Numero 11 6 giugno 2014
Mensile a diffusione gratuita di attualitĂ e cultura
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B AT T I S T E L L I
Fot o Al bert o M i ri mao
G r a z i e Voglio ringraziare la città che ancora una volta mi ha scelto come Sindaco, ancora una volta ha ribadito la fiducia nei miei confronti. Sono davvero soddisfatto perché in questa tornata elettorale i sindaci uscenti come me erano fortemente penalizzati; su di loro grava tutta una serie di colpe che i cittadini gli imputano, ma che in realtà dipendono da scelte del governo centrale, neanche da quello regionale. Tenendo conto di quanto è successo a Pavia e a Cremona, oltre che a Perugia, credo di aver avuto ragione nel dire che la mia rielezione non era per niente scontata. Ho ottenuto un risultato soddisfacente al primo turno e, con l’unica eccezione di Gubbio, sono stato il candidato umbro che ha avuto il maggior numero di preferenze. Al ballottaggio sono stato il candidato che in Umbria ha ottenuto di nuovo la percentuale di voti più alta. Questo è senza dubbio il risultato di un lavoro ben svolto, apprezzato dai ternani. Terni è stata una città che si è sforzata di non rimanere immobile, paralizzata dalla crisi. Abbiamo continuato, seppur tra mille difficoltà, il processo di trasformazione per avere dei servizi migliori, abbiamo messo in atto un piano d’investimenti superiore rispetto agli anni precedenti la crisi. Abbiamo dato il via a cantieri importanti, a progetti importanti. Cito, solo per offrire dei punti di riferimento, i progetti di Piazza Tacito, di Piazza dell’Olmo, del Parco di Campitelli, delle Piscine dello Stadio, del Centro Sociale Valenza. Abbiamo seguito le problematiche del lavoro con una presenza assidua e costante, siamo stati dentro la crisi, e abbiamo anche cercato di mantenere vivo il rapporto con la città, con la gente. In questa direzione va la nostra attenzione per le Circoscrizioni viste come elemento di partecipazione e governo. Dovremmo pensare a una forma non istituzionale che possa sostituirle mantenendo vivo e forte il legame con il territorio. Sono infatti convinto che per governare bisogna avere uno scambio continuo e reciproco con la città, con chi i problemi li vive sulla propria pelle. Con la passata amministrazione abbiamo deciso e scelto di privilegiare gli investimenti e quindi, considerando la fortissima crisi in cui ci siamo trovati ad operare, abbiamo dovuto tagliare sulla manutenzione che si sarebbe dovuta finanziare con gli incassi. Ecco perché a volte i cittadini hanno notato qualche falla nella cura del verde, l’erba è tagliata due volte l’anno e non tre come si faceva prima; qualche problema anche per quello che riguarda la manutenzione delle strade. Abbiamo dovuto scegliere e abbiamo preso la via che ci sembrava migliore per assicurare un futuro alla nostra città. Siamo riusciti in importanti intenti come quello di avere cofinanziamenti: in cinque anni abbiamo ottenuto molto di
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più di quanto abbia avuto Perugia. Siamo riusciti ad intercettare i fondi regionali più di quanto abbia fatto il capoluogo di regione. Sono partiti progetti importanti come quello dei dottorati di ricerca a Pentima, si sta per realizzare la struttura residenziale per studenti che disporrà di 100 posti letto, biblioteca, mensa, palestra. Un tassello che contribuirà a dare a Terni l’aspetto di città universitaria. Ancora due importantissimi progetti: quello dei laboratori di biotecnologie coordinato dal Prof. Andrea Grisanti e quello sulle cellule staminali condotto dal Prof. Angelo Vescovi. Per il primo è stato realizzato un laboratorio con sicurezze uniche in Europa. Le ricerche che si stanno portando avanti sono al vaglio della società scientifica. Come del resto quello sulle cellule staminali. In questo caso la sperimentazione ha concluso la prima fase ed ora si sta aspettando il via per la seconda. Il lavoro che ci aspetta è in salita; ci sono sfide importanti, appuntamenti che non possiamo mancare. Ancora una volta ci metteremo al lavoro per assicurare a Terni e alla sua gente un futuro sereno. Leo Di Girolamo - Sindaco di Terni
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Momenti di passaggio Il calendario dice che siamo solo a metà percorso, ma in realtà sappiamo benissimo tutti che è proprio a Giugno, e non a Dicembre, che si respira l’aria del passaggio da un anno all’altro. Se ne accorgono meglio di tutti gli studenti; la “fine dell’anno” arriva nei dintorni del Solstizio d’Estate, e loro sanno per certo che a Settembre giungeranno ineluttabilmente dei cambiamenti: nuova classe, nuovi argomenti o, nei casi meno piacevoli, stessi argomenti, ma con compagni di classe diversi. Non è certo una prerogativa solo degli studenti e del personale scolastico: Giugno è un mese di bilanci un po’ per tutti. Chi fa altri mestieri continua a lavorare, certo, ma comincia quantomeno ad aspettare qualcosa: magari solo una o due settimane di ferie, e anche se sa già che se le godrà solo a Luglio, o ad Agosto, o perfino a Settembre, è sempre e comunque l’arrivo di Giugno che ridesta l’attenzione sulla pausa estiva. Per non parlare di coloro che proprio d’estate lavorano di più, stagionali o precari che siano: questi certo vedono in Giugno più il segno di un inizio che di una fine, ma anche per loro è pur sempre un momento cruciale di passaggio, un sintomo di cambio: comincia la “stagione”, e le virgolette sembrano proprio sottolineare la diversità; stagione di intenso lavoro, invece della comune stagione di riposo e vacanze. E perfino coloro che non lavorano affatto, che si dannano ogni giorno in modo sempre uguale, sono costretti a sentire il cambio di atmosfera: non fosse altro perché le radio e le televisioni cambiano i palinsesti, i negozi e i locali cambiano gli orari; perché, insomma, a Giugno inizia una breve e indaffarata stagione di tre mesi che è ancora oggi ben diversa dal periodo di nove mesi che va da Settembre a Maggio. Perfino questo giornale segna la cesura, il cambiamento. Certo, non tutti i momenti di passaggio sono uguali. Se è vero che uno degli incubi più ricorrenti nella popolazione italiana è quello che riporta alla
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mente l’esame di maturità, allora è evidente che per gli studenti che si accingono a terminare il ciclo di studi delle medie superiori il momento del passaggio che si accingono a vivere è particolarmente importante. E lo è davvero, perché non è un passaggio solamente scolastico: arriva ad un’età in cui bisogna definitivamente rassegnarsi ad essere adulti, e cominciare a farsi carico della propria individualità sociale. Lo status di studente, vissuto più o meno consapevolmente nei tredici anni precedenti, sta per terminare: e anche se gran parte di loro (il più possibile, speriamo) continueranno ad affannarsi sui libri come universitari, il cambiamento che vivranno sarà comunque netto e deciso, forse ancora maggiore di quello successivo, quando cominceranno a lavorare. Per i maturandi di questi tempi di crisi, poi, il cambiamento è certamente più forte e segnante di quanto lo fosse qualche lustro fa. La generazione precedente affrontava l’esame di stato soppesando una scelta tra due modi di vita molto diversi, ma ragionevolmente chiari e affidabili: c’era chi decideva di mettere subito a frutto il diploma e cominciare a lavorare, conquistando l’indipendenza economica, e chi invece decideva di continuare, pesando ancora sulla famiglia, ma con l’obiettivo di raggiungere una laurea che avrebbe dovuto dischiudere un lavoro, un futuro, una vita migliore. Naturalmente, spesso le cose non andavano così lisce: studi interrotti, lavori più duri del previsto, studi protratti ben oltre la durata canonica, crisi esistenziali… si trovava di tutto, quando la vita cominciava davvero, dopo i vent’anni. Ma, almeno in teoria, quella scelta post-diploma era ragionevolmente ben definita, per quanto decisiva: vado all’università o cerco un lavoro. Questa generazione ha scelte più difficili. Cercare lavoro a diciannove anni è una cosa che si può ancora fare, ma il contratto a tempo indeterminato che una volta era dato quasi per scontato è più irraggiungibile dell’Ultima Thule. Cercare un lavoro vuol dire cercare qualcosa da fare di tre mesi in tre mesi, al massimo sei, per una retribuzione che spesso non basta neppure a pagare la benzina per gli spostamenti e i panini della pausa pranzo. Andare all’università significa provare ad investire tempo e risorse per ottenere un titolo che ormai è ben lungi dall’essere una garanzia per il futuro: significa seminare su terra arida e con l’incertezza del raccolto. È una generazione che ha di fronte scelte difficili, e per la quale i momenti di passaggio sono scelte già dure e cruciali. In bocca al lupo a tutti questi ragazzi. Quasi sempre, abituarsi da giovani a scelte difficili produce col tempo persone più forti e migliori. Speriamo valga anche per loro. P i e ro F a b b r i
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Grazie - L D i G i ro l a m o UNIPOLSAI ASSICURAZIONI Momenti di passaggio - P F a b b r i ASM Terni è salva - G R a s p e t t i C I D AT D i r e c t o r o f o p e r a t i o n s c e rc a s i - A M e l a s e c c h e FA R M A C I A B E T T I I pappagallini di Domiz - F Patrizi La vita è un festival - C Colasanti ALFIO Il centenario del CONI - S Lupi L o s p o r t , i l c a l c i o e l e c a ro g n e - A Z e r b i n i RADIOFREQUENZA - V B u o m p a d r e Lo sport nella Grecia antica - P Seri I M M O B I L I A R E B AT T I S T E L L I Siamo solo conviventi - M P e t ro c c h i Sulle orme di San Francesco Il paradosso dei capelli neri - V P o l i c re t i L A B O R AT O R I S A L VAT I A Z I E N D A O S P E D A L I E R A S A N TA M A R I A D I T E R N I L’ e s p e r i e n z a d e l s u o n o - E R o m a n i Consigli nutrizionali nella cura delle colecistopatie - L F a l c i B i a n c o n i N U O VA G A L E N O Il prezzo della libertà - F L e l l i LANDI COSTRUZIONI Europa fonte di confronto musicale - A P e p i c e l l i STUDIO DI RADIOLOGIA BRAGONI Le tradizioni contadine perdute - V G re c h i Meglio i cibi di stagione - L P a o l u z z i Filosofia mon amour - F Neri CENTRO MEDICO DEMETRA - ERREMEDICA ARIANNA - MV Petrioli Una soffitta sull’universo - M P a s q u a l e t t i C M T - C O O P E R AT I VA M O B I L I T À T R A S P O R T I Le crociate del XXI secolo - C B e r n a r d i n a n g e l i F O N D A Z I O N E C A S S A D I R I S PA R M I O LE MERAVIGLIE - L T a r d e l l a SANFAUSTINO VITTORIO GRECHI G L O B A L S E RV I C E SUPERCONTI
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Mensile di attualità e cultura
Registrazione n. 9 del 12 novembre 2002, Tribunale di Terni Redazione: Terni, Vico Catina 13 --- Tipolitografia: Federici - Terni
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Politica = Progetto La politica è la massima espressione socio-culturale dell’uomo. Se vogliamo, risale all’anqrwpoj zwon malista politikon di aristotelica memoria, ma è l’intera storia umana ad aumentarne l’enfasi, locali incidenti di percorso a parte. La cultura è la quintessenza stessa della politica. Che poi il politico non debba essere solo colto, è solare, così come è lapalissiano che se il politico non ha cultura, allora è solo un sensale da quattro e un soldo. L’incultura ci fa ormai diversi, come persone e come popoli. La cultura ci unisce, anche se, a volte, sembra orientarci verso aspettative diverse e sentimenti opposti, ma più i nostri figli saranno colti e più avranno la possibilità di scegliere, di vivere in armonia, di generare sana politica. È la politica insana, quella degli analfabeti, dei corruttori e dei despoti, che infligge spesso alla cultura il fuoco purificatore. Cultura e Politica generano il Progetto. La politica è chiamata, attraverso la pianificazione degli interventi, a risolvere problemi. Risolvere problemi significa trovare le soluzioni attraverso la realizzazione di un progetto. In realtà problema e progetto hanno lo stesso significato. Sono infatti un’unica parola, che proviene dal verbo greco ballw, ballo, gettare. Verbo interessantissimo che ci regala la parola diavolo (dia-ebalon, getto in mezzo, metto zizzania), la parola embolo (entro dentro), la parola iperbole (iper-ballo, lancio oltre, me ne passo, esagero - gli infiniti asintotici addirittura in quattro direzioni sono per certo un fatto paradossale, una esagerazione vera e propria!), la parola parabola (para-ballo, pongo a fianco, spiego un concetto difficile con uno più semplice -dando al contempo un insegnamento morale-, do l’esempio, che, con il passare del tempo, quando la parola verbum viene completamente assorbita dal cattolicesimo, diventa parabolare, poi paraulare, poi... ad oggi, parlare), la parola problema (pro-ballo) che significa getto, pongo davanti agli occhi e alla mente. I latini, la cui cultura discende direttamente da quella greca, hanno inserito nel loro linguaggio molte parole coniate dai loro maestri, altre, invece, le hanno cambiate o adattate. Così ballo diventa, nel latino classico, iacto, poi getto in italiano. Pro-blema e Pro-getto, un solo significato, dunque. Dire allora che vuoi risolvere problemi vuol dire che hai progetti, altrimenti sei solo un bamboccione! Chi non ha cultura non può produrre progetti; riesce solo a sputare, si arrampica sugli specchi, inoltrandosi su sentieri ridicoli, si tuffa nel politichese, esponendosi a figure barbine, a pene di segugio! Si lascia andare con il dire che la città è morta, è da salvare... da lui, ovviamente, lo spacciatore di futuro! La città, comunque... si è salvata proprio da tale iattura. Non dovrebbe, però, il sedicente eroe, ardire presentarsi in competizioni politiche che riguardano la vita di tutti i cittadini, senza aver nulla da dire, ma con l’arroganza ardimentosa di volerlo, comunque, dire! Chi non ha progetti non ha cultura, non fa politica, si limita alla provocazione, alla demagogia spinta, ai mezzucci bizantini per ingannare ingenui e disattenti. Sembra innocuo, costui, in realtà ha colpe non veniali: - incrementa la sfiducia verso i partiti (della quale non si sente il bisogno perché già presente a dismisura!); - propala la credenza che i problemi possano risolversi in quattro e quattr’otto, anche da un ingenuotto, e che la politica si riduca ad una fregnaccia; - incita solo a critiche sterili su tutto e tutti affermando, senza neanche ombreggiare uno straccio di idea progettuale: votateci perché, quando saremo noi al potere studieremo progetti insieme ai cittadini... storia acconciata sul tristissimo lei non sa chi siamo noi! - si convince -e cerca di convincere- che la politica consista nei comizietti che lui tiene normalmente dall’acconciatore per uomini; - cerca di indurre a far pensare, e questo peccato è mortale, che la sua mente capta possa amministrare i beni dei tanti uomini eccellenti, in ogni campo, che fioriscono nella nostra città. Giampiero Raspetti
