnostico e terapeutico, secondo un modello multidisciplinare consolidato già da anni nell’Azienda Ospedaliera di Terni. La gestione della patologia nodulare ipofisaria richiede la collaborazione di esperti neuroradiologi e di esperti neurochirurghi, anche se il ruolo dello specialista endocrinologo è sempre più necessario per la possibilità di utilizzare nuovi farmaci per il controllo della crescita degli adenomi ipofisari. Inoltre, la struttura complessa di Endocrinologia del Santa Maria di Terni è Centro di riferimento regionale per la diagnosi e la terapia del Deficit di Ormone della Crescita nell’adulto. Tale ormone, che ha evidentemente un ruolo chiave nello sviluppo della persona, mantiene anche nell’adulto un ruolo critico nel buon equilibrio metabolico; la sua carenza, infatti, rappresenta un importante fattore di rischio cardio-vascolare. Lo studio e la gestione della patologia nodulare surrenalica e dei tumori neuroendocrini ben differenziati (prevalentemente

carcinoidi polmonari) non potrebbe aver luogo senza laboratori attrezzati, radiologi, medici nucleari, anatomo-patologi esperti, chirurghi toracici, equipe chirurgiche dedicate e, laddove necessario, una stretta collaborazione con i colleghi oncologi. A Terni tale attività è presente da molti anni, tanto che vi sono pazienti operati per carcinoide polmonare seguiti da oltre 15 anni. Va sottolineato che l’endocrinologia è una disciplina che si occupa di patologie molto diffuse nella popolazione (prime fra tutte quelle tiroidee) e pertanto richiede, oltre ad un grande lavoro di multidisciplinarietà, un particolare impegno nella definizione di percorsi diagnostico-terapeutici che coniughino appropriatezza prescrittiva e terapeutica, coinvolgendo gli endocrinologi del territorio ed i medici di medicina generale. Da qui l’importanza dell’integrazione tra ospedale ed il territorio. Infatti, se per alcune situazioni è necessario un supporto di tipo specialistico e tecnologico tale per cui l’Azienda Ospedaliera deve farsi carico del paziente, per altri casi è molto più utile per il paziente stesso essere gestito dallo specialista nel territorio e dal medico di medicina generale, chiaramente secondo criteri condivisi secondo le migliori evidenze scientifiche. A tal proposito già da alcuni anni è stato redatto un percorso diagnostico-terapeutico dedicato alle patologie tiroidee. Infine un ultimo aspetto di fondamentale importanza, nell’ottica sia della prevenzione sia di una corretta informazione dell’utenza, è rappresentato dalla collaborazione con associazioni di pazienti e altre associazioni. In particolare vanno ricordate l’AUMaT (Associazione Umbra Malati Tiroidei), l’Associazione Nazionale Finanzieri d’Italia e l’AVIS (sezioni di Arrone e di Montecastrilli). Insieme ad esse sono stati organizzati molti eventi (Settimana Mondiale della Tiroide, convegni, screening ecografici tiroidei). Infine l’attività della Struttura si avvale della collaborazione di un altro specialista, il Dr. Roberto Macaluso, che pur essendo assegnato ad altro Reparto Ospedaliero, svolge sia visite specialistiche che ecografie nell’ambito della attività ambulatoriale endocrinologica.

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I KURDI - un volgo disperso parte I

