Biennale Arte 2024 - Stranieri Ovunque - Catalogo italiano

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Mostra

2024 Foreigners Everywhere

Stranieri Ovunque

Biennale Arte



La Biennale di Venezia Presidente

Pietrangelo Buttafuoco Consiglio di Amministrazione Vice Presidente

Luigi Brugnaro Tamara Gregoretti Luca Zaia

Collegio dei Revisori dei Conti Presidente

Pasqualino Castaldi Ines Gandini Angelo Napolitano Direttore Generale

Andrea Del Mercato Direttore Artistico del Settore Arti Visive

Adriano Pedrosa


60. Esposizione Internazionale d’Arte Struttura Organizzativa

Servizi Centrali

Direttore Generale Andrea Del Mercato

Affari Legali e Istituzionali, Risorse Umane e Vicariato (Deputy)

Curatore della 60. Esposizione Internazionale d’Arte Adriano Pedrosa Organizzazione Artistica Amanda Carneiro Sofia Gotti Design di Mostra Juliana Ziebell De Oliveira Identità Grafica Paula Tinoco

Direttore Debora Rossi Affari Legali e Istituzionali Martina Ballarin Francesca Oddi Francesca Padovan Lucrezia Stocco Risorse Umane Graziano Carrer Luca Carta Giovanni Drudi Antonella Sfriso Alessia Viviani Rossella Zulian

Amministrazione, Finanza, Controllo di Gestione e Sponsorship, Promozione Pubblico Direttore Valentina Borsato Amministrazione, Finanza, Controllo di Gestione Bruna Gabbiato Elia Canal Marco Caruso Giada Doria Martina Fiori Francesca Gallo Elisa Meggiato Irene Scarpa Sefora Tarì Sara Vianello Sponsorship Caterina De Marco Paola Pavan

Promozione Pubblico Carlotta Carminati Caterina Castellani Serena Cutrone Lucia De Manincor Elisabetta Fiorese Stefania Guglielmo Laura Gravina Emanuela Padoan Marta Plevani Marianna Sartore

Segreterie

Segreteria Generale Chiara Arisi Caterina Boniollo Maria Cristina Cinti Elisabetta Mistri Cerimoniale Francesca Boglietti Lara De Bellis Marta Isman

Segreteria Biennale College Claudia Capodiferro Giacinta Maria Dalla Pietà Servizio Acquisti, Appalti e Amministrazione Patrimonio Direttore Fabio Pacifico Ufficio Acquisti e Appalti Silvia Gatto Marta Artuso Silvia Bruni Angelica Ciabocchi Eleonora Cialini Ufficio Ospitalità Linda Baldan Jasna Zoranovic Donato Zotta

Amministrazione Maurizio Celoni Antonio Fantinelli Ufficio Stampa Istituzionale e Cinema Responsabile Paolo Lughi Cesare Bisantis Francesca Buccaro Michela Lazzarin

Ufficio Attività Editoriali e Web Responsabile Flavia Fossa Margutti Giovanni Alberti Roberta Fontanin Ornella Mogno Nicola Monaco Maddalena Pietragnoli Cristiana Scavone Servizi Tecnico Logistici Direttore Cristiano Frizzele Progettazione Mostre, Eventi e Spettacolo dal vivo Massimiliano Bigarello Cinzia Bernardi Maria Sol Buso Antonella Campisi Jessica Giassi Valentina Malossi Sandra Montagner Facility Management Giulio Cantagalli Alvise Dolcetta Piero Novello Maurizio Urso

Information Technology Andrea Bonaldo Michele Schiavon Leonardo Viale Jacopo Zanchi Progetti Speciali, Promozione Sedi Direttore Arianna Laurenzi Progetti Speciali Margherita Audisio Valentina Baldessari Francesco Carabba Davide Ferrante Carolina Fullin Anna Mason Elisabetta Parmesan Promozione Sedi Nicola Bon Cristina Graziussi Alessia Rosada


Dirigente Responsabile Organizzativo Joern Rudolf Brandmeyer Marina Bertaggia Emilia Bonomi Raffaele Cinotti Stefania Fabris Stefania Guerra Francesca Aloisia Montorio Luigi Ricciari Micol Saleri Ilaria Zanella Uffcio Stampa Arti Visive / Architettura Responsabile Maria Cristiana Costanzo Claudia Gioia Collaboratori per la 60. Esposizione Internazionale d’Arte Anna Albano Andrea Avezzù Valentina Campana Riccardo Cavallaro Gerardo Ernesto Cejas Marzia Cervellin Francesco di Cesare Francesca Dolzani Andrea Ferialdi Fabrizia Ferragina Giulia Gasparato Matteo Giannasi Caterina Moro Daniele Paolo Mulas Francesca Pavanel Sofia Pellegrini Maria Grazia Pontorno Luca Racchini Valeria Romagnini Solfato Federico Sanna Elisa Santoro Marco Tosato Lucia Toso Flavio Vido Marta Zannoner Francesco Zanon Alessandro Zorzetto

Settore Cinema Direttore Generale Andrea Del Mercato Segreteria Mariachiara Manci Alessandro Mezzalira Programmazione della Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica Piera Benedetti Giulia Erica Hornbostel Silvia Menegazzi Daniela Persi

Settore Danza, Musica, Teatro Dirigente Responsabile Organizzativo Francesca Benvenuti Segreteria Veronica Mozzetti Monterumici

Programmazione e Produzione Michela Mason Federica Colella Maya Romanelli

Venice Production Bridge Chiara Marin

Ufficio Stampa Danza, Musica, Teatro

Accrediti Industry/Cinema Flavia Lo Mastro

Responsabile Emanuela Caldirola

Biennale College Cinema Valentina Bellomo

Ilaria Grando

Archivio Storico della Biennale di Venezia ASAC Dirigente Responsabile Organizzativo Debora Rossi Archivio Storico Maria Elena Cazzaro Giovanna Bottaro Michela Campagnolo Marianna Carpentieri Lia Durante Marica Gallina Helga Greggio Judith Kranitz Silvia Levorato Michele Mangione Manuela Momentè Adriana Rosaria Scalise Alice Scandiuzzi Biblioteca Edoardo Armando Valentina Da Tos Valentina Greggio Elena Oselladore

La Biennale di Venezia

Settore Arti Visive / Architettura





Media Partner

Grazie a

Cleary Gottlieb Steen & Hamilton LLP


M I N I S T É R I O DA S R E L AÇ Õ E S EXTERIORES


Un ringraziamento a quante e quanti, in qualità di Donor, hanno generosamente contribuito alla realizzazione della nostra Mostra Main Donor Teiger Foundation Ford Foundation Ammodo LUMA Foundation

Christian Dior Couture Elisa Nuyten, Founder The Vega Foundation Bernardo Paz Fondazione Sandretto Re Rebaudengo Shah Garg Foundation Sunpride Foundation A&L Berg Foundation Fundación Ama Amoedo Elina e Eduardo Costantini Samsung Foundation of Culture Beatrice Bulgari, Founder Fondazione In Between Art Film

Andrea and José Olympio Pereira Catherine Petitgas Rennie Collection, Vancouver Erica Roberts Georgiana Rothier e Bernardo Faria Graham Steele e Ulysses de Santi Cristiane Sultani juancarlosverme & proyectoamil Mercedes Vilardell Paulo Albert Weyland Vieira A4 Arts Foundation

Trinity College

Isabel e Agustin Coppel

Alexandre Nobre e Tania Haddad Nobre

Charlotte Feng Ford

Anita Blanchard M.D. e Martin Nesbitt

Pamela J. Joyner e Alfred J. Giuffrida

Liv Barrett e Patrick Collins Estrellita e Daniel Brodsky Füsun Eczacıbaşı Ella Fontanals-Cisneros Cleusa Garfinkel Heitor Martins Luisa Malzoni Strina Michelangelo Foundation for Creativity and Craftsmanship Alexandra Mollof Cav. Simon Mordant AO e Catriona Mordant AM

Jana e Bernardo Hees

Vera Diniz Alessandra d’Aloia, Alexandre Gabriel e Marcia Fortes NABA, Nuova Accademia di Belle Arti Teresa e Edson Moura Mara e Marcio Fainziliber Juliana Sá e Manuelle Ferraz Friends of the California Institute of the Arts NESR Art Foundation Lista al 27 febbraio 2024


Leone d’Oro alla carriera

Anna Maria Maiolino

SCALEA, ITALIA, 1942 VIVE A SAN PAOLO, BRASILE

Anna Maria Maiolino con la sua straordinaria e poliedrica carriera sessantennale che abbraccia varie tecniche e poetiche sperimentali – tra cui pittura, disegno, stampa xilografica, fotografia, video, performance e scultura – è diventata un punto di riferimento per numerose generazioni di artisti. Nata a Scalea, in Calabria il 20 maggio 1942, nel 1954 emigra con la famiglia a Caracas, in Venezuela dove, tra il 1958 e il 1960, studia alla Escuela de Artes Visuales Cristóbal Rojas. Nel 1960 si trasferisce a Rio de Janeiro, in Brasile, dove frequenta la Escola Nacional de Belas Artes. Dopo la laurea, negli anni Sessanta entra a far parte del noto movimento artistico brasiliano Nova Figuração, una reazione all’astrazione infusa di influssi Pop che riflette anche il duro clima politico del Paese durante i primi anni della dittatura militare (1964-1985). In questo periodo, Maiolino continua a sviluppare il proprio linguaggio visivo frequentando i famosi corsi d’arte tenuti dall’artista Ivan Serpa al Museu de Arte Moderna do Rio de Janeiro. Nel 1964 tiene la sua prima mostra personale alla Galeria G di Caracas, e nel 1967 partecipa alla storica mostra Nova Objetividade Brasileira a Rio de Janeiro. Gli anni tra il 1968 e il 1971 la vedono a New York dove studia al Pratt Graphics Center, allargando i propri orizzonti artistici per includere varie tecniche e la poesia sperimentale. I dipinti degli anni Sessanta sono alquanto radicali, poiché combinano l’immaginario Pop con il tipico repertorio della Nova Figuração, concentrandosi su personaggi e narrazioni politiche, oltre che su riferimenti personali, corporei e familiari.

Alla fine degli anni Settanta, inizia a dedicarsi all’arte performativa e nel 1981 mette in scena le sorprendenti Entrevidas, in cui decine di uova sono disseminate sul pavimento, su cui lei cammina accogliendo la sfida di muoversi come in un “campo minato”, tenendo conto della fragilità e della precarietà dell’uovo, simbolo della vita stessa. Negli anni Ottanta, comincia a lavorare con l’argilla, rivelando così nelle sue sculture e nei suoi rilievi una nuova attenzione, tuttora presente, per l’espressione gestuale, la manualità e il rapporto con i materiali elementari. Per la Biennale Arte 2024 Maiolino presenta una nuova opera di grandi dimensioni che prosegue e sviluppa la serie di sculture e installazioni in argilla. Il Leone d’Oro alla carriera, premio ricevuto in occasione di questa sua prima partecipazione, ne riconosce l’importanza sia in Italia, suo Paese d’origine, sia a livello internazionale.


Nil Yalter

Nil Yalter, artista turca nata al Cairo, nel 1965 si trasferisce a Parigi, trasferimento che comporta un enorme impatto tanto sulla sua vita quanto sulla scena artistica della città dove tuttora risiede. Universalmente considerata una pioniera del movimento artistico femminista globale, Yalter, pur non avendo mai ricevuto una istruzione formale nelle arti visive, da artista autodidatta opera una costante ricerca sulle proprie pratiche e aree di interesse, che vanno dalla pittura al disegno, dal video alla scultura, all’installazione. La sua carriera inizia nel 1957, anno della sua prima mostra all’Institut Français en Inde di Mumbai. Tuttavia, è durante gli anni Sessanta che approfondisce la propria pratica. Con l’arrivo a Parigi, l’opera di Yalter inaugura un capitolo davvero radicale e pionieristico, poiché inizia ad affrontare temi sociali, in particolare quelli legati all’immigrazione e all’esperienza femminile, in un’esplorazione e in uno sviluppo davvero unici delle pratiche artistiche concettuali. Nel 1973, crea l’innovativa installazione Topak Ev, esposta in una personale al Musée d’Art Moderne de la Ville de Paris e che è presentata in una nuova versione rivisitata alla Biennale Arte 2024. L’anno successivo realizza The Headless Woman or the Belly Dance, un’opera video fondamentale che affronta il tema della liberazione sessuale femminile e dell’oggettificazione orientalista delle donne mediorientali. Un’altra opera straordinaria di questo periodo è La Roquette, Prison de Femmes del 1974, che presenta la testimonianza di un’ex detenuta del famoso carcere femminile francese. Inoltre, la sua opera

Temporary Dwellings, esposta per la prima volta nel 1977, analizza la vita dei lavoratori migranti, attraverso il racconto delle donne. Negli anni Ottanta, Yalter realizza diverse opere in collaborazione con Nicole Croiset, tra cui The Rituals (1980) e Women at Work, Women at Home (1981). Gli anni Novanta segnano per l’artista un periodo di esplorazione creativa e di riconoscimenti, durante il quale sperimenta i media digitali. In occasione della 60. Esposizione Internazionale d’Arte, Yalter presenta anche una nuova riconfigurazione della sua innovativa installazione Exile is a Hard Job, collocata nella sala di apertura del Padiglione Centrale. Questa è la prima partecipazione dell’artista alla Biennale Arte. Il Leone d’Oro alla carriera riconosce il suo significativo contributo all’intersezione tra arti visive e migrazione.

STRANIERI OVUNQUE

IL CAIRO, EGITTO, 1938 VIVE A PARIGI, FRANCIA


Premi

La Giuria Internazionale conferisce i premi: Leone d’Oro per la miglior Partecipazione Nazionale Leone d’Oro per il Miglior Partecipante della Mostra Internazionale Stranieri Ovunque - Foreigners Everywhere Leone d’Argento per un promettente giovane partecipante della Mostra Internazionale Stranieri Ovunque - Foreigners Everywhere


è docente di arte contemporanea e studi LGBTQ+ alla Columbia University. Tra le sue curatele figurano Cecilia Vicuña: About to Happen (con Andrea Andersson) e Louise Nevelson: Persistence. È autrice di Art Workers: Radical Practice in the Vietnam War Era; Fray: Art and Textile Politics (vincitore dell’ASAP Book Prize, del Frank Jewett Mather Award e del Robert Motherwell Book Award); e Louise Nevelson’s Sculpture: Drag, Color, Join, Face. Nel 2019 ha ricevuto la Guggenheim Fellowship.

Elena Crippa

è una curatrice italiana che vive e lavora a Londra. Dal 2023 è Head of Exhibitions alla Whitechapel Gallery di Londra. In precedenza, è stata Senior Curator of Modern and Contemporary Art alla Tate Britain, dove le sue mostre hanno esplorato intersezioni transnazionali e transculturali e si sono confrontate con l’arte da una prospettiva globale. Le sue mostre alla Tate includono All Too Human: Bacon, Freud and a Century of Painting Life (2018), Frank Bowling (2019), Paula Rego (2021) e la commissione Hew Locke: The Procession del 2022.

Chika Okeke-Agulu

è direttore del Programma di studi africani, direttore dell’Africa World Initiative e Robert Schirmer Professor di arte & archeologia e studi afroamericani alla Princeton University. È direttore di Nka: Journal of Contemporary African Art, Slade Professor di belle arti dell’Università di Oxford (2023) e Fellow della British Academy. È autore di El Anatsui. The Reinvention of Sculpture (2022) e fa parte del comitato scientifico dello Hyundai Tate Research Centre, Tate Modern.

María Inés Rodríguez

è una curatrice franco-colombiana, attualmente direttrice della Walter Leblanc Foundation di Bruxelles e direttrice artistica di Tropical Papers. Profondamente impegnata nel promuovere il dialogo tra la produzione artistica e i contesti storici, politici e sociali a livello locale e globale, da sempre sostiene l’interconnessione fra l’arte e le sue più ampie implicazioni culturali. È stata direttrice del CAPC Musée d’art Contemporain di Bordeaux, curatrice del MASP di San Paolo, curatrice capo del MUAC di Città del Messico così come del MUSAC in Spagna e curatrice ospite del Jeu de Paume di Parigi.

Alia Swastika

è una curatrice e ricercatrice/scrittrice che negli ultimi dieci anni ha esteso le proprie pratiche professionali al tema e alle prospettive della decolonialità e del femminismo, prendendo parte a diversi progetti di decentralizzazione dell’arte, riscrivendo la storia dell’arte e incoraggiando l’attivismo locale. Attualmente è direttrice della Biennale Jogja Foundation a Yogyakarta, in Indonesia. Continua la propria ricerca sulle artiste indonesiane durante il Nuovo Ordine e su come le politiche di genere del regime abbiano influenzato le pratiche degli artisti di quel periodo. Attualmente fa parte del team curatoriale della 16. Biennale di Sharja nel 2025.

STRANIERI OVUNQUE

La Giuria Internazionale

Julia Bryan-Wilson


Indice ESTRANGEIROS EM TODO LUGAR 24

Introduzioni

Interviste

29 Introduzione Pietrangelo Buttafuoco

65 Adriano Pedrosa intervistato da Julieta González

35 Sulla 60. Esposizione Internazionale d’Arte Roberto Cicutto

81 Claire Fontaine intervistati da Adriano Pedrosa

47 Stranieri Ovunque – Foreigners Everywhere Adriano Pedrosa

95 Anna Maria Maiolino intervistata da Amanda Carneiro

57 Ringraziamenti

107 Nil Yalter intervistata da Sofia Gotti


Saggi

Mostra

119 Stranieri Ovunque Claire Fontaine

204 Nucleo Contemporaneo

125 Il tempo del migrante Ranajit Guha

Nucleo Storico 431 Ritratti 549 Astrazioni 591 Italiani ovunque

133 La storia dell’arte dopo la globalizzazione: le formazioni del moderno coloniale Kobena Mercer

634 Padiglione Arti Applicate Progetto Speciale

143 L’artigianato e il corpo sociale indigeno Naine Terena de Jesus 149 L’arte indigena contemporanea come trappola per trappole Jaider Esbell 157 Oltre la giustizia rappresentativa Luce deLire

STRANIERI OVUNQUE

165 Questioni nell’arte popolare Ticio Escobar 183 Colonialità: il lato oscuro della modernità Walter D. Mignolo

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643 Elenco delle opere 673 Biennale College Arte


Artisti

204 432 550 551 433 552 435 206 553 434 208 210 212 436 214 216 218 220 222

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‫ألجانب في كل مكان‬

554 224 592 437 438 439 440 593 594 595 226 596 555 228 597 556 441 598 230 232 442/557 234 443 236 238 240 444 242 445 599 558 244 446 447 600 246 248 448 559 250

Pacita Abad Mariam Abdel-Aleem Etel Adnan Sandy Adsett Affandi Zubeida Agha Dia al-Azzawi Claudia Alarcón & Silät Rafa al-Nasiri Miguel Alandia Pantoja Aloïse Giulia Andreani Claudia Andujar María Aranís Aravani Art Project Iván Argote Karimah Ashadu Dana Awartani Aycoobo (Wilson Rodríguez) Margarita Azurdia Leilah Babirye Libero Badíi Ezekiel Baroukh Baya Aly Ben Salem Semiha Berksoy Gianni Bertini Lina Bo Bardi Maria Bonomi Bordadoras de Isla Negra Victor Brecheret Huguette Caland Sol Calero Elda Cerrato Mohammed Chebaa Georgette Chen Galileo Chini Kudzanai Chiurai Isaac Chong Wai Saloua Raouda Choucair Chaouki Choukini Chua Mia Tee Claire Fontaine Manauara Clandestina River Claure Julia Codesido Liz Collins Jaime Colson Waldemar Cordeiro Monika Correa Beatriz Cortez Olga Costa Miguel Covarrubias Victor Juan Cúnsolo Andrés Curruchich Rosa Elena Curruchich Djanira da Motta e Silva Olga de Amaral Filippo de Pisis

601 252 449 602 450

Juan Del Prete Pablo Delano Emiliano Di Cavalcanti Danilo Di Prete Cícero Dias

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Disobedience Archive – Marco Scotini con Ursula Biemann, Black Audio-Film Collective, Seba Calfuqueo, Simone Cangelosi, Cinéastes pour les sans-papiers, Critical Art Ensemble, Snow Hnin Ei Hlaing, Marcelo Expósito with Nuria Vila, Maria Galindo & Mujeres Creando, Barbara Hammer, mixrice, Khaled Jarrar, Sara Jordenö, Bani Khoshnoudi, Maria Kourkouta & Niki Giannari, Pedro Lemebel, LIMINAL & Border Forensics (Lorenzo Pezzani, Jack Isles, Giovanna Reder, Stanislas Michel, Chiara Denaro, Alagie Jinkang, Charles Heller, Kiri Santer, Svitlana Lavrenchuk, Luca Obertüfer), Angela Melitopoulos, Jota Mombaça, Carlos Motta, Zanele Muholi, Pınar Öğrenci, Daniela Ortiz, Thunska Pansittivorakul, Anand Patwardhan, Pilot TV Collective, Queerocracy, Oliver Ressler and Zanny Begg, Carole Roussopoulos, Güliz Sağlam, Irwan Ahmett & Tita Salina, Tejal Shah, Chi Yin Sim, Hito Steyerl, Sweatmother, Raphaël Grisey e Bouba Touré, Nguyễn Trinh Thi, James Wentzy, Želimir Žilnik

451 452 560 453 454 455

Juana Elena Diz Tarsila do Amaral Saliba Douaihy Dullah Inji Efflatoun Uzo Egonu

561 456 256 457 258 458 260 459 460 262 603 461 604 264 266 605 268 606 270 272 607 274 276 278 462 463 280 464 282 465 562 466 284 467 563 468 469 470 564 286 288 471 472 473 290 292 294 566 474 296 475 298 300 302 608 304 476 306

Mohammad Ehsaei Hatem El Mekki Aref El Rayess Ibrahim El-Salahi Elyla Ben Enwonwu Romany Eveleigh Hamed Ewais Dumile Feni Alessandra Ferrini Cesare Ferro Milone Raquel Forner Simone Forti Victor Fotso Nyie Louis Fratino Paolo Gasparini Ṣàngódáre Gbádégẹsin Àjàlá Umberto Giangrandi Madge Gill Marlene Gilson Luigi Domenico Gismondi Gabrielle Goliath Brett Graham Fred Graham Enrique Grau Araújo Oswaldo Guayasamín Nedda Guidi Hendra Gunawan Antonio Jose Guzman & Iva Jankovic Marie Hadad Samia Halaby Tahia Halim Lauren Halsey Nazek Hamdi Mohamed Hamidi Faik Hassan Kadhim Hayder Gilberto Hernández Ortega Carmen Herrera Evan Ifekoya Julia Isídrez Mohammed Issiakhem Elena Izcue María Izquierdo Nour Jaouda Rindon Johnson Joyce Joumaa Mohammed Kacimi Frida Kahlo Nazira Karimi George Keyt Bhupen Khakhar Bouchra Khalili Kiluanji Kia Henda Linda Kohen Shalom Kufakwatenzi Ram Kumar Fred Kuwornu


568 312/611 612 569 487 488 314 489 570 316 318 571 490 491 320 322 613 492 493 494 495 496 497 498 324 614 326 499 328 330 500 572 501 573 574 332 334 502 336 503 504 615 616 505 481

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Bona Pieyre de Mandiargues Ester Pilone La Chola Poblete Charmaine Poh Maria Polo Candido Portinari Sandra Poulson B. Prabha Lidy Prati Puppies Puppies (Jade Guanaro Kuriki-Olivo) Lee Qoede Agnes Questionmark Violeta Quispe Alfredo Ramos Martínez Sayed Haider Raza Armando Reverón Emma Reyes Diego Rivera Juana Marta Rodas Laura Rodig Abel Rodríguez Aydeé Rodríguez López Freddy Rodríguez Miguel Ángel Rojas Rosa Rolanda Jamini Roy Rómulo Rozo Erica Rutherford José Sabogal Mahmoud Sabri Syed Sadequain Nena Saguil Mahmoud Saïd Kazuya Sakai Ione Saldanha Dean Sameshima Zilia Sánchez Bárbara Sánchez-Kane Nenne Sanguineti Poggi Fanny Sanín Aligi Sassu Greta Schödl Ana Segovia Gerard Sekoto Jewad Selim Lorna Selim Joshua Serafin Kang Seung Lee Gino Severini Amrita Sher-Gil Anwar Jalal Shemza Yinka Shonibare Doreen Sibanda Fadjar Sidik Gazbia Sirry Lucas Sithole Francis Newton Souza Joseph Stella Irma Stern Leopold Strobl

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Emiria Sunassa Superflex Armodio Tamayo Maria Taniguchi Evelyn Taocheng Wang Lucy Tejada Mariana Telleria Güneş Terkol Eduardo Terrazas Clorindo Testa Salman Toor Frieda Toranzo Jaeger Horacio Torres Joaquín Torres-García Mario Tozzi Twins Seven-Seven Ahmed Umar Artiste cilene ignote, Arpilleristas Rubem Valentim Edoardo Daniele Villa Eliseu Visconti Alfredo Volpi Kay WalkingStick WangShui Agnes Waruguru Barrington Watson Osmond Watson Susanne Wenger Emmi Whitehorse Selwyn Wilson Chang Woosoung Celeste Woss y Gil Xiyadie Rember Yahuarcani Santiago Yahuarcani Nil Yalter Joseca Mokahesi Yanomami André Taniki Yanomami Yêdamaria Ramsès Younan Kim Yun Shin Fahrelnissa Zeid Anna Zemánková Bibi Zogbé Beatriz Milhazes

STRANIERI OVUNQUE

486 310

Grace Salome Kwami Lai Foong Moi Wifredo Lam Judith Lauand Maggie Laubser Simon Lekgetho Celia Leyton Vidal Lim Mu Hue Romualdo Locatelli Bertina Lopes Amadeo Luciano Lorenzato Anita Magsaysay-Ho MAHKU (Movimento dos Artistas Huni Kuin) Esther Mahlangu Anna Maria Maiolino Anita Malfatti Ernest Mancoba Edna Manley Josiah Manzi Teresa Margolles Maria Martins María Martorell Mataaho Collective Naminapu MaymuruWhite Mohamed Melehi Carlos Mérida Gladys Mgudlandlu Omar Mismar Sabelo Mlangeni Tina Modotti Bahman Mohasses Roberto Montenegro Camilo Mori Ahmed Morsi Effat Naghi Ismael Nery Malangatana Valente Ngwenya Paula Nicho Costantino Nivola Taylor Nkomo Marina Núñez del Prado Philomé Obin Sénèque Obin Alejandro Obregón Tomie Ohtake Uche Okeke Marco Ospina Samia Osseiran Junblatt Daniel Otero Torres Lydia Ourahmane Pan Yuliang Dalton Paula Amelia Peláez George Pemba Fulvio Pennacchi Claudio Perna Emilio Pettoruti Lê Phô

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477 478 479 567 480 483 484 485 609 308 610


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Introduzione


Proprio la bussola è importante per comprendere questo cambio di paradigma. Pedrosa è il primo curatore della Biennale Arte proveniente dal Sud America, e quindi sa bene che gli stessi punti cardinali sono forme simboliche antropizzate, col Nord in testa – con tanto di comodo cappello – e il Sud ai piedi, tenuti scalzi manco a dirlo.

STRANIERI OVUNQUE 29

Adriano Pedrosa firma per La Biennale una Esposizione che riflette la sua personale attitudine di studio e ricerca su cui non pesa il pregiudizio del già conosciuto. Dove la vertigine dell’ignoto è parte integrante del processo fruitivo, e lo sperdimento si fa leva efficace per individuare nuovi punti cardinali.

FOREIGNERS EVERYWHERE

PIETRANGELO BUTTAFUOCO PRESIDENTE LA BIENNALE DI VENEZIA

La 60esima edizione della Biennale Arte è già tutta nel suo titolo Stranieri Ovunque – Foreigners Everywhere. Due parole potenti e “scandalose” che spalancano scenari attuali e universi possibili, al cui orizzonte si compone la linea di pensiero curatoriale, nitida nel colpo d’occhio della distanza, vibrante di contrasti complessi se osservata più da vicino.


INTRODUZIONE PIETRANGELO BUTTAFUOCO 30

Straniero tra gli stranieri è – a piedi scalzi – il viandante in cammino tra i tratturi più impervi, il mendico nei cui stracci sovente si nasconde un Dio, quel nume sconosciuto a se stesso da cui gemma il rinnovarsi delle stirpi. È Enea che si lascia alle spalle il fuoco di Ilio per fondare – da straniero – una civiltà dell’universale dove nessuno più è un barbaro ma un cittadino. Ed è pertanto che il principio guida della selezione degli artisti privilegia chi non ha mai partecipato alla Esposizione. Illuminando il percorso dei Modernismi al di fuori dell’anglosfera. Presentando geografie dimenticate e ai confini del dettato vigente, seppure ben chiare sul planisfero. Dando consistenza a vuoti che di fatto non lo erano - un po’ come accade nelle sculture di Rachel Whiteread - e restituirsi, infine, al pensiero aurorale, quella nostalgia delle cose – accade nel linguaggio, nell’inverarsi del flatus vocis – che non ebbero mai un cominciamento. Con un esplicito riferimento al Manifesto antropofago di Oswald de Andrade, il curatore spiega come i Modernismi del Sud Globale abbiano dovuto cannibalizzare le culture post coloniali egemoni per affermarsi. Una forma di resistenza artistica che – nel caso brasiliano – richiama il rituale cannibalico pre-invasione del popolo Tupinambá. Il dipinto di Tarsila do Amaral che spinse de Andrade a scrivere il suo Manifesto era intitolato appunto Abaporu, che in lingua Tupi significa “uomo che mangia la gente”. E del mangiare – del nutrirsi – se ne fa radice sacrissima, non certo antropologia, come nel codice mediterraneo a noi familiare dei due conturbanti virgulti, ovvero Dioniso e poi Gesù, il Nazareno. Due rappresentazioni della resurrezione del “Dio ucciso”, due distinti banchetti cui partecipa gente che mangia altra gente, come Dioniso – il figlio che Zeus partorisce dal proprio polpaccio, ridotto in lacerti, masticato e inghiottito dalle Menadi – e come Gesù, il figlio di Maria, la Prescelta, eucaristicamente fatto ostia nella liturgia, presenza nel rito e dunque promessa propria dell’Eterno per tramite del suo stesso corpo, cibo per tutti. In questa edizione la Biennale Arte presenta un nucleo contemporaneo e uno storico, con un’ampia presenza


La città che ben 129 anni fa ideò la prima Biennale Internazionale d’Arte, rinnova le sue promesse di curiosità e amore di conoscenza. Le stesse che spinsero Marco Polo - di cui proprio nel 2024 si celebrano i settecento anni dalla scomparsa - a visitare e incontrare culture percepite come lontane e minacciose. Integrandosi, lui straniero in quelle terre, in virtù di uno scambio sinceramente umano e alla pari. Erano i tempi in cui il mercato di Rialto risuonava di lingue, etnie, fogge e vitalità. E tanti paesi avevano a Venezia i Fondeghi - dei Turchi, dei Siriani, dei Tedeschi - depositi della loro manifattura e del loro

STRANIERI OVUNQUE

Questa edizione della Mostra ospita frammenti di bellezza marginalizzata, esclusa, punita, cancellata da schemi di geo-pensiero dominante. Così i temi cogenti della Mostra di Pedrosa, il diverso, lo straniero, il viaggio, l’integrazione, riverberano nelle acque sempre calme e sempre nuove della città lagunare. Ancora una volta Venezia - nei secoli culla dolce di conoscenza e comunicazione tra popoli, etnie, religioni - è la piazza naturale da cui smistare nuovi punti di vista e Fare Mondi - per dirla con un lessico qui di casa.

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E sempre due sono i fili che percorrono la selezione del curatore: la volontà esplicita di focalizzarsi su opere che usano il linguaggio del tessile; e sul legame di sangue che collega diversi degli artisti in rassegna. Un ritorno dunque ai tempi dilatati della res extensa e dei rapporti umani viscerali, intesi come scrigno di tradizione e trasmissione di conoscenze, in un’epoca dominata dall’immateriale e dalla spersonalizzazione di contenuti e forme.

どこでも外国人

di artisti italiani della diaspora del XX secolo, i cui lavori sono esposti su i glass easels progettati da Lina Bo Bardi, per il MASP di San Paolo del Brasile. Per la prima volta un collettivo artistico indigeno dell’Amazzonia – MAHKU (Movimento dos Artistas Huni Kuin) – si prende la scena, con un intervento monumentale sulla facciata del Padiglione Centrale. Settecento metri quadri di visioni sacre mediate dal rituale dell’ayahuasca, un’esperienza questa – altrettanto sacrale – che il Vecchio Continente ha esperito per tramite di scrittura e di vissuto con gli Annäherungen di Jünger.


INTRODUZIONE

ingegno. La Biennale - con i suoi Padiglioni Nazionali, le opere, i visitatori e gli artisti da ogni parte del mondo - era già lì, nel destino della città. Di fatto, per Venezia la diversità si è posta sin dall’inizio come condizione imprescindibile di normalità. In un processo specchiante e di confronto con l’altro da sé, mai percepito in termini di negazione. Un viaggio mentale e fisico di undici mesi quello di Pedrosa, fra Cile, Messico, Argentina, Colombia, Porto Rico, Guatemala, Kenya, Zimbabwe, Angola, Sudafrica, Singapore, Indonesia, Medio Oriente. Poi, infine, il ritorno in laguna per ricostruire qui la sua personale Favola di Venezia. Ovvero la sua Sirat al Bunduqiyyah. Unica Venezia - tra le città europee ad avere sin dall’anno mille un suo nome arabo. La cui costellazione di significati fa da prodigioso controcanto alla 60. Esposizione Internazionale d’Arte. Bunduqiyyah: diverso, meticcio, mescolanza di genti, straniero.

PIETRANGELO BUTTAFUOCO

Stranieri, Ovunque.

Il mio grazie al Presidente Roberto Cicutto della cui semina – nel gemmare di tutto – faccio raccolta, senza nulla disperdere.

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E grazie all’intera squadra della Fondazione La Biennale di Venezia, cattedra di spirito critico, immaginazione e potenza di vivo segno.




KUMAACHI-U ‘AGA-VA-TU-SAPA-NUM

ROBERTO CICUTTO SULLA 60. ESPOSIZIONE INTERNAZIONALE D’ARTE

Nel 2023 la 18. Mostra Internazionale di Architettura dal titolo The Laboratory of the Future è stata affidata alla curatela di Lesley Lokko, architetta e scrittrice nata in Ghana da madre scozzese e padre ghanese.

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Entrambi vengono da due grandi Paesi e continenti del Sud del mondo. Tuttavia le ragioni per cui li ho scelti sono diverse. Ho scelto Lesley Lokko perché parte dall’Africa, il più giovane continente in termini anagrafici e ne fa un “laboratorio del futuro” per il modo in cui ha affrontato le più importanti sfide contemporanee mettendo al centro i temi della decolonizzazione e della decarbonizzazione. Questa impostazione ha permesso a molti di noi di ascoltare voci mai udite finora sorprendendoci per quanto poco conosciamo di quel continente.

STRANIERI OVUNQUE

Adriano Pedrosa, curatore della 60. Esposizione Internazionale d’Arte, è nato, vive e lavora in Brasile dove dirige il MASP (Museu de Arte de São Paulo) ed è il primo curatore della Biennale Arte proveniente dall’America Latina.


SULLA 60. ESPOSIZIONE INTERNAZIONALE D’ARTE

Ho scelto Adriano Pedrosa perché porti il suo punto di vista sull’arte contemporanea, guardando e rileggendo culture diverse, come in un controcampo cinematografico. Già con il titolo che ha scelto, Stranieri Ovunque - Foreigners Everywhere, ci fa capire che la sua Esposizione dà voce non solo ad artisti emarginati o legati a culture remote e ancora poco conosciute, ma soprattutto a tutti coloro che condividono l’appartenenza a uno stato d’animo comune a molti maestri dell’arte in ogni epoca e in ogni latitudine, che hanno sviluppato la propria creatività nelle molte diaspore imposte dalla storia, nel sentirsi estranei perfino in casa propria o appartenenti alle mille diversità rispetto a quanto tradizionalmente considerato ”normale”. E soprattutto ci porta la visione di un curatore che dichiara di essere fortemente partecipe di questo stato d’animo per esperienza personale e per cultura.

ROBERTO CICUTTO

Sarà anche un viaggio nella bellezza dell’arte (parole del curatore) che sa parlare a tutti affrontando anche temi etici e sociali con la forza della creazione artistica. Scegliere un curatore da proporre al Consiglio di Amministrazione per la sua nomina è la responsabilità più impegnativa per il Presidente della Biennale di Venezia, non priva di rischi. Per questo bisogna farsi guidare - oltre che dalla ovvia necessità di cercare fra personalità competenti e di rilevanza internazionale - da un indispensabile rapporto di fiducia con chi viene investito di questa responsabilità, che va costruita in fase istruttoria e rinsaldata nella preparazione della Mostra, per lasciare infine alla curatrice o al curatore totale autonomia nelle proprie scelte.

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Quel che conta è che chi è chiamato a rappresentare il mondo nel quadro della Mostra Internazionale sia sensibile ai temi della contemporaneità e capace, al tempo stesso, di coinvolgere i Paesi partecipanti in un dialogo con il tema proposto.


Molti dei Paesi partecipanti a questa edizione traggono ispirazione dal tema del curatore, segno che Pedrosa ha toccato una corda molto sensibile e condivisa. Nei tempi difficili che il mondo sta attraversando, questa partecipazione così ampia (88) conferma la natura della Biennale, che resta non solo un osservatorio unico sullo stato del mondo dal punto di vista delle arti, ma continua anche a rivelarsi un luogo necessario che, oltre la politica e la diplomazia, offre numerose e preziose occasioni di dialogo e confronto.

