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CONVEGNO: La Traumatologia della Strada
UNIVAL: UNIVERSITÀ della VALLE del NERA
Roberto RUSCICA Sono circolate, negli ultimi due anni, all’interno della Associazione Culturale La Pagina come in altri ambiti di discussione, diverse ipotesi, idee e proposte circa la possibilità di realizzare una struttura universitaria nel territorio della Valnerina. La nostra associazione, che lancia il suo sguardo anche oltre la città di Terni, ha ritenuto opportuno, di sua propria ed esclusiva iniziativa, contribuire ad una costruttiva discussione sul tema attraverso un primo studio atto a verificare se esistono spazi non occupati da altri atenei per dar vita ad una struttura universitaria di modeste dimensioni, ma centrata su concreti obiettivi di formazione professionale, ricerca e contributo allo sviluppo del territorio. Nella discussione all’interno del nostro gruppo di lavoro sono state condivise tre prime tesi di fondo. La prima è che non ha senso puntare sulla soluzione di uno-due corsi decentrati, perché il gioco non varrebbe la candela. La seconda è che le ipotesi devono nascere dal concreto del contesto territoriale, dai suoi problemi, dalle sue esigenze, dalle sue potenzialità attuali, consolidabili o, all’opposto, inespresse. La terza è che le ipotesi vanno ricercate e costruite negli spazi tra lo status attuale del settore universitario italiano e l’orizzonte, gli orientamenti e gli scenari del nuovo ciclo programmatorio nazionale ed europeo, puntando ad un progetto originale ed innovativo che non si ponga in concorrenza con gli atenei circonvicini, sul quale invece coagulare importanti alleanze, istituzionali e di settore. Sotto il profilo del metodo, questo nostro studio preliminare, ancora in corso, che potrebbe rappresentare soltanto un primo, piccolo passo, sta seguendo un percorso logico atto a: a) verificare se esistono, nel settore universitario nazionale, lacune e spazi per lo sviluppo di un’attività di formazione universitaria di carattere fortemente innovativo e legata alle connotazioni del territorio, altrimenti non avrebbe senso procedere oltre; b) esaminare se, alla luce della ricognizione, la Valnerina potrebbe costituire un ambito territoriale potenzialmente idoneo allo sviluppo di una nuova iniziativa universitaria; c) se sì, quali connotazioni strategiche dovrebbe assumere l’iniziativa per risultare competitiva nel campo dell’offerta formativa, della ricerca e del sostegno allo sviluppo; d) studiare le soluzioni didattiche ed organizzative più adeguate al fine di perseguire il ruolo che si vuol ricoprire ed una sua idonea realizzazione; e) delineare una prima ipotesi di configurazioneobiettivo, sul medio-lungo termine, dell’assetto della struttura potenzialmente realizzabile. La Valle del Nera costituisce esempio emblematico e paradigmatico delle realtà dei territori montani ed interni della nostra penisola che, nell’ultimo secolo e mezzo, hanno vissuto una crescente marginalizzazione perdendo, mediamente, non meno di metà della propria popolazione. Per tale motivo, a differenza di buona parte del territorio italiano, stressato nel secondo dopoguerra, ben oltre la sostenibilità, da uno sviluppo intenso ed affrettato, questi territori, depauperati ma non stravolti, potrebbero offrire oggi spazio per avviare percorsi di sviluppo sostenibili, rispettosi sia di un ambiente naturale che va gelosamente preservato e dell’economia cui esso dà e può ulteriormente dare luogo, che della storia, della cultura, della tradizione locale e delle produzioni tipiche. Questi contesti potrebbero corrispondere a molte esigenze riscoperte ed a nuovi stili di vita che si stanno affacciando in quest’alba del nuovo millennio, perché in grado di conciliare tempi di lavoro, tempi di vita e umanizzazione della socialità meglio dei modelli urbani e metropolitani dell’ultimo secolo e mezzo. Opportunità rilanciate dalla pandemia che ha messo in maggior crisi i grandi centri urbani e dalle crescenti potenzialità dei sistemi di connessione in rete, in grado di abbattere tempi e distanze. Il recente PNRR italiano ha posto l’esigenza di aggiornare la visione del settore universitario potenziando e rimodellando l’offerta formativa onde affrontare temi trasversali non più rinviabili: tutela del patrimonio naturale, dell’ambiente e delle zone rurali, transizione energetica e digitale, alimentazione sostenibile, protezione degli stili di vita identitari, innovazione tecnologica nel segno della sostenibilità. Oltre al rinforzo dell’offerta formativa, si impone al settore un forte impulso ed un deciso sostegno all’innovazione, alla ricerca ed all’interazione con le imprese per il trasferimento di innovazione e di favorire l’accesso dei giovani alla formazione universitaria. Il PNRR ha affrontato anche il problema delle aree interne, ponendo obiettivi di riequilibrio, prospettando un miglioramento dei livelli e della qualità dei servizi sanitari, sociali e scolastici di queste comunità atto a recuperare il pesante divario attuale.
