Numero 11 9 novembre 2014
Mensile a diffusione gratuita di attualitĂ e cultura
TERNI
Fot o A lber t o Mi r imao
Fondata sul lavoro È la nona parola della Costituzione, e qualcosa vorrà pure dire. Nona assoluta, ma forse la più densa di significato: “L’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro”: articolo 1, comma 1 della prima sezione, quella dei “Principi Fondamentali”. Il significato della parola numero nove è dirompente: la legge fondamentale della Repubblica Italiana dichiara all’inizio la sua essenza più immediata e profonda, scavando “le fondamenta delle fondamenta”, ponendo le basi di quei principi fondamentali che si appresta a introdurre. In quelle sue prime nove parole la nazione dichiara il proprio nome, “Italia”; esprime la propria natura, “Repubblica democratica”; e quindi fa la sua prima e più forte asserzione, tanto originale da essere probabilmente unica tra tutte le costituzioni del mondo: “fondata sul lavoro”. È così decisa e rivoluzionaria, questa prima frase, che la domanda di chi legge per la prima volta l’articolo 1 è sempre la stessa: non si chiede cosa significhi Repubblica, né cosa significhi democratica; si chiede sempre cosa voglia davvero significare quel “fondata sul lavoro”. Non è facile rispondere, perché ciò che il primo articolo dichiara è a un tempo un distillato di identità e una dichiarazione di volontà. Esprime la centralità del lavoro come cuore dello stato: anzi, come tessuto connettivo tra tutti gli Italiani: qualcosa che addirittura precede l’elenco dei diritti e dei doveri, perché è ancora più importante e cruciale. Che si abbia il dovere e il diritto di lavorare è dato per scontato, nella nostra bella legge: è ovvio, è naturale, lo si leggerà in dettaglio negli articoli successivi. Ma quel che viene sancito fin dall’inizio, prima d’ogni altra cosa, è ben di più: è la promozione del lavoro a elemento identificativo dell’italianità stessa. Non siamo italiani perché sudditi d’una certa casa reale, non perché ci riconosciamo della stessa etnia, e neppure perché parliamo la stessa lingua. Siamo italiani perché riconosciamo che la forza fondante della cosa pubblica, la garanzia della natura democratica dello Stato, risiede solo nel lavoro del popolo d’Italia. Ci sono altri principi cardine, nella Costituzione: delle costanti che la percorrono tutta, ribaditi assiomaticamente, dati quasi per scontati. La natura democratica dello stato, ad esempio; eppure la parola “democrazia” compare solo cinque volte, nei 139 articoli della nostra legge fondamentale. “Libertà” è parola, è idea forse ancora più bella e potente; e infatti riecheggia per ben tredici volte nel testo. Eppure quella parola cruciale, quella che campeggia già nel primo articolo, “lavoro”, ritorna nella Costituzione per ben venti volte. Più della democrazia e della libertà messe insieme. E non sarà un caso se la parola “mercato”, invece, non compare mai. Tutta l’Italia è fondata sul lavoro. Ma ci sono parti d’Italia che lo sono più di altre. Roma ha una storia universale più vecchia e gloriosa di quella della nazione che la elegge capitale, Venezia potrebbe vivere di rendita sulla sua natura, Firenze da sola potrebbe competere con tutti i musei del pianeta, e sono decine le città italiane che sono state capitali di qualche stato, piccolo o grande, nel passato. Terni no. Terni, al pari dell’Italia stessa -e forse più d’ogni altra città italiana- è davvero fondata sul lavoro. Da centotrent’anni cresce con le fabbriche, ingoia minerali e sudore, li cuoce negli altiforni, e vomita acciaio. C’era un tempo in cui le biciclette sciamavano nel buio, lungo viale Brin. Nelle notti invernali, plotoni di ciclisti infagottati percorrevano la spina dorsale della conca ternana, si arrampicavano sulle salite dei colli, perché quasi tutti i quartieri operai erano in periferia, e la periferia d’una conca è quasi sempre in salita. Prima dell’alba, altre biciclette erano volate in discesa verso la fabbrica. Operai coi fogli di giornale sotto il cappotto per proteggersi dal freddo, con in tasca il portapranzo riempito di notte da una moglie casalinga già in piedi, dentro la casa popolare, con due o tre figli da svegliare e mandare a scuola. Un secolo fa, cinquant’anni fa, vent’anni fa; e adesso, ancora. La fabbrica era già vecchia,
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cinquant’anni fa; era lì, sembrava vi fosse sempre stata. Invece a volerla furono Benedetto Brin e Stefano Breda, che cercavano corazze per le corazzate che dovevano spaventare la marina francese. Era il 1884, c’era Cassian Bon, belga finito chissà come sulle rive del Nera, che aveva già la prima officina, il primo seme dell’acciaieria futura; e c’era Luigi Campofregoso che lottava per avere l’acciaio lontano dalle coste, e vicino alla Cascata. Nomi che marchiano oggi i viali e le vie di Terni, anche se gli operai che correvano in bicicletta e ancora corrono da e verso i cancelli dell’acciaieria non sono davvero tenuti a conoscerli. In fondo, si lavora per guadagnare di che mantenere la famiglia, si lavora perché si deve. Lo sapevano anche quelli che vennero a migliaia, da fuori, 130 anni fa, per lavorare alla “Terni”: molti dalla Romagna, seguendo la discesa del corso del Tevere, altri da ancora più lontano. E Terni smise d’essere un paesino, e cominciò ad essere città. Citta dell’acciaio, città fondata sul lavoro. Il primo articolo della Costituzione è lampante, a Terni. Terni era così, e lo è ancora. Una delle poche città in cui la parola operaio è ancora parola nobile, e non un mezzo insulto, come altrove. Una città dove le ore non venivano segnate dalle campane, ma dalla sirena dell’acciaieria, che risuonava in tutta la conca. Quando lo si raccontava a chi di Terni non era, quando si narrava di essere cresciuti in una città che aveva come metronomo una sirena, proprio come le scuole hanno la campanella, quasi non si era creduti. Operai, lotte operaie e tanto acciaio, a marcare la conca. Non se l’aspetta nessuno dei viaggiatori in cerca della pace arcadica dell’Umbria di trovare una valle industriale nel cuore del cuore verde d’Italia: un bacino denso di fumi, di sudore dato dalla fatica e soprattutto dalle colate d’acciaio fuso; una città che ha respirato al ritmo dei turni A-B-C, mattina-pomeriggio-notte, una città che nel suo cuore pulsante “fa la notte”, che non dorme mai, che non dorme da 130 anni, con buona pace anche di New York, che si vanta di essere “the city that never sleeps”; un secolo fa, anche New York dormiva, di notte. Ed era tutt’altro che rose e fiori, non è mai stata rose e fiori, la vita della città operaia. La corazza per le corazzate, l’energia strappata alla Cascata, l’acciaio per le armi, significano essere bersaglio, significano bombardamenti e morti. Significa trovare ancora, nel 2014, qualche muro diroccato nel centro storico. Significa che il nome “Terni” si trova tragicamente affiancato a quelli di Coventry e di Dresda. E l’acciaio civile significa comunque sempre fatica, e quasi sempre significa povertà. Ma Terni lavora lo stesso, e ha la sua dignità proprio in questo. Perché il lavoro non è solo reddito: se c’è una cosa che una città strana, anomala, operaia, poco umbra come Terni sa benissimo, è proprio questo: che lavoro non significa solo salario. Quindi, per favore, non venite a raccontare a Terni delle “mutate condizioni del mercato siderurgico”. Questo “mercato” invincibile, invisibile, inarrivabile; più potente, più assoluto e più crudele d’un dio fenicio. È un mercato immorale, senza la minima etica. Se si va alla radice più profonda dell’idea di lavoro, si arriva all’atavica scoperta che a fare le cose insieme ci si guadagna tutti: ed è per questo che è giusto che ognuno dia il suo contributo. Se si va alla radice più profonda della parola “mercato”, ci si ritrova solo con la frusta competizione di chi vuole prendere qualcosa da qualcun altro, ottenendo il massimo e dando in cambio il minimo possibile. Appena un passo più evoluto della legge della giungla. Nessuna etica, nel Mercato. Forse per questo non compare mai nella Costituzione. E forse è legittimo il sospetto che il Mercato sia atrocemente sopravvalutato, adorato senza ragione, ubbidito senza cognizione. Il Mercato non ha morale, non è neppure tenuto ad averne, e quindi non può far altro che impoverirci. Del resto, è solo quando il Mercato regna sovrano che possono nascere e svilupparsi mestieri abominevoli come quello dei tagliatori di teste. Piero Fabbri
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Fondata sul lavoro
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CONFARTIGIANATO IMPRESE TERNI
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Qualche buona notizia
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C I D AT
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Essere multitasking si o no?!?
