Numero 1 3 4 aprile 2016
Mensile a diffusione gratuita di attualitĂ e cultura
Vi t a e s i m b o l i È curioso notare come le date fondamentali della Storia siano molto spesso vissute dai contemporanei come tutt’altro che fondamentali. Quando Odoacre, nel 476 dC, depone il giovanissimo Romolo (che solo per scherno venne soprannominato “Augustolo”), ultimo imperatore romano d’Occidente, si sarà forse reso conto d’aver compiuto un atto politico relativamente significativo per i suoi tempi, ma di certo non si sarebbe mai sognato che gli storici del futuro avrebbero deciso di fissare in quel momento la fine di tutta l’Età Antica, lo spartiacque definitivo tra il mondo classico e il Medioevo. Medioevo che finisce -sempre per convenzione storiografica, beninteso- quando Cristoforo Colombo posa il piede su una spiaggia delle Bahamas; e forse il genovese era davvero convinto di trovarsi dalle parti del Cipango -come lui chiamava il Giappone- ma di certo non avrebbe scommesso un ducato sul fatto che quella sua orma sulla sabbia sarebbe stata presa dai posteri come la pietra miliare dell’Evo Moderno. Non parliamo neppure dell’evento che fa da baricentro alla nostra numerazione degli anni: qualunque siano le convinzioni e la fede dei lettori, qualunque possa essere la realtà storica o divina dei fatti avvenuti un paio di millenni orsono in Palestina, certo è che la quasi totalità dei contemporanei non ha avuto consapevolezza dell’importanza dell’evento; al punto che è quasi certo, se non altro, che l’anno di nascita di Gesù Cristo non sia stato l’1 AD (e nemmeno l’1 aC; e men che mai l’anno zero, che a quei tempi lo zero non esisteva neppure), come riteneva Dionigi il Piccolo quando decise di cominciare a contare gli eventi storici a partire da quella data, ma qualche anno di poco precedente.
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Se dunque è destino, quando si è contemporanei di eventi di capitale importanza storica, di non accorgersene neppure, è possibile che in questi nostri tempi sia già accaduto qualcosa di assolutamente memorabile che non pare affatto tale ai nostri occhi distratti. Un possibile evento candidato a tanto onore potrebbe allora essere l’annuncio, fatto dalla rivista “Science” pochi giorni fa, della creazione in laboratorio di Syn 3.0, il primo batterio artificiale. Sono ormai quasi vent’anni che Craig Venter insegue l’obiettivo della creazione della vita, e adesso sembra esserci davvero riuscito. Lo stesso “numero d’ordine” apposto vicino a “Syn” (che ovviamente sta per sintetico) mostra che ci sono voluti diversi passi di avvicinamento: dopo una prima cellula in grado di vivere, ma solamente se accoppiata ad un altro batterio, e dopo un ulteriore successo, ottenuto però con un DNA espanso, adesso Syn 3.0 sembra avere tutte le carte in regola per potersi chiamare effettivamente “essere vivente”, pur essendo stato generato solo partendo da provette di materia inerte e non tramite la tradizionale -e lunghissima- evoluzione darwiniana. Non che sia facile provare sentimenti di fraterna amorevolezza verso la nuova creazione: in fondo, nessun batterio (nonostante ce ne siano di utilissimi, vitali addirittura) è passato alla storia come depositario d’affetto. Però Syn 3.0 sta lì, sotto ai vetrini dei microscopi, e ha tutte le caratteristiche che gli studiosi (almeno i microbiologi) richiedono per poterlo classificare come “vivo”. Certo, ha un corredo di soli 473 geni, ben lontano dai quasi trentamila che ci portiamo appresso noi umani: ma anche questo è in fondo un successo, perché nessun essere vivente naturale ha un patrimonio genetico così piccolo: il record precedente era detenuto dal Mycoplasma genitalium, d’origine naturale, con i suoi 525 geni. Se nel futuro la vita sarà ampiamente prodotta per sintesi artificiale, chissà: forse questi giorni saranno ricordati come una data cardine della storia dell’uomo. Per il momento, la notizia non ha suscitato più clamore di un mediocre record sportivo, ma lo abbiamo già detto: questo probabilmente dipende dal fatto che riteniamo difficile considerare “quella vita” davvero simile alla “nostra vita”. Come se fossero cose non solo lontane, ma proprio distinte, diverse. Gli antropologi darwiniani pensano che si possa considerare una sorta di cruciale passo evolutivo quello che è avvenuto circa 50.000 anni fa all’Homo sapiens, ovvero la capacità di produrre “pensiero simbolico”, saper insomma creare, usare, capire e manipolare i simboli. Forse, solo quando dai laboratori uscirà un essere vivente con questa caratteristica lo degneremo del giusto grado di attenzione. Forse. P ie ro F a bbr i
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A m m i ni st ra r e Fiore di Pesco ha, dopo estenuanti discussioni dei suoi iscritti, deciso di partecipare a future tornate elettorali. Poiché è accertato che, da decenni ormai, chiunque vada a sostituire, dopo roventi critiche demolitrici, il rottamato, ne sia di gran lunga peggiore, pensiamo che non ci sia mai fine al disastro e ci candidiamo anche noi (d’altra parte all’ultima tornata, qui in Terni, i sepensanti sindaci erano ben 13!). Da questo e da altri motivi noti alla cronaca, abbiamo amaramente preso atto di essere giunti all’apice della babele politica e ci accingiamo così a cercare di vederci più chiaro. Per i tanti senza arte né parte che si avanzano in questo insalubre territorio, la politica è uno scacchiere tra poltrone, una battaglia navale tra oligarchie. Gruppetti di parassiti con un potere enorme, finanche quello di tutelarsi così tanto da non andare mai in galera, si autoassolvono ed impongono o modificano ad arte la decorrenza dei termini per le pene da subire. In comune hanno solo un elemento: arraffare emolumenti mostruosi, mentre predicano sacrificio per gli altri. Rappresentano ormai la più grande vergogna presente nel nostro paese, superiore addirittura a quella che viene dirompentemente a galla, dei tanti preti pedofili. Si giustificano dicendo che sono gli altri a non voler approvare la cancellazione di tutti i privilegi. Ci prendono sempre per i fondelli: una persona vera rinuncia a tutto in piena autonomia, per sempre, e diventa così un vero animale politico (l’antropos politicon aristotelico). Si noti che laddove si è più vicini ai cittadini che non al potere (amministrazioni comunali) il guiderdone non è ingente, ma quando si è nel potere vero, quello centralizzato, allora il furto è gigantesco! E così continuano a sgraffignare e a provvedere allo sviluppo economico e alla difesa di parenti e affini, unica loro incombenza. Consigliamo a chi dovesse ritenersi offeso da quanto esposto, di leggere qualche dato sulla vita da nababbi che conducono (a vita) parlamentari e amministratori regionali e di annotare diligentemente quanti politici siano messi ogni giorno sotto inchiesta o arrestati (se di piccolo cabotaggio). Prima di candidarci frequenteremo però dei corsi, per maturare come amministratori, perché tali non si nasce, ma si diventa, sempre avendone predisposizione. Come dire che un impiegato, anche se di concetto, sempre impiegato rimane, qualsiasi medaglia gli appiccichino addosso! Vale per loro la stessa legge propria per uomo o per donna. Si diventa uomini, donne si diventa... si diventa amministratori. C’è però chi rimarrà sempre e solo femmina, sempre e solo maschio e chi non ha la benché minima qualità per fare politica! Piacerà a noi di Fiore di Pesco amministrare (ad ministrare: servire, governare), assumere cioè il ministero (minus ter: meno degli altri), al servizio di tutti, non di un gruppetto di amici. Ambiremo essere assessori (assidere: sedere accanto), stare cioè seduti accanto al sindaco (sin dike: con giustizia), colui che assicura giustizia a tutti, quindi la persona più saggia, libera, colta ed intelligente della città (come gran parte dei 13!). Ma non staremo, come scelleratamente s’usa, perennemente seduti nella nostra torre eburnea. Saremo in mezzo alla gente, proprio come ci ha insegnato Angelo Ceccoli, che si definiva “lo stradino” e che parlava con tutti, si interessava a tutti, e per sedia aveva la panchina, oggi con targa alla sua memoria, davanti alla Pasticceria Pazzaglia. Non saremo cioè autoreferenziali o costretti con fastidio a parlare con il popolino, tanto per far scena.