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Director of Operations cercasi! Circola da un paio di mesi su YouTube un video relativo alle selezioni per un lavoro molto particolare. I colloqui si sono tenuti via web conference con solo 24 candidati, nonostante l’annuncio on line abbia avuto due milioni di click. Per quel posto di lavoro è necessario essere disponibili 24 ore al giorno, senza pause, 365 giorni l’anno; formalmente il ruolo è definito come Director of Operations. Nel corso del colloquio il selezionatore aggiunge che le responsabilità e le richieste sono molto impegnative: innanzitutto mobilità, perché bisogna stare in piedi per quasi tutto il tempo, sotto sforzo, quindi si richiede un livello di resistenza alto. Forse però qualche volta ci si può sedere, ma senza la possibilità di fare vere pause. Aggiunge poi che nei giorni di Natale, ultimo dell’anno e festività in genere, il lavoro aumenta e si chiede anche di avere sempre il sorriso sulle labbra. Quando poi aggiunge che alla persona assunta non verrà corrisposto nulla, i candidati reagiscono dicendo che “non è umano”, “non è possibile”, “che si tratta di un folle”, “che nessuno lo farebbe gratis”. Tutti i candidati di fatto sono scettici e anche un po’ infastiditi, fino alla rivelazione finale: quel posto è già occupato da miliardi di persone al mondo. Chi? Le mamme! Director of Operations a.k.a. (ovvero, “anche conosciuto come”) Mom (mamma). Ma quale è il miglior Paese al mondo dove essere mamma? Non è l’Italia, ma non siamo messi così male! A evidenziarlo è il 15° rapporto di Save the Children, intitolato State of the World’s Mothers pubblicato proprio in occasione della Festa della Mamma 2014. Al primo posto del 2014 Mothers’ Index Rankings troviamo la Finlandia, per il secondo anno consecutivo, seguita, da Norvegia e Svezia, per un podio tutto scandinavo. Lo studio si è basato su cinque indicatori: salute materna e rischio di morte per parto, benessere dei bambini e tasso di mortalità entro
i 5 anni, grado di istruzione, condizioni economiche e PIL procapite, partecipazione politica delle donne al governo. Più in generale ad occupare le posizioni più alte sono, senza particolari sorprese, le nazioni del nord del mondo, grazie alle migliori condizioni economiche e quindi di salute di cui si gode da quelle parti. L’Italia sale dal 17° all’11° posto, proprio grazie al maggior numero di donne nel governo. E da noi le condizioni di salute delle mamme e dei loro pargoletti si mantengono in generale buone: il tasso di mortalità femminile per cause legate a gravidanze e parto è pari a 1 ogni 20.300, quello di mortalità infantile è di 3,8 ogni 1.000 nati. Se nei primi 10 posti in classifica troviamo 9 Paesi europei (dal quarto posto Islanda, Paesi Bassi, Danimarca, Spagna, Germania e Belgio, a pari merito con l’Australia), il fondo della classifica è riservato agli stati africani: Repubblica Democratica del Congo e, a pari merito, Niger e Mali, tutti Paesi che hanno vissuto conflitti o catastrofi. Il peggiore in assoluto? È la Somalia al 178° e ultimo posto. Al mondo ci sono 250 milioni di bambini sotto i 5 anni che vivono in aree di conflitto. Per portarli in salvo madri e padri affrontano insieme a loro viaggi pericolosissimi, sui barconi o anche a piedi e poi li vediamo approdare, nel migliore dei casi, sulle coste di qualche Paese europeo, molto spesso le nostre. Le differenze tra Paesi ricchi e in via di sviluppo sono piuttosto imbarazzanti se si analizzano i singoli indicatori. Se in Finlandia 1 donna su 12.000 rischia di perdere la vita per cause legate alla gravidanza o al parto, in Chad accade a 1 su 15; 1 bambino su 5 in Sierra Leone (172esimo posto) rischia di morire prima di aver compiuto 5 anni, mentre in Islanda corre questo rischio 1 su 435. Sarà anche il lavoro più duro al mondo, ma, di certo, in quale Paese ci si trovi “a svolgerlo” può ancora fare tremendamente la differenza, la differenza tra la vita e la morte del proprio bambino come anche la propria. alessia.melasecche@libero.it
Implantologia orale Gli impianti dentali sono sinteticamente dei perni o viti in titanio, che vengono inseriti nell’osso come sostituti delle radici dei denti mancanti e possono poi essere protesizzati a seconda dei casi e delle necessità con capsule singole o con ponti fissi o con altri tipi di manufatti protesici. L’inserimento degli impianti richiede un adeguato volume di osso in altezza e in spessore, secondo le regole classiche occorrono alcuni mesi prima di poter avere i denti sopra agli impianti, intervallo questo necessario per l’osteointegrazione cioè per la guarigione dell’osso e l’attecchimento degli impianti. Il grande vantaggio degli impianti è di poter realizzare capsule singole o ponti di più elementi senza dover limare i denti adiacenti di supporto che rimangono quindi integri. Ancor più gli impianti risultano di grande utilità quando non vi sia la disponibilità di denti di supporto come può essere il caso della mancanza dei molari posteriori (fig. 1). Alcune tecniche implantari consentono di posizionare protesi fisse anche in arcate mascellari prive di denti o in cui i denti residui devono essere estratti. Tra queste soluzioni troviamo la toronto bridge oppure la protesi detta all on 4 che sono appunto protesi di tipo fisso realizzate in arcate edentule su impianti dentali inseriti nella regione anteriore del mascellare superiore o della mandibola (fig. 2) . Alberto Novelli
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I pappagallini di Domiz Tra il fango, i serpenti e gli scorpioni del deserto si gioca e ci si sposa, l’abito nuziale è sempre quello, lo si indossa e poi lo si passa all’altra ragazza che aspetta il suo turno nella tenda. Con 55 mila rifugiati, il campo che accoglie i profughi siriani a Domiz in Iraq è ormai una piccola città con tanto di pseudo sindaco, fornaio, venditore di telefonini e un’estetista che organizza i matrimoni e affitta l’abito agli sposi. Nella strada principale, che porta il nome del presidente del Kurdistan iracheno Ma’sud Barzani, si sentono cantare gli uccelli del negozio di Swaran: I curdi ne vanno pazzi, arrivano a spendere più di 60 dollari per un canarino, racconta a un giornalista tedesco venuto fin qui per capire come ha fatto un centro profughi ad organizzarsi in maniera così virtuosa. Come spiega un osservatore dell’ONU, quando c’è da allestire un campo di rifugiati c’è sempre il rischio che la malavita ci metta le mani, che i container vengano smontati e rivenduti al mercato nero, che i soldi e il cibo vengano smistati dalle famiglie più influenti in maniera poco equa. I campi d’accoglienza che sono nati in seguito alla guerra in Siria crescono a dismisura ed è più semplice affidarli a un clan del posto che spesso è l’unica organizzazione locale in grado di garantire la sicurezza e arginare le interferenze esterne. Il governo dei paesi accoglienti e gli osservatori internazionali quasi mai sono in grado di intervenire o di gestire direttamente gli aiuti umanitari.
Domiz invece è un modello sperimentale di campo autogestito, esiste da poco più di un anno e tutti sanno che la situazione non è provvisoria, ci saranno generazioni che nasceranno e moriranno sotto le tende; la consapevolezza di non rivedere presto il proprio paese, di non poter tornare a casa, genera sconforto, ma la reazione di questa gente è sorprendente. L’Unicef ha creato uno spazio dedicato ai bambini per farli giocare e socializzare, li segue una donna di nome Avin che sente spesso i più grandi lamentarsi e aspettare con trepidazione il ritorno a casa che non ci sarà. Tornare a fare, per quanto possibile, la vita di prima, continuare a vivere invece di sopravvivere è un dovere verso i figli e verso se stessi, forse è l’unica battaglia che si può combattere e vincere senza armi. Avin arriva alla sera stanca, ma non va a riposare, si mette a lavorare nel suo negozio di estetista dove c’è sempre una nutrita clientela che la attende, perché qui le donne si vogliono fare belle, non si trascurano, non si lasciano andare e si sposano, tutte con le stesso vestito. Il nuovo giorno da Domiz viene annunciato dal cinguettio che sale dal negozio di uccelli, un trillo che rompe il sibilo del vento, che allevia il caldo insopportabile del deserto e il rumore costante dei generatori elettrici. Gli affari vanno bene, non mi posso lamentare, sorride Swaran mentre il pappagallino che sta aggrappato caparbiamente al suo dito intona un controcanto che nessuna guerra Francesco Patrizi riesce a zittire.
La vita è un festival! Nelle ultime settimane mi sono trovata a prendere parte a tre festival, tutti diversificati tra di loro, anche se con un unico comune denominatore: l’amore per la conoscenza, il desiderio di verità e la necessità di soddisfare la sete di curiosità che ognuno di noi porta con sé. Il primo festival a cui ho preso parte e che ho sentito davvero sottopelle (come ogni anno da cinque anni, ormai!), è stato quello internazionale del giornalismo di Perugia: cinque giorni in cui la città cambia fisionomia, assumendo quella che ognuno dei partecipanti le dà, correndo da un evento all’altro, cercando di perdersene il meno possibile. Durante questo festival ero volontaria, quindi l’ho vissuto dall’interno, se così si può dire, e in maniera molto appassionata: tre ore al mattino e tre ore al pomeriggio ero in onda insieme al gruppo di volontari della radio, per raccontare quello che succedeva a Perugia in quei giorni di frenetico attivismo (e propositività!). La meraviglia del festival è quella di riuscire a mettere a disposizione di tutti gli interessati un vastissimo ventaglio di possibilità di apprendimento, di contatto, di crescita e di confronto con grandi firme del giornalismo italiano e con chi, come molti, cerca di imporsi in un panorama giornalistico così affollato. Il secondo evento di questo genere a cui ho partecipato, anche se solo per un giorno, è stato il Salone Internazionale del Libro di Torino: a sorpresa sono riuscita a prendere un treno anche quest’anno e a spostarmi verso la città della Mole per chiudermi nel Lingotto Fiere e perdermi tra le centinaia di stand espositivi che non facevano altro che invogliarmi a comprare un libro o un altro. Ho resistito e ho acquistato solo due libri, ma ho avuto l’occasione di incrociare personaggi di altissimo calibro: ho assistito all’incontro tra Concita De Gregorio e Dacia Maraini a proposito del suo ultimo libro (di cui ho parlato su queste pagine, tra parentesi, qualche mese fa!) “Chiara di Assisi – Elogio della disobbedienza”; ho assistito all’intervista fatta
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da Ernesto Assante a Ivano Fossati circa il suo libro “Tretrecinque” (che ho acquistato per farmelo autografare e che sto divorando in questi giorni!); ho incrociato Gino Paoli (intervistato da Paolo Giordano, il giornalista) e Loretta Goggi; ho intravisto Paolo Giordano (stavolta lo scrittore, l’autore de “La solitudine dei numeri primi”, per capirci!) mentre era ospite del programma radio di Sinibaldi; ho visto Milo Cotogno (i miei coetanei cresciuti a pane e Melevisione forse rammenteranno!) e ho assistito a scene bellissime di bambini che leggevano seduti per terra, aspettando insieme ai genitori il loro turno per entrare al successivo evento. Ho visto quanto i tanto bistrattati libri abbiano ancora un fanclub affiatatissimo e appassionato, in costante crescita nonostante la triste situazione letteraria italiana, ma… io continuo a ribadire che c’è speranza: finché un bambino preferirà leggere un libro a giocare con la Play Station o un adulto sceglierà di leggere piuttosto che guardare la televisione, allora si potrà ancora sperare, no? Il terzo festival a cui ho preso parte, anche qui, solo per un giorno, quello di apertura, è stato il Next Wired Fest: tre giorni di eventi, incontri, workshop e dibattiti circa le nuove tecnologie e i nuovi approcci alle vecchie tecnologie che stanno rivoluzionando il modo di fare cultura (o intrattenimento, a seconda dei casi!) in questo Paese. Un programma interessantissimo in una location suggestiva come quella dei Giardini Indro Montanelli a Milano, che hanno raccolto tantissima gente, ma soprattutto, tantissime idee che potrebbero davvero fare la differenza. Insomma, si è aperta la stagione dei festival e non potrei esserne più felice: più prendo parte a eventi di questo genere più ne capisco la validità (quando organizzati in maniera decente, ovvio!) e l’importanza. Godetevi la bella stagione e se ne avrete l’opportunità, seguite il consiglio di partecipare a un festival: vi si aprirà un mondo, garantito! Chiara Colasanti
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Il Centenario del Coni con lo stemma tricolore Lo scudetto tricolore con bordo dorato e la scritta Italia, sopra i cinque cerchi olimpici. A fianco, la scritta Coni. È il nuovo logo del Comitato Olimpico Italiano recentemente presentato e fortemente voluto dal Presidente Giovanni Malagò. In quello che abbiamo vissuto c’è l’energia per inventare un nuovo domani - lo slogan scelto per il lancio. In questo logo - afferma il Presidente Malagò - c’è il rispetto della storia e della tradizione. Lo trovo bellissimo e sono convinto che con questo marchio ci toglieremo grandi soddisfazioni. Ci consentirà di trovare risorse aggiuntive. Sarà vincente anche nella promozione dei nostri prodotti. L’idea del Presidente del Comitato Olimpico è infatti quella di creare in futuro un vero e proprio merchandise. Il logo sostituisce quello del 2003 istituito dall’ex Presidente Gianni Petrucci. Noi -dice ancora Malagò- dobbiamo dare valore al mondo dello sport ed attraverso esso promuovere il nostro Paese. Il Coni è la casa di tutti, dobbiamo trasmettere positività. Il lavoro sul logo, svolto da Inarea Strategic Design ha voluto riportare al centro il valore della cultura italiana dello sport, l’orgoglio nazionale ed i suoi tratti segnici distintivi. Nel corso della presentazione al Foro Italico sono intervenuti i quattro Presidenti del Comitato Olimpico ancora in vita.