Ankara gari, stazione di Ankara 10 ottobre ore 8.30. La manifestazione pacifica di protesta indetta dai partiti di sinistra e dal partito curdo moderato Hdp è bruscamente interrotta da due laceranti esplosioni. Una vera carneficina. La conta dei morti sale in maniera esponenziale: prima 30, poi 86 alla fine 95 con 200 feriti alcuni dei quali gravi. Le foto di quei cadaveri sul selciato della stazione sono una tragica immagine della sanguinosa mischia siriana che dilaga al di là dei confini e coinvolge i paesi vicini. La democrazia turca ha finito la sua corsa qui sul piazzale antistante un edificio colossale come vorrebbe essere la Turchia di Erdogan, ma adesso pericolante e macchiato di rosso per il sangue di quasi cento pacifisti curdi che giacciono a terra straziati dalle esplosioni. Il più grave attentato nella storia recente della Turchia, sebbene preceduto da un altro avvenuto il 20 luglio a Saruc, città di confine, costato la vita a 33 giovani curdi dell’ Hdp che a giugno ha ottenuto il 13% entrando per la prima volta in parlamento e rovinando il piano dell’attuale leader Erdogan di costituire una repubblica presidenziale. Il governo turco ha subito attribuito la responsabilità all’IS ma anche al partito estremista curdo PKK che però ha proclamato un tregua unilaterale in vista delle elezioni che si svolgeranno il primo novembre. La piazza, nonostante esplicito divieto, ha risposto invece con un’ondata di proteste, accusando il governo di Erdogan di complicità nella strage. La Turchia è contro il regime di Assad, contro il sedicente califfato, ma anche contro il potere curdo che si sta affermando nella regione siriana del Rojava. La situazione quindi è molto complessa ed intricata e sta divenendo sempre più violenta, mettendo in pericolo i delicati equilibri interni dello stato. È certo che una eventuale destabilizzazione della Turchia, considerata la sua posizione strategica che la vede come un ponte tra Oriente ed Occidente, aprirebbe scenari dagli esiti imprevedibili. Comunque stiano le cose sono i Curdi ad aver pagato il tributo di sangue più alto. Dopo averli dispersi ai quattro venti, Turchia, Iran, Iraq e Siria, la storia si è divertita a rimetterli al centro della scena: una scena di guerra e terrorismo. Ma allora sorge spontanea una domanda: chi sono i Kurdi e perché sono così avversati non solo dalla Turchia, al punto da combatterli con tanto accanimento? L’unico modo per dare una spiegazione è ricorrere alla storia. Se cercate su qualsiasi dizionario o su internet troverete senz’altro la parola Kurdistan, ma tale nome esiste solo sulla carta come generica definizione di un’area etnico-culturale, ma ad esso non corrisponde, come ci si aspetterebbe, nessuno stato, nessuna entità politica. Per Kurdistan si intende una vasta area di 440.000 kmq divisa tra Turchia, Iraq, Iran e Siria, ma la maggior parte di essa è situato in Turchia occupando il 30% del suo territorio. Area strategicamente rilevante per la ricchezza di petrolio e le risorse idriche, ma si trova in una situazione di sottosviluppo a causa della mancanza di unità politico-amministrativa. Il 75% del petrolio irakeno proviene dal Kurdistan (zona di Mossul), gli unici giacimenti della Turchia e più importanti della Siria si trovano in Kurdistan, lo stesso dicasi per la zona