STRANIERI OVUNQUE

Adriano Pedrosa, così come alcuni suoi predecessori, è molto attento ai temi della sostenibilità, tenuti in gran conto nel programmare e allestire la sua Mostra. La Biennale ha investito molto in questo obiettivo, mettendo in atto pratiche che hanno portato negli ultimi due anni al riconoscimento della certificazione della “neutralità carbonica” per tutte le sue manifestazioni. Che questo sia avvenuto grazie a una istituzione culturale di rilevanza mondiale e nella città di Venezia, simbolo di molte vulnerabilità, è un risultato di cui siamo orgogliosi.

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Diverse volte in questi anni è stato posto l’accento su come le manifestazioni della Biennale non debbano nascere e morire nel perimetro delle loro date di inizio e fine. Tutti i contenuti devono trovare posto in uno spazio a disposizione di chi (addetti ai lavori o meno) li vuole approfondire. Lo strumento perché questo avvenga è lo sviluppo dell’Archivio Storico nel nuovo Centro Internazionale della Ricerca sulle Arti Contemporanee, progetto appoggiato e sostenuto nel quadriennio che si conclude quest’anno dai governi che si sono succeduti con uguale impegno e condivisione. È un risultato importante per La Biennale di Venezia, che in questo modo trasforma un progetto culturale in un grande disegno che coinvolge, a partire da Venezia, l’intero mondo delle attività artistiche, portando benefici per i residenti in città e nei territori limitrofi, per il mondo della formazione e per il recupero e restauro di luoghi ed edifici di grande importanza storica e culturale.

DOXANDÉEM FÉPP

Più il tema è condiviso, più interessante sarà l’esito della Mostra e più forte l’impatto delle riflessioni che genererà.


SULLA 60. ESPOSIZIONE INTERNAZIONALE D’ARTE

Che questo accada è l’augurio più sincero che faccio a Adriano Pedrosa, al Presidente Pietrangelo Buttafuoco, agli artisti, ai Paesi partecipanti e a tutti coloro che hanno lavorato alla realizzazione della 60esima edizione della Biennale Arte. Ringraziamo il Ministero della Cultura, le Istituzioni del territorio che in vario modo sostengono La Biennale, la Città di Venezia, la Regione del Veneto, la Soprintendenza Archeologia, belle arti e paesaggio per il Comune di Venezia e Laguna, la Marina Militare. Un ringraziamento va al Partner Swatch, al Main Sponsor illycaffè e agli Sponsor American Express, Bloomberg Philantropies e Vela-Venezia Unica e alla Rai, Media Partner della Biennale Arte 2024. Si ringraziano i Donor, gli Enti e Istituzioni internazionali importanti nella realizzazione della Mostra.

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ROBERTO CICUTTO

In particolare, i ringraziamenti vanno a Adriano Pedrosa e a tutto il suo team. Grazie, infine, a tutte le grandi professionalità della Biennale applicate con grande dedizione alla realizzazione e alla gestione della Mostra.




LANGUAGE IS A MIGRANT, IN AND IF I DEVOTED MY LIFE TO ONE OF ITS FEATHERS? AESTHETIC RESPONSES TO EXTRACTION, ACCUMULATION, AND DISPOSSESSION, A CURA DI MIGUEL A. LÓPEZ, LONDRA, STERNBERG PRESS, 2023.

La lingua è migrante. Le parole si spostano di lingua in lingua, di cultura in cultura, di bocca in bocca. I nostri corpi sono migranti, le cellule e i batteri sono anch’essi migranti. Anche le galassie migrano.

CECILIA VICUÑA



CH’IXINAKAX UTXIWA: A REFLECTION ON THE PRACTICES AND DISCOURSES OF DECOLONIZATION, IN “THE SOUTH ATLANTIC QUARTERLY”, 111, 1 (INVERNO 2012).

Il mondo indigeno non concepisce la storia come lineare; il passato-futuro è contenuto nel presente. La regressione o la progressione, la ripetizione o il superamento del passato entrano in gioco in ogni circostanza e dipendono più dalle nostre azioni che dalle nostre parole. Il progetto di modernità indigena può emergere dal presente in una spirale il cui movimento è un continuo feedback fornito dal passato al futuro – un “principio di speranza” o “coscienza anticipatrice” – che riconosce e allo stesso tempo realizza la decolonizzazione.

SILVIA RIVERA CUSICANQUI



LINA BO BARDI, DOCUMENTO SENZA TITOLO/NON DATATO, IN MARCELO FERRAZ, LINA BO BARDI, SAN PAOLO, INSTITUTO LINA BO BARDI, MILANO, CHARTA, 1993.

Il tempo lineare è un’invenzione dell’Occidente; il tempo non è lineare, è un meraviglioso reticolo, dove in ogni momento si possono scegliere punti e inventare soluzioni senza inizio né fine.

LINA BO BARDI



STRANIERI OVUNQUE

Il contesto in cui si colloca l’opera è un mondo brulicante di crisi multiformi che riguardano il movimento e l’esistenza delle persone all’interno di Paesi, nazioni, territori e confini; crisi che riflettono i pericoli e le insidie legate a questioni di lingua, traduzione e nazionalità, che a loro volta mettono in luce differenze e disparità condizionate da identità, cittadinanza, razza, genere,

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Il titolo della 60. Esposizione Internazionale d’Arte è tratto da una serie di lavori realizzati a partire dal 2004 dal collettivo Claire Fontaine, nato a Parigi e con sede a Palermo. Le opere consistono in sculture al neon di diversi colori che riportano in un numero crescente di lingue le parole “Stranieri Ovunque”. L’espressione è stata a sua volta ripresa dal nome di un omonimo collettivo torinese che nei primi anni 2000 combatteva il razzismo e la xenofobia in Italia. La serie di sculture al neon di Claire Fontaine - esposte in una nuova installazione in grande scala alle Gaggiandre, in Arsenale - comprende al momento più di cinquanta lingue – occidentali e no, tra cui diversi idiomi indigeni, alcuni dei quali di fatto estinti.

處處都是外人

ADRIANO PEDROSA CURATORE DELLA 60. MOSTRA INTERNAZIONALE D’ARTE

Stranieri Ovunque — Foreigners Everywhere


STRANIERI OVUNQUE — FOREIGNERS EVERYWHERE ADRIANO PEDROSA

sessualità, libertà e ricchezza. In questo panorama, l’espressione “Stranieri Ovunque” assume più di un significato. Innanzitutto, significa che ovunque si vada e ovunque ci si trovi si incontreranno sempre degli stranieri: sono/siamo ovunque. In secondo luogo, significa che a prescindere dalla propria ubicazione, nel profondo e di fatto si è sempre stranieri. Inoltre, l’espressione assume un significato molto particolare e specifico a Venezia: una città la cui popolazione originaria era costituita da profughi provenienti dai centri urbani romani, una città che in passato ha rappresentato il più importante fulcro di scambio e commercio internazionale del Mediterraneo, una città che è stata capitale della Repubblica di Venezia, dominata da Napoleone Bonaparte e conquistata dall’Austria, e la cui popolazione è oggi costituita da circa 50.000 residenti, ma che nei periodi di alta stagione può raggiungere picchi di 165.000 persone in un solo giorno a causa dell’enorme numero di turisti e viaggiatori (stranieri di tipo privilegiato) che la visitano. A Venezia gli stranieri sono ovunque. Ma si può anche pensare a questa espressione come a un motto, a uno slogan, a un invito all’azione, a un grido di eccitazione, di gioia o di paura: Stranieri Ovunque! E, soprattutto, oggi assume un significato cruciale in Europa, nel Mediterraneo e nel mondo, dal momento che nel 2022 il numero di “migranti forzati” ha toccato l’apice (con 108,4 milioni secondo l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati) e si presume che nel 2023 sia ulteriormente aumentato.

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Nelle più disparate circostanze, gli artisti da sempre viaggiano e si spostano tra città, Paesi e continenti; un fenomeno addirittura in accelerazione dalla fine del XX secolo che, ironicamente parlando, è stato un periodo contrassegnato da crescenti restrizioni rispetto alla dislocazione o allo spostamento degli individui. Biennale Arte 2024 punta dunque i riflettori su artisti che sono essi stessi stranieri, immigrati, espatriati, diasporici, emigrati, esiliati o rifugiati, in particolare quelli che si muovono tra il Sud e il Nord del mondo. E qui i temi chiave sono migrazione e decolonizzazione.


MAMÕYGUARA OPÁ MAMÕ PUPÉ STRANIERI OVUNQUE

Agli artisti indigeni è garantita una forte presenza e le loro opere accolgono il pubblico nel Padiglione Centrale, con un monumentale murale realizzato dal collettivo brasiliano MAHKU (Movimentos dos Artistas Huni Kuin) sulla facciata dell’edificio, e nelle Corderie, dove il collettivo Mataaho di Aotearoa/Nuova Zelanda presenta nella prima sala una grande installazione, due ambienti espositivi di impatto simbolico. Gli artisti queer figurano in ogni spazio e costituiscono il fulcro di un’ampia sezione alle Corderie (con opere di autori provenienti da Canada, Cina, India, Messico, Pakistan, Filippine, Sudafrica e Stati Uniti), nonché di un’area dedicata all’astrazione queer nel Padiglione Centrale (con lavori di artisti provenienti da Cina, Italia e Filippine). Sono inoltre presentate tre delle artiste outsider europee più straordinarie: Madge Gill dal Regno Unito, Anna Zemánková dalla Repubblica Ceca e Aloïse dalla Svizzera.

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Il termine italiano straniero, il portoghese estrangeiro, il francese étranger e lo spagnolo extranjero sono tutti collegati sul piano etimologico rispettivamente a strano, estranho, étrange ed extraño, ovvero all’idea di estraneo. Viene in mente il concetto freudiano di Unheimliche, Il perturbante nell’edizione italiana, che in portoghese è stato tradotto con O estranho, a indicare lo strano che, nel profondo, è anche familiare. Secondo l’American Heritage e l’Oxford English Dictionary, il primo significato della parola “queer” è proprio “strange” (“strano”), pertanto la Mostra si sviluppa e si concentra sulla produzione di altri soggetti collegati: l’artista queer, che si muove all’interno di diverse sessualità e generi ed è spesso perseguitato o messo al bando; l’artista outsider, che si trova ai margini del mondo dell’arte, proprio come l’autodidatta, l’artista folk o artista popular; l’artista indigeno, spesso trattato come straniero nella propria terra. La produzione di questi quattro soggetti è il fulcro di questa edizione e costituisce il Nucleo Contemporaneo della Mostra. Benché la loro opera spesso si basi sull’esperienza personale, sulla propria vita, le proprie osservazioni e la propria storia, ci sono anche artisti che si addentrano in questioni più formali, con il proprio accento strano, straniero o indigeno.


STRANIERI OVUNQUE — FOREIGNERS EVERYWHERE ADRIANO PEDROSA 50

Il Nucleo Contemporaneo ospita nelle Corderie una sezione speciale dedicata al Disobedience Archive, un progetto di Marco Scotini che dal 2005 sviluppa un archivio video incentrato sulle relazioni tra pratiche artistiche e attivismo. Alla Biennale Arte 2024, la presentazione di Disobedience Archive è progettata da Juliana Ziebell, che ha lavorato anche all’allestimento dell’intera Mostra. Questa sezione è suddivisa in due parti appositamente concepite per il tema-contenitore – attivismo della diaspora e disobbedienza di genere – e include le opere di 39 artisti e collettivi realizzate tra il 1975 e il 2023. La Mostra presenta anche un Nucleo Storico, composto da opere del XX secolo provenienti dall’America Latina, dall’Africa, dal Medio Oriente e dall’Asia. Si è scritto molto sui modernismi globali e su quelli del Sud del mondo, e tre sezioni sono dedicate a lavori provenienti da tali territori, quasi a costituire una sorta di saggio, una bozza, un esercizio curatoriale speculativo volto a mettere in discussione i confini e le definizioni del Modernismo. Conosciamo fin troppo bene la storia del Modernismo in Euro-America, ma i modernismi del Sud del mondo rimangono in gran parte sconosciuti. La loro conoscenza è limitata agli specialisti di ogni singolo Paese o regione; pertanto, collegare ed esporre insieme queste opere sarà illuminante. Ecco perché queste storie assumono una rilevanza davvero contemporanea: abbiamo urgente bisogno di imparare di più su e da quei contesti. Inoltre, lo stesso Modernismo europeo nel corso del Novecento si è mosso ben oltre l’Europa, spesso intrecciandosi con il colonialismo, così come molti artisti del Sud del mondo si sono recati in Europa per esserne influenzati. In questo processo, nel Sud del mondo il Modernismo è stato integrato e divorato. Il riferimento qui è al concetto di antropofagia di Oswald de Andrade, proposto all’intellettuale moderno ai margini dell’Europa come strumento per impadronirsi della cultura metropolitana, cannibalizzandola e producendo qualcosa di proprio, con ciò evocando la pratica cannibalica degli indigeni tupinambá nel Brasile pre-invasione. I tipi unici e distinti di Modernismo nel Sud del mondo assumono figure e


forme radicalmente nuove in dialogo con le narrazioni e i riferimenti locali e indigeni.

La sezione intitolata Astrazioni include opere di una quarantina di artisti provenienti da Argentina, Aotearoa/ Nuova Zelanda, Brasile, Cile, Colombia, Cuba, Egitto,

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La sezione Ritratti comprende le opere di più di cento artisti provenienti da Algeria, Aotearoa/Nuova Zelanda, Argentina, Bolivia, Brasile, Cile, Cina, Colombia, Corea, Cuba, Ecuador, Egitto, Filippine, Ghana, Guatemala, India, Indonesia, Iran, Iraq, Giamaica, Libano, Malesia, Messico, Mozambico, Nigeria, Pakistan, Perù, Porto Rico, Repubblica Dominicana, Singapore, Sudafrica, Sri Lanka, Sudan, Tunisia, Turchia, Uruguay, Venezuela, Vietnam e Zimbabwe. La selezione testimonia come la figura umana sia stata esplorata in innumerevoli modi diversi dagli artisti del Sud globale, e riflette sulla crisi della rappresentazione dell’umano che ha caratterizzato gran parte dell’arte del XX secolo, ponendosi ulteriori domande: chi può essere rappresentato, da chi, e come? Nel Sud del mondo, numerosi artisti sono entrati in contatto con il Modernismo europeo, attraverso viaggi, studi o libri. Tuttavia, apportano alle proprie opere riflessioni potenti e contributi personali, raffigurando figure riprese da propri repertori visivi, da proprie storie e vite, se stessi inclusi. La maggior parte dei lavori ritrae personaggi non bianchi, il che a Venezia, cuore della Biennale, diventa un tratto eloquente di questo gruppo così ampio ed eterogeneo e della Mostra stessa: Stranieri Ovunque – Foreigners Everywhere.

ИНОСТРАНЦЫ ВЕЗДЕ

Il Nucleo Storico comprende tre sale con un’opera per ogni artista, per lo più dipinti, ma anche lavori su carta e sculture, coprendo un arco di tempo compreso tra il 1915 e il 1990. È difficile stabilire una cronologia generale rigorosa, poiché i processi possono essere alquanto specifici di ogni Paese o regione, e spesso seguono percorsi del tutto propri. Per questo motivo, l’arco cronologico è molto più ampio del tipico arco temporale modernista. Nel Padiglione Centrale una sezione è dedicata ai ritratti e alle rappresentazioni della figura umana e un’altra alle astrazioni.


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Filippine, Guatemala, India, Indonesia, Iraq, Giordania, Libano, Messico, Marocco, Pakistan, Palestina, Porto Rico, Repubblica Dominicana, Sudafrica e Turchia. Il riferimento centrale qui è costituito dai pittori della straordinaria Scuola di Casablanca esposti per la prima volta alla Biennale Arte. Ciò che interessa è un certo tipo di astrazione che si distacca dalla tradizione geometrica costruttivista europea, con la sua tavolozza di colori primari e la rigida griglia ortogonale di verticali e orizzontali, per privilegiare forme e sagome più sinuose e curvilinee, colori brillanti e vivaci, in composizioni di grande impatto. La maggior parte degli artisti del Nucleo Storico partecipa per la prima volta all’Esposizione Internazionale d’Arte, viene così riconosciuto un debito storico nei loro confronti. Ma soprattutto, riunirli a Venezia in un’unica sezione è un evento che non ha precedenti, e impareremo da questi imprevisti accostamenti dal vivo, che si spera possano indicare nuove connessioni, associazioni e parallelismi al di là delle categorie alquanto semplici da me proposte. Pur tecnicamente non più parte del Sud del mondo, nelle stesse sezioni sono inseriti anche artisti di Singapore e della Corea, poiché all’epoca della creazione delle loro opere, facevano parte del cosiddetto Terzo Mondo. Analogamente, Selwyn Wilson e Sandy Adsett, provenienti da Aotearoa/Nuova Zelanda, sono inclusi in questo Nucleo Storico trattandosi di artisti storici māori in linea con l’attenzione della Mostra rivolta agli artisti indigeni. Una terza sezione del Nucleo Storico, intitolata Italiani Ovunque è dedicata alla diaspora artistica italiana nel mondo nel XX secolo: artisti italiani che hanno viaggiato e si sono trasferiti all’estero, costruendo la propria carriera in Africa, Asia, America Latina, nonché nel resto d’Europa e negli Stati Uniti. Italiani all’estero, spesso immersi nelle culture locali, che hanno svolto a volte un ruolo significativo nello sviluppo delle narrazioni del Modernismo al di fuori della propria terra d’origine. La sezione presenta le opere di una quarantina di autori italiani di prima o seconda generazione, esposte con il sistema a cavalletti di vetro ideato da Lina Bo Bardi,


STRANIERI OVUNQUE

Un secondo elemento è rappresentato dagli artisti – molti dei quali indigeni, legati da vincoli di sangue o da matrimonio – come Andres Curruchich e la nipote Rosa Elena Curruchich del Guatemala; Abel Rodríguez e il figlio Aycoboo della Colombia; Fred Graham e il figlio Brett, artisti māori di Aotearoa/Nuova Zelanda; Juana Marta Rodas e la figlia Julia Isídrez del Paraguay; il MAHKU (Movimento dos Artistas Huni Kuin) ovvero il collettivo Huni Kuin della parte occidentale della regione amazzonica brasiliana; Joseca Mokahesi e André Taniki della tribù yanomami, della parte settentrionale della stessa zona; Santiago Yahuarcani e il figlio Rember del Perù; Susanne Wenger e il figlio adottivo Sangódáre Gbádégesin Ajàla della Nigeria; i fratelli Philomé e Senèque Obin di Haiti; Jewad Lorna Selim, marito e moglie di Iraq e Gran Bretagna, e infine Frida Kahlo e Diego Rivera

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Nel corso della ricerca sono emersi in modo piuttosto organico due elementi diversi, ma correlati, che sono stati sviluppati fino a imporsi come leitmotiv di tutta la Mostra. Il primo è il tessile, esplorato in varie forme da molti artisti coinvolti, a partire da storiche figure chiave come Bona Pieyre de Mandiargues e Gianni Bertini in Italiani Ovunque e Olga de Amaral, Eduardo Terrazas e Monika Correa in Astrazioni nel Nucleo Storico, fino a molti autori presenti nel Nucleo Contemporaneo – tra cui Agnès Waruguru, Ahmed Umar, Anna Zemánková, Antonio Guzman e Iva Jankovic, le Bordadoras de Isla Negra, Bouchra Khalili, Claudia Alarcón & Silät, Dana Awartani, Frieda Toranzo-Jaeger, Güneş Terkol, Kang Seung Lee, Liz Collins, Mataaho Collective, Nour Jaouda, Pacita Abad, Paula Nicho, Sangódáre Gbádégesin Ajàla, Shalom Kufakwatenzi, Susanne Wenger, Yinka Shonibare – nonché dalle arpilleras cilene. Tali opere rivelano un interesse per l’artigianato, la tradizione e il fatto a mano, nonché per le tecniche che, nel campo delle belle arti, sono state a volte considerate altre o straniere, estranee o strane.

HER YERDE YABANCI

essa stessa italiana trasferitasi in Brasile a cui è stato riconosciuto il Leone d’Oro speciale alla memoria in occasione della Biennale Architettura 2021.


STRANIERI OVUNQUE — FOREIGNERS EVERYWHERE

del Messico. Anche in questo caso la tradizione gioca un ruolo importante nella trasmissione di conoscenze e pratiche da padre o madre a figlio o figlia oppure tra fratelli, parenti e partner. Come principio guida, la Biennale Arte 2024 ha privilegiato artisti che non erano mai stati presenti in precedenza, anche se alcuni di loro possono avere già esposto in un Padiglione Nazionale, in un Evento Collaterale o in un’edizione del XX secolo. Un’attenzione particolare è riservata ai progetti all’aperto, sia all’Arsenale (con lavori di Anna Maria Maiolino, Beatriz Cortez, Claire Fontaine, Lauren Halsey, Leilah Babirye e Taylor Nkomo) sia ai Giardini (con i lavori di Iván Argote, Mariana Tellería, Rindon Johnson e Sol Calero).

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ADRIANO PEDROSA

Il programma di performance prevede eventi durante i giorni di apertura di chiusura dell’Esposizione e comprende lavori di alcuni artisti che hanno anche opere esposte: Ahmed Umar, Bárbara Sánchez-Kane, Isaac Chong Wai, Güneş Terkol, Antonio Jose Guzman e Iva Jankovic, Joshua Serafin, Lydia Ourahmane, Puppies Puppies (Jade Guanaro Kuriki-Olivo), e Simone Forti. Al Forte Marghera di Mestre presentiamo l’opera della pionieristica ceramista italiana Nedda Guidi, che è anche presente nel Padiglione Centrale nella sala dedicata alle astrazioni queer, nell’ambito dell’Esposizione Internazionale d’Arte. Per contro, al di fuori di questa cornice ma sempre a mia cura, l’opera di Beatriz Milhazes – dato il suo stretto legame e interesse per le arti applicate – è presente all’interno del Padiglione Arti Applicate situato all’Arsenale e sviluppato in collaborazione con il Victoria and Albert Museum. Una selezione di tessuti provenienti da diverse parti del mondo che hanno ispirato Milhazes è esposta nel Padiglione insieme ai suoi dipinti, collage e un’opera tessile. Il Catalogo e la Guida Breve sono stati progettati da Paula Tinoco, Roderico Souza e Carolina Aboarrage dell’Estúdio Campo di San Paolo e curati da me con la collaborazione delle nostre due organizzatrici artistiche, Amanda


WSZĘDZIE OBCY STRANIERI OVUNQUE

A livello personale, mi sento coinvolto in molti dei temi, dei concetti, dei motivi della Mostra nonché nella sua struttura complessiva. Nel corso della mia vita ho vissuto all’estero e ho avuto la fortuna di viaggiare molto. Tuttavia, ho spesso sperimentato il trattamento riservato a uno straniero del Terzo Mondo, anche se non sono mai stato un rifugiato e, anzi, secondo l’Henley Passport Index, sono in possesso di uno dei passaporti più prestigiosi del Sud del mondo. Mi identifico anche come queer, il primo curatore dichiaratamente queer nella storia della Biennale Arte. Inoltre, provengo da un contesto brasiliano e latinoamericano in cui l’artista indigeno e l’artista popular svolgono ruoli importanti; benché marginalizzati nella storia dell’arte, di recente stanno iniziando a ricevere maggiore attenzione. Il Brasile è anche patria di molte diaspore; è una terra di stranieri per così dire: oltre ai portoghesi che lo hanno invaso e colonizzato, il Paese

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Carneiro e Sofia Gotti. Il bellissimo progetto di Campo fa riferimento al neon, evocando le sculture di Claire Fontaine presenti, nonché ai confini, alle demarcazioni, alle transizioni e agli spazi intermedi, attraverso l’uso di geometrie e colori sfumati. Per il Catalogo e la Guida Breve abbiamo invitato oltre cento autori provenienti da diverse parti del mondo a redigere le oltre trecento schede degli artisti, privilegiando un approccio polifonico alla pubblicazione. Il Catalogo contiene le interviste con le due artiste che hanno vinto il Leone d’Oro alla carriera, Anna Maria Maiolino e Nil Yalter, una con Claire Fontaine e una con me, condotta da Julieta González. Nel volume compaiono inoltre saggi di Jaider Esbell, Kobena Mercer, Luce deLire, Naine Terena, Ranajit Guha, Ticio Escobar e Walter Mignolo. Disseminati lungo tutto il Catalogo, a creare un ulteriore livello nella narrazione, figurano molteplici frammenti di natura critica, letteraria, poetica o teorica che ci hanno in qualche modo ispirato o hanno catturato la nostra attenzione durante il lavoro di ricerca. Si tratta di frammenti – selezionati con l’aiuto di Carneiro, Gotti e Claire Fontaine – che abbracciano autori e periodi diversi, tutti in qualche modo collegati ai nostri temi, argomenti e narrazioni.


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ADRIANO PEDROSA

STRANIERI OVUNQUE — FOREIGNERS EVERYWHERE

ospita le più grandi diaspore africane, italiane, giapponesi e libanesi del mondo. La Biennale Arte, evento internazionale con innumerevoli Partecipazioni Nazionali ufficiali, è da sempre una piattaforma per l’esposizione di opere di stranieri provenienti da tutto il mondo. Nel solco di questa lunga e ricca tradizione la 60. Esposizione Internazionale d’Arte è la celebrazione dello straniero, del lontano, dell’outsider, del queer e dell’indigeno. Per concludere, desidero esprimere la mia gratitudine più profonda al board della Biennale di Venezia e all’ex Presidente Roberto Cicutto che nel dicembre 2022 mi hanno nominato Direttore Artistico del Settore Arti Visive, con il compito di curare la Biennale Arte 2024. L’unica richiesta che ho ricevuto è stata di costruire una Mostra piena di bellezza. Credo che quella che stiamo offrendo sia una bellezza straniera, strana, inquietante e queer.


COIGRICH ANNS GACH ÀITE

Devika Singh Diego Amal Ceballos Don Handa Edgar Calel Eduardo Costantini Elisabeth Whitelaw Emilia Bonomi Emiliano Valdés Engel Leonardo Erica Roberts Erica Schmatz Eugene Tan Eungie Joo Fabiola Ceni Fadia Antar Fernanda Arruda Flavia Fossa Margutti Florencia Lowenthal Florencia Malbran Francesca Boglietti Francesca Montorio Frank Kilbourn Fulvia Carnevale Fusun Eczacibasi Garth Greenan Giacinta Dalla Pietà Gloria Cortés Aliaga Grace O’Malley Graham Steele Guilherme Assis Haco de Ridder Hala Choucair Hannah O’Leary Hans Ulrich Obrist Heba Elkayal Héctor Palhares Meza Henrique Faria Humberto Moro Ignez Simões Ilaria Zanella Inti Guerrero Isa Lorenzo Ivan Castellon Quiroga Jackeline Rojas Heredia Jacopo Galimberti James Thornhill Jan Fjeld Janaina Hees Jane and Kito de Boer Jasper Sharp Jean Pigozzi Jemma Read

STRANIERI OVUNQUE

Abraham Cruzvillegas Adriana La Lime Adriana Paez Agnes Vilén Agustín Pérez Rubio Akram Zaatari Alessandro Pasotti Alessandro Rabottini Alex Logsdail Alex Mor Alexander Hertling Allan Schwartzman Amanda Carneiro Amanda Hereaka Andras Szanto Andrea Del Mercato Andree Sfeir-Semler Angela María Pérez Mejía Anna Sokoloff Antonio Almeida Antonio Lessa Arystela Paz Azu Nwagbogu Barbara Corti Basel Dallouol Beatriz Lopez Boris Hirmas Camila Siqueira Carlos Dale Carlos Uzcanga Gaona Carolina Aboarrage Catalina Casas Cecilia Alemani Cecilia Brunson Cecilia Vicuña Çelenk Bafra Charles Pocock Christian Berst Chus Martínez Claudia Gioia Claudia Saldanha Cleusa Garfinkel Conor Macklin Conrado Mesquita Cristiana Constanzo Cristiano Frizzele Daniele Balice David Kordansky Debora Ferreira Debora Rossi Deborah e Vincenzo Sanguineti

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Ringraziamenti

La ricerca e i preparativi per la Biennale Arte sono stati un viaggio straordinario e indimenticabile, e ho avuto la fortuna di poter contare sul sostegno e sui consigli generosi ed entusiasti di centinaia di colleghi e amici, vecchi e nuovi. Un ringraziamento molto speciale va a tutta La Biennale e ai miei team curatoriali. Vorrei inoltre esprimere la mia gratitudine a tutti gli artisti, gli autori, i donor, gli sponsor, i finanziatori della mostra, nonché alle seguenti persone che mi hanno aiutato in vario modo in questo processo ambizioso e impegnativo:


RINGRAZIAMENTI 58

JeongJin Lee Jeremy Barns Joern Brandmeyer Jonathan Garnham José Darío Gutiérrez José Esparza Chong Cuy José Kuri Joselina Cruz Josh Ginsburg Juan Carlos Cordero Julia Bryan-Wilson Juliana Ziebell Julieta González Jussi Koitela Karen Marta Karoline Trollvik Kiki Mazzuchelli Koyo Kouoh Latika Gupta Laura Hakel Lena Malm Lia Colombino Lisa Horikawa Lívia Benevides Liza Essers Lorenzo Giusti Luciana Brito Luigi Ricciari Luisa Duarte Luisa Strina Maddalena Pietragnoli Magnolia de la Garza Maja Hoffmann Mami Kataoka Manuel Santos Marco Antonio Nakata Maria Grazia Chiuri María Inés Rodríguez Maria Montero Mariana Luvizutti Marina Bertaggia Marina Buendia Marina Moura Marita Garcia Mary Sabatino Massimiliano Bigarello Max Jorge Hinderer Cruz Max Perlingeiro Michela Alessandrini Miguel Lopez Mikala Tai Mónica Manzutto

Naine Terena Nara Roesler Natasha Conland Niamh Coghlan Nicholas Logsdail Nigel Borell Nontobeko Ntombela O’Neil Lawrence Olivier Bialobos Orly Benzacar Patrick Charpenel Paula Coelho Paula Nascimento Paula Tinoco Paula Zoppello Paulo A.W. Vieira Paulo Herkenhoff Paulo Soares Pedro Wollny Pilar Ríos Prajit Dutta Priya Jhaveri Raffaele Cinotti Raffaella Cortese Raphael Chikukwa Raphael Fonseca Regina Teixeira de Barros Rein Wolfs Riccardo Boni Richard Saltoun Roderico Souza Rodrigo Moura Ryan Inouye Sandra Gamarra Sandra Montagner Sara Hermann Sarah Wilson Sergio Fontanella Shabbir Hussain Mustafa Sharon Lerner Sherine Morsi Sherith Arasakula Suriya Shireen Gandhy Silvana Palma Silvia Paz Illobre de Orteu Simon Mordant Sofia Gotti Sofia Pellegrini Sonia Becce Stefan Benchoam Stefania Fabris Stuart Morrison

Suheyla Takesh Sultan Sooud Al-Qassemi Taimur Hassan Tandanzani Dhlakama Teofilo Cohen Thiago Gomide Thúlio Righeti Ticio Escobar Tina Kim Todd Bradway Tomás Toledo Vanessa Carlos Varinia Brodsky Zimmermann Victoria Noorthoorn Vilma Coutinho Vincent van Velsen Wenny Teo Zeina Arida




PRIMI ANNI SETTANTA

Sono la tua peggiore paura. Sono la tua migliore fantasia.

SLOGAN DEL MOVIMENTO GAY LIBERATION



A DIALOGUE WITH MODERNISM, IN DIA-AZZAWI: A RETROSPECTIVE FROM 1963 UNTIL TOMORROW, A CURA DI CATHERINE DAVID, DOHA, QATAR: ARAB MUSEUM OF MODERN ART, 2017.

Sostengo che il Modernismo comporta innanzitutto una crisi globale della rappresentazione, le cui circostanze, le forme specifiche che assume e le soluzioni artistiche escogitate per rispondervi variano da un capo all’altro del mondo. Pur non essendo la prima o l’ultima crisi di questo tipo, questa è direttamente provocata dalla modernità e riguarda la rappresentazione, come mezzo per raffigurare o ritrarre un soggetto, con il suo legame con la realtà e l’originalità, in quanto specificamente distinta dalla presentazione premoderna. Questa interpretazione del Modernismo ci permette di riconoscere ogni singolo e specifico esperimento nel mondo all’interno del proprio contesto e significato, senza dover tener conto della linearità o eterocronicità della storia dell’arte. L’arte moderna verrebbe quindi compresa all’interno di un’ampia narrazione non lineare e non cronologica di intersezioni e sovrapposizioni dialettiche e discorsive, in grado di accogliere le influenze globali e di rendere conto della continuità di altre tradizioni artistiche e della loro rottura.