Presi la presidenza dopo Giulio Onesti - ricorda Franco Carraro. Successivamente è intervenuto Mario Pescante: Non dimenticherò mai le vittorie sportive di Lillehammer, in particolare quella della staffetta di fondo sui padroni di casa norvegesi, ed il privilegio che ho avuto a Sochi di premiare Armin Zoeggeler. Il ‘Cannibale’ dello slittino era presente alla manifestazione ed è salito sul palco con i quattro presidenti: Il logo è molto bello -le sue parole- i colori sono più forti e c’è la scritta Italia. Per Gianni Petrucci, il Presidente più longevo dopo Giulio Onesti, il ricordo più bello invece è rappresentato dal Giubileo degli sportivi allo Stadio Olimpico con Papa Giovanni Paolo II: Le 4 ore trascorse vicino a lui non le dimenticherò mai. Petrucci ha parlato anche del suo logo che: forse poteva non piacere ma ci fu corretto dal Cio perché riportava dei cerchi olimpici sopra lo stemma ed il Cio lo onsiderava un abuso. Nel corso della kermesse è stato presentato il programma per la festa dei 100 anni del Coni e la moneta celebrativa del Centenario. Ricco il Calendario delle iniziative anche a Terni, che vedrà nella giornata nazionale dello sport dell’8 Giugno la sua massima espressione. Tre i Comuni che hanno aderito: Terni, Narni e Giove dove si svolgeranno gare sportive con dei momenti di festa e riflessione. Un forte ringraziamento alle Amministrazioni ed alle società sportive, per l’impegno nel festeggiare tutti insieme i valori dello Stefano Lupi Delegato Coni di Terni sport e la storia del Coni.
Lo sport, il calcio e le carogne A Roma nella finale di coppa Italia del calcio tra il Napoli e la Fiorentina la partita, sotto forma di guerriglia, inizia molto prima del fischio d’inizio, nei dintorni dell’Olimpico. È l’ennesima volta. Botte da orbi, lanci di tutto, spari e feriti gravi tra gli ultras. Gli eventi sembrano finiti lì, fuori, e invece l’insulsa scena continua dentro lo stadio. La partita non dà segni di avvio, molti giocatori restano nello spogliatoio, persone addette alla sicurezza e dirigenti delle società che parlottano freneticamente, le curve sono agitatissime specie quella degli azzurri. Il capo di questi, com’è solito, è a cavalcioni sopra la recinzione. Urla e gesticola di là e di qua, indossa una maglietta nera con su scritto Speziale libero, ovvero fuori dalla galera chi uccise l’ispettore Raciti in una di queste simil guerre civili, tra ultrà e con i poliziotti. Il suo nome di battaglia è Genny ’a Carogna. Lo conoscono, è già noto…Le società di calcio, le forze dell’ordine, sanno chi sono i capi banda dei delinquenti di professione in ambito calcistico grazie a varie commistioni: dai biglietti ai viaggi in trasferta gratis, alle feste e cene dal gusto mafioso. Ma si guardano bene dal prevenire; il pallone nazionale pare che accechi quanti dovrebbero intervenire. Carognate e offese al pubblico dei normali. Insomma non si gioca se il capitano della squadra partenopea non va da Genny a trattare…Così gli spettatori presenti sugli spalti e quelli della TV assistono esterrefatti all’indecente, antisportiva e antitutto scena, che legittima ancora di più il potere organizzato dei violenti. Perché succede questo? Semplice, perché chi occupa posti di responsabilità ha paura di chi ha in mano la violenza facile, l’aggressione per ritorsione. È successo di recente che diversi giocatori sono stati aggrediti e derubati in casa propria e fuori. Molte cose in Italia sono sotto scacco di queste forme di ricatto sistematico, lo sono perché gli occupanti delle istituzioni (tolti pochi) sono corrotti e corruttori nel contempo. Lo sport è dominato e attraversato da fiumi di soldi inquinati, bilanci di società, di leghe e di federazioni (litiganti per
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proventi TV) altro che opachi, neri. Però parlano di attuare il fair play finanziario... Per non fiatare su quello che combinano gli arbitri, pro-potenti e quindi di ritorno a favore di se stessi, sebbene e spudoratamente tutti gli spettatori abbiano le prove TV. Giornalisti anche della carta stampata fanno da giullari a tale contesto. Mass media che cinicamente pubblicizzano i giochi d’azzardo, alcolici ed escort. Carognate. Così come i finti mercati dei campioni delle pedate e gomitate, milioni di euro che dribblano il fisco. Campioni superpagati tra cui spiccano esempi di scommettitori, evasori di tasse e di mogli e figli. Doping (e droghe varie) dal ciclismo di vertice agli amatoriali anche dell’Umbria. Da noi poi, le curve del calcio bruciano spesso il verde…speranza di far tornare le famiglie negli stadi. Per contagio perverso addirittura si litiga tra genitori (ternani) dei pulcini che sgambettano dietro al pallone. Ultrà organizzati che si rifanno a ideologie storicamente nefaste di destra e di sinistra, il razzismo e via di questo passo... fino ai fischi per l’inno Nazionale. Cinici capitalisti della nostra cara Europa invece di investire nel lavoro di base e sui giovani ricercatori sprecano denari in giocattoli detti sportivi, per il divertimento-catarsi di folle di patalocchi. Lasciano briciole per i ragazzini/e; se vogliono fare giocare il figlioletto le famiglie devono raschiare tra i cassetti. Briciole anche per gli sport cosiddetti minori (festeggiati solo se vincono qualche medaglia alle Olimpiadi). Il regime calcio e motori non fa una piega per essi. Sul territorio le società lottano tra loro per accaparrarsi genitori illusi e tesserare (vincolare) i figli per poi lucrare se vogliono cambiare maglia. Tutte carognate, alla pari di Genny. E la scuola fa ancora ore di ricreazione, invece di educare e orientare agli sport, lavandosi le mani a favore di spregiudicate società dell’agonismo precoce e dagli scarti altrettanto anticipati di giovani sfruttati e frustrati, che magari per rabbia diventano ultrà. L’impressione finale della partita è che dove ti giri in questo ambiente Aldo Zerbini vedi carogne e carognate.
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L o s p o r t n e l l a G re c i a a n t i c a
Lo sport per i Greci non era solo un divertimento, ma qualcosa di più profondo che si raccorda con quel complesso di valori fondamentali per la formazione fisica e spirituale dell’uomo greco che si riassume sotto il nome di Paidéia. Tutta la cultura greca tende all’ideale supremo della perfezione che riguarda sia il corpo che la mente, in breve mens sana in corpore sano, come sintetizza efficacemente un noto detto latino. La società greca era fondamentalmente maschile, quindi le competizioni sportive erano riservate agli uomini. La donna assisteva e poteva partecipare solo in spazi limitati e con programmi ridotti ad esempio nelle feste in onore di Dittera; maggiore spazio le era riservato a Sparta dove le donne si cimentavano anche in competizioni pesanti, ma questo non ci deve far pensare minimamente ad una eventuale parità di diritti, in quanto l’educazione spartana tendeva a trasformare la donna in un alter ego maschile, spegnendo in lei ogni femminilità. Comunque sia, le donne erano escluse dai Giochi Panellenici, così chiamati perché vi potevano partecipare tutti cittadini delle varie poleis di sesso maschile, greci o di padre greco. Il mondo ellenico non era unitario, ma frammentato in una miriade di città stato, le poleis, ognuna delle quali aveva le proprie leggi, istituzioni, ordinamenti e perfino un proprio dialetto, qualcosa di simile ai nostri comuni nel medioevo. Questi staterelli erano in perpetua lotta tra loro e i Greci furono i primi a capire il valore positivo dello sport come elemento aggregante e capace di spostare la rivalità dalla violenza dei campi di battaglia alla competizione atletica. Proprio per questo crearono i giochi panellenici in occasione dei quali venivano fatte delle tregue e alle gare si accompagnavano eventi di carattere poetico, musicale e teatrale, a voler sottolineare l’appartenenza ad una medesima cultura al di là delle rivalità politiche. I più noti in senso assoluto sono i Giochi Olimpici ad Olimpia in onore di Zeus e si svolgevano ogni quattro anni da 15 Luglio al 15 Agosto e che vennero adottati dai Greci come sistema cronologico comune. I Giochi Pitici a Defi in onore di Apollo, ogni quattro anni, accompagnati da gare poetiche e musicali. I Giochi Istmici a Corinto ogni due anni in onore di Poseidon, infine i Giochi Nemei a Nemea in onore di Zeus ogni due anni. Anche allora esistevano gli sponsor, personaggi politici o facoltosi mercanti che davano il loro contributo allo scopo di accrescere il proprio prestigio personale. I premi consistevano in corone di alloro o in targhe votive, gli atleti partecipavano ai giochi a proprie spese e non c’erano compensi in denaro…ma tutto questo in teoria in quanto i vincitori, tornati in patria, ricevevano ricchi doni, esenzioni tributarie, venivano mantenuti a spese pubbliche e alcuni di loro smettevano i panni dell’atleta e si dedicavano all’attività politica. A questo punto si rende necessaria una precisazione: non si deve incorrere nell’errore piuttosto frequente che tende a trasformare il mondo greco come un’oasi di perfezione in cui l’equilibrio, l’armonia regnavano sovrani, anzi abbiamo notizia di clamorose squalifiche, di trucchi, di meschini espedienti, di disordini tra tifosi i Verdi, gli Azzurri, i Rossi, a seconda della squadra, specie durante le gare ippiche. I Greci erano insomma uomini come noi, stessi pregi, stessi difetti, non dei santi incorniciati. Gli sport ufficiali erano sette (numero sacro di origine ancestrale): la corsa, il salto in lungo, il lancio del disco, il lancio del giavellotto, la lotta, il pugilato e il pancrazio. Le prime cinque specialità erano raggruppate in una gara chiamata Pentathlon in cui la vittoria veniva data all’atleta che si piazzava primo su tre gare. Non esistevano magliette, tute e scarpe firmate, lo sport era praticato nel nudismo completo escluse le gare ippiche; del resto la parola
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ginnastica deriva dal greco ghymnòs (nudo). Le donne e i bambini assistevano senza scandalizzarsi, il vietato ai minori nella Grecia antica non esisteva, era una società, una cultura con altri valori, con altri parametri rispetto alla nostra. Gli atleti era divisi come oggi in categorie: prsbyteroi (seniores) e neòteroi (juniores); anche i tifosi erano organizzati parteggiando in modo tumultuoso per i propri beniamini. Lo sport più prestigioso ed amato non era come oggi il calcio, bensì la corsa podistica praticata in una struttura rettilinea non ovale, come attualmente, chiamata stadion (unità di misura per le distanze, circa 6oo piedi). Esistevano vari tipi di gare quali il dyàulion (doppio stadio), l’ìppos (4 stadi), il dolichòs (24 stadi) e l’oplitòdromos (corsa in armi). Quanto ai tempi realizzati non abbiamo documentazioni; secondo gli studiosi non dovevano essere paragonabili a quelli di oggi per varie ragioni tecniche, quali il nudismo che doveva costituire un serio inconveniente per la corsa. Il salto in lungo era praticato usando una parte dello stadio; a differenza di oggi la rincorsa era più breve e lenta. L’atleta partiva dal bàter (pedana) tenendo in mano due altères (manubri di 15 kg.) cadendo sullo skàmma (arena). Non erano ammesse scivolate, si doveva cadere a piedi pari. Il lancio del disco, veniva effettuato su una base detta balbìs, non circolare, ma limitata sul davanti. Il disco fatto di bronzo o pietra pesava da 1 a 4 kg. Purtroppo non abbiamo notizie sulla lunghezza dei lanci. Il lancio del giavellotto, veniva effettuato nello stadio, prendendo una piccola rincorsa con una leggera flessione del corpo prima del lancio. Il giavellotto, di materiale molto leggero e privo di punta, veniva lanciato con una stringa di cuoio detta ankyìle avvolta intorno all’asse; anche qui non abbiamo dati precisi sui primati realizzati. La lotta veniva praticata in una struttura a parte detta palàistra da pàle (lotta), era la tradizionale lotta greco-romana. Si svolgeva in tre riprese, il ring era costituito da sabbia bagnata. Era ammesso lo sgambetto, ma non la presa alle gambe, almeno dalle poche testimonianze che abbiamo. Queste cinque specialità potevano essere raggruppate nel Pentathlon, gara di grandissimo prestigio. Chiudevano gli sport due specialità particolarmente violente e considerate di minor prestigio rispetto alle precedenti: il Pugilato e il Pancrazio. Quanto al primo, non c’erano ring né riprese, si combatteva fino al k.o. dell’avversario, i guantoni erano costituiti da strette fasciature fino all’avambraccio, erano ammessi colpi alla testa, con difesa alta e gioco di gambe. Il secondo, particolarmente brutale, era una combinazione di lotta e pugilato; erano ammessi tutti i colpi compreso morsi, calci, schiaffi e strangolamenti tranne ficcare le dita negli occhi dell’avversario. Queste erano le sette specialità dei giochi panellenici. Ad esse in un secondo momento si aggiunsero le corse di carri e cavalli praticate nell’ippòdromos, seguite con un tifo paragonabile a quello degli stadi moderni. I Greci, pur precorrendo i tempi, non mostrarono, a differenza dei moderni, interesse per alcuni sport come il pallone, il nuoto e l’alpinismo. Essi conoscevano il gioco della palla detta spheristèrion e ne praticavano vari tipi: aporràxis (palla al muro), phainìnda (palla rubata), arpastòn (sorta di hokey, usando un bastone ricurvo). Esso però era visto come divertimento o come preparazione atletica a specialità più prestigiose, non come atletismo vero e proprio. Bisognerà aspettare la fine dell’Ottocento perché il foot-ball di origine inglese conquistasse il primo posto nell’animo degli sportivi. Quanto al nuoto, i Greci, popolo di navigatori, lo recepirono più come un’abilità pratica che sport vero e proprio, anche se abbiamo notizie di regate e gare di nuoto in città marinare quali Corcira e Salamina. L’alpinismo non era affatto praticato soprattutto per motivi religiosi in quanto i monti superiori ai 2000 erano considerati dimora degli dèi (vedi Olimpo e Parnassòs); scalarli significava sfidare gli dei, compiere un atto di sacrilega empietà. Pierluigi Seri
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Siamo solo conviventi!