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STUDIO DI RADIOLOGIA BRACONI
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Prince Pony con le mani rosse di pomodoro
Qualche buona notizia
- P Fabbri
- G Raspetti
- A Melasecche
A vvòrde li quadrati ce complicono la vita
- F Patrizi - P Casali
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C M T - C O O P E R AT I VA M O B I L I T À T R A S P O R T I
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Renato Perona Il tandem delle meraviglie
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LEGAMENTO CROCIATO ANTERIORE
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La Costituzione Italiana: spunti per una riflessione
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FA R M A C I A B E T T I
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Adottare un maggiorenne
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L A B O R AT O R I S A L VAT I
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A Z I E N D A O S P E D A L I E R A S A N TA M A R I A D I T E R N I
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F O N D A Z I O N E C A S S A D I R I S PA R M I O
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N U O VA G A L E N O
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L’ a r t e d i a s c o l t a r e : u n a p r a t i c a d i m e n t i c a t a
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STUDIO MEDICO ANTEO
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La festa dei nonni
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LANDI COSTRUZIONI
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Troppa igiene
- S Lupi
- V B u o m p a d re, M B ecca ri n i - N S Mazzilli
- M Petrocchi
- A Zerbini
- G Giorgetti
L’ i g i e n e d e i s e n t i m e n t i
- V Policreti
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OTTICA MARI
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BOYHOOD
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CENTRO MEDICO DEMETRA - ERREMEDICA
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L’ u o m o e l ’ e r p i c e
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La dieta secondo la propria costituzione
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VALERIO M ECARELLI
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G L O B A L S E RV I C E
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SUPERCONTI
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- PL Seri
- L Ta r d e l l a
- V Grechi - L Paoluzzi
- R Bellucci
PA G I N A
Mensile di attualità e cultura
Registrazione n. 9 del 12 novembre 2002, Tribunale di Terni Redazione: Terni, Vico Catina 13 --- Tipolitografia: Federici - Terni
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I nostri progetti, tutti e solo in favore di Terni e dei giovani ternani, procedono gaudiosamente. L’Ateneo per tutte le età, focalizzato quest’anno sul tema Terni è bella e l’Ateneo giovani, centrato sulla partecipazione a concorsi culturali e sugli incontri con persone anziane che vivono oggi in solitudine, sono e risultano splendidi per qualità culturale e sociale posta in atto. Dal mese di gennaio inizierà, nell’ambito dell’Ateneo, un confronto tra architetti, artisti e intellettuali, di varia età ed estrazione culturale, per sognare e progettare la nostra città. L’Associazione Culturale La Pagina è sempre più sede di persone desiderose, tutte, di apportare il loro granello di sabbia umano e culturale. Il progetto Terni pasticciona, per chi non si accontenta dell’orto del vicino, ma vuole essere giardino fiorito, è registrato e vede oggi la sua concretizzazione teorica in un libretto di prossima generale distribuzione. Si tratta di un progetto per valorizzare il territorio, l’acqua, le peculiarità gastronomiche e l’imprenditorialità ternani. Il progetto Terni, città di San Valentino, capitale dei diritti umani, trova di nuovo incoraggiamento da parte della Prof. Georgianna Land, che, da New York, è di nuovo tornata per stare vicina ai progetti comuni, della Associazione La Pagina e della Università Popolare Homo&Natura, anche in merito ad un aiuto per la Sclerosi Multipla di cui leggete parziale resoconto ne La Pagina Umbria del mese corrente. Siamo purtroppo costretti a rinunciare, per il momento -da soli non abbiamo forze materiali e gli interlocutori preposti risultano drammaticamente assenti- ad altri, interessantissimi progetti per il bene della nostra città. Ma che si vuole? Io, personalmente, non riesco a lavorare più di 20 ore al giorno e poi sono anche in altre faccende affaccendato! Sento però di dover ringraziare tutti i Senatori della città che si addensano, per collaborare, nella nostra associazione, poi le tante persone che, telefonando o inviando email, porgono sincere congratulazioni per il lavoro da noi svolto, poi i nostri illuminatissimi sponsor. Da noi fioriscono molte idee di persone semplici, quelle che da sempre sono conosciute come figli del popolo, persone che disinteressatamente si ingegnano, lavorano, si impegnano, si sacrificano al solo interesse del bene comune. Nessuno tra noi fa parte delle tante strutture che percepiscono a iosa i soldi dei cittadini per interessarsi e per fare il bene di Terni. Alcuni, anzi, partecipano non solo pagando di tasca propria ma anche accendendo, all’uopo, pesantissimi prestiti bancari. Tutto per gli altri, come è costume dei Senatori della città. Se anche tu, lettore, credi nella meritocrazia e nella responsabilità personale, nell’impegno volontario e disinteressato, nella fondamentale importanza della cultura, nel desiderio continuo di impegnarsi per la città, unisciti a noi, insieme serviremo meglio il nostro paese. Grazie. Giampiero Raspetti
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Essere multitasking : sì o no?!? Quante volte ci capita di rispondere al telefono mentre si sta scrivendo una e-mail? Utilizzando un’espressione mutuata dal linguaggio informatico, si parla in questo caso di multitasking: avere cioè la capacità di eseguire più attività in contemporanea. In molti casi la velocità di esecuzione è diventata, da circa un decennio, un elemento sempre più importante della vita professionale e familiare, quindi, se non sei in grado di inviare una mail con lo smartphone mentre partecipi ad una riunione su Skype, magari tenendo pure d’occhio tuo figlio che gioca in soggiorno, sei una persona inadatta ai moderni ritmi della vita. Ma è proprio così? Pare che recenti studi confutino in parte questo assunto. Le ricerche di neuroscienza stanno dimostrando che, nel saltare in continuazione da una occupazione all’altra, si perde lucidità, capacità mnemonica e organizzativa e, di come il multitasking alla lunga peggiori progressivamente le performance del cervello. Banalmente, quest’ultimo sembra non essere programmato per processare più attività nello stesso momento mentre sembra sia più produttivo svolgerne una alla volta. Infatti, saltare in continuazione da un’attività all’altra comporta dei “costi di transizione” in termini di attenzione, di concentrazione e di tempo perso per ricostruire il filo dei pensieri. Salvo poi errori da rimediare. Così, approfondendo gli studi in materia, si scopre che undici è il numero medio di minuti che si dovrebbero dedicare a un progetto prima di passare ad altro, ma soprattutto che le più comuni interruzioni mentre si lavora, tipo la domanda di un collega, l’alzarsi dalla scrivania, il bip sonoro che ci annuncia l’arrivo di una nuova posta elettronica oppure il rispondere ad una telefonata, ci facciano “perdere” mediamente 2,1 ore di
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produttività al giorno. Quindi l’ultima tendenza sembra essere quella che mette sotto accusa il multitasking che, da virtù cardinale, sembra essere derubricata a cattiva abitudine dei tempi moderni, vittime come spesso siamo di un eccesso di tecnologia a nostra disposizione. A volte però l’essere multitasking non è un vezzo, ma una necessità. La casa, i figli, la spesa, il lavoro: la giornata delle donne è piena di impegni che spesso si sovrappongono anche imprevedibilmente e si alternano con una rapidità incontrollabile. Eppure la maggior parte delle madri lavoratrici riesce a districarsi bene, passando da un’attività all’altra senza (troppa) ansia. In questo caso la scienza conferma che il genere femminile saprebbe organizzarsi con maggiore abilità orientandosi meglio tra imprevisti e difficoltà, a differenza di quello maschile, che tende ad affrontare un problema alla volta. Spiegano i ricercatori: la ragione sarebbe da ricercare nel fatto che le donne sono più resistenti sotto pressione, più riflessive ed organizzate, a dispetto degli uomini che sono più impulsivi. Ma, udite, udite… anche sul fatto che l’essere umano sia “naturalmente” multitasking c’è chi ha da ridire. Infatti, una ricerca di qualche anno fa aveva dimostrato che dedicarsi a più attività contemporaneamente non fa parte della nostra natura e che il nostro cervello può sostenere al massimo due impegni alla volta. Inutile dire che il dibattito è del tutto aperto. Non resta che sperare in studi con risultati univoci e nel frattempo, come dicevano i latini, in medio stat virtus. Quindi evitiamo comportamenti eccessivi in un senso o nell’altro. alessia.melasecche@libero.it
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Prince Pony con le mani rosse di pomodoro Fino a poco tempo fa chi si recava sulla piazza di Navrongo vedeva le donne aggirarsi tra i banconi a fare incetta di pomodori, il prodotto più usato nella cucina ghanese. Oggi il piazzale è spazzato dalla sabbia che va a coprire le panche vuote e a infilarsi negli ingranaggi del trattore donato dal governo come premio alla migliore coltivatrice diretta, un ferro vecchio che dorme nel campo incolto di Prince Pony, giovane rampollo di una famiglia di agricoltori, partito per cercare lavoro in Europa. Il Ghana aveva una florida industria agricola, la popolazione consumava esclusivamente cibo fresco e la fabbrica di conserve di pomodoro di Accra dava lavoro ad un migliaio di operai. Ancora oggi la dispensa delle case ghanesi è ricolma di barattoli di pomodoro, l’unica differenza è che sono tutti italiani. O quasi. Il nostro paese è il secondo produttore di conserva di pomodoro al mondo dopo la California ed il primo esportatore in Africa; ma non tutte le etichette con il marchio made in Italy sono una garanzia di provenienza, ad esempio dietro alla nuova marca di conserve Gino, che riporta sulla confezione un apocrifo simbolo tricolore, si nasconde un colosso cinese esperto in contraffazione. Il mercato di Accra è stato invaso negli ultimi anni da prodotti a basso costo che hanno mandato l’economia nazionale in fallimento: il riso targato USA, la cipolla inglese, i cereali tedeschi, la carne in scatola argentina, l’olio di palma indonesiano…
di prodotti nazionali non è rimasto praticamente niente, soprattutto dei famosi pomodori locali, scalzati dai pummaroli campani venduti ad un prezzo inferiore di quelli ghanesi, un paradosso reso possibile grazie ai sussidi stanziati dall’Unione Europea che rimborsano al produttore italiano fino al 65% del prodotto finale. E grazie soprattutto alla manodopera a basso costo degli africani impiegata nei nostri campi. Quando l’azienda di famiglia è fallita per colpa di quei barattoli tricolore, Prince Pony è partito in cerca di lavoro, voleva girare il mondo ed invece è rimasto impigliato nelle reti della malavita pugliese, un datore poco raccomandabile per cui svolge lo stesso lavoro che faceva per suo padre, ma in condizioni che non immaginava di trovare neanche nell’angolo più povero del Ghana: per venti euro al giorno si spacca la schiena sulla spianata di Capitanata a Foggia a raccogliere pomodori nella stagione buona, manda a casa pochi soldi e per il resto dell’anno si arrangia in una lurida baraccopoli ribattezzata Ghana House. La beffa è che quello che raccoglie finisce sulla tavola della sua famiglia e contribuisce al crollo dell’economia del suo paese. Qualche sera Prince Pony riesce a prendere la linea con il cellulare e a telefonare a casa, ma non trova mai il coraggio di raccontare a suo padre che quel sugo che ha nel piatto lo ha raccolto suo figlio in Italia per una paga da miseria. Francesco Patrizi
A vvòrde li quadrati ce complicono la vita Li puliguni so’ ffigure piane che cciànno tre llati, quattro lati, cinque… fino a qquanno te pare… e li quadrilateri so’ qquilli che cce n’hanno quattro. A èsse pignoli anche li pentaguni e ll’esaguni ce n’hanno quattro… ce n’hanno anche de più!? Nn’è mmejo di’ sulu quattro lati? Uhm... tra li quadrilateri pijamo li trapezzi che sso’ qquilli co’ ssulu ddu’ lati paralleli. ’Sta vòrda dovéi di’... co’ ddu’ lati paralleli... senza sulu! Uhm… se lu dici tu!... Tra li trapezzi cchiappamo li parallelogrammi che cciànno ddu’ paja de lati paralleli. Hai vistu che non so’ ddu’ soli!?... Scì e ddu’ lune... uhm!... Tra li parallelogrammi ce stanno li rettanguli co’ qquattro anguli retti... Abbasta di’ ‘n angulu rettu… l’andri devono èsse retti pe’ fforza! ... e li rombi co’ li lati ‘guali... Nn’è mmejo di’ tutti li lati ‘guali?... ...e li quadrati co’ ttutti li lati ‘guali e ttutti l’anguli retti.