NADA SHABOUT



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Julieta González ESTRANJEROS EN TODAS PARTES

STRANIERI OVUNQUE

intervistato da

Adriano Pedrosa


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ADRIANO PEDROSA

INTERVISTATO DA JULIETA GONZÁLEZ

BIENNALE ARTE 2024

In qualità di curatore della Biennale Arte 2024 – e, soprattutto, in quanto primo proveniente dall’America Latina e secondo dal Sud del mondo – come percepisci il tuo ruolo e le tue responsabilità, sia all’interno che al di là della 60. Esposizione Internazionale d’Arte? Quali sono le responsabilità specifiche derivanti dall’essere un curatore proveniente dalle periferie quando si dirige un evento internazionale così importante? Lavorare alla Biennale Arte 2024 è un grande onore e rappresenta un riconoscimento del lavoro svolto nel corso degli anni, ma in quanto primo latinoamericano e primo curatore che vive e lavora nel Sud del mondo, questo comporta anche un’enorme responsabilità, almeno per quanto mi riguarda. È un senso di responsabilità che forse sento in maniera ancora più forte che non se fossi l’ennesimo curatore europeo che organizza una Biennale Arte1. Perciò non lo vedo come progetto personale o come progetto in cui attuare e realizzare una mia visione curatoriale. Penso invece ai tanti straordinari artisti del Sud del mondo che non hanno mai partecipato all’Esposizione Internazionale d’Arte, alle tante città e scene artistiche che non sono state esplorate dai precedenti curatori durante le loro ricerche2. Conosciamo bene l’enorme visibilità che la Biennale Arte porta a un artista e a un’opera d’arte, soprattutto in questi ultimi decenni, data l’ampia attenzione del pubblico e dei media e il ruolo centrale che l’evento svolge nel circuito globale dell’arte contemporanea. Si sente spesso parlare, o si legge, di un artista o di un’opera d’arte che sono stati esposti a Venezia – una pietra miliare che, all’interno della propria storia espositiva, rappresenta un imprimatur del mondo dell’arte – e questo ovviamente riflette la matrice eurocentrica del potere nel mondo dell’arte. Ho tenuto presente questo aspetto durante la mia ricerca per organizzare sia il Nucleo Contemporaneo che il Nucleo Storico che è il cuore storico della Biennale Arte 2024. È incentrato sul Modernismo del Sud del mondo, su artisti che hanno lavorato in Africa, Asia, Medio Oriente e America Latina nel XX secolo, periodo che di fatto rappresenta gran parte dell’arco storico della Biennale stessa, iniziata nel 1895. Ho quindi privilegiato artisti che non avevano mai partecipato all’Esposizione, o almeno che non vi avevano partecipato in questo secolo, e ho sviluppato un focus generale sul Sud del mondo nel quadro più ampio di Stranieri Ovunque – Foreigners Everywhere. Forse questo aspetto è più rilevante nel caso del Nucleo Storico, perché oggi per un artista che vive nel Sud del mondo è molto più attuabile partecipare al circuito internazionale di quanto non lo fosse durante gran parte del XX secolo. Anche i curatori europei e nordamericani sanno che al giorno d’oggi devono sviluppare una visione più globale e includere nei loro progetti artisti provenienti dalla nostra parte del mondo. Sebbene questa sia diventata una pratica comune a partire dalla fine degli anni Novanta e dall’inizio degli anni Duemila, non lo era nel XX secolo, per cui ci sono molti grandi artisti che devono ancora essere esposti ed esplorati più a fondo, artisti che magari sono figure importanti nel proprio Paese o nella propria regione, ma che non sono conosciuti a livello internazionale. Ecco perché, a mio avviso, il Nucleo Storico diventa così importante e davvero contemporaneo. Naturalmente il Nucleo Contempo­ raneo riveste un ruolo centrale nella Biennale Arte 2024 – occupando la maggior parte degli spazi delle Corderie dell’Arsenale e del Padiglione


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Centrale ai Giardini, oltre che delle aree aperte – con l’attenzione posta su quattro temi: lo straniero, il queer, l’outsider e l’artista indigeno. Io stesso nel corso della mia vita ho vissuto per molti anni come straniero. Sono ovviamente queer, il primo curatore apertamente queer nella storia della Biennale Arte. E provengo da un contesto in Brasile e in America Latina in cui gli artisti indigeni e gli artisti outsider o autodidatti – gli artista popular – sono estremamente importanti, anche se in passato sono stati spesso trascurati. Nel 2009 hai organizzato un’edizione di Panorama da Arte Brasileira, una mostra tradizionalmente incentrata sull’arte brasiliana, ma che, aspetto senza precedenti, includeva una rosa di artisti per lo più stranieri la cui pratica era legata al Brasile perché ci vivevano o perché i loro lavori si concentravano su questo Paese. Intitolata Mamõyguara Opá Mamõ Pupé (che in tupi antico significa proprio “Stranieri ovunque”, con riferimento all’opera di Claire Fontaine) questa mostra, come anche The Traveling Show a Città del Messico, da te curata l’anno successivo, sembrava mettere in risalto idee di mobilità, identità mutevoli e dissoluzione dei confini. Ora, dopo quasi quindici anni, nel rivisitare questi temi alla Biennale Arte con un titolo simile, qual è la tua visione dell’estraneità e del ruolo dello straniero nella tua pratica curatoriale? Circa dieci anni fa ero in visita alla Biennale. Avevo da poco co-curato (con Jens Hoffmann) la 12. Biennale di Istanbul del 2011 e continuavo a pensare a quanto fosse impegnativo sviluppare un tema e un concetto che si prestassero a una cornice interessante per una esposizione biennale. Mi sono anche ricordato le nostre difficoltà nel trovare un titolo per Istanbul. Ed è in questo contesto che è nata l’idea di Stranieri Ovunque – Foreigners Everywhere, ispirata al lavoro di Claire Fontaine, con cui avevo già lavorato a San Paolo, come hai ricordato, oltre che a The Traveling Show della Fundación Jumex nel 2010, e anche a Istanbul3. Ho quindi tenuto a mente il titolo per un possibile progetto italiano in futuro. Non mi aspettavo né avevo in programma di curare la Biennale Arte; era più che altro un esercizio curatoriale che avevo in mente in quel momento: “E se...”? A San Paolo, il contesto era molto diverso e ho affrontato alcune delle preoccupazioni che avevo riguardanti lo scenario locale, la crescente importanza della storia dell’arte brasiliana a livello internazionale (soprattutto in America Latina) e il modello stesso della mostra Panorama da Arte Brasileira un’importante, seppur locale, biennale dedicata all’arte contemporanea brasiliana organizzata dal Museu de Arte Moderna de São Paulo. In quell’occasione ho selezionato solo artisti non brasiliani la cui opera in qualche modo contenesse riferimenti brasiliani, con l’eccezione di Tamar Guimarães, un’artista brasiliana già attiva da tempo che però aveva sviluppato la propria carriera fuori dal Paese e che con noi esponeva per la prima volta in Brasile. La mia argomentazione era che molti artisti stranieri portavano nelle loro opere riferimenti brasiliani – come il neoconcretismo o l’architettura modernista brasiliana – che a loro volta parlavano dell’internazionalizzazione dell’arte brasiliana, nel senso che queste opere realizzate da stranieri potevano in qualche modo essere considerate “brasiliane”. Dopotutto, Panorama era dedicato all’ arte brasiliana e non agli artisti brasiliani, quindi ho cercato di


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mettere in discussione questi concetti e i confini di territorio e di nazionalità in modo provocatorio e speculativo. Inutile dire che la mostra è stata alquanto polemica. Per un’ipotetica Biennale Arte, una decina di anni fa pensavo che il principio guida potesse essere quello di includere solo artisti “stranieri”, il che di fatto poteva estendersi anche ai Padiglioni Nazionali4. Era piuttosto interessante che Claire Fontaine, un collettivo che è per metà italiano di nascita e ora ha sede a Palermo, non avesse mai partecipato alla Biennale. Il quadro complessivo, nonché il titolo Stranieri Ovunque, sono rimasti in fondo ai miei pensieri per tutti questi anni e sento che rimangono attuali e, anzi, sono diventati sempre più urgente, non solo in Italia e in Europa, ma in tutto il mondo. Il Nucleo Contemporaneo, che costituisce il cuore della Biennale Arte 2024, è costruito in modo affascinante attraverso “conversazioni” tra “stranieri” di varia natura, consentendo un’interpretazione fluida dell’idea stessa di straniero. Potrebbe spiegare meglio questi abbinamenti dinamici e indicare i momenti o le opere che costituiscono il cardine narrativo della Mostra? Ho visto tutte le edizioni della Biennale Arte a partire dal 1997, quando il curatore era Germano Celant, (avevo visitato anche l’edizione del 1990) e ho la sensazione che sia spesso “cacofonica”. C’è una gran moltitudine di artisti nelle Partecipazioni Nazionali e nell’Esposizione Internazionale, per non parlare degli Eventi Collaterali. Mi trovo spesso a riscontrare che i titoli e i contesti della Mostra non offrono molte indicazioni e appaiono poeticamente vaghi o onnicomprensivi, al punto da perdere la loro specificità e diventare piuttosto privi di significato o annacquati. Oppure trovo temi e concetti alquanto complessi e criptici che, pur essendo teoricamente fondati, non sono molto accoglienti nei confronti del pubblico. Naturalmente ci sono molti modi di condurre una curatela, come è giusto che sia, ma io ho adottato un approccio diverso. Sono più interessato a comunicare con un pubblico più vasto, soprattutto in un contesto come l’Esposizione Internazionale d’Arte, con centinaia di migliaia di visitatori, proprio come facciamo al Museu de Arte de São Paulo Assis Chateaubriand (MASP), di cui sono direttore artistico. Quindi, se si osservano i temi e i concetti del museo, che da anni esploriamo nella nostra serie di Histórias, si vedrà che sono piuttosto riconoscibili, pur essendo complessi e stratificati5. Mi sembra che questo sia anche il caso del titolo di questa edizione, Stranieri Ovunque – Foreigners Everywhere. Fin dall’inizio sono stato in contatto con Claire Fontaine per il progetto e ho deciso di avere un titolo bilingue, due lingue in dialogo tra loro. Pur essendo entrambe indoeuropee, l’italiano è una lingua romanza e l’inglese è una lingua germanica occidentale. In questo modo si riconoscono le sfumature associate alla traduzione e le specificità di ciascuna lingua si pongono una contrapposta all’altra. In questo quadro, il primo soggetto di interesse è, ovviamente, lo straniero: l’immigrato, l’emigrato, l’espatriato, il diasporico, l’esiliato e il rifugiato. Anche con questo obiettivo, però, era importante dare spazio agli artisti stranieri che lavoravano in modo più formale – ad esempio con l’astrazione o il linguaggio – al di là del tema della migrazione. Questo vale anche per gli altri temi di interesse della Mostra: gli indigeni, i queer e gli artisti outsider.


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Per molti anni, secondo quest’ottica, ho pensato che sarebbe stato sufficiente sviluppare un’intera mostra sul tema dello straniero. Tuttavia, nell’ottobre del 2022, quando ho iniziato il dialogo con l’allora Presidente della Biennale, Roberto Cicutto, ho cominciato a riflettere più seriamente sull’intero quadro e sullo stato attuale dell’arte contemporanea. Il tema della migrazione rimaneva molto attuale e, anzi, era diventato più pressante, soprattutto nella regione. Ho però anche pensato che sarebbe stato eccessivo, forse addirittura ridondante, incentrare una mostra di tale portata interamente sul tema dello straniero. Una biennale è cosa diversa da una mostra collettiva presso un’istituzione. Ha esigenze e peculiarità tutte proprie, almeno secondo me, e soprattutto a Venezia. Come ho detto, per me era importante evitare artisti che avevano già partecipato alla Biennale Arte, perché sono tanti i grandi artisti nel mondo che meritano questa visibilità. Volevo offrire questa opportunità ad artisti che non erano mai stati a Venezia, o che non avevano mai partecipato all’Esposizione Internazionale, o perlomeno non in questo secolo6. All’inizio dello sviluppo del progetto – sembra passato molto tempo, ma si tratta solo di poco più di un anno fa – mentre ne esaminavo la dimensione linguistica, continuavo a pensare a come avrei potuto allargare il tema dello straniero ad altri soggetti correlati. L’italiano straniero, il portoghese estrangeiro, il francese étranger e lo spagnolo extranjero sono tutti etimologicamente collegati rispettivamente allo strano, all’estranho, all’étrange, all’extraño, che è appunto lo straniero, l’estraneo. Viene in mente l’unheimliche di Freud, il perturbante in italiano, che in portoghese è stato tradotto come estranho, lo strano che è anche familiare7. Secondo i dizionari American Heritage e Oxford English, il primo significato della parola “queer” è proprio “strano”. È così che sono arrivato al secondo e più specifico argomento di interesse della Mostra: il soggetto queer. Si lega non solo alla mia esperienza di vita, ma anche a un interesse più ampio per coloro che sono stati esclusi, messi in secondo piano o emarginati dalle principali narrazioni dell’arte e della cultura moderna e contemporanea. L’artista outsider è un tema simile, strettamente legato all’artista autodidatta e alla figura del cosiddetto artista popular in Brasile e in America Latina. Infine, il quarto soggetto è l’indigeno, ancora una volta un soggetto importante nel mio Paese, spesso trattato come straniero nella propria terra. L’arte indigena ha un ruolo centrale nella Biennale Arte 2024: la prima opera che vedrete avvicinandovi al Padiglione Centrale ai Giardini è il grande murale dipinto dal collettivo MAHKU (Movimento dos Artistas Huni Kuin) che vive e lavora nella parte occidentale della regione amazzonica brasiliana e con cui collaboro ormai da dieci anni. Allo stesso modo nelle Corderie dell’Arsenale – nella grande, suggestiva sala che funge da preludio a quella parte della Mostra – la prima opera che si incontra è una potente installazione del collettivo māori Mataaho, intitolata Takapau. È un’opera che ho visto all’interno della retrospettiva del collettivo presso il Te Papa Museum di Wellington quando l’ho visitata a marzo. È per me molto significativo che due collettivi indigeni, provenienti da Aotearoa/Nuova Zelanda e dal Brasile, siano gli atti di apertura di Stranieri Ovunque – Foreigners Everywhere. In tutto il Padiglione Centrale, grazie allo straordinario allestimento in spazi distinti di diverse dimensioni, ho


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potuto instaurare dialoghi più stretti tra gli artisti e le loro opere. Così, per esempio, oltre a molte sale che raccolgono artisti legati da vincoli di sangue, c’è una sala incentrata sull’astrazione queer (con opere di Evelyn Taocheng Wang, Maria Taniguchi e Nedda Guidi) e un’altra dedicata ai paesaggi (con Aref El Rayess, Kay WalkingStick, Kim Yun Shin e Leopold Strobl). C’è una sala con due artisti che hanno fotografato sale cinematografiche gay in diversi contesti (Miguel Ángel Rojas a Bogotá negli anni Settanta e Dean Sameshima a Berlino negli anni Duemila) e un’altra che presenta artisti afrodiasporici di varie generazioni che hanno vissuto in Italia in vari momenti tra gli anni Sessanta e oggi (il compianto Rubem Valentim dal Brasile e Bertina Lopes dal Mozambico, oltre al giovane Victor Fotso Nyie dal Camerun, che vive a Faenza). Nelle Corderie dell’Arsenale lo spazio è più fluido, così come le sezioni. Anche in questo caso abbiamo gallerie dedicate ad artisti legati da vincoli di sangue, un’ampia sezione dedicata ai tessuti e un’altra grande sezione che riunisce artisti queer provenienti da svariate parti del mondo (Isaac Chong Wai, Bárbara Sánchez-Kane, Sabelo Mlangeni, Xiyadie, Ana Segovia, Erica Rutherford, Violeta Quispe, La Chola Poblete, Salman Toor, Puppies Puppies, Aravani Art Project, Joshua Serafin e ancora Dean Sameshima). Particolare attenzione è stata data agli spazi esterni, non solo all’Arsenale (dove si trovano opere di Lauren Halsey, Claire Fontaine, Beatriz Cortez, Anna Maria Maiolino, Taylor Nkomo e Leilah Babirye), ma anche ai Giardini (con opere di grandi dimensioni di Sol Calero, Iván Argote, Mariana Telleria e Rindon Johnson). Osservando il tuo percorso, compreso il tuo lavoro con Paulo Herkenhoff alla XXIV Bienal de São Paulo nel 1998 e con Ivo Mesquita nella mostra F[r]icciones al Museo Nacional Centro de Arte Reina Sofía (2000–2001), il tuo approccio curatoriale mette spesso in discussione il concetto di storia come qualcosa di univoco e lineare. Queste mostre presentavano opere di epoche e luoghi geografici diversi poste in dialogo tra loro per generare attriti che sostanzialmente hanno contribuito a smantellare l’idea unica di storia. Dal 2016, prosegui su questa linea al Museu de Arte de São Paulo Assis Chateaubriand (MASP), concentrandoti sulle “histórias” piuttosto che su un’unica “storia”. Puoi parlarci di come questo concetto si è sviluppato nella tua pratica curatoriale, soprattutto in preparazione della Biennale Arte 2024? Il mio sviluppo del concetto di “histórias” è iniziato nel 1996, quando ho realizzato un libro su Valeska Soares, in collaborazione con l’artista stessa, intitolato histórias in portoghese. Si trattava di un libro bilingue e il titolo aveva una traduzione volutamente lunga che appariva tra parentesi: “[A differenza del più limitato “histories” inglese, le “histórias” portoghesi, come le “histoires” francesi e le “historias” spagnole, possono identificare sia testi di finzione sia testi non di finzione, segnando così allo stesso tempo lo storico, l’aneddotico e il letterario.]”8. All’epoca ero molto interessato a modalità più sperimentali di scrittura d’arte, alle sovrapposizioni e agli attriti tra scrittura critica e scrittura creativa. C’era l’idea di scrivere non tanto direttamente sull’artista o sull’opera d’arte, quanto accanto a loro. Mi interessava anche il frammento, perché alla scuola d’arte avevo letto molto Roland Barthes, che per me


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rimane una figura importante. Nel libro di Valeska Soares ci sono molti frammenti e brevi testi: uno sotto forma di lettera, un altro come bibliografia. Nel 1997–1998 ho lavorato con Herkenhoff alla leggendaria XXIV Bienal de São Paulo, considerata l’edizione più importante della Bienal, come curatore aggiunto e direttore delle pubblicazioni9. È stato il mio primo vero incarico curatoriale (avevo organizzato un paio di altre mostre minori, scrivevo per Artforum, Frieze e altre riviste e all’epoca lavoravo come artista). Anche quella Bienal aveva un Núcleo Histórico, intitolato Antropofagia e Histórias de Canibalismos e in questo senso il mio progetto ora a Venezia si rifà a quell’edizione speciale della Bienal, con il Nucleo Storico che adesso, ventisei anni dopo, in qualche modo sviluppa diversamente quel Núcleo Histórico10. Quando ho iniziato a lavorare con Herkenhoff, il suo Núcleo Histórico era già completamente progettato e il mio unico, umile, contributo è stato quello di aggiungere la “s” a Histórias. “Antropofagia” è un termine chiave del Modernismo brasiliano e mondiale, sviluppato dallo scrittore Oswald de Andrade negli anni Venti. Offre una strategia o un quadro di riferimento attraverso cui osservare le relazioni tra Modernismo europeo e gli artisti e gli intellettuali che lavorano ai margini, o alla periferia, dell’Europa. L’antropofagia di de Andrade fa riferimento alla pratica cannibalistica degli indigeni tupinambá, i padri proto-brasiliani dell’appropriazione che mangiavano la carne dei loro nemici per acquisirne la forze e virtù11. Per l’intellettuale brasiliano moderno e contemporaneo, l’antropofagia può diventare uno strumento epistemologico produttivo e liberatorio, fedele alle nostre origini indigene. Molti artisti dell’America Latina, dell’Africa e dell’Asia si recarono a Londra, Parigi, Roma e in altre capitali europee nel XX secolo e si appropriarono o “divorarono” diversi elementi del Modernismo o degli stili e dei generi europei, spesso fondendoli con i propri riferimenti indigeni o nativi e quindi reinventando e rinvigorendo le fonti originali. In questo senso, l’antropofagia, a mio avviso, è ancora un quadro interessante (anche se ovviamente non l’unico) per esaminare le produzioni artistiche del XX secolo nel Sud del mondo. F[r]icciones è effettivamente una mostra importante nel mio percorso e in essa ho potuto sviluppare ulteriormente l’idea di fondere diverse histórias: storia e letteratura, arte visiva e testo. Il titolo della mostra fa riferimento al testo fondamentale di Jorge Luis Borges, Ficciones, pubblicato per la prima volta in spagnolo nel 1944, che di per sé cancella i confini tra narrativa e saggistica. In modo piuttosto borgesiano, c’era un sottile gioco di parole nella descrizione del progetto stampata sulla copertina e sul frontespizio del catalogo, in cui si affermava che era la mostra ad accompagnare il volume, e non il contrario12. Ci sono alcuni elementi già presenti in F[r]icciones che ricompaiono in altri miei progetti, compreso questo stesso catalogo. Per esempio, l’idea di una conversazione tra i curatori della mostra, al posto di un saggio curatoriale, è nata prima in F[r]icciones con Mesquita e poi nel catalogo della Biennale di Istanbul con Hoffmann13. L’uso di frammenti sparsi per il libro è cosa alquanto barthesiana, uno strumento che ho usato per la prima volta nel catalogo del Núcleo Histórico della XXIV Bienal de São Paulo nel 1998 e di nuovo nel catalogo della mostra Histórias Mestiças (storie meticce), che ho co-organizzato con Lilia Moritz Schwarcz nel 201414. E sono presenti anche in questo volume.


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La sala dedicata ai ritratti era presente anche in F[r]icciones, con personaggi latinoamericani di etnie, generi, provenienze, geografie ed epoche diverse, provenienti da Argentina, Brasile, Bolivia, Cile, Messico e Caraibi. La sezione dei ritratti ritorna in Histórias Mestiças e al MASP in Histórias afro­atlânticas e in Histórias brasileiras. Guardando indietro, mi accorgo di come io impieghi costantemente determinati modelli e strategie che diventano poi un segno del mio lavoro. Modelli e strategie che allo stesso tempo cerco anche di riconfigurare, sperando di dare loro un nuovo senso e significato in contesti e progetti diversi nel corso degli anni. Vorrei anche citare la mostra che ho organizzato al Museu de Arte Moderna de São Paulo nel 2012 sull’opera di Adriana Varejão, intitolata Histórias às margens (storie ai margini). Con questo progetto, l’idea di histórias è apparsa per la prima volta nel titolo della mostra. Eppure, ciò che sta veramente dietro le histórias è la comprensione del fatto che non possiamo mai essere davvero certi, definitivi, autorevoli, onnicomprensivi, che le interpretazioni e i significati sono molteplici, diversi, sovrapposti e talvolta contraddittori e che si muovono nel tempo e nello spazio, da un punto di vista a un altro. È ampiamente accettato che dobbiamo abbandonare la narrazione prevalente – che è stata, ovviamente, dominata dagli europei e dagli statunitensi, sia come protagonisti (gli artisti e le opere d’arte che hanno creato), sia come autori – in cui tutto si incastra in modo ordinato, per tempi e luoghi. Quando ora esaminiamo il Sud del mondo, il panorama è molto più variegato. Ci sono molte geografie e cronologie diverse. È tutto molto eterogeneo, plurale, polifonico, con una “qualità asimmetrica e disordinata”, per usare le parole dello storico dell’arte indiano Partha Mitter, ma anche molto vitale e stimolante15. Il tema della cronologia è centrale, poiché bisogna essere aperti a cornici temporali più flessibili nel Sud del mondo del XX secolo, in quanto esistono contesti e processi molto diversi che non possono essere unificati né sincronizzati. Per questo motivo il Nucleo Storico comprende opere che vanno dagli anni Dieci del Novecento (di artisti latinoamericani come Diego Rivera, Roberto Montenegro, Emilio Pettoruti, Carlos Mérida e Anita Malfatti) agli anni Ottanta (di artisti africani, come Dumile Feni, Lucas Sithole e Twins Seven Seven, e di un artista giamaicano, Barrington Watson) e persino un’opera del 1990 (di Josiah Manzi dello Zimbabwe). Non c’è più un solo Modernismo, come non c’è più una sola storia dell’arte, ma molteplici versioni, ognuna con le proprie inflessioni locali, narrazioni, testimonianze e specificità del luogo16. In una delle nostre conversazioni, hai descritto il Nucleo Storico come spazio transnazionale, dove l’idea di “Modernismo” è plurale, dinamica e mobile come gli artisti rappresentati. Questo sembra particolarmente rilevante per la sezione dedicata alla diaspora italiana all’Arsenale. Può spiegarci come questa sezione rifletta il movimento e l’influenza degli artisti italiani e come il concetto di straniero si manifesti nella loro produzione artistica? La terza sezione del Nucleo Storico è dedicata alla diaspora italiana, soprattutto nel Sud del mondo, ma non solo. Con questa sezione in particolare ho voluto mostrare come gli italiani


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si siano recati all’estero e abbiano partecipato alle storie artistiche locali al di là dei propri confini, soprattutto nel Sud del mondo. Dopotutto, sono un curatore di quell’area geografica con un’attenzione particolare a questa vasta regione; tuttavia, visto che sto sviluppando un progetto in Italia, ho sentito il bisogno di proporre un approccio che tenesse in considerazione la scena artistica locale e le storie dell’arte, ma da una prospettiva differente. In quanto straniero, osserverò il tutto con sguardo diverso, che è anche fedele alla mia storia personale e al mio contesto. Anche se non ho origini italiane, vivo a San Paolo, in Brasile, una città e un Paese che ospitano la più grande diaspora italiana del mondo. Inoltre, lavoro al MASP, un museo con una forte impronta italiana: il nostro direttore fondatore, l’italiano Pietro Maria Bardi, ha guidato il museo per quarantacinque anni, acquisendo molti capolavori italiani per la collezione, da Raffaello e Tiziano a Modigliani (e durante il mio mandato abbiamo acquisito un’opera di Giulia Andreani, artista presente a questa Biennale Arte). Pietro era sposato con Lina Bo Bardi, la straordinaria architetta romana che ha progettato l’edificio del MASP, nonché molti dei primi allestimenti, e ha lavorato come curatrice in alcune delle mostre più importanti del museo. Bo Bardi – alla quale nel 2021 è stato assegnato il Leone d’Oro speciale alla memoria e che è una delle figure più iconiche della diaspora italiana nel mondo – è presente anche in questa sezione, che ho intitolato Italiani Ovunque – Italians Everywhere poiché le opere sono installate sui suoi iconici cavalletti di vetro, un dispositivo ben noto nella storia degli allestimenti museali. Vorrei precisare che hanno collaborato alla Biennale Arte 2024, affiancandomi nell’organizzazione artistica: Amanda Carneiro, brasiliana, che ha lavorato con me al Nucleo Contemporaneo, e Sofia Gotti, italiana, con la quale mi sono occupato del Nucleo Storico e che è stata particolarmente impegnata nella ricerca sulla diaspora italiana di questa sezione. Nel Padiglione Centrale sono state collocate due sezioni del Nucleo Storico, che sembrano fornire una base per le opere contemporanee esposte sia nel Padiglione Centrale che all’Arsenale. Puoi spiegarci in che modo queste sezioni storiche si relazionano con le opere contemporanee? Nel Nucleo Contemporaneo ci sono certamente artisti che lavorano con l’astrazione e con la figura umana e, naturalmente, ci sono anche molti artisti del Sud del mondo. Ma il Nucleo Storico non vuole essere la base strutturale del Nucleo Contemporaneo. Ciò che li accomuna è proprio il concetto di straniero, di strano, di altro, nonché l’attenzione al Sud del mondo. Una mostra non dovrebbe essere tradotta in numeri, ma questa è già l’Esposizione Internazionale d’Arte con il maggior numero di artisti provenienti dall’Asia, dall’Africa, dal mondo arabo e dall’America Latina, oltre ad artisti queer e indigeni. Insieme agli ovvi leitmotiv dello straniero, del queer, dell’outsider e dell’indigeno, il Nucleo Contemporaneo porta con sé una serie di altri temi che non facevano parte delle premesse curatoriali, ma che in modo sorprendente sono emersi organicamente nel corso della ricerca. Uno di questi è l’uso dei tessuti che troviamo nelle opere di Agnès Waruguru, Ahmed Umar, Anna Zemánková, Antonio Jose Guzman e Iva Jankovic, le Bordadoras de Isla Negra, Bouchra Khalili, Claudia Alarcón, Dana Awartani, Frieda Toranzo Jaeger, Güneş Terkol, Kang Seung Lee, Liz Collins, Mataaho Collective, Nour Jaouda,


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INTERVISTATO DA JULIETA GONZÁLEZ

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Pacita Abad, Paula Nicho, Ṣàngódáre Gbádégẹsin Àjàlá, Shalom Kufakwatenzi, Susanne Wenger, Yinka Shonibare, nonché delle arpilleristas cilene. I tessuti sono presenti anche nelle opere di alcuni artisti del Nucleo Storico: Bona Pieyre de Mandiargues e Gianni Bertini in Italiani Ovunque – Italians Everywhere, e Olga de Amaral, Eduardo Terrazas e Monika Correa in Astrazioni. Queste opere rivelano un interesse per l’artigianato, la tradizione, il fatto a mano e per le tecniche a volte considerate altre o estranee, outsider o strane, nel campo e nella pratica delle belle arti. Un secondo motivo è la famiglia di artisti, molti dei quali indigeni, come Andrés Curruchich e la nipote, Rosa Elena, dal Guatemala; Abel Rodríguez e il figlio Aycoobo dalla Colombia; Fred Graham e il figlio Brett, artisti māori di Aotearoa/Nuova Zelanda; Juana Marta Rodas e la figlia Julia Isídrez dal Paraguay; MAHKU, il collettivo Huni Kuin i cui componenti fanno parte della stessa famiglia brasiliana; Santiago Yahuarcani e il figlio Rember dal Perù; Susanne Wenger e il figlio adottivo Ṣàngódáre Gbádégẹsin Àjàlá dalla Nigeria; Joseca Mokahesi e André Taniki del popolo yanomami, della stessa famiglia di artisti brasiliani; i fratelli Philomé e Sénèque Obin da Haiti; e Jewad e Lorna Selim, marito e moglie dall’Iraq e dal Regno Unito. Anche in questo caso, la tradizione gioca un ruolo importante nella trasmissione delle pratiche di conoscenza da padre o madre a figlio o figlia, così come tra fratelli e parenti. In che modo la Biennale Arte contribuisce a reimmaginare o ricontestualizzare la storia dell’arte del XX secolo, soprattutto per quanto riguarda gli artisti provenienti da regioni storicamente emarginate? Potresti parlarci del contrasto in termini di visibilità tra gli artisti contemporanei del Sud del mondo e le loro controparti del XX secolo? Inoltre, in che modo la Biennale Arte agisce come piattaforma per riesaminare e potenzialmente riscrivere le narrazioni riguardanti il contributo di questi artisti alla storia dell’arte moderna? Direi che è più facile per un osservatore europeo o statunitense riconoscere gli artisti del Sud del mondo contemporanei che una figura del XX secolo proveniente da quella stessa area. Questo perché, a partire dalla fine degli anni Novanta e dall’inizio degli anni Duemila, gli artisti contemporanei della nostra parte del mondo hanno acquisito una maggiore visibilità: se non tutti, almeno alcuni di loro viaggiano ed espongono in musei, gallerie e biennali. Tuttavia, anche diversi musei stanno lentamente cercando di correggere queste lacune del Novecento. Ricordo le recenti mostre monografiche dedicate a Raza al Centre Pompidou di Parigi; o a Ibrahim El-Salahi, Fahrelnissa Zeid, Bhupen Khakhar e Saloua Raouda Choucair alla Tate di Londra; a Margarita Azurdia al Museo Nacional Centro de Arte Reina Sofía di Madrid; a Tarsila do Amaral al Museum of Modern Art di New York e all’Art Institute di Chicago, e altre ancora. Anche alcuni artisti brasiliani del dopoguerra hanno goduto di notevole visibilità, e figure chiave del XX secolo come Lygia Clark, Hélio Oiticica e Lygia Pape sono state oggetto di innumerevoli mostre personali in Europa e negli Stati Uniti negli ultimi decenni, motivo per cui non sono state incluse nel Nucleo Storico. Da questo punto di vista, stiamo vivendo tempi molto stimolanti nel campo della storia dell’arte del XX secolo, mettendo in discussione e riscrivendo le narrazioni relative all’arte del passato per includere opere e territori che sono stati a lungo


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emarginati. Ci sono molti seminari, conferenze e pubblicazioni sui modernismi globali, sui modernismi multipli, sui modernismi alternativi e sul Modernismo nel Sud del mondo, nonché su arte e globalizzazione e su arte e decolonizzazione, ma non così tante mostre come sarebbe auspicabile17. In questo contesto, volevo in qualche modo offrire una correzione speculativa a questa situazione, ma anche una provocazione, e questa è la motivazione principale alla base del Nucleo Storico. Vi partecipano circa duecento artisti – molti dei quali figure chiave nei propri contesti locali – che sono stati ignorati dalla Biennale per molti anni. Conosciamo bene la storia del Modernismo in Europa e negli Stati Uniti. Quelli di noi che provengono dal Sud del mondo magari conoscono la storia dei modernismi nei nostri Paesi, e forse nelle nostre regioni o continenti. Tuttavia, abbiamo meno familiarità con quelli di altre zone del Sud del mondo. C’è ancora molto lavoro da fare, tanti meravigliosi artisti del XX secolo di questa area geografica che hanno bisogno di essere conosciuti, studiati ed esposti. Concretamente, avrei bisogno di un team di dieci curatori e di un periodo di ricerca di cinque anni per mettere insieme una mostra completa che copra questo vasto territorio e periodo di tempo. Tuttavia, esploro questo materiale da oltre un decennio attraverso i miei viaggi e le mie ricerche, e la Biennale Arte offre questa incredibile opportunità di presentare un saggio, una bozza, una proposta speculativa su un tema così ampio. Quest’anno ho viaggiato molto, spesso tornando in luoghi che già conoscevo. È più facile per me tornare a Buenos Aires, Beirut, Singapore, Bogotá, Istanbul, Santiago, Johannesburg o Città del Messico e ampliare la mia ricerca per selezionare artisti e opere per questa sezione. Devo riconoscere che ho avuto la fortuna di poter contare sul generosissimo aiuto di tanti colleghi in diverse parti del mondo per questa ricerca. Naturalmente ci saranno delle lacune e dei vuoti, ma spero che questo apra la possibilità ad altri di raccogliere nuove informazioni e magari di ampliarle e portarle altrove. In una nostra precedente conversazione, hai parlato di “ritratti” e “astrazioni” come principi organizzativi del Nucleo Storico. In che modo questi raggruppamenti tematici contribuiscono al dialogo su identità e modernità? Inoltre, in che modo sfidano il tradizionale canone estetico occidentale e portano alla luce storie e identità represse, soprattutto considerando che questi generi sono pietre miliari della storia dell’arte occidentale e moderna? Sta pensando a una storia che forse deve ancora essere scritta? In che modo questa Biennale Arte scrive questa storia? Come già accennato, la mia premessa era che le storie dei modernismi del Sud del mondo sono in gran parte sconosciute, eppure sono di rilevanza contemporanea. È come se stessimo scoprendo tanti nuovi artisti e territori straordinari che dobbiamo mappare e integrare in nuove narrazioni del XX secolo, più aperte, pluraliste e diverse. Anche se questo potrebbe essere un compito impossibile, sicuramente lungo il cammino impareremo e porteremo alla luce qualcosa. In questo processo, non posso aspirare a offrire una cronologia e un quadro interamente articolati, completi di antecedenti e predecessori, rotture e continuità. In effetti, dubito che riusciremo mai a raggiungere questo obiettivo in senso veramente globale.


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D’altro canto, molte storie locali sono già oggetto di studio all’interno dei propri contesti. Molti di questi artisti sono figure canoniche nei loro Paesi e sono al centro di importanti ricerche in patria. Tuttavia, salvo poche eccezioni, rimangono relativamente sconosciuti a livello internazionale. E soprattutto, questi artisti non sono adeguatamente messi a confronto, giustapposti o messi in dialogo con i loro pari in carne e ossa del Sud del mondo. È questo che può fare una mostra – più di studi accademici, articoli, libri e seminari – ed è questo ciò che avevo in mente. Vorrei citare due mostre a titolo di esempio. La prima è Modernités plurielles, 1905­1970 di Catherine Grenier, un riallestimento della collezione del Centre Pompidou di Parigi inaugurato nel 2015. È stata un’impresa imponente che ha attinto dalle collezioni statali francesi ed è stata molto stimolante, ma se dovessi proporre una critica, riguarderebbe la scarsa presenza del Modernismo africano. La seconda è la straordinaria mostra di Okwui Enwezor Postwar: Art between the Pacific and the Atlantic, 1945­1965 alla Haus der Kunst di Monaco nel 2017, che aveva aspirazioni globali sia dal Nord che dal Sud. È riuscita a riunire, in un modo senza precedenti, artisti provenienti da sessantacinque Paesi, molti dei quali sono presenti di nuovo qui a Venezia. Enwezor ha avuto molto più tempo di me e ha offerto molte costellazioni intorno a temi e concetti diversi. Concentrandosi su due soli decenni, ha potuto ottenere una maggiore concentrazione e profondità. Io stesso ho proposto due criteri piuttosto semplici e diretti che mi hanno permesso di riunire tante opere disparate provenienti da diverse parti del mondo. È così che sono arrivato all’astrazione e alla figura umana, le due sezioni del Nucleo Storico ai Giardini. Queste sezioni ovviamente sfidano il canone occidentale, è la loro ragion d’essere. Tuttavia, non sto cercando di proporre nuovi formati o modelli. Anzi, in realtà mi interessa vedere come questi generi tradizionali del ritratto e dell’astrazione – che, come dici, sono pietre miliari della storia dell’arte occidentale e moderna – siano stati cannibalizzati, appropriati e sovvertiti nel Sud del mondo. Direi che nei ritratti o nelle rappresentazioni della figura umana la questione dell’identità emerge con forza, soprattutto perché la maggior parte dei ritratti sono di personaggi non bianchi e non europei: esprimono in qualche modo la propria identità, o l’identità che l’artista ha ricreato per loro. Proprio a Venezia, sarete circondati da più di cento di queste opere, molte delle quali vi fisseranno, e credo che sarà un’esperienza molto forte. Vedremo. D’altronde, è importante tenere presente che il Nucleo Storico è un saggio, una bozza, una provocazione, un esercizio curatoriale speculativo che cerca di mettere in discussione i confini e le definizioni del Modernismo. Formalmente, in termini di struttura della mostra, mi ispiro al Nucleo Histórico della Bienal de São Paulo del 1998, e questo è uno dei motivi per cui ho deciso di mantenere i nomi italiani delle sezioni, in quanto evocano il mio portoghese. Ma mi rifaccio anche alla serie di mostre collettive che abbiamo ideato nella Biennale di Istanbul del 2011, così come alle meravigliose capsule temporali di Cecilia Alemani del 2022. Il Nucleo Storico non è una proposta definitiva, ma un punto di partenza. Speriamo di imparare guardando le opere dal vivo, tutte sotto lo stesso tetto, in dialogo tra loro. Poi, forse, altri potranno proporre nuovi formati, modelli, generi e cornici.


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Io non ho una istruzione formale in storia dell’arte, il che forse mi permette di muovermi più liberamente sul campo. Ho studiato legge ed economia a Rio de Janeiro e poi mi sono laureato al California Institute of the Arts, dove ho conseguito un MFA nel programma artistico e nel programma di scrittura critica. Mi ritengo un outsider della storia dell’arte: un curatore autodidatta, per così dire, e un allestitore che ha un background da artista. In questo senso, ho un rapporto piuttosto diverso con l’arte e gli artisti, ed è da qui che nasce il mio profondo legame con gli oggetti, le mostre e i libri. È per questo motivo che spesso adotto un approccio più speculativo – che è anche una dimensione chiave del programma Histórias al MASP – e richiamo l’attenzione sull’importanza cruciale di vedere, sperimentare e imparare dagli artisti, dalle opere e dalle mostre nella vita reale. C’è una questione che vorrei affrontare. Ho parlato dei modernismi del Sud del mondo, ma questo potrebbe non essere sempre l’approccio migliore. A un esame più attento, potremmo trovare alcuni problemi e critiche riguardanti l’uso del termine e la sua applicazione che sono inestricabilmente coloniali. Vi faccio un esempio. Secondo lo storico dell’arte James Elkins, che si è occupato di molti di questi dibattiti, un artista eccezionale come l’indiano Jamini Roy non è “necessario al Modernismo”, mentre la brasiliana Tarsila do Amaral è “in definitiva [un’] artista marginale, opzionale del Modernismo”18 (sono entrambi artisti presenti nel Nucleo Storico). Se si pensa al Modernismo nella sua configurazione originale euro-americana, ovviamente gli artisti indiani e brasiliani non vi rientrano. Saranno percepiti come versioni pallide, locali, opzionali, non necessarie e marginali del modello principale. Ma non sono d’accordo con Elkins; anzi, sono più interessato a imparare da Roy e do Amaral in che modo si sono appropriati e hanno rielaborato gli idiomi modernisti, infondendoli di elementi indigeni locali provenienti dai propri contesti e dal proprio immaginario. Anche se non sono artisti “necessari” all’interno di un concetto tradizionale di Modernismo, lo sono e molto per la storia dell’arte. Bisogna quindi essere aperti ad accettare una visione più pluralista, eterogenea, conflittuale e diversa dei modernismi. Ciò che mi turba è leggere qualcuno come Elkins rifiutare do Amaral e Roy, come se stessimo cercando di entrare nel club dei modernisti in cerca di un determinato riconoscimento. Sono convinto che una delle aree più interessanti di questo ambito di ricerca siano le diverse versioni e i differenti sviluppi del Modernismo nel Sud del mondo, che spesso apportano caratteristiche, storie e contesti locali unici, non riscontrabili nelle versioni originali euro-americane. L’arte è spesso legata al contesto in cui viene prodotta e, anche se non riflette esattamente quel contesto, in qualche modo lo media e lo elabora. Credo che oggi ci sia un forte desiderio di imparare di più da questi contesti presenti nel Sud del mondo, forse anche di più che da Parigi, Londra, Roma e New York, che già conosciamo bene. Ed è forse per questo che sono stato scelto per organizzare l’Esposizione Internazionale d’Arte di quest’anno.