Nel nostro ordinamento la famiglia di fatto viene ricompresa nell’ambito di quelle “formazioni sociali”, tutelate dall’art. 2 della Costituzione e si affianca alla famiglia basata sul matrimonio con analoga legittimazione sociale, ma con minore tutela giuridica, anche se la medesima sta diventando, nel corso del tempo, sempre più ampia. Si pensi all’accesso alla procreazione medicalmente assistita, consentita anche alle coppie conviventi; al fatto che in un processo penale il convivente abbia diritto di astenersi dal testimoniare contro il compagno; alla possibilità di proporre istanza per la nomina dell’amministratore di sostegno del proprio partner; al fatto che, in caso di morte di quest’ultimo, il convivente possa subentrare nel contratto di locazione; al diritto, in caso di uccisione del convivente, al risarcimento del danno. Le erogazioni di mezzi economici effettuate da uno dei conviventi in favore dell’altro, pur non essendo un obbligo giuridico, come nel matrimonio, costituiscono obbligazioni naturali, ossia prestazioni effettuate in adempimento di un dovere morale o sociale. Costituisce peculiare effetto di tale tipo di obbligazione, la circostanza che in caso di cessazione della famiglia di fatto, né l’uno né l’altro dei conviventi possa domandare la restituzione di quanto spontaneamente dato, a meno che la prestazione non sia stata proporzionale rispetto all’esigenza da soddisfare, non sia stata eseguita spontaneamente o sia stata effettuata da un soggetto incapace. La recente sentenza n.1277 del 22-01-2014, conferma la irripetibilità dei versamenti di somme di denaro effettuati in favore del partner, nell’ottica di ribadire un vero e proprio dovere giuridico di assistenza, anche materiale, tra i conviventi in costanza di rapporto.
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Tale irripetibilità è esclusa qualora non sussista un rapporto di proporzionalità tra le somme date e i doveri morali e sociali assunti reciprocamente dai conviventi. Si pensi ad un muratore, convivente more uxorio (ossia secondo il costume matrimoniale), che aveva costruito un immobile a proprie spese e con la propria manodopera, sul fondo appartenente alla compagna, divenuta, pertanto, proprietaria del bene in virtù del principio dell’accessione, secondo il quale il proprietario del terreno è di diritto proprietario di ciò che viene costruito sopra o sotto il suolo. In questo caso la Suprema Corte (Sent. 3713/03) ha condannato la convivente al rimborso dei materiali e della manodopera in considerazione del fatto che la prestazione non si era esaurita nel procurare una abitazione dignitosa alla famiglia di fatto, ma aveva avuto come solo effetto l’arricchimento esclusivo della convivente; non si poteva pertanto parlare di adempimento di un dovere morale. Una menzione particolare meritano, nell’ambito della convivenza, i rapporti tra genitori e figli. Con il recente d. lgs. 154/2013 è stata portata a compimento la definitiva equiparazione tra figli legittimi (nati in costanza di matrimonio) e quelli naturali (nati fuori del matrimonio). La modifica legislativa ha cancellato dal linguaggio giuridico termini ritenuti obsoleti, eliminando la definizione di legittimo e naturale. Per quanto riguarda poi i rapporti tra la coppia di fatto e i figli, essi seguono la disciplina relativa ai rapporti genitori-figli, analogamente a quanto previsto tra i coniugi. Nel caso di rottura della convivenza, se non si riesce a raggiungere un accordo sulle questioni relative ai figli minori, ciascuno dei genitori naturali può rivolgersi al Tribunale Ordinario che dispone l’affidamento del minore, il diritto di visita, l’assegno di mantenimento e l’assegnazione della casa familiare analogamente a quanto accade per i coniugi in sede di separazione. Buona lettura del codice civile a tutti! Avv. Marta Pe trocchi legalepetrocchi@tiscali.it
Sulle orme di San Francesco dalle Marmore all’abbazia di San Pietro in Valle …Gli otto giorni di vagabondaggio in Umbria rappresentano il coronamento e il magnifico tramonto della mia gioventù. Ogni giorno nuove energie scorrevano in me nel contemplare il festoso paesaggio primaverile, pieno di luce. Era come guardare dritto nei benevolenti occhi di Dio… Hermann Hesse, In Umbria a Piedi
Il progetto di istituire il Cammino di Francesco con circa sette tappe e con partenza rispettivamente da Greccio a La Verna e con meta finale ad Assisi, ove il santo è sepolto, seguendo gli insegnamenti, i valori e l’esperienza del cammino Giacobeo, appariva già nel 2000 oltremodo attuale quando i frati del Sacro Convento, unitamente alla Regione Umbria incaricarono e approvarono un esemplare progetto degli architetti ternani Paolo Leonelli e Mario Struzzi, ma lo è ancora oggi in quanto tanto ancora occorre fare. La lampante dimostrazione del valore di questo viaggio, che coinvolge positivi rapporti con la natura e quelli dimenticati dello stare insieme e della condivisione è stato confermato dalla tappa fra la Cascata delle Marmore e l’Abbazia di San Pietro in Valle, percorsa, domenica 18 maggio da 150 pellegrini provenienti da Terni, Roma, Perugia, Orte e dall’Abruzzo. L’organizzazione è stata curata con efficacia dall’Associazione “La Bottega delle Idee”,”Francesco’s Way”, “Il Cammino di San Francesco” e dal CLT - Circolo Lavoratori di Terni.
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Il paradosso dei capelli neri I capelli colorati sono belli. I giovani, più sensibili alle mode, ci si sbizzarriscono talvolta con i colori e gli accoppiamenti più osé: gialli, verdi, blu. È il piacere del colore in un mondo, non per colpa loro, sempre più grigio. Per le signore di mezza età (evitando accuratamente di specificare quale sia, questa mezza età) il tingersi i capelli è uso antichissimo che, in un mondo sensibile alla bellezza e alla gioventù, ha avuto, come ha ancora, la funzione di procrastinare bellezza e gioventù in quell’età in cui queste iniziano ad essere insidiate dai segni del tempo. E qui già ci si avvicina al paradosso, come vedremo. Meno antico l’uso di tingersi da parte degli uomini, conseguenza anche del fatto che una volta nelle comunità i capelli bianchi erano segno di anzianità e quindi prestigio, oggi non più. Essere o almeno apparire giovani è la condizione per restare in sella e quello di concedersi i capelli bianchi è un lusso riservato a chi, pensionato, possidente o barbone, non debba chiedere nulla al mondo del lavoro. Inoltre l’accorciarsi della distanza sociale tra uomo e donna fa sì che molte cure un tempo esclusivamente femminili (monili, maquillage, depilazioni) si siano estese oggi ad un uomo sempre meno virile. Ma questo è un altro discorso. I vecchi... no, i vecchi no. La categoria dell’osceno, oggi espulsa, anche grazie al web, dal campo sessuale, torna, prepotentemente, a proposito della tintura dei capelli nelle persone molto anziane. A ottant’anni, avere i capelli nero corvino o biondo cenere è un’oscenità per il buon motivo che il resto del corpo ha assunto un aspetto del tutto incompatibile con capelli di qualsiasi altro colore che non sia il bianco o almeno il grigio; a meno di non ricorrere, come un noto politico, ad un trucco anche chirurgico generalizzato: ma allora l’aspetto anziché quello di un vecchio malamente ritinto diviene quello di un morto malamente truccato. Il paradosso nasce proprio dall’incongruenza tra cultura e tintura. Per secoli la donna ha avuto, almeno ufficialmente, solo funzioni di procreazione e di assistenza.
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Perciò, fino a tempi molto recenti, essa non s’è ingerita nella cosa pubblica, né ha avuto il diritto di voto: fatti bella e taci. Che le donne poi tra le mura domestiche tacessero davvero è tutt’altra faccenda, e Plutarco lo dice chiaro. Ma comunque il principio era: l’uomo è forte, saggio, pensatore, la donna è fragile, bella e madre. Che quindi a questa bellezza, per lei chiave della propria affermazione, la donna fosse aggrappata, servendosi di ogni espediente atto a valorizzarla e conservarla, era perfettamente logico e coerente. Ma il mondo odierno nell’introdurre la parità, ha completamente demolito questo modo di pensare. La donna oggi sta a fianco o spesso sopra l’uomo non se sia più bella, ma se sia più capace. Di questa nuova visione del mondo il femminismo ha fatto una battaglia strenua, talvolta violenta, mai interrotta e, cosa importante, vincente. Coerenza vorrebbe quindi che tutte le cure estetiche cui s’erano dedicate le donne nel vecchio ordine cessassero in quello nuovo, per il semplice fatto di avere esaurita la loro funzione. Ma non è affatto così: e nel momento stesso in cui la donna ci dice: Guarda il mio cervello, non il mio corpo, chirurghi, estetiste, cure costose quanto spesso inutili, e tra esse una tintura dei capelli variopinta fino all’indecenza, rilanciano proprio, in maniera estrema, quell’immagine esteriore che, in soggetti nella terza e quarta età, è incredibile e falsa su quei volti, quei portamenti, quei modi, naturalmente e giustamente -ma anche irrimediabilmente- senili, di muoversi. È questo il paradosso: quando la donna era accettata solo se bella e madre, poteva permettersi di essere anche nonna e mai le sarebbe saltato in testa, nella terza età, di avere capelli altro che naturali. Oggi che è accettata in base a criteri completamente diversi, si trova a inseguire, disperatamente e anche fuori tempo, una bellezza improbabile, se non addirittura inopportuna. O forse madre Natura ha anche lei, come madre Chiesa, valori non negoziabili? Vincenzo Policreti
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A Z I EN DA O S P EDA LI ERA
S . C . d i D ia b e t o l o g i a , Di e t o
Dott. Giuseppe Fatati Direttore Struttura Complessa di Diabetologia, Dietologia e Nutrizione Clinica A z ie n d a O s p e d a lie r a “S. Mar ia” di Te r ni
Diretta da Giuseppe Fatati, presidente della Fondazione ADI (Associazione Italiana di Dietetica e Nutrizione Clinica) e presidente dello IO-NET (Italian Obesity Network), la Struttura Complessa di Diabetologia, Dietologia e Nutrizione Clinica dell’Azienda Ospedaliera “S. Maria” di Terni è un importante punto di riferimento nazionale nel settore specifico, in particolare per quanto riguarda la nutrizione clinica e quella artificiale, la malattia diabetica e le malattie metaboliche a valenza nutrizionale, i disturbi del comportamento alimentare, la grande obesità e la metabolic surgery. Le prestazioni sono offerte in regime di degenza o in regime ambulatoriale. Oltre al diabete, all’obesità e ai disturbi del comportamento alimentare, tra le principali linee di sviluppo e di impegno della struttura rientrano anche la promozione della buona nutrizione ospedaliera. Obiettivo condiviso è assicurare che i pazienti che ne necessitano ricevano interventi nutrizionali adeguati, tempestivi, efficaci, efficienti e sicuri. La nutrizione artificiale (NA) è una procedura terapeutica destinata alle persone in cui l’alimentazione orale non è praticabile e/o è non sufficiente a soddisfare i fabbisogni calorico proteici o è controindicata. Si definisce nutrizione enterale (NE) la modalità che permette di veicolare i nutrienti nel tubo digerente (stomaco, duodeno o digiuno) mediante sonde, mentre nutrizione parenterale (NP) la modalità di somministrazione dei nutrienti attraverso la via venosa (in vena periferica o in vena centrale). La nutrizione artificiale è centralizzata nella struttura e assicura un approccio terapeutico globale e il massimo livello di integrazione tra le diverse professionalità aziendali. Solo nell’anno 2013 sono state praticate 7.691 giornate di nutrizione parenterale e 5732 giornate di nutrizione enterale. Le patologie croniche non comunicabili rappresentano una delle sfide più difficili per tutti i sistemi sanitari, sia nei Paesi industrializzati sia in quelli in via di sviluppo, a causa della loro continua e inesorabile crescita. L’esempio più paradigmatico è rappresentato senz’altro dal diabete mellito: si stima che il numero di persone affette nel mondo crescerà da 171 milioni nel 2000 a 366 milioni nel 2030. In Italia, in base ai dati ISTAT, la prevalenza del diabete, riferita all’anno 2010 e stimata su tutta la popolazione, è pari al 4,9%. La prevalenza sale a circa il 13% nella fascia di età fra i 65 e i 74 anni, mentre oltre i 75 anni una persona su 5 ne è affetta (prevalenza del 19.8%). Alla base di una crescita così marcata dei casi di diabete possono essere identificati due motivi principali: l’invecchiamento della popolazione ed il progressivo aumento dell’obesità. Come già sottolineato, la prevalenza del diabete aumenta sensibilmente dopo i 65 anni: due terzi dei casi si trovano infatti in questa fascia di età. Sulla base dei dati ISTAT, la popolazione degli ultrasessantacinquenni è cresciuta di quasi due milioni negli ultimi 10 anni (da poco più di 10 a oltre 12 milioni) e potrebbe addirittura raddoppiare entro il 2050, raggiungendo i 20 milioni.
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Come conseguenza, assisteremo nei prossimi anni ad una progressiva crescita di tutte le condizioni croniche tipiche della terza età, prima fra tutte il diabete. Presso il servizio sono seguiti oltre 6.000 diabetici provenienti anche dalle regioni limitrofe. Oltre alla attività assistenziale non può essere sottovalutata la ricerca scientifica che vede questo centro punto di riferimento costante per i protocolli sperimentali di nuovi farmaci. Il dottor Giuseppe Fatati, inoltre, è coordinatore nazionale del gruppo di studio interassociativo ADI-AMD-SID Nutrizione e Diabete, che ha prodotto le Raccomandazioni 2013-2014 e il protocollo di ricerca “The effects of insulin and diabetic blood meal on female Anopheles gambiae” che ha recentemente vinto il premio nazionale intitolato al prof. Flaminio Fidanza. Dati dell’Organizzazione Mondiale della Sanità sottolineano che l’86% delle morti e il 75% della spesa sanitaria in Europa e in Italia sono determinate da patologie croniche, che hanno come minimo comune denominatore 4 principali fattori di rischio: fumo, abuso di alcol, scorretta alimentazione
S A N TA M A R I A D I T E R N I
o lo g i a e N utrizione Clin ic a
psichiatrici che, dopo accurata selezione, valutano il tipo di intervento più idoneo per lo specifico paziente, individueranno i casi complessi ai quali dedicare percorsi particolari e verificano l’andamento tramite follow-up. Il C.M.O. segue soprattutto grandi obesi, che possono trovare giovamento dal trattamento chirurgico. Inoltre, dal 2001 la struttura coordina la giornata nazionale denominata Obesity Day organizzata dall’Associazione Italiana di Dietetica e Nutrizione Clinica (A.D.I.), con l’intenzione di spostare ed orientare in modo corretto l’attenzione dei mass-media, dell’opinione pubblica e anche di chi opera in sanità, da una visione estetica dell’obesità ad una salutistica. A questa giornata aderiscono oltre 150 Servizi di Dietetica e Nutrizione Clinica in tutta Italia.
e inattività fisica. Queste ultime due condizioni sono alla base dell’allarmante e continuo aumento della prevalenza di sovrappeso e di obesità nelle popolazioni occidentali e in quelle in via di sviluppo, che ha raggiunto le proporzioni di un’inarrestabile epidemia. In Europa il sovrappeso e l’obesità sono responsabili dell’80% circa dei casi di diabete tipo 2, del 55% dei casi di ipertensione arteriosa e del 35 % di casi di cardiopatia ischemica; tutto ciò si traduce in 1 milione di morti l’anno e 12 milioni di malati all’anno.