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Vita e simboli - P F a b b r i C N A - C O N F E D E R A Z I O N E N A Z I O N A L E A RT I G I A N AT O P a r c h e g g i o C E N T R A L PA R K I N G Eh, Sì! - G Raspetti B . M . P. - Soluzioni tecnologiche per il trasporto verticale Open data, open government - A Melasecche C M T - C O O P E R AT I VA M O B I L I T Á T R A S P O RT I L’ I t a l i a f a c s i m i l e d e l Q a t a r - F P a t r i z i Felice Rufini, scultore per passione - I Mortaruolo STUDIO MEDICO ANTEO I Cristiani d’Oriente - p a r t e I - PL Seri STUDIO MEDICO TRACCHEGIANI A Z I E N D A O S P E D A L I E R A S A N TA M A R I A D I T E R N I La festa del lavoro - A Zerbini N U O VA G A L E N O Abdon Pamich in marcia da oltre 80 anni - S Lupi Le lesioni meniscali del ginocchio - V Buompadre Disconoscimento del figlio - M P e t r o c c h i Tr o n i e ff ù r m i n i - P C a s a l i OTTICA MARI La barrozza - V Grechi F O N D A Z I O N E C A S S A D I R I S PA R M I O Diagnosi e cura integrata - L P a o l u z z i Mal comune... tutto stress - M Menichelli Erica Carlaccini - R B e l l u c c i G L O B A L S E RV I C E MEDICENTER GROUP
Nè sbandiereremo grandi accoglienze di facciata per le idee dei cittadini per poi affossare tutto, se non addirittura boicottare tutto. Ci ispiriamo a Sandro Pertini, amiamo il Presidente José Pepe Mujica. Non ci saranno, tra i nostri candidati, i praticoni di partito, omuncoli che non hanno mai nemmeno provato a lavorare e che vedono nella politica solo un mezzo per sbocconcellare. La prima regola sarà per noi quella di essere candidi (candere, brillare, da cui candeggiare), di non avere e di non aver mai avuto pendenze con la giustizia. Chi ne ha, resta a casa: sono così tanti gli onesti, in Italia, e così lontani dal malaffare, che c’è sempre posto per un altro. Nessuno è indispensabile! Non ci saranno i cultori di privilegi. Ognuno di noi avrà, come minimo, quattro lauree: culturale, morale, progettuale e ad honorem per quanto già realizzato a favore della città. Non ci sarà dunque quella pletora di analfabeti che fa oggi, della politica, un punto di accumulazione e che, pur mimetizzata da scarpe lucide e cravatte di seta, serve solo ad affossare le istituzioni. Noi non avremo emolumenti di sorta. Non ci saranno i furbetti che oggi, facendo finta di togliersi parte dello stipendio, si assicurano invece privilegi e mantenimento aureo a vita! Il servizio amministrativo è gratuito, per noi Senatori della città! Né saremo tentati a far soldi in altra maniera, approfittando dell’incarico: chi è onesto è onesto sempre, anche di fronte a una, nessuna, centomila Giampiero Raspetti occasioni.
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PA G I N A
Mensile di attualità e cultura
Registrazione n. 9 del 12 novembre 2002, Tribunale di Terni Redazione: Terni, Via Anastasio De Filis, 12 --- Tipolitografia: Federici - Terni
DISTRIBUZIONE GRATUITA Direttore responsabile Michele Rito Liposi Vicedirettore Luisa Romano Editrice Projecta di Giampiero Raspetti
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Open data, open government un valore per tutti! Non tutti sanno che, poco più di due anni fa, l’Italia ha sottoscritto la G8 Open Data Charter e si è formalmente impegnata ad attuare una serie di attività di open data, ad oggi una immensa risorsa ancora in gran parte inutilizzata. I “dati aperti” sono dati, appunto, liberamente accessibili a tutti, con l’unico obbligo di citare la fonte di provenienza. Molte persone e organizzazioni raccolgono ed elaborano, per svolgere la loro missione, dati di diversa natura che possono avere un valore molto elevato per soggetti terzi. La pubblica amministrazione è una di queste ed i cittadini possono trarre beneficio ogniqualvolta è loro garantito l’accesso ai suoi open data. Non a caso si richiama in questo caso la più ampia disciplina dell’open government: per una pubblica amministrazione veramente aperta a tutti, tanto in termini di trasparenza quanto di partecipazione diretta al processo decisionale, grazie anche al ricorso alle nuove tecnologie. Le pubbliche amministrazioni, infatti, producono, rilevano e gestiscono informazioni e tutto ciò si trasforma in dati. Purtroppo però questi non vengono spesso digitalizzati ed organizzati in modo intelligibile e soprattutto non sono accessibili direttamente. Ad esempio, per conoscere l’ammontare dei soldi spesi e l’elenco degli interventi per ricoprire le buche sulle strade della città, i cittadini non dovrebbero essere obbligati a produrre una richiesta scritta, portarla all’ufficio protocollo e aspettare che qualcuno risponda, sperando peraltro che i tempi di risposta non siano biblici, perché l’informazione dovrebbe essere accessibile immediatamente sul sito del Comune. Nell’ambito della trasparenza governativa, ci sono progetti come il finlandese “tax tree” (l’albero delle tasse) e l’inglese “where does my money go” (dove vanno i miei soldi) che permettono di identificare come i soldi delle tasse dei cittadini
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siano impiegati dai rispettivi Governi. Molti siti, tra cui l’italiano openparlamento.it, tracciano le attività dei parlamenti, in modo da mostrare cosa accada a livello di formazione delle leggi e quali parlamentari siano coinvolti e in quali attività. I dati aperti governativi possono inoltre aiutare la società civile in molti modi diversi. Servizi come mapumental.com e mapnificent.net aiutano, nel Regno Unito e in Germania, ad individuare dove andare ad abitare impostando i tempi massimi di percorrenza casa/ ufficio, i prezzi delle case e le peculiarità del quartiere. Tutti questi esempi utilizzano dati aperti rilasciati dai rispettivi governi. Svariati studi hanno stimato il valore economico dei dati aperti in diverse decine di miliardi di euro ogni anno, solo in Europa. Nuovi prodotti e nuove aziende nascono grazie all’accesso agli open data, mentre altre si rafforzano. Google Translate usa l’enorme volume di documenti dell’Unione Europea, disponibili in tutte le lingue d’Europa, per testare i suoi algoritmi di traduzione automatica, migliorando costantemente il servizio offerto. Pubblicare dati accessibili a tutti ha anche un indubbio vantaggio per la stessa pubblica amministrazione. Quando il Ministero olandese dell’Istruzione ha pubblicato on-line tutti i dati relativi al sistema educativo, il numero di domande ricevute è sceso, riducendo il carico di lavoro e i costi e mettendo gli stessi dipendenti pubblici in condizione di rispondere alle domande residue accedendo agli stessi open data. È ormai ampiamente assodato quanto e come gli open data stiano già creando vantaggi economici e sociali. Maggiore sarà il numero dei dati liberamente accessibili, maggiori saranno i possibili e futuribili re-impieghi degli stessi a beneficio di tutta la collettività. alessia.melasecche@libero.it
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L’Italia facsimile del Qatar Quando cala il sole e la temperatura scende sotto i 40 gradi, lungo le strade del Qatar, il paese del Golfo Arabo grande quanto l’Abruzzo che ospiterà i Mondiali di calcio nel 2022, comincia a muoversi un traffico molto eterogeneo composto da Ferrari e betoniere. Con circa 25 mila miliardi di metri cubi di riserve, il Qatar è il primo produttore al mondo di gas naturale liquefatto. Un paese ricchissimo che conta quasi due milioni di abitanti di cui i qatarini sono una minoranza, circa 280 mila, mentre un milione sono gli operai non specializzati arrivati dall’Asia e 800 mila i professionisti occidentali chiamati per realizzare i sogni impossibili dei ricchi: altissimi grattacieli di vetro, aeroporti sull’acqua, viali che costeggiano il litorale dove, al posto della brezza marina, soffia da enormi macchine bianche l’aria condizionata. I qatarini vogliono riprodurre un’Italia in miniatura, sono affascinati dalla nostra cultura e dal nostro stile di vita e sognano una piccola Venezia con i canali e le gondole elettriche che navigano lungo i centri commerciali, rigogliosi giardini nel deserto e romantiche passeggiate lungomare alla temperatura che decidi te. In Qatar c’è richiesta di manodopera, ma non ci sono né cultura né diritti del lavoro, chi viene per un impiego è costretto a
