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LA TRIBÚ UMANA S. Raspetti
LA TRIBÚ UMANA
Sandra RASPETTI
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Quindici miliardi di anni fa (miliardo più, miliardo meno) l’energia cosmica fece sentire il suo primo respiro. Tremila milioni di anni fa (milione più, milione meno) alcune cellule vibrarono, si animarono. Da allora ovunque arrivasse un raggio di sole, ovunque luce e calore penetrassero le tenebre, ovunque fu vita. Che io ora possa scriverlo testimonia lo straordinario percorso evolutivo che ha trasformato un atomo in un mammifero deambulante, con una capacità pensante di ampie dimensioni. Nella baraonda vorticosa del tempo, quest’uomo si è convinto di essere lui il padrone del suo e dell’altrui territorio. Ed è nel pezzo di terra inteso come spazio di appartenenza che l’uomo si gioca la sua animalità. Alla pari di un cane che segna i confini del proprio territorio, così l’animale umano alza simbolicamente la gamba su quanto ritenga di sua appartenenza a livello tribale, familiare, personale. Piccoli gruppi costituirono tribù e per migliaia di anni sopravvissero difendendo quel territorio di caccia che ogni gruppo aveva delimitato ritenendolo di sua proprietà. Simboli di appartenenza venivano registrati sul corpo di ciascun membro, danze di pace e di guerra cimentavano il gruppo sociale costituito. Poi la tribù divenne popolo, il territorio divenne città, nazione. I simboli cambiarono, ma sempre simboli restarono: i colori di guerra dipinti sul volto divennero divise, insegne, emblemi di guerra, il simbolo distintivo come un totem divenne una bandiera, un canto di guerra divenne inno nazionale, un suono di tromba, una marcia militare, uno squadrismo. I confini territoriali vennero costruiti: fortezze, torrette, filo spinato, muri eretti, ma anche solo barriere doganali. L’antico cacciatore tribale che si annida in ogni individuo ha ancora e sempre bisogno di sentirsi protetto in una realtà ristretta che richiami la tribù dei primordi perché l’agglomerato di milioni di individui disperde le certezze, scardina i confini, invade lo spazio personale. Lo straniero che sbarca, l’estraneo che ti sorpassa nella fila, l’automobilista che si intrufola nella tua area di parcheggio, sono invasioni del tuo spazio personale, anch’esso ben definito da paletti mentali. Così avviene in una sala d’aspetto, nei cinema, nei mezzi di trasporto pubblici: una persona entra e si siede lontano dalla persona già seduta e così via finché si è costretti a sedersi accanto a qualcuno e la sensazione che ci pervade è di disagio, a volte di minaccia. Interessante è osservare la vacuità dei volti dentro un ascensore, in un autobus urbano: occhi fissi al soffitto, funzioni vitali rallentate come se diventare assenti possa proteggere il nostro spazio momentaneamente in pericolo per contatto obbligato con gli altri viaggiatori. Il richiamo alla tribù è incorporato, la spinta alla cooperazione è un atto di autoconservazione della specie, si formano gruppi più ristretti di individui, più vicini al modello antico: sindacati, partiti, gruppi sportivi, associazioni, club, ma anche bande di adolescenti, gruppi di protesta, organizzazioni criminali. La famiglia è la roccaforte dell’individuo e intorno ad essa si sbarrano cancelli, si erigono muri. È la rappresentazione più autentica della tribù: piccole dimensioni, autogestione, condivisione di fatti e misfatti. All’interno di essa tutto può succedere: famiglia come nucleo di affettività, solidarietà, libertà, ma anche gerarchia confezionata ad uso di qualcuno, in altre parole: membri dominanti, membri sottomessi. Ancora una volta, come sempre, da sempre, la forza muscolare riesce a cancellare lo straordinario cammino dell’evoluzione umana perché il maschio su di essa fa leva per ottenere e mantenere ciò che più conta: l’ inviolabilità del territorio, la bramosia di possesso nei riguardi della donna che donna non è, ma nella sua visione rimane femmina alla pari dell’animale cacciato per procacciarsi il cibo o da inseminare per perpetuare la specie. Meschinità di un’umanità dolente. Il corpo è sistemato, bene o male inquadrato in territori più o meno vasti, ma l’anima? Fu così che la tribù oltrepassò lo spazio fisico, trascese la materia, si inoltrò in uno spazio addirittura cosmico, la parte animica così imperante e prevalente in ciascun uomo volle il suo Dio. Dio che avrebbe dovuto essere unico e solo, creatore del cielo e della terra, che veniva venerato inchinandosi al sole dell’alba o temuto nel fragore di un uragano, venne di nuovo spartito e a secondo delle latitudini, delle tracce di materialismo persistenti, assunse modalità e rituali diversi. Anche l’anima aveva bisogno di campi ristretti e all’interno delle religioni nacque un’anagrafe spirituale. Di nuovo paletti che segnano l’appartenenza di un popolo (tribù) ad una cultura che trascende l’empirico, consola l’anima, soccorre, protegge, placa le paure, promette eternità. Ancora una volta, però, la voglia di potere, di sconfinare, di possedere, di sottomettere prevale e i paletti diventano violenze, castrazioni del corpo e dello spirito, animalità cieca e spietata. Ancora una volta la donna è l’agnello da immolare, la preda facile da sottomettere. È l’eterna lotta per la sopraffazione all’interno di un’unica specie: quella umana. Territorio da difendere... territorio da invadere. Vi rimando ai fatti di cronaca, ad uno sguardo sul mondo...la tribù è tutta lì. sanras@umbriainfo.com