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D’estate facevamo le cartucce V. Grechi
D’ESTATE FACEVAMO LE CARTUCCE
Vittorio GRECHI Negli anni ’50 del secolo scorso possedevamo tre fucili: una doppietta Hunter, un fucile a un colpo e una doppietta ad avancarica, tutti del calibro 12 e a cani esterni. La doppietta ad avancarica era detta in gergo “fucile a bacchetta”, in quanto munito di una bacchetta incastrata con appositi supporti tra le due canne e sotto di esse. Praticamente funzionava come gli archibugi ancora in uso per gli spari in onore di S. Antonio da Padova, patrono di Castiglioni di Arrone (Terni). Per andarci a caccia bisognava portarsi appresso il misurino per dosare la polvere da sparo e il piombo, la carta e gli inneschi. Prima si metteva la polvere nella canna del fucile, poi la carta che veniva pigiata fino in fondo con la bacchetta e infine il piombo con altra carta, anch’essa pigiata col medesimo strumento. Era il tipico fucile per la caccia da capanno. Le cartucce per i fucili a retrocarica si facevano d’estate, poi si mettevano al sole nella convinzione -e speranza- che poi fossero efficaci con qualsiasi clima. In genere, la mattina di Ferragosto era dedicata a preparare le cartucce per buona parte dell’anno, all’ombra del noce e sopra un tavolo di fortuna fatto con quattro tavole inchiodate e quattro pali conficcati nel terreno a sostenere il tutto. Dall’armaiolo si compravano le lattine di polvere da sparo granulare, tipo Acapnia o Universale, adatte a essere misurate con uno strumento volumetrico a 4 gradazioni e quindi senza bisogno di bilancino. Si comprava poi una scatola di cartucce con la base di ottone, con al centro della base l’apparecchio di innesco, detto in dialetto tobetto, poi i pallini di piombo numero dieci adatti per la caccia alla maggior parte dei volatili e infine i dischetti di carta robusta calibro 12, detti cartoncini, per separare i componenti. Si incominciava a caricare le cartucce già usate, si toglieva l’innesco vecchio e si metteva quello nuovo battendolo con un martelletto di legno tenero. Queste cartucce si caricavano a dosaggio 3 per passeracei, mentre quelle nuove si caricavano a dosaggio 4 per tordi e merli. Per la lepre e altre prede importanti come i colombacci si usavano cartucce più potenti, dette corazzate, che si acquistavano direttamente dall’armaiolo. Una volta impostata la misura a 4, si riempiva il misurino colmo di polvere e si versava nella cartuccia, si metteva il cartoncino e lo si pressava con apposito bastoncino in legno, delle stesse dimensioni della cartuccia. Come borraggio (materiale inerte per riempire lo spazio tra la polvere da sparo e i pallini di piombo) si usava una manciata di semola di grano, altro cartoncino pressato e infine i pallini di piombo a 4, non colmi come la polvere ma pari, traguardando il bordo del misurino. Altro cartoncino sopra al piombo e poi, con apposito strumento a manovella, si faceva il bordo alla cartuccia in modo che trattenesse il suo contenuto. Fatto ciò, si scriveva sul cartoncino una sigla che identificava la polvere usata e la sua quantità, per esempio A4. Si diceva allora che quella cartuccia era di Acapnia a 4, curmu e pparu, intendendo colmo di polvere e pari di piombo, che era la dose già sperimentata con buon successo in tutti i climi. Poteva accadere d’inverno, con condizioni atmosferiche particolari, che la cartuccia fosse balisticamente non bilanciata, per cui le prede cadevano a terra vive e bisognava rincorrerle o affidarsi al naso del cane per ritrovarle. Allora gli esperti dicevano che il piombo era poco e sopperivano alla carenza di bilanciamento aggiungendo una pallina di terra umida sulla punta della cartuccia, prima di infilarla nella canna. Mentre si eseguivano queste operazioni ripetitive, si raccontava che un famoso maestro elementare, per non rovinare le cartucce e farle durare più a lungo possibile, non usava la macchinetta bordatrice, ma bloccava l’ultimo cartoncino con la cera fusa che faceva scolare da una candela accesa. Era il ricordo dell’Italietta risparmiosa che stava sparendo man mano che il boom economico si faceva avanti. Infatti, aumentando il benessere, incominciarono a diminuire i cacciatori che si fabbricavano le cartucce. Era più facile comprarle e c’era un’ampia scelta fra le polveri da sparo, non più granulari ma a lamelle, come Sipe (Società italiana prodotti esplodenti), Super Balistite e S4, che però dovevano essere pesate. Finita la preparazione, si liberava il tavolo per il pranzo. Intanto le donne avevano fatto gli gnocchi col sugo di capra e sulla grande graticola stavano arrostendo pomodori e braciolette, sempre di capra. Per il primo piatto c’era, però, un’eccezione: fettuccine all’uovo per zio Antonio che era stato prigioniero in Germania e odiava crucchi, rape e patate. Anzi, per le patate recitava sempre un proverbio: Beatu chi l’assotterra e tristu chi l’arcaccia.
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