consegnare il proprio passaporto all’azienda che lo assume e a cedergli la propria persona fisica e giuridica. Racconta Anthony, un capocantiere indiano di 32 anni, che nel suo paese d’origine le agenzie di collocamento chiedono 15 mila rial (circa 3.700 euro) per un lavoro sicuro in Qatar; chi viene assunto lavora per i primi due anni solo per ripagare l’agenzia che gli ha trovato l’impiego. Il permesso per il ricongiungimento familiare costa 10 mila rial, per cui fare venire la moglie e i figli è una prospettiva a lungo termine (se non impossibile), tornare a casa anche per una breve vacanza è un terno al lotto poiché il passaporto è in mano all’azienda. Non esiste uno stipendio di base, le paghe variano a seconda della nazionalità del lavoratore, i singalesi prendono meno, poi vengono i nepalesi, gli indiani, i filippini, si parla di cifre non da capogiro, 200 euro al mese è la paga più alta concessa per andare a lavorare in un cantiere a 47 gradi all’ombra per 16 ore consecutive. Bisogna dir che in seguito alle morti per disidratazione e per caldo registrate negli ultimi anni, qualche azienda ha ridotto il turno a 12 ore e qualcuna a 8 ore. Eppure in questo moderno mercato degli schiavi dove andremo a tifare le squadre di calcio più celebri del mondo, la domanda di lavoro è in costante aumento. Francesco Patrizi
Felice Rufini, scultore per passione Spesso si ha la convinzione che siano le parole a possedere la capacità di penetrare l’essenza delle cose e non così le immagini artistiche che, mute, si limitano semplicemente a mostrare forme esteriori: l’immagine attraverso la ricchezza dei particolari deve esprimere in un solo momento quello che la parola può indicare attraverso la narrazione continua. Questa definizione è chiaramente limitante, e le opere di Rufini ne danno il giusto esempio. Contemplando le opere di questo amico, prima che artista, scopriamo come, attraverso la scultura, egli abbia trovato lo strumento eccellente per comunicare al mondo codificando un linguaggio proprio. Le creazioni infatti sono in grado di restituire immediatamente le sensazioni che l’artista vive durante il suo paziente e tenace lavoro: non a caso Felice afferma di percepire il battito del suo martello sullo scalpello come musica, in grado d’infondergli una grande
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serenità e senso di liberazione. La “liberazione” propria della scultura, come procedimento “per forza di levare” non avviene soltanto come esperienza catartica dell’artista, ma anche della materia che, attraverso lo scalpello, prende forma, divenendo essa stessa reale, e quindi “viva”. La materia si fa dunque contenuto e l’opera diventa arte. Un’arte espressa con forme essenziali e talvolta con aspirazioni monumentali, tale che, se pur si discosta dalla realtà, é in grado di rappresentarne l’essenza. Sono geometrie primordiali, perché il racconto dell’artista non utilizza un linguaggio accademico, ma vive di quelle stesse sensazioni che deflagrano il processo creativo, rappresentandone plasticamente tutta la forza dinamica. Per comprendere l’opera di Rufini posso prendere in prestito una frase dello scrittore André Gide: Lo scultore non cerca di tradurre in marmo il proprio pensiero: egli pensa direttamente come se già tutto fosse di marmo, egli pensa in marmo. Ed è così che Rufini scolpisce. Ivano Mortaruolo
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I Cristiani d’Oriente Chiese antiche e fragili parte I Durante il nostro viaggio nel Vicino e Medio Oriente, puramente ideale in quanto oggi farlo realmente sarebbe molto rischioso specie in alcune zone, ci siamo occupati di Sunniti, Sciiti, Kurdi, Yazidi, non possiamo però tralasciare una componente importante: i Cristiani di Oriente la cui esistenza è fortemente minacciata dal crescente fondamentalismo religioso. Non bisogna infatti dimenticare che, prima della conquista araba e della conseguente espansione dell’Islam, paesi come la Siria, l’Egitto, l’Asia minore (attuale Turchia) erano cristiani e di cultura greca. L’Ellenismo e la conquista di Alessandro prima, l’Impero romano dopo avevano dato alle due sponde del Mediterraneo, divenuto di nome e di fatto Mare Nostrum, una uniformità culturale che non si ruppe nemmeno con la scissione politica tra impero d’Occidente e di Oriente. Quando nel VI sec. dC gli Arabi sottrassero all’Impero bizantino una parte notevole di territorio che andava dalla Siria fino al Marocco, le cose cambiarono del tutto, al punto che questo fatto, secondo lo storico francese H. Pyrenne, avrebbe segnato l’inizio del Medioevo e non la data convenzionale del 476. Dopo di ciò il Mediterraneo cessò di essere un “lago romano” la cui sponda orientale era ora occupata da un popolo di cultura e religione diversa. Fu una frattura vera e propria non solo sul piano geopolitico, ma la conquista islamica, nonostante le numerose conversioni in massa delle popolazioni sottomesse dovute a spiegabili motivi di opportunità, nonostante le limitazioni imposte sui diritti legali e sociali rispetto ai musulmani, il pagamento di una tassa detta jizya e le periodiche persecuzioni, le comunità cristiane continuarono a vivere e a convivere in modo abbastanza pacifico con i musulmani. Essi vennero considerati Dhimmi dalla parola Dhimma che equivale a patto di protezione. Tale status era esteso a tutte le popolazioni che professavano negli stati islamici religioni monoteiste come i Cristiani, gli Ebrei, i Zoroastriani poi anche Induisti e Buddisti. Ai Dhimmi viene concessa la libertà di praticare la propria fede con una serie di limitazioni come il pagamento della già citata jizya, il doppio della zakhat tassa pagata dai musulmani, il divieto di proselitismo, di edificare nuovi luoghi di culto, di non pregare in pubblico, di non esporre simboli religiosi, di non portare armi o prestare servizio militare e molte altre norme che non è possibile qui elencare. Si tratta quindi di una libertà piena di restrizioni, con l’intento non apertamente dichiarato di spingere i non musulmani a convertirsi all’Islam. In questi anni nel crogiolo insanguinato dell’Oriente insieme ai Kurdi, agli Yazidi sono finite anche le varie comunità cristiane di varie confessioni, alcune delle quali in comunione con Roma, le cui vicende drammatiche non sono state seguite con la dovuta attenzione da parte dei media occidentali vuoi per opportunità politica, vuoi per non fomentare odi razziali e religiosi dalle conseguenze imprevedibili. In breve, mentre i notiziari occidentali non mancano puntualmente di fornire documentazioni ampie sulle violenze del Daesh-IS nei confronti dei Kurdi e altri, forniscono pochi e sommari particolari sulle profanazioni di chiese, monasteri e luoghi simbolo dei Cristiani di Oriente. Sono Chiese antiche ma fragili le cui origini risalgono agli albori della Cristianità. Non bisogna dimenticare che qui si sviluppò il Cristianesimo e la predicazione dell’apostolo Paolo ebbe come teatro la Palestina, la Siria, l’Asia minore e la Grecia. Quanti sono i cristiani in oriente e quali e quante le loro Chiese? Per orientarci i punti di riferimento sono i patriarcati del cristianesimo dei primi secoli che oltre a Roma e Costantinopoli assegnavano un ruolo di primo piano ad Antiochia, Alessandria e Gerusalemme.