Équipe S.C. di Diabetologia, Dietologia e Nutrizione Clinica Direttore Dott. Giuseppe Fatati Medici Specialisti Strutturati Eva Mirri, Mariangela Palazzi Medici Specialisti Borsisti Ilenia Grandone Podologo Borsista Marco Federici Dietisti Meri Chiarini (coordinatrice), Maria Angela Bonanno, Lorena Caporali, Luisa Paolini (dietista volontaria) Infermieri Rosalba Bravini, Carmelina De Rosa, Pina Menicocci, Maria Rosaria Niola Operatore socio sanitario Rita Petrini
Fotoservizio di Alberto Mirimao
L’obesità è una patologia cronica ad eziopatogenesi complessa, che insorge a causa di molteplici e correlati fattori, per la quale attualmente non esiste una strategia monodirezionale efficace, specialmente nel lungo termine. Considerando la grande obesità una patologia multifattoriale, per il suo trattamento è necessario avere a disposizione un approccio multidisciplinare ed un centro dedicato. Per questo all’interno della struttura è nato il Centro Multidisciplinare per lo studio e la terapia dell’Obesità (C.M.O.) che prevede un intervento integrato di una équipe medica composta da dietologi medici, dietisti, chirurghi, anestesisti, gastroenterologi, pneumologi, psicologi e
Nel 2013 il dottor Giuseppe Fatati ha coordinato il V Meeting internazionale Nu.Me. (Nutrition & Metabolism), svoltosi a Terni nel mese di aprile, al quale hanno aderito delegati di nove nazioni: Italia, Polonia, Danimarca, Belgio, Spagna, Bielorussia, Albania, Serbia e Perù. Durante il meeting, dedicato agli aggiornamenti in tema di diabete, obesità e nutrizione, è stato eseguito in diretta dal Caos di Terni un particolareintervento di sleeve gastrectomy laparoscopico o tubulizzazione gastrica laparoscopica, una procedura chirurgica metabolica, che già dal 2012 viene praticata nel C.M.O. di Terni con ottimi risultati, che è indicata in soggetti obesi e diabetici ed è finalizzata non soltanto alla riduzione del peso corporeo, ma alla risoluzione della stessa patologia diabetica. I Disturbi del Comportamento Alimentare (DCA) costituiscono oggi un problema di salute complesso la cui incidenza va aumentando di pari passo con le modifiche delle caratteristiche psicopatologiche degli individui nella società di oggi. Così, accanto ai quadri classici rappresentati dall’Anoressia Mentale (il rifiuto del cibo per la paura fobica di diventare grassi anche se si è in realtà si è sempre più sottopeso...) e dalla Bulimia Nervosa (spesso anche associata in alternanza all’anoressia e caratterizzata dal consumo incontrollato di grandi quantità di cibo nell’arco della giornata con comportamenti compensativi come il vomito o un esercizio fisico eccessivo per la preoccupazione estrema del peso e delle forme corporee), sempre più frequentemente giungono all’osservazione degli specialisti quadri clinici che fino a qualche anno fa erano del tutto assenti o molto rari quali i DCA maschili, la Bigoressia (l’ossessiva preoccupazione per la massa e tonicità muscolare, anche a discapito della propria salute), la Ortoressia (l’ossessione maniacale di seguire un’alimentazione che consenta di mantenere o migliorare la propria salute, che purifichi e conduca a uno stato di perfezione salutista), i disturbi infantili, spesso assai difficili da trattare. In questo ambito i sanitari del Servizio hanno partecipato alla stesura delle Linee Guida Regionali; l’obiettivo da raggiungere nel progetto del Piano regionale della Prevenzione 2010-2012 è “L’identificazione precoce nei soggetti affetti da DCA e appropriatezza dell’intervento: il modello umbro”.
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L’esperienza del suono, vissuto reale tra musica e frequenze Il vento, che passa sopra un campo di grano, genera un’onda che si sparge lungo tutto l’intero campo. Qui dobbiamo distinguere ancora fra il movimento dell’onda ed il movimento delle singole piante, che subiscono soltanto le piccole oscillazioni. Le particelle che costituiscono il mezzo realizzano soltanto piccole vibrazioni, ma l’intero movimento è quello di un’onda progressiva. La cosa essenzialmente nuova qui è quella che per la prima volta consideriamo il movimento di qualcosa che non sia materia, ma di energia propagata attraverso la materia. Albert Einstein - Leopold Infeld What is a wave? The Evolution of Physics
La musica è composta di suoni, ogni suono ha una propria frequenza e, a veder bene, ad ogni frequenza si associano vibrazioni e quindi trasferimento di energia. Il suono quindi è un fenomeno strettamente legato alla materia e ben lungi dall’essere una cosa eterea, impalpabile e priva di effetti concreti. Il fenomeno percettivo del suono nell’uomo si manifesta attraverso il senso dell’udito. L’onda di natura meccanica, ovvero energia trasportata attraverso un mezzo fisico (l’aria) viene trasformata in impulso elettrico dall’orecchio e arriva al nostro cervello generando in noi una risposta. In un istante di tempo rapidissimo, infinitesimo, elaboriamo la percezione e manifestiamo una reazione attraverso il rilascio di sostanze chimiche che generano in noi stati emozionali generalmente collegati ai nostri ricordi, all’insieme delle nostre esperienze di vita. La risposta che otteniamo dopo una elaborazione nel tempo comporta delle modifiche al nostro modo di rapportarci con noi stessi e con il mondo. Il suono quindi induce dei cambiamenti, è un dato di fatto che in determinati momenti della nostra vita ascoltiamo selettivamente alcuni generi musicali e spesso ripetutamente solo pochi brani.
Come anche ascoltiamo le musiche che più ci danno benessere e ci ristorano dallo stress e dalle fatiche psicologiche tipiche del mondo moderno. Esiste quindi senza dubbio un legame profondo tra suono e il sistema mente-corpo-spirito. Il suono è veicolo di informazioni e l’uomo nella sua complessità fisica, emotiva e mentale si può paragonare ad una antenna che riceve ed emette informazioni Il corpo umano è vivo attraverso le bio-correnti del sistema nervoso ma anche ad esempio dalle differenze di potenziale indotte dal passaggio di ioni attraverso la membrana cellulare. La semplice pressione per contatto genera spostamento di cariche e correnti di natura piezoelettrica. La vita appare tale solo se esistono dei processi che implicano l’esistenza di energia bio-elettrica, e quindi anche di campi bio-magnetici. Ogni passaggio di energia elettrica genera un campo magnetico che ha determinate caratteristiche fisiche tra cui la frequenza, da qui si nota la profonda relazione che mente ed emozioni hanno con il suono. Il riequilibrio energetico del nostro campo bio-magnetico puo quindi essere stimolato attraverso il suono e l’auto-osservazione durante l’ascolto. Ogni stato fisico ed emotivo corrisponde ad un insieme ben definito di frequenze e l’utilizzo consapevole del suono e più in generale della musica è sicuramente un valido strumento per rigenerarsi. Ecco perchè abbiamo deciso di inserire come attività all’interno dell’università Homo & Natura anche l’esperienza del “bagno di suoni” o più tecnicamente “elementi del suono”, in modo da far capire, percepire e vivere a tutti, studenti e privati (esperienza individuale) quello che fino ad oggi restava nel mondo della sensazione, traslandolo su un piano scientifico. Ing. Edoardo Romani Unipophn – cell 340.9764687
Consigli nutrizionali nella cura e nella profilassi delle colecistopatie La dieta nelle colecistopatie può assumere adattamenti qualitativi e quantitativi in rapporto alla natura della colecistopatia per la quale si può distinguere: - dieta della colecistopatia per primitiva alterazione epatica con secondaria sofferenza della colecisti; - dieta delle colecisti infettive; - dieta delle colecistopatie secondarie a malattie intestinali (enteriti croniche); - dieta nella litiasi biliare. Valgono per tutti i casi le seguenti norme generali di igiene alimentare: rigoroso orario dei pasti, adattamenti generali per la protezione dell’apparato gastro-intestinale ed epatico. Sotto l’aspetto qualitativo possono valere le indicazioni classiche che suddividono gli alimenti in permessi, da usare con moderazione e proibiti. Alimenti permessi: permessi riso, pasta, semolino, brodo e passate di legumi, brodo e passate di verdura. Carni magre lessate o ai ferri, manzo, pollo, coniglio, prosciutto magro. Pesce magro lessato o arrostito. Pane arrostito, grissini, biscotti. Latte scremato, siero di latte, yogurt, formaggi poco grassi, (mozzarella, provolone, Bel Paese...). Legumi secchi e verdi cotti in acqua, patate, carciofi, cipolle, asparagi, barbabietole, carote. Frutta fresca matura, cruda o cotta. Marmellate di frutta, gelatine di frutta.
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Alimenti da usare con moderazione: moderazione brodo di carne leggero sgrassato, carne magra di maiale. Bianco d’uovo, latte intero, formaggi freschi grassi (caciotta, robiola...). Pomodori maturi, cavolfiore, cavolo, limone. Olio d’oliva crudo, burro crudo. Banane, castagne. Thè leggero, vino bianco leggero. Si condisca sempre moderatamente: poco olio o burro, succo di pomodoro fresco, succo di limone, poco sale. Alimenti proibiti: proibiti brodo di carne grasso, grassi animali cotti, carni grasse (oca, agnello, maiale grasso), selvaggina. Carni insaccate, trippa, interiora, animelle, cervello, rene. Pesci grassi (salmone, anguilla...), caviale, frutti di mare, crostacei, zuppa di pesce. Formaggi fermentati (gorgonzola...), piccanti (pecorino...) e molto grassi (mascarpone), panna, uova. Pane fresco, mollica di pane. Pomodori acidi, piselli, legumi e verdure crude, funghi, tartufi, ravanelli. Olio e burro cotti, fritture, salse grasse, sughi, maionese, spezie, aceto, sottaceti, olive. Frutta poco matura: frutta secca e oleosa (noccioline, mandorle, noci), datteri. Miele, marmellata di arance, pasticceria, cioccolato, cacao, gelateria. Vini forti, vini rossi, spumanti, liquori, birra, amari, aperitivi, bibite ghiacciate. Caffè forte, thè forte. Lorena Falci Bianconi
Fisioterapia e Riabilitazione
NUOVA SEDE Zona Fiori, 1 05100 Terni – Tel. 0744 421523 0744 401882 D i r. S a n . D r. M i c h e l e A . M a r t e l l a - A u t . R e g . U m b r i a D D 7 3 4 8 d e l 1 2 / 1 0 / 2 0 11
La riabilitazione in acqua è una metodica sicuramente molto utile per garantire un moderno e valido recupero funzionale sia in campo neurologico che ortopedico
Uniche infatti sono le possibilità offerte dallo “strumento acqua”, che agisce contro la forza di gravità (principio di
Archimede), e consente al corpo di muoversi in assenza di peso: questo determina una maggiore facilità a muoversi quando per esiti traumatici, per deficit neurologici o dopo chirurgia ortopedica sarebbe impossibile o dannoso caricare il peso reale sui propri arti. Il risultato è una diminuzione dello stress e del carico sull’apparato muscolo scheletrico che facilita l’esecuzione di movimenti in assenza di dolore. La resistenza offerta dall’acqua è graduale, non traumatica, distribuita su tutta la superficie sottoposta a movimento, proporzionale alla velocità di spinta e quindi rapportata alle capacità individuali di ogni persona. L’effetto pressorio dell’acqua, che aumenta con la profondità, esercita un benefico effetto compressivo centripeto sul sistema vascolare, normalizzando la funzione circolatoria e riducendo eventuali edemi distali. Tale effetto è ampliato nel Percorso Vascolare Kneipp dove si alterna ciclicamente il cammino in acqua calda e fredda.
Con la riabilitazione in acqua è possibile non solo ristabilire le migliori funzionalità articolari e muscolari dopo un incidente, ma anche eseguire delle forme di esercizio specifiche per prevenire la malattia o per curare sintomatologie croniche come la lombalgia. Tali esercitazioni sono particolarmente indicate per quei soggetti in forte sovrappeso con difficoltà di movimento legate ad obesità, ad artriti, a recenti fratture o distorsioni. Nella maggior parte di questi casi si registra un netto miglioramento del tono muscolare e dei movimenti articolari dopo un adeguato programma terapeutico. Il paziente, se anziano, acquisisce in tal modo un maggiore controllo motorio che, migliorando l’equilibrio, allontana il rischio di cadute e rallenta il declino funzionale legato all’invecchiamento. La riabilitazione in acqua è particolarmente indicata in: - esiti di fratture - distorsioni, lussazioni - patologie alla cuffia dei rotatori della spalla - artrosi dell’anca e delle ginocchia - tonificazione muscolare in preparazione all’intervento chirurgico - mal di schiena (lombalgia, sciatalgia, ernia ecc.) - para paresi spastiche - esiti di interventi neurochirurgici - esiti di ictus - esiti di lesione midollare - disturbi della circolazione venosa
Inoltre la temperatura dell’acqua, più elevata (32° - 33°) rispetto alle vasche non terapeutiche, permette la riduzione dello spasmo muscolare e induce al rilassamento. Per questo il paziente si muove meglio e la muscolatura appare più elastica. La riabilitazione in acqua è utile e proponibile a tutti, dai bambini agli anziani; per potervi accedere non occorre essere esperti nuotatori è sufficiente un minimo di acquaticità.