NOTE

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Il compianto, grande Okwui Enwezor (1963–2019) è stato il curatore dell’edizione 2015. Pur essendo nato nel Sud del mondo, in Nigeria, ha vissuto a New York e a Monaco, dove è stato direttore della Haus der Kunst.

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Mi hanno detto che sono stato il primo curatore della Biennale a visitare città come Harare, Nairobi, Luanda, Asunción, La Paz, Santo Domingo, Città del Guatemala, Giacarta, Manila e altre.

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Si veda A. Pedrosa, The Traveling Book, Ciudad de Mexico, Fundación Jumex, 2010.

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In qualità di Direttore Artistico della Biennale Arte 2024, non ho alcuna voce in capitolo sulle scelte dei Padiglioni Nazionali, che sono fatte autonomamente dai rispettivi Paesi; essi possono decidere di seguire o meno il tema dato. Tuttavia, è interessante notare che molti Paesi hanno scelto artisti in qualche modo allineati con il tema della Biennale. Gli artisti indigeni sono presenti nei padiglioni australiano (Archie Moore), brasiliano (Renata Tupinambá), statunitense (Jeffrey Gibson) e canadese (Kapwani Kiwanga). Altri Padiglioni ospitano artisti stranieri o provenienti da ex colonie europee, come Anna Jermolaewa per l’Austria, Guerreiro do Divino Amor per la Svizzera, John Akomfrah per la Gran Bretagna, Julien Creuzet per la Francia, Sandra Gamarra per la Spagna e Yael Bartana per la Germania.

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Il programma Histórias del MASP – un intero anno di mostre, seminari, conferenze, libri e workshop – include Storie dell’infanzia (2016), Storie della sessualità (2017), Storie afro-atlantiche (2018), Storie di donne, Storie femministe (2019), Storie della danza (2020), Storie brasiliane (2022), Storie indigene (2023) e Storie queer (2024). Sono infatti solo quattro gli artisti del Nucleo Contemporaneo che hanno partecipato all’Esposizione Internazionale nel XXI secolo – Anna Zemánková, Bouchra Khalili, Superflex e Teresa Margolles – e tutti sono sembrati piuttosto essenziali per la Mostra. Filippo de Pisis, Greta Schödl e Rubem Valentim hanno partecipato alla Biennale nel XX secolo. Beatriz Milhazes e Mariana Telleria hanno partecipato ai Padiglioni Nazionali e Iván Argote, Kiluanji Kia Henda e Yinka Shonibare hanno partecipato agli Eventi Collaterali.

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Sigmund Freud, Il perturbante, in Opere Complete, vol. 9, a cura di Cesare Musatti, Torino, Bollati Boringhieri, 1966–1980.

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V. Soares, A. Pedrosa, histórias: Valeska Soares, São Paulo, Galeria Camargo Vilaça, 1996.

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È spesso inclusa nei libri e nelle serie dedicate alle mostre più importanti del XX secolo. Si veda ad esempio Biennials and Beyond: Exhibitions that Made Art History, 1962­2002, a cura di B. Altshuler, London, Phaidon Press, 2013; Cultural Anthropophagy: The 24th Bienal de São Paulo, 1998, a cura di L. Lagnado, P. Lafuente, London, Afterall Books, 2015.

10 La XXIV Bienal de São Paulo (1998), a cui ho lavorato come curatore aggiunto con il curatore capo Paulo Herkenhoff, ha introdotto l’antropofagia nel dibattito internazionale, proponendola come strumento con cui osservare l’arte contemporanea e la storia dell’arte attraverso la mostra e le sue pubblicazioni. Cfr., XXIV Bienal de São Paulo, catalogo della mostra, a cura di P. Herkenhoff, A. Pedrosa, 4 voll., São Paulo, Fundação Bienal de São Paulo, 1998. 11 O. de Andrade, Anthropophagite Manifesto, pubblicato originariamente nella “Revista de Antropofagia”, 1, n. 1 (maggio 1928). Tradotto da Adriano Pedrosa e Veronica Cordeiro in XXIV Bienal de São Paulo: Núcleo Histórico: Antropofagia e histórias de canibalismo, catalogo della mostra, a cura di P. Herkenhoff, A. Pedrosa, São Paulo, Fundação Bienal de São Paulo, 1998. In italiano, in La cultura cannibale. Oswald de Andrade: da Pau­Brasil al Manifesto antropofago, a cura di E. Finazzi Agrò, M.C. Pincherle, Milano, Meltemi, 1999. 12 F[r]icciones, catalogo della mostra, a cura di A. Pedrosa, I. Mesquita, Madrid, Museo Nacional Centro de Arte Reina Sofía, 2000. 13 A. Pedrosa, I. Mesquita, Plática, in F[r]icciones, cit., pp. 213-217; A. Pedrosa, J. Hoffmann, Critical Aesthetics—A Conversation between Adriano Pedrosa and Jens Hoffmann, in Untitled (12th Istanbul Biennial): The Catalogue, catalogo della mostra, a cura di A. Pedrosa, J. Hoffmann, Istanbul, Istanbul Kültür Sanat Vakfi, 2011, pp. 82-101. 14 XXIV Bienal de São Paulo: Núcleo Histórico: antropofagia e histórias de canibalismos, cit.; Histórias mestiças: Catálogo, catalogo della mostra, a cura di A. Pedrosa, L. Moritz Schwarcz, Rio de Janeiro, Cobogó, 2015. 15 P. Mitter, Decentering Modernism: Art History and Avant­Garde Art from the Periphery, in “The Art Bulletin”, 90, n. 4, 2008, p. 540. 16 Si veda il mio History, “Histórias”, spesso pubblicato in versione rivista o aggiornata nei nostri cataloghi Histórias al MASP. Ad esempio, in Afro­Atlantic Histories, a cura di A. Pedrosa, T. Toledo, São Paulo, Museu de Arte de São Paulo Assis Chateaubriand, 2021, pp. 21-25.

17 Si veda ad esempio Alternative Modernities, a cura di D. Parameshwar Gaonkar, Durham, Duke University Press, 2001; Cosmopolitan Modernisms, a cura di K. Mercer, Cambridge (MA), MIT Press, 2005; Elaine O’Brien et al., Modern Art in Africa, Asia, and Latin America: An Introduction to Global Modernisms, Chichester, West Sussex, Wiley-Blackwell, 2013; Art and Its Global Histories: A Reader, a cura di D. Newall, Manchester, Manchester University Press, 2017; Mapping Modernisms: Art, Indigeneity, Colonialism, a cura di E. Harney, R. Phillips, Durham, Duke University Press, 2018. 18 Art and Globalization, a cura di J. Elkins, Z. Valiavicharska, A. Kim, University Park, Pennsylvania University Press, 2010, pp. 120, 122.


LA TORTURA È LA RAGIONE, IN BIOPOLITICA E LIBERALISMO. DETTI E SCRITTI SU POTERE ED ETICA 1975-1984, A CURA DI OTTAVIO MARZOCCA, MILANO, MEDUSA, 2001, PP. 95-96.

È un bel sogno che molti condividono: dare la parola a chi non ha potuto finora parlare, a chi è stato costretto al silenzio dalla storia, la cui bocca è stata chiusa dalla violenza della storia e da tutti i sistemi di violenza e sfruttamento. Sì. Ma [...] quelli che sono stati sconfitti [...] sono per definizione quelli a cui è stata tolta la parola! Eppure, se parlassero, non parlerebbero la loro lingua. È stata imposta loro una lingua straniera, non sono silenziosi.

MICHEL FOUCAULT



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FREMMEDE OVERALT

Adriano Pedrosa

intervistati da

Claire Fontaine

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CLAIRE FONTAINE

INTERVISTATI DA ADRIANO PEDROSA

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Vorrei iniziare dalle origini: come è nato il vostro interesse per l’arte, come vi siete incontrati, come avete iniziato a lavorare insieme, e come è nata Claire Fontaine, qual è il suo significato e come la definite? Quando ci siamo conosciuti nel 2003, eravamo già professionalmente impegnati nel mondo dell’arte. Insegnavamo anche in una scuola d’arte nel nord della Francia. Il nostro interesse per l’arte ha origini molto diverse: per James risale all’infanzia, lui ha sempre voluto essere un artista. Ha frequentato prima la Free International University creata da Joseph Beuys ad Amburgo e poi la Glasgow School of Art per la laurea e l’MFA; ha iniziato a esporre le sue opere nel 1993. Fulvia ha studiato filosofia all’Université Paris 8 e ha cofondato la rivista Tiqqun a Parigi nel 19981. Ha rifiutato il più a lungo possibile qualsiasi identificazione professionale, ma alla fine degli anni Novanta ha iniziato a lavorare con amici artisti, fino a quando la collaborazione con Claire Fontaine non è diventata totalizzante. Claire Fontaine è nata da un bisogno di libertà: prima di tutto la libertà dal dover fare ciò che ci si aspettava da noi. Uno degli insegnamenti più stimolanti del movimento femminista italiano degli anni Settanta è l’idea di rifiutare l’immagine che gli altri proiettano su di noi; una bellissima citazione tratta da Sexual Difference, a Socio­ Symbolic Practice che utilizziamo spesso è: “Non credevamo in quello che dicevano di noi”2. Le persone sono costantemente private della possibilità di sperimentare perché temono la reazione dei loro cari o di quelli da cui dipendono. Il rifiuto di questo ricatto distruttivo è quello che chiamiamo “sciopero umano”, di cui abbiamo ampiamente scritto3. Il lavoro di Claire Fontaine è un tentativo di presentare a chi osserva pensieri ed emozioni che spesso vengono espulsi dalla vita quotidiana; vogliamo proteggere dall’estinzione i sentimenti e le forme che ci permettono di abitare un certo livello di realtà. Ci auguriamo che, quando le persone si trovano di fronte al nostro lavoro, sentano di poter estendere la portata della loro creatività a nuovi spazi, alla loro vita, alle loro relazioni. Come scrive Gilles Deleuze in Proust e i segni “chi può sapere come uno scolaro diventa improvvisamente ‘bravo in latino’, quali segni (eventualmente quelli dell’amore o anche quelli inammissibili) hanno fatto il suo apprendistato? Non impariamo mai dai dizionari che ci prestano i nostri insegnanti o i nostri genitori”4. Sappiamo che le opere di Claire Fontaine contengono germi di qualcosa, germi che ci mantengono vivi e speranzosi, che stanno salvando qualcuno o qualcosa. Con chi sto parlando? Con Fulvia Carnevale, James Thornhill, entrambi, o sto parlando con Claire Fontaine? Se Fulvia e James sono gli assistenti di Claire Fontaine, quest’ultima può essere considerata in qualche modo un’invenzione? D’altra parte, il vostro lavoro ha, ovviamente, motivazioni e messaggi politici molto forti, anche se spesso duplici, poetici o con numerosi significati. Voi ovviamente avete scelto queste strategie in modo molto attento e deliberato, e di certo avete riflettuto sulla domanda che spesso mi pongo: se la qualità ambigua e poetica di un lavoro con un forte contenuto politico ne comprometta la precisione e l’efficacia, o addirittura lasci spazio a interpretazioni errate. In passato ci sono stati fraintendimenti o appropriazioni del vostro lavoro che vi hanno turbato?


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Sicuramente sta parlando a entrambi. Quando parliamo con le persone o rilasciamo interviste, non stiamo giocando, siamo di una sincerità disarmante. Non c’è alcun segreto su di noi o sulla nostra prassi creativa. Diciamo spesso che chiamarci Claire Fontaine è più corretto che usare entrambi i nostri nomi, perché Claire Fontaine è un terzo spazio, uno spazio di desoggettivazione, dove possiamo espandere la nostra coscienza e affrontare senza paura le complessità. Questa distanza tra noi come persone e le opere d’arte che realizziamo non è disonestà o irresponsabilità, è lo spazio in cui si è insediata la modernità. Fin dalla nascita delle avanguardie, l’autore come “funzione” è sempre in crisi (l’Intelligenza Artificiale ha recentemente accelerato il processo). Chi era un autore fino a poco tempo fa? Un uomo bianco proveniente da una posizione sociale dominante. La finzione liberista dell’“unicità dell’individuo”, indipendentemente dal genere, dalla classe sociale, dal colore della pelle o dalla nazionalità, produce confusione, solitudine, suicidi e app di incontri; sembriamo non renderci conto di come le nostre soggettività siano formate dalla società, abbiamo difficoltà ad associarci e a sostenerci a vicenda. Essere un autore, un artista, oggi, significa essere il ricettacolo, l’amplificatore di questi fenomeni che coinvolgono noi e il pubblico. Qualsiasi cosa diversa sarebbe una strategia disonesta che tratta l’autorialità come un marchio. L’arte contemporanea non è solo una delle tante forme che abbiamo scelto per il nostro lavoro, è il contesto in cui ci esprimiamo. Ci appassiona la sua storia, continuiamo a studiarla e a scoprirla, la citiamo, la mettiamo in discussione. L’arte contemporanea è anche uno dei rari campi in cui parole e immagini non intrattengono un rapporto gerarchico, in cui è ancora possibile l’esplorazione emotiva e visiva di molti aspetti della realtà (che tendiamo a respingere quando li incontriamo nelle notizie o nella vita quotidiana). La nostra arte non è più politica di quanto non lo sia la vita di chiunque, tranne che per il fatto che ci rifiutiamo di essere vaghi o opportunisti riguardo al luogo da cui pensiamo; crediamo che sia essenziale per ognuno sapere dove ci troviamo nei meccanismi della società, a che cosa partecipiamo e da che cosa siamo esclusi, quanto siamo danneggiati o colpiti nella nostra “microscala” da quanto accade nel mondo in generale. La poesia e l’ambiguità sono elementi essenziali in tutte le opere d’arte: se non ci sono, siamo di fronte a merci o a propaganda. Se avessimo semplicemente un messaggio da trasmettere, delle certezze da instillare nelle persone, non faremmo arte e soprattutto non faremmo l’arte che facciamo noi; il nostro lavoro non contiene un’agenda politica, stiamo conducendo una ricerca continua sul significato di essere vivi nel nostro tempo e le nostre opere ne sono il risultato. Sì, ci sono stati sia fraintendimenti sia appropriazioni; non che ci importi molto di queste ultime, ma è esasperante quando la natura dell’opera d’arte viene cancellata per trasformarla in una pubblicità o in una decorazione. Preferiamo non fare i nomi dei responsabili, perché non siamo in un tribunale. È interessante per me che gli artisti spesso sfuggano alle definizioni e alle categorie, ma Claire Fontaine si definisce molto chiaramente artista concettuale femminista del readymade. Fulvia e James si sono anche definiti assistenti di


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INTERVISTATI DA ADRIANO PEDROSA

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Claire Fontaine e hanno usato l’espressione “gestione di un centro vuoto”. Potete spiegare e approfondire tutto questo? Non abbiamo la sensazione di “dirigere” o controllare il processo creativo in Claire Fontaine. Accompagniamo le idee che diventano possibili al suo interno. È più un lavoro di cura che un lavoro di decisione. Non si tratta di imporre la propria volontà, ma di contribuire alla nascita delle opere d’arte, di accompagnarle nel mondo dove poi vivranno la loro vita senza di noi; in questo senso ne siamo senz’altro gli assistenti. È un processo cooperativo che è decisamente femminista perché non è governato da valori patriarcali; è concettuale e fortemente legato alla storia del readymade perché non è un’operazione retinica. Anche se gli aspetti formali e visivi del nostro lavoro sono ovviamente inseparabili dal soggetto, e importanti quanto il soggetto stesso, il nostro obiettivo finale non è quello di compiere azioni ornamentali all’interno di spazi espositivi, ma di provocare pensieri, emozioni, sentimenti da noi ritenuti essenziali. È anche per questo che reinvestiamo forme esistenti, ne citiamo altre: ispirarsi ai nostri predecessori e ai nostri contemporanei è un atto di umiltà e di amore. Potreste parlare del vostro processo di lavoro, del vostro processo creativo? Come nasce un’opera? È interessante il modo in cui un’opera o una serie possa svilupparsi e progredire nel corso degli anni; penso non solo a Stranieri Ovunque (dal 2004 in poi), ma anche alla straordinaria serie Burnt/Unburnt, che mi sembra inizi con France (Burnt/Unburnt) (2011), la cui più recente iterazione è Mediterranean Sea (Burnt/Unburnt) (2023), ora in esposizione a Berlino5. Le opere si formano come intuizioni visivo-concettuali che si trasformano continuamente durante il processo. Una volta realizzata, l’opera si dispiega in altre potenzialità che ancora non erano percepibili nel processo di pensiero da cui era partita. Un’opera non è la stazione finale di un’indagine, ma il nuovo inizio per un nuovo viaggio. Facciamo l’esempio dei Brickbats, una serie iniziata nel 2007. Agli inizi della pratica di Claire Fontaine ci aveva molto colpiti un’opera di Robert Fillou del 1977, Je meurs trop, un mattone che sembra un libro, ma non ci era mai venuto in mente di citarlo in qualche modo. Nella scuola d’arte nel nord della Francia dove abbiamo insegnato per molti anni la maggior parte degli studenti proveniva da contesti svantaggiati con esperienze di apprendimento traumatizzanti; mettere loro in mano un libro della biblioteca era come consegnare un oggetto impenetrabile e senza vita. Non si sentivano liberi di guardarci dentro, di cominciare dal centro, di saltare delle parti, di esplorare l’indice e le note a piè di pagina; si comportavano come stranieri in una terra sconosciuta, con la paura di perdersi o di agire nel modo sbagliato. Da qui è nata l’intuizione di trasformare il libro in un oggetto illeggibile: in italiano un libro noioso viene descritto come un “mattone”, in francese come un “pavé”. Il titolo di questa serie di opere, Brickbats, deriva dal termine inglese che descrive un messaggio, una minaccia, avvolto in un mattone che viene lanciato attraverso una finestra. I “brickbat” di Claire Fontaine sono avvolti da scansioni stampate di copertine di libri il cui dorso è stato allungato fino a raggiungere lo spessore dei mattoni. Ci siamo resi conto che questi libri pietrificati erano diventati “equivalenti”: il numero originale di pagine non contava più, lo spessore dei dorsi era identico e così il loro peso. In questo processo, abbiamo compreso in modo diverso l’idea di


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Carl Andre degli Equivalent. Dal singolare Brickbats è nata poi l’intuizione di trasformare alcuni libri pubblicati nella collana “Folio” di Gallimard in elementi per ricreare le sculture di Andre. Identici per peso e dimensioni, i mattoni dei nostri equivalenti avevano l’aspetto di libri “Folio”, ognuno dei quali riportava il titolo, il nome dello scrittore e la riproduzione di un’opera d’arte. Ogni scultura era composta dagli stessi 120 libri “fantasma” disposti in ordine variabile; se le opere di Andre erano visivamente omogenee e mute, le nostre erano colorate e dense di parole. Con la serie Lever (2007–2011), abbiamo ragionato sempre nella stessa direzione in cui veniva ribaltato il minimalismo di Andre, ma ci siamo concentrati sull’aspetto seriale della scultura: abbiamo utilizzato solo la copertina di Differenza e ripetizione (1968) di Gilles Deleuze, uno dei nostri libri preferiti che decostruisce magistralmente il concetto di unicità. In questa serie di lavori, abbiamo coniugato l’idea di differenza e ripetizione anche attraverso la traduzione. La ripetizione non si limitava ai 137 mattoni con la stessa copertina modificata del libro stampata 137 volte e disposta in linea retta, ma si estendeva alle sue diverse traduzioni. Abbiamo realizzato versioni di Lever in inglese, tedesco, italiano e francese; sono gli stessi libri, ma la loro vita in lingue diverse li rende fondamentalmente unici. Le opere Burnt/Unburnt (dal 2008 in poi) sono nate da una riflessione sulla storia politica del fuoco. Ci siamo interessati al modo in cui le persone reagiscono nelle manifestazioni quando scoppia un incendio, o al modo in cui si guarda qualcosa che è stato bruciato, in casa o per strada. C’è un sentimento specifico che le cose bruciate risvegliano nelle persone: la combustione distrugge l’utilità ed evoca la morte. I nostri segni di fumo che citano la pratica vandalica di scrivere con il fuoco in spazi pubblici chiusi (come bagni, ascensori, scale) racchiudono la tristezza e la violenza che accompagnano la combustione; pur essendo solo ombre, tracce lasciate da una fiamma tremula, sono in qualche modo pesanti. Ci siamo anche resi conto che la loro esecuzione è influenzata dal respiro e dalle vibrazioni emotive di una stanza: quando si scrive con la fiamma questa si muove inspiegabilmente, anche in spazi ermetici. L’idea di bruciare un territorio o un testo all’interno di uno spazio espositivo ci è sembrata interessante perché il fuoco non lascia solo l’oscurità delle bruciature, ma anche un odore che altera la neutralità sensoriale del white cube. Abbiamo iniziato bruciando testi e poi la Francia (France (Burnt/ Unburnt)) è stato il primo Paese ad andare in fiamme. Lo stesso anno, con María Inés Rodríguez, abbiamo bruciato P.I.G.S. (2011) al MUSAC (Museo de Arte Contemporáneo de Castilla y León) di León. Il titolo citava l’acronimo offensivo usato dai giornalisti per raggruppare Portogallo, Italia, Grecia e Spagna, i Paesi che per primi sono andati in default nella zona euro. La loro sagoma è stata riprodotta con centinaia di migliaia di fiammiferi piantati in un muro e dati alle fiamme. Immolare un territorio può ovviamente assumere molti significati diversi e ci sono sia eccitazione che paura quando le fiamme iniziano a divampare. Il rogo avviene di solito in privato ed è visibile nella documentazione video e fotografica; quando le persone visitano la mostra, vedono una scultura, un disegno murale fatto dal fuoco. Nella mostra Pier Paolo Pasolini. Tutto è santo. Il corpo politico al MAXXI (Museo nazionale delle arti del XXI secolo) di Roma tra novembre 2022 e maggio 2023, è stata installata e lasciata incombusta un’opera a forma di fiammifero lunga 25 metri con la scritta “Ci odiano per la nostra libertà”. La stessa opera era stata esposta bruciata da Anthony Huberman al Contemporary Art Museum di St. Louis


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nel 2008 e da Thierry Ollat al mac (Musée d’art contemporain) di Marsiglia nel 2013 – due esperienze incomparabili. Se le versioni incombuste di queste opere non trasformano così radicalmente lo spazio, esse rappresentano un pericolo incombente perché potenzialmente chiunque può incendiarle. Il MAXXI ha scelto di sottoporre l’installazione a sorveglianza permanente, il che ha naturalmente influenzato il modo in cui il pubblico l’ha vissuta. “Ci odiano per la nostra libertà” è una citazione dal discorso che George Bush tenne il 20 settembre 2001, quando gettò le basi ideologiche per le guerre a venire definendo come irreparabile l’ostilità culturale e antropologica tra l’America e i suoi nemici. Al di fuori del suo contesto originario, questa frase può essere letta in molti modi: potrebbe, ad esempio, rappresentare una dichiarazione dei curatori del MAXXI sulla fragilità della loro libertà di espressione a causa dei cambiamenti attuati dall’attuale governo italiano. Nella nostra recente mostra Become a Sea (2023) alla Galerie Neu di Berlino, abbiamo riprodotto per la prima volta uno spazio liquido che abbiamo bruciato prima della fine della mostra. Il Mediterraneo è un mare chiuso, pieno di confini e conflitti invisibili, una tomba per i rifugiati che non raggiungono la riva, eppure è circondato dalle coste più densamente turistiche del mondo. Con Mediterranean Sea (Burnt/ Unburnt) abbiamo voluto fare un’operazione alchemica, fondendo acqua e fuoco, turisti e rifugiati, pace e guerra. Questo lavoro, secondo noi, deriva veramente dall’osservazione delle forme dei Paesi, riconoscendone gli iconici confini che li definiscono visivamente. Nessuno conosce la forma dell’acqua, ed è stato incredibile vedere la terra apparire come uno spazio vuoto negativo e senza confini. È così che le mappe la rappresentano per le persone che navigano in mare. Come vi collocate nel contesto più ampio della storia dell’arte? Si può sicuramente pensare all’arte (post-) concettuale, alla critica (post-)istituzionale, al (post-)minimalismo e persino al (post-)pop. Warhol compare con le immagini di Marilyn Monroe e Mao, Carl Andre è un riferimento o un contro-riferimento nel vostro uso dei mattoni: penso al vostro uso di Differenza e ripetizione di Deleuze nel grande Lever (Version Americaine) del 2007; Dan Flavin è un predecessore per K font signs (dal 2006 in poi) e, naturalmente, c’è Marcel Duchamp e il readymade, e Félix González-Torres in tanti modi. Inoltre, si può forse pensare a Bruce Nauman e Jenny Holzer. Tuttavia, in quanto artista femminista, Claire Fontaine avrà sicuramente altri riferimenti femminili? Siamo fortemente influenzati da molte donne artiste: Cady Noland, Mierle Laderman Ukeles, Barbara Kruger, Lee Lozano, Martha Rosler, Adrian Piper, Renée Green, Andrea Fraser, Elaine Sturtevant, solo per citarne alcune. E c’è sicuramente un’abitudine femminista nell’arte di citare, scrivere, studiare e non fidarsi solo del proprio istinto o della propria invenzione, con cui Claire Fontaine è solidale. La storia dell’arte è un racconto tragicomico che può essere letto in molti modi: gli esclusi, gli outsider (tra cui le donne) sviluppano un certo distacco ironico da essa che è funzionale al mantenimento di una prospettiva critica. Il rapporto patriarcale con il proprio lavoro, che consiste nell’usare l’opera d’arte per guadagnare denaro e potere, opprimere gli altri e scalare il successo, è quello dominante tra le icone dell’arte del nostro tempo, nonostante la mitologia romantica degli artisti visti come sensibili e vulnerabili. Nella storia dell’arte


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devono emergere ed emergeranno altre narrazioni, quindi è importante continuare a chiedersi come siano cambiati nell’ultimo secolo i criteri che organizzano la leggibilità e la desiderabilità delle opere d’arte, l’ammirazione nei confronti dei loro autori. La critica istituzionale, ad esempio, è una delle nostre maggiori ispirazioni, ma ora l’istituzione che dobbiamo criticare è il capitalismo, quella che contiene tutte le altre e che non ha un fuori. Questo significa che un gesto come Shapolsky et al. Manhattan Real Estate Holdings, a Real­Time Social System, as of May 1, 1971 (1971) di Hans Haacke è oggi ancora possibile ma non più sensazionale. Nan Goldin, nel ritenere la famiglia Sackler responsabile del ruolo avuto nella crisi degli oppioidi, ha di recente dimostrato che la voce di un artista può contribuire a sensibilizzare l’opinione pubblica sui cambiamenti di cui la nostra società ha bisogno. C’è un valore d’uso esistenziale nelle opere d’arte contemporanea e questo è ciò che cerchiamo di attivare quando usiamo la storia dell’arte come banca dati: le forme esistenti possono assumere nuovi significati. Il nostro lavoro non è esteticamente dirompente, potrebbe assomigliare a qualcosa di già noto, perché il cambiamento a cui aspiriamo potrebbe non avvenire nello spazio espositivo o nel museo, ma all’interno degli spettatori e nel modo in cui essi influenzano il mondo con le loro azioni quotidiane. L’opera d’arte può essere un oggetto di transizione tra se stessi e la propria vita, può rendere le cose possibili in modi inimmaginabili. Questo fa parte di ciò che chiamiamo materialismo magico6. Quali sono state le origini della serie di opere Stranieri Ovunque, e come la vedete spostarsi da una lingua all’altra, da un contesto all’altro, e nel corso degli anni? Come si trasforma l’opera quando diventa il titolo della 60. Esposizione Internazionale d’Arte? Era già stato in lingua tupi antica (Mamõyguara Opá Mamõ Pupé) il titolo di Panorama da Arte Brasileira al Museu de Arte Moderna de São Paulo (che ho curato nel 2009 e a cui avete partecipato) ma si trattava di un contesto molto diverso e pochissime persone erano in grado di capire il significato del titolo in quella lingua indigena brasiliana estinta. Ma soprattutto, come vedete Stranieri Ovunque riverberarsi nell’attuale contesto italiano e mondiale? L’origine di questo lavoro affonda le radici in una storia di appropriazione. Alcuni amici, nel 2002, hanno regalato a Fulvia una fanzine fronte-retro, un volantino A3 che avevano trovato a Torino. Utilizzava lo stesso linguaggio grafico e una delle fotografie che erano state stampate in Tiqqun. Il documento era scritto in un inglese stentato, ma riportava una posizione interessante in difesa dei migranti nel mondo. Era firmato Stranieri Ovunque. Abbiamo visto nell’accoppiamento di queste due parole un’eccitante ambiguità e un contenuto universale (siamo sempre lo straniero di qualcun altro e possiamo sentirci stranieri ovunque andiamo), così abbiamo subito deciso di trasformarlo in un’insegna al neon che fungesse da sottotitolo all’ambiente, e di tradurlo in diverse lingue per cambiare la prospettiva su chi sia straniero. La prima opera della serie era in italiano ed è stata presentata nel 2005, a pochi metri dai Giardini della Biennale, nel Mars Pavilion curato da Marco Baravalle e Andrea Morucchio. La seconda, in arabo, è stata esposta nella vetrina di Reena Spaulings Fine Art a New York, in occasione della nostra prima personale in quello stesso anno; è stata accolta con tale ostilità dai vicini e dal padrone di casa che la galleria è stata costretta a esporre accanto una traduzione in inglese su un


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foglio di carta. La lingua araba era percepita come minacciosa all’epoca: la guerra in Iraq imperversava e il campo di detenzione di Guantanamo era considerato scandaloso da molti media. Poco dopo questo incidente, il contratto di locazione della galleria non fu rinnovato e questa si trasferì nella sede attuale sulla East Broadway. Quest’opera suscita ogni tipo di reazione a seconda del contesto geopolitico, attiva una diversa percezione delle persone che si muovono nello spazio, è un commento sulla nostra condizione comunitaria e sui meccanismi di aggregazione ed esclusione a cui tutti partecipiamo. Viviamo in un momento storico xenofobo, con governi di destra in Italia e altrove che criminalizzano i migranti senza cercare di affrontare le ragioni del loro afflusso. Le difficoltà di vivere nella nostra società sono amplificate dall’essere rifugiati, clandestini o semplicemente estranei alle logiche del luogo in cui si è approdati. Il tema dell’estraneità come esperienza esistenziale decisiva del nostro tempo è un’ossessione ricorrente per Claire Fontaine. Nel 2012 abbiamo esposto The Isle of Tears al Jewish Museum di New York, un’installazione che ora fa parte della loro collezione. “L’isola delle lacrime” è il nome che gli immigrati negli Stati Uniti davano a Ellis Island perché era il luogo in cui potevano essere separati gli uni dagli altri e rispediti a casa se non erano ritenuti idonei a diventare cittadini americani. Composta da otto insegne al neon sospese che recitano le parole “isle of tears” in diverse lingue, l’opera cita il libro e il documentario di Georges Perec e Robert Bober del 1979 intitolato Ellis Island 7. Bober e Perec hanno raccolto le storie degli ultimi sopravvissuti che sono passati da Ellis Island. Quasi sedici milioni di immigrati sono approdati all’isola delle lacrime tra il 1892 e il 1914, un luogo che era il luogo in cui iniziava una nuova vita e al contempo la sepoltura della precedente identità dei nuovi arrivati, che a volte abbandonavano persino il proprio nome per sembrare più americani. Secondo Perec, questa ricerca era inseparabile dall’identità ebraica sua e di Bober. Scrive Perec: Non so esattamente cosa sia essere ebreo, o quale effetto abbia su di me l’essere ebreo c’è qualcosa di ovvio, [...] come un silenzio, una carenza, una domanda, un interrogativo, un dubbio, un disagio: una certezza inquieta, e dietro di essa, un’altra certezza, astratta, opprimente e intollerabile: quella di essere stato etichettato come ebreo, ebreo quindi vittima, e quindi obbligato, per il fatto di essere vivo, all’esilio e alla fortuna...8 Abbiamo esplorato le differenze tra il destino del readymade, un oggetto comune privato del suo contesto e del suo valore d’uso tradizionale che viene trasformato in un’opera d’arte, e quello degli sfollati che hanno anch’essi perso il proprio contesto originario e il proprio scopo nella vita, ma che non traggono alcun valore da questo processo, anzi perdono tutto. Ci chiediamo se riusciamo a trovare


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l’“infrasottile”9 degli stranieri, se riusciamo a mostrare quanto queste persone possano essere magiche e miracolose se si danno loro il valore e l’attenzione che meritano. Il 2023 ha visto un numero record di sfollati e apolidi: secondo l’UNHCR (Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati), si tratta di 117,2 milioni di vite. Se la situazione era disperata prima della tragica guerra in Palestina, ora è terrificante. Oltre alla nostra felicità nel vedere le parole “stranieri ovunque” vivere una nuova vita come titolo della Biennale Arte 2024, grazie a voi, speriamo che questo porti più persone a guardare alla migrazione come uno dei fenomeni più essenziali e vitali di tutti i tempi, e non come un fattore di instabilità o qualcosa da criminalizzare e prevenire. Avete parlato di voi stessi come rifugiati politici nel campo dell’arte, e del rifugiato come una figura tragica, un sopravvissuto, oltre che uno straniero. Potete spiegarci meglio questo concetto? Quando, nel 2004, abbiamo fondato Claire Fontaine, avevamo entrambi lavorato in precedenza come artisti ed eravamo consapevoli della piega reazionaria che stava prendendo la storia. Le guerre che hanno seguito l’11 settembre sono il vero antecedente dell’attuale conflitto israelo-palestinese: le rappresaglie sproporzionate dopo un attacco terroristico che comportava l’aggressione di ampia parte della popolazione civile sono state considerate accettabili dalla comunità internazionale. In Iraq e in Afghanistan, insieme a un’immensa quantità di civili innocenti, è morto anche un certo modo di dire la verità politica. Julian Assange e Chelsea Manning sono diventati i simboli della criminalizzazione del dissenso, un fenomeno che è diventato comune nelle democrazie occidentali e che ha ormai cambiato completamente il contesto e il significato di ogni attività culturale o simbolica. Il G8 di Genova – che si è svolto pochi mesi prima dell’attacco alle Torri Gemelle – è stato, ad esempio, un esperimento senza precedenti di utilizzo di tattiche di guerra in tempo di pace10. La protesta in Europa non è più stata la stessa dopo quei giorni di sangue: gruppi di giovani, disabili, anziani, malati, fragili non potevano più partecipare alle manifestazioni. Anche il drastico cambiamento di politica del governo francese nei confronti delle espressioni di dissenso e dei conflitti razziali dopo la presidenza Sarkozy è esemplare di questa svolta violenta11. La libertà di espressione può diventare una parola vuota quando non possiamo vivere la vita in armonia con le nostre convinzioni12. Potremmo pagare il prezzo anche adesso per aver messo per iscritto qualcosa di così banale, e probabilmente accadrà. Il politicamente corretto è diventato anche un modo per impedire che avvengano cambiamenti reali. Dobbiamo esplorare il nostro disagio, comprenderlo, e solo allora potremo cambiare radicalmente e porre fine alla sofferenza che stiamo causando. Il modo migliore per non ferire i sentimenti delle persone è capire quello che facciamo loro ogni giorno con il nostro modo di vivere e non solo con quello che diciamo. L’arte è ancora uno spazio che ci permette di accedere ai nostri sentimenti più profondi, alle nostre paure, e di trasformare noi stessi e gli altri senza voler controllare o catturare questo processo. L’arte contemporanea è davvero uno degli ultimi laboratori per lavorare sulle nostre forme di vita, su ciò che


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comprendiamo cognitivamente ed emotivamente della realtà. Il suo scopo è quello di mantenere aperto uno spazio per mettere in discussione tutto, dentro e fuori di noi, in ognuno di noi. La vita perderà il suo sapore quando non saremo in grado di parlare di ciò che ci accade. Per questo crediamo che il silenzio confuso dell’arte contemporanea sia ancora il luogo migliore per trovare le parole giuste. Vorrei dedicare un momento per chiedervi delle sfide di esistere, operare e sopravvivere all’interno del mondo dell’arte contemporanea, del sistema delle gallerie, così segnato dalla cultura capitalistica delle merci, e di fatto attraversato dalla cultura della celebrità, del glamour e del lusso. È davvero un mondo selvaggio quello là fuori! Come avete visto cambiare ed evolvere tutto questo negli ultimi vent’anni, da quando avete iniziato nel 2004? Assistere a questi cambiamenti in peggio è stato – ed è tuttora – un viaggio davvero sconvolgente. Abbiamo lavorato con molti partner diversi e abbiamo sperimentato in prima persona i limiti del sistema delle gallerie: le persone che lavorano in queste strutture sono sfruttate e spesso sottopagate; la concorrenza può anche essere distruttiva per la qualità del programma di una galleria, quando far quadrare i conti diventa un esercizio acrobatico, la tentazione di cercare soluzioni più facili può diventare forte e a volte ineluttabile per un’operazione finanziariamente fragile. Abbiamo visto all’opera i meccanismi monopolistici accanto all’aumento dell’economia speculativa nell’arte, la biodiversità che dovrebbe creare tutto il fascino e l’eccitazione sta lentamente diventando insostenibile e comincia a estinguersi. Le soggettività che potrebbero resistere a questa tempesta finanziaria ed emotiva sono di un tipo specifico e, come tutti sanno, i sopravvissuti non formano buone comunità perché non c’è solidarietà tra oppressori. Sarebbe un’interessante operazione archeologica cercare tutti gli artisti e le opere d’arte che sono stati eclissati dalle difficoltà di questi ultimi vent’anni, una controstoria di ciò che ci è stato detto essere l’arte contemporanea che dovremmo guardare. Poiché le istituzioni europee si affidano sempre più all’aiuto finanziario delle gallerie o degli sponsor, questo ha ridotto l’indipendenza dei curatori e le possibilità di esporre, anche in spazi non commerciali, il lavoro di quel tipo di artisti che, per un numero inimmaginabile di ragioni, non hanno questo sostegno. Siamo in un tragico punto cieco nella nostra civiltà, in cui il valore è misurato esclusivamente in termini economici, sebbene tutti sappiano che il valore monetario non si genera senza un altro tipo di lavoro invisibile, un prezioso lavoro non retribuito di cura, amore, intelligenza e dedizione. Potremmo ancora pensare, come eredi di un subconscio coloniale, che la natura e i migranti siano lì per il nostro profitto materiale, ma ora sappiamo che tale profitto materiale impoverisce la sua stessa fonte e trasforma la ricchezza in scarsità. L’arte ha bisogno di un ecosistema in cui la gentrificazione e la speculazione siano tenute sotto controllo: solo quando questo accadrà, i collezionisti potranno possedere opere d’arte veramente preziose, perché create in libertà. La parte più scioccante dell’esperienza di questo cambiamento che tu descrivi è stata la testimonianza della normalizzazione della censura negli ultimi cinque anni, il restringimento dello spazio di ciò che è possibile in una mostra e di ciò che è accettato come “zona pensabile”. Questo ci danneggia tutti: gli esempi più recenti di


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censura e di punizione delle voci di artisti e lavoratori dell’arte a sostegno della Palestina hanno dimostrato quanto siano scadenti i nostri standard di libertà di espressione, quanto facilmente possiamo decidere di essere ricattati e messi a tacere, come possiamo distruggere la nostra credibilità e il nostro amor proprio come rivista, istituzione, persona. L’accusa sistematica di antisemitismo contro chiunque osi sollevare obiezioni contro la politica di Israele è solo un esempio, ma il suo impatto su un’istituzione come documenta a Kassel è a dir poco devastante. Abbiamo assistito ad alcuni episodi del genere e sappiamo che la generale mancanza di coraggio deve aver giocato un ruolo importante nel modo in cui il lavoro e la ricerca di Claire Fontaine sono stati accolti o ignorati negli ultimi vent’anni. Non dobbiamo permettere che lo spazio dell’arte contemporanea venga impoverito, terrorizzato o rovinato per nessuna ragione al mondo, invitiamo tutti a coltivarlo e a difenderlo. Voi siete un osservatore critico del momento politico e vorrei chiedervi se volete esprimervi sul momento attuale, soprattutto per quanto riguarda la crisi migratoria che stiamo vivendo in diverse parti del mondo. C’è un vostro lavoro in particolare che mi viene in mente a questo proposito, forse potete parlare di Untitled (same war time zone) (2016–2018)? Condividiamo con te un’acuta sensibilità rispetto al presente e questa convergenza che hai creato con il titolo della Biennale Arte 2024 – Stranieri Ovunque – è, a posteriori, terribilmente profetica. Siamo sconvolti da ciò che sta accadendo nella guerra in Palestina a cui ci sentiamo molto vicini, non ci sentiamo al di sopra di essa, abbiamo paura per il futuro dopo aver visto tutto questo dolore e andiamo avanti con le nostre giornate in lacrime e impotenti. Ciò che è stato trasmesso e postato sui social media durante questa guerra cambierà tutto, ma non possiamo dire come. Abbiamo realizzato Untitled (same war time zone) come un dirottamento e un omaggio a “Untitled” (Perfect Lovers) (1991) di Félix González-Torres, un’opera davvero commovente che parla di amare una persona dello stesso sesso e di provare esattamente lo stesso desiderio nello stesso momento. È anche un lavoro sulla paura, sentiamo che gli orologi possono fermarsi in momenti diversi, che sono come cuori che possono smettere di battere, andare fuori sincrono e poi separarsi; è anche un lavoro sulla solitudine, sulla ripetitività e sulla morte. Nel nostro lavoro, volevamo parlare di una separazione specifica, per mostrare appunto


che le persone possono soffrire di dolori simili, vivere sulla stessa terra, eppure essere la causa della disgrazia gli uni degli altri. È un lavoro che è diventato tristemente sempre più contemporaneo e speriamo che questo momento storico ci insegni la lezione che avremmo dovuto imparare più di settantotto anni fa.