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Guardando i numeri, la comunità cristiana più numerosa è rappresentata dalla CHIESA COPTA, diffusa in Egitto, erede diretta del patriarcato di Alessandria, che copre il 10% della popolazione. Prima dell’islamizzazione dell’Egitto era la religione predominante. Il termine copto deriva dal termine arabo Qubt, corruzione della parola greca Aighyptos (Egitto). Essa si divide in Chiesa copta ortodossa sotto la guida del patriarca Tawadros II, maggioritaria, circa 10 milioni di persone e la Chiesa copta cattolica, unita a Roma, minoritaria, entrambe di rito orientale, usano nell’ambito liturgico la lingua copta derivata dall’antico egizio, utilizzata da Chmpollion per decifrare i geroglifici. Nonostante fosse stata soppiantata in parte dal greco dopo la conquista di Alessandro, fu parlata fino al xv sec. per essere sostituita dall’arabo. Lo scisma con la chiesa copta si consumò prima del grande scisma del 1054 tra la chiesa greca e chiesa latina, quando il patriarca di Alessandria si rifiutò di partecipare al concilio di Calcedonia (451 dC) che condannò le dottrine monofisite di Nestorio e di Eutiche che sostenevano l’unicità della natura del Cristo, quella divina. I Copti si definiscono miafisiti in quanto preferiscono parlare di un’unica natura del Verbo incarnato e non di due nature in una persona secondo la definizione calcidese della storia passata, ma, tornando alla presente, la situazione dei copti ortodossi e cattolici in Egitto resta difficile, nonostante la costituzione riconosca loro sulla carta piena libertà. Dopo il concilio Vaticano II la Chiesa cattolica e la Chiesa copta hanno riallacciato i rapporti, con lo storico incontro dopo 15 secoli tra Paolo VI e Shenuda III e una dichiarazione congiunta del 1988 sanciva un accordo ufficiale tra le due chiese sulla cristologia. La comunità copta conobbe nella prima metà del secolo scorso un periodo fortunato riuscendo a possedere il 25% della ricchezza totale del paese, poi negli anni ’50 cominciò un lento declino con il processo di nazionalizzazione di Nasser e sotto i rais Sadat e Mubarak. Episodi di vessazione cui sono stati vittime i cristiani sono stati denunciati da varie organizzazioni. Numerosi sono i casi di donne copte rapite e convertite per essere date in moglie a musulmani al punto che tale pratica fu denunciata nel 1976 dal papa copto Shenude III. Il tutto molto spesso con la aperta indifferenza se non con la complicità delle autorità pubbliche. Il caso del connazionale Giulio Regeni ne è un esempio lampante. La “Primavera araba”, la caduta di Mubarak, il caos seguito al vuoto di potere creatosi, il rapido diffondersi del radicalismo islamico che proprio in Egitto con i Fratelli Musulmani trova un suo pilastro storico, ha ulteriormente aggravato la posizione, piena di nodi irrisolti, della comunità cristiana. Già nel 1981 terroristi islamici uccisero 17 cristiani, i copti protestarono energicamente, ma il rais Sadat represse la rivolta e mise ai domiciliari il papa copto. Solo tra il 1994 e il1999 sono stati censiti 591 attacchi contro i cristiani. Attualmente con il Daesh in espansione la situazione non è certo migliorata. Il 01.01.2011 un terrorista si è fatto esplodere davanti alla Chiesa dei Santi ad Alessandria causando 23 morti e 112 feriti, cui seguirono disordini e proteste anche da parte del Pontefice romano. In tale occasione molti accusarono i servizi segreti di complicità politica. Oggi la situazione si può definire di calma piatta, ma in questi anni più di 500mila copti si sono trasferiti in altri paesi come U.S.A., Canada, Australia, Europa per cui il loro numero in Egitto risulta molto diminuito. Nel prossimo numero parleremo di altri Cristiani di Oriente come i Melchiti, i Maroniti, i Siri. Pierluigi Seri
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AZIENDA OSPEDALIERA
La nuova direzione aziendale si pres
Dr. Maurizio Dal Maso Direttore generale A z ien d a O s p e d a lie r a “S. Mar ia” di Te r ni
Giovedì 24 marzo la nuova direzione aziendale del Santa Maria di Terni si è presentata ufficialmente ai professionisti dell’ospedale e alla stampa. Ad affiancare il direttore generale Maurizio Dal Maso, già direttore sanitario dell’USL 1 di Massa e Carrara e dell’Umberto I di Roma, saranno due figure già conosciute dalla comunità ternana: Sandro Fratini, ex manager della USL Umbria 2, e Riccardo Brugnetta, riconfermato direttore amministrativo. La premessa del neo direttore generale è più che positiva. All’ottavo posto della classifica degli ospedali italiani redatta dal Sole 24 Ore, e al primo posto per indice di attrazione sull’alta complessità secondo i dati 2014 del laboratorio Management e Sanità (MeS) della Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa, l’ospedale di Terni è già un’eccellenza nel panorama nazionale. “Da qui dobbiamo partire -ha annunciato Maurizio Dal Masoper cogliere la sfida per il futuro, che è quella di costruire un ospedale digitale (conditio sine qua non), 3D (con le tecnologie classiche della robotica e quelle ibride), sempre più in rete, sempre più umanizzato e sempre più orientato al miglioramento globale delle performance, in sinergia con tutte le componenti della struttura”. Non a caso una delle prime azioni del direttore è stata quella di coinvolgere -nell’ambito di un’indagine condotta dal laboratorio MeS della Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa- tutti i dipendenti dell’Azienda ospedaliera con un questionario on-line volto a mettere in luce gli aspetti riguardanti l’organizzazione e le relazioni nell’ambiente di lavoro, per intervenire su quelle che sono le criticità e le potenzialità da sviluppare nell’ottica del miglioramento. “Un processo importante, in termini di valutazione e autovalutazione dei risultati, -ha precisato Dal Maso- che passa attraverso la responsabilità professionale non soltanto del management ma di tutti i medici e gli operatori di una