Terni Zona Fiori, 1 Tel. 0744 421523 401882
- Riabilitazione in acqua - Rieducazione ortopedica - Riabilitazione neurologica - Rieducazione Posturale Globale - Onde d’urto focalizzate ecoguidate - Pompa diamagnetica - Tecarterapia
- Visite specialistiche - Analisi del passo e della postura - Elettromiografia - EEG - Ecografia apparato locomotore - Idoneità sportiva ... e molto altro
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Il prezzo della libertà Al termine di una giornata inutile, il buio calò come un sipario sulla quiete del villaggio, e nascose in pochi istanti uomini e cose. I deboli fuochi proiettavano all’esterno un chiarore flebile, rubato a una notte priva di luna. In una delle capanne, sparse senz’ordine sul fianco della collina, Juanita serviva ai suoi platano e igname, come ogni sera. Fin da bambina, dopo la morte della madre, la sua vita era trascorsa nella ripetitività dei gesti domestici, scandita da ritmi senza tempo, invariabili nelle giornate tutte uguali dell’equatore. Eppure, la ragazza coltivava le fantasie adolescenziali di ogni giovane, sebbene frustrate da attese interminabili e da speranze sistematicamente deluse. Le rare auto che percorrevano la strada sterrata, minacciata dall’avanzare delle erbe del bosco, laggiù oltre il recinto incerto del villaggio, passavano trascinando i sogni di Juanita: viaggi immaginari e luoghi sconosciuti, inseguiti con l’ingenuità dei suoi anni. Trascorreva ore ed ore in attesa del passaggio di qualche mezzo. In particolare, era attratta da una jeep telonata del Ministero della Salute che, fumante e lamentevole, percorreva ogni sabato mattina il sentiero. Per superare senza danni i dossi marcati dall’attraversamento delle radici di un ceiba, l’autista era obbligato a rallentare, fin quasi a fermarsi, proprio di fronte all’ingresso del villaggio. Pensare di salirci, non vista, era diventata per lei una piacevole ossessione. E quello avrebbe potuto essere il momento più opportuno per farlo. L’idea di fuga verso l’ignoto aveva iniziato a frullarle nella mente con martellante insistenza da un paio d’anni e s’era via via maturata nella monotonia della sua vita vuota. Finché un giorno decise di mettersi ai bordi della strada in paziente attesa dell’auto, riparandosi con una foglia di banano dalla pioggia che cadeva insistente. Il ticchettio delle gocce sulla copertura improvvisata marcava momenti di frenesia mista all’angoscia del nuovo. Dopo qualche minuto, la jeep sbucò lenta dalla curva e rallentò ancora per superare i cordoli. Juanita s’accodò e saltò dentro con l’agilità di una gazzella. Sulle panche di legno che correvano lungo le fiancate, sedevano già tre donne per lato. Nessuna s’allarmò per l’intrusione, anzi l’ignorarono, restando con le teste chine che sollevavano solo per tossire. La pioggia aumentò d’intensità, fino ad inondare la strada d’argilla rossa, cosparsa di buche. Il conducente, incerto sulla profondità delle pozzanghere, avanzava a passo d’uomo, costringendo i passeggeri a contorsioni impossibili. All’altezza di Bahao Grande si fermò. Scese per darsi il cambio concordato con il collega, in attesa al riparo di una tettoia quasi totalmente divelta del Puesto de Salud consegnato all’abbraccio di piante infestanti. Affidò alcuni fogli al nuovo autista, ma non riuscì a evitare che uno cadesse, bagnandosi parzialmente. Il viaggio riprese fra i beccheggi di una nave in balia delle onde per altre due lunghe ore, interrompendosi davanti ad un cancello, ai lati del quale due guardie armate sorvegliavano l’ingresso. Dopo un rapido scambio di parole, il mezzo entrò e si diresse verso un edificio tetro, dall’intonaco cadente e macchiato di umidità. Qui scesero tutte le donne. Ad attenderle c’era un addetto che, senza avvicinarsi, le indirizzò in malo modo verso un capannone al centro di uno spazio recintato da una spessa rete metallica arrugginita. Al tepore di un sole pallido, apparso dopo l’interruzione della pioggia, un centinaio di persone vagava all’aperto senza meta, controllato da altri militari. Neppure la scritta sul fianco dell’edificio, “Sanatorio”, corrosa dagli
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arabeschi della muffa, fece nascere in Juanita sospetti su dove fosse finita. Troppo grande era la gioia della fuga. S’inginocchiò di fronte ad una ragazza seduta in terra. Poteva avere la sua stessa età, il viso scavato e minuto. Se ne stava con la schiena appoggiata al muro e la testa sulle ginocchia, un fazzoletto in mano, sporco di sangue. “Che posto è questo?”, le chiese. “Davvero non lo sai? Cos’è, mi prendi in giro? Qui raccolgono i malati di tubercolosi di tutta l’isola di Bioko”, rispose la ragazza. “Ma io non sono malata. Sto qui per caso -riprese Juanita, quasi a giustificarsi- E quando si esce?”, aggiunse preoccupata. “Mai. I malati di tubercolosi da qui escono solo avvolti in un lenzuolo, ma se è vero quello che dici, prova a raccontarlo a Melena, è lei che comanda il reparto. Ma non farti illusioni”, sentenziò tossendo la ragazza. Juanita s’avvicinò alla porta sudicia di manate sulla quale spiccava un cartello con su scritto “Oficina Medical”. Bussò e un mezzo rantolo l’invitò ad entrare. Nella stanzetta spoglia, che quanto ad igiene non si distingueva dalla porta, troneggiava un donnone sbracato su una poltrona in finta pelle, lacerata in più punti. “Che vuoi?”, esordì con sgarbo. “Mi chiamo Juanita Bikele e vivo a Baresò. Oggi sono salita di nascosto sulla jeep che mi ha portata fin qui. Volevo andare a Malabo, non finire in un sanatorio. Io sto bene, non sono malata. Vorrei uscire”, concluse d’un fiato. “Eccone un’altra con le fregole di libertà. E lascia perdere le bugie puerili. Qui non si entra per caso, come mi vuoi far credere. Il tuo nome sta nella lista d’ingresso”, rispose Melena scocciata. “Impossibile…”, l’interruppe Juanita. “Impossibile eh? -riprese con aria di sfida il donnone- Vuoi che te la legga?”, l’aggredì, cominciando a sfogliare un pacchetto di note dal tavolo traballante. “Quando sei entrata?”. “Oggi”, rispose sicura. “Ecco qui”, riprese la custode, stirando con il dorso della mano un foglio. “Dov’è il mio nome?”, intervenne Juanita, certa della prova. “Non si legge bene….-ammise per un istante Melena -ci sono cadute delle gocce, d’acqua, ma lo ricalco io. “Ma io non centro niente con quella lista. Lasciami andare. Dì alle guardie di aprirmi il cancello”, la supplicò. “Io non mi gioco il posto per lasciare in giro una malata di tubercolosi e infettare mezza città. Se non sei malata, lo diventerai”, concluse la donna, liquidandola con un urlo. Juanita si sentì gelare, tornò dalla ragazza e le raccontò il colloquio. Lo fece piangendo, spaventata dalle conseguenze, senza ricevere un commento, nella più totale indifferenza. Ma non si arrese; non era il tipo. Progettò di uscire dal recinto durante la notte. Osservò bene la possibile via di fuga, laggiù oltre il poggetto, una volta scavalcato il muro e la rete metallica che lo sovrastava. Sentiva che poteva farcela, aveva forza da vendere, Juanita. E neppure la sorveglianza dei guardiani sarebbe stata un problema; sapeva come muoversi senza far rumore. Nel silenzio della notte, dunque, abbandonò la sua branda e scese nel cortile. Le nuvole sparse concedevano brevi squarci di luce lunare; momenti che Juanita sfruttò abilmente per salire sul muro e oltrepassare la rete. Saltò verso la libertà, correndo come un impala giù per il pendio, verso il canneto, oltre il quale s’intravedevano i bagliori della città. Inciampò sul terreno scosceso ed un sasso grande quanto una noce di cocco rotolò precedendola e sfiorò la garitta del guardiano. Svegliato dal rumore, l’uomo uscì fuori. L’individuò e le intimò l’alt. Juanita si fermò, cercando di nascondersi dietro il fusto esile d’una papaia, che non impedì al guardiano la vista. L’uomo le ordinò di alzare le mani. La ragazza fuggì verso un’altra direzione, ma il proiettile la raggiunse dritto alla schiena. Il giorno dopo, Juanita lasciò il reparto avvolta in un lenzuolo sul quale, fissato con un nastro adesivo, c’era un biglietto firmato da Melena: Juanita Bikele, tubercolosi. Franco Lelli
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Europa fonte di confronto musicale Ci si è interrogati spesso sul fatto che la musica cosiddetta classica abbia radici europee, se non addirittura italiane. In anni lontani molti Paesi europei hanno cercato di appropriarsi della primogenitura della musica, ma il nazionalismo, che muoveva tali ipotesi, mi sembra decisamente fuori dal nostro tempo. Almeno questa è la mia speranza. Sono convinto che l’ottica troppo parziale generi una prospettiva innaturale, forzata. Non si può guardare soltanto al proprio microcosmo e pretendere rispetto e considerazione dagli altri. Al tempo stesso pensare che gli altri siano perfetti, modelli da imitare pedissequamente, e che noi siamo il peggio, credo che sia un vizio italico, che alla fine è parente stretto della autoesaltazione. La strada maestra, secondo me, è quella di sviluppare un equilibrio fra l’attenzione a se stesso e la condivisione. In realtà non esiste nulla che sia immune da influssi esterni. Qualsiasi tipo di musica è il frutto di innumerevoli radici diverse. Interessante può essere il lavoro di ricerca delle radici, delle fonti, delle componenti generatrici, ma ancora più importante credo sia il risultato, la nuova creazione. La circolazione sempre maggiore di musica, di cultura negli ultimi decenni sta avvicinando tutti. L’interesse per le altre musiche, le altre culture ha generato spesso capolavori. In campo musicale, abbiamo visto come grandi compositori si siano appassionati a melodie o ritmi popolari in tutte le epoche e le abbiano spesso rielaborate, a volte consapevolmente, anche evidenziandone la radice,
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a volte inconsciamente, quando addirittura tali radici si intrecciano e si confondono inestricabilmente con il dna musicale dell’autore. Voglio citare soltanto come esempio le canzoni scozzesi o irlandesi trascritte e fatte pubblicare con questo titolo da Beethoven, accanto ai numerosi momenti della sua altissima musica in cui traspaiono stilemi, andamenti di quelle terre. Una Europa che apprezza, valorizza le diversità non può esistere senza la conoscenza delle stesse. I contatti che gli studenti musicisti, al pari di tutti gli altri, hanno con i colleghi delle analoghe strutture europee consentono di fare anche questo. Con la musica, come in tutti i campi, abbiamo la possibilità di confrontarci con gli altri europei, e non solo. Se lo facciamo sistematicamente, saremo tutti più europei e più italiani, più cittadini del mondo e più ternani. La mia speranza è che tutti comprendiamo di lavorare e vivere in un unico mondo, dove l’interesse personale è in realtà identico a quello collettivo. Anche la musica, ovviamente, dovrebbe essere vissuta non solo come ricerca individuale, come troppo spesso accade, ma come ricerca collettiva. Si comprende quindi l’importanza del far musica insieme, a livello professionale, amatoriale, con gruppi misti, di fruire della musica nelle sue infinite occasioni. Facciamo crescere i talenti musicali che ognuno di noi ha con l’aiuto degli altri e non riserviamo questa opportunità ai soli musicisti. Angelo Pepicelli
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Le tradizioni contadine perdute Una volta esisteva una simpatica tradizione religiosa di chiara origine contadina, che è durata almeno fino agli anni cinquanta o sessanta del mille e novecento e forse in qualche paese persiste ancora. Nei giorni precedenti il ventiquattro giugno, festa di San Giovanni, si raccoglievano gli abbondanti fiori del periodo, specialmente quelli di ginestra, petali di rose, anche quelle selvatiche, lilium, qualche violetta e gelsomino ritardatario, trovato negli angoli del bosco più freddi ed esposti a nord, l’erba spiga, in altre parole la lavanda, i fiori dell’erba di San Giovanni (salvia sclarèa) che profumavano di moscato e si mescolavano con le altre verdure odorose come timo ed erba della Madonna1. Ricordate quelle foglie, lanceolate e profumate, che una volta erano messe a seccare tra le pagine di un libro e che servivano anche da segna-libro? Quelle erano dette l’erba della Madonna. Le donne più previdenti iniziavano tale raccolta a marzo con le primule e tutti i fiori primaverili, da quelli sgargianti dell’albero di Giuda2, a quelli giallo brillante del corniolo. Si mettevano poi a essiccare al sole e il giorno del loro utilizzo si mescolavano con quelli freschi appena colti. Si prendeva poi la classica bagnarola zincata, si riempiva di acqua e si metteva al sole di giugno per farla scaldare. Quando era diventata ben calda, tutti i fiori raccolti si mettevano a mollo e col calore aumentava d’intensità il profluvio delle essenze.
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Allora i bambini più piccoli, già mezzi ignudi per il caldo, erano immersi nell’acqua infiorata. Era un bagno diverso, detto di San Giovanni, che era accolto dai più piccoli con gridolini entusiasti (anche perché in questo caso non si usava il sapone!) e mentre guazzavano nell’acqua, la mamma raccoglieva manciate di fiori odorosi, li avvicinava al loro nasino, poi li passava delicatamente sulla loro pelle. Usciti i bimbi dall’acqua toccava agli adulti bagnarsi le mani e il viso con l’acqua profumata. Si diceva che tutto ciò era fatto per devozione. Devozione per che cosa non è dato sapere. Forse, chissà, ci si riferiva a San Giovanni che battezzava nell’acqua e con l’acqua del fiume Giordano. Vi t t o r i o G re c h i 1 Chrysanthemum balsamita, pianta perenne delle Composite, a fiori gialli, con foglie odorose e vellutate, mangerecce, dalle quali si estrae un’essenza. 2 In dialetto della Valnerina la mollania, cioè il siliquastro (Cercis siliquastrum). Spesso era necessario trasportare acqua per uso alimentare o agricolo, tramite bigonc. Allora si faceva un cercine (corona), intrecciando rami e foglie di questa pianta, incastrandolo poi sulla sommità di ogni bigoncio. In questo modo si cercava di frenare le onde provocate dai piccoli sobbalzi del carro o dell’animale da soma, impedendo così all’acqua di fuoriuscire.