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Tutti li lati ‘guali... scì... però come t’ho ddittu prima…‘bbasta che ddicemo ‘n angulu rettu! Allora lu quadratu è ‘n rettangulu... è ‘n rombu... è ‘n parallelogrammu... è ‘n trapezziu... è... Bbravu... ma che ttrapezziu è?... Bbè’... sìnti ‘n bo’... io so’ che cce sta lu trapezziu ‘soscele co’ ddu’ lati ‘guali... A ddi’la verità... co’li ddu’lati ‘bbliqui ‘guali. … lu trapezziu scalenu co’ ttutti li lati diversi... Mah... so’ nnicissari sulu li ddu’ lati ‘bbliqui differenti. … e lu trapezziu rettangulu co’ ssulu ddu’ anguli retti. Lèva lu vocabbulu sulu! Ahó… sìnti ‘n bo’ s’ho ccapitu bbène?... Li trapezzi so’ ssulu ‘sosceli e scaleni e ttra de loro ce stanno qquilli rettanguli e... lu quadratu è ‘n trapezziu rettangulu ‘soscele! Bbravu!... Che ppe’ ccasu ciài ‘n saccòccia sulu dieci euri da prestamme?... Me servono pe’... Stavòrda ‘n te pòsso fa’ bbene… era mejo che non dicéi sulu… perché ce n’ho quarchidunu de più! paolo.casali48@alice.it
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Renato Perona Il tandem delle meraviglie
Londra 1948, XIV Giochi Olimpici. La finale del tandem al Velodromo di Herne Hill. La coppia azzurra Renato Perona-Nando Terruzzi sfida gli inglesi Harris-Bannister. Gli italiani bruciano gli avversari sulla linea per una spanna, o poco più. Così scriveva il cronista di Tuttosport: Non dimenticherò mai più quello spettacolo, ombre sulla pista, ombre agitate tutto attorno e nel buio un urlo solo lacerante. Stavolta fu Harris che tentò il colpo nel finale ma non gli riuscì; lo scatto del nostro tandem fu pronto e il contatto fu perso. Sorse così una lotta bruciante; sulla curva vedemmo il tandem italiano al largo rimontare irresistibilmente, centimetro per centimetro, quello avversario; a 50 metri dall’arrivo gli inglesi erano ancora in lieve vantaggio e fu soltanto negli ultimissimi metri che gli italiani vinsero passando primi per pochi centimetri, forse 10, forse 15. In quel buio se non ci fosse stato un giudice più che onesto, si poteva avere anche un ordine d’arrivo invertito. L’urlo della folla nel buio ebbe uno schianto, come se un enorme mostro fosse stato preso alla gola e strozzato. Si sentivano soltanto le voci degli italiani […]. La tribuna stampa si vuotò di colpo. Festeggiarono a pane e formaggio, e con un fiasco di Chianti. Nessuno degli organizzatori li aspettò. A mezzanotte, sotto la pioggia battente londinese, tornarono a piedi in albergo. Renato Perona e Ferdinando Terruzzi, due dei più grandi pistard italiani così conquistarono quell’oro olimpico che li ha proiettati per sempre nella leggenda dello sport e non solo del ciclismo. Perona nasce a Terni il 14 novembre 1927. Iniziò a gareggiare subito dopo la guerra nella categoria dilettanti sia su strada che in pista. Nel 1947 si aggiudica a Firenze il Trofeo delle Regioni. Nel 1948 il trionfo olimpico nel tandem, in coppia con Ferdinando Terruzzi. Partecipa senza successo ai Mondiali di Amsterdam nella velocità, in quanto il tandem non era ancora in programma. Gareggerà fino agli anni Cinquanta, partecipando a molte sei giorni ed a manifestazioni internazionali, ottenendo nella sua carriera da dilettante quarantasette vittorie tutte su pista. Muore a Terni il 25 luglio 1984. Terruzzi invece, professionista dal 1949 al 1965, uno dei più grandi pistard italiani, si spegne recentemente all’età di 90 anni nella sua casa di Sarteano. Nato a Sesto San Giovanni, in provincia di Milano, il 17 febbraio 1924, Terruzzi conquistò una grande notorietà grazie alle Sei Giorni, di cui diventò specialista indiscusso: ne disputò infatti ben 149 con il ragguardevole bottino di 25 vittorie, 32 secondi posti e 19 terzi posti, gareggiando in coppia con alcuni tra i più grandi campioni dell’epoca (tra i quali Fausto Coppi, Fiorenzo Magni e Jacques Anquetil).
Locale climatizzato - Chiuso la domenica Terni Via Cavour 9 - tel. 0744 58188
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w w w. l a p i a z z e t t a r i s t o r a n t e . i t lapiazzetta.terni@libero.it
Abbiamo raccontato una storia semplice fatta di valori e molto sentimento, una storia dal sapore antico. Ricordo ancora Renato Perona seduto, verso la fine dei suoi anni, in un noto bar della città. Lo stesso locale frequentato da noi ragazzi di periferia che guardavamo con rispetto e considerazione il vecchio campione. Appesantito dagli anni e nel fisico, indossava spesso una maglia sportiva con i fregi olimpici. Lo scrutavo con ammirazione pensando alla potenza esplosiva della sua pedalata ed alle sensazioni provate nel vincere l’alloro olimpico. Mi piaceva l’idea di conoscere un campione. Renato Perona un ternano come noi! Dott. Stefano Lupi Delegato Coni di Terni
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La Costituzione Italiana: spunti per una riflessione Penso che solo da noi la carta costituzionale sia considerata quasi un testo sacro, fonte di ogni virtù, quasi impossibile da modificare fin quasi all’accusa di eresia e di lesa maestà. Ci sono al riguardo motivazioni storiche ben precise, facilmente individuabili. Ma pochi se ne rendono conto. La motivazione principale: i partiti democratici, dopo venti anni di ostracismo, di persecuzioni, di galera e di esilio, entrano trionfalmente sulla scena politica dopo la Resistenza e dettano le regole su cui si dovrà organizzare la convivenza civile. Tre sono le componenti che daranno vita alla nuova Italia: quella cattolica, quella della sinistra socialista e comunista (allora strettamente collegate), quella laica azionista. Con questa Costituzione rinasce nel Paese la democrazia e la libertà dopo il ventennio fascista che ha condotto l’Italia allo sfacelo della seconda guerra mondiale. Ecco il perché di quel carattere di sacralità che la nostra Costituzione assume agli occhi di molti. Una seconda motivazione: i comunisti italiani, dopo il trattato di Yalta con la divisione del mondo in blocchi contrapposti, a seguito della scomunica lanciata da papa Pacelli e della politica maccartista degli Stati Uniti che posero il veto ad una loro partecipazione al governo del paese, fecero sempre più riferimento alla Carta Costituzionale, di cui anche loro erano stati artefici, come garanzia della loro affidabilità democratica e del loro diritto a partecipare attivamente alla vita politica del Paese. La nostra Costituzione, come tutte le Costituzioni, è figlia del proprio tempo e, come tutte le cose umane, ha limiti e difetti che possono essere migliorati. Molti ritengono che il difetto che oggi risalta con maggiore evidenza, fu determinato dalla preoccupazione (allora ben giustificabile) di evitare un accentramento dei poteri dell’esecutivo e del legislativo nelle mani di un solo soggetto: per questo vennero creati una Camera dei deputati e un Senato con uguali poteri (l’uno doveva controllare l’altro); per questo non venne prevista la figura di un leader, di un cancelliere, di un primo ministro che dirigesse e fosse responsabile di fronte all’elettorato della politica nazionale. Tutto questo, unitamente a una legge elettorale basata sul sistema proporzionale puro, ha impedito sin dalle origini la formazione di governi stabili di legislatura e ha causato discontinuità, incertezza, litigiosità e continui rinvii nella conduzione della cosa pubblica. Un’altra riflessione deve essere fatta a proposito dell’art.1 posto a fondamento di tutto l’edificio costituzionale: L’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro. Certo, il lavoro complessivo, di tutti, che viene svolto all’interno di una società, costituisce la cifra distintiva, determina il grado di civiltà e la qualità della vita di tutta la collettività. Ma questa non è una novità. È sempre stato così. In positivo e anche in negativo. La potenza, la ricchezza e la fama (che ancora oggi perdura) dell’Atene antica è dovuta al lavoro degli schiavi delle miniere del Laurio che arricchirono la città, al lavoro dei mercanti della costa, alla politica di Pericle, al pensiero di Platone e di Aristotele che
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hanno posto le basi di quella che oggi viene chiamata “civiltà occidentale”. Anche la grandezza di Roma fu fondata sul lavoro. Anche qui innanzitutto il lavoro degli schiavi che sopperivano alle esigenze più elementari della società, e accanto a questo il lavoro dell’invincibile e paziente legionario che dedicava alla patria l’intera esistenza, il lavoro dei grandi ingegneri costruttori di strade, di acquedotti, di templi, di teatri e di terme che fanno ancora oggi meraviglia di sé in ogni parte d’Europa e del nord Africa, il lavoro dei giuristi che hanno creato il diritto moderno e poi la creatività e l’inventiva di grandi condottieri e uomini politici (Cesare, Ottaviano, gli Antonini) e ancora la genialità di letterati, artisti, poeti (Lucrezio, Cicerone, Virgilio, Orazio, Tacito e molti altri). Tutto questo è lavoro. Cosa sarebbe stato il Rinascimento italiano senza prima il lavoro di Dante, la sagacia dei Medici, l’esplosione degli artisti e degli scienziati delle corti del 400 e 500, senza il lavoro geniale di Leonardo e Galileo? Il lavoro è alla base della società. Tutti i lavori sono importanti e a loro modo utili e necessari. Chiunque lo capisce. Ma il problema vero è la qualità del lavoro e la libera scelta di chi è chiamato o costretto a farlo. Certo, suscita commozione il lavoro delle centurinare che sgobbavano 14 ore al giorno per salari di fame, o quello dei fornaioli di Papigno o degli operai addetti alle colate alle acciaierie in ambienti quasi infernali; e si stringe il cuore al pensiero delle lunghe file di biciclette degli operai della Terni che scendevano dalle colline alle 5 del mattino immersi nella nebbia. Ma questi ricordi suscitano soprattuto tanta rabbia perché in quelle condizioni di vita e di lavoro viene lesa la dignità dell’uomo costretto a lavorare in condizione disumane e per retribuzioni molto spesso infami. Allora il nodo centrale del problema non è il lavoro in sé, ma l’artefice, il protagonista, il creatore ed esecutore del lavoro: il centro del problema è l’Uomo che deve essere posto nelle condizioni di esercitare le proprie potenzialità, verificare le proprie inclinazioni, essere messo nelle condizioni di poter scegliere la propria strada nella vita, di ottenere un lavoro ma anche di cambiarlo e migliorarlo, nel rispetto in ogni caso della propria dignità di essere umano, cui deve essere comunque assicurato il minimo indispensabile per sé e per la propria famiglia. Siamo arrivati al punto. Alla base della Società, di ogni Costituzione, deve essere posta la libertà dell’uomo, perchè senza libertà viene a cessare l’umanità, senza la libertà viene a cessare la ragione stessa della vita. Mai pensare alla società come un alveare perfetto, paradiso del lavoro ordinato. “Lasciateci liberi di sbagliare per poter essere felici” sembra essere la soluzione più giusta per l’uomo moderno. Umanità è prima di tutto libertà. Per questo ogni costituzione dovrebbe recitare al primo articolo di N. Sauro Mazzilli essere fondata sulla Libertà.