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abitata dai Kurdi in territorio iraniano. Dopo gli Arabi e i Turchi sono il gruppo etnico più numeroso del vicino Oriente. Sono un popolo antichissimo appartenente al gruppo linguistico indoeuropeo, coma attesta la loro lingua. Le fonti cuneiformi dei Sumeri citano il regno dei Qurti come loro nemico; circa l’800 aC si sarebbero fusi con i Medi, fondatori insieme ai Persiani di un vastissimo impero. Il greco Senofonte cita il regno dei Carduchi, il geografo Strabone parla della Corduene, regione confinante con l’impero di Alessandro. Pastori nomadi abitanti una terra di confine, si scontrarono spesso con i popoli vicini: Armeni, Persiani poi Parti e furono spesso alleati dei Romani durante il periodo imperiale. Nel V sec. furono cristianizzati, nel VII sec. si convertirono nella quasi maggioranza all’Islam formando emirati semiindipendenti. Nel 1639, con il trattato di Zuhab, il Kurdistan venne spartito tra l’impero Ottomano e l’Iran dei Savafidi. Da questo momento il Kurdistan non esisterà più se non nel nome. Inizia un cammino lungo e doloroso fatto di persecuzioni, massacri, nel tentativo non solo di annientarli politicamente, ma anche di cancellare la loro cultura, vietando di parlare la loro lingua in pubblico, di aprire scuole, stampare giornali. La questione territoriale curda si riaccende con la fine dello Impero Ottomano che, al termine della prima guerra mondiale, con il trattato di Sévres nel 1920 veniva fortemente smembrato. Tale trattato nei suoi art. 6164 garantiva ai Kurdi un loro stato indipendente i cui confini sarebbero stati stabiliti dalla Società delle nazioni. Concessioni analoghe erano previste anche per Armeni e per altre minoranze. Ma gli eventi precipitano. A Istambul viene abolito il Sultanato, Kemal Ataturk prende il potere e proclama la repubblica, scoppia la guerra con la Grecia terminata con la sconfitta di quest’ultima. Il trattato firmato a Sévres, non entra in vigore, meritandosi in pieno l’epiteto di trattato di porcellana. Nel 1923 a Losanna viene firmato un nuovo trattato che cancella tutte le clausole del precedente. I Kurdi si trovano il loro territorio diviso tra quattro nuovi stati. Nel 1945 con l’appoggio dell’URSS si forma il Partito democratico curdo. Il 22 gennaio 1946 nel Kurdistan iraniano viene proclamata la Repubblica popolare curda che, dopo il ritiro delle truppe sovietiche, viene occupata dall’esercito iraniano e i suoi vertici politici, compreso il presidente Qazi Muhammad, condannati a morte. I paesi dove risiedono i Kurdi non sono disposti a cedere parti consistenti del loro territorio e hanno negato l’esistenza di un’identità nazionale curda, proibendo non solo la possibilità di aprire scuole, stampare giornali, gestire canali televisivi e stazioni radio, ma anche l’uso stesso della lingua in pubblico. In assenza di normali processi politici, i nazionalisti curdi hanno spesso fatto uso della forza. Lo scontro è stato spesso molto violento, segnato da guerriglia e atti di terrorismo, a cui hanno fatto seguito sanguinose repressioni come l’uso di armi chimiche ad Halabja in Irak contro i ribelli curdi da parte di Saddam Hussein. Questa è in breve la storia del popolo curdo, un popolo potenzialmente ricco, ma che si trova incastrato in quattro stati. Nel prossimo numero esamineremo la sua situazione in Turchia, Irak, Iran, Siria. Pierluigi Seri