Meglio cibi di stagione Con questo breve articolo vogliamo sottolineare l'importanza dell'intestino e della dieta nel determinare una condizione di salute stabile. Questa condizione è legata prima di tutto al buon transito del materiale di scarto e al mantenimento dell'equilibrio della flora batterica intestinale. Molto si parla di questo ma poco si fa e poca attenzione ci si pone. Prima di tutto va detto che l'intestino deve essere liberato ogni giorno e che l'accumulo di materiale di scarto e il suo ristagno sono condizioni predisponenti per uno squilibrio della flora in esso presente. Inoltre va detto che una dieta ricca di carne favorisce la putrefazione intestinale ad opera di batteri che colonizzano in quantità il tratto intestinale e creano i presupposti per un ambiente prevalentemente acido: condizione questa di base per un tumore. Al contrario l'assunzione di vegetali, ortaggi, frutta, cereali e fibre favoriscono l'impianto di germi fermentativi che promuovono un ambiente basico. Bisogna sapere infatti che il pH (acido/base) è determinante nel favorire lo sviluppo di malattie croniche degenerative tipo SLA, sclerosi multipla, Alzheimer, Parkinson e cancro. Ciò non vuol dire che bisogna diventare necessariamente vegetariani ma di certo che la quota di carne deve essere di
molto ridotta. Recenti studi di microscopia in campo oscuro hanno messo in evidenza batteri, virus e funghi nel sangue che hanno assunto una forma diversa e che non vengono più riconosciuti dal sistema immunitario e dagli antibiotici ma che continuando a vivere producono tossine che si impiantano a vari livelli creando i presupposti per le patologie croniche di cui sopra. Ebbene alla base di ciò sta l'integrità della mucosa intestinale che come tale non lascia passare tali microrganismi mentre invece se è infiammata diventa più facilmente permeabile. Talora una banale virosi intestinale può essere elemento scatenante di un tale evento. In conclusione, se mettiamo il nostro corpo nella condizione di condurre un buon dialogo con i cibi che devono essere a tendenza basica e scelti fra quelli che la stagione mette a disposizione e che possibilmente rispettano il concetto di Km 0, le possibilità di ammalare si riducono di molto e soprattutto nei confronti delle malattie croniche. Un consiglio utile in ogni caso è quello di usare giornalmente spezie (oli essenziali) che hanno la funzione di ridurre la carica batterica patogena che si ritrova normalmente nell'intestino e che rendono più digeribile e assimilabile il cibo stesso. Dr. Leonardo Paoluzzi Medico chirurgo - Esperto in agopuntura e fitoterapia
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Filosofia mon amour In una società dove sempre più spesso il profitto è l’unico perché, quale il ruolo della filosofia? La risposta è inevitabilmente personale, essendo Talete del tutto inutile per chi, in base alle proprie priorità, decide di vivere ignorando, e così solo sopravvive, non meno che imprescindibile per chi sceglie di vivere conoscendo, e così ancora sopravvive, ma alla triste condizione di non avere cognizione di sé e del mondo piuttosto che alla fame. Ma se i tre anni che l’istruzione pubblica concede allo studio dell’amore per il sapere non si dimostrano sufficienti per amare l’amore stesso, quale migliore rimedio di una scuola popolare di filosofia? Aggiungendo l’aggettivo gratuita, ecco la migliore definizione del corso Filosofia mon amour, che per cinque martedì nei mesi di maggio e di giugno nei locali dell’associazione La Pagina ha visto un significativo numero di persone ascoltare le lezioni del professor Ricci su alcuni dei processi politici più ingiusti ed allo stesso tempo storicamente più rilevanti che vi sono stati in ogni era, coprendo un arco temporale che va dal IV secolo aC all’età contemporanea. Nomi più o meno conosciuti, sono state affrontate le vicende giudiziarie di Socrate, di Giordano Bruno, di Nelson Mandela, di Alfred Dreyfus e di Sacco e Vanzetti, e sorprendente è stato osservare quanto esse si somiglino nonostante i disparati contesti che le hanno viste consumarsi. Diversi i persecutori, a colpire è stato innanzitutto il ripresentarsi delle medesime modalità utilizzate per costruire l’accusa, che sempre ha potuto contare sulla falsa testimonianza di individui comprati dagli inquirenti con la promessa di sconti di pena ed altri simili mezzi, allo scopo di spingere le proprie vittime a confessare o rinnegare anche crimini non commessi per evitare la pena di morte, e così ottenere il pubblico consenso per il proprio iniquo operato. Se questa è stata una costante soprattutto dell’epopea di Bruno, l’accanimento dell’autorità statale o religiosa si è rivelato immancabile e proporzionato alla crisi dell’istituzione coinvolta, basti pensare all’egemonia spartana iniziata nel 404 aC, allo scisma interno alla cristianità dovuto alla Riforma protestante nel ‘500, alla sempre più forte opposizione al regime di segregazione razziale che v’era nel Sudafrica di metà ‘900 o alla competizione per la supremazia fra le correnti politiche francesi della III repubblica. In ogni caso è risultato evidente che si fosse alla ricerca di un prestesto per condannare non un crimine commesso dagli imputati, ma solo le loro idee, considerate pericolose per i propri risvolti sociali o politici, e che si mirasse ad istigare i più bassi istinti della popolazione, come l’odio xenofobo ora
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per uno sporco negro, adesso per un maledetto ebreo, infine per un sospetto alsaziano. Grazie ai secoli o ai decenni che ci separano da tali vicende, abbiamo constatato che mai hanno portato a qualcosa di diverso dalla loro condanna da parte della storia, che infatti ci vede chiamare martiri e vittime coloro che già erano stati tacciati come delinquenti della peggior fatta. Quasi avvincente per il proprio risvolto tragico, l’analisi del comportamento di costoro nei procedimenti giudiziari ci ha dato la conferma che non esistono eroi privi di paura od esitazione, e che al contrario è stata la grande umanità da loro dimostrata a renderli fulgidi esempi di lotta contro l’ingiustizia. I continui ripensamenti di Bruno dettati dalla prospettiva della morte, la drammaticità della coraggiosa scelta di Mandela e di Socrate di rendere interamente politici i propri processi rinunciando però ad una seria difesa ed il forte grido di denuncia e di dolore levato da Dreyfus, da Sacco e Vanzetti e dai loro difensori, sono stati per noi rivelatori dell’interno travaglio che li ha portati a reagire in tali modi ad un destino tanto avverso, che di certo non avrebbe suscitato timore solo in uno sciocco non consapevole della grandezza del proprio gesto. A dimostrazione della loro utilità storica oltre che morale, sempre abbiamo rilevato le conseguenze di questi sei sacrifici, tali ad esempio che attualmente si vede in Socrate quasi una figura messianica, in Mandela uno dei più grandi uomini dei tempi moderni e nel caso Dreyfus uno dei passi che hanno portato all’affermazione dello stato laico e della separazione fra potere giudiziario e militare in Francia. Né il differente esito dei processi, conclusisi nel peggiore dei casi con la condanna a morte, nel migliore con quella al carcere a vita, è stato mai indice di una maggiore clemenza del persecutore: il magistrato che evitò la pena capitale a Madiba ed ai suoi compagni ben aveva presente le ripercussioni che essa avrebbe comportato per il Sudafrica, mentre il tenente alsaziano venne salvato da una legge che impediva misure più gravi dell’ergastolo anche per i colpevoli di alto tradimento. Sono tutte queste delle conoscenze che consentono di essere consapevoli del percorso che ha portato all’acquisizione dei diritti oggi riconosciuti almeno nella nostra repubblica e di capire quali siano stati i maggiori ostacoli per il loro ottenimento così da riconoscerli qualora si ripresentassero, ed è per questo che Filosofia mon amour è stato un grande successo in termini di interesse dei partecipanti e della loro costanza nel partecipare ai cinque incontri in cui si è svolto, esito che ci consente di invitare i lettori del mensile La Pagina a partecipare numerosi alle prossime iniziative che la vedranno collaborare con il professor Ricci, in un sodalizio di cultura e divulgazione che dura ormai da anni. Francesco Neri
Liceo Ginnasio “G.C. Tacito” IV C
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M itico e mitologico: pe rsonagg i e s t o r i e
ARIANNA Ti fu madre una leonessa sotto una rupe deserta, ti concepì il mare e ti sputò tra schiume di onde una Sirti, una Scilla, un’atroce Cariddi! grida Arianna rivolta al vuoto, sulla spiaggia di un’isola deserta. Voi che punite, colpite le azioni di un uomo, voi Eumenidi, avventatevi qui, da me, da questa infelice! E come biasimare la nostra povera Arianna, lì sola davanti al mare, se maledice il suo stesso uomo, Teseo, l’uomo che aveva amato sopra ogni cosa, se lo insulta, se lo definisce figlio dei peggiori mostri marini, se grida vendetta davanti agli dèi? Arianna, infatti, era una principessa di Creta, figlia di Minosse e Pasifae. Sorella, insomma, del celebre Minotauro. Questi era un mostro per metà uomo e per metà toro: imprigionato dal padre (o meglio dal patrigno, dato che in realtà questo essere era nato dall’unione di Pasifae con un toro) nel Labirinto, il palazzo dalla pianta tanto complessa da essere incomprensibile, si nutriva esclusivamente di giovani che Atene, allora sottomessa a Creta, era tenuta ad inviare periodicamente. Fu così che Teseo, principe ateniese, decise di salire sulla nave delle future vittime e porre fine a questo scempio. Arrivato a destinazione con l’intenzione di uccidere il Minotauro, fu visto dalla giovane Arianna che, innamoratasene, decise di aiutarlo: attendendo l’amato appena fuori dal Labirinto con
in mano un’estremità del famoso “filo di Arianna”, gli permise di uccidere il fratellastro ed uscire senza problemi dall’edificio riavvolgendo il gomitolo che aveva con sé. Fuori c’era lei, festante, pronta a lasciare tutto, la casa, la famiglia, gli amici, il ridente futuro che, in quanto principessa di un’isola felice, le spettava. Salparono insieme alla volta di Atene; ma in realtà, nella nave si nascondeva Fedra, sorella minore dell’ignara Arianna, anch’ella innamorata di Teseo. Questi, poi, l’avrebbe preferita alla sua salvatrice, portandola in patria come sua sposa. Ed Arianna? Piantata in Nasso o, come si dice ora per una brutta storpiatura, “in Asso”! Nessuna donna mai si fidi dell’uomo che giura, non speri mai sincere parole da un uomo. Quando il cuore gli batte violento di desiderio non teme di giurare e fa generose promesse, ma come la passione si sazia nel cuore voglioso non teme quanto ha detto, non pensa che cosa ha giurato grida allora la nostra infelice eroina, quando scopre di essere stata abbandonata su questa proverbiale isola di Nasso. In piedi, nell’acqua, mezza svestita e con i capelli al vento, sperando di vedere la nave da cui era scesa senza la minima preoccupazione e che ora era partita per sempre, senza di lei. Poeti, scrittori, musicisti e pittori hanno immaginato le sue tragiche parole lì, su quella spiaggia, mentre invocava vendetta e morte, per sé e per il suo amante, o mentre, semplicemente, getta fuori il suo inesprimibile dolore. Da Ovidio a Strauss, da Catullo a Monteverdi. Per arrivare tutti alla medesima conclusione: alla fine arriva Dioniso, dio dell’ebbrezza, con il suo rumoroso corteo di ninfe e satiri ubriachi, che, innamoratosi della nostra Arianna piangente, la porta via e la sposa. E da qui nessuno osa più menzionare il suo antico, terribile dolore: quasi che lo abbia annegato nel vino. Maria Vittoria Petrioli
Una soffitta sull’Universo Caspita! Ma hanno tutte tempi così lunghi? No, le possiamo distinguere in quelle di lungo periodo e di corto periodo. Le comete di lungo periodo, migliaia di anni come appunto la Hale-Boop o la Hyakutake, molto probabilmente arrivano da una zona chiamata “nube di Oort”, nel Sistema Solare esterno (oltre Plutone quindi) e mai osservata per via della sua distanza e la sua oscurità. Sarebbe una specie di “riserva” di comete poiché a grande distanza le radiazioni solari sono troppo deboli. Questo fu ipotizzato dall’olandese Jan Oort per dare una spiegazione ad una apparente contraddizione: dopo numerosi passaggi nel Sistema Solare interno, le comete vengono periodicamente distrutte; quindi, se si fossero originate tutte all’inizio del Sistema, oggi non ce ne sarebbero più. Da qui la necessità di dimostrarne una diversa provenienza. E quelle più frequenti invece? Le comete di corto periodo, come quella di Halley o di Encke (che è la cometa con il periodo più corto che si conosce, poco più di 3 anni) si pensa abbiano origine dalla “fascia di Kuiper” che si estende oltre l’orbita di Nettuno: anche il pianeta nano Plutone e il suo satellite ne fanno parte. Ma qual è la fine di una cometa, Overlook? Diciamo che la “morte” di una cometa può avvenire in diversi modi: più bruscamente possono cadere nel Sole o entrare in collisione con un pianeta, ma dati i loro costanti passaggi vicino al Sole, possono spogliarsi dei loro materiali volatili fino a che la coda non si può più formare e rimane così solo la parte rocciosa: se non è abbastanza legata svanirà in polveri, altrimenti andrà ad aumentare la già numerosa famiglia degli asteroidi. Dato che domani è il 10 agosto, San Lorenzo, cosa ci puoi dire sulle famose “Lacrime di San Lorenzo”? Ecco da chi ha preso la sua curiosità Leonardo: dal suo papà! Domani è proprio San Lorenzo, ma in realtà il picco massimo delle Perseidi si è spostato nel corso degli anni di un paio di giorni, quindi il 12 ma… ora si è fatto tardi e di questo ne parleremo domani, nel giorno giusto! Quella sera andarono a dormire tutti pensando al giorno successivo… Overlook li aveva lasciati sulle spine proprio con un argomento molto interessante, ma anche per questo piaceva a tutta la famiglia; quel piccolo telescopio era riuscito a risvegliare in loro una curiosità per l’astronomia come non l’avevano mai avuta, senza contare il fatto che si erano spiegati molti dei fenomeni che accadono nel nostro universo. Margherita faticò più di tutti ad addormentarsi quella notte: aveva in mente una sorpresa per Leonardo, voleva fare qualcosa per lui, come il figlio aveva fatto per lei e Giovanni. Si alzò con la scusa di un bicchiere d’acqua e piano piano tornò sul terrazzino della soffitta dove Overlook, ancora ben sveglio, stava facendo le sue osservazioni e con lui si accordò per l’indomani. Michela Pasqualetti mikypas78@virgilio.it
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Le crociate del XXI secolo Eccoli là: lo sguardo attento, l’espressione tesa. Schierati ordinatamente sul campo di battaglia in file di banchi paralleli. Le loro armi? Una bic blu, una matita ed una gomma. Sono i soldati della nostra epoca: gli studenti. Combattono tutti contro un nemico comune: non importa che frequentino la scuola media, le superiori o che stiano per entrare all’università, sono tutti arruolati nella medesima guerra, una vera e propria “crociata”… a suon di crocette. È ormai palese infatti che i test a crocette, dai quesiti a risposta multipla ai vero o falso, dalle prove Invalsi al test di ingresso alle facoltà universitarie a numero chiuso, stanno invadendo l’Istruzione italiana. Che si voglia verificare la capacità logica di un alunno, mettere alla prova la sua attenzione ai dettagli più insidiosi di un argomento o saggiare le sue competenze per giudicare se sia idoneo o meno per frequentare un ateneo, ormai la soluzione che negli ultimi anni sembra essere diventata la prediletta da molti è sempre lui: un bel questionario a risposte chiuse. Le ragioni che giustificano questa scelta sono molteplici e senz’altro più che valide: esso costituisce un criterio oggettivo di valutazione, è veloce, pratico, affina le abilità degli studenti… e poi il sistema scolastico americano si basa principalmente su test di questo tipo, perché mai dovrebbe essere sbagliato o ingiusto, se la grande America, così efficiente e ben funzionante, ne fa un uso così largo? E perché non dovrebbe semplificare le cose anche agli italiani? E allora, non indugiamo oltre, imbarchiamoci tutti in questa crociata. Perché è necessario, perché è opportuno controllare il livello culturale degli studenti mediante le prove Invalsi, per migliorare il sistema. Perché non ci sono i fondi per offrire a tutti un posto all’università, allora ci vuole un criterio di selezione imparziale. Per un miliardo di giustificazioni di questo tipo che suonano tanto come il “perché Dio lo vuole” dei soldati medievali diretti in Terra Santa. E gli studenti dicono no, non ci stanno. Protestano, si ribellano. A volte in modo utile e costruttivo, altre invece in maniera più sterile, ma tutti con la medesima opinione alla base: non è giusto uccidere migliaia di persone in nome di una divinità pacifica e amorevole.