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Adottare un maggiorenne Dispone l’art.291 del nostro codice civile, che: ... l’adozione è permessa alle persone che non hanno discendenti legittimi, che hanno compiuto gli anni 35 e che superano di almeno 18 anni l’età di coloro che intendono adottare. Quando eccezionali circostanze lo consigliano, il Tribunale può autorizzare l’adozione se l’adottante ha raggiunto almeno l’età di 30 anni, ferma restando la differenza di età di cui al comma precedente. È bene subito precisare che la Corte Costituzionale, con la sentenza 557/1988, ha dichiarato parzialmente illegittimo il primo comma dell’articolo, nella parte in cui non consentiva l’adozione di maggiorenni a persone che avessero discendenti legittimi o legittimati. Un’altra sentenza della Corte Costituzionale, precisamente la 24/2004, ha dichiarato, inoltre, l’illegittimità dell’articolo 291 c.c., nella parte in cui non prevedeva che l’adozione di maggiorenni potesse essere pronunciata in presenza di figli naturali, riconosciuti, minorenni o, se maggiorenni, consenzienti. Da ultimo una precisazione apparentemente solo lessicale, è che la parola legittimati è stata soppressa a seguito del D.lg. 154/13. Originariamente l’istituto fu concepito per assicurare, a chi non avesse figli, la trasmissione del patrimonio e del cognome, a tutela principalmente del suo interesse, tanto che, come si è visto, l’adozione di persone maggiorenni era permessa esclusivamente ai soggetti privi di discendenti. La procedura di adozione di un maggiorenne è profondamente diversa rispetto a quella di un minore, tanto che per avviarla, è sufficiente la presentazione di una domanda in carta semplice diretta al Presidente del Tribunale del luogo di residenza dell’adottante. Può adottare un maggiorenne che abbia compiuto 35 anni e che superi di almeno 18 anni l’età della persona che si intende adottare. Non esistono limiti di età massima né per l’adottato né per l’adottante e possono adottare sia le coppie sposate che le persone singole. L’adottato acquista il cognome dell’adottante, con il diritto di anteporlo al proprio; acquista inoltre i diritti successori, nella stessa posizione dei figli legittimi, acquista infine il diritto agli alimenti. Il genitore adottivo, invece, non ha diritti successori sul patrimonio del figlio, ma solo un diritto di assistenza in caso di bisogno. L’adozione non muta i diritti e i doveri dell’adottato verso la famiglia di origine, ed infatti per procedere all’adozione del maggiorenne occorre l’assenso dei genitori dell’adottando, né produce effetti verso i parenti dell’adottante, e qualora il rifiuto di questi ultimi sia ingiustificato o contrario all’interesse dell’adottato, il Tribunale può pronunciare ugualmente l’adozione. Lo stesso accade quando è impossibile ottenere l’assenso all’adozione per incapacità o irreperibilità delle persone tenute ad esprimerlo. Oggi l’adozione del maggiorenne viene richiesta per ottenere il riconoscimento dei rapporti esistenti fra un coniuge e i figli dell’altro coniuge, oppure tra affidatari e l’affidato divenuto maggiorenne. È chiaro che è possibile adottare più di una persona, come nel caso dei fratelli, nonché stranieri maggiorenni. L’adozione può essere revocata solo in casi specifici previsti dalla legge e cioè per indennità, ossia quando l’adottante o l’adottato abbiano attentato alla vita dell’adottato o dell’adottante, del suo coniuge, dei suoi discendenti o ascendenti, ovvero si siano resi colpevole verso di loro di un delitto punibile con una condanna non inferiore a 3 anni. Buona lettura del Codice Civile a tutti! Avv. Marta Petrocchi legalepetrocchi@tiscali.it
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AZIENDA OSPEDALIERA
S tr u ttu r a C o m p le s s a d i I mmu n o e
Dottor Augusto Scaccetti Direttore Struttura Complessa di Immunoematologia e Trasfusionale A z ien d a O s p e dalie r a “S. Mar ia” di Te r ni
La missione della Struttura Complessa di Immunoematologia e Trasfusionale di Terni è quella di soddisfare le esigenze dei pazienti afferenti alla struttura stessa per quanto riguarda la terapia trasfusionale. Le prestazioni si rivolgono non soltanto all’Azienda ospedaliera di Terni ma anche alle strutture del territorio della ex ASL 4, compresi gli ospedali di Narni, Amelia, Orvieto. Quella di Immunoematologia e Trasfusionale sarà la prima struttura dell’Azienda S. Maria di Terni a ricevere l’accreditamento istituzionale da parte della Regione Umbria, insieme al certificato di possesso dei requisiti minimi organizzativi, strutturali e tecnologici, come previsto dall’accordo tra Governo e Regioni del 16 Dicembre 2010. Tutto l’iter si concluderà con la verifica ispettiva finale programmata per il 02/12/2014. In sintesi le principali attività svolte dal SIT sono: la promozione e la gestione del dono del sangue, la raccolta di sangue intero; la conservazione e distribuzione del sangue umano e dei suoi componenti; il buon uso del sangue; la diagnostica immunoematologica ed ematologica. Le attività trasfusionali si fondano sulla donazione volontaria, periodica, responsabile, anonima e gratuita del sangue e dei suoi componenti. A fianco degli organi istituzionali nazionali, regionali e ai SIT operano la Associazioni e le Federazioni di donatori (in Umbria prevalentemente l’AVIS) con ruolo di promozione della donazione e diffusione dell’informazione e dell’educazione sanitaria dei cittadini. 1. Donatori di sangue: si inizia con la ricerca ed il reclutamento dei donatori in collaborazione con le associazioni di volontariato. Il percorso del donatore nel SIT comporta la registrazione, l’emocromo per vedere se il donatore è in grado di donare, la visita medica di idoneità, il prelievo del sangue, il ristoro post-donazione. Il referto personalizzato degli esami di laboratorio eseguiti in occasione della donazione viene inviato a casa. Il medico insieme al donatore può decidere se eseguire una donazione standard, cioè sangue intero in una sacca che contiene in media 410/430 ml di sangue. Il tempo necessario per questa procedura è di 8/12 minuti. L’altra possibile donazione è l’aferesi con produzione di un solo emocomponente, (plasma o piastrine). Questa si fa con una macchina che usa kit monouso ed impiega per completare la procedura in media 30/40 minuti. Tale scelta viene effettuata in base alle caratteristiche del donatore (gruppo, emoglobina, accessi venosi) ed alle richieste pervenute alla struttura. Purtroppo l’indice di donazione nella provincia di Terni -spiega il direttore della struttura, Augusto Scaccetti- è ancora basso rispetto alla regione e siamo costretti, per garantire le necessità (interventi chirurgici ed anemie), a prendere sangue dai SIT della provincia di Perugia. Negli ultimi dieci anni il numero di donazioni è progressivamente cresciuto, ma ancora non basta per le richieste che pure continuano ad aumentare anche a causa dei sempre più numerosi interventi chirurgici di pazienti di fuori regione. Un solo dato: se nei primi 9 mesi del 2014 le sacche donate sono aumentate di 109 unità rispetto allo stesso periodo del 2013, quelle utilizzate sono aumentate di ben 626 unità. Per questo colgo l’occasione per invitare tutti i lettori a rivolgersi alla nostra struttura per donare il sangue per i sempre più numerosi pazienti che si rivolgono nel nostro ospedale. L’attività rivolta ai donatori non ha tempi di attesa: i donatori si presentano spontaneamente negli orari di apertura (dal lunedì al sabato dalle ore 8 alle ore 11). 2. Laboratorio di emocomponenti: lavorazione delle unità raccolte che vengono separate in emocomponenti di primo livello: globuli rossi concentrati privi di gran parte dei leucociti che possono dare problemi con trasfusione, plasma, piastrine. Per particolari necessità tali emocomponenti possono essere ulteriormente trasformati in emocomponenti di secondo livello mediante tecniche specifiche di filtrazione,
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lavaggio, assemblaggio, irraggiamento. I pool di piastrine su richiesta dei clinici possono essere inattivati dai patogeni. Le unità di sangue autologo (donazione per se stesso) oltre che per alcuni interventi, vengono lavorate più spesso per ottenere gel piastrinici utilizzati prevalentemente per infiltrazioni. Questi ultimi sono preparati anche da sangue omologo (donazione standard). 3. Diagnostica virologica e validazione delle unità raccolte: i test infettivologici per l’epatite B e C, la Lue e l’HIV, oltre il gruppo sanguigno e la ricerca degli anticorpi eritrocitari, vengono eseguiti su tutte le donazioni effettuate nel SIT per rendere sicuro il sangue che verrà trasfuso ai pazienti. Questa area diagnostica comprende anche un laboratorio specifico per la validazione biologica delle sacche con metodica di amplificazione genica (NAT) nel quale, su mandato regionale, si svolgono gli esami anche per il SIT di Foligno e Spoleto. Questo esame di ultima generazione ricerca le particelle geniche che si rilevano molto precocemente dopo l’infezione, che può essere così identificata pochi giorni dopo che è avvenuta, molte settimane prima della comparsa delle positività con i precedenti test. Questi test si effettuano anche per l’Azienda ospedaliera S. Maria e per il territorio della ex Asl4. 4. Gestione delle richieste di sangue: evasione delle richieste di sangue h24 (in modalità programmata, urgente ed urgentissima) per i pazienti dell’Azienda ospedaliera, degli ospedali territoriali e domiciliari della ex ASL4. Questa è l’attività prevalente del SIT,
S A N TA M A R I A D I T E R N I
em a tol ogi a e Trasfus io n a le (S IT) I e II classe in Biologia molecolare locus A, B, C, e DQB1, DRB l’Azienda ospedaliera S. Maria e per il territorio. 9. Laboratorio di Biologia Molecolare: è un laboratorio all’avanguardia in Umbria, e non solo, dove per i pazienti ricoverati all’ospedale Santa Maria di Terni e per tutto il territorio della ex ASL4 vengono svolte le seguenti attività: 1. Quantificazione dell’RNA del virus dell’epatite C (HCV) ed del virus HIV-1 e del DNA del virus dell’epatite B (HBV) tramite amplificazione dell’acido nucleico utilizzando la tecnologia PCR in Tempo Reale (Real Time PCR); 2. Tipizzazione dell’HCV-RNA mediante identificazione del genotipo virale effettuato con metodica LiPA; 3. HIV-1 Farmacoresistenza, al fine di rilevare le mutazioni della resistenza del virus dell’HIV-1 tramite sistema di sequenziamento. Vengono identificate mutazioni associate alla resistenza nelle regioni della Transcriptasi Inversa e della Proteasi dell’HIV-1; 4. Genotipizzazione del virus HBV con sequenziamento della regione che codifica per il gene virale RT e la regione centrale di HbsAg ,al fine di identificare simultaneamente il genotipo e le mutazioni virali; 5. Analisi del polimorfismo rs12979860 del gene IL28B.