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L’assegno di mantenimento si prescrive? È ormai noto che la prescrizione sia un modo di estinzione dei diritti soggettivi: il diritto scompare se il titolare non lo esercita per un certo periodo di tempo, determinato di volta in volta dalla legge; tuttavia, il trascorrere del tempo si interrompe e l’inattività del soggetto diventa irrilevante in alcuni casi individuati dalle norme che intendono, in tal modo, evitare che un meccanismo automatico di questo tipo non tenga conto di fatti che possono essere molto rilevanti. È bene subito precisare che il diritto all’assegno di mantenimento, globalmente inteso, non si prescrive. Ciò che si può perdere per l’inattività della parte, ossia per non averlo chiesto nel termine dei cinque anni, sono esclusivamente i singoli ratei mensili, con termine che decorre dalle singole scadenze. Ai sensi dell’art. 2941 c.c. la prescrizione resta sospesa tra i coniugi. Ma questo vale anche per i separati che rimangono coniugi fino a che non interviene la dichiarazione di cessazione degli effetti civile del matrimonio, cioè il divorzio? Nel caso di separazione personale, esiste un forte contrasto in seno alla Corte di Cassazione, circa la possibilità che la prescrizione del credito dovuto per l’assegno di mantenimento rimanga sospesa. In base all’orientamento tradizionale, la prescrizione rimane sospesa fintanto che non viene meno il rapporto di coniugio. Questo perché l’istituto della prescrizione nasce per garantire la certezza dei rapporti giuridici e, nel caso di separazione personale, il rapporto coniugale è ancora esistente, essendo pacifico che ciò che si verifica è solo una attenuazione del vincolo, per la cessazione del quale occorre attendere il divorzio. Questo orientamento è stato fatto proprio dalla Cassazione Civile con la sentenza n. 7533 del 01 Aprile 2014. La Suprema Corte, non ha, tuttavia, mancato di pronunciarsi in modo totalmente difforme ritenendo l’articolo 2941 c.c., come riferito esclusivamente al rapporto coniugale propriamente inteso, con esclusione, quindi, del momento della separazione personale. Il contrasto si è addirittura inasprito con una ulteriore sentenza, quella del 20 Agosto 2014, n. 18070, con la quale la Suprema Corte ha affermato che l’art. 2941 c.c. non trova applicazione al credito dovuto per l’assegno di mantenimento in caso di separazione personale. Secondo il ragionamento della Corte, durante la separazione, non può sussistere nessuna riluttanza a convenire in giudizio il coniugie per vedersi pagato quanto dovuto nel timore di turbare l’armonia familiare già ampiamente compromessa dalla separazione. La dottrina, ossia gli studiosi del diritto, non hanno espresso finora una opinione chiara sulla questione lasciando gli operatori con pochi, per non dire nulli, punti di riferimento utili a fornire risposte attendibili. Ad ogni modo, costituisce principio ovvio, cui è sempre bene ispirarsi, quello di non far trascorre inutilmente il tempo quando è opportuno o anche solo utile intervenire. E ciò per la ragione, evidente, che così si elimina ogni problema di prescrizione/decadenza, ma soprattutto perché è più facile recuperare il dovuto. Immaginate la difficoltà di recuperare anni e anni di mantenimento non pagati. E questo vale sempre, si tratti di un danno subito, di una richiesta di risarcimento, di denunciare un vizio, di farsi restituire un bene mobile e persino un bene Avv. Marta Petrocchi legalepetrocchi@tiscali.it immobile. Buona lettura del Codice civile!

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Enea A Arr m e n i Inventore del cambio di velocità della bicicletta