organizzazione sanitaria”. Ridurre la variabilità dei servizi offerti ai pazienti, aumentare la produttività, abbattere i costi della ‘Non Qualità’ per combattere energicamente gli sprechi e le inefficienze della sanità ottimizzando per contro le risorse disponibili. Sono queste le priorità annunciate dal direttore generale, per il quale l’innovazione è la vera parola chiave. “Innovazione dei prodotti e delle tecnologie sanitarie, certamente, ma anche innovazione della gestione dei processi per migliorare l’efficienza organizzativa, le performance e misurare contestualmente il valore per il paziente”. Idee chiare in questa prima analisi anche per il direttore sanitario Sandro Fratini che, nel riconoscere all’Azienda Santa Maria una spiccata vocazione chirurgica polispecialistica con alta capacità attrattiva, ha sottolineato “il forte senso di appartenenza degli operatori ai servizi, a cui credo siano dovuti i risultati raggiunti”. Tra gli elementi di maggiore criticità rilevati, oltre agli aspetti strutturali
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S A N TA M A R I A D I T E R N I
senta e annuncia obiettivi e priorità
su cui si sta già lavorando e che saranno una priorità anche per l’attuale direzione, Fratini ha segnalato “la disponibilità di posti letto, i cosiddetti appoggi, sui quali si dovrà intervenire contestualmente al processo di ristrutturazione, con la messa a norma degli spazi attuali e con una decisiva riorganizzazione del percorso dei pazienti, non potendo modificare in modo significativo la capacità massima del contenitore”. Intervento prioritario, quindi, sulle modalità di accesso dei pazienti all’ospedale e ai reparti, rivedendo innanzitutto l’organizzazione del Pronto Soccorso in termini di appropriatezza e di incremento di spazi disponibili per l’osservazione dei pazienti. E, inoltre, accelerazione del processo di informatizzazione, che sarà esteso rapidamente a tutte le unità operative come garanzia di sicurezza, e analisi, già in corso con i responsabili, di soluzioni più funzionali e condivise per i blocchi operatori. Per centrare tutti gli obiettivi prefissati in questa prima fase del mandato, l’elemento su cui la nuova direzione dovrà puntare tutte le sue attenzioni è la capacità di rispetto dell’equilibrio tra costi e ricavi. Ma l’ospedale di Terni in questo senso parte bene. “Il riequilibrio della gestione strutturale di bilancio conseguito negli ultimi tre anni -ha sottolineato il direttore amministrativo Riccardo Brugnetta- è un fatto che per la prima volta ci viene riconosciuto anche a livello esterno, nella bozza del decreto che individua le due aziende ospedaliere dell’Umbria come efficienti ed efficaci, cioè conformi ai nuovi parametri di valutazione messi a punto per la definizione della salute economica e degli standard qualitativi, strutturali, tecnologici e quantitativi relativi all’assistenza ospedaliera (Legge di stabilità 2016, n. 208 del 28 dicembre 2015)”. Fondamentale pertanto è la sorveglianza di alcune variabili come i livelli di attività, il costo del personale e quello dei beni sanitari. “Con queste attenzioni -ha concluso il direttore amministrativo- l’Azienda può procedere con tranquillità alla realizzazione della programmazione del piano di investimenti che interessa ormai oltre 50milioni di euro”. “Pensiamo di fare qualcosa di nuovo e di diverso, sapendo che partiamo da un punto di forza alto, perché l’ospedale -ha ribadito il direttore generale- è ricco e solido. Il mio invito è quello di correre. Ovunque voi proporrete dei progetti -ha concluso Dal Maso, rivolgendosi al personale che affollava la sala conferenze dell’ospedale- noi li valuteremo e vi invito a pensare qualcosa di diverso”.
Fotoservizio di Alberto Mirimao
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L a fe s ta d e l l av oro Osservato che tutti gli indicatori economici e sociali ancora balbettano, trovo che ci sia poco da festeggiare. I rari soggetti con cui potremmo brindare e fare i nostri auguri, per la ricorrenza, sono quei giovani che nonostante tutte le avversità cercano lavoro, o provano a inventarselo, o stanno impegnando risorse al fine di specializzarsi in quei settori che promettono un po’ di occupazione. Onore anche a quelle scuole (ancora troppo poche) che hanno o che si avviano a costruire stabili collegamenti con le industrie e/o con le imprese di servizi utili alla collettività. Bene quegli istituti che riescono ad offrire ai propri studenti un orientamento realistico al mercato, invece di essere soltanto diplomifici. Foriera (era ora) di buone prospettive, su questa direzione formativa, è quella che prevede attività congiunte, nel tempo delle vacanze estive, tra scuola e lavoro. Le aule e i vari ambienti scolastici dovrebbero restare sempre aperti per chi ha la volontà di migliorarsi, sia da un punto di vista culturale che psicologico sociale. Con la guida di professori interni e di maestranze varie offerte da strutture esterne, magari pensionati esperti, i ragazzi e le ragazze possono cominciare a imparare qualcosa di pratico. Penso, come tanti, al recupero delle attività artigianali che abbiamo, noi italiani, quasi del tutto abbandonato. Penso alle attività legate all’agricoltura, a quelle connesse alla cultura e alle tecnologie d’avanguardia. Anche i servizi alle persone malate, agli anziani lasciati soli, ai tanti poveri, connazionali o stranieri che siano. I servizi agli ambienti sempre più nel degrado materiale e spirituale, laddove i giovani possono, se incentivati, dare una mano a risanarli. Al recupero e al riutilizzo dei rifiuti, riscoprire la natura e preservarla. Fare qualche lezione di economia, parlare ai ragazzi/e del mondo del lavoro, condurli a visitare le fabbriche. Sarà più giusto dare un gettone di presenza ad una ragazza che va ad aggregare e animare i bambini di una periferia piuttosto che farli intascare a un consigliere delle tante istituzioni pubbliche (politiche) e para... o no?