Équipe Direttore: Augusto Scaccetti Personale Medico: Moreno Cassetti, Gianluca Palmieri, Antonio Paterni, Diego Minestrini, Roberta Chiari, Cecilia Adami, Carlo Carli Biologi: Maria Chiara Medori, Monica Proietti, Alessandra Pagnani Caposala:Rossana Fiocchi Infermieri: Emiliano Gentileschi, Amedea Moreschi, Annarita Torretta, Lorena Miliacca, Tilde Silvestri, Valentina Gentileschi Capotecnico: Paola Gelosi Tecnici: Francesco Trosino, Soave Piazza, Alessandro Cammerieri, Danila Gelosi, Alessandra Stocchi, Patrizia Gianferretti, Rosaria Neri, Simonetta Cecere, Lidia Dellepiaggi, Elena Tritarelli, Samantha Airaghi, Stefania Di Rito, Marco Renzi Tecnici OSS: Lucia Baldoni Tecnici OSS: Ausiliari: Cristina Bernardini
Fotoservizio di Alberto Mirimao
che è sempre aperto, giorno, notte e festivi, con personale tecnico in guardia attiva e personale medico reperibile durante la notte e nei festivi. 5. Diagnostica immunoematologica: esecuzione di gruppi sanguigni, ricerca di anticorpi irregolari (test di Coombs), prove di compatibilità, identificazione di allo e auto-anticorpi anti-eritrociti, ricerca di crioglobuline, anticorpi anti-piastrine. 6. Ambulatori di medicina trasfusionale: visita medica, terapia trasfusionale standard in Day Service (tutti i giorni feriali) e follow-up dei pazienti affetti da anemie croniche. Cura del sovraccarico di ferro e della policitemia con salassi terapeutici. Terapia marziale ev nelle anemie ferrocarenziali. Terapia con tecniche aferetiche elettive, plasma-exchange (scambio plasmatici) sia su pazienti ambulatoriali che ricoverati affetti da patologie quali: porpora trombotica trombocitopenica, sindrome di Guillen-Bairrè, avvelenamenti, malattie autoimmuni, policitemia. L’attività rivolta ai pazienti dell’ambulatorio trasfusionale ha tempi di attesa variabili in funzione della gravità e necessità trasfusionale dell’interessato. 7. Laboratorio per la diagnostica dell’emostasi: Esegue test di primo livello: PT, APTT, Fibrinogeno e test di secondo livello: aggregazione piastrinica indotta con ADP, adrenalina, collageno, ac. arachidonico, dosaggio dei singoli fattori della coagulazione (XII, XI, VII, VIII, IX, X, II, V, vV.RiCof, RIPA), D-Dimero, ATIII, PC, PS, APCR, LAC. 8. Laboratorio di tipizzazione HLA e citoflorimetria a flusso: Tipizzazione linfocitaria e tipizzazione HLA
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DISCIPLINA PER LA PRESENTAZIONE DI RICHIESTE DI CONTRIBUTI PER L’ANNO 2014-2015
Avviso straordinario La Fondazione Cassa di Risparmio di Terni e Narni, persona giuridica privata senza fini di lucro e dotata di piena autonomia statutaria e gestionale, persegue esclusivamente scopi di utilità e di promozione dello sviluppo economico (Statuto, artt. 1 e 2) indirizzando i suoi interventi in alcuni settori previsti dalla normativa vigente. Per il 2014 e per il 2015 il Comitato di indirizzo della Fondazione ha individuato nel Documento Programmatico Previsionale annuale i settori rilevanti e quelli ammessi verso i quali orientare l’attività istituzionale. La Fondazione svolge la sua attività istituzionale nei comuni previsti dal vigente Statuto (www. fondazionecarit.it) attraverso: a) la realizzazione di progetti propri; b) l’erogazione di contributi indirizzati a progetti predisposti da terzi nei settori indicati nel richiamato DPP dalla Fondazione e destinati a produrre risultati socialmente rilevanti in un arco temporale determinato. Ciò posto, la Fondazione Cassa di Risparmio di Terni e Narni emana il presente avviso per raccogliere e regolamentare richieste di contributi per le iniziative di cui alla precedente lettera b), da realizzare nell’ambito dei settori di seguito specificati: Settori previsti nel DPP 2014 e nel DPP 2015: 1. Ricerca scientifica e tecnologica 2. Arte, attività e beni culturali 3. Salute pubblica, medicina preventiva e riabilitativa 4. Educazione, istruzione e formazione, incluso l’acquisto di prodotti editoriali per la scuola 5. Volontariato, filantropia e beneficenza 6. Sviluppo locale. 1)
Chi può presentare la richiesta per ottenere un contributo dalla Fondazione. La Fondazione esamina le richieste pervenute esclusivamente da: a) soggetti pubblici o privati senza scopo di lucro, dotati di personalità giuridica, nonché imprese strumentali, costituite ai sensi dell’art. l, comma 1, lett. h) del D.Lgs. 17 maggio 1999, n. 153; b) cooperative sociali di cui alla Legge 8 novembre 1991 n. 381; c) imprese sociali di cui al D.Lgs. 24 marzo 2006 n. 155; d) cooperative che operano nel settore dello spettacolo, dell’informazione e del tempo libero; e) altri soggetti di carattere privato senza scopo di lucro, privi di personalità giuridica, che perseguono scopi di utilità sociale nel territorio di competenza della Fondazione, per iniziative o progetti riconducibili ad uno dei settori di intervento. 2)
Chi non può presentare la richiesta per ottenere un contributo dalla Fondazione. Sono escluse dagli interventi della Fondazione le richieste: - di natura commerciale, lucrativa e che producano una distribuzione di profitti; - provenienti da imprese di qualsiasi natura con esclusione delle imprese strumentali e dei soggetti di cui alle lettere b), c) e d) del precedente punto 1; - provenienti da partiti e movimenti politici, da organizzazioni sindacali o di patronato e di categoria; - provenienti da persone fisiche, con l’eccezione delle erogazioni sotto forma di premi, borse di studio o di ricerca; - provenienti da soggetti che non si riconoscano nei valori della Fondazione o che comunque perseguano finalità incompatibili con quelle dalla stessa perseguiti. TERMINI DI PRESENTAZIONE DELLE RICHIESTE Le richieste di contributo potranno essere presentate nel seguente periodo: dal 15 novembre 2014 al 15 dicembre 2014.
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Le richieste di contributo che perverranno dal 15 novembre al 15 dicembre 2014 saranno esaminate entro il 31 gennaio 2015. Le richieste dovranno essere indirizzate, a mezzo lettera raccomandata A.R., alla Fondazione Cassa di Risparmio di Terni e Narni, Corso C. Tacito, 49 - 05100 Terni, o raccomandata a mano che potrà essere consegnata presso gli uffici della Fondazione, rigorosamente in busta chiusa, dal lunedì al venerdì dalle ore 11,30 alle ore 13,00. Il richiedente dovrà presentare la documentazione richiesta dalla Fondazione. Per la presentazione delle richieste, la modulistica è disponibile e scaricabile dal sito internet della Fondazione www.fondazionecarit.it. Tutti i dati forniti saranno trattati nel rispetto delle previsioni del D.Lgs. 196/2003 per le sole finalità legali ed amministrative della Fondazione. SONO ESCLUSE LE RICHIESTE relative a progetti proposti da organizzazioni di volontariato che possono beneficiare di erogazioni da parte del CE.S.VOL.; relative a erogazioni generiche e/o a copertura di disavanzi economici e/o finanziari pregressi. ESAME DELLE RICHIESTE La Fondazione potrà discrezionalmente: 1. accogliere integralmente o parzialmente la richiesta di contributo; 2. definire le modalità e la cadenza di erogazione del contributo concesso; 3. riservarsi il diritto di accesso nei luoghi ove si realizza il progetto o si svolge l’attività e la facoltà di controllare in loco lo stato di avanzamento dei lavori. OBBLIGO DELLA RENDICONTAZIONE L’erogazione delle risorse deliberate per l’intervento è effettuata sulla base della presentazione di quanto di seguito indicato: originale, o copia conforme all’originale, dei giustificativi delle spese sostenute per la realizzazione dei progetti. Le stesse dovranno essere elencate in apposita distinta. I pagamenti eseguiti dal beneficiario delle erogazioni ai fornitori o prestatori di servizi potranno essere considerati validamente nel rendiconto soltanto se comprovati da documentazione fiscalmente regolare ed effettuati con bonifici bancari o con strumenti di sicura tracciabilità; relazione finale contenente informazioni esaurienti in merito alla realizzazione del progetto ed allo specifico utilizzo del contributo della Fondazione Cassa di Risparmio di Terni e Narni; rassegna stampa relativa al progetto; documentazione fotografica relativa al progetto. REVOCA DELLE EROGAZIONI La Fondazione potrà revocare l’assegnazione qualora: a) siano accertati i motivi che inducano a ritenere non possibile la realizzazione o la continuazione del progetto o del sostegno; b) sia accertato, all’esito della verifica della rendicontazione, l’uso non corretto dei fondi erogati; in questo caso la Fondazione potrà in qualsiasi momento disporre l’interruzione della contribuzione e richiedere la restituzione delle somme già eventualmente versate; c) il soggetto beneficiario non abbia dato seguito ai contenuti del progetto proposto ovvero alle eventuali indicazioni della Fondazione per la sua realizzazione; d) il soggetto beneficiario non abbia concertato con la Fondazione le attività di comunicazione relative al progetto; e) sia accertata l’esistenza di ulteriori contributi di altri Enti non precedentemente dichiarati. IL PRESIDENTE (Mario Fornaci)
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L’arte di ascoltare: una pratica dimenticata In periodi di crisi come l’attuale molte arti e molti mestieri caduti in disuso o addirittura snobbati dalle nuove generazioni, presi ormai nel vortice del consumismo e della globalizzazione, sono ritornati di moda. Un decennio fa durante una puntata del Maurizio Costanzo show suscitò meraviglia la storia di un giovane laureato romano che, non riuscendo a trovare sbocco professionale, si era messo a fare il calzolaio. Poté così non solo risolvere il problema della disoccupazione, ma anche realizzare guadagni che nemmeno la laurea a pieni voti gli avrebbe permesso. Altri giovani, nipoti di contadini, nonostante diplomi e lauree, non hanno trovato altra strada che rimettere in piedi le aziende fatiscenti dei loro avi; lavoro molto faticoso, ma di sicuro guadagno. Questi solo alcuni esempi di buona volontà e di spirito di adattamento. In tempi di crisi, si sa, bisogna fare di necessità virtù. Tuttavia l’arte di ascoltare l’abbiamo dimenticata tutti anche in tali frangenti, compreso il sottoscritto che l’ha riscoperta per caso nel bel mezzo della bagarre consumistica di un affollatissimo supermercato. Negli scaffali del reparto editoria giaceva dimenticato un libello in edizione poket intitolato appunto L’Arte di ascoltare, traduzione di un opuscolo del greco Plutarco di Cheronea vissuto nel I sec. dC… non certo l’ultimo best seller! Incuriosito l’ho comperato e non appena in luogo tranquillo, l’ho letto d’un fiato, colpito della sua straordinaria attualità nonostante i quasi duemila anni sulle spalle. Questo è il motivo che mi ha indotto a proporne alcuni passi significativi al lettore allo scopo di invitarlo a meditare su certi aspetti del costume attuale. Oggi si parla molto e si ascolta poco. Non c’è dibattito, non c’è programma televisivo in cui gli ospiti intervenuti non siano presi dalla smania di aprire bocca per ostentare il proprio sapere e soprattutto per criticare o addirittura insultare chi la pensa diversamente. Il moderatore, ben lungi dal moderare, si infervora anche lui, si intromette, interrompe, scavalca, toglie bruscamente la parola, sentenzia, giudica e manda secondo che ringhia, come il Minosse dantesco. Non vi ricordate delle trasmissioni pollaio che hanno imperversato in epoca berlusconiana sui vari canali televisivi pubblici e privati, di varia tendenza politica, degenerando sistematicamente in disdicevoli gazzarre, in cui spariva la poca chiarezza di idee del malcapitato spettatore? Fu l’epoca d’oro dei cosiddetti telepredicatori che, usando magistralmente la potenza del media hanno lanciato accuse, celebrato processi in diretta e involontariamente contribuito insieme alla corruzione della classe politica a creare una pericolosa sfiducia nelle istituzioni. Che dire poi delle vergognose bagarre avvenute in parlamento, il sancta sanctorum della Costituzione, urla, parolacce, spintoni, insulti, sceneggiate di pessimo gusto ecc. di cui sono stati protagonisti vari disonorevoli; chiamiamoli così, visto il miserevole spettacolo che hanno dato all’estero e soprattutto all’Italia svolgendo un bel servigio simile per il quale sono pagati profumatamente? Ritorniamo ora al nostro Plutarco il quale nel suo saggio parte da una valida considerazione sul senso dell’udito il quale a differenza degli altri sensi è il più esposto non solo agli stimoli esterni, ma anche a quelli interni. I giovani, dice, possono trarre dall’ascolto grande vantaggio, ma anche grande pericolo, considerando la loro