L’ i n g e g n o e i l m a rc h i n g e g n o Qualche tempo fa ricevo una telefonata. Dall’altro capo del filo una persona sconosciuta dalla voce gentile e rassicurante: era la signora Maria Armeni, una donna dai modi garbati alla quale il lento incedere del tempo conferisce un tono dolce e rassicurante. È certamente una professoressa, non mi sbaglio. È anche di più, una ricercatrice e studiosa della propria terra: Piediluco. Lo apprendo dopo, notando subito però, il trasporto e la rigorosa precisione storica con cui mi narra della sua famiglia. Ci incontriamo in un bar a Terni ed iniziamo a parlare. Vengo così a conoscenza della bella storia del papà Enea Armeni e del nonno Carlo. Mi appassiono a queste due figure di artigiani, che scopro essere autentici protagonisti del proprio tempo nel natio borgo di Piediluco. Enea Armeni (1909-1983) rappresenta infatti uno degli esempi più significativi di come Terni sia stata forgia di elevate eccellenze professionali. È stato proprio Enea, un giovane piedilucano, specializzato nei motori a scoppio, il primo a rivoluzionare il modo di andare in bicicletta, alla fine degli anni venti, con l’invenzione del cambio di velocità. Aveva alle spalle una profonda conoscenza dei segreti della lavorazione del ferro, essendo figlio ed erede dell’officina-fonderia del padre Carlo, risalente all’ottocento, censita come bottega artigiana centenaria nel 1961, in occasione del primo centenario dell’Unità d’Italia, ed a cui per l’occasione fu conferita una medaglia d’oro. L’idea di progettare un meccanismo per rendere più agevoli gli spostamenti in bicicletta, specialmente in salita, deve essergli sorta proprio nel percorre la faticosa salita che separava l’officina dalla propria abitazione. Ecco allora l’invenzione del “cambio di velocità per biciclette”. Il Ministero dell’Economia Nazionale, in data 8 marzo 1930, tramite l’Ufficio della Proprietà Intellettuale, gli rilasciava il Brevetto Industriale n. 272376 in merito ad un “cambio di velocità per biciclette”, di cui, il 3 aprile del 1928, aveva fatto richiesta, corredandola dei relativi disegni tecnici e di un testo esplicativo. Il noto corridore ed imprenditore Tullio Campagnolo (Vicenza 1901-1983) che tanta fortuna avrà con l’applicazione della invenzione meccanica, soltanto il 10 Luglio 1931, avrebbe ottenuto dallo stesso ministero l’attestato di “Privativa Industriale e di Complemento” relativamente ad un “tendicatena automatico per cambio di rapporti di velocità”. Per comprendere l’intima natura di Enea Armeni occorre sapere che, nel presentare il suo elaborato per la richiesta del Brevetto, rivolse la sua attenzione principalmente all’aspetto intellettuale, non avanzando successivamente alcuna rivendicazione circa i diritti di sfruttamento industriale ed economico. Enea coltivò uno spirito inquieto ed esuberante. Partecipò in gioventù a gare ciclistiche locali ed amatoriali, con l’intenzione di competere al Giro d’Italia (all’epoca si dovevano sostenere in proprio le spese e a lui mancavano i soldi necessari). Forse l’impegno fisico necessario in questo genere di competizioni sportive stimolò la sua intuizione tecnica. Le biciclette avevano -come lui diceva- la “rocchettina fissa”, ovvero gli ingranaggi dei pedali che giravano continuamente. Ma sono proprio gli studi effettuati, riguardanti la matematica, la geometria, il disegno, la fisica e la meccanica applicata, unitamente alla perizia nella lavorazione del ferro a permettergli di elaborare il congegno ed a costruire, nell’officina del padre Carlo, le prime biciclette dotate di un cambio di rapporti. Di forti ideali socialisti, trasmessi dal padre, si misurò in diverse attività economiche, con un occhio sempre attento ai suoi collaboratori, attraversando le peripezie di una guerra coloniale e di una mondiale. Oltre che inventore e costruttore di velocipedi, fu titolare dal 1937 al 1960, di una ditta di autotrasporti. Tra la fine degli anni ’30 e gli inizi degli anni ’40 avviò una fornace di laterizi impiantata sulla proprietà della famiglia. Sono questi gli uomini di cui la comunità ternana ha bisogno, gente operosa ed onesta che ha prodotto benessere con il proprio intelletto e la propria operosità. Molto altro mi ha raccontato la signora Maria, regalandomi il prezioso ricordo dei suoi familiari. Stefano Lupi Delegato Coni Terni Di questo la ringrazio e le sono grato.