Calici da sollevare quindi con quegli amministratori che stanno organizzando operazioni di tale sensibilità sociale. Fare festa anche con gli imprenditori che nonostante tutto (burocrazia, corruzione, ecc. ecc.) sono riusciti di questi tempi a fare degli investimenti e a innovarsi. Con lode per quella minoranza di eccellenze che sono riuscite a mantenersi competitivi nei mercati, sia nazionali che globali, tanto i leader delle grandi industrie quanto i padroncini, e non hanno licenziato nessuno. Persone eccellenti anche perché non hanno mai chiesto un soldo pubblico per risanare i bilanci, non hanno corrotto alcuno per avere favori vari, non hanno speculato, non hanno volato nei cieli finanziari e nemmeno nei paradisi fiscali, né vivono nel lusso più sfrenato e offensivo. Amministratori onesti che non hanno portato i propri guadagni su livelli astronomici rispetto a quelli dei loro operai. Un plauso a quei pochi uffici-agenzie di collocamento che sono riusciti a collocare qualcuno. Forse (impresa ardua) riusciremo noi in Italia, nel tempo (lungo...) a creare una mentalità imprenditoriale capace di entrare nel vivo del gioco “pulito”, ovvero di saper produrre in un sistema di concorrenza perfetta (o quasi) che i mercati, quelli sani dei beni e dei servizi (locali, europei e mondiali), ci reclamano. Sistemi dove prevalgono i valori della lealtà, della libertà e della equità, una giustizia retributiva semmai inclinata verso i più bisognosi. E complimenti per quei genitori che insieme ai propri figli, prossimi alla maturità, vanno esaminando le condizioni dei mercati e così orientare al meglio le scelte formativo-lavorative del futuro. Un particolare encomio per quelle famiglie che riescono a tramandare l’impresa di padre in figlio. Sono costoro che materializzano l’art. 1 della nostra Costituzione: l’Italia è una Repubblica fondata sul Lavoro e…sulla Famiglia. Il termine Famiglia non c’è scritto ma è come se ci fosse, essendo un principio-fine fortemente intrinseco e ineludibile per qualsiasi convivenza che voglia definirsi civile e democratica. Aldo Zerbini
Comunicazioni
È onesto, intelligente, colto e pensa con la propria testa: un vero pericolo pubblico. Pol P ol i t i cant i e m an e g g io n i fug fuggg o n o d a lui c o m e dal l a p e s t e . 16
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A B D O N PAMIC H IN MA R C IA D A O LT R E 80 A N N I Ha consegnato a Papa Francesco la Placchetta del Pellegrino Lo sport di valore e di valori ha l’obbligo di ricordare le grandi figure che, con le loro gesta, ne hanno scritto nel tempo le pagine più belle e significative. Tra questi vi è sicuramente l’indimenticato campione olimpico Abdon Pamich, esempio di rigore ed impegno. Una vita intensa quella di Pamich: nato a Fiume nel 1933, profugo in fuga alla ricerca del padre che a Milano era giunto in cerca di lavoro, poi l’incontro con il tecnico Giuseppe Malaspina. “Mi ha insegnato il concetto dello sport. Non era acculturato ma era un uomo di buon senso. La psicologia dello sport insegna quello che lui già applicava”. Quindi le soddisfazioni immense nello sport, le medaglie olimpiche e ben due lauree: in psicologia e sociologia. “Non ho mai puntato alla vittoria, ma a migliorare me stesso. Materialmente la marcia mi ha dato poco. Mi resta il riconoscimento delle persone”. Chi, se non Pamich, poteva consegnare a Papa Francesco, durante una udienza generale a Piazza San Pietro nel Febbraio scorso, la speciale riproduzione della Placchetta del Pellegrino, antico “Testimonium” metallico proveniente dagli archivi della Biblioteca Apostolica Vaticana. Sul sagrato era presente anche un gruppo di maratoneti del Mozambico. “Mi sento onorato che su 60 milioni di pellegrini si siano ricordati di me. Riconosco a Papa Francesco indubbie doti di campione nel marciare verso grandi traguardi umani e spirituali”, ha affermato Pamich, uno degli atleti più medagliati nella marcia da 50 chilometri, per ben 40 volte campione italiano di specialità! Con i suoi importanti record sportivi, tra cui l’indimenticabile oro conquistato nella marcia alle Olimpiadi di Tokyo del 1964 ed il bronzo a Roma nel 1960, oltre a due titoli europei, Pamich rappresenta idealmente l’emblema del sacrificio, del cammino e del pellegrinaggio. La instancabile “marcia” dell’ottantatreenne Pamich non si è mai interrotta, proseguendo ancora oggi, fra allenamenti e gare amatoriali, “… non bisogna essere sportivi solo per una stagione, ma per tutta la vita”. Pamich ha recentemente partecipato alla Marcia del Ricordo per onorare la memoria della sua gente, mai dimenticata: “Ho donato al Papa la Placca anche in ricordo delle sofferenze dei 350.000 profughi istriani, pellegrini nel mondo per il nazionalismo di Tito”. Ama ancora tanto lo sport, che ha segnato profondamente la sua vita e contesta chi nello sport cerca solo personaggi. “O sei uno sportivo o sei un personaggio, o sei uno sportivo o sei Balotelli. Se vivi lo sport in un certo modo non puoi essere personaggio. A me piaceva la boxe. A Fiume c’era la palestra di pugilato di mio zio Cesare. Il pugilato è una scuola di vita che insegna a rispettare gli avversari ed a dominare se stessi”. Abdon ha giocato anche a calcio, era portiere. All’Olimpico, prima di un Roma-Torino, fu spinto da un grandissimo tifo verso il record mondiale della 50 km di marcia, il 19 novembre del 1961. Avrebbe potuto diventare una stella del canottaggio, ma alla fine lui preferì l’atletica, marciatore per caso e un po’ per rivalsa sul fratello Giovanni. La scelta di Abdom Pamich, tra i tanti atleti meritevoli della storia italiana, è stata di Ruggero Alcanterini, Presidente del Comitato Nazionale Italiano Fair Play.“Pamich -ha dichiarato Alcanterini- rappresenta il “Camminatore” per eccellenza. Nella storia della fede Santi importanti come San Francesco e San Benedetto sono stati grandi camminatori per la diffusione dei principi cristiani”. Il “testimonium”, una placchetta coniata anticamente in stagno o rame, è un documento di grande rilevanza storica, svelato oggi dopo quasi mille anni. Nei secoli scorsi ha accompagnato e protetto il ritorno in patria dei fedeli dopo il viaggio alla volta del centro della cristianità. Fino al 1500 veniva dato a coloro che giungevano a Roma per visitare le tombe degli apostoli o per il Giubileo, quale attestato della avvenuta visita. In tal modo ciascuno poteva dimostrare di essere giunto alla meta del proprio pellegrinaggio. Permetteva inoltre di essere ospitati nei conventi e negli ostelli. La replica fedele della antica placchetta o “quadrangula” del pellegrino, realizzata in occasione del Giubileo Straordinario della Misericordia, è un prezioso simbolo di devozione a metà fra il distintivo e la medaglia: un piccolo tesoro d’arte metallica che racconta di un tempo lontano, testimonianza simbolica del lungo e faticoso viaggio dei “romei” verso la fede. L’originale, uno dei rarissimi conosciuti, è attualmente custodito nel Medagliere della Biblioteca Apostolica Vaticana. In origine uniface, la coniazione è rettangolare e rappresenta al dritto le figure in rilievo degli apostoli Pietro e Paolo. La Biblioteca Apostolica ha voluto replicare ufficialmente e fedelmente il “testimonium”, quale simbolo di pellegrinaggio universale. Il Presidente del Coni, Giovanni Malagò, parlando della Placchetta del Pellegrino, ha esaltato i pellegrini quali “eccezionali alfieri per la vittoria dello spirito, ideali vincitori di una medaglia d’oro senza tempo”. Con questo spirito celebreremo a Terni, il prossimo 5 Giugno 2016 il Giubileo dello Sportivo. St e f ano Lupi Delegato Coni Terni
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DISCONOSCIMENTO DEL FIGLIO È incredibile da credere ma da a uno studio compiuto dall’Università La Sapienza di Roma, è emerso che in Italia circa il 10% dei bambini nati ogni anno ‘non è figlio di suo padre’. Un dato piuttosto inquietante confermato anche a livello europeo che ha visto nel nostro paese punte addirittura del 20%. Le regioni con la più alta incidenza di figli illegittimi sembrano essere la Lombardia ed il Lazio, tanto che è in grande aumento il ricorso agli ormai noti test del DNA. La situazione con tutti i risvolti, anche di natura affettiva, che comporta è più frequente di quanto si creda, basti pensare alla vicenda della povera Yara Gambirasio ed alle identificazione di IGNOTO 1. Che fare in caso di dubbio? In primo luogo occorre sapere che solo alcuni soggetti ed entro precisi limiti temporali possono agire per chiedere che venga accertata l’inesistenza di un rapporto biologico tra padre e figlio. Occorre anche distinguere se si chiede il disconoscimento di un figlio nato all’interno di un matrimonio o al di fuori di esso. La legge presume che il marito della madre sia anche il padre del bambino quando la nascita è avvenuta almeno 180 giorni dopo il matrimonio e non oltre trecento giorni dall’annullamento o dal divorzio. Tuttavia la madre, al momento della nascita, può sempre dichiarare che il figlio è naturale, ossia nato fuori dal matrimonio, e se il marito ha voluto riconoscere il figlio nella consapevolezza che non fosse suo non può successivamente chiedere il disconoscimento. Attenzione quindi, perché riconoscere il figlio di un altro, magari sulla scia di un particolare momento emotivo, comporta conseguenze ineliminabili, quali l’obbligo di mantenere tale figlio. L’azione di disconoscimento di paternità del figlio nato nel matrimonio può essere esercitata dal marito, dalla madre e dal figlio medesimo. Chi esercita l’azione è ammesso a provare che non sussiste rapporto di filiazione tra il figlio e il presunto padre. La sola dichiarazione della madre non esclude la paternità. (art. 243 bis). L‘azione di disconoscimento della paternità da parte della madre deve essere proposta nel termine di sei mesi dalla nascita del figlio, ovvero dal giorno in cui è venuta a conoscenza dell’impotenza di generare del marito al tempo del concepimento . Il marito può disconoscere il figlio nel termine di un anno che decorre dal giorno della nascita, quando egli si trovava al tempo di questa nel luogo in cui è nato il figlio; se prova di aver ignorato la propria impotenza di generare ovvero l’adulterio della moglie al tempo del concepimento, il termine decorre dal giorno in cui ne ha avuto conoscenza. Se il marito si trovava in un luogo diverso da quello in cui è nato il figlio il giorno della nascita, il termine decorre dal giorno del suo ritorno o dal giorno del ritorno nella residenza familiare se egli ne era lontano. In ogni caso, se egli prova di non aver avuto notizia della nascita in detti giorni, il termine decorre dal giorno in cui ne ha avuto notizia. Nei casi previsti dal primo e dal secondo comma dell’art. 244 c.c. l’azione non può essere, comunque, proposta oltre cinque anni dal giorno della nascita. L’azione di disconoscimento della paternità può essere proposta dal figlio che ha raggiunto la maggiore età. L’azione è imprescrittibile riguardo al figlio. L’azione può essere promossa anche da un curatore speciale nominato dal giudice su istanza del figlio minore che abbia compiuto 14 anni ovvero dal pubblico ministero o dell’altro genitore, quando si tratti di figlio di età inferiore. Buona lettura del codice civile! Avv. M ar t a Pe t roc c hi legalepetrocchi@tiscali.it
Troni e ffùrmini L’andru ggiornu co’ Zzichicchiu e ‘n andru amicu stavamo a ffa’ ddu’ passi... jacchieranno de lo più e lo meno. All’improvvisu lu tembu s’è ffattu tuttu niru che pparéa notte... ‘n lambu a zzighe zzaghe ha squarciatu lu celu... e ssubbitu doppo ‘n tronu che ppe’ ppocu ‘n cià fattu pija’ le fantijòle!... L’amicu nostru, pe’ ppaura, me tt’ha ‘bbraccicatu ccucì fforte che sse passava quarchidunu chissà che ppotéa penza’! J’ho fattu ... Ammappi se cche ffùrmine... chissà ddo’ po’ èsse cascatu?... Pocu doppo ‘na sfirzata de lambi e ttroni che parevono fochi d’artificiu!... Io pe’ ccerca’ de famme coraggiu... ‘éte sintìtu nonnu ‘n carrozza?... Ma che mme stai a ccucchia’... so’ nnùole che sse scontrono... Zzichicchiu che cce stéa a ssindi’ è ‘ntirvinutu... Ma che stete a ddi’... è ll’aria che sse carica ccucì ttantu ‘lettricamente
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che a ‘n certu puntu fa ‘lla scarica... come qquanno scennémo da la macchina e ppijamo ‘nu spizzicottu toccànno la manìja. Da quanno vedemo lu fùrmine, che vva come la luce, tòcca conta’ li secondi fino a qquanno nn’arriva lu tronu, che vva a ccirca 340 metri a lu secondu,... ccucì capìmo se lu temborale ce l’émo vicinu o llontanu!... Aho... ecco ‘n lampu... 1, 2, 3... 8, 9, 10... so’ ppassati 10 secondi... ha da èsse a ttre...quattro chilometri... Ce stavamo a ppija’ gustu e a ‘gni lampu ce semo missi a cconta’... a ‘n certu puntu... lampeja, troneja fa ‘r ddiaulu e ppejo...... ‘nu scrosciu d’acqua e l’amicu nostru t’è ppartitu come ‘n fùrmine... pocu doppo t’emo ‘ntesu ‘n’intronata su l’asfardu bbagnatu e... m’è vvinutu spontaneu... A Zzichi’... non ho ccontatu perché nn’ho vistu lu lampu ma dev’èsse cascatuqua ppe’ ttornu! Paolo Casali
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La barrozza La barrozza è l’antico barroccio (dal latino birotium o bi-roteus, “a due ruote”), carro trainato da due buoi, testimone non solo di una antica civiltà contadina, ma anche di un modo di vivere ormai scomparso. Alcune tavolette ritrovate nel tempio di Erech hanno consentito agli storici di poter datare l’applicazione della ruota alla slitta (la traglia) e la sua trasformazione in carro. Il primo carro accertato nei documenti mesopotamici risale quindi al 3000 aC, rinvenuto in un bassorilievo ad Ur denominato il carro dei felini, nel quale appare il carro costituito da ruote piene a tre settori. La barrozza è stata in uso nelle nostre terre fino al 1950 e oltre, finché non fu soppiantata dai primi trattori con rimorchio. Di solito era costruita con legno di quercia o di leccio, perché legni forti, di facile reperimento e resistenti all’acqua. Esempio d’una economia elementare che doveva sempre ottenere il massimo utilizzando il minimo. Era un mezzo di trasporto molto versatile e necessario specialmente se si avevano in uso diversi ettari di terreno. Veniva usata su strada e sui campi non troppo scoscesi per evitare il rischio del ribaltamento, visto l’alto baricentro, specialmente se caricata a fieno, a gregne di grano o di biada. Ci si caricava di tutto: dalle persone alle cose più disparate. Al mattino si metteva il giogo a una coppia di vacche, si infilava il timone nell’anello del giogo, poi si caricava l’occorrente per la giornata di lavoro. Se era il periodo della potatura bisognava caricare i pali per le viti e i legami di salicacee per fissarli. A maggio invece ci si