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Non è giusto sbarrare il futuro di un’intera generazione a colpi di vero-falso. Con un sistema in cui una crocetta può davvero compromettere i loro progetti, i loro sogni. È vero, non ci sono solo le proteste sensate. Molte sono anche inutili: ad esempio, quelle degli studenti del secondo e quarto anno di scuola superiore che devono affrontare le prove Invalsi al solo scopo di una pura indagine statistica per verificare le loro capacità e che, scontenti di essere sottoposti a tali questionari, li boicottano dando risposte a caso, in alcuni casi ironiche, in altri addirittura strafottenti. È vero infatti che le Invalsi creano mille problematiche, a cominciare dai costi che comporta la loro organizzazione, ma fare la figura di una generazione ignorante e menefreghista attraverso risposte di questo tipo, è davvero la soluzione? Non sarebbe meglio, forse, far lo sforzo di combattere questa battaglia, anche se ingiusta, visto che non comporta nessuno svantaggio per loro, e magari dimostrare con la cultura e la preparazione a chi le ha indette l’insensatezza che attribuiscono alle prove? Si renderebbero conto che veramente stanno limitando un sapere dal grande potenziale a quattro segnetti su un pezzo di carta. Un sapere usato come un’arma che sarebbe invincibile. Però ci sono anche studenti che seriamente vedono cambiare la loro vita per un paio di croci ad un test d’ingresso all’università. E loro sì, che fanno bene a ribellarsi. Perché sono combattenti imbarcati su una nave che veleggia verso una Terra Santa che non hanno scelto, perché non credono davvero che questa guerra sia giusta e santa. Come può essere oggettivo un criterio dove migliaia di persone che non rispettano le regole del gioco, cercano aiuti o spintarelle, vanno avanti? Come è possibile valutare davvero la passione e la determinazione che ognuno di loro mette nell’inseguire il proprio sogno mediante delle crocette? E soprattutto, chi ha il diritto di infrangere un sogno? Nessuno. E questi soldati lo sanno. Ma per adesso, a parte ribellarsi in attesa che qualcuno dall’alto lo capisca, non possono fare nulla. Continuano a veleggiare verso Gerusalemme, un futuro per loro incerto. Imbracciano le penne e combattono la loro “crociata di crocette”. Camilla Bernardinangeli Ma continuano a sperare.
DISCIPLINA PER LA PRESENTAZIONE DI RICHIESTE DI CONTRIBUTI PER L’ANNO 2014
La Fondazione Cassa di Risparmio di Terni e Narni, persona giuridica privata senza fini di lucro e dotata di piena autonomia statutaria e gestionale, persegue esclusivamente scopi di utilità e di promozione dello sviluppo economico (Statuto, artt. 1 e 2) indirizzando i suoi interventi in alcuni settori previsti dalla normativa vigente. Per il 2014 il Comitato di indirizzo della Fondazione ha individuato nel Documento Programmatico Previsionale annuale i settori rilevanti e quelli ammessi verso i quali orientare l’attività istituzionale. La Fondazione svolge la sua attività istituzionale nei comuni previsti dal vigente Statuto (www. fondazionecarit.it) attraverso: a) la realizzazione di progetti propri; b) l’erogazione di contributi indirizzati a progetti predisposti da terzi nei settori indicati nel richiamato DPP dalla Fondazione e destinati a produrre risultati socialmente rilevanti in un arco temporale determinato. Ciò posto, la Fondazione Cassa di Risparmio di Terni e Narni, emana il presente avviso per raccogliere e regolamentare richieste di contributi per le iniziative di cui alla precedente lettera b), da realizzare nell’ambito dei settori di seguito specificati. Settori previsti nel DPP 2014: 1. Ricerca scientifica e tecnologica 2. Arte, attività e beni culturali 3. Salute pubblica, medicina preventiva e riabilitativa 4. Educazione, istruzione e formazione, incluso l’acquisto di prodotti editoriali per la scuola 5. Volontariato, filantropia e beneficenza 6. Sviluppo locale. 1)
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1° giugno 2014 al 31 agosto 2014 saranno esaminate entro il 31 dicembre 2014. Le richieste dovranno essere indirizzate, a mezzo lettera raccomandata A.R., alla Fondazione Cassa di Risparmio di Terni e Narni, Corso C. Tacito, 49 - 05100 Terni, o raccomandata a mano che potrà essere consegnata presso gli uffici della Fondazione, rigorosamente in busta chiusa, dal lunedì al venerdì dalle ore 11,30 alle ore 13,00. Il richiedente dovrà presentare la documentazione richiesta dalla Fondazione. Per la presentazione delle richieste, la modulistica è disponibile e scaricabile dal sito internet della Fondazione www.fondazionecarit.it. Tutti i dati forniti saranno trattati nel rispetto delle previsioni del D.Lgs. 196/2003 per le sole finalità legali ed amministrative della Fondazione. SONO ESCLUSE LE RICHIESTE relative a progetti proposti da organizzazioni di volontariato che possono beneficiare di erogazioni da parte del CE.S.VOL; relative a erogazioni generiche e/o a copertura di disavanzi economici e/o finanziari pregressi. ESAME DELLE RICHIESTE La Fondazione potrà discrezionalmente: 1. accogliere integralmente o parzialmente la richiesta di contributo; 2. definire le modalità e la cadenza di erogazione del contributo concesso; 3. riservarsi il diritto di accesso nei luoghi ove si realizza il progetto o si svolge l’attività e la facoltà di controllare in loco lo stato di avanzamento dei lavori. OBBLIGO DELLA RENDICONTAZIONE L’erogazione delle risorse deliberate per l’intervento è effettuata sulla base della presentazione di quanto di seguito indicato: originale, o copia conforme all’originale, dei giustificativi delle spese sostenute per la realizzazione dei progetti. Le stesse dovranno essere elencate in apposita distinta. I pagamenti eseguiti dal beneficiario delle erogazioni ai fornitori o prestatori di servizi potranno essere considerati validamente nel rendiconto soltanto se comprovati da documentazione fiscalmente regolare ed effettuati con bonifici bancari; relazione finale contenente informazioni esaurienti in merito alla realizzazione del progetto ed allo specifico utilizzo del contributo della Fondazione Cassa di Risparmio di Terni e Narni; rassegna stampa relativa al progetto; documentazione fotografica relativa al progetto. REVOCA DELLE EROGAZIONI La Fondazione potrà revocare l’assegnazione qualora: a) siano accertati i motivi che inducano a ritenere non possibile la realizzazione o la continuazione del progetto o del sostegno; b) sia accertato, all’esito della verifica della rendicontazione, l’uso non corretto dei fondi erogati; in questo caso la Fondazione potrà in qualsiasi momento disporre l’interruzione della contribuzione e richiedere la restituzione delle somme già eventualmente versate; c) il soggetto beneficiario non abbia dato seguito ai contenuti del progetto proposto ovvero alle eventuali indicazioni della Fondazione per la sua realizzazione; d) il soggetto beneficiario non abbia concertato con la Fondazione le attività di comunicazione relative al progetto; e) sia accertata l’esistenza di ulteriori contributi di altri Enti non precedentemente dichiarati. IL PRESIDENTE (Mario Fornaci)
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Primo Piano LE MERAVIGLIE
Alice Rohrwacher
Certe volte lo si capisce subito. Bastano poche immagini, un certo modo di muovere la macchina da presa, o di svelare i personaggi. È solo un istante, forse poco più, ma ti basta per capire che il film che stai guardando (bello o brutto che sarà) viene dal cuore. L'opera seconda di Alice Rohrwacher, fresca di Grand Prix a Cannes, è uno di quei film. Si apre come una favola, con una luce intermittente che si sposta nel nero dello schermo come una fatina di Peter Pan. Poi un'altra luce la rincorre, e danzano insieme. Fino a mostrarsi, da vicino, come fari di automobili, che si fermano in mezzo ad un campo sconfinato. Escono i cacciatori, e illuminano con i fari un casale che è proprio davanti a loro, e di cui fino a quel momento ignoravano l'esistenza. I loro fari si spostano fra le finestre della casa. E all'interno, con queste luci che appaiono e scompaiono, che svelano e poi coprono di nuovo, due bambine dormono nel loro letto. E la giornata sta per cominciare. Quella descritta dalla Rohrwacher è una famiglia strana: un padre tedesco, una madre italiana, quattro figlie femmine di diversa età e personalità. Si parlano tante lingue, tanti dialetti, tanti idiomi, e ne esce un parlato lunatico, spesso incerto, ma genuino. Proprio come il miele che la famiglia produce, e che finisce col ricevere le attenzioni di tutti: dal padre lavoratore instancabile, un animo duro ma scalfibile, alla madre devota e paziente compagna, fino alle figlie, dalle piccole (sempre in coppia) alla più grande, Gelsomina. È lei la protagonista di questa storia, suo è lo sguardo, suo è il modo di guardare il mondo. Quello di una bambina che comincia a farsi donna, che ha visto con fin troppa rapidità svanire i giochi e i divertimenti dell'infanzia, che comincia a vedere il futuro scritto davanti a sé.
Ma forse non c'è fretta di crescere: e un concorso, "il paese delle Meraviglie", lanciato da una TV locale per bocca di una fata dai capelli turchini, riuscirà a portare qualcosa di nuovo negli equilibri della casa. Le parole, di sicuro. Ma anche, inaspettato e dolce, l'amore. Alice Rohrwacher è una voce matura. Sa muoversi con rispetto e distacco fra i suoi luoghi, lascia che siano gli attori, prima di ogni altro, a ricevere le attenzioni. La sua è una regia che guarda, che scruta, che sta nell'angolo in attesa di cogliere il vero. E l'impressione, per tutta la durata del film, è che non ci sia finzione in nessun passaggio, nessun filtro a separare la vita vera dallo schermo. Questo rispettoso distacco non le impedisce però di ricercare, proprio come la sua giovane protagonista, l'incanto che si nasconde sotto al quotidiano, la poesia e la grazia che solo ai bambini è dato di vedere. È un miracolo che accade raramente nel cinema di oggi, sempre più alla ricerca della perfezione estetica, della bellezza fine a se stessa, mai delle emozioni. Accadeva con Fellini, accadeva con Truffaut. Uomini e artisti che si sono rifiutati di crescere e diventare adulti, che hanno continuato per tutta la loro carriera a guardare il mondo con lo stesso sguardo incantato e sognante, sempre carico di curiosità e sbalordimento. E accade oggi con questa giovane regista che ha il mondo davanti, ma che riesce ancora ad innamorarsi di una luce nel buio, di una fatina che si muove con un microfono fra le pareti colorate di una grotta, o di un cammello che gira in tondo legato ad una vecchia giostra. Le auguriamo di conservarlo, questo sguardo. Perchè sarà l'unico modo per non invecchiare mai. E noi con lei. Lorenzo Tardella Per altre recensioni visitate il blog www.ilkubrickiano.wordpress.com
La bbuca ggiudizziosa No’ mm’aricordo lu mese e lu ggiornu ma erono le ddue de ‘n pomeriggiu de lu ddumìlatredici… quanno stevo a ccammina’ co’ ‘n amicu su ‘na strada vicinu a ccasa mia. A ‘n certu puntu issu me tt’acchiappàtu pe’ n bracciu… Fermete… sta ‘ttentu!... No’ stassi a gguarda’ le starne… non vidi se cche bbuca che cce sta?... Che tte pozzi guastatte… se nn’era pe’ tte ce zzombàvo ggiù ddentro!... Ce semo ‘ffacciati pianu pianu e… Sarà fonna ‘na metrata… mesà che ffacéo ‘n bellu bbottu!... Mo’ tòcca chiama’ li responzabbili… Scì… va a ‘cchiappa’ chi è statu?... Ma che stai a ddi’?... ‘Ntenno quilli che tt’atturono ‘lla bbuca ‘n quattro e qquattr’otto!... ‘Emo saputu che l’evono ggià chiamati lu ggiornu prima e cche j’hanno dittu che vvinivono subbitu lu ggiornu doppo. ‘Nfatti eccoteli doppo ‘n bo’ in dùi… t’hanno ‘ncuminciatu a
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bbussa’ su ttutti li tumbini llì vvicinu e ppo’ hanno messu ‘n cavallittu davanti a ‘lla bbuca e sse ne so’ nnati dicènno che no’ ‘spettava a issi da riparàlla… Te l’éo dittu che li responzabbili non s’artrovono?... Ma sta zzittu che pporti jella!... Doppo quarche mmese so’ vvinuti quill’andri… stavòrda ‘n quattro… t’hanno fattu ‘n bo’ de ggiri ‘ttornu a ‘lla bbuca… so’ ‘nnati a ffa’ merenna llì lu negoziu de fronte e ppo’ stavòrda… de cavallitti ce n’hanno missi ddùi e ‘n cartellu de lavori ‘n corsu. Riepilogànno… fino a mmo’… che ssemo a mmaggiu de lu ddumìlaquattordici… l’unicu che ss’è vvistu a llavora’ ‘ttornu a la bbuca è qquillu purittàcciu che sta disegnatu su lu cartellu. Pe’ ffurtuna ‘lla bbuca è pprividènte… se sta ‘tturànno da sola... e cco’ ‘n bo’ de robbaccia je stamo a dda’ ‘na mano pure noi... ccucì quanno fra ppocu festeggia li ddu’ anni… je potemo fa’ l’agùri pe’ la fine paolo.casali48@alice.it de li lavori!
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