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scarsa maturità. Pensiamo ai rischi che provocano ai ragazzi l’abuso della televisione, di Internet, di facebook, dei cellulari con gli sms. Ai tempi di Plutarco tutto ciò non esisteva, ma egli conosceva benissimo l’influenza che esercitava, specie in campo politico, l’oratoria, l’arte del parlare di cui i Sofisti secoli prima ne avevano scoperto la potenza e la possibilità di insegnarla ad altri. Egli dice che prima che nell’arte di parlare bisogna esercitarsi in quella dell’ascoltare e porta un esempio tratto allo sport: chi gioca a palla impara contemporaneamente a prenderla e a lanciarla, ma per la parola bisogna prima imparare ad accoglierla bene per poi pronunciarla bene. L’arroganza, la presunzione, la smania di primeggiare, l’invidia sono i difetti che ci impediscono di ascoltare e così dice testualmente: Bisogna evitare di agitarsi e di abbaiare ad ogni battuta, aspettando pazientemente che l’interlocutore abbia finito di esporre il suo pensiero, anche se non lo si condivide. E più avanti: Chi passa subito al contrattacco non solo interrompe il logico fluire del discorso, ma non ci fa una bella figura e finisce per non ascoltare e non essere ascoltato. Parlando dell’invidia, anticamera dell’odio e della calunnia, egli dice che essa muove da un senso di superiorità e di smania di protagonismo che spingono l’invidioso ad indispettirsi e ad arrabbiarsi se un oratore riscuote il favore del pubblico e solo per questo motivo gli si scaglia contro. Così: A furia di disprezzare e di gettare fango, il dibattito risulta inutile ed insensato. Un buon ascoltatore invece sa sempre trarre profitto da chi parla a prescindere dal successo o meno, in quanto riesce con logica chiarezza a rendersi conto dei suoi difetti (povertà concettuale, atteggiamento incivile, ricerca a tutti i costi del consenso) e in questo modo correggere i propri. Perciò conclude: Dobbiamo giudicare prima noi che colui che parla, chiedendoci se anche a noi non possa accadere di incappare inconsapevolmente in un simile errore. In molti casi è meglio ascoltare che parlare. Un ascolto corretto e attento porta a conoscere meglio se stessi, a controllare le proprie passioni e a raggiungere quell’equilibrio che dovrebbe essere la meta di ogni uomo. Plutarco invita gli ascoltatori a sorvolare sulle parole forbite e sulle frasi piene di orpelli, fermando l’attenzione sui contenuti e cercando di cogliere l’essenza del discorso. Ascoltare, dice, significa non solo porre mente a ciò che gli altri dicono, ma anche cercare di cogliere al di là delle parole il mondo interiore di chi ci sta di fronte. Questo diceva duemila anni fa Plutarco di Cheronea che, sebbene non esistessero i media, mostrava di aver capito perfettamente i meccanismi che sono alla base della comunicazione. Oggi quello che conta non è l’ascolto, ma l’audience, il numero degli ascolti ovvero la quantità a discapito della qualità, il numero a discapito della cultura. Credo che la lettura di questo saggio farebbe molto bene ai nostri politici protagonisti di futili polemiche di poltrone e ai nostri anchorman televisivi che da perfetti tuttologi vorrebbero insegnarci di tutto, ma che dico? Essi hanno ben altro da fare: la carriera, i soldi, gli indici di ascolto... Io mi limito a consigliarlo ai miei lettori! Plutarco, un greco vissuto ai tempi del famigerato Nerone, Plutarco, un classico che come tutti i classici non finisce mai di dire quello che ha da dire, per usare una celebre frase dello scrittore Italo Calvino. Pierluigi Seri
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La festa dei nonni La festa dei nonni (da noi istituita nel 2005, in altri paesi da 30anni) non è stata mai così osannata come quest’anno. Dall’alto del Vaticano il primo nonno Benedetto e il suo pari Francesco l’hanno celebrata nella giornata del 2 ottobre, data che coincide mirabilmente col gaudio degli Angeli Custodi. Dalla sponda materialista nonno Giorgio e il nipote Matteo hanno elogiato abbondantemente la categoria, e poi a seguire canti di lodi dalla schiera infinita di quanti sono comodamente e saldamente assisi sulle istituzioni. Ora tutto questo giubilo per il popolo dei silenziosi fino ad un certo punto è sacrosanto, oltre suscita il sospetto della esagerazione strumentale. Emerge il pensiero che ai nonni stanno facendo la festa, o meglio la cresta, una tosatura (estorsione) iniziata già da qualche anno con la deflagrazione della crisi totale. E l’unico argine, ben evidente a tutti, che tiene ancora (per poco) in piedi il sistema sono proprio i “vecchi”. Lo Stato, dal centro alla periferia, è in fallimento, causa prima gli sprechi ingiustificati, di tutto e di più: emolumenti, vitalizi e tfr creativi (per neonati parlamentari... mostruosità). Le imprese, banche comprese, sono fuori mercato (quasi tutte) e i soldi se li tengono per paura di affogare. Dall’estero arrivano solo corpi umani da sfamare, altro che investimenti! Il piano Salva Italia in sostanza è nei portafogli degli anziani perchè oltre ad aver lavorato sodo per una vita hanno pure risparmiato, e sono quelli che hanno cominciato a tirare le cinghia dagli anni ‘60-‘70, andati in pensione quindi negli ultimi dieci anni. La festa iniziata con l’ Euro, che ha tagliato i redditi da lavoro e da pensioni (rimasti tutt’oggi a livelli della lira...), è ancora in corso con le tasse dirette e indirette sempre in crescita, l’inflazione non coperta. Nonostante questo i nonni sono stati obbligati a sostituirsi, in larghissima parte, allo Stato per fare fronte all’emergenza sociale, provvedendo in toto o in parte a ripianare le difficoltà economiche dei propri figli precari, nel sostenere le nuove famiglie (anche allargate...), pagando gli studi e i divertimenti ai nipoti. Un esborso forzoso che sta rapinando la sicurezza di una vecchiaia decorosa a nonni che non hanno sprecato un centesimo e nemmeno dissolto la ricchezza affettiva, l’amore familiare, in mezzo alle tante trappole disseminate da questa società. Sebbene dal 1995 ad oggi il risparmio degli italiani si sia quasi dimezzato, un po’ per la moda consumistica, maggiormente per fisco e spese necessarie alla sopravvivenza dei nuclei, la propensione a mettere da parte è stata ed è alta. La cifra (fonte Bankitalia) si aggira intorno a circa 8.000 miliardi di euro, 4 volte il debito pubblico, una ricchezza di circa 400 mila per 24 milioni di famiglie (quelle medie arrivano a possedere solo il 10% per una somma di 72 mila cadauna). Un motivo su tutti del perché si continui a risparmiare (61% delle persone), benché gli inviti a spendere si moltiplichino, dall’alto, è che oggi, come non mai, non c’è più alcuna fiducia nello Stato e nelle varie Istituzioni, per cui la priorità è essere previdenti, avere maggiori garanzie per la vecchiaia e i suoi malanni, la casa e/o un gruzzoletto per le generazioni a venire. Se i vecchi avessero preso a modello la condotta dissoluta del nostro Stato e quelli della “bella compagnia” degli innumerevoli apparati pubblici e para, col risultato che nel bel paese la maggioranza degli occupati vive grazie a cospicue rendite politiche (che non ha pari in nessun’altro paese al mondo...), saremmo già a carte quarantotto. Di questo tesoro sanno bene loro, per questo titubano sul taglio delle spese pubbliche. Prima c’è da finire di fare la festa-cresta ai risparmi di onesti risparmiatori. Un tempo ai “vecchi” si riconosceva la virtù della saggezza e quindi
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una partecipazione decisiva nella vita delle comunità, poi furono messi da parte e considerati scarti inservibili della società industriale. Oggi tra le macerie della democrazia costituiscono una speranza di salvezza. Essi, gli ultimi che hanno avuto rispetto del loro lavoro perché hanno avuto la forza di salvarne una parte, hanno manifestato un grande senso della storia. Non hanno dimenticato il passato, le guerre e le ricostruzioni, onorando, con l’equilibrio dell’economia familiare, sia il loro presente che il futuro dei figli. Mentre i governanti hanno fatto e fanno continui festeggiamenti del presente, che assicura soltanto i loro tornaconti, dimostrandosi astorici e dementi, sebbene a chiacchiere straparlino di valori e solidarietà. Poi quando comunicano gli imbrogli trovano termini inglesi (spending review, job act, ecc.), parlano con svariati acronimi (sigle varie), scrivono in burocratese tanti fogli e in caratteri piccolissimi come fanno le banche, per mettere soggezione a chi già per l’età “vede male”. Chi vive, come me attualmente, il periodo di appaiamento delle parabole esistenziali, in discesa quella di noi nonni, in ascesa quella dei nipotini, preso da una sublime sintonia che dura solitamente dalla nascita fino ai primi passi nelle nebbie adolescenziali, è come se fosse immerso in uno stato di grazia piena e celestiale. Con la nonnità si realizza l’incontro tra i rispettivi angeli, (che si sa non hanno sesso... quindi il concetto vale per tutte le relazioni, ovviamente anche delle nonne con nipoti maschi o femmine, piccoli o un po’ più grandicelli che siano) riemerge il tuo angelo custode (una volta si pregava: Angelo di Dio che sei il mio custode illuminami...), grazie alle condizioni di libertà (relativa) dalle ansie genitoriali e dai desideri carnali... Questo intenso abbraccio, determinato da una portentosa attrazione spirituale, ti consente pure di osservare la specularità dei corpi, entrambi incerti, giunti insieme di fronte a due svolte cruciali, quella dei nonni da materia a spirito, quella dei piccoli in senso opposto. Ritorna protagonista quotidiano il bambino che sei stato e che ti porti dentro, in perfetta e gioiosa identificazione col piccolino, nei giochi con la natura e con i primi giocattoli, e mentre gli racconti una fiaba la racconti anche a te stesso. In alcuni momenti di felicità comune si avverte la sensazione che qualcosa di te, di spirituale, continuerà a vivere nel/nei nipotini, proiettandosi verso l’infinito. Vado (via internet) per curiosità su Wikipedia e trovo scritto che : Il compito di promuovere iniziative di valorizzazione del ruolo dei nonni, in occasione di tale data, spetta per legge a Regioni Provincie e Comuni. E come no! Allora, a parte le solite festicciole con torte e bevande, faccio un paio di proposte. Una, perché non istituire un Consiglio degli Anziani (i saggi), portatori di ricche esperienze del mondo del lavoro e professioni varie (messi a riposo = conoscenze sprecate) da affiancare alle Amministrazioni Pubbliche, invece di continuare ad accendere (bruciare soldi..) collaborazioni e consulenze a parenti e amici? I vecchi parteciparebbero con piacere e gratuitamente. Due, perchè non promuovere le adozioni di nonni soli (in balìa di violenti e ladri di pensioni, v. cronache) da parte di nipotini (famiglie) che non li hanno? E viceversa adottare nipoti per quei nonni che ne sono privi? I Papi, Benedetto e Francesco, celebrando insieme hanno detto: Beate quelle famiglie che hanno i nonni vicini. Grande e forse unica consolazione (e valorizzazione) è l’amore dei nipoti, così riformulando una celebre frase di Papa Giovanni XXIII: “... cari nipotini quando tornate nelle vostre case fate una carezza ai vostri nonni e dite loro questa è la carezza del Papa”, e dello Spirito Santo. Con la speranza che in futuro qualche Nonno possa essere Aldo Zerbini anche Beatificato.