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Il capillare sviluppo della digitalizzazione costituirà un’infrastruttura fondamentale. Sarebbe però illusorio pensare che questo basti a determinare un’inversione di tendenza decisiva rispetto al passato ed all’ulteriore trend socio-economico negativo innescato dal sisma del 2016, di cui è fedele indicatore l’accelerato spopolamento che stanno subendo gli sfortunati comuni di questa meravigliosa terra. Per determinare anche solo una frenata od una pur piccola inversione di tendenza urge una cura da cavallo, con interventi di alto profilo, che possa contare su un deciso impulso dal livello nazionale e venga fortemente condivisa a livello regionale, con soluzioni proiettate sul breve e sul lungo termine. Come giustamente sostiene Luciano Giacché, non basta ricostruire, ma bisogna riabitare questi territori di opportunità di lavoro e di servizi civili (amministrativi, sanitari, educativi e di mobilità) rigenerando un tessuto socio-economico locale. In occasione degli eventi sismici del 1997 e del 2009 l’impegno s’è visto; qui ancora no.
L’innesto di una struttura universitaria, piccola ma costruita su solide basi, costituirebbe un formidabile elemento rivitalizzante.
Vanno ricordate tre precedenti iniziative direttamente finanziate dallo Stato: l’Università di Udine è stata fondata dopo il sisma del Friuli del 1976; l’Università della Basilicata a Potenza dopo il sisma del 1980; a L’Aquila l’attivazione della struttura di alta formazione post-universitaria del GSSI dopo il sisma del 2009. È peraltro lecito attendersi la collaborazione ed il sostegno di altri atenei, spessissimo verificatosi negli ultimi cinquant’anni nelle numerose occasioni in cui istituzioni e soggetti rappresentativi di un territorio hanno sviluppato il progetto di un nuovo ateneo. Ultimo dell’elenco, in ordine di tempo, quello delle università di Palermo e Catania per lo sviluppo dell’Università Kore di Enna, piccolo capoluogo della Sicilia più montana ed interna. Guardarsi intorno ed indietro aiuta ad essere fiduciosi. Gli spazi concessi dalla vigente normativa di settore sono esigui, in quanto frutto della visione chiusa e fortemente conservativa dello status quo alla base del ciclo 2019-2021, antecedente questa nuova fase. Già lo scorso anno c’è stata una significativa riapertura nel settore sanitario, motivata dalla grave mancanza di risorse umane denunciata dalla pandemia. L’attuale crisi richiede oggi un nuovo e razionale impulso in questo settore. Serve una generazione nuova di professionisti e di funzionari pubblici, in grado di andare oltre la gestione ed affrontare con metodo e competenze il mare alto della stagnazione supportando le istituzioni e l’economia locale nel progettare e favorire una nuova fase di sviluppo del nostro paese, beninteso sostenibile, che stavolta deve includere anche i territori finora più svantaggiati. Va infine sottolineato che uno degli obiettivi principali dell’idea progettuale che si va definendo è quello di coinvolgere l’intero tratto montano della valle, incluso ovviamente il nursino. La dislocazione delle strutture consentirebbe un radicamento diffuso dell’ateneo e favorirebbe l’opportunità di utilizzare in forma appropriata e diffusa tutte le risorse esistenti; nei tanti centri della verdissima valle esistono strutture storiche di pregio architettonico che possono essere validamente riutilizzate e valorizzate. Questa università diffusa, redistribuita tra antichi borghi, rocche, castelli, abbazie, conventi, antiche dimore ed altre strutture, risulterebbe di una originalità e di una suggestione davvero unica. Dare un ateneo alla Valnerina non sembra, sulla carta, un’utopia. La soluzione che si va delineando, sulla quale si è iniziato a discutere con alcuni sindaci della Valle, è quella di dar vita ad una piccola università specializzata nella formazione e nella ricerca scientifica proprio su quei temi che questa valle vive, analogamente a molti altri contesti territoriali delle aree interne e montane d’Italia, al fine di contribuire ad un loro rilancio.