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Il gabbiolino Raccontare che in tempi lontani, che si sono protratti suppergiù fino a una cinquantina di anni fa, la caccia veniva praticata con ogni mezzo pur di permettere a ogni famiglia di mettere sotto i denti la tanto desiderata carne, non dovrebbe scatenarci contro nessun animalista. Soprattutto se si ha almeno una vaga idea di cosa voglia dire avere fame, di cosa voglia dire mandare i numerosi figli a scuola, tra le due guerre mondiali, per esempio, a piedi in mezzo ai campi, col sole, con la pioggia e col freddo, con una fettina di pane (se c’era) in tasca per colazione. Se il pane era terminato la sera prima, si poteva rimediare con due fichi secchi, sempre se c’erano; altrimenti niente, bisognava aspettare che cuocesse il nuovo pane e che fosse pronto un piatto di pasta fatta in casa per l’ora del pranzo, sempre se c’era la farina. Torniamo allora a parlare di caccia senza dimenticare il buco allo stomaco provocato dalla fame. Ognuno usava il mezzo che era alla sua portata: oltre ai fucili, che pochi potevano permettersi e oltre alla razzia dei nidi a primavera, c’erano le trappole, le reti, il vischio e il gabbiolino. Il gabbiolino era stato inventato da un acuto osservatore dei volatili e in modo particolare dei pettirossi. Il nonno citava un vecchio detto che recitava così: Il pettirosso di gennaio non è pasto da villano. Voleva dire che a gennaio, per superare i rigori dell’inverno, ogni pettirosso si presentava così ingrassato che, cotto in padella, era una leccornia da re, non da contadino. Secondo altri buongustai anche di ottobre o novembre non era affatto male. Il problema era: come fare a catturare un numero decente di questi volatili per poter riempire la padella e le pance dell’affamata figliolanza? Tutti voi avrete osservato che d’inverno basta andare in giardino, in un parco o magari buttare uno sguardo sull’aiuola spartitraffico, per vedere un saltellante pettirosso in cerca di insetti o di vermicelli. Questo simpatico uccellino, una volta scelto il suo territorio di caccia, non sopporta intrusi, specialmente quelli della propria specie, femmina esclusa, ma solo quando è il tempo dell’accoppiamento. Se un consimile si azzarda a invadere la zona altrui viene aggredito a beccate, colpi di artiglio e d’ala, finché non abbandona il campo. Altra caratteristica del pettirosso è la sua curiosità: se fai qualcosa in un terreno, tipo zappare, radunare foglie o potare puoi essere certo di essere osservato dai suoi acutissimi occhi e appena scorge un insetto, spicca il volo e lo cattura senza temere di avvicinartisi troppo. Questa curiosità era anche la sua rovina. D’inverno bastava fare una buca della grandezza di un pugno ai margini di un bosco, costruirci sopra una trappola con un pezzo di mattone inclinato sorretto in precario equilibrio da piccoli bastoncini e mettere sul fondo un chicco di oliva o una mollica di pane. Dopo alcune ore si passava a controllare: se il mattone era caduto a coprire la buca era probabile che dentro di essa si trovasse il pennuto, vivo ma in trappola. Allora si infilava la mano sotto al mattone, si catturava il pettirosso e si metteva in gabbia. Al momento del passo dei migratori tra ottobre e novembre, mentre il contadino era intento a ricoprire le sementi con l’erpice trainato da una coppia di vacche, uno della famiglia, in genere un ragazzino, posizionava il gabbiolino col pettirosso dentro, ai margini del campo. Intorno al gabbiolino erano state infisse delle bacchette scortecciate di salice o di maggiociondolo ricoperte di vischio appiccicoso. Pani di vischio erano in libera vendita alla fiera di Campitello a fine settembre. Il prodotto acquistato veniva ripulito dalle scorie, scaldato sul fuoco per farlo sciogliere e poi si aggiungeva un po’ di olio di oliva per mantenerlo liquido. Si versava quindi in una pelle di coniglio essiccata che fungeva da otre, poi ci si infilavano, dalla parte della punta, tutte le bacchette che potevano servire. Quando si andava a caccia bastava sfilare una bacchetta per volta inzuppata di colla vegetale e montarla sugli appositi sostegni sistemati intorno alla gabbia. Non c’era pettirosso di passo, cioè in migrazione, che non sentisse il dovere di attaccare briga col consanguineo che svolazzava in modo guerresco entro il capace gabbiolino. Bastava posarsi su una di quelle bacchette per rimanervi invischiato con le zampette e poi anche con le ali. Allora il mini cacciatore sbucava fuori dal suo nascondiglio, catturava gli uccelli impigliati e sostituiva le bacchettine se necessario. Dopo una mezz’oretta gli uccelli rimasti in quel luogo si facevano più guardinghi e paurosi e non cadevano più nella trappola. Allora bastava spostare il gabbiolino di un centinaio di metri, vista la grande abbondanza di volatili in quell’epoca, per trovare altri pennuti digiuni di esperienza. Si andava avanti così finché non faceva notte. A queste lotte di volatili a volte partecipavano anche altri piccoli uccelletti e tutti alla fine rimanevano impigliati col vischio e finivano a sera nella capace padella di ferro della affamata famiglia contadina. A volte la curiosità e l’istinto alla lotta, spiccate caratteristiche per la sopravvivenza, possono ottenere l’effetto opposto se sfruttate da un’altra specie altrettanto curiosa ma più intelligente e affamata. Vittorio Grechi