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Troppa igiene Dovremo rimpiangere e rivalutare sporcizia, batteri carenze igieniche? Probabilmente no, ma resta il fatto che l’eccesso di igiene rischia di portare -sia chiaro, proprio in quanto eccesso- ad inconvenienti forse maggiori di quanti la mancanza di igiene ne abbia procurati in passato. Mi spiego. Supponiamo che nasca un bimbo normalmente sano. E supponiamo che la mamma, per un eccessivo, folle terrore che qualche malattia lo raggiunga, lo chiuda in una camera sterile, assolutamente asettica. Tale espediente -non dimentichiamolo- rappresenta un vistoso eccesso di una misura in sé del tutto condivisibile: l’igiene. E tuttavia non si stenterà a capire che esso metterà quel bimbo in una situazione insostenibile nel momento stesso in cui da quella camera dovrà uscire. Infatti egli sarà inevitabilmente preda e vittima di tutti i batteri e i virus che incontrerà, in quanto contro di essi non avrà potuto sviluppare nessuna delle naturali difese immunitarie che madre natura mette a disposizione degli esseri viventi. Ancora: è noto che gli zingari sono molto più sani dei cosiddetti cittadini, perché vivendo in condizioni igieniche meno esasperate, permettono all’organismo di adeguarsi ed imparare a difendersi dalle varie malattie, cioè si irrobustiscono più e meglio. La troppa igiene indebolisce dunque il sistema immunitario e l’organismo intero, permettendo l’aggressione delle varie malattie. Tutti i bambini nati sani sono naturalmente dotati di meccanismi di difesa immunitaria e di anticorpi per adattarsi rapidamente all’ambiente esterno e per raggiungere così un alto grado di immunità alle malattie Le difese immunitarie, che sono il nostro vero e proprio esercito e la nostra forza difensiva, sono assolutamente fondamentali per la salute e non sono sostituibili in alcun modo dai micidiali cocktail di farmaci, tanto cari ad alcuni. Esse, proprio come i muscoli, vengono rinforzate e mantenute dalla necessità e dall’esercizio. Ed è ben noto che se un bimbo non può “farsi le ossa”, cioè allenarsi sui germi veri, non ha modo di diventare resistente. Ebbene, pare che tutto questo -bagaglio esperienziale non
diciamo di qualsiasi medico, ma di qualsiasi nonna- oggi sia dimenticato. Ci tocca mangiare cibi talmente impoveriti dai procedimenti igienici cui sono sottoposti, da perdere non solo il sapore (ed è già un grosso guaio, perché se madre natura ha dato all’uomo il senso del gusto c’è il suo bel perché), ma anche, assieme a molte delle qualità nutritive e organolettiche (altro grosso guaio) quel minimo di cariche batteriche che avevano proprio la funzione di armare efficacemente l’organismo umano contro le altre, più massicce cariche batteriche che sono comunque presenti nell’atmosfera, nel portato da animali e insetti. Orbene, se nessuna igiene al mondo riuscirà mai a debellare la normale (e normalmente innocua) carica batterica ambientale, quella stessa igiene rischia invece di essere assai efficace nel togliere all’uomo quelle autodifese senza le quali egli ha la scelta tra il divenir preda o delle malattie oppure dei farmaci i quali, perfetti che siano (e ben raramente lo sono) mai e poi mai potranno sostituirsi all’opera saggia e plurimillenaria della natura. Non elencherò qui tutti i casi di eccessiva, a volte ridicola cura cui per legge devono essere sottoposti i cibi e i locali in cui vengono confezionati, ma mi limiterò ad una sola considerazione di ordine generale. La mancanza di igiene può causare malattie, a volte anche gravi (si pensi alle c.d. febbri puerperali oggi da noi scomparse proprio grazie ad un’igiene appropriata). Un eccesso indiscriminato -quindi inappropriato- di igiene nuoce sicuramente al necessario rinforzo delle difese immunitarie naturali. Ciò, in buon italiano, significa che, con apparente paradosso, la mancanza di igiene nuocerà meno che non il suo eccesso: se infatti la carenza igienica nuocerà solo ad alcuni, ovviamente i più deboli, l’eccesso nuocerà a tutti, rendendo deboli anche i forti. Ma mentre le carenze igieniche portano a disturbi immediati, l’azione di indebolimento delle difese immunitarie è lenta; non sarà pertanto necessariamente evidente il nesso tra la troppa igiene e la malattia. Si rischieranno quindi più malattie attraverso l’igiene che attraverso la sua mancanza. A tutto vantaggio da chi i farmaci produce e vende. Giovanna Giorgetti
L’ i g i e n e d e i s e n t i m e n t i L’amica Giovanna Giorgetti affronta, su questa stessa pagina, il problema del difficile rapporto tra l’igiene necessaria e quella eccessiva, soffermandosi sugli inconvenienti di quest’ultima. L’ideologia di moda ci vuole immuni dai pericoli più insignificanti e quindi ci coinvolge, oltre che nell’igiene personale e alimentare, nel campo vastissimo di tutti gli innumerevoli divieti e obblighi nei quali siamo avviluppati, dal casco in moto alle norme severissime su impianti, cantieri, ecc., fumare compreso. Ognuna di queste norme ha una sua logica, si capisce, ma il loro insieme è al tempo stesso effetto e causa di una filosofia che, passabile in certi casi in materia di prevenzione fisica, nel campo dei sentimenti e dei rapporti umani ha conseguenze a dir poco disastrose: non bisogna farsi male. Ora, vivere un rapporto sentimentale senza mai farsi male è quasi sempre impossibile: tanto più è intenso e coinvolgente il rapporto, tanto più l’opportunità di soffrire e far soffrire sarà presente. Ciò non sarà se non il rovescio di una medaglia, sull’altra faccia della quale c’è il gran benessere e le grandi soddisfazioni affettive che un valido rapporto umano procura. In altre parole: il molto amare fa gioire e soffrire molto, il poco amare neque prodest neque nocet. E chi di noi non ha esperienza di cibi raffinatissimi, igienicamente ineccepibili, che non san di nulla, laddove altri cibi fatti in barba alla legge e lontano dalla CEE, hanno sapori ineguagliabili? Che altro sono i ricercatissimi sapori di una volta? Una volta le cose si facevano senza curarsi troppo che tutto fosse ineccepibile, ipersicuro, sterile. Una volta ci si gettava nei rapporti umani con la propria passione e senza il terrore che qualcosa -Dio guardi- ci facesse soffrire. Si soffriva? E quando mai le Scritture avevano promesso, su questa terra, la libertà dal dolore?