caricava il fieno profumato e asciugato al sole. Per non farlo cadere si passavano due corde sopra di esso e si tiravano arrotolandole con un apposito verricello di legno posto nel retro del carro. Tale verricello o argano veniva fatto girare infilando nei fori due paletti di ferro. Spesso venivano usati a tale scopo residui bellici, tipo le canne intercambiabili della mitragliatrice MG 42, abbandonate dai tedeschi lungo le nostre strade durante la ritirata nella seconda guerra mondiale. A luglio era indispensabile per trasportare le gregne di grano, di biada o di orzo sull’aia dove avveniva la trebbiatura, mentre a ottobre era il turno delle bigonce piene d’uva da portare nell’arieggiata cantina. Quando era il momento della concimazione con il letame era sempre la barrozza a essere impiegata. Poi per “pulirla” si lasciava all’aria ad asciugare per qualche giorno e, con un paio di energiche passate di una scopa fatta con rametti di erica, detta lo scopone, tornava “abitabile”. Successivamente poteva essere usata per andare a prendere la sabbia, la calce e i sassi, nel caso fosse necessario ampliare l’abitazione o costruire una stalla più grande. I bambini poi stravedevano per questo mezzo di locomozione, anche perché in campagna non ce n’erano molti altri. Non c’era verso di dissuaderli dal salire a bordo e, se qualcuno ci provava -tipo le mamme che vedevano pericoli dappertutto e temevano sempre incidenti- allora erano lagne e pianti a non finire. A volte non bastava nemmeno la promessa di comportarsi bene, per salire sull’agognata meta, a meno che un adulto maschio -il papà, il nonno o uno zio- non si assumesse l’onere dello stretto controllo del pargolo. Qualche ora in giro guidando anche le vacche erano sufficienti al bambino per godere di sogni bellissimi per innumerevoli notti. Vittorio Grechi
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C OL L E Z IONE
Patumi Il 17 marzo 2016 la Fondazione Cassa di Risparmio di Terni e Narni ha beneficiato di un’importante donazione: oltre 5.000 cartoline databili tra la fine dell’Ottocento e i giorni nostri. Sandro Patumi, attento e scrupoloso collezionista, in tanti anni di appassionata ricerca, ha raccolto un numero rilevante di cartoline illustrate che, con un atto di grande generosità e liberalità, ha inteso donare alla Fondazione, riconoscendola come l’istituzione cittadina deputata alla conservazione e alla valorizzazione del patrimonio storico locale in favore della comunità. Le cartoline costituiscono una collezione alla memoria di Simone Patumi, denominata “Collezione Patumi”; la visione delle stesse sarà messa a disposizione di tutti gli interessati in maniera gratuita all’interno del sito internet della Fondazione. La storia della cartolina ha sempre suscitato curiosità e attenzione soprattutto ai nostri tempi, in cui il suo utilizzo è stato ormai pressoché sostituito dai moderni strumenti tecnologici. La prima proposta di cartolina fu presentata nel 1865 durante la conferenza postale di Karlsruhe dal consigliere delle poste prussiano von Stephan, ma la sua idea decadde a causa dei costi allora troppo elevati per l’affrancatura. Qualche anno dopo, esattamente il 1º ottobre 1869, venne emessa dalle poste dell’Impero Austro-Ungarico la prima cartolina postale del mondo, inventata dal professore di economia Emanuel Alexander Herrmann, con l’intento di sostituire, per la breve corrispondenza, le lettere a tariffa più onerosa. Si trattava di un cartoncino color avorio: su un lato, destinato all’indirizzo del destinatario, era impresso il francobollo, mentre l’altro, privo di fregi, conteneva il messaggio che non doveva superare le venti parole. L’aspetto semplicistico ed essenziale della cartolina venne modificato nel 1870 per merito del libraio francese Bernardeau de Sillé-le-Guillaume, che ebbe l’idea di ornare di disegni e figure le cartoline, inventando così la cartolina illustrata. Dopo circa venti anni, il francese Dominique Piazza pensò di decorare le cartoline con fotografie relative a immagini casuali o luoghi prestabiliti: nacque così la cartolina turistica che mostrava le bellezze naturalistiche e culturali dei posti più disparati. Una significativa variante della cartolina fu la cosiddetta Christmas-card, da spedire abitualmente a Natale, che ebbe un’origine inglese e fu dovuta all’intraprendenza di un pittore di nome Dobson che, nella seconda metà dell’Ottocento, ebbe l’idea di dipingere su una cartolina figure festose assieme a scritte di auguri, prima di spedirla a un amico.
La collezione Patumi ripercorre la storia della cartolina nelle sue diverse tipologie e varianti: in essa sono presenti le prime edizioni della fine dell’Ottocento, le “post card augurali e devozionali”, le immagini decorate a mano e poi stampate, quelle in bianco e nero e quelle più recenti a colori. Quasi tutte le cartoline sono viaggiate e molte con annullo postale.
La parte più consistente della raccolta ha come soggetto Terni: dalla Cascata delle Marmore, ai quartieri industriali con le Acciaierie e la Fabbrica d’Armi come protagoniste, alla stazione ferroviaria, alle chiese, alle piazze, ai giardini e caffè, ai palazzi nobiliari e ai monumenti. Una parte interessante riguarda le cartoline raffiguranti gli “interni” di edifici ecclesiastici, scuole, orfanotrofi e convitti, palazzi oggi sedi di enti pubblici (palazzo Spada e Mazzancolli). Se inizialmente le illustrazioni delle cartoline erano indirizzate per lo più a raffigurare l’arte e i monumenti famosi delle città, col tempo e con l’affinarsi delle tecniche fotografiche, trovarono posto anche le immagini di piccoli paesi, ma anche i modi di vivere e i costumi delle diverse realtà sociali ed economiche. Nella collezione Patumi troviamo, infatti, una ricca sezione dedicata ai centri minori e alle località comprese nella Provincia di Terni. Spesso le cartoline sono anche “animate” e consentono così di conoscere le abitudini e le tradizioni del tempo: le fiere e i mercati nelle piazze e nelle campagne, le manifestazioni popolari e religiose. Molto si può apprendere da una cartolina illustrata: essa consente da un lato di conoscere i profondi cambiamenti architettonici, urbanistici e industriali (nel caso specifico di Terni) che hanno subìto innegabilmente i nostri centri urbani negli ultimi cento anni (dopo le due guerre mondiali), ma anche e soprattutto ci fornisce informazioni sulle trasformazioni dei costumi della nostra società. Inoltre in ogni cartolina c’è sempre un mittente che racconta uno spaccato della propria vita quotidiana; un francobollo, che con l’immagine ed il prezzo, rimanda ad un determinato periodo storico del nostro Paese; quasi sempre il nome dello stampatore e il riferimento quindi ad un settore della nostra economia ormai quasi del tutto scomparso. La cartolina è stata l’antesignana del modo di comunicare contemporaneo, presentando in embrione le caratteristiche che oggi ritroviamo negli sms e nelle mail. La Fondazione ringrazia sentitamente Sandro Patumi per la benevola donazione, che verrà messa a disposizione della collettività, attenta alla memoria dei luoghi che gli sono più cari. Anna Ciccarelli Fondazione CARIT
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Erica Carlaccini
Cardine fondamentale de La Pagina ed eccellente organizzatrice di Grandi Eventi 26
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