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Giovedì 26 novembre 2015 alle ore 17.00, presso la sala “Paolo Candelori” di palazzo Montani Leoni, in corso Tacito, 49 - Terni, la Fondazione Cassa di Risparmio di Terni e Narni e l’ISUC (Istituto per la Storia dell’Umbria Contemporanea) presenteranno i volumi Storia dell’Umbria dall’Unità a oggi, a cura di Mario Tosti.

P ro g ra m m a S alu ti Mario Fornaci (Presidente Fondazione Carit) Leopoldo Di Girolamo (Sindaco di Terni) I n terven ti Sergio Sacchi (Università degli Studi di Perugia) Paola Magnarelli (Università di Macerata) Roberto Segatori (Università degli Studi di Perugia) Con clu sion i Catiuscia Marini (Presidente Regione Umbria) S arà presen te il Cu ratore dei volu mi Mar io Tosti Storia dell’Umbria dall’Unità a oggi Poteri, istituzioni e società a cura di Mario Tosti (Marsilio, Venezia 2014, pp. XV+415)

Al centro di questo volume sono posti i complessi rapporti tra le istituzioni politiche, economicosociali e educative e la società, in relazione soprattutto ai mutamenti storici nazionali e a quelli generati dalle forze esogene al contesto regionale, nella ricerca di nuovi equilibri in grado di coniugare, nell’arco di tempo considerato, caratterizzato da una progressiva dilatazione della sfera della partecipazione e dell’impegno politico, la stabilità delle strutture con il mutamento. I saggi presentano un modello sociale che, dall’Unità al fascismo, vede al suo apice ceti dominanti favorevoli al perpetuarsi di un modello economico fondato essenzialmente sull’agricoltura mezzadrile; tuttavia non trascurano di mettere in evidenza la presenza di quei fattori di accelerazione che nel secondo dopoguerra modificheranno profondamente gli assetti politici e le dinamiche sociali: la stampa, tradizionalmente dipendente da testate nazionali, vivrà momenti di effervescenza e di proposta; la massoneria è stata finalmente indagata nella sua capacità di radicamento nella società civile e anche la Chiesa, condizionata nel passato da fattori delimitanti quali il modernismo e il comunismo, si aprirà alla nuova stagione conciliare rinnovando il tessuto religioso e innestandosi perfettamente con la spiritualità da sempre espressione privilegiata dell’Umbria. Scritti di Matteo Aiani, Luciana Brunelli, Augusto Ciuffetti, Fulvio Conti, Antonio Pio Lancellotti, Paolo Marzani, Giancarlo Pellegrini, Paolo Pellegrini, Alberto Stramaccioni, Mario Tosti, Ferdinando Treggiari.

Storia dell’Umbria dall’Unità a oggi Uomini e risorse a cura di Mario Tosti (Marsilio, Venezia 2014, pp. XV+421, ill.

In questo volume, oggetto della riflessione dei vari saggi è il complesso rapporto tra uomo e ambiente, mezzi e sviluppo, in una realtà territoriale dove, nel periodo considerato, l’equilibrio tra risorse e consumi continua a essere elemento determinante delle dinamiche sociali e relazionali e dove l’avvio di processi di modernizzazione provoca spesso pauperizzazione e mobilità. Dal libro emergono i caratteri salienti di una regione che, almeno per tutta la prima metà del Novecento, nonostante la presenza di un vero e proprio centro industriale come Terni, resta una realtà che lega il suo meccanismo di sviluppo solo alla possibilità di sfruttamento delle risorse agricole. Tra Otto e Novecento, sotto la spinta di un ristretto nucleo di agrari illuminati e all’azione di istituzioni agrarie come i comizi e le cattedre ambulanti, l’agricoltura regionale conobbe un intenso processo di modernizzazione che tuttavia rimase privo di unità e in alcuni casi fu all’origine di un intenso fenomeno migratorio. Pare accertato tuttavia che gli accresciuti redditi in agricoltura furono in grado di sostenere un limitato sviluppo nel settore industriale: sorsero o si consolidarono numerose imprese nell’ambito dell’industria metallurgica, meccanica, estrattiva, tipografica. La rottura del tradizionale sistema economico e sociale si avrà essenzialmente solo a partire dagli anni Cinquanta e Sessanta del Novecento, quando le nuove possibilità offerte dallo sviluppo economico italiano e anche da quello regionale si tradurranno in un’accelerazione che modificherà profondamento gli assetti politici e le dinamiche sociali. Scritti di Paolo Belardi, Angelo Bitti, Odoardo Bussini, Luca Calzola, Francesco Chiapparino, Renato Covino, Stefano De Cenzo, Anna Maria Falchero, Ruggero Ranieri, Alberto Sorbini, Manuel Vaquero Piñeiro.

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UGO ANTINORI Presso l’Associazione degli Umbri a Roma, luogo d’incontro dei nostri corregionali residenti nella capitale, si è tenuta con successo una mostra di Ugo Antinori, artista ternano dalle grandi qualità artistiche e dalle altrettanto grandi capacità espressive. La rassegna dal titolo “Incontri” che si è inaugurata con le note suggestive del Maestro Stelvio Cipriani, di cui ricordiamo con nostalgia le musiche per film e i concerti, ha raccolto le ultime esperienze dell’autore nella sua interpretazione delle arti plastiche, frutto di intelligenti contaminazioni fra le sue varianti estetiche. In passato, da ricordare le “architetture” della memoria, le sue sculture realizzate con vari materiali: in pietra, legni, carta d’acciaio, dove non manca la presenza del colore come parte attiva e determinante della forma, sottolineando il senso della creazione. Nella mostra romana l’approccio positivo di Antinori con la materia e la sua duttilità interpretativa si è messo in evidenza con grande risalto. Che cosa sono gli incontri? come ha precisato nella sua presentazione il critico Roberto Rapaccini sono “superfici sulle quali sono stati distribuiti frammenti di legno di tiglio, carboncino, terre acriliche e filo…in esse la cifra pittorica e quella scultorea si fondono perfettamente dando luogo a lavori estremamente coerenti dal punto di vista stilistico”. Ugo Antinori completa il concetto che sta alla base della loro realizzazione con l’importanza che per lui ha avuto la memoria del passato inteso come comunione di ricordi e di attese, narrazioni e prospettive: la realtà e l’utopia, il diario quotidiano ed il gusto dell’immaginazione. Un ensemble solo apparentemente contrastante per il sovrapporsi degli episodi che hanno portato Antinori alla costruzione dei suoi piani di lavoro. L’analisi di queste opere che non intendono essere trasgressive o provocatrici ma momenti di un tempo, di un calendario diuturno e che ci introducono nella vita stessa dell’artista, ai suoi discorsi ed ai suoi silenzi, porterebbe a chiederci quale sia l’interesse primario che lo ha indirizzato alla scomposizione della materia (delle materie) ed alla sua ricomposizione su diversi piani. Ce lo spiega sempre Rapaccini. In questi assemblaggi Ugo Antinori ha raccolto le “annotazioni” sul suo percorso esistenziale cui hanno contribuito i ricordi e le esperienze ma anche le indagini e gli approfondimenti dei termini estetici ed etici che hanno marcato le sue opere. Un compendio di vita dunque, in cui non mancano il piacere intellettuale e la complessità dell’avventura. Ma perché abbiamo ritenuto importante far conoscere ai nostri lettori l’iniziativa romana di un autore ternano? Semplicemente perché una presenza che segna il territorio va messa in risalto per la sua qualità essenziale, il legame che unisce tutti gli umbri, dentro e fuori la loro terra d’origine, un coinvolgimento che ci vede tutti partecipi. Franca Calzavacca

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