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Tiqqun era una rivista parigina creata da un gruppo di persone vicine ai situazionisti e all’area politica dell’autonomia. Sono stati autopubblicati in forma anonima e scritti collettivamente due numeri: il secondo, e ultimo, è apparso nel 2001; poi il gruppo si è sciolto. Alcuni testi sono stati successivamente pubblicati separatamente in inglese, italiano e francese da diversi editori, con o senza il consenso degli autori. A Beautiful Hell è stato pubblicato dopo lo scioglimento, non è stato scritto da Tiqqun ed è erroneamente attribuito al collettivo. La rivista è stata estremamente influente perché ha generato un linguaggio poetico capace di affrontare le contraddizioni del nostro tempo insieme a una costellazione di riferimenti che vanno dalla Cabala a Foucault, dal femminismo italiano all’operaismo e alla cibernetica; ha permesso un approccio non ideologico ed esistenziale alla politica radicale.

2

Milan Women’s Bookstore Collective, Sexual Difference, a Theory of Socio­Symbolic Practice, Bloomington-Indianapolis, Indiana University Press, 1990.

3

Claire Fontaine, Human Strike and the Art of Creating Freedom, Los Angeles, Semiotext(e), 2020.

4

Gilles Deleuze, Marcel Proust e i segni, trad. it. Clara Lusignoli, Torino, Einaudi, 1967 (ed. originale: Proust and Signs, Minneapolis, University of Minnesota Press, 2000, p. 22).

5

Claire Fontaine, Become a Sea, Berlino, Galerie Neu, 15 dicembre 2023 – 17 febbraio 2024.

6

Si veda Claire Fontaine, Human Strike, Reproduction and Magic Materialism, in Dispositif. A Cartography, a cura di Giovanbattista Tusa e Greg Bird, Boston, The MIT Press, 2023, 37.

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Il documentario si intitola Ellis Island Revisited. Tales of Vagrancy and Hope ed è stato diretto da Robert Bober nel 1979. Perec ebbe un ruolo fondamentale nell’elaborazione della sceneggiatura, come si evince dal suo articolo E come Emigrazione: Ellis Island, incluso nel suo libro postumo Sono nato, Torino, Bollati Boringhieri, 1992 (ed. originale Je suis né, Paris, Éditions du Seuil, 1990). Nel 1980, Perec ha pubblicato per INA­Magazine un testo legato a questo film, con il contributo di Robert Bober. Il testo è stato pubblicato a nome di entrambi lo stesso anno dalle Éditions du Sorbier e successivamente pubblicato in inglese come Ellis Island (Georges Perec con Robert Bober, trad. Henry Mathews, New York, New York City Press, 1995).

8

Georges Perec, Of Wandering and Hope: George Perec’s Ode to Ellis Island. On Immigration, Place, and the Jewish Diaspora, in lithub.com, 10 febbraio 2021, a cura di New Directions Publishing Organization, https://lithub.com/ of-wandering-and-hope-georgeperecs-ode-to-ellis-island/.

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Il termine “infrasottile” (inframince in francese) è un’invenzione di Marcel Duchamp. Usato come aggettivo o come sostantivo, definisce una sensazione, un fenomeno quasi impercettibile. Descrive anche il potenziale che un oggetto comune possiede per passare al regno dell’arte, diventando un readymade.

10 Il G8 che si è svolto a Genova nel luglio 2001 è stato un forum politico intergovernativo che ha riunito i rappresentanti di Francia, Germania, Italia, Giappone, Regno Unito, Stati Uniti, Canada e Russia. Poiché era stato lanciato un appello alla protesta e si prevedeva che migliaia di persone sarebbero arrivate a Genova per manifestare, lo Stato italiano decise di istituire un nuovo protocollo per prevenire i disordini. Una parte della città di Genova – definita zona rossa – fu resa inaccessibile per giorni, attraverso confini militarizzati, a chiunque non potesse esibire un documento di residenza in quel perimetro. In una città di 600.000 abitanti, furono inviati 13.000 militari e 600 agenti di polizia. Le grandi manifestazioni internazionali sono state represse con una violenza inaudita, 560 persone sono rimaste ferite e un manifestante disarmato, Carlo Giuliani, è stato ucciso e investito da una jeep dei Carabinieri. Nella notte del 21 luglio, un gran numero di poliziotti e carabinieri (il numero non è mai stato confermato da nessuna fonte ufficiale) fece irruzione nella scuola Diaz, dove il Comune aveva allestito un centro di accoglienza per i manifestanti e il centro media. Le novantatré persone presenti sul posto, tra cui alcuni giornalisti, sono state arrestate e brutalmente picchiate; sessantatré persone sono rimaste gravemente ferite, di cui tre in condizioni critiche e una in coma. Le vittime hanno avviato diverse azioni legali contro la polizia e i carabinieri. Il 7 aprile 2015, la Corte europea dei diritti dell’uomo ha dichiarato all’unanimità che l’articolo 3 della Convenzione contro la tortura e altre pene o torture crudeli, inumane o degradanti è stato violato durante l’irruzione nella scuola Diaz. Il 6 aprile 2017, presso la stessa Corte, lo Stato italiano ha ammesso la propria responsabilità e ha raggiunto un accordo amichevole con sei delle sessantacinque vittime che si appellavano agli atti di tortura subiti nel commissariato di Bolzaneto.

11 Dal 2001, la polizia francese è stata dotata di nuove armi, come le flash-ball, i taser, le granate GLI F4 che causano la perdita temporanea o permanente dell’udito (165 dB a una distanza di 5 metri), le granate a dispersione (che hanno causato diverse amputazioni e occasionalmente morti) e le granate offensive (che sono state vietate dopo aver causato la morte di Remi Fraisse nel 2014). Le flash-ball, che dovrebbero essere dirette solo alla parte inferiore del corpo, hanno causato la perdita di un occhio in diverse persone, che affermano di essere state prese di mira dalla polizia. L’Assemblée des Blessés (l’Assemblea dei feriti) riunisce un numero crescente di vittime della violenza della polizia in tutta la Francia e cerca, con l’aiuto di esperti medici, di imporre un uso più responsabile di queste armi da parte della polizia francese. 12 Paesaggio/Unpacking my History, curata da Daphne Vitali per una sezione della Quadriennale di Roma del 2023, presenta due opere di Claire Fontaine che ruotano attorno agli eventi del G8 di Genova come punto di svolta nella storia politica recente.


TERRE DI CONFINE/LA FRONTERA: LA NUOVA MESTIZA, TRADUZIONE E POSTFAZIONE DI PAOLA ZACCARIA, FIRENZE, BLACK COFFEE, 2022.

Per sopravvivere alle Terre di Confine / bisogna vivere sin Fronteras / essere un crocevia.

GLORIA ANZALDÚA



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BITHEMESKO SA EKHE THANESTE

intervistata da

STRANIERI OVUNQUE

Amanda Carneiro

Anna Maria Maiolino


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ANNA MARIA MAIOLINO

INTERVISTATA DA AMANDA CARNEIRO

BIENNALE ARTE 2024

I processi di spostamento sono una parte significativa del suo lavoro, che si adatta perfettamente al tema della 60. Esposizione Internazionale d’Arte, Stranieri Ovunque – Foreigners Everywhere. Il concetto di Stranieri Ovunque non corrisponde esclusivamente allo straniero che si sposta da un Paese all’altro o da un’identità all’altra, ma si estende anche allo straniero/estraneo dentro se stessi. Il suo lavoro indaga in maniera costante – o almeno questa è la mia interpretazione – la dimensione di auto-alienazione e del senso di appartenenza. Mi ricollego innanzitutto a questa dimensione del percorso dello spostamento che coinvolge sia il dislocamento fisico e soggettivo sia quello che appare nel suo lavoro, proprio perché risulta connessa alla Biennale Arte 2024. Due delle sue opere, Anna del 1967 e My Family del 1966 – parte della collezione della metà degli anni Sessanta – affrontano questa associazione. Pur apparendo altamente soggettive, parlano anche di processi che collegano l’osservatore con l’esperienza, la memoria di ciò che è il concetto di soggettività in un contesto comunitario. La famiglia non sembra essere solo il gruppo a cui si appartiene, ma una comunità molto estesa. Ci parli quindi del suo percorso di spostamento basato su questo gruppo di opere. Quando ha iniziato a parlare, ho subito pensato che siamo già immigrati quando lasciamo il grembo materno ed entriamo nel mondo. Mano a mano che si cresce come individui, ci si confronta con la realtà dell’ambiente circostante e questa realtà modella il nostro carattere, i nostri desideri, le nostre gioie e ciò che diventeremo, ciò che richiediamo dalla vita. Nel mio caso, credo che il fatto di essermi allontanata dalla mia terra d’origine – mi sono trasferita più volte in Italia, dalla Calabria alla Puglia, poi in Venezuela, poi a Rio de Janeiro, poi a San Paolo... ho vissuto a New York, in Argentina, e così via – mi porti a vedere ogni distacco, ogni momento della vita, come una morte e una rinascita, una nuova sorpresa. Si ha a che fare con situazioni molto diverse. Quindi, noto che la memoria oggettiva, la memoria soggettiva, la memoria psicologica, sensoriale, affettiva – la memoria di ciò che ti ha segnato nella vita – vengono elaborate nel mio lavoro. Diciamo che la memoria gioca un ruolo importante e talvolta credo di non essermi nemmeno resa conto di quanto fosse presente. Riflettendo sul mio lavoro nel tempo ho scoperto alcune cose. Penso di essere stata fortunata ad aver vissuto così a lungo, perché non ho mai immaginato di creare un’opera intensa o su larga scala o di essere un artista in grado di suscitare emozioni profonde negli altri. Il mio lavoro si è sviluppato insieme a piccole modalità poetiche alquanto soggettive nel corso degli anni. Anche quello che ho letto è stato importante, perché sono da sempre una lettrice avida e appassionata. Inoltre, l’esperienza di vivere con altri artisti e critici ha avuto un ruolo fondamentale. Lei ha esplorato molti materiali diversi per esprimere questi “linguaggi soggettivi”. A differenza della sua produzione artistica degli anni Sessanta, cui accennavo all’inizio, lei ha realizzato per la Biennale Arte 2024 delle opere in argilla, un materiale che compare nel suo lavoro negli anni Ottanta, diventato prevalente negli anni Novanta e con il quale continua a lavorare.


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Ora celebro sessantaquattro anni di attività artistica. Le installazioni della serie Modelled Earth, che prevedono la manipolazione di una grande quantità di argilla nel luogo dell’esposizione, sono iniziate nel 1994. In esse, il fulcro dell’opera è composto dall’accumulo di frammenti di argilla, forme e segmenti compattati attraverso l’azione delle mani. Tutti i segmenti, uguali e diversi, vengono ripetuti e incorporati nel corpo dell’installazione. La domanda sorge allora spontanea: può esserci una ricerca del “tutto” in queste opere? Ho sempre saputo che puntare al “tutto” era un compito irraggiungibile, ma l’aspirazione non mi ha mai abbandonato, la volontà di creare un lavoro di grande impatto che potesse esprimere questa ricerca incessante. Sono convinta che siamo noi a costituire il tutto e, con questa installazione, posso solo presentare il dispendio di energia, l’entropia, coinvolta nell’esecuzione dell’opera realizzata da me e dai miei collaboratori. Quando ho letto la dichiarazione di Adriano Pedrosa sul tema dell’immigrazione, mi sono sentita toccata nel profondo perché è chiaro che stiamo vivendo un momento in cui la storia si ripete. Osservando attentamente, le ragioni per cui i migranti si spostano oggi nel mondo sono, come sempre, le stesse: guerra, fame, scarsità, dominazione. Siamo soliti dire: “La schiavitù è finita”. Non è vero, altrimenti non ci sarebbero così tanti sfollati in cerca di luoghi liberi, di luoghi meno perseguitati. Perché la schiavitù non è solo colpire una persona sulle gambe per farla avanzare, come avveniva in passato. Ci sono molte forme di schiavitù. Colgo l’ironia del momento, anch’io ho lasciato l’Italia a causa di una guerra, e oggi pare che nel mondo si possano contare una quarantina di situazioni di guerra non dichiarate, per non parlare della minaccia delle bombe atomiche. E in quanto esseri umani siamo tutti uguali, condividiamo conflitti; per questo un’opera d’arte, quando è onesta e sincera, permette agli altri di conoscere te e anche se stessi. Perché quando ci si esprime onestamente nel proprio lavoro, si parla anche degli altri. In questo modo, si esprimono emozioni che appartengono a tutti. La sua è una produzione molto ampia e variegata che abbraccia diversi temi. In una parte consistente del suo lavoro, la sua stessa figura assume un ruolo centrale. Il porsi come protagonista si collega in qualche modo a quanto ha appena detto? Sì, certamente. Perché non credo che gli artisti del passato siano diversi da quelli contemporanei. Anche se le modalità di produzione possono variare, dai nostri antenati in poi i sentimenti rimangono gli stessi: rabbia, odio, amore. Infatti, ritengo che quando un artista crea un’opera, è prima di tutto il supporto stesso dell’opera che sta esprimendo con il proprio corpo. E questo rende ancora più viva la presenza dell’artista nell’opera d’arte contemporanea. Nelle mie performance e installazioni sono l’interprete del mio lavoro, da sola o in compagnia di altre persone. Naturalmente, un pubblico abituato a una produzione convenzionale e classica potrebbe sentirsi disturbato dalla presenza dell’artista, perché questa presenza è lo specchio in cui l’osservatore vede la propria immagine, che lo spinge a riflettere su se stesso. Qual è il suo punto di vista sul processo di trasferirsi più volte, risiedere in numerosi luoghi e alla fine scegliere – dopo tutto, è una scelta – di rimanere in Brasile?


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ANNA MARIA MAIOLINO

INTERVISTATA DA AMANDA CARNEIRO

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Torniamo un attimo indietro, non ho risposto alla domanda precedente su Anna (1967) e My Family (1966). Queste opere maggiormente figurative risalgono agli anni Sessanta, quando ero in una fase di scoperta. Un’opera d’arte è sempre un modo per guardarsi e conoscersi. Nell’arte è difficile mentire o, se si mente, l’osservatore capisce che è un bluff, che non c’è sincerità, che non c’è verità. Così, ho creato Anna con due figure che rappresentano i miei genitori che dicono “Anna”, con il mio nome ripetuto sotto, inciso su una lapide. Questo perché la nascita e la morte faranno sempre parte della mia esistenza e, di conseguenza, della mia opera, in quanto momenti della vita. È la vita, non la morte, a fare paura. Per allontanare l’istintiva paura della morte, bisogna avere una capacità di rinnovamento, di resurrezione, di rifacimento, di resistenza. Pensi a quello che abbiamo sopportato durante la dittatura militare1. Credo che gli individui siano costretti da sempre a compiere delle scelte. Nel lontano passato, i nostri antenati condividevano sia il lavoro sia il raccolto. La vita si è inasprita quando l’umanità ha diviso le terre e stabilito che “tu prendi questa parte e io prendo quella”. Con la suddivisione territoriale, abbiamo perso le manifestazioni rituali che legavano possesso e piacere. Con la divisione della terra, il lavoro di altri esseri umani si trasforma in qualcosa di sfruttabile. Ora, la velocità delle notizie, l’impatto delle nuove piattaforme e dei nuovi mezzi di comunicazione, ci colpiscono e ci fanno interpretare i problemi del mondo dentro di noi, in carne e ossa. Come si fa a non preoccuparsi del fatto che l’umanità stia distruggendo se stessa e Madre Natura? Così, ci si rende conto che ci sono inondazioni ovunque sulla Terra, nel sud del Brasile, in Italia, in Cina... Con un maledetto virus che ci minaccia di morte. Sono sempre molto cauta nel nominare la parola “capitalismo” perché, con il denaro, si possono fare cose meravigliose per il benessere generale. Ma in che modo ci si vuole arricchire e a quale costo? Non si tratta solo di denaro; è anche una questione di valore e spesso confondiamo questi due aspetti. Sì. E spesso mi sento inadeguata a discutere di questioni legate al denaro, alla ricchezza e alla povertà di questi tempi. Mi sento più a mio agio nell’esprimere metaforicamente i miei dubbi e le mie preoccupazioni attraverso la mia pratica artistica. Quando dice “di questi tempi”, a quale periodo si riferisce? Non posso che essere autoreferenziale quando si tratta di questioni come queste, perché ho attraversato alcune tempeste nella mia vita. Sono nata nel 1942, in Italia, durante la guerra. Se si osservano con attenzione le poche fotografie rimaste dei primi anni della mia vita, si vede una bambina dal viso corrucciato e triste. La mia famiglia non possedeva una macchina fotografica perché le foto erano un lusso che non tutti potevano permettersi in un periodo in cui il cibo era la priorità principale. Seduta al tavolo da pranzo, vedevo la preoccupazione impressa sui volti di quelle tredici persone, durante i pasti del mattino, del pomeriggio e della sera. Tredici! A tavola, ascoltavo le conversazioni degli adulti e mi chiedevo: “Perché sono stata messa al mondo?”. Siamo sempre di fronte a una porta e dobbiamo decidere se varcarla o meno. Dobbiamo fare delle scelte. Anche questo nostro incontro è frutto di una scelta. L’empatia è importante, capire che cosa l’altro si aspetta da te. Ma torniamo a quell’espressione accigliata che


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avevo sempre da bambina: l’ho mantenuta per molti anni perché essere un’immigrata non è una cosa facile. Non appartieni al nuovo territorio e sai che l’essere straniero è una condizione che prevede di lottare per essere accettati. Ho dovuto affrontare l’esperienza dell’immigrazione anche come artista donna che lavora in un ambiente governato da artisti e critici maschi egemoni. Il termine “immigrato” non si limita a definire chi cambia territorio, ma comprende anche chi subisce trasformazioni in termini di identità di genere, così come chi subisce dislocazioni e oppressioni massicce dovute a questioni etnico-razziali e di minoranza. La proposta di Adriano Pedrosa mi ha toccato profondamente perché la sua portata supera di gran lunga la figura dell’immigrato che viaggia con la sua valigia, o la figura del nostro retirante che si spostava a piedi dal nord o dal nordest fino a Rio de Janeiro e San Paolo per lavorare nell’edilizia civile ed era trattato in maniera brutale. Vorrei tornare su un aspetto interessante che lei ha menzionato: l’esperienza di sentirsi un’immigrata in quanto donna artista. Il suo lavoro sembra sopportare questa provocazione, soprattutto all’epoca in cui è stato concepito, mentre oggi è un tema che circola più diffusamente. Mi corregga se sbaglio, ma non l’ho mai vista presentare esplicitamente questa tematica come una causa politica, come facevano, per esempio, le femministe negli anni Sessanta e Settanta. Sebbene questo aspetto sia un tema centrale nel suo lavoro, non è stato né esplicitamente negato né affermato, sembrando invece una parte intrinseca del suo processo poetico. Mi sono comportata come immigrata e come donna. Non credo che avrei strappato i reggiseni come le donne dei movimenti femministi americani degli anni Sessanta e Settanta, che lottavano per la liberazione della donna, anche se ero d’accordo con loro. In altre parole, penso che in ogni minoranza ci sia qualcuno che si sacrifica. Io non avrei fatto questo sacrificio perché sono diventata madre molto presto, a ventidue anni. E la maternità non si limita al rapporto con i miei figli; la maternità si vive con l’ambiente circostante, compreso il lavoro. Cioè, percepisco l’essere donna come accettazione, attenzione alla vita. Nel mondo ci sono bambini abbandonati che vengono accolti da famiglie, anzi da donne che li crescono come figli propri. In Venezuela, mi stupiva che ogni mio amico o amica avesse un fratello o una sorella in affido perché una donna li aveva accolti. Quindi, non ho mai voluto trasformare il mio essere donna in un problema perché, tra le varie ragioni, confidavo che le cose sarebbero cambiate. Non è che l’azione non sia importante, ma ci sono modi di agire estremamente rilevanti in certe situazioni che non includono l’imbracciare un’arma. Quindi, questo si basa sulla convinzione che ci sia spazio per tutte le cose? Sì, non sarei in grado, né avrei l’indole di agire in altro modo; né ho mai avuto intenzione di creare opere d’arte dal contenuto propagandistico. Ho affrontato questo argomento proprio perché penso che il suo lavoro, nell’ambito della cerchia in cui ha vissuto, in particolare a Rio de Janeiro, appartenga a una generazione in cui diverse donne forti hanno fatto irruzione nel sistema dell’arte e operato in modi molto diversi. Il suo lavoro


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INTERVISTATA DA AMANDA CARNEIRO

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non mi ha mai dato l’impressione di essere esplicitamente femminista, ma affronta da sempre una poetica associata al senso della famiglia, in cui la donna gioca evidentemente un ruolo di fronte all’oppressione di genere... Sì, e anche al senso della politica. Non ci si sottrae all’aspetto politico. Eppure, spesso questo si trasforma in una sorta di nebbia per chi non ha la sensibilità di capire che ciò che è personale è anche profondamente politico, e il suo lavoro comprende molti aspetti della sfera interpersonale. Alcuni uomini della scena artistica degli anni Sessanta avevano classificato il mio lavoro come scontato. Evidentemente, sarei stata meglio accettata se avessi aderito a un modello di produzione maschile. Sembra che ciò che gli uomini consideravano scontato nel mio lavoro fosse la mia espressione di un modo femminile di sentire l’arte. Credo che ogni artista sia dotata di una certa androginia, di un non-binarismo, poiché porta in sé sia il femminile sia il maschile. C’è stato un periodo in cui questo mi turbava perché alcuni uomini che ammiravano il mio lavoro mi dicevano: “È così bello che sembra fatto da un uomo”. Ne ho parlato con Lygia Clark, che mi ha detto: “Anna, lascia perdere. Tutta l’arte è femminile e tutta l’azione è maschile”. Il che è vero, ma allo stesso tempo è un paradosso. Recentemente, uno di questi critici ha pubblicato un testo sulle donne artiste degli anni Sessanta e non ha fatto il mio nome. Forse perché per lui continuo a essere troppo scontata. In generale, non mi sento offesa e cerco di capire le motivazioni e le ragioni degli altri, riconoscendo il fatto che tutti dobbiamo gestire la nostra complessità di esseri umani. È una qualità notevole, quella di riuscire a trasformarsi attraverso il dialogo con gli altri. Ritengo che l’esperienza dello spostamento produca questo effetto, in quanto ci si confronta con realtà diverse. Per esempio, lei ha sperimentato contesti molto diversi, si è confrontata con numerose lingue e si è immersa in varie culture. È un’esperienza trasformativa accessibile a chi si apre a essa. Si possono scoprire nuovi mondi all’interno dello stesso mondo. Dico questo perché non credo che sia sempre necessario trasferirsi fisicamente per sentirsi outsider. Tuttavia, diventare estranei in un nuovo territorio, in una nuova cultura e in una nuova lingua rappresenta senza dubbio un’altra sfida. Ho lasciato l’Italia a dodici anni, e sono stata pesantemente colpita dai cambiamenti. Di solito associamo la malattia a qualcosa di fisico, ma anche la tristezza profonda è una malattia. Un testo di Catherine de Zegher2 e anche un film di Charlie Chaplin, L’emigrante (1917), hanno avuto un forte impatto su di me, rivelandosi utili per comprendere il mio percorso. Sono arrivata a Caracas con la mia famiglia in un periodo in cui il Venezuela cercava immigrati per rilanciare la propria economia, offrendo di pagare il biglietto per il viaggio via mare a chiunque fosse interessato. Quindi, il governo venezuelano ha di fatto sostenuto i costi del mio viaggio. Durante la traversata, eravamo obbligati a portare sul petto un’etichetta con la scritta “immigrato”. Io non l’ho mai messa e ho scritto un racconto, un piccolo memoriale, in cui descrivo come, una volta arrivata a Caracas, mi portassi quell’etichetta in tasca


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ovunque, come un talismano e un pegno. Quando nel 1958, a sedici anni, mi sono iscritta alla Scuola di Belle Arti Cristóbal Rojas di Caracas avvenne in me un cambiamento cruciale. Posso affermare che l’arte mi ha guarita dalla tristezza. Questa mia esperienza è simile al lavoro svolto dai nostri movimenti sociali e dalle ONG qui in Brasile che lottano per l’accesso dei bambini svantaggiati alle pratiche artistiche, restituendo loro la dignità. L’arte può essere una medicina potente, anche durante la guerra e a fronte di tutte le persecuzioni del mondo, perché restituisce alla persona la capacità di essere un individuo. Rendermi conto della potenza che emana l’arte mi commuove. Al liceo artistico ho frequentato solo due anni di belle arti. Essendo una brava studentessa, mi è stato concesso il privilegio di utilizzare tutti gli studi e i materiali che volevo. A quel tempo il Venezuela era una terra ricca, favorita dall’estrazione del petrolio. A diciotto anni ho presentato uno dei miei primi dipinti al XXI Salone nazionale d’arte venezuelana, segnando così la mia prima partecipazione a un evento ufficiale. Per molti giovani artisti, partecipare ai saloni d’arte era il modo più semplice di esporre le proprie opere. Si trattava di un’opera figurativa, raffigurante pentole da cucina. Curiosamente, in questo primo lavoro è già presente l’interesse per il rapporto tra esterno e interno, questioni che avrebbero fornito le basi per lo sviluppo di tante altre opere successive, come i buchi della serie Desenhos Objetos, degli anni Settanta e le mie sculture modellate, iniziate negli anni Ottanta e continuate fino a oggi. L’arte mi ha reso felice e credo che i miei genitori ne fossero consapevoli, visto che non hanno mai messo in discussione la mia vocazione. Quando eravamo a Rio de Janeiro, e io iniziavo a cimentarmi con l’incisione, mio padre tornava sempre a casa dal lavoro portando in dono alcuni attrezzi, dicendo: “Questo paio di pinze potrebbe esserti utile?”. Era un gesto bellissimo, simbolicamente, visto che tutti gli attrezzi sono comunemente associati all’universo maschile, e lui, mio padre, li forniva a me, sua figlia, una donna, per realizzare opere d’arte. Suo padre sembra essere stato un uomo molto sensibile. Sì. Gli sarò sempre grata per questo significativo e liberatorio gesto d’affetto. Nel suo lavoro, l’idea di confine e di incontro mette in luce anche i conflitti; non sembrano rafforzare la pacatezza, pur offrendo un certo conforto poetico. La gente è molto legata a queste opere; mi vengono in mente, ad esempio, quelle che derivano da Fotopoemação (1981), una serie che, per quanto bella, svela i conflitti. La poesia può trasformare qualsiasi dolore e qualsiasi dramma in qualcosa di sopportabile e bello. Fortunatamente, l’arte possiede questa capacità! È in grado di trasformare le cose peggiori che si possano immaginare in qualcosa a cui si possa assistere e da cui si possa comunque uscire nutriti. Il cinema ci riesce benissimo; anche la scrittura, alcuni libri lasciano senza fiato. Un libro che mi viene sempre in mente è Cent’anni di solitudine (1967) dello scrittore colombiano Gabriel García Márquez. È stato uno dei primi libri che ho letto quando ero molto giovane. Nonostante sia una tragedia, se ne esce arricchiti per l’impatto emotivo che ha sul lettore. Sì, lo ripeto, la poesia offre conforto. Direi che la serie Fotopoemação è la mia opera più esplicitamente sociale, oltre che poetica, nel suo tentativo di esorcizzare


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INTERVISTATA DA AMANDA CARNEIRO

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situazioni politiche arbitrarie. Il mio film In­Out (Antropofagia) (1973–1974) è stato il primo film in 8 mm girato durante la dittatura militare. In esso, la realtà del contenuto è mascherata dalla poesia espressa tra il simbolismo e le metafore che vengono mobilitate, poiché spesso superano inosservate il sistema di censura e repressione. Tuttavia, credo che il pubblico colga il messaggio del film. Fortunatamente, queste opere resistono alla prova del tempo. Per esempio, la mia performance Entrevidas (1981), che ho presentato quest’anno a Berlino, alla Neue Nationalgalerie, conserva ancora una vitalità e un significato che rimangono attuali in quanto interrogano la violenza. Parlando dell’invecchiamento, lei ha detto che il suo corpo non risponde più come prima. Tuttavia, questo processo coincide con una produzione che ha una durata molto ampia e, come può accadere con le opere d’arte, ti sopravvive. Il suo lavoro, che ha una presenza così duratura nella mia vita e in quella del pubblico brasiliano, plasma il nostro immaginario artistico in continua evoluzione, perché comprende opere aperte a nuove letture e comprensioni. La sua produzione attuale rimane molto dinamica; tutte le sue ultime mostre presentano lavori recenti. Sono una nomade all’interno di me stessa, cioè vado e vengo tra le mie emozioni e i miei desideri. Con questi movimenti, torno a fare opere d’arte. È per questo che considero il mio lavoro sempreverde; sono una mutante che con gioia permette a se stessa di sostenere l’opera. Tutto può servire da motivazione per la creazione di un’opera d’arte. La lettura dei giornali è stata uno stimolo per i disegni a sfondo politico sui femminicidi che dilagano nelle società odierne, che ho messo in sequenza in una serie che ho poi intitolato Andazzo iniziata nel 2020. Il mio lavoro artistico è sfaccettato perché risponde alle contaminazioni del mondo reale, di ciò che mi circonda, e di tanti altri miei interessi, sia sensoriali sia concettuali, nei confronti della vita. E accolgo questa contaminazione dalla vita, dalla vita così com’è. Ora vorrei parlare brevemente del suo progetto per la Biennale Arte 2024. Che ne dice del titolo, le è piaciuto? Mi è piaciuto, soprattutto perché rafforza la sensazione di transito nella sua pratica artistica. Ho pensato che il titolo Going Back and Forth, con i suoi molteplici significati, fosse sufficiente per denominare e indicare l’intenzione del lavoro, ma senza soffermarsi eccessivamente sulle definizioni. Una serie che lei crea con l’argilla si intitola Modelled Earth. Mi piace molto questo titolo. Trovo che sia più che indicativo: ha una qualità multidimensionale. Si possono fare analogie con altre forme scultoree... Compresi i processi della terra, in una lettura più territoriale, come indica la modellazione dell’argilla, un atto di trasformazione della natura attraverso le mani dell’uomo. Il modellare la materia prima porta con sé anche l’immagine della costruzione di una forma attraverso il lavoro.


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Sì. Il mio contributo a questa Biennale Arte occuperà uno spazio chiamato Casetta Scaffali all’Arsenale, con alcuni elementi multimediali esposti in monitor e un pezzo realizzato con la vegetazione, oltre a una scultura in argilla intitolata Ao Infinito, della serie Modelled Earth, una delle componenti principali dell’installazione Going Back and Forth3. Il lavoro di modellazione permette di ripetere ogni forma all’infinito, sfruttando la ripetizione della spinta energetica delle azioni delle mani che compattano la terra/argilla. Questa materia organica primordiale è elastica, piacevole e sensuale al tatto. In questo modo, le forme diventano segmenti ripetuti – uguali ma anche diversi – che si sommano e si accumulano nel corpo della scultura-installazione. Sappiamo che le azioni della mano sono sempre uniche e molteplici nella loro ripetizione. In questo lavoro di modellazione dell’argilla, ero mossa dal desiderio di raggiungere il “tutto” con la ripetizione dei gesti. Sono riuscita ad accumulare frammenti e a rivelare l’entropia, l’energia spesa nella realizzazione di quest’opera. Che cosa viene prima: la mano o il cervello? Sicuramente, quando i nostri antenati hanno smesso di afferrare il cibo con la bocca e hanno iniziato a usare le mani, queste ultime sono diventate i primi strumenti in assoluto. Con loro, nel tempo, è nata l’elaborazione di vasi, di recipienti, che ci collegano sempre al cibo, dando origine alle nostre culture. Come la manipolazione della terra, anche l’argilla può essere un gioco per i bambini; il modellare può essere un mezzo di terapia. Simbolicamente, maneggiare la terra è importante perché l’umanità ha raggiunto veramente l’aspetto tecnico e la sua cultura produttiva solo quando ha capito come trattare la terra, arare il terreno, coltivare i semi e mietere. Anche in questo caso ci troviamo di fronte alla necessità di fare delle scelte, non è vero? Ma quando scorgo questa capacità che abbiamo avuto, e continuiamo ad avere, di sviluppare diverse tecniche di lavoro, anche se non sono un’esperta di tecnologie digitali, rimango sempre affascinata. In questo senso, senza il sostegno degli altri sarei persa, e sono sempre entusiasta della capacità dell’umanità di rinnovarsi. Mi piace la dialettica con un po’ di negatività perché alimenta la mente. Quando visito delle mostre e mi imbatto in opere che non mi piacciono, queste stimolano la mia immaginazione più di quelle che mi piacciono, perché mi danno la possibilità di dialogare con me stessa sui temi e sui problemi presentati dall’artista. D’altra parte, non credo che ci possa essere perfezione nell’arte, ma si può trovare bellezza in ciò che è imperfetto. E ho avuto molte persone incredibili vicino a me, relazioni che mi hanno aiutato a scolpire la mia identità. Devo ancora molto ai pochi amici che hanno condiviso con me conoscenze e affetti, oltre che ai libri, che sono grandi amici. Sono anch’io un’appassionata lettrice di narrativa e credo che ogni lettore possa costruire il pensiero in un modo in cui la contemplazione diventa altamente poetica e si posiziona come parte presente dei processi del mondo. Vivere (e invecchiare) con la letteratura è sempre un’ottima scelta. Parlando di Cent’anni di solitudine, lei sottolinea il processo di incontro con un’opera, sia essa di letteratura o di arte visiva, e come questo possa cambiare la vita, con la creazione di nuovi significati quando si entra in contatto ripetutamente con la stessa opera, cosa che sento anch’io nel mio impegno ripetuto con il suo lavoro.