LETTURE CONSIGLIATE:
Luciano Giacchè, Ripensare il terremoto, Scienze del Territorio n.7, 2019 Firenze University Press.
Insieme a Roberto Ruscica e Giacomo Porrazzini, abbiamo consegnato, presso la sala del Consiglio Comunale di Santa Anatolia di Narco, a cinque Sindaci della Valnerina (Arrone, Polino, Scheggino, Santa Anatolia di Narco, Vallo di Nera), una prima analisi relativa alla nostra idea progetto UNIVAL, l’Università della Valle del Nera. Seguirà presto un incontro con altri cinque sindaci: tutti primi inter pares, ovviamente. I cinque amministratori hanno trovato splendida la proposta e faranno tutti parte di un costituendo consorzio per richiedere al Ministero dell'Università e della Ricerca l’ufficializzazione di tale Università diffusa, con lezioni in presenza e solo episodicamente telematici. Tale idea progetto farà parte, almeno nei suoi concetti generali e nei fondamenti essenziali, del libro di prossima uscita, La Terra Promossa, in cui definiremo, mettendo come sempre faccia e firma, il progetto globale per il nostro territorio.
PEZZI di FUTURO in PERICOLO a TERNI
Giacomo PORRAZZINI La città di Terni da molti anni è alla ricerca di un nuovo motore economico e di un riassestamento della sua struttura sociale, legata ad uno storico modello produttivo, ormai inadeguato per offrire un futuro di benessere, di lavoro, di compatibilità ambientale, d’identità proiettata nella modernità, con il pensiero alle nuove generazioni. Sappiamo che non possiamo fare a meno del nostro secolare colosso siderurgico, le acciaierie ternane, cui siamo tutti, anche sentimentalmente legati; la ragione ed i processi economici in atto in Europa e nel mondo, anche guardando alla crisi climatica in corso, ci dicono, però, che Terni non avrebbe futuro se restasse una company town e che la grande fabbrica di viale Brin, pur restando un pilastro essenziale della economia ternana ed umbra, da sola non è più in grado di assicurare, direttamente o indirettamente, la quantità di lavoro necessaria ad assorbire l’offerta di lavoro delle nuove generazioni, nonché la qualità occupazionale, oggi indispensabile, per articolazione e livello delle competenze, e per settori molteplici coinvolti, a promuovere la ricca articolazione del corpo sociale di cui una media comunità locale, come quella ternana, ha bisogno per reggere alle sfide di questo tempo: l’innovazione connessa alla nuova rivoluzione industriale, la sostenibilità climatica delle attività economiche e civili, la tenuta dei legami e degli equilibri sociali, entro un contesto sociale in profonda trasformazione. Per decenni, dai tempi dell’innesco della prima crisi siderurgica e della industria di Stato, quaranta anni fa, dalla grande conferenza economica dei primi anni 80 del secolo scorso, passando per i vari programmi incentivanti, volti alla reindustrializzazione ed al nuovo sviluppo, si è tentato di far nascere nuove iniziative, nuove imprese, nuovo lavoro, piu alte e diversificate competenze, a partire da quelle espresse dalla realtà universitaria. I risultati, pur esistenti, non sono stati pari alle esigenze ed alle aspettative; diversi poli di competenze ed innovazione sono addirittura andati perduti, come l’Isrim, l’Icsim, il Videocentro, il Parco scientifico e tecnologico, il centro sperimentale sulle cellule staminali, corsi universitari, gli studios cinematografici di Papigno, la base logistica, il Progetto strategico della Smart City, solo per citare i principali e più dolorosi. Anche il settore industriale tradizionale si è contratto ed impoverito, con la perdita del magnetico e del titanio nella siderurgia speciale e con la chiusura di molteplici produzioni chimiche legate alla filiera del propilene. Perciò, in un siffatto contesto di declino produttivo, economico ed inevitabilmente anche sociale e culturale, ogni nuova iniziativa che porti il segno del nuovo, va considerata e trattata, da parte di tutta la comunità e di chi istituzionalmente la rappresenta, come una creatura rara e preziosa, come un nuovo nato in un paesino di montagna. In questo momento, aldilà delle incerte e sopravvalutate prospettive calcistico-sanitariecommerciali, legate alle iniziative della proprietà della squadra di calcio cittadina, due nuove opportunità strutturali sono rappresentate dalle bioplastiche della Novamont e da una, potenzialmente grande ed innovativa, piattaforma locale per l’idrogeno. Su entrambe tali opportunità per il futuro, incombono nubi che, se non disperse, rischiano di rendere ancora piu oscuro ed incerto l’avvenire della nostra città. Sulle bioplastiche compostabili della Novamont il pericolo viene, sorprendentemente, dall’Europa e dalla insufficiente reattività delle nostre istituzioni locali e centrali. Sembra, per di più, essere il frutto di un equivoco. L’Italia, da tempo, è il paese europeo che più ha creduto ed investito nella plastica biodegradabile e compostabile. Controlliamo, con le imprese italiane del settore, Novamont in testa, oltre il 60% del mercato, ed ora rischiamo di perdere centinaia di posti di lavoro. Le aziende coinvolte sono 280, per un fatturato di 815 milioni di euro e con 2.780 addetti, tra i quali i 122 dello stabilimento di Terni. Eravamo stati i primi in Europa, nel 2012, in particolare con l’innovazione della bio plastica Mater-bi, ad introdurre, sul mercato della plastica, gli shopper compostabili, biodegradabili in sei mesi. Questo prodotto altamente innovativo, ottenuto partendo da fibre vegetali, perciò dalla terra e che torna alla terra, come humus fertile, dopo l’uso, per effetto non solo di essere biodegradabile ma compostabile, verrebbe incluso, dalle Autorità europee, tra le plastiche da vietare, nel prossimo futuro; da vietare, al fine di ridurre il gravissimo impatto della plastica tradizionale, sull’inquinamento dei mari, con i fenomeni eclatanti delle isole di plastica galleggianti e della loro lenta degradazione in micro plastica che entra nella catena alimentare dei pesci e dell’uomo. Ma la plastica di Terni e di Novara della Novamont, ha una composizione chimica del tutto naturale, sia per componenti base, sia per tipo di legami chimici, tanto da ritrasformarsi, in poco tempo, in terreno fertile alla fine del suo ciclo di vita. Un perfetto esempio di Bioeconomia circolare, da premiare e non da
ostacolare, con miopi equiparazioni ed equivoci. Ci si deve attendere, da parte del Governo italiano e da parte dei deputati italiani al Parlamento europeo, il massimo impegno affinché la netta distinzione, ai fini della sostenibilità ambientale, fra le plastiche da idrocarburi e quelle totalmente biologiche e soprattutto compostabili, perché provenienti da materia prima vegetale, venga mantenuta dalla normativa europea. Ne va del futuro della biochimica italiana e della chimica innovativa di Terni. Anche le Istituzioni locali, Comune e Regione, insieme a forze politiche e sindacali, dovrebbero assumere una forte iniziativa per scongiurare questo grande pericolo che incombe su un pezzo importante della nuova economia ternana e sulla sua capacità di trainare tutto un settore di attività di trasformazione secondaria e commercializzazione, fino alla possibilità di creare, attorno a Novamont, un dinamico cluster delle imprese del settore. La seconda area d’attività su cui rischia di cadere un secchio paralizzante d’acqua gelata è quella della produzione ed uso diffuso dell’idrogeno, come fonte energetica neutra rispetto alla emergenza climatica, avente, perciò, una eccezionale prospettiva di sviluppo. La Germania ha deciso d’investire 10 miliardi di euro per la promozione della produzione ed impiego dell’idrogeno verde; quello prodotto con l’elettrolisi, usando energia da fonti alternative. L’Italia, invece, non sembra altrettanto convinta d’imboccare questa strada che conduce ad un domani sostenibile. In Umbria qualcosa si sta muovendo, ma non in senso favorevole alla nostra città. In questo caso, il pericolo viene da vicino, dalla Regione che, nell’ambito del PNRR regionale adottato, praticamente, senza una reale partecipazione dei soggetti portatori di interessi sulla materia, ha deciso di indicare come Hub regionale, cioè una piattaforma cruciale per la produzione dell’idrogeno, la cittadina umbra di Gualdo Cattaneo, dove è presente un centrale Enel da riconvertire. Terni, invece, vanta una storia di 70 anni nella produzione dell’idrogeno, anche se nella modalità grigio, cioè con emissioni di CO2 per produrlo. Del resto è difficile pensare che il percorso di transizione verso la neutralità climatica nella produzione dell’energia non debba passare per una prima fase con una prevalenza o compresenza significativa dell’idrogeno grigio. Terni, vanta inoltre un bagaglio di progetti di implementazione della produzione e distribuzione territoriale dell’idrogeno che risalgono a 40 anni fa, con la previsione di un idrogenodotto da Neramontoro a Terni e varie ipotesi di utilizzo a fini energetici e di mobilità pulita; proposte antiche, ma sempre valide, cui si aggiunge, oggi, il progetto HYDRA, Foto Marco Ilari che ha visto fortemente impegnate le risorse di competenza della locale Federmanager. Nella conca ternana, inoltre, sono abbondanti le fonti di energia rinnovabile e pulita, sia con lo storico idroelettrico, sia con il piu recente fotovoltaico; fonti, per le quali è pensabile, pur in un contesto di rete unitaria, un utilizzo finalizzato alla produzione di idrogeno verde. Anche il ritorno in casa Enel della Centrale di Galleto, potrebbe offrire l’opportunità di un impiego della energia idroelettrica prodotta, per fare idrogeno. A tali opportunità evidenti si potrebbe aggiungere la disponibilità, presso gli impianti fusori e di affinazione di AST, di rilevanti cascami termici, inutilizzati, che potrebbero trovare impiego per la produzione di energia finalizzata all’idrogeno. Anche le vaste superfici di copertura dei capannoni delle Acciaierie, potrebbero ospitare nuovi campi fotovoltaici da impiegare per l’energia pulita da dedicare alla produzione di idrogeno verde. La produzione di idrogeno troverebbe molteplici modi d’utilizzo, nel campo dei trasporti e della mobilità, sia stradale che ferroviaria, offrendo un’alternativa economica ai costosi investimenti per la elettrificazione delle linee tuttora non dotate. Non si può dimenticare la presenza a Terni di una facoltà universitaria in ingegneria, ed il lascito di competenze, con Ansaldo, nella produzione, purtroppo chiusa, di Fuell Cell; ovvero l’esistenza delle condizioni per dar vita ad un centro di ricerca per l’impiego di idrogeno, in svariati ambiti d’utilizzo. Sappiamo, inoltre, che la siderurgia da forno elettrico di Terni, per avere un futuro, oltre che su strategie produttive e commerciali della proprietà e del management, all’altezza delle sfide industriali di questo tempo di transizione, dovrà essere, sempre più, una siderurgia neutra, climaticamente, con la drastica riduzione delle 300.000 tn di CO2 emesse direttamente ogni anno in atmosfera, oltre ad altre 300.000 emesse indirettamente per la produzione termoelettrica della energia consumata. Una situazione che fa di Terni una città, non solo inquinata da polveri ed altre emissioni industriali, ma, anche, una località climalterante, ben lontana dalla neutralità cilimatica, con le sue emissioni complessive di oltre un milione di tn di CO2 all’anno. Insomma, per avere un futuro, quella di Terni, dovrà evolvere in una acciaieria circolare non solo perché riutilizzi e ricicli all’infinito rottami di acciaio, ma perché cessi di avere gli attuali pesanti impatti su ambiente, salute e clima. Il tema del maggior impiego di idrogeno, per fasi importanti del processo produttivo, nonché di sistemi passivi ed industriali di cattura e riutilizzo della CO2, è aperto ed investe pienamente il futuro della centenaria fabbrica di viale Brin, simbolo della nostra città. Terni, per respirare ha bisogno, come tutti, di ossigeno ed aria pulita e, perciò, anche, d’idrogeno. Una sfida ed una opportunità epocale che non possiamo perdere.