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Il terrore della sofferenza, peggio, la convinzione che il soffrire sia qualcosa da evitare a qualsiasi prezzo porta le persone -uomini e donne indistintamente- non solo a non impegnarsi nei rapporti umani, ma peggio, una volta affrontato, con tutte le molle, il rapporto, a star di vedetta e gridare al lupo non appena compaia una nuvoletta a quell’orizzonte che si pretende perennemente sereno. E, come conseguenza finale, a sfasciare il rapporto che, avendo procurato sofferenza, dimostra di non essere quello giusto, vale a dire asettico e insulso come certi prodotti alimentari industriali. Un vero e proprio giro vizioso: l’imperante filosofia esige quel rapporto giusto che la stessa filosofia impedisce di realizzare. Ma, grazie a Dio politicamente scorrette, sono proprio le passioni -di cui quella sessuale non è la minore, ma nemmeno l’unica- alla base dell’evoluzione, della civiltà, della dignità stessa dell’uomo, perché le passioni -splendidamente irrazionali- portano verso la vita con tutta la loro forza cieca; ed è proprio quella forza che consente di far progredire il raziocinio umano, spingendolo all’insoddisfazione, vale a dire a non accontentarsi del risultato raggiunto. Al contrario, la ricerca del solo, sterile benessere, tende a fermare il corso della storia impantanandolo in quella società senz’anima, senza progresso, senza sentimenti né passioni, che Huxley previde, già nel ’32, nel suo Nuovo mondo, con allucinante, profetica lucidità. Cibi asetticamente sicuri, quindi, in un mondo di sentimenti asetticamente sicuri e politicamente corretti, scevro, con l’eliminazione di ogni passione e di ogni irrazionalità, del male e della sofferenza. Splendido! E di che si morrà allora? Di noia, no? Vincenzo Policreti
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Primo Piano È cambiato tanto il mondo da quando Richard Linklater ha scelto di filmare un delizioso bambino di otto anni di nome Ellar Coltrane. Alla radio si ascoltava Yellow dei Coldplay (destinati di lì a poco a rivelarsi al grande pubblico), si giocava al Game Boy, e si cercava con fatica di superare il trauma dell’11 settembre. È in quel preciso momento storico che il progetto di Boyhood comincia a muovere i suoi passi. Da quel momento, per i successivi dodici anni, Linklater ha radunato la stessa troupe e gli stessi attori per raccontare, nell’arco del tempo, la storia di una famiglia. Di una madre ancora troppo giovane e insicura, e della sua stoica forza di volontà di fronte alle continue insidie e sofferenze; di una sorella più grande che si affaccia con anticipo alle grandi esperienze delle vita; di un padre assente eppure presente, anche lui troppo insicuro e perfettamente uomo nel fuggire di fronte alle paure di una vita familiare. Ma soprattutto è la storia di un bambino. E di un ragazzo. E di un uomo. Che cresce davanti ai nostri occhi, con la devastante crudeltà della natura e del tempo, in un percorso così chiaro ed autentico da risultare straziante. Lo conosciamo che è ancora bambino, steso sull’erba a guardare le nuvole fuori dalla scuola mentre aspetta che la madre lo venga a
BOYHOOD di Richard Linklater
riprendere; lo vediamo bisticciare continuamente con la sorella più grande, nei continui traslochi e cambiamenti che la vita gli riserva; lo vediamo farsi grande di fronte ai matrimoni sbagliati della madre, alle insicurezze e instabilità paterne, ai continui sbalzi di una vita in continuo movimento che non sembra dargli pace. Lo vediamo fumare, bere, innamorarsi e diplomarsi. E poi lo vediamo lasciare il nido, insicuro come tutti, ma in procinto di dare un senso al suo mondo. Dodici anni, nella vita di una persona. Niente di più, niente di meno. Sta in questo la grandezza del progetto di Richard Linklater: aver proseguito e probabilmente elevato a sistema la sua riflessione sul cambiamento, sullo scorrere del tempo, sul divenire. L’aver impresso per sempre su pellicola la più semplice ed autentica delle storie, quella in cui ognuno si può riconoscere, a qualsiasi tempo e generazione appartenga. C’è tutto il mondo, sotto a quel cielo azzurro che Mason guarda con la curiosità di un bambino che non può smettere di farsi domande. E c’è tutto il mondo con lui su quel furgone ammaccato che lo porta verso la vita. Quando un film ti permette di entrare nello schermo, o quando il personaggio della storia ti si siede accanto, allora capisci che il cinema, in fondo, non è altro che questo. E che la storia di una persona, quando viene dal cuore, può diventare la storia di tutti. Lorenzo Tardella Per altre recensioni visitate il blog www.ilkubrickiano.wordpress.com
Endodonzia Pediatrica L’Endodonzia pediatrica è quel ramo dell’odontoiatria che si occupa della terapia canalare o devitalizzazione dei denti da latte dei bambini sin dai primissimi anni di età. I denti decidui o denti da latte hanno una morfologia strutturale analoga a quella dei denti permanenti e per questo spesso si rende necessaria una cura endodontica anche per essi. Viene praticata ogni qualvolta una carie oppure un evento traumatico interessi la polpa del dente (il cosiddetto nervo) determinandone l’esposizione o una infiammazione irreversibile oppure la necrosi. In questo caso il dente generalmente appare più scuro, solitamente tendente al grigio. È molto importante che il dente deciduo non venga estratto anticipatamente in quanto mantiene il posto e prepara la strada alla futura eruzione del dente definitivo, ma venga devitalizzato cioè reso non vitale e mantenuto in bocca nella sua posizione fino alla sua naturale perdita. Il compito del pedodontista, cioè della figura professionale che si occupa delle cure dei denti dei bambini, è quello di rimuovere la polpa infetta con appositi strumenti, disinfettare e sagomare i canali del dente che decorrono lungo tutta la radice e riempire i canali stessi con del materiale biocompatibile riassorbibile affinchè i batteri non possano più arrecare danni ed il materiale non rimanga nell’alveolo dopo il riassorbimento delle radici del dente da latte, processo che avviene durante la permuta del dente da latte e la sua sostituzione con il dente permanente. Si ringrazia per l’articolo la dott.ssa Michela Santi, collaboratrice per la pedodonzia dello studio odontoiatrico Novelli. Alberto Novelli
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L’uomo e l’erpice Dopo aver mietuto e poi trebbiato il grano sull’aia, il contadino iniziava ad organizzarsi per arare il terreno, onde prepararlo alla nuova semina. Si alzava che era ancora notte per governare le vacche con una bella bracciata di erba medica, di trifoglio o di granturco, mietuto e portato nella stalla il giorno prima. Mentre gli animali mangiavano, l’uomo poteva anche schiacciare un pisolino, stando sdraiato sopra il grande mucchio del foraggio. Era un sonno vigile perché, appena le vacche finivano la razione e la greppia risultava pulita, bisognava reintegrarla di nuovo facendo attenzione a non esagerare per evitare sprechi. Appena faceva giorno portava gli animali alla fonte e, dopo una buona bevuta, metteva loro il giogo e lo agganciava all’aratro. Se necessario, ovvero se nella zona di lavoro c’erano viti o piante da frutto, bisognava mettere una specie di museruola, detta paniere, fatta di vimini o di corda, in modo da impedire che mangiassero le foglie a portata di lingua. Iniziava allora l’aratura con le vacche che ruminavano e il contadino a stomaco vuoto. Dopo aver lavorato alcune ore per il fresco, arrivava l’ora della prima colazione consistente o in un piatto di fagiolini ripassati in padella col pomodoro o una salsiccia sott’olio (se ad agosto ce n’era restata qualcuna), il tutto accompagnato da fette di pane raffermo e dall’immancabile bicchiere di vino. Mentre il contadino metteva a tacere i brontolii del suo stomaco, le vacche riposavano all’ombra sferzando l’aria con la lunga coda e agitando le orecchie per scacciare le fastidiose mosche che le assalivano. Verso mezzogiorno, quando il calore del sole incominciava a farsi insopportabile, si interrompeva l’attività, si liberavano le bestie dal giogo, si sistemavano all’ombra di una grande quercia con una adeguata razione di foraggio e poi si andava a pranzo. Dopo mangiato anche il contadino si sdraiava all’ombra sopra una vecchia coperta o a un sacco di juta e faceva il suo riposino. Al risveglio portava le vacche all’abbeverata e poi riprendevano il lavoro che durava fino al tramonto. Sui terreni così arati nella stagione estiva, a novembre iniziava la semina. Le giornate si erano accorciate notevolmente ed erano apparse le prime nebbie. Misurata la giusta quantità di grano con una còrva (o corba: grosso canestro a trama fitta fatto con cortecce di castagno intrecciate e vimini), si infilava il braccio sinistro al di sotto del manico di tale recipiente e con largo gesto del braccio destro si spandeva il seme su un pezzo di terreno non molto grande, in modo che fosse possibile interrarlo in un breve lasso di tempo per impedire agli uccelli di farne razzie. Per interrarlo si usava l’erpice doppio, con i lunghi denti di ferro disposti in modo alternato, a zig zag, in modo da spostare ogni più piccola zolla di terra e ricoprire ogni seme, sottraendolo alla voracità dei passeracei. C’erano stormi di passeri, fringuelli, verdoni e allodole che volteggiavano sopra il terreno dopo che il cane del contadino aveva fatto un giro di perlustrazione facendoli alzare in volo. L’uomo allora saliva sull’erpice, un piede sopra quello di sinistra, l’altro sopra quello di destra e così, a gambe larghe, dava il via alle vacche tenendo in una mano le corde di guida collegate ai morsi nasali e nell’altra il bastone con cordicella di cuoio per sferzarle. Col quel peso sopra si rimestava il terreno in profondità ma, a causa degli avvallamenti e delle zolle disuguali, l’erpice ondeggiava in ogni direzione e ci voleva molta attenzione per rimanere in equilibrio e non cadere dentro uno dei fori rischiando l’integrità delle gambe. Visto da lontano, tra lusco e brusco, era uno spettacolo vedere quell’uomo oscillare a destra e a manca e poi abbassarsi fino a scomparire dietro un dosso e poi ancora riemergere col capo e poi con tutte le spalle. Sembrava di vedere il filmato di uno sciatore impegnato in una discesa libera fuori pista, proiettato al rallentatore. Se capitava poi una di quelle giornate tipiche novembrine, con quelle pioviggini leggere ma continue, a sera la giacca di velluto e il berretto del contadino risultavano molto pesanti, imbevuti com’erano d’acqua e l’uomo camminando sprofondava nel Vittorio Grechi fango. Infatti questo tipo di pioggia veniva chiamata calca villani.
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La dieta secondo la propria costituzione Prima classificazione (segue dal numero di ottobre 2014) La prima è quella che viene definita Legno/Fegato-Vescica Biliare, nella quale gli organi delicati sono proprio loro, il fegato e la colecisti e saranno quelli che si ammaleranno più facilmente di epatiti, colecistiti, calcolosi biliare, cirrosi, steatosi epatica. Ma non solo perché da loro dipendono i muscoli e i tendini, le unghie e la vista, la collera e la decisione. L'aspetto morfologico sarà quello di una persona magra o tendente al magro, comunque muscolosa, atletica che ama praticare lo sport, simpatica e aperta, stanca al mattino al risveglio, con difficoltà alla messa in movimento, ma la sera non andrebbe mai a letto, dinamica iperattiva. Lavoratrice instancabile, impetuosa e ottimista-idealista, coraggiosa e risoluta (D’Artagnan), combattiva, ideativa e creativa, ha mille interessi, comincia mille cose che però difficilmente porta a termine, disordinata, talora ansiosa e timida quasi inibita finché non prende consapevolezza di sé.
Ama i sapori acidi che sono rinfrescanti e che apportano liquidi: è astringente. I cibi consigliati sono in primis il farro, il grano integrale, la segale, il grano duro e semola di grano duro; gli agrumi, i frutti rossi, lamponi e albicocche; il pollo, i formaggi non fermentati. Bene il kefir; fagioli, ceci, piselli; quale carne il pollo. Dobbiamo considerare alimenti anche alcune piante che possono essere consumate tal quale o come integratori: rosmarino, carciofo, rafano nero, tarassaco, curcuma, nocciolo. Alcune ricette: farro con pesto di rucola e zucchine; crepes ai carciofi; basmati con asparagi e piselli; penne integrali con tofu e olive nere; risotto integrale con zucchine; vellutata di carote con sesamo nero; crostini di pane di segale con crema di mandorle; tortino verde bianco; centrifuga pompelmo prugna ananas; frullato arancia limone carota; cous cous mele e ananas. Dr. Leonardo Paoluzzi Medico chirurgo - Esperto in agopuntura e fitoterapia
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Un plauso universale va di diritto al chirurgo ternano Prof. VALERIO MECARELLI che con la sua alta e sicura professionalità sa rimettere a nuovo la salute compromessa dell’uomo. Ormai note le sue riconosciute innovazioni tecniche risolutive nell’operare (insieme alla validissima équipe della chirurgia d’urgenza dell’Ospedale di Terni) in special modo quanto riguarda i traumi di fegato e milza ed altro: tecniche inoltratesi oltre i confini della sua città. Un grazie e buon lavoro al Prof. Mecarelli e a tutta l’équipe della chirurgia di Terni. Roberto Bellucci 30
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