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Questa intervista si è svolta a San Paolo, Brasile, il 21 settembre 2023.

NOTE

1

Anna Maria Maiolino si riferisce qui alla dittatura civile-militare in Brasile, un regime autoritario istituito nel 1961 attraverso un colpo di Stato politico che ha soggiogato il Paese sotto i successivi governi militari. Durante questo periodo, il regime ha commesso numerose violazioni dei diritti umani, tra cui la censura della stampa, la restrizione dei diritti politici e la persecuzione degli oppositori del regime da parte della polizia. Questo periodo di oppressione è durato fino al 1985, quando è stata formata un’assemblea costituente che ha portato all’approvazione della Costituzione nel 1988, segnando il ritorno del Brasile alla normalità democratica istituzionale.

2

Catherine de Zegher et al., The Inside Is the Outside: The Relational as the (Feminine) Space of the Radical Women Artist at the Millennium, in Women Artists at the Millennium, Cambridge, MIT Press, 2001.

3

La Biennale Arte 2024 è suddivisa in due sezioni principali: il Nucleo Contemporaneo e il Nucleo Storico. Anna Maria Maiolino è una dei pochi artisti presenti in entrambi i segmenti della mostra. Nel Nucleo Contemporaneo presenta l’installazione di nuova creazione Going Back and Forth, come detto. Nel Nucleo Storico è presentata in uno spazio dedicato agli artisti italiani emigrati nel Sud del mondo, sotto il titolo Italiani ovunque, con l’opera Anno 1942 della serie Mappe mentali (1973), esposta sui cavalletti di vetro di Lina Bo Bardi.

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INTERVISTATA DA AMANDA CARNEIRO

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Rileggo un libro due o tre volte, e mi sembra sempre nuovo. Tuttavia, negli ultimi tempi, il mio carico di lavoro mi ha impedito di leggere. Il rapporto che emerge quando il lavoro raggiunge una maggiore visibilità è intrigante perché, se non si presta attenzione, può finire per dirottarti... Come percepisce questa sorta di “prigionia”? La visibilità di un’opera comporta dei compromessi che possono togliere il senso di gratuità, libertà e spontaneità con cui si vorrebbe vivere il processo. Tuttavia, se mi trovo a rilasciare un’intervista, credo che faccia parte del raccolto, di stare raccogliendo ciò che ho seminato nel corso della mia carriera di artista. Per me, più che il denaro, il raccolto vero e proprio si riduce a tutto ciò che di buono deriva dal mio lavoro artistico. La ringrazio perché considero questa nostra conversazione un bellissimo raccolto. Grazie mille, Anna. Grazie a lei per la sua dedizione.


NEL SEGNO DELL’ESILIO. RIFLESSIONI, LETTURE E ALTRI SAGGI, TRADUZIONE DI MASSIMILIANO GUARESCHI E FEDERICO RAHOLA, MILANO, FELTRINELLI, 2008.

Vedere “l’intero mondo come una terra straniera” rende possibile un’originalità di prospettiva. La stragrande maggioranza delle persone si trova a vivere nella consapevolezza di una cultura, di un ambiente, di una casa; gli esuli invece sono consapevoli dell’esistenza di almeno due di queste condizioni, e tale pluralità produce a sua volta una consapevolezza dell’esistenza di dimensioni simultanee, una consapevolezza, cioè, che prendendo a prestito un termine musicale, è contrappuntistica. Agli occhi di un esule, una forma di vita, una determinata espressione o anche una semplice attività che si svolgano in un ambiente nuovo, accadranno sempre sullo sfondo della memoria, del loro ricordo in un ambiente diverso. Per questo, nuovo e vecchio finiscono per essere entrambi analogamente vividi, ugualmente attuali, per ricorrere insieme contrappuntisticamente.

EDWARD W. SAID



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Sofia Gotti 외국인은 어디에나 있다

intervistata da

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Nil Yalter


Negli anni Settanta, molti giudicavano la pratica di Nil Yalter folkloristica o documentaristica: opere che non appartenevano ai musei d’arte contemporanea, ma piuttosto ai musei antropologici o alle sedi sindacali. Interessata agli strati di subalternità e disuguaglianza sulla base di classe, razza e genere, l’artista mette in primo piano l’intersezionalità ante litteram. La sua missione è quella di dare voce a coloro che sono stati relegati ai margini della società, anticipando molte delle ricerche su quello che oggi viene definito femminismo decoloniale. Yalter ha ricevuto una formazione informale a Istanbul grazie alla famiglia, agli amici e ai coetanei che l’hanno introdotta al canone dell’arte moderna europea. Rimane particolarmente colpita dal Costruttivismo russo e l’astrazione geometrica diventa il suo linguaggio pittorico. Solo quando si trasferisce a Parigi, nel 1965, il suo lavoro subisce una radicale trasformazione e diventa una figura attiva tra i vari gruppi femministi riunitisi all’indomani del Maggio 1968. Nel 1973, Yalter abbandona la tela e adotta come campi di sperimentazione la fotografia, il video, il testo e le installazioni. Quando Yalter mi accoglie nel suo studio parigino, entro in uno spazio pieno di libri ammassati in tutto il piccolo appartamento vicino agli Champs-Élysées. “Ne sto donando la metà!”, mi dice, elencando musei e biblioteche interessati ad acquisire ciò che per una vita ha raccolto attraverso le sue collaborazioni e ricerche con colleghi, antropologi e registi in luoghi iconici quali l’Institute of Contemporary Arts (ICA) di Londra o la A.I.R. Gallery di New York.

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INTERVISTATA DA SOFIA GOTTI

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Ho scoperto di recente che in gioventù era un’attrice e che ha percorso a piedi la strada dalla Turchia all’India insieme a un ragazzo. Sì, è vero. Era un drammaturgo e anche un mimo. L’ho conosciuto a Istanbul, dove abbiamo rappresentato i primi mimodrammi sui palcoscenici della città. Lui e Marcel Marceau erano entrambi allievi di Étienne Decroux, che aveva inventato il mimo moderno, dopo quello già esistente nella commedia dell’arte e in Shakespeare. In India, il teatro tradizionale kathakali è una sorta di pantomima, simile al teatro nō giapponese: in entrambi i casi non c’è parlato, ma solo musica e danza. Ci siamo esibiti in tutta l’India per circa un anno e mezzo, guadagnandoci da vivere con i nostri spettacoli perché con il mimo non c’è barriera linguistica. Per noi l’arte era la pantomima. Ho trovato alcune recensioni dei nostri spettacoli sul Bombay Times e su altre riviste. Per loro era una novità assoluta. Ci esibivamo all’Alliance Française e in luoghi molto tradizionali e vivevamo come i primi hippy. Ho alcune immagini di tutta questa esperienza e mi piacerebbe fare un lavoro su questo viaggio. Quando ho iniziato a sentirmi debole sono tornata a Istanbul, mentre il ragazzo ha proseguito il viaggio ed è andato in Giappone. Devo chiederglielo. Come ci è riuscita? Come ha reagito la sua famiglia al suo attraversare l’India da sola con un ragazzo? Nessuno riusciva a tenermi testa, mia cara. Nemmeno adesso! Quando ho deciso di partire, sia mio padre che mia


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madre, che erano separati, sapevano che non avrebbero potuto fermarmi. A meno che non mi avessero legato a una sedia, non avrebbero potuto fermarmi. Sono sempre stata così. Mi sono sposata a diciotto anni per avere un passaporto francese che mi consentisse di viaggiare, poiché in quanto cittadina turca non potevo averne uno. È difficile immaginarla debole. Ho letto che ha detto che è stato durante questo viaggio che è diventata “un’estranea”. All’interno di questa Biennale Arte abbiamo giocato con lo slittamento tra i concetti di straniero, estraneo e strano. Che cosa significa, per lei, essere un’estranea? Durante quel viaggio ho scoperto per la prima volta che cosa significasse essere estranea a una cultura e ne sono rimasta affascinata. La cultura indiana è così ricca: la povertà, il sistema delle caste, i colori, questa religione straordinaria. L’induismo ha così tante divinità – e ognuna ha un evento artistico dedicato. Krishna e Shiva sono arte, e io ci ho vissuto in mezzo. È stato sorprendente. Era la mia università. È stata la prima volta in cui mi sono sentita un’estranea. Gli indiani considerano impuri i non indù. Mi riferisco a coloro che vivevano nei piccoli villaggi che attraversavamo: anche se ci mostravano grande ospitalità, per loro eravamo comunque impuri. Quando arrivavamo in un villaggio, ci davano una stanza per gli ospiti: si trattava di spazi molto umili, dove usavamo i nostri sacchi a pelo. Pur essendo amichevoli, non mangiavano con noi: ci davano il cibo in vasellame molto semplice e lo rompevano una volta finito. È la loro tradizione. Sono gentili con te e si prendono cura di te, ma tu non sei uno di loro. Sei l’Altro. Sono stata a casa di Ravi Shankar, che si comportava diversamente perché aveva viaggiato in Europa. I Beatles dissero che li aveva ispirati. Era a metà tra tradizione e modernità, quindi non rompeva i piatti, ma sono sicura che suo padre lo faceva. Forse tutto il mio lavoro attuale sull’immigrazione deriva da questo grande viaggio di quando ero giovane. Tuttavia, l’immigrazione di cui mi occupo nel mio lavoro è soprattutto di tipo economico. Le persone con cui collaboro sono venute qui in Francia per lavorare. Quando ha iniziato a dipingere e disegnare? A dieci o dodici anni. Le bambine erano interessate alle bambole, ma io giocavo con colori e matite e mio padre mi comprava piccole pubblicazioni su tutti gli artisti moderni. Ho iniziato a disegnare da bambina con la madre di mio padre, che era una circassa proveniente dalla Russia. Era arrivata nell’Impero ottomano a cavallo, con il padre. La ricordo da quando avevo cinque anni, appena tornata a Istanbul dal Cairo, dove sono nata. Viveva con noi, era molto devota e pregava cinque volte al giorno su una stuoia. Io le toglievo la stuoia da sotto i piedi e lei cadeva a terra. Mi hanno lasciata con lei e lei si è presa cura di me. Era molto moderna. Mi raccontava le storie, come si fa con i bambini. A un certo punto si è stancata di raccontarmi storie e ha detto: “Adesso cominciamo a disegnare”. Così ha iniziato a disegnare storie su fogli di carta divisi in piccoli riquadri come un fumetto. Disegnava le storie – era bravissima a disegnare – e quando era a metà, si girava verso di me e diceva: “Ora disegna tu il resto”. È così che ho iniziato a disegnare e non ho più smesso. E quando ha iniziato a interessarsi all’astrazione? Solo dopo che è uscito Dictionnaire de la peinture abstraite. Précédé d’une histoire de la peinture abstraite di Michel Seuphor (Fernand Hazan, 1957). Prima di allora, in Turchia non c’era nulla – né gallerie, né musei, né libri – sull’astrazione. Girava una sola copia di questo


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dizionario che ci scambiavano. Un mio amico me l’ha prestato per un po’, poi ne ho comprato uno mio, ma è stato molto più tardi. Tra i quattordici e i diciotto anni ho iniziato a fare amicizia con quelli che chiamano artisti astratti. La maggior parte di loro si era formata a Parigi ed era poi tornata a Istanbul. È stato uno di loro – uno scultore che aveva studiato a Parigi e che dopo essere rientrato a Istanbul, si è poi stabilito in Danimarca – a spiegarmi che cosa fosse il Costruttivismo. Da quel momento in poi, l’arte della Rivoluzione russa è stata il movimento più importante per me. Lei fa spesso riferimento agli scritti di Malevič sull’arte bizantina. Anch’io sono interessata alle storie dell’arte diacroniche scritte da artisti che si collegano a contesti estranei, naturalmente estranei solo in superficie. Lei è tra i pochissimi partecipanti di questa Mostra ad avere una doppia presenza, nel Nucleo Storico e nel Nucleo Contemporaneo. Il dipinto del Nucleo Storico, Pink Tension, del 1969, è un’astrazione geometrica, uno stile che lei ha sperimentato quando si è trasferita a Parigi. Come è cambiato il suo approccio all’astrazione geometrica quando è emigrata? In Turchia facevo astrazioni come Serge Poliakoff, ma a Parigi la pittura hard­edge mi ha influenzato molto. A Istanbul ero diventata una pittrice abbastanza nota, ma l’unico posto dove potevamo esporre era il Goethe-Institut; per guadagnarmi da vivere ho iniziato a realizzare costumi e scenografie per il teatro e ho venduto molti dei miei dipinti. Ma sapevo che al di fuori di Istanbul stava succedendo qualcosa e che conoscere Cézanne e Picasso non era abbastanza. Volevo scoprire il mondo dell’arte contemporanea che negli anni Sessanta esisteva già: volevo conoscere la Pop Art, l’arte concettuale e così via. Arrivata a Parigi ho avuto la fortuna di conoscere la galleria di Ileana Sonnabend, che era stata sposata con il gallerista newyorkese Leo Castelli. Erano stati loro a scoprire la Pop Art. Ileana, dopo il divorzio da Castelli, aveva sposato Michael Sonnabend e aperto la sua galleria, che all’inizio era lungo la Senna. La prima cosa che ho fatto quando sono arrivata nel 1965 è stato andare alla sua galleria a vedere la mostra di Andy Warhol, che aveva realizzato dei dipinti murali a fiori in tutta la galleria e sopra vi aveva appeso piccole stampe e dipinti. Una cosa per me strabiliante. Ho pensato: “Questa è arte, ma non riesco a capirla. Devo elaborarla e capire come riuscire a farne parte”. A quel tempo, il mondo dell’arte non era come oggi. Era molto semplice. Ad esempio, a Rauschenberg piaceva il cibo giapponese, quindi Ileana ordinava il sushi nell’unico posto dove trovarlo a Parigi. Tutti venivano alla galleria e mangiavamo sushi insieme. Lì ho conosciuto anche Robert Morris. Ho iniziato a imparare in quell’atmosfera. E nessuno era una star. Tuttavia, questo non è stato il mio primo contatto con Parigi. Ci ero già stata nel 1956, per un mese, ed è allora che ho scoperto per la prima volta Yves Klein. Anche questo mi ha sconvolta. Ho anche scoperto i drammaturghi Arthur Adamov e Eugène Ionesco. Nel decennio tra il 1956 e il 1965 avevo tante domande per la testa. Sono venuta a Parigi per stabilirmi e per imparare. Le sue prime astrazioni fungono quasi da ponte. Prima, un ponte tra la Turchia, dove non succedeva “nulla” sul piano culturale, e il resto d’Europa, dove l’avanguardismo dilagava. E poi tra Parigi e la Turchia, dove le turbolenze politiche definivano la vita quotidiana. Sembra che la serie di disegni Deniz Gezmiş (1972) unisca la sperimentazione formalista che ha definito


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la sua prima pratica e l’impegno politico che ha guidato il suo lavoro successivo. È il primo lavoro in cui ha riunito materiali trovati, testi e performance, ed è anche il primo in cui affronta direttamente un tema politico. Deniz Gezmiş è il nome di uno dei tre giovani rivoluzionari che fondarono l’Esercito Popolare di Liberazione della Turchia e che furono giustiziati a Istanbul nel 1972. Sono tornata a Istanbul nel 1971, quindi ero lì quando si sono svolti gli eventi che hanno portato all’esecuzione. Ogni giorno seguivo ciò che accadeva e annotavo i fatti. Pink Tension, invece, sembra riflettere le influenze a cui è stata esposta a Parigi: la Pop Art e l’hard­edge Nouveau réalisme. Si percepisce una rottura tra l’astrazione geometrica e installazioni come Topak Ev (1973), l’altra opera proposta a Venezia, nel Padiglione Centrale dei Giardini. Si tratta dell’elaborazione di una tenda per nomadi fatta di feltro e pelli animali. Come ha avuto l’impulso di creare un’installazione immersiva dopo aver lavorato per anni con la pittura su tela? L’idea di Topak Ev è nata dalla mia ricerca sulle società nomadi in Turchia. Sono andata a trovare i nomadi a Niğde, la capitale della regione centrale dell’Anatolia. Un etnografo del Musée de l’Homme, Bernard Dupaigne, mi ha fornito tutte le informazioni su di loro: quando una donna di una tribù nomade compie tredici anni, inizia a costruire la propria tenda, che diventa la sua casa. La tenda è come un grembo materno. È rotonda. Quando si vuole sposare è lei a invitare un potenziale marito nella sua tenda, se non invitato da lei, nessun uomo può entrare. Allo stesso tempo, il suo mondo è all’interno e non può uscire molto. Lì ho fatto dei collage. Tutte le donne mi hanno raccontato di avere un fratello, uno zio, un figlio, un padre partiti per la grande città dove hanno iniziato a costruire delle favelas: in un giorno tiravano su quattro mura anche se non c’era alcuna proprietà privata. Da lì sono andati in Germania come lavoratori immigrati. Quindi è stata quasi una progressione naturale o biologica dal nomadismo all’immigrazione. Nomadismo e migrazione sono entrambi punti nevralgici del suo lavoro. Naturalmente il nomadismo è un concetto su cui si sono basati pensatori come Gilles Deleuze o Félix Guattari per tracciare una forma di conoscenza deterritorializzata e per ripensare la politica di relazione tra sé e l’Altro. Anche se gran parte del mio lavoro è incentrato sull’immigrazione, non mi considero un’immigrata. All’inizio ho compiuto un’azione di nomadismo, cambiando Paese per motivi culturali. Ero politicamente coinvolta con gli intellettuali fuorilegge del Partito Comunista Turco. Ho co-fondato con Joël Boutteville il gruppo Amicale France-Turquie e alla fine degli anni Settanta abbiamo distribuito informazioni in tutta Europa. Sono stata informata di quanto stava accadendo dopo il putsch militare del 1980 a Istanbul, e poi per tredici anni consecutivi non sono potuta tornare in Turchia. La gente pensa che sia stato a causa del mio lavoro: invece è stato grazie al mio lavoro che sono stata coinvolta politicamente, ed era perché ero coinvolta politicamente che facevo questo lavoro. Il suo lavoro con le comunità di lavoratori immigrati mostra l’importanza del lavoro quando si affrontano le questioni legate alla migrazione. Il lavoro qui è visibile nella sua pratica, nel modo in cui era politicamente coinvolta e nel


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modo in cui nei suoi progetti si è avvicinata ai partecipanti, la cui vita quotidiana e le cui condizioni sociali erano definite dal loro rapporto con il lavoro. Io non credo che si possa andare a casa delle persone e chiedere loro di filmarle. Per poterlo fare ho lavorato con studenti turchi nelle università, con le comunità di immigrati e con gli assistenti sociali dei comuni fuori Parigi. I consigli comunali hanno chiesto alle persone se volessero incontrarmi, ho spiegato loro che cosa volevo fare e loro hanno deciso se accettare o rifiutare. Questo è il modo in cui si lavora in questi contesti. Ma per riuscirci, ho dovuto essere coinvolta politicamente e viceversa. A un certo punto tutti i miei amici facevano parte di questi gruppi; non li definirei attivisti, perché in realtà lavoravano come assistenti sociali. Quelli che sono tornati in Turchia dopo il 1980 sono stati tutti imprigionati. Molti di coloro che facevano parte del Partito Comunista Turco fuorilegge sono stati torturati. La storia turca ha visto i militari prendere il potere più volte. La storia repubblicana, intendo. Il titolo della raccolta di poesie di Nâzım Hikmet, Il duro mestiere dell’esilio (1957) – che è anche il titolo della sua installazione nel Padiglione Centrale – non riguarda solo le difficoltà dell’esilio, ma anche le condizioni di lavoro che definiscono la vita di un immigrato. L’installazione, composta da fotografie e video, è stata realizzata successivamente, ma è anche esposta insieme a Topak Ev. Può dirmi qualcosa di più sulla genesi di questi due progetti? Nel 1973 Suzanne Pagé mi ha chiesto di realizzare la tenda come mostra personale al Musée d’Art Moderne di Parigi. Vivevo e lavoravo in uno spazio di 18 metri quadrati. Tutto quello che avevo era un progetto per la tenda e qualche schizzo, ma lei ha detto: “Fallo e ti organizzo una mostra a novembre”. Così ho fatto la mostra, ed era pieno di gente. Ho un breve video delle persone che entrano nella tenda, era la prima volta che usavo un portapak ed ero insicura con la telecamera. Dentro la tenda c’era del formaggio secco regalatomi da dei nomadi. Alcune persone erano stupefatte, perché probabilmente si trattava di una delle prime installazioni realizzate in Francia, anche se all’epoca non le chiamavamo installazioni, bensì opere ambientali. Suzanne era molto contenta, ma allo stesso tempo coloro che venivano – soprattutto i ricchi collezionisti snob del mondo dell’arte – dicevano che si sarebbe dovuto trovare al Musée de l’Homme. E naturalmente l’ho realizzata con la consulenza di un etnografo di quello stesso museo. Dieci anni dopo, nel 1983, Suzanne mi ha chiesto di fare un’altra mostra personale ed è stato allora che ho realizzato Exile is a Hard Job. Che è l’installazione che si può vedere al Padiglione Centrale. Nei video, uomini e donne che lavorano nei laboratori segreti del Faubourg-Saint-Denis raccontano le loro condizioni di vita. Le differenze tra le testimonianze di uomini e donne offrono ulteriori motivi di riflessione. A volte gli uomini si soffermano sulle forme sistemiche di sfruttamento economico da parte del governo francese, mentre le donne riflettono sul doppio carico della famiglia e della casa. La studiosa Fabienne Dumont analizza questo aspetto del suo lavoro fin dagli anni Settanta e in questo senso il suo lavoro è fondamentalmente intersezionale. Insiste sui diversi strati di genere, classe e geografia nel trattare l’oppressione e la disuguaglianza verso quello che potrebbe


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diventare un terreno d’incontro tra le esperienze degli immigrati svantaggiati. I partecipanti come hanno accolto i progetti? Quando mostravo loro quello che avevano detto nel filmato, lo controllavano e, se non erano soddisfatti, lo giravamo di nuovo. Le persone – immigrati, richiedenti asilo in attesa di documenti, lavoratori clandestini e non – sono state molto aperte e sono venute tutte ai diversi eventi in cui ho presentato il lavoro. Il primo è stato alla Biennale di Parigi nel 1977, quando ho presentato La communauté des travailleurs turcs à Paris (La comunità dei lavoratori turchi a Parigi), un progetto di video, disegni e fotografie realizzato con gli immigrati insediati nella periferia parigina. Ho un’immagine che è molto interessante perché si vedono le stesse donne e gli stessi uomini delle foto alle pareti, mentre visitano lo spazio espositivo e si osservano. La mise en abyme nel suo lavoro ricorre ancora una volta. All’inizio, il direttore era contrario all’invito di queste comunità alla mostra perché temeva che tutti i bambini toccassero le opere. Gli ho detto che se non li avesse fatti entrare, avrei preso tutte le mie opere e me ne sarei andata. Ha dovuto accettare, ma dopo è stato molto contento. Avendo io maggiore familiarità con il contesto britannico degli anni Ottanta e con le politiche multiculturali del thatcherismo, criticate da figure come Stuart Hall o Rasheed Araeen, mi chiedo quali siano state le relazioni di questi discorsi nel contesto della Francia di quel periodo. C’è stata una mostra molto importante curata da Lucy Lippard, intitolata Issue, all’ICA nel 1980. È stata una mostra fantastica. Anche a Londra non c’era nulla di simile ed è incredibile come si sia sviluppata in seguito. Il mio lavoro era un video con opere a parete. Lucy era venuta a tenere una conferenza stampa a Parigi quattro anni prima, io ero andata alla conferenza e lei non mi aveva vista. Ero tra il pubblico e lei aveva parlato del mio Topak Ev. Non l’aveva visto, ma ne aveva già scritto perché era molto interessata a quell’opera. Così più tardi sono andata dietro le quinte per ringraziarla di aver parlato della tenda. È in questo modo che ci siamo incontrate per la prima volta e poi mi ha invitato a partecipare a Issue. Con Lucy siamo diventate abbastanza amiche. La mostra proveniva dagli Stati Uniti, quindi molti artisti presenti erano americani. Quando la mostra stava per concludersi, ho trascorso una settimana a Londra e Lucy mi ha chiesto di andare a trovare un curatore che allora lavorava al Musée National d’Art Moderne di Parigi. Poiché la mostra era in Inghilterra ed erano state pagate tutte le spese di spedizione dagli Stati Uniti, aveva senso che si svolgesse anche a Parigi. Quando sono andata dal curatore, mi ha riso in faccia. Ecco che cosa erano le donne artiste. Ha detto che l’unica cosa positiva della mia pagina nel catalogo era che non era stata tradotta ed era rimasta in francese. È sconvolgente che lei si sia trovata di fronte a una politica istituzionale così escludente. Nonostante quello che mi sta raccontando e la triste realtà dell’essere donna nel mondo dell’arte dell’epoca, lei è riuscita a esporre costantemente in spazi artistici alternativi come l’ICA, l’A.I.R. Gallery o la fabbrica Renault di Le Havre. Qual è il suo rapporto con l’istituzionalizzazione e le strutture delle istituzioni?


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Non ho lavorato molto nelle istituzioni. Quando il popolo dell’arte è passato per la Decima Biennale di Parigi, ad esempio, ha visto le mie opere e ha detto: “Questa non è arte, è politica! Chi mai si appenderebbe questi pezzi alle pareti?”. Questa è stata la reazione generale al mio lavoro. Ho sempre lavorato perché niente può fermarmi: nessuna galleria, nessun museo. E c’erano spazi d’arte e centri comunitari nelle periferie parigine dove spesso tenevo mostre. Mi pagavano un onorario decente e mi lasciavano le opere. Sono contesti straordinari in città con case popolari. La collaborazione sembra essere una caratteristica centrale della sua pratica. Oltre a collaborare con altri artisti come Judy Blum, che è stata incredibile, sono stata coinvolta con diversi gruppi femministi. Avevamo due gruppi – Femmes en lutte con Esther e Mathilde Ferrer, Dorothée Selz e Isabelle Champion-Métadier, e Femmes/ Art, di cui facevo parte – e ci incontravamo ogni quindici giorni. C’erano giornaliste, scrittrici, pittrici, artiste. Era aperto a tutti. Abbiamo tenuto una manifestazione al Salon d’Automne nel 1978. Prima di allora, tra il 1976 e il 1977, avevamo realizzato collettivamente delle opere sulla situazione delle donne nella sfera pubblica e nel privato. C’era un altro gruppo di donne che si occupava più di psichiatria, ma eravamo tutte militanti attive. Ad esempio, nel 1975 abbiamo organizzato una manifestazione contro l’Anno Internazionale della Donna dell’UNESCO. Eravamo molto contrarie: non capivamo perché le donne dovessero avere un solo anno, mentre tutti gli altri erano anni dell’uomo. Tornando quasi al punto di partenza, è innegabile che il privilegio sia un aspetto vitale di gran parte del lavoro che tutti noi svolgiamo nel sistema dell’arte. Per me privilegio significa la capacità di parlare, di immaginare, di essere visti, un privilegio che non molti sono in grado di ottenere. Sono rimasta particolarmente colpita da una frase che lei ha usato in precedenti interviste, ovvero “prestare la voce”. Può dirmi di più su che cosa significa per lei prestare la sua voce? Tutti hanno il diritto di essere istruiti. Il problema di oggi nel mondo, soprattutto nei Paesi islamici e in Turchia, è la mancanza di istruzione. È importante che le persone abbiano il diritto di parlare e di raccontare quello che succede. Nel mio lavoro faccio una domanda e poi non interferisco mai. Di solito faccio solo una domanda del tipo: “Come ti senti nella tua situazione?”. Non faccio molte domande, non interferisco e lascio che siano le persone a parlare. Si esprimono autonomamente. Consento alle persone con cui lavoro di parlare con la propria voce. Non faccio interviste. I miei lavori sono molto documentaristici, ma non sono documentari. Dico solo: “Ti filmerò e poi ti mostrerò il video, e se non ti piace, possiamo ricominciare”. Cosa pensa della sua situazione attuale? In questo momento, sono preoccupata. Questa intervista è stata condotta a Parigi, in Francia, il 17 ottobre 2023.




UN APPARTAMENTO SU URANO: CRONACHE DEL TRANSITO, ROMA, FANDANGO, 2020.

Il cambio di sesso e la migrazione sono due pratiche che, mettendo in discussione l’architettura politica e legale del colonialismo patriarcale, della differenza sessuale e della gerarchia razziale, della famiglia e dello Stato-nazione, pongono un corpo umano vivente entro i limiti della cittadinanza, persino di quella che intendiamo per “umanità”.

PAUL B. PRECIADO



Claire Fontaine, 2005

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KINO NGWAGI MEGIZIJIG EYAAWAG

Stranieri Ovunque


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Lontano, lontano da te si svolge la storia mondiale, la storia mondiale della tua anima. — Franz Kafka

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CLAIRE FONTAINE

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“Harki” è il nome arabo dato ai mercenari algerini assunti senza statuto militare dall’esercito francese tra il 1952 e il 1962. Dopo l’indipendenza algerina furono oggetto di torture e vilipendio da parte della popolazione. François Hollande nel 2016 ha riconosciuto, dopo una prima timida ammissione di responsabilità del governo fatta da Sarkozy nel 2012, “le responsabilità del governo francese nell’abbandono degli harkis, i massacri di coloro i quali rimasero in Algeria e le condizioni di accoglienza inumane di quelli che furono trasferiti in Francia”. Pieds-noirs è il nome familiare usato per definire i francesi che vissero in Algeria fino all’ottenimento dell’indipendenza.

Si comincia sempre col chiedersi chi sono quelli che non desideriamo, per poi iscriverli sulla lista degli indesiderabili. Si chiede loro di dire il proprio nome a chiare lettere perché si tratta sempre di nomi stranieri, nomi sconosciuti. Si chiede loro di mettersi in fila, di restar calmi, di non fare domande, in ogni caso non ci sono interpreti. Si scheda, si fanno delle lunghe liste, le si conserva nella memoria elettronica, le si lascia dormire nel ventre dei computer, poi un bel giorno le si sveglia: è lui, è lei, sono loro che non vogliamo più. Quest’uomo, questi bambini e questa donna, non li vogliamo più, grazie. È successo in passato, succede ancora, lo stesso protocollo, le stesse sensazioni dal lato degli esecutori d’ordini e dei deportati. Perché non possiamo “avere un paese ridotto come uno scolapasta” (Dominique de Villepin, 12 maggio 2005), possiamo invece avere un paese fortezza, un paese con codice d’accesso, un paese sordo, un paese boia in doppiopetto, un paese cortesemente xenofobo, un paese campo. Un paese che espelle, estrada e tortura (ma discretamente); il paese degli abusi polizieschi e del colonialismo mal digerito, che ha annegato nella Senna degli stranieri un giorno, che ha imprigionato i sostenitori dell’indipendenza algerina, che ha nascosto sotto la sua bandiera-sottana gli harkis e i pieds-noirs1devastati dalla vergogna di essere nati. Questo paese continueremo ad averlo, e per altro ci stiamo lavorando. Spenderemo cento milioni di euro per allontanare gli indesiderabili l’anno prossimo. Che è un prezzo giusto da pagare. D’altronde perché sono venute qui queste persone, lontano dalla loro famiglia, dalla loro lingua, dal loro luogo di appartenenza? Ma non si chiede loro né quale sia la loro lingua, né come sia la loro famiglia, né che posto vorrebbero per sé. Dove vanno gli indesiderabili quando spariscono dalla nostra vista? La terminologia impiegata la dice lunga: sono “trattenuti” in campi, subiscono un’“espulsione”, terminologia fecale che non inganna; non solo il Capitalismo non ha risolto il problema dei suoi rifiuti, ma sempre più rapidamente lo statuto di rifiuto si applica a ciò cui fino a ieri non s’addiceva, questo vale sia per le cose che per le


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Cartelli che apparvero nei quartieri di Parigi durante le opere di rinnovo urbano dell’epoca.

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L’espressione parafrasa la “polizia di prossimità” creata dal governo Jospin nel 1998 e soppressa da Sarkozy nel 2002 con l’argomento che la polizia aveva assunto un ruolo di assistente sociale. Il progetto era stato quello di trasformare l’immagine della polizia attraverso una sua diffusione capillare nei quartieri delle città e favorirne i rapporti con la popolazione.

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persone. Uno degli aspetti dello stato d’eccezione che è per noi la regola è che la nostra compatibilità col sistema è un oggetto di negoziazione permanente cui dobbiamo senza sosta lavorare, che la nostra utilità sul mercato del lavoro è una nozione a orologeria. Si dice “tornatevene a casa” a gente che ha perduto ogni appartenenza al punto che accetta di venire a cercarne di nuove in capo al mondo. Si dice “non abbiamo più bisogno di voi” a delle persone bisognose di un lavoro che le rifiuta. Straniero non è chi viene da altrove, chi appartiene a un’altra “razza”. La razza degli indesiderabili è semplicemente quella degli sfruttati, di chi è relegato allo spazio del bisogno e confonde le frontiere dei desideri con quelle dei miraggi pubblicitari. Si pretende che questi esseri spariranno in quanto tali, che sono il risultato di una contingenza sfavorevole, di una democrazia incompiuta, che sono i sintomi di una malattia infantile del capitalismo globale. Ma non è vero. Sono loro il motore della nostra economia, i portatori sani di ricchezza. In ogni caso – vi dite – in ogni caso questa storia è triste e nota, ma queste cose succedono agli Altri, non a noi, agli Altri; questi Altri di cui non sappiamo domandarci chi siano o dove vivano. Il nostro esilio interiore li mette nella prima cella, chiusa a chiave tutti i giorni alla stessa ora dalla mancanza generale di tempo e di curiosità. Eppure sono qui gli altri, hanno lavato questa mattina la vetrina della macelleria qui di fronte, erano seduti su questo sedile del metrò prima di noi, vivevano nel nostro appartamento prima di essere sfrattati. La loro sofferenza impesta l’aria che respiriamo, la loro forza lavoro pagata quattro soldi mantiene bassi i nostri salari, la loro solitudine impedisce loro di organizzarsi, la loro reclusione materializza silenziosamente intorno a noi un’aura di prigione. Il ripiego identitario occidentale, la paura di prossimità2, il comunitarismo europeo e le opinioni prese in affitto dai giornali e dal piccolo schermo, li pagheremo molto cari. Conosceremo una povertà che risveglierà i peggiori ricordi, una povertà che non è legata alla crisi economica e che è ben più distruttrice, una povertà del possibile che erode già ogni bordo della politica. Lo stato delle strade influisce sullo stato dei nostri interni. Da quando i nostri appartamenti sono diventati dei rifugi in cui non si deve poter osare ospitare gli esseri dimenticati dalla memoria poliziesca, alla nostra proprietà privata è stata strappata la maschera dell’apparente innocenza e si è rivelata infine come un atto di guerra. Non si vedono rifugiati qui perché i veri rifugiati siamo noi, colonizzati dal nostro stesso paese che è per noi una terra di prima accoglienza: un territorio sorvegliato dal capitale globale di cui dobbiamo accettare le leggi ostili o andarcene nei non-luoghi delle prigioni. Ci chiedono da qualche anno di avere paura varie volte al giorno e talvolta di essere terrorizzati, ed osano parlare di sicurezza. Ma la sicurezza non è mai stata un affare di milizie, la sicurezza si misura attraverso la possibilità di essere protetti quando se ne ha bisogno, è il potenziale di amicizia che si nasconde in ogni essere umano. Da quando questo è stato distrutto, ogni spazio è a rischio. Gli stranieri sono ovunque, è vero, ma noi stessi siamo stranieri per le strade e nei corridoi del metrò attraversati dagli uomini in uniforme. Queste leggi che respingono gli sconosciuti venuti da altrove gettano una nuova luce sulla Parigi terreno di gioco del Capitale, sulla “pulizia” dei quartieri popolari e l’organizzazione del turismo interno allo spazio urbano. Vedrete cosa vogliono dire quando installano uno “spazio civilizzato” o scrivono su un cartello “il vostro quartiere si trasforma”3. Vogliono dire che il colonialismo è la guerra e che i colonizzati siamo noi tutti, noialtri. … questo testo deve finire, potrebbe continuare ma è inutile. Lo sappiamo. Per esistere usa la libertà più povera che ci rimane, la libertà d’espressione, che è un’ironia. Il linguaggio è già un naviglio che affonda sotto il peso della sua inoffensività. Non ci offre riparo, è sempre lo straniero di qualcuno. Appena possibile dobbiamo partire per un altro viaggio che ci metta dal lato degli indesiderabili, che metta in discussione le nostre frontiere personali, che ci sbarazzi della paura.


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STRANIERI OVUNQUE

“Noi […] la gente di qui con le nostre tristi esperienze e i nostri continui timori, la paura ci trova senza resistenza; ci spaventiamo al minimo scricchiolio del legno, e quando uno di noi ha paura immediatamente anche l’altro si spaventa, senza neppure sapere esattamente perché.” — Franz Kafka, Il castello

CLAIRE FONTAINE

BIENNALE ARTE 2024


CONFINI E FRONTIERE: LA MOLTIPLICAZIONE DEL LAVORO NEL MONDO GLOBALE, BOLOGNA, IL MULINO, 2014.

I confini simbolici, linguistici, culturali e urbani non sono più articolati in modo fisso dal confine geopolitico. Anzi, si sovrappongono, si connettono e si disconnettono in modi spesso imprevedibili, contribuendo a plasmare nuove forme di dominio e sfruttamento. [...] confini, lungi dal servire semplicemente a bloccare o ostacolare i passaggi globali di persone, denaro o oggetti, sono diventati dispositivi centrali per la loro articolazione. I confini giocano un ruolo chiave nella produzione dell’eterogeneo tempo e spazio del capitalismo globale e postcoloniale contemporaneo.

SANDRO MEZZADRA E BRETT NEILSON



BIYANÎ LI HER DERÊ STRANIERI OVUNQUE

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Il tempo del migrante Ranajit Guha Articolo pubblicato in “The Journal Postcolonial Studies: Culture, Politics, Economy”, vol. 1, n. 2, 1998, pp. 155-160.


IL TEMPO DEL MIGRANTE 126 RANAJIT GUHA

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Appartenere a una diaspora... Ho scritto queste parole e mi sono fermato. Perché non ero sicuro che si potesse appartenere a una diaspora. L’appartenenza si basa su qualcosa di già costituito. Il primo migrante rimarrebbe allora per sempre escluso da una diaspora? In ogni caso, chi costituisce una diaspora? E che cos’è, dopotutto? È un luogo o semplicemente una regione della mente, una condensazione mnesica usata per formare figure di nostalgia da una vasta dispersione? O non è altro che lo stratagemma di un nazionalismo assediato per chiamare in aiuto le risorse di espatriati da tempo dimenticati in nome del patriottismo? Beh, non lo so, o perlomeno: non ancora. Perciò, per cominciare, vorrei rimanere vicino alla connotazione essenziale del termine come separazione e dispersione e dire che essere in una diaspora è già essere marchiati dal segno della distanza. Un po’ come essere un immigrato, ma con una differenza. Quest’ultimo è in posizione di distanziamento dalla comunità – il popolo o la Nazione o il Paese o comunque si voglia chiamare una comunità – in cui si trova il più delle volte come ospite indesiderato. Dal momento in cui bussa alla porta di chi lo ospita, è qualcuno entrato dall’esterno. Il diasporico come migrante, per contro, è qualcuno che si è allontanato da ciò che un tempo era casa, da una patria. In questo caso, a differenza dell’altro, la funzione della distanza non è quella di farne un alieno, bensì un apostata. Un apostata perché, lasciando la patria, le è stato infedele. Poiché non esiste cultura, certamente non nell’Asia meridionale, che non consideri la casa come custode e propagatrice dei valori legati alla genitorialità, al punto da investire quest’ultima di una sacralità affine alla religiosità; l’abbandono equivale a trasgressione. Il migrante, anche se involontario e trascinato al largo da circostanze indipendenti dalla sua volontà, ha quindi tradito la fede ed è sottoposto a giudizi normalmente riservati all’apostasia. Parlo di apostasia per evidenziare l’intensità delle critiche morali imposte dai loro connazionali a coloro che se ne sono


‫بیانییه کان له همهوو شوێنێک‬ 127 STRANIERI OVUNQUE

andati. La disapprovazione può esprimersi con una retorica nazionalistica o familiare e il disertore viene condannato per essersi indebolito in quella fedeltà che rivela buona cittadinanza e parentela. Qualunque sia la lingua di espressione, il suo oggetto non è altro che la violazione di alcuni codici inviolabili, ovvero quelli della solidarietà e dello scambio, dell’alleanza e dell’ostilità, dell’amore per i vicini e della paura degli estranei, del rispetto per la tradizione e della resistenza al cambiamento; codici che nel loro insieme aiutano una popolazione a costruire comunità attraverso la reciproca comprensione. Presupposti in ogni transazione tra i suoi membri, sono di fatto codici di appartenenza con cui si identificano e si riconoscono. Violarli andandosene, sciogliendo i legami del mondo d’origine, significa essere rinnegati e subire la dura condanna: “Non appartieni più a questo mondo, non sei più uno di noi”. La voce con cui viene pronunciata questa frase è quella della prima persona plurale che parla a nome di un’intera comunità, da una posizione radicata al suo interno. Un interno che è qui, un luogo che il migrante non avrà il diritto di chiamare proprio. Lo spostamento è reso ancora più drammatico dal paradosso che esso non corrisponde affatto a una distanziazione nel tempo: è infatti saldamente legato a un presente accentuato e immediato, tagliato fuori da un passato condiviso dalla forza avverbiale del “non più”. Un taglio netto e pulito, che non lascia alla sua vittima nulla su cui ripiegare, nessun background in cui indignarsi, nessun legame comunitario effettivo a cui fare riferimento. Questi ultimi si formano infatti nei rapporti quotidiani tra le persone di qualsiasi società, in un presente che di continuo assimila in sé il passato come esperienza e al tempo stesso spera in un futuro sicuro per tutti. La perdita di questo presente equivale quindi alla perdita del mondo in cui il migrante ha forgiato la propria identità. Estromesso temporalmente non meno che spazialmente, sarà d’ora in poi alla deriva fino a quando non approderà in un secondo mondo dove il suo posto cercherà e, si spera, troverà di nuovo le coordinate corrispondenti in un tempo che lui, come altri, dovrebbe poter rivendicare come “il nostro tempo”. Il passato di una diaspora non è quindi una questione meramente o primariamente storiologica. Si tratta, in primo luogo, della perdita della propria identità comunitaria da parte di un individuo e della sua lotta per trovarne un’altra. Le condizioni in cui si è formata la prima identità non sono più disponibili per lui. La nascita e la parentela, che conferivano al suo posto nella prima comunità una parvenza di naturalezza così completa da nasconderne il carattere antropico, gli sono ormai di scarso aiuto in quanto alieno isolato per etnia e cultura. Segni di un legame originario, sono proprio questi a rendergli difficile trovare un appiglio in quel presente vivente in cui un’identità comunitaria si rinnova incessantemente nelle transazioni quotidiane tra le persone e ne viene prontamente rafforzata da un codice comune di appartenenza. Tutto ciò che riguarda tale codice è inquadrato nel tempo. L’appartenenza in questo senso comunitario, infatti, non è altro che una temporalità agita e pensata – e in generale vissuta – come essere con gli altri nel tempo condiviso, dove per condivisione, in questo contesto, si intende ciò che la comunità rivela ai suoi componenti come temporale. Basta ascoltare il discorso dell’appartenenza per rendersi conto di quanto questa temporalizzazione pervada tutto ciò che le persone si dicono, o in altro modo indicano, riguardo ai momenti belli e brutti, al lavoro e al tempo libero, a come è stato e a come potrebbe essere, all’essere giovani e all’invecchiare, e più di ogni altra cosa alla finitudine della vita nel nascere e nel morire. Non si tratta solo di una costrizione linguistica che impone alla grammatica di una lingua di insistere sulla categoria aspettuale delle frasi verbali in un enunciato. Si tratta, più fondamentalmente, di una questione esistenziale che riguarda l’essere nel tempo. Non c’è modo per coloro che vivono in una comunità di rendersi reciprocamente intelligibili se non temporalizzando la loro esperienza dello stare insieme. Una temporalizzazione di questo tipo ovviamente contiene in sé, inestricabilmente intrecciati, tutti i fili del passato, del


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RANAJIT GUHA

BIENNALE ARTE 2024

M. Heidegger, Essere e tempo, a cura di P. Chiodi, Torino, Utet, 1978, p. 531.

presente e del futuro. Tuttavia, il migrante appena arrivato si pone di fronte alla comunità ospitante solo nell’immediatezza del presente. Questo perché, dal punto di vista di quest’ultimo, tutto ciò che (se c’è) si sa del suo passato e si presume del suo futuro, è talmente assorbito dal puro fatto del suo arrivo che, come evento nel tempo, è colto come una pura esteriorità, non mediata né da ciò che era né da ciò che sarà. Eppure non c’è nulla di astratto in questo. Sembra piuttosto il contrario. Infatti, ha la concretezza di un’improvvisa rottura della continuità, o più propriamente, seppure in senso figurato, quella di un clinamen che disturba il flusso laminare del tempo per creare un vortice affinché la stranezza dell’arrivo continui a girare come momento di assoluta incertezza, un presente senza un prima né un dopo, quindi incomprensibile. Naturalmente non passerà molto tempo prima che quest’ultimo si riprenda dallo shock della subitaneità e si impadronisca dell’evento attraverso l’interpretazione, cioè tramite codici che possano assegnargli un significato in termini di una o più alterità, che vanno dalla razza alla religione. Il tutto, ancora una volta, sarà formulato come l’ultima frase di rifiuto rivolta al migrante al momento della partenza dalla sua terra natale: “tu non appartieni a questo posto”. Espressione che, essendo priva della locuzione avverbiale “non più”, interdice più che respingere. Tuttavia, come l’altra frase, anche questa sarà inequivocabilmente pronunciata all’interno di un “qui e ora”. Come mai l’adesso sta di guardia anche alla porta della comunità ospitante? Lo fa perché, citando Heidegger, “l’in-appartenenza (Hingehörigkeit) ha un rapporto essenziale con l’appagatività “1. L’appartenenza a una comunità non fa eccezione, perché implica l’essere con gli altri nella vita quotidiana di un mondo ordinario. Poiché l’adesso è la modalità in cui la quotidianità si articola prevalentemente e principalmente, esso funge da nodo che lega insieme gli altri fili del legame temporale di una comunità. Il passato viene raccolto in questo nodo e da lì si proietta anche il futuro. L’adesso è quindi la base da cui si dispiegano tutte le strategie di distanziazione contro l’estraneo come colui che sta fuori dal tempo della comunità, dal suo passato di miserie e splendori, dal suo futuro gravido di possibilità e di rischi, ma soprattutto dal suo presente carico degli aspetti di un’autentica appartenenza. Non c’è situazione più insostenibile per il migrante che incarna la prima generazione di ogni diaspora. La partecipazione all’adesso della comunità ospitante, cioè a un momento della temporalità reso presente come oggi, è una condizione indispensabile per la sua ammissione a essa. Tuttavia, in quanto appena arrivato dall’esterno, egli non può, per definizione, essere ammesso. Non ha, infatti, nulla da mostrare per il suo presente se non quel momento di assoluta discontinuità – il tempo scorciato di un arrivo – che risalta proprio per la sua esclusione dall’oggi della comunità alla cui soglia è approdato. Non poco della complessità e della tristezza della condizione diasporica si riferisce proprio a questa impasse. A questo punto ci converrebbe forse semplicemente aggirare questo momento difficile e imbarazzante e concedere alla nostra narrazione un piccolo, quasi impercettibile salto ed entrare in quella terra ferma in cui il migrante, lavato e nutrito e già ammesso nella sua nuova comunità, attende di essere assimilato come imitatore o disadattato, a seconda del grado di resistenza che oppone a questo processo sempre doloroso e spesso umiliante. Ma non lasciamoci tentare da questa opzione. Continuiamo ancora un po’ a occuparci dell’impasse in cui, letteralmente, si trova: bloccato tra un mondo lasciato alle spalle e un altro le cui porte sono sbarrate, non ha un posto dove andare. Senza casa e con poche speranze se non quella di un’ultima possibilità, l’ansia si impadronisce di ogni suo orientamento e comportamento. È uno stato d’animo notorio per il suo effetto angosciante. Strappa il migrante dal solco di un presente immediato e insopportabile e lo rende pronto a fare appello all’esperienza di ciò che è stato per andare incontro all’indeterminatezza di quanto lo attende. In altre parole è l’angoscia che lo mette in grado di osservare le proprie


TË HUAJT KUDO 129 STRANIERI OVUNQUE

possibilità, che lo aiuta a mobilitare il passato come fondo di energie e risorse da utilizzare nel suo progetto di spianare per sé un cammino che ha come orizzonte il futuro con tutte le sue potenzialità. Un sentiero arduo, aperto dalla tragica disgiunzione del suo passato e del suo presente, che si colloca al di là di quell’adesso da cui è stato finora escluso e che lo pone lì in virtù della logica di quello stesso attraversamento. E così, il migrante si è finalmente collocato. Ma è ancora lungi dall’essere assimilato. Infatti, la quotidianità della sua nuova situazione e quella della comunità ospitante si intersecano, ma non coincidono. C’è un disallineamento che d’ora in poi servirà a creare un campo di alienazione con differenze lette lungo gli assi etnici, politici, culturali e di altro tipo. Questa non coincidenza pone in una nuova angolazione il problema del tempo del migrante. Perché il suo “adesso” resiste all’assorbimento in quello della sua comunità di adozione? È perché è costituito in modo diverso da quello di quest’ultima; l’adesso di qualsiasi tempo nasce dalla connessione del presente con il passato e il futuro. Eredita e proietta e, in questa duplice funzione, integra a sé tutto ciò che è specifico di una cultura come si è formata finora e tutto ciò che ne determinerà la qualità e il carattere nel tempo a venire. L’adesso di una comunità, quindi, non è solo uno di una serie di momenti identici disposti in una successione costante. Regolato dai legami di connessione e colorato dalle specificità delle sue sovradeterminazioni, il momento del suo tempo che una comunità vive come l’adesso è necessariamente diverso da quello di qualsiasi altro. Per questo motivo, cambiare comunità diventa in ogni caso occasione di un disadattamento temporale che, tuttavia, viene colto dal senso comune non per quello che è, ma come incapacità di una cultura di inserirsi senza problemi in un’altra. Non c’è nulla di particolarmente sbagliato in questa interpretazione, se non il fatto che una parte sostituisce il tutto. Infatti, ciò che di culturale c’è in questo fenomeno è già implicito nel temporale e ne deriva direttamente. Così, per citare un esempio fin troppo familiare, la differenza di atteggiamento nei confronti del tempo dell’orologio, spesso attribuita così facilmente a distinzioni religiose, è forse molto meglio spiegata in termini di diverse temporalità che collegano l’interpretazione che una comunità dà del proprio passato, presente e futuro in modo diverso da quella di un’altra. Anche il migrante è soggetto a questo fraintendimento nella comunità ospitante, una volta che vi è stato ammesso. Infatti, la connessione del tempo che costituisce il tessuto della sua vita non è né può essere la stessa di quella che ha lasciato. Come immigrato – con il prefisso im a registrare il cambiamento del suo status in qualcuno non è più tenuto fuori in attesa – il senso del tempo che porta con sé è figlio di un’altra temporalità. La miriade di relazioni che essa ha come referente – le relazioni con il proprio popolo, con le tradizioni e i costumi, la lingua, persino l’ambiente della propria terra d’origine – la distinguono nettamente da quelle che informano tali relazioni nella comunità in cui si trova. Il suo tentativo di entrare in contatto con quest’ultima e di coinvolgersi nella quotidianità dello stare con gli altri è, quindi, inevitabilmente irto di tutte le difficoltà di traduzione tra accenti, inflessioni, sintassi e lessici... tra paradigmi, insomma. Tutto ciò che è creolo in una cultura non è altro che la prova del superamento creativo di queste difficoltà. Non è raro che la necessaria inadeguatezza di tale traduzione venga erroneamente diagnosticata come nostalgia. L’errore non sta solo nella contenuta implicazione patologica, ma soprattutto nell’incapacità di comprendere o anche solo prendere in considerazione il modo in cui il migrante si rapporta al proprio tempo in questo momento. Spinto dall’ansia, ha come orizzonte solo il futuro. “Che cosa mi succederà? Che cosa devo fare ora? Come posso stare con gli altri in questo mondo sconosciuto?” sono tutte riflessioni orientate verso ciò che verrà, piuttosto che ruminazioni su ciò che è stato finora. Privo di quel sostegno e di quella comprensione trovati nella comunità di origine, è completamente solo, senza un retroterra


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RANAJIT GUHA

BIENNALE ARTE 2024

Testo di un intervento al workshop presso l’Humanities Research Centre dell’Australian National University il 7 agosto 1995.

in cui rifugiarsi, ma solo con una prospettiva che gli si para davanti con la propria scoraggiante vastità e una nebulosità tanto promettente quanto allarmante. Tutto ciò che è in lui, e che lo rende ciò che è, è intrappolato ora – in questo momento – in una deriva inesorabilmente proiettata in avanti. Anche ciò che è stato finora è intrappolato in questa deriva, ma non come un peso morto trainato da una forza non sua: al contrario, è esso stesso costitutivo di quel movimento impetuoso che lo porta avanti. In quel movimento, il passato non galleggia passivamente come un pezzo di tempo congelato, ma funziona come esperienza attivata e investita dalla forza di una precipitazione. Non c’è in esso nulla dello sforzo disperato per ritrovare ciò che è andato perduto, ma solo una corrente continua in cui il passato è parte integrante del presente. L’allineamento del passato del migrante con la propria situazione nel flusso del suo essere verso un futuro avviene, quindi, non come processo di recupero ma di ripetizione. Lungi dall’essere morto, quel passato è rimasto incastonato nel suo tempo, pienamente vivo come un seme nel terreno, in attesa che la stagione del calore e della crescita lo porti a germogliare. In quanto tale, ciò che è stato non è altro che una potenzialità pronta a essere fertilizzata e reimpiegata. Anticipa il futuro e si offre all’uso e, attraverso questo, al rinnovamento come la materia stessa di ciò che verrà. Ecco perché il presente del migrante, il momento di quella marea in cui il suo passato orientato al futuro viene trasportato, attira invariabilmente l’attenzione su di sé in quanto figura di un’ambiguità. In qualsiasi momento, infatti, egli sembra ancora parlare con la voce della comunità in cui è nato nella sua prima lingua, anche se sta ovviamente acquisendo la lingua dell’altra comunità in cui sta per trovare una seconda casa. Anche in tutti gli altri aspetti del suo comportamento – il modo in cui si veste, lavora, mangia, parla e in generale si comporta nei rapporti quotidiani con gli altri – egli mescola idiomi e accenti e viene inquadrato come uno che sfida la traduzione, quindi la comprensione. Il nostro primo migrante vive perciò un dilemma temporale. Deve farsi riconoscere dai suoi simili nella comunità ospitante partecipando all’adesso della loro vita quotidiana. Ma tale partecipazione è resa difficile dal fatto che quanto è in essa anticipatorio e futuribile rischia di farlo apparire come un alieno, mentre tutto ciò che è passato sarà forse scambiato per nostalgia. Deve imparare a convivere con questo doppio legame finché la generazione successiva non arriverà sulla scena con il proprio tempo, sovradeterminando e quindi rivalutando la propria temporalità in un nuovo ciclo di conflitti e convergenze.2


POTENTIAL HISTORY: UNLEARNING IMPERIALISM, NEW YORK, VERSO, 2019.

È questo il senso del disimparare l’imperialismo. Significa disimparare la dissociazione che ha scatenato un movimento inarrestabile di migrazione (forzata) di oggetti e persone in diversi circuiti e la distruzione dei mondi di cui facevano parte.

ARIELLA AZOULAY



STRĂINI DE PRETUTINDENI 133 STRANIERI OVUNQUE

le formazioni del moderno coloniale

La storia dell’arte dopo la globalizzazione:

Kobena Mercer Saggio pubblicato in K. Mercer, Travel and See: Black Diaspora Art Practices since the 1980s, Durham, Duke University Press, 2016, pp. 248-261.


LA STORIA DELL’ARTE DOPO LA GLOBALIZZAZIONE 134

1

Stuart Hall, intervento Globalization, durante l’evento Cartographies of Power, 1 ottobre 2003, al Centre for Cultural Studies (CSS, Goldsmiths, London University), p. 194.

2

Ivi, p. 193.

KOBENA MERCER

BIENNALE ARTE 2024

L’espressione “moderno coloniale” è alquanto promettente perché suggerisce un nuovo approccio alla comprensione delle interrelazioni tra Modernismo e colonialismo. Nel tentativo di scoprire quali potrebbero essere le implicazioni per la storia dell’arte, con questo mio contributo vorrei esortare la riflessione sui tre termini affini al centro del dibattito – “modernismo”, “modernità” e “modernizzazione” – alla luce di quella che nella sociologia della cultura è nota come la tesi delle modernità multiple. Basandomi su esempi tratti dai testi di Annotating Art’s Histories, di recente completati in qualità di curatore di collana, il mio obiettivo è suggerire come potrebbero essere gli studi transculturali di storia dell’arte quando si conducono ricerche d’archivio “dopo” la globalizzazione. Se da un lato si ritiene che la globalizzazione sia un fenomeno intrinsecamente “nuovo”, riferito a un crescente senso di connessione mondiale determinato dalle nuove tecnologie, dall’altro la prospettiva alternativa della longue dureé ci offre il vantaggio di una tela molto più ampia su cui teorizzare le interazioni transculturali come variabile nella produzione sociale dell’arte. Nel descrivere le caratteristiche della globalizzazione contemporanea che sono effettivamente nuove – le imprese transnazionali, le economie neoliberiste, l’accresciuto ruolo delle tecnologie dell’informazione e delle industrie culturali – Stuart Hall sottolinea tuttavia che questa è solo la fase più recente di un processo a lungo termine. Nel suo schema di periodizzazione, “la quarta fase, poi, è quella attuale, che passa sotto il titolo di ‘Globalizzazione’ tout court (ma che, a mio avviso, va vista come una fase epocale in una durée storica più lunga)”1. Nel contesto della discussione sulla creolizzazione come modalità specifica di interculturalità derivante dalla colonizzazione e dalle migrazioni forzate, Hall afferma: “faccio risalire la globalizzazione al momento in cui l’Europa occidentale esce dal suo isolamento, alla fine del XV secolo, e inizia l’era dell’esplorazione e della conquista del mondo extraeuropeo”. Aggiungendo che “intorno al 1492 cominciamo a vedere questo progetto come dotato di carattere globale piuttosto che nazionale o continentale” e, nella sua interpretazione, questa prima fase della globalizzazione “coincide con l’inizio di quel processo che Karl Marx identifica come tentativo di costruire un mercato mondiale, il cui risultato è stato quello di porre il resto del mondo in un rapporto subordinato all’Europa e alla civiltà occidentale”2. Affermare che la globalizzazione non è una novità, e che è semplicemente la nostra comprensione intellettuale a essere cambiata negli ultimi anni, significa assumere una posizione critica nei confronti delle consuete ortodossie dell’attuale pensiero sulla differenza culturale nelle arti. Scegliendo di iniziare con idee volutamente di ampia portata, voglio trasmettere la mia percezione di ciò che è in gioco nel cambiamento di paradigma attualmente in corso nella storia dell’arte, a cui la serie Annotating Art’s Histories ha contribuito con alcuni piccoli passi. Ma l’ampia portata è utile anche a mettere in prospettiva quegli ostacoli al pensiero storico sulle dinamiche transculturali che devono essere affrontati a livello metateorico prima di poter modificare la nostra posizione rispetto all’archivio della modernità coloniale. Due di questi ostacoli possono essere rappresentati dai seguenti termini: “inclusionismo” e “presentismo”. Nella misura in cui la differenza è oggi ampiamente affrontata attraverso un’ideologia di inclusionismo multiculturale, c’è una forte tendenza a costruire un asse orizzontale che raccolga un numero sempre più ampio di identità al di sopra e al di là di un asse verticale che tenterebbe una spiegazione storica del loro reciproco intreccio. Nelle mostre di rassegna e nei libri di testo antologici, l’enfasi pervasiva sull’ampiezza orizzontale della copertura tende a de-storicizzare e appiattire le relazioni contraddittorie tra i diversi elementi riuniti in nome dell’inclusione. Ne risulta un’illusione di pienezza pluralista che presuppone che ciascuna delle parti coesista in una relazione fianco a fianco, con scarsa interazione o dinamismo.


Ivi, pp. 293, 295.

5

Is Art History Global?, a cura di J. Elkins, London, Routledge, 2007.

6

Sugli approcci alla “world art”, si veda Compression vs. Expression. Containing and Explaining the World’s Art, a cura di J. Onians, New Haven (CT), Yale University Press, 2006.

7

Cosmopolitan Modernisms, a cura di K. Mercer, Cambridge (MA), MIT Press, 2005.

8

V. Burgin, The Absence of Presence. Conceptualism and Postmodernisms, in The End of Art Theory. Criticism and Postmodernity, Londra, Macmillan, 1986, pp. 29-50.

EACHTRANNAIGH I NGACH ÁIT

4

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N. Ratnam, Art and Globalisation, in Themes in Contemporary Art, a cura di G. Perry e P. Wood, New Haven (CT), Yale University Press, 2004.

STRANIERI OVUNQUE

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Laddove il linguaggio del multiculturalismo viene evocato per compensare le esclusioni del passato (come una sorta di soluzione a una crisi di legittimazione da parte delle istituzioni del mondo dell’arte), non solo troviamo l’idea secondo cui la diversità culturale è vista come una mera “novità” appartenente solo all’arte contemporanea, ma scopriamo anche che tale presentismo opera in modo insidioso per preservare i precedenti canoni dell’arte moderna, la cui autorità monoculturale rimane quindi intatta. Le conseguenze del presentismo astorico possono essere viste in un approccio conservatore all’ekphrasis descrittiva con cui i critici cercano di far coincidere la teorizzazione contemporanea della globalizzazione con le pratiche artistiche che presumibilmente incarnano tali concetti. Il capitolo di Niru Ratnam intitolato Art and Globalisation in Themes in Contemporary Art3, dedicato alle opere esposte a documenta11 nel 2002, inizia stimando la novità della teoria della globalizzazione, sottolineando che “rivela continuità con le pratiche e le teorie precedenti che esplorano l’eredità del colonialismo europeo”, ma poi liquida il rapporto tra globalizzazione e postcolonialismo sulla base della posizione di Negri e Hardt secondo cui, poiché “la prospettiva postcolonialista rimane principalmente interessata alla sovranità coloniale. [...] Può essere adatta per analizzare la storia, [ma] non è in grado di teorizzare le strutture globali contemporanee”4. Nei casi in cui la teoria prevale sulla realtà concreta dell’opera d’arte come oggetto di studio a sé stante, notiamo che l’arte viene ridotta all’illustrazione passiva di un concetto a cui il teorico è già arrivato, negandole così l’autonomia della propria intelligenza estetica. Inoltre, la storiografia tradizionale rimane integra e inalterata dall’incontro con altre discipline. Nella raccolta da lui curata Is Art History Global?5, James Elkins riunisce un gruppo internazionale di autori per discutere i cambiamenti epistemologici degli ultimi trent’anni, in cui la canonica ricerca di Erwin Panofsky, Arnold Hauser, Meyer Schapiro e altri viene soppiantata dal post strutturalismo, dal femminismo, dalla cultura visiva e dagli studi postcoloniali. Nell’affrontare il dibattito in termini così astratti, tuttavia, scopriamo che Elkins non discute affatto di opere d’arte vere e proprie. Inoltre, fondendo il tema della globalizzazione con la categoria di “world art”, il modello di studi d’area stabilito negli orientamenti antropologici e archeologici nei confronti dell’arte non occidentale conserva un’idea essenzialista di culture autonome come totalità discrete e delimitate, senza dare alcun conto delle loro interazioni. Quando il non occidentale viene confinato all’antichità premoderna, ci troviamo di fronte a un altro paradosso, ovvero che l’arte moderna, occidentale o meno, non trova posto all’interno della categoria di “world art”6. Come sostengo nell’introduzione a Cosmopolitan Modernisms7, la teoria postcoloniale (originata nell’ambito della ricerca letteraria) è essa stessa altamente colpevole della tendenza al teoreticismo. Avendo rivelato il ruolo costitutivo piuttosto che riflessivo della rappresentazione nelle costruzioni della realtà coloniale, l’enfasi sul posizionamento del Sé e dell’Altro ha portato a uno squilibrio per cui gli studi sull’alterità visiva nell’arte occidentale fanno costantemente riferimento all’Io imperiale, per così dire, in modo tale da mettere in ombra l’agency degli artisti coloniali e diasporici come creatori a pieno titolo di rappresentazioni. Facendo per un momento un passo indietro, si potrebbe osservare che la cosiddetta narrazione dominante dell’arte moderna è sotto attacco da quando l’arte concettuale ha messo in discussione il modello ottico della visualità, provocando una crisi del Modernismo in quanto tale8. Ma una cosa è smantellare un modo di vedere dominante, un’altra è proporre un’alternativa sostenibile. Più che suggerire un vero e proprio modello per lo studio delle relazioni transculturali nell’arte, la mia serie ha richiamato l’attenzione sui passi graduali e progressivi necessari per decostruire il dominio dell’universalismo formalista e nel contempo esplorare metodi che rifiutino le opposte tendenze del riduzionismo sociologico o contestuale. A titolo di esempio, possiamo osservare come la relazione Modernismo/colonialismo sia per lo più


11 M. Crinson, Modern Architecture and the End of Empire, Farnham, Ashgate, 2003.

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S. Gikandi, Picasso, Africa and the Schemata of Difference, in Modernism/Modernity, 10, 3, 2003, pp. 455-480.

10 In the Desert of Modernity, Berlino, HKW – Haus der Kulturen der Welt, 29 agosto - 26 ottobre 2008.

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affrontata all’interno dell’episteme della storia dell’arte a sua volta all’interno dell’ambito estremamente limitato del Primitivismo. Considerata la quantità di inchiostro versato sul tema delle Demoiselles d’Avignon (1907) di Picasso negli anni Ottanta e in seguito, si potrebbe affermare che il disconoscimento dei contesti coloniali del Primitivismo all’interno della narrazione formalista dei “prestiti” morfologici sia rimasto intoccato per ottant’anni buoni. L’idea di “forma significativa” proposta negli anni Venti dai critici di Bloomsbury Clive Bell e Roger Fry è stata scalzata dal privilegio epistemologico solo dal concetto psicoanalitico di feticismo che ha informato le letture di Picasso di Hal Foster (1985) e Simon Gikandi9, e dal concetto di James Clifford (1988) di circolazione di artefatti tribali nelle collezioni museali e in altri luoghi istituzionali di scambio all’interno del sistema artistico e culturale. Nei venticinque anni trascorsi da questo momento di svolta, è stato soprattutto il concetto di appropriazione a svolgere un ruolo trasformativo nella nostra interpretazione dell’agency e dell’autorialità subalterne; ma poiché tali concetti sono stati impiegati soprattutto in relazione all’arte contemporanea, è solo negli ultimi dieci anni circa che il suo potenziale di cambio di paradigma è stato attivato nella ricerca archivistica e storica. Forse più della pittura e della scultura, trovo che sia l’architettura a contribuire ulteriormente a rompere il monopolio interpretativo del Primitivismo sulla nostra comprensione del Modernismo e del colonialismo, dato che la mostra del 2008 In the Desert of Modernity10, come la serie da me curata, condivide una linea temporale di ricerca che comprende anche lavori come Modern Architecture and the End of Empire di Mark Crinson11. Da parte mia, partendo dalla premessa che la modernità definisce uno stato d’essere o una condizione di vita in cui elementi materiali e attori sociali disparati sono costantemente sradicati dalle loro origini e messi in contatto da proliferanti reti di commercio, viaggi e scambi di mercato, la serie Annotating Art’s History si proponeva di dimostrare che, lungi dall’essere limitato al Primitivismo, il dialogo transculturale gioca un ruolo significativo e onnipresente nella storia del Modernismo nel suo complesso. Da movimenti come il Surrealismo, attraverso i principali processi sottostanti come l’astrazione o il montaggio, fino alle fusioni “alto/basso” della Pop Art che hanno inaugurato la problematica del Postmodernismo, la differenza culturale non è aberrante, accidentale o “speciale”, bensì una variabile strutturale e persino una caratteristica normativa della produzione artistica nelle condizioni della modernità divenuta globale alla fine del XIX secolo. Il Modernismo, si potrebbe sostenere, è sempre stato multiculturale: è semplicemente cambiata la nostra consapevolezza. Ognuna delle rotture inaugurate dal Modernismo europeo intorno al 1910 è entrata in contatto con un sistema globale di flussi e scambi transnazionali: dalla concezione della pittura monocromatica di Malevič, plasmata dalla sua lettura della filosofia vedica e del misticismo indiano, ai readymade di Duchamp, che rispecchiavano la mobilità decontestualizzata degli artefatti tribali. Il Primitivismo modernista è forse il paradigma generico in cui questi scambi (ineguali) sono più visibili, ma una interpretazione più ampia della transculturalità come conseguenza della globalizzazione moderna comporta anche la necessità di mettere in discussione il modello ottico della visualità che determina il modo in cui le differenze culturali sono rese decifrabili come oggetti di studio “leggibili”. Poiché il pensiero attuale sulla globalizzazione sconvolge l’iniziale equivalenza tra modernizzazione e occidentalizzazione, esso interrompe la geometria classica di centro e periferia indispensabile ai precedenti approcci all’interno della sociologia dello sviluppo e della teoria marxista del sistema-mondo. L’assunto che diventare moderni significasse in qualsiasi momento diventare occidentali (e quindi rinunciare alla propria identità) è stato completamente minato dalla consapevolezza dell’azione di appropriazione selettiva da parte di attori sociali che erano sì subordinati all’egemonia del centro occidentale dal punto di vista economico e


13 D. Morley, EurAm, Modernity, Reason and Alterity, in Stuart Hall. Critical Dialogues in Cultural Studies, a cura di D. Morley e K.H. Chen, Abingdon (OX), Routledge, 1996, p. 349. 14 H.J. Booth, N. Rigby, Modernism and Empire, Manchester, Manchester University Press, 2000, p. 28.

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12 Global Modernities, a cura di M. Featherstone, S. Lash, R. Robertson, New York, SAGE, 1995.

politico, ma che tuttavia esercitavano scelte su ciò che adattavano e ciò che rifiutavano nello spazio dell’incontro transculturale. Mentre le teorie precedenti vedevano nella globalizzazione imperialista un rullo compressore che eliminava in toto le differenze locali, tribali e indigene, l’agency di adattamento da parte dei colonizzati rendeva l’esperienza vissuta del colonialismo un fenomeno contraddittorio su tutti i fronti, creando così molteplici terreni di resistenza, antagonismo e negoziazione. Questa enfasi sul reciproco intreccio di forze contraddittorie è ciò che distingue la tesi delle modernità multiple. Con la maggiore attenzione data ai processi spaziali della globalizzazione nel lavoro dell’urbanista Anthony King (2011), insieme agli studi di Arjun Appadurai (1996) sugli adattamenti localizzati di beni materiali e simbolici nella circolazione globale e al resoconto di Ulf Hannerz (1996) sui flussi transnazionali, la gamma di prospettive analitiche riunite in Global Modernities da Featherstone, Lash e Robertson (1995)12 ha segnato un punto di svolta nella sociologia della cultura, ulteriormente sviluppato da Jan Nederveen Pieterse (2004). Lungi dal tradursi in una bagarre pluralista in cui ci sono tutti i modernismi che si vogliono, l’attenzione che la tesi delle modernità multiple presta alle complesse dinamiche di struttura e agentività dimostra che il processo di modernizzazione come occidentalizzazione raramente si è tradotto in uno stato pienamente raggiunto o finalizzato di soggettivazione coloniale, perché costantemente reso ambivalente dall’agonismo generativo del potere e della resistenza. Quando vengono raccontati come una narrazione che si propaga da un centro unitario, i processi materiali della modernizzazione – l’applicazione della conoscenza scientifica alle tecnologie di infrastruttura sociale e di creazione di ricchezza che agiscono come motori del “progresso” – sono spesso confusi con la condizione filosofica della modernità. Si tratta dell’esperienza vissuta o della soggettività dell’individuo atomizzato che si ritiene caratterizzi l’autocoscienza razionalista associata alla secolarizzazione. Tuttavia, disaccoppiando l’equazione tra modernità e Occidente, la teoria contemporanea della globalizzazione richiede un’indagine storica sulle formazioni combinatorie in base alle quali alcuni aspetti del processo oggettivo di modernizzazione sono stati accettati mentre alcune caratteristiche soggettive della modernità sono state deselezionate. Sebbene non sia mai stato colonizzato, il Giappone imperiale ha accettato la modernizzazione nella scienza e nella tecnologia, ma non la democrazia in politica; le nazioni arabe del Medio Oriente hanno analogamente adottato l’infrastruttura capitalista, pur mantenendo le tradizioni religiose invece dell’individualismo. Mentre l’ideologia eurocentrica raccontava la storia come una sequenza lineare dal Rinascimento e dalla Riforma all’Illuminismo e alla Rivoluzione industriale, l’alternativa è quella di disaggregare concettualmente i processi costitutivi, come spiega David Morley nel contesto della metodologia degli studi culturali: “L’associazione tra Occidente e modernità deve essere vista come radicalmente contingente in termini storici. Se non c’è una relazione necessaria tra questi termini, allora ne consegue che opporsi a uno dei due non significa necessariamente opporsi all’altro”13. Riprendendo nella loro storia letteraria il rapporto Modernismo/colonialismo, Booth e Rigby aggiungono: “Questo significherebbe, ad esempio, che la modernità potrebbe essere […] accolta con favore nel mondo non occidentale, anche se la forma precisa che assume in Occidente, o il modo in cui l’Occidente la promuove o la esporta, potrebbe essere veementemente contrastata”. È quindi altrettanto importante tenere a mente le disgiunzioni per cui, “invece di pensare l’impero come attivamente coinvolto nell’esportazione o nella diffusione del Modernismo (che agli occhi degli imperialisti. […] potrebbe essere ideologicamente o politicamente sospetto), potremmo vederlo come esportatore di modernità”14. Inteso come risposta della cultura alle difficoltà e ai dilemmi sollevati dall’esperienza vissuta della modernizzazione,


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15 P. Mitter, Reflections on Modern Art and National Identity in Colonial India. An Interview, in Cosmopolitan Modernisms, cit., p. 42.

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16 I. McLean, Aboriginal Modernism in Central Australia, in Annotating Art’s Histories. Exiles, Diasporas, and Strangers, a cura di K. Mercer, Cambridge (MA), 2008, p. 92.

il Modernismo non è stato solo un fenomeno a più voci all’interno dell’Occidente – a volte celebrando l’età delle macchine, a volte articolando una critica dell’alienazione capitalistica –, ma si è ulteriormente frammentato nell’involucro della modernità coloniale, dove la realtà esportata dello Stato–nazione ha costituito una frontiera decisiva dell’agonismo culturale e politico. Nel contesto delle lotte anticoloniali in India, Partha Mitter osserva che la circolazione delle idee moderniste in seguito alla mostra del 1922 degli artisti del Bauhaus a Calcutta (tra cui Vasilij Kandinskij e Paul Klee) ha svolto un ruolo catalizzatore per la sperimentazione pittorica di Gaganendranath Tagore, Amrita Sher–Gil e Jamini Roy, che a suo avviso hanno espresso una variante del Primitivismo che ha agito come controdiscorso della modernità. Mentre gli artisti nazionalisti degli anni Novanta del XIX secolo, come Raja Ravi Varma e la Scuola del Bengala, abbracciavano il naturalismo accademico e inserivano contenuti indigeni, la rottura formale con la verosimiglianza da parte dei modernisti indiani combinava elementi locali e globali per forgiare un cosmopolitismo in cui veniva rimossa la logica binarista dell’imperialismo e del nazionalismo. Poiché “le stesse ambiguità del primitivismo fornivano un potente strumento per sfidare i valori e i presupposti della moderna civiltà industriale, cioè dell’Occidente”, per Mitter la sua presenza nel primo Modernismo indiano costituisce una “tendenza contro-moderna piuttosto che anti-moderna, perché è davvero la sorella gemella della modernità, il suo alter ego; è al suo interno e tuttavia la mette continuamente in discussione”. Laddove le tradizioni indigene dell’intellighenzia bengalese hanno creato condizioni favorevoli alla ricezione del Modernismo, l’azione di appropriazione ha prodotto trasformazioni semiotiche del “primitivo”. Come aggiunge Mitter, “penso al Mahatma Gandhi, in questo senso, come al più profondo critico primitivista del capitalismo occidentale. Ha plasmato la filosofia della resistenza non violenta e l’autosufficienza della vita di villaggio in India, simboleggiata dall’umile arcolaio, a partire da elementi associati al discorso del primitivismo”15. All’interno della stessa linea temporale che va dagli anni Novanta del XIX secolo agli anni Venti del XX secolo, Ian McLean esamina le formazioni del Modernismo coloniale e del Modernismo anticoloniale nell’Australia aborigena. Rompendo con la visione standard secondo cui l’arte moderna degli artisti aborigeni sarebbe iniziata con l’uso della tela e dei colori acrilici solo negli anni Settanta, McLean sostiene che la risposta artistica alla modernità occidentale sia iniziata al momento del primo contatto con le remote comunità del deserto alla fine del XIX secolo. Le danze cerimoniali accoglievano i visitatori europei con atti di mimica performativa. Le sculture sacre venivano riadattate a scopi secolari nei loro “motivi esterni” in maniera volta a educare gli stranieri bianchi pur contenendo “segreti interni” noti solo agli iniziati. Negli anni Trenta, Albert Namitjira produceva paesaggi ad acquerello; sebbene la sua maestria tecnica lo rendessero inautentico agli occhi degli eurocentrici, McLean rivela come le sue scelte “rivendichino la propria eredità aborigena, in particolare i siti sacri arrernte”. McLean accetta che la modernizzazione esportata abbia stabilito una condizione universale o mondiale, ma insiste sul fatto che “lungi dall’essere una costruzione puramente occidentale o europea, la modernità è un modo di vivere che ha messo radici in molte tradizioni, comprese quelle spesso considerate antitetiche ad essa”16. Rifiutando quindi l’idea che le popolazioni e le culture indigene siano state passivamente “vittime” della modernità come “invasore alieno”, McLean pone l’accento sulle logiche combinatorie dell’ibridazione nella risposta dell’arte: Gli effetti apocalittici della modernità su tutte le società tradizionali, comprese quelle aborigene, sono innegabili. Tuttavia, questo ragionamento scivola facilmente in una logica binaria che appiattisce le ambiguità dell’incontro coloniale e mette a tacere gli adattamenti storici dei colonizzati, colonizzandoli di nuovo. Questa logica binaria è la ragione principale per cui i critici occidentali hanno


20 P. Gilroy, The Black Atlantic. Modernity and Double­ Consciousness, Cambridge (MA), Harvard University Press, 1993.

Come terzo esempio di moderno coloniale citerei la Adinembo House, costruita nel delta del Niger tra il 1919 e il 1924 dall’architetto nigeriano James Onwudinjo, che è al centro del contributo di Ikem Stanley Okoye nel quarto volume della mia serie, Exiles, Diasporas & Strangers. Osservando come il tetto piatto dell’edificio crei un duplice contrasto con i materiali di argilla e paglia delle abitazioni indigene e con i mattoni dell’architettura coloniale britannica, Okoye dedica attenzione all’uso del cemento armato come tecnologia “straniera” che trovò un ambiente ricettivo nell’élite locale, compreso il ricco commerciante Igbo che aveva commissionato la casa. Se Okoye evidenzia gli elementi decorativi e ornamentali delle pareti esterne in contrapposizione ad Adolf Loos, il punto chiave è la sovrapposizione temporale in cui gli architetti modernisti in Austria e in Africa occidentale esploravano temi simili18. I miei personali contributi alla serie si sono concentrati sulla moderna diaspora nera, dai pittori astratti caraibici dell’epoca del New Commonwealth, come Aubrey Williams e Frank Bowling, ai collage di Romare Bearden nella scena afroamericana degli anni Sessanta. In un certo senso, in quanto prodotti di migrazioni forzate, le diaspore sono molto diverse dalle colonie: in queste ultime la terra ti è stata portata via, mentre nelle prime sei tu ad essere stato portato via dalla tua terra. Ma con i metodi aperti dal concetto di Paul Gilroy di Black Atlantic come spazio circolatorio dei flussi migratori, lo studio della modernità diasporica fornisce un nuovo punto di accesso all’archivio, con risultati a volte sorprendenti. Le indagini di Richard Powell (2001) e Sharon Patton (1999) riconoscono le dimensioni globali con cui la blackness tende a travalicare i confini territoriali della nazionalità, ampliando così la portata dei precedenti lavori di Samella Lewis e David Driskell, e dell’enciclopedia scritta da Romare Bearden insieme a Harry Henderson, con cui si inaugurava la storia dell’arte afroamericana come campo di studio distinto19. Ed è qui che si tende a considerare il Rinascimento di Harlem come momento di origine del Modernismo nero, ma con questo concetto più ampio di modernità non solo vediamo i mezzi visivi come la fotografia un luogo chiave in cui la rappresentazione dell’individualità autonoma è stata messa in scena dopo l’abolizione della schiavitù, ma cominciamo a notare che fu anche nei primi anni Novanta dell’Ottocento che tra gli intellettuali afroamericani come W.E.B. Du Bois si generò un particolare discorso filosofico di autoindagine. Du Bois partecipò all’Esposizione Universale di Parigi nel 1900, dove si recò per supervisionare l’installazione dell’American Negro Exhibit, una collezione di fotografie, mappe, libri, diari e grafici scientifici che documentavano le sue ricerche all’Università di Atlanta. Le fiere mondiali e le esposizioni internazionali sono ampiamente studiate come spettacoli del potere imperiale – e nel Dahomey Village, all’interno del padiglione francese, gli africani furono messi in mostra nel 1900 come esemplari viventi dell’alterità –, ma quanto più ricca sarebbe la nostra comprensione di questi contestati siti della globalità se includessimo nel calcolo la simultanea presenza di soggetti afroamericani della diaspora? Ciò che Du Bois esponeva, a dire il vero, non era arte ma informazione; tuttavia, i documenti di auto-miglioramento presentati nell’American Negro Exhibit erano da lui stesso intesi come manifestazione dell’auto-modernizzazione nera. Le reti di viaggio del XIX secolo che aprirono la strada al Congresso panafricano (la cui prima riunione, con la presenza dello stesso Du Bois, si tenne a Londra nel 1900) ci spingono a concettualizzare il Black Atlantic come “controcultura della modernità”20 non solo nella musica e nella letteratura, ma anche nelle arti visive.

FRÄMLINGAR ÖVERALLT

19 S. Lewis, Art: African American, New York, Harcourt Brace Jovanovich, 1978; D. Driskell, Two Centuries of Black American Art, catalogo della mostra (Los Angeles, Los Angeles County Museum of Art, 1976), New York, Random House, 1976; R. Bearden, H. Henderson, A History of African­American Artists, from 1792 to the Present, New York, Pantheon, 1993.

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18 I.S. Okoye, Unmapped Trajectories. Early Sculpture and Architecture of a “Nigerian” Modernity, in Annotating Art’s Histories. Exiles, Diasporas, & Strangers, cit., pp. 28-44.

avuto difficoltà ad accettare il Modernismo dell’arte non occidentale e soprattutto tribale. In realtà, gli agenti della tradizione hanno fatto quello che hanno sempre fatto: si sono adattati e adeguati al nuovo, appropriandosi persino di alcune delle sue idee. Certo, l’adattamento è stato spesso accidentato e a volte contraddittorio, ma la storia del Modernismo aborigeno è la storia di questo adattamento17.

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17 I. McLean, Aboriginal Modernism, cit. p. 76.


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21 Stuart Hall, Globalization, cit., p. 194.

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I discorsi dominanti dell’internazionalismo, concepiti per stabilire le condizioni di competizione capitalistica tra Stati-nazione rivali (che, secondo Hall, definisce la seconda fase della globalizzazione fino alla catastrofe imperialista della Prima guerra mondiale) erano essi stessi messi in ombra e antagonizzati da un internazionalismo dal basso, di cui gli spazi del Black Atlantic costituiscono un modello esemplare. I viaggi transatlantici degli artisti afroamericani a Parigi negli anni Trenta erano stati prefigurati nel XIX secolo dalla scultrice Mary Edmonia Lewis e dal pittore Henry Ossawa Tanner, la cui opera non era di per sé modernista, pur essendo impegnata in una riflessione consapevole sui dilemmi della vita in condizioni di modernità diasporica. Rivisitare il periodo formativo che va dagli anni Novanta del XIX secolo agli anni Venti del XX secolo attraverso la lente delle molteplici formazioni del Modernismo su scala globale ci offre ora l’opportunità di esaminare come ognuna di queste varianti interculturali sia stata strutturata in termini di dominanza e subordinazione. In altre parole, possiamo pensare alla genealogia del Modernismo non come a una storia “internalista” o autogenerata che inizia e finisce solo in Occidente, ma come alla narrazione di un momento decisivo in cui le contraddizioni trainanti della congiuntura globale moderna hanno dato origine a molte forme diverse di produzione artistica. Dopo avere accennato alle appropriazioni anticoloniali che hanno generato un Modernismo cosmopolita che ha rifiutato il neotradizionalismo e il nazionalismo, e a una modernità diasporica percorsa dai viaggi transnazionali di artisti neri che hanno agito come cittadini del mondo, va sottolineato che la storia dell’arte sta iniziando solo ora – con estremo ritardo – a giungere a una vera comprensione universalistica della logica della transculturazione nelle arti visive. Nel periodizzare la globalizzazione, Hall caratterizza “la terza fase, culminante nel secondo dopoguerra”, come contraddistinta dal “declino dei vecchi imperi basati sull’Europa, dall’era dei movimenti di indipendenza nazionale e della decolonizzazione”, che “coincide con la rottura di un intero quadro epistemologico visivo e concettuale che chiamiamo ‘Modernismo’. Il Modernismo segue l’indice più ampio spostandosi dalle sue origini nell’Europa di fine secolo agli Stati Uniti”21. Nella temporalità traumatica della nachträglichkeit – cioè dell’azione differita, o della posteriorità – l’embricatura interdipendente o co-costitutiva di Modernismo e colonialismo è diventata visibile solo con la rottura del consenso egemonico, provocata dal “post” nel Postmodernismo e nel postcolonialismo. Sebbene i concetti di ibridità siano presto usciti dal ciclo della moda metropolitana, la tesi della modernità multipla ci spinge a riesaminare l’intera gamma dei termini a essa correlati – creolizzazione, sincretismo, traduzione, dialogismo – come risorse concettuali per mappare la logica della transculturazione nelle arti visive. Chiarendo le diverse combinazioni di modernizzazione e modernità in specifiche congiunture del globale, possiamo avvicinarci a una visione più completa del Modernismo come pratica artistica di creazione del mondo che è sempre stata guidata dalla transculturalità.


NEL CORSO DI UN’INTERVISTA ALLA TV-KULTURAFDELINGEN DANMARKS RADIO, 1987.

Da quando vi abbiamo incontrato, gente, cinquecento anni fa, guardateci. Noi abbiamo dato tutto, voi state ancora prendendo. Voglio dire, dove sarebbe l’intero mondo occidentale senza noi africani? Il nostro cacao, il legname, l’oro, i diamanti, il platino, eccetera. Tutto quello che avete è nostro. Non lo dico io, è un dato di fatto, e in cambio di tutto questo che cosa abbiamo? Niente.

AMA ATA AIDOO



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Naine Terena de Jesus

L’artigianato e il corpo sociale indigeno

Questo saggio è stato originariamente pubblicato come N. Terena de Jesus, Artesanato e o corpo social dos indígenas, in Arte indígena no Brasil midiatização, apagamentos e ritos de passagem, Cuiabá, Oráculo Comunica, 2022.


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L’ARTIGIANATO E IL CORPO SOCIALE INDIGENO

“Ma questa non è arte contemporanea. Assomiglia a quelle cose che gli indigeni vendono ai semafori delle città”. (Un giorno guardando i social media, novembre 2022)

NAINE TERENA DE JESUS

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Ma che cos’è l’arte indigena? Artigianato, manufatti, arte indigena contemporanea. Il processo di ibridazione fra artigianato indigeno ed elementi non indigeni deve essere preso in considerazione se vogliamo pensare all’esistenza di una definizione di arte, ammesso che si riesca a trovare un termine comune. Questa analisi può essere condotta da diverse prospettive, dal punto di vista dell’economia, dei media e delle discipline artistiche. In poche parole, potremmo semplificare come arte quei prodotti riconosciuti da persone non indigene specializzate in materia che li validano, e che quindi possono essere presenti nei luoghi in cui si muove l’arte contemporanea. Oppure potremmo dedurre che sono quei prodotti che si possono accostare ai linguaggi e ai mezzi artistici conosciuti dal sistema dell’arte non indigeno, che quindi vengono assorbiti più rapidamente. Per quanto riguarda gli aspetti comunitari e sociali, tuttavia, dobbiamo preoccuparci un po’ di più del significato di questa iniziale affermazione. Un giorno ho chiesto a una parente indigena se nella sua comunità ci fossero donne che dipingevano. Mi disse che molte, se non tutte, lo facevano. Ma alcune erano all’università e studiavano arti visive. Questa preziosa informazione mi ha immediatamente fatta riflettere. Mi sembrava di adottare i modelli di differenziazione fra l’artigiana e l’artista – dal cortile del villaggio all’accademia – in cui tecnica e aspetti accademici vengono enfatizzati rispetto alla tecnica originale. Mi sono resa conto di aver commesso un errore e ho riformulato la mia richiesta: “Chiedi alle donne del tuo territorio, quelle che si considerano artiste, di mettersi in contatto con me”. In questo modo, delegavo la comprensione dell’arte e dell’artista alle relazioni vissute nel territorio e da ciascuna di queste donne, tenendo conto del contesto delle persone, degli incroci e del loro personale percorso. Per questo motivo, in questo testo mi riferisco come artiste-artigiane a coloro che sono considerate artigiane, per fare alcune considerazioni sullo spazio sociale assegnato a queste artiste indigene.


DAPERTÜTU STRANGEI

Tutte queste riflessioni per dire che non voglio che il contenuto delle nostre produzioni indigene venga frammentato e inserito in dispute su narrazioni costruite su che cosa è l’arte che nasce dalla creatività e dal pensiero intellettuale – bianco1 – ed è avallata da registi, critici e spazi specializzati nelle arti. Tanto meno che si moltiplichi il discorso secondo cui le nostre produzioni artistiche sono quelle cose “vendute ai semafori delle strade cittadine”. Per noi indigeni, va ribadito, le nostre percezioni devono essere più solide rispetto a ciò che facciamo, anche se significa comprendere i linguaggi in cui le nostre produzioni finiscono per essere inquadrate nel sistema non indigeno. Che cos’è l’arte indigena, a me familiare? Le risposte sono talmente tante che non riuscirei a raccogliere tutte quelle sentite in questi anni investiti a seguire processi e attività. L’artigiano e l’artigianato, o forse i manufatti, restano associati alla ripetizione che non lascia spazio alla creatività, all’intelligenza e alle idee. Da un punto di vista economico, è noto che quanto considerato arte e ciò che è ritenuto artigianato abbiano un mercato che genera reddito per le famiglie. Si tratta di un importante dato, da non trascurare quando si pensa ai percorsi di queste produzioni. Va sottolineato che, proprio come per gli artisti non indigeni, anche “guadagnarsi da vivere con le arti” è una sfida. Ma per le popolazioni indigene questa sfida può essere molto più grande, perché implica la totale mancanza di conoscenza dei gruppi etnici e della loro diversità, il che porta a un restringimento dei pensieri e a un’omogeneizzazione dei modi di vedere e fare arte. In questo modo, solo ciò che un artista-pensatore propone viene assunto a verità. Nel dire questo, dobbiamo tenere presente che non tutti gli artisti indigeni saranno in grado di salire sulla scena artistica contemporanea in termini di visibilità e di mercato. Ricordiamo che gli artisti-artigiani indigeni hanno trascorso decenni a vendere la propria arte, che costituisce la base finanziaria delle loro famiglie, spesso senza alcun tipo di rispetto per la loro capacità e la loro identità. E dove sta l’inconveniente in questo discorso? Sicuramente nella costruzione politica e nell’immaginario riguardante le potenzialità e i luoghi degli artigiani e degli artisti. Esiste una responsabilità educativa e sociale del mercato dell’arte nei confronti delle popolazioni indigene? In questo gioco delle sedie, la posizione sociale dell’artista e dell’artigiano indigeno compone una scena in cui la gerarchia o la categorizzazione definisce gli spazi per ciascuno secondo un sistema di valori non indigeno. Questa posizione sociale dell’artista-artigiano viene continuamente banalizzata e marginalizzata tra i non indigeni, minando le capacità e favorendo la scomparsa del corpo sociale degli indigeni, i quali sono indubbiamente agenti che producono e mantengono tecniche, memorie, etno-conoscenze, sapere artistico ed esperienze. Ribadendo l’opposizione fra tradizione e innovazione, viene loro negato anche il luogo dell’innovazione. Ciò che possiamo vedere con sguardo più attento è che, nel contesto indigeno, innovare significa mantenere quanto è conosciuto come tradizione, di fronte alla pressione e al restringimento delle pratiche culturali, di fronte all’avanzata delle mega-imprese, delle metropoli e del consumismo. Innovare significa continuare a essere ciò che si è. Promuovere una creazione più vicina al linguaggio non indigeno o, al contrario, concentrarsi sulle manifestazioni che si perpetuano di generazione in generazione, non squalifica il lavoro degli indigeni di oggi. Di nessuno di loro. Queste dovrebbero essere una preoccupazione e una pratica tra chi crea e il pubblico che riceve, perché entrambi sono mediatori culturali. Intendo dire che i parenti indigeni dovrebbero riflettere in modo molto coerente sul fatto che adattano le proprie produzioni per ottenere visibilità mediatica o per ottenere una maggiore copertura finanziaria e che ciò potrebbe diventare un peso collettivo per le generazioni future. Se l’installazione contemporanea realizzata dall’artista indigeno racconta una storia, o molte storie, l’ancestrale

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Uso il termine “bianco” per riferirmi al modo in cui molti di noi indigeni si riferiscono ai non indigeni.

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L’ARTIGIANATO E IL CORPO SOCIALE INDIGENO 146 NAINE TERENA DE JESUS

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ceramica in argilla – prodotta secondo i codici di produzione stabiliti da un determinato popolo – contiene in sé anche processi, piaceri, dialoghi e rimandi, assumendo molteplici funzioni che vanno dall’aspetto utilitaristico allo status di oggetto d’arte, a seconda della nicchia in cui viene presentata. Infine, si potrebbe immaginare un discorso più approfondito sull’incrocio di queste produzioni in campi come il design, la moda e altre categorie che ne aumenterebbero il valore sia simbolico che commerciale. In una certa misura, questo sta già accadendo. L’adozione di alcune categorie come moda, arredamento o gioielleria ecosostenibile riposiziona queste produzioni come arte, derivante dalla dedizione di chi le produce e dal rigore della loro creazione estetica. In questi campi si assiste anche a un riconoscimento delle produzioni, soprattutto grazie alla moltiplicazione dei modelli che si stanno diffondendo tra gli artisti indigeni, come appunto la gioielleria ecosostenibile. Si tratta forse di un argomento di discussione plausibile: l’appartenenza dei pezzi prodotti e quanto questo incida sul pubblico dei consumatori. Un giorno qualcuno ha commentato su un social network il fatto che un gioiello esposto non appartenesse alle persone a cui era collegato nel negozio. Il problema in questo caso era più ampio, trattandosi di un negozio che vendeva prodotti di diversi popoli, ma con il nome commerciale di una sola persona, il che riflette le narrazioni virtuali, le distorsioni dell’immagine postata e la mancanza di identificazione del contesto in cui i pezzi sono stati prodotti. L’identificazione è necessaria per spiegare che, in senso più pratico, assieme ai pezzi viene venduto il loro valore simbolico: la storia di un popolo, il suo stile, la sua origine, ecc. Anche se vengono prodotti diversi pezzi simili, essi saranno sempre portatori di storie. Anche se l’artista-artigiano sa dove andranno a finire i suoi pezzi una volta completati, si tratta di un viaggio irto di temporalità e competenze artistiche che rendono il processo sempre diverso pur dando luogo a pezzi identici. A partire dalle diverse produzioni e dal loro riconoscimento pubblico, si esercita la dignità umana e il posto sociale di tutti i popoli indigeni, come umanità dotata di conoscenza, tecnologia e memoria.


LA CADUTA DEL CIELO: PAROLE DI UNO SCIAMANO YANOMAMI. TRADUZIONE DI ALESSANDRO PALMIERI E ALESSANDRO LUCERA, MILANO, NOTTETEMPO, 2018.

La foresta è viva. Può morire solo se i bianchi si ostinano a distruggerla. Se ci riusciranno, i fiumi scompariranno nel sottosuolo, il suolo si sgretolerà, gli alberi si raggrinziranno e le pietre si spaccheranno per il calore. La terra inaridita diventerà vuota e silenziosa. Gli spiriti xapiri che scendono dalle montagne per giocare sui loro specchi nella foresta fuggiranno lontano. I loro padri sciamani non potranno più chiamarli e farli danzare per proteggerci. Non potranno più respingere i fumi epidemici che ci divorano. Non saranno più in grado di trattenere gli esseri malvagi che trasformeranno la foresta in caos. Moriremo uno dopo l’altro, sia i bianchi che noi. Alla fine tutti gli sciamani periranno. Poi, se nessuno di loro sopravviverà per reggerlo, il cielo cadrà.

DAVI KOPENAWA



外国人无处不在 149 STRANIERI OVUNQUE

L’arte indigena contemporanea come trappola per trappole

Jaider Esbell Questo saggio è stato pubblicato per la prima volta online da Galeria Jaider Esbell il 9 settembre 2020.


L’ARTE INDIGENA CONTEMPORANEA COME TRAPPOLA PER TRAPPOLE 150 JAIDER ESBELL

BIENNALE ARTE 2024

Prima di ogni altra questione, voglio sottolineare la legittimità di questo saggio. Ritengo, anzi spero, che debba essere considerato importante da tutti coloro che si interrogano sul termine, sulla sua negazione o addirittura sulla sua esaltazione. Scrivere sull’argomento è un’attività legittima proprio da questa prospettiva: io vivente, artista, indigeno e autonomo. Per un intero decennio mi sono completamente dedicato a pensare alla mia arte come parte di un ampio sistema politico e strategico. I suoi limiti sono volutamente sfumati, affinché un giorno possano essere collocati in un contesto di equivalenza, per dare luogo a reali possibilità di dialogo con i movimenti già diffusi. Da dove mi trovo, non posso né affermare né negare nulla. Né l’intenzione della mia scrittura va oltre i confini del proprio lavoro. Non ricopro una cattedra all’interno di un’influente accademia, ma nel corso degli anni mi sono reso conto che questi spazi esistono già e che costruiscono teorie per poi diffonderle secondo le proprie strutture e motivazioni. Sono nato in un ambiente ricco di creatività, o di inanizione se avessi ceduto agli inviti dell’auto-annientamento. Sono venuto al mondo già distorto. Uso la parola “distorto” con riserve e licenze, perché a questo primo livello non posso fare a meno di riferirmi all’arrivo e all’azione degli invasori europei sulle dinamiche specifiche delle popolazioni indigene di queste terre oggi rivendicate. Riflettiamo allora per un momento sull’argomento di questo testo. Trappola per trappole. Sistemi di potere. Concetti coloniali. Pratiche mescolate a valori e riferimenti. Identità e autocoscienza. Funzione, forma e contenuto. La questione del territorio e della territorialità da questo punto di vista, ripeto: io, artista vivente di discendenza makuxi, un popolo con un ampio movimento politico ed estetico socio-interattivo ed espansionistico che è stato un punto di riferimento ben prima dell’arrivo degli invasori “bianchi”, un punto che anch’io ho voluto segnare. Quando nasci dove e come sono nato io, non hai molta scelta se non quella di cercare di diventare te stesso, e questo presuppone negare non esattamente chi sei, ma ciò che volevano che tu fossi. La prima resistenza viene dall’interno della casa. Il modo in cui sono stato cresciuto non era affatto vicino alla prima violenza, è solo che il mio corpo non mi appartiene se non lo vedo come un’estensione di accumuli storici. La violenza è un’energia propagata di portata quasi irrintracciabile, ma è così. A un certo punto, dobbiamo ampliare la nostra lettura del mondo per essere minimamente corretti nei confronti di ciò che stiamo studiando. Immaginate gli effetti di cinquecento anni su una popolazione che assimila e de-assimila in continuazione. Non riuscivo a impedirmi di mettere in discussione i modi in cui mi veniva imposta l’idea di educazione. La rivolta, che ora comprendo meglio, non è stata una questione di pochi anni, bensì di secoli e, su un altro piano, di millenni di disturbi emotivi non curati che si accumulano e si proiettano sempre più efficacemente sui modelli generali ufficiali e su altre forze dei propri tempi. Sono nato alla fine del regime dittatoriale. In un certo senso, ho avuto il privilegio di nascere nella culla della violenza e di poterne vedere, come primo paesaggio, il volto. Come secondo paesaggio, sono stato in grado di formare dentro di me dei mondi a partire da frammenti. In un simile momento mi è stata presentata una narrazione apparentemente rigida, arrotondata e limitata, in cui tutti i fattori confluiscono per dare corso ad altri codici genetici, per così dire. Sentir parlare del grande albero mi ha portato in mondi lontani. Era una notte d’estate, il cielo era senza luna e potevo sentire la Via Lattea. Ho iniziato a guardare tutti i tipi di alberi e osservare ogni tipo di traccia, a rivoltare le rocce, entrare nelle fessure, a scavare ed estrarre tutto. Sicuramente non sarebbe successo nulla di particolare


E IAI TAGATA MAI FAFO I SOO SE MEA 151 STRANIERI OVUNQUE

nella mia vita se la storia mi fosse stata presentata in un altro modo, da qualcun altro e in un altro momento. Ma era dove oggi si trova la nostra terra, la terra indigena Raposa Serra do Sol. A parlarmene è stato mio nonno, un eccellente narratore di storie giocose e fantastiche. Ma era uno schiavo nelle fattorie degli stranieri che usurpavano il nostro mondo con le migliori intenzioni: le loro e per loro. Non potevo immaginare che questo fosse uno scenario possibile. Che le pelli di vacca su cui eravamo sdraiati fossero le impronte della colonizzazione e della guerra per le terre che già ci erano estranee, perché per ordine nazionale non ci appartenevano, come è ancora e come credo per sempre sarà. Molto tempo fa qui c’era un grande albero. Aveva tutti i tipi di frutta... Come potevo trovare normale dover andare a scuola e non poter accompagnare i miei parenti nel loro lavoro comunitario e godere così del vero sapere costituito dalla nostra lingua e dalle nostre tradizioni? Con chi potevo parlare dei grandi problemi che mi affliggevano se i miei docenti sapevano solo insegnare l’alfabetizzazione e non avevano tempo per i miei pensieri in aria, perché i loro erano fissi sulla dichiarazione dei redditi? Ognuno nel proprio mondo e io in un altro ancora, più lontano, a scarabocchiare pensieri immaginari mentre la classe versava lacrime per imparare a scrivere il proprio nome. Oggi posso dire che è stata l’arte a raggiungermi. Ed è questo il ritmo che ho tenuto in tutti questi anni: un movimento costante di attraversamento dei sensi percorrendo un margine molto stretto, quei luoghi invisibili percorsi solo dagli esploratori più astuti. Sono diventato esploratore in un luogo dove tutto veniva esplorato. Ho dovuto affrontare la paura, la timidezza, la tristezza, la solitudine e l’apatia. Lì la terra non era più sfruttata per l’agricoltura familiare comunitaria, ma per le grandi aziende. Agricoltura monoculturale. Esploravano la terra per estrarre minerali, legname, terreni per grandi allevamenti di bestiame che non si vedeva dove andassero. Esploravano la terra a caccia di manodopera. Esploravano la terra per diffondere la miscegenazione in modi perversi, da inganni e promesse a stupri violenti nelle campagne lontane, che immaginavano nessuno sarebbe stato in grado di rivelare. E così furono stabiliti i sistemi, i trucchi, le strategie, le politiche pubbliche – ufficiali e non – del genocidio. Ho potuto seguire l’intero processo da dove mi trovavo, come ho detto, avendo il privilegio di essere nato dove sono nato e, si badi bene, di poter approfittare del sistema cristiano in cui erano nati i miei genitori. La Chiesa non aveva ancora dichiarato guerra allo Stato. Il loro rapporto era ancora complementare. Da ragazzo che frequentava la scuola di catechismo, ho potuto esplorare la Chiesa, camminare con le madri attraverso gran parte della mia terra, vedere e sentire come la Chiesa trattava i suoi abitanti e come si rapportava con lo Stato, con il potere. Oggi posso dire con maggior sicurezza che quello che stavo facendo era una ricerca approfondita sulle mie origini. Soprattutto, si trattava di una ricerca sul mio destino, perché ero curioso di ogni aspetto della società, a prescindere dalla mia età e dalla mia realtà. Allora perché dico che usare il termine “Arte Indigena Contemporanea” è prima di tutto una strategia? Forse perché non posso dire, fare, mostrare e vivere tutto ciò che ho accumulato in immaginazione e visione attraverso altri mezzi. Non sarei così se fossi diventato uno scienziato, un prete, un soldato, un cercatore d’oro magari illegale, un contadino, un domestico o un insegnante. Forse non sarei stato capace di esternare, di dare sfogo al mio e all’altrui essere se fossi diventato un padre di famiglia, un normale lavoratore dipendente. Di certo non sarebbe stato così se non avessi rinunciato a tutte queste possibilità per essere solo un artista.


L’ARTE INDIGENA CONTEMPORANEA COME TRAPPOLA PER TRAPPOLE 152 JAIDER ESBELL

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E anche il termine “artista”, considerato ciò che ci si aspetta da un professionista in questo campo, non potrebbe arrivare a tanto. Affermo di essere un artista, ma che cosa sono in realtà? Ho deciso di assumere questo ruolo, di dedicarmi a esso completamente e, nonostante ciò, per arrivare qui ho dovuto, come strategia, seguire percorsi convenzionali, come avere un lavoro formale. Ho ottenuto, tramite un concorso pubblico, un impiego come assistente tecnico in un’azienda elettrica statale. Anche lì ho continuato la mia ricerca su sistemi, politiche e strategie. In quel periodo ho anche potuto studiare all’università; mi sono laureato e ho cercato di continuare, ma non me l’hanno permesso. Ho comunque potuto avere un’introduzione alle metodologie scientifiche e capire un po’ i meccanismi con cui la scienza fa valere le proprie ragioni. Tornando al tema più ampio, l’arte indigena contemporanea, posso dire che è un altro termine nel mondo dei termini. Ma quando si lavora su questo versante, al soggetto sé, artista, indigeno e autore, viene data una legittimità indiscutibile. È una trappola per catturare trappole per vari motivi, soprattutto nel campo dell’autocritica, dell’autoanalisi e dell’autosviluppo. Forse dovremmo discutere se gli indigeni facciano arte, artigianato o manufatti. Mettere in discussione usi e appropriazioni da entrambe le parti. Discutere le questioni dell’autorialità collettiva, dell’autonomia dell’artista o anche ottenere parametri che dicano chi può essere considerato un artista o no tra i soggetti indigeni. Magari spingendosi a superare confini e frontiere che in molti punti sono labili, come la legittimazione di una rivendicazione di autoidentità, la miscegenazione o la doppia identità etnica quando i nativi si fondono con le persone di origine africana. Forse si potrebbe andare oltre, come ad esempio avere un campo più definito per evidenziare le ingiustizie che non possono essere ignorate, come lo svantaggio che abbiamo come popolazioni indigene rispetto a tutti gli altri gruppi etnici, anche in relazione ai movimenti della popolazione nera in questo Paese e nelle Americhe, ad esempio. Naturalmente, sto aprendo questo saggio al mondo intero e vorrei che questo materiale fosse incluso nei contenuti dei corsi di istruzione superiore. Vorrei che fosse letto nei corsi post-laurea, nei corsi di formazione per insegnanti e simili. Oggi possiamo constatare, attraverso decine di soggetti indigeni che si esprimono apertamente al grande pubblico, che si tratta in realtà di un sistema estremamente complesso di visibilità delle pluralità. Abbiamo artisti di entrambi i sessi che puntano a una strategia non ancora evidente. Forse quello con cui abbiamo a che fare è un cambiamento transgenerazionale fenomenale e non modale. Non solo per l’età dei soggetti, ma per il contenuto, il tenore delle loro performance, le loro voci e la crescente rivolta di artisti indigeni non binari, senza genere. Le questioni del genere, della radicalizzazione, della vita di paese o della sua mancanza, della padronanza della lingua madre del popolo d’origine, sono tematiche latenti che possono e devono sempre essere affrontate in una prospettiva costruttiva. Non posso non sottolineare la questione della paternità, dell’autonomia dell’intento artistico come voce dissenziente dall’ambiente comune senza smettere di esserlo. Dalla pratica artistica come composito di atti superiori. Come insieme ritualistico più che mitico, arrivando al pajelança. Come pratica sciamanica, curativa e psicomedica. Come connettore di fatti storici e come innesco di sinapsi per mondi che esistono, ma non sono come quelli a cui abbiamo accesso. Un artista non si sviluppa con le imposizioni. Le imposizioni violente possono essere molto pericolose per le menti sensibili degli artisti. Infine, vorrei ricordare che ci sono trappole in ogni cosa e che noi, popoli indigeni, abbiamo bisogno di una trappola per individuare le trappole e chissà, forse questa non è esattamente AIC - Arte Indigena Contemporanea, realizzata e contestualizzata dai suoi stessi autori.


I LUOGHI DELLA CULTURA, TRADUZIONE DI ANTONIO PERRI, ROMA, MELTEMI, 2001.

Se l’ibridazione è eresia, allora la bestemmia è sogno.

HOMI K. BHABHA



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NOTE

1

Per cominciare, si veda: A.Z. Aizura et al., Introduction. Decolonizing the Transgender Imaginary, in “TSQ. Transgender Studies Quarterly”, 1, 3, agosto 2014, pp. 308-319; F. Saleh, Transgender as a Humanitarian Category. The Case of Syrian Queer and Gender­Variant Refugees in Turkey, in “TSQ. Transgender Studies Quarterly”, 7, 1, febbraio 2020, pp. 37-55; L. deLire, Can the Transsexual Speak?, in “philoSOPHIA. Journal of Transcontinental Feminism”, 13, 2023, pp. 50-83; S. Sinai, On Returning Things to Their Proper Places, in “Hypocrite Reader”, 99, gennaio 2022: https://hypocritereader. com/99/proper-places.

2

Si veda, ad esempio: C.R. Snorton, Black on Both Sides. A Racial History of Trans Identity, Minneapolis, University of Minnesota Press, 2017 e J. Gill-Peterson, Histories of the Transgender Child, Minneapolis, University of Minnesota Press, 2018.

3

Si veda: E.S. Corredor, Unpacking “Gender Ideology” and the Global Right’s Antigender Countermovement, in “Sign:. Journal of Women in Culture and Society”, 44, 3, 2019, pp. 613-638; Trans­ Exclusionary Feminisms and the Global New Right, numero speciale a cura di S. Bassi, G. LaFleur Greta, in “TSQ. Transgender Studies Quarterly”, 9, 3, agosto 2022.

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Non esistono molte ricerche di qualità in inglese, ma è possibile seguire il profilo Instagram @buendnis.selbstbestimmung per rimanere aggiornati. E per chi conosce il tedesco, si consiglia la conversazione tra Pajam Masoumi, Juliana Franke, Mine Pleasure Bouvar e Luce deLire, Das Selbstbestimmungsgesetz ist ein Angstgesetz, in ak. analyse & kritik, 1 febbraio 2024: https://www. akweb.de/politik/das-selbstbestimmungsgesetz-der-ampelkoalition-ist-ein-angstgesetz/.

AJNABI MELKASTA JOGA

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Andando a scalfire una società neoliberale in qualunque punto, si troverà l’intensificarