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Cecilia Piersigilli - DISSOLUZIONI

La Valle, il Nera, Adriano MARINENSI le Mummie, l’Abbazia

L'autunno tiepido, al pari della primavera, è la stagione delle gite fuori porta (le ottobrate: la primavera dei fiori, l’autunno dei colori. Quando il bosco mostra la grande bellezza della sua livrea rossa, verde e marrone insieme. E diffonde le voci del silenzio, insieme al fascino della quiete. È la natura che muta gradevolmente d’aspetto e il sole la indora. Per i ternani, amanti del creato, la prima meta è Piediluco, il paese con il lago più bello dell'Italia centrale. Sovrastato, come nelle pitture che lo ritraggono, dal castello fatto costruire dal Cardinale Egidio Albornoz, che, durante la Cattività Avignonese (1309 - 1377), venne inviato in Italia dal Papa Innocenzo VI per rimettere ordine e disciplina come vicario generale “terrarum et provinciarum romane ecclesie”. Ma, Terni è in Umbria e le scelte non mancano. Una variante suggestiva, a portata di mano, potrebbe essere il primo tratto della Valnerina, parte nobile della nostra regione; che -per dirla con Alfredo Oriani- “mena attraverso vaghe contrade, ai primi colli dell’Appennino”. Sono tanti qui i piccoli paesi intatti di rilevanza culturale, con gli anziani in maggior numero, rimasti a tutela dell'identità del territorio. Le pietre parlanti dei borghi e i cieli stellati che le luci delle città hanno oscurato. Sopra quei bassi colli, verdi di ulivi, ci sono i racconti di un vivere autentico. C'è l'edilizia dei vicoli con le dimore semplici, le scale sul muro, il ballatoio a ringhiera dinnanzi all’uscio. È l’Appennino che conta, forte e paziente, sentinella sempre attenta perché la modernità non rubi il passato. In Valnerina, a Ferentillo, c 'è un antro naturale sotto la Chiesa di Santo Stefano (1400), dove si può fare un incontro con testimoni dell'aldilà. Poco più oltre, a S. Pietro in Valle, è possibile un interessante ripasso dell’antica storia locale. Allora, in macchina e via, lungo il corso del Nera. S’io fossi poeta, oserei scrivere: Il fiume taciturno che, con il suo umido respiro, fa d’intorno la clamide d’erba dei prati mai riarsa. Rimatore non sono e perciò avanti, senza far mancare uno sguardo alla Cascata, vista con gli occhi di un poeta vero, George Byron: “Odi frastuono d'acque! Alto Velino con fulminea rapidità, luce, spumeggia, scuote l'abisso.” A Ferentillo, valicato il fiume, sta appunto la Grotta delle Mummie. Le quali, dall’alto della loro saggezza quasi pietrificata, avvertono: “Noi eravamo come voi siete, voi sarete come noi siamo”. Per quegli scheletri, il trapasso è remoto, però la mummificazione ha fatto da difesa. Lo sguardo è terreo, il corpo ridotto all'osso, tenuto eretto dalla pelle incannucciata. Secondo la narrazione orale, c'è il gobbo Severino insieme all'avvocato morto di coltello, i coniugi cinesi uccisi dal colera, il soldato napoleonico finito sul patibolo, la puerpera defunta durante il parto. Sul fondo della spelonca, ben allineate e sovrapposte, stanno diverse file di crani nudi, i turpi teschi dalle occhiaie cave (definizione questa che, al liceo, mi procurò un ottimo voto sul tema di italiano). Si dice fossero tratti dalle fosse funerarie, quando Napoleone Bonaparte emise l’Editto di Saint Cloud (1804), ufficialmente Decret Imperial sur les sepultures, diretto soprattutto ad evitare gli olezzi dei corpi in macerie, stipati sotto le Chiese; e imporre tombe uguali per tutti. Il famedio soltanto per trapassati incliti. Si arrabbiarono in molti per tale prescrizione, compreso Ugo Foscolo che espresse la sua contrarietà nell’ode intitolata “Dei Sepolcri”: All’ombra de’ cipressi e dentro l'urne confortate di pianto, è forse il sonno della morte men duro? Comunque sia, la Grotta delle Mummie sollecita il pensiero, la riflessione, la curiosità. E la domanda: Perché quei corpi esposti eretti dentro le teche, non si sono disfatti secondo natura? La ragione sembra da ricercare nelle particolari condizioni ambientali e nella presenza di microrganismi che ne hanno favorito la conservazione. Dunque, noi eravamo come voi siete, voi sarete come noi siamo. Ora, la gita fuoriporta prosegue lungo l'incantevole scenario della Valle. Vedo quel che altrove guardò ammirato ancora Oriani: il piccolo campanile svettante sopra le case, strettegli attorno con timida premura. Sembra il ritratto di Umbriano, grumo di spelonche rimaste senz’anime native, di fronte al quale sta austera l’Abbazia di S. Pietro in Valle, alle pendici del Monte Solenne. Su questa Abbazia c'è una narrazione intrisa di storia e leggenda. Sembra sia storia la sua fondazione, avvenuta nell'VIII secolo dC da parte del longobardo Duca di Spoleto Faroaldo II. Aggiunge la leggenda: San Pietro apparve in sogno al Duca e gli promise la remissione dei suoi tanti peccati (pro rimedio animae) se avesse fatto costruire un Cenobio in quel luogo. Così egli provvide e quando l’irriguardoso figlio Trasamondo lo costrinse a cedergli il ducato, Faroaldo si fece monaco nel Convento di San Pietro in Valle, dove morì e fu sepolto. La Chiesa, attigua al Monastero, conserva affreschi di buon pregio, attribuiti alla scuola umbra. C'è pure una coppia di sarcofagi di origine orientale, risalenti al II e III secolo dC. Dunque, in un pomeriggio, facendo poca strada, da Terni, abbiamo reso intelligente la gita fuori porta, visitando due dei tanti presidi che, lungo la Valle discesa dal Nera, hanno affidato ai posteri le memorie del passato remoto. Insieme ai castelli, alle torri, ai luoghi di culto, alle pievi, incastonati nello scenario tipico dell’Umbria. A Ferentillo, da Terni, ci saremmo potuti andare con il Trenino della Valnerina che non c'è più, "assassinato" insieme alla spettacolare ferrovia Spoleto-Norcia, considerata un ramo secco. Mentre il tranvetto ternano fu sacrificato per dare spazio al trasporto su gomma, considerato l’avvenire del traffico da burocrati e dirigenti di misere vedute, che non avevano capito una mazza.

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UNA PASSEGGIATA TRA GLI UMANI

Gesti innati, gesti acquisiti e con essi gli umani comunicano anche i loro pensieri. Non sempre ne sono consapevoli abituati a ritenere che sia la parola il mezzo di comunicazione che trasmette sentimenti, affettività, decisioni, progetti futuri, ma anche rabbia, disperazione, dolore fisico e morale, contrasti ideologici, aspirazioni irrisolte. I pensieri creano azioni ed esse confezionano posture ed espressioni mimiche inequivocabili. Sorrisi, bronci, smorfie, ammiccamenti sono alcuni dei gesti non controllabili ed appartenenti a tutti. Nell’alterazione di un viso, l’attenzione cade sul sopracciglio corrugato, sulla mascella contratta, sul moto frenetico delle braccia e scompare il colore della pelle, il capello gretto, l’occhietto allungato. Provate a togliere l’audio quando in tv i politici si scontrano su una stessa tematica e riescono perfino ad oltraggiarla nella prorompente smania di prevalere. Il contorno del volto si dilata, la bocca diventa fauce, i denti sembrano più aguzzi, gli occhi si sgranano, le mani, oh le mani, artigli graffianti... e il segnale di minaccia è al completo. Che cosa blocca il balzo felino del predatore? L’ istintiva certezza che la preda, l’altro, è anch’essa un predatore: si sbranano a vicenda, ma non si colpiscono. La preda viene a mancare e con essa è avvilito, smembrato il ruolo del predatore. Quando l’asfalto si macchia di sangue, invece, i comportamenti risultano fortemente sbilanciati: l’umano intriso di rabbia animalesca colpisce l’altro perché, nell’apparente condizione di passività, egli appare, questa volta sì, una preda. Episodi in realtà piuttosto rari, ma quando accadono sono vissuti come sintomi di una società malata, non come normali reazioni di un primate, solo apparentemente evoluto, che esprime così il suo bisogno innato di sopraffazione Azioni innate, le stesse, presenti in ogni società, indipendentemente dalle diverse pressioni culturali. Il neonato cerca e trova nella mammella la prima fonte di vita, distende il volto nel sonno, lo corruga nel pianto seguendo stimoli biologici. Tutti gli uomini ridono, tutti gli uomini piangono: i segni, in entrambi i casi, sono inconfondibili Le culture non sono poi così diverse da come sembrano, se si cercano le differenze, certo si troveranno, ma se si vuole cercare le somiglianze se ne troveranno molte di più. In una immaginaria passeggiata nel tempo e nello spazio si vedrà allora come emerga su tutto fin dagli albori dell’umanità un impulso latente e irrefrenabile: l’aggressività. Appartiene agli animali e agli uomini con apparente similitudine, ma in realtà con sostanziali differenze. Gli animali combattono, ma non fanno la guerra, combattono per stabilire un dominio, per difendere il territorio. La lotta è a livello individuale ed in genere è atta a mostrare i punti di forza dell’uno e dell’altro; non vanno oltre perché la conservazione della specie impone di fermarsi. Solo in condizioni di estremo sopraffollamento si oltrepassano i limiti e la lotta diventa cruenta. Anche l’uomo dunque come tutti i mammiferi è geneticamente attrezzato per difendere la specie, il territorio, ma non è giustificato l’impulso di distruzione di massa, la guerra fraticida, la vile violenza su donne e bambini. Nel diario di bordo, in giro per il pianeta, ho annotato sorrisi e abbracci, ho ritrovato negli altri, lo specchio di me stessa, ho comunicato con le mani e con gli occhi ricevendo in cambio le loro mani, i loro occhi. Dovunque ho trovato gli stessi emblemi culturali della mia terra, che si chiamino chiese, moschee, stupa, sinagoghe, mandir (tempio induista, sick). Dovunque questo uomo che si dibatte nella sua eterna precarietà, trova dei punti di salvezza nell’inchinarsi, nel prostrarsi in ginocchio: mani unite verso l’alto, occhi socchiusi verso il basso. Mercati, suk o bazar, eterna necessità di scambi: braccia gesticolanti, sorrisi accattivanti, ammiccamenti sornioni. Gesti innati, gesti acquisiti: non si sa dove finiscano i primi, dove inizino gli altri... che importa: è attraverso i gesti che l’umanità continua ad abbracciarsi.

Sandra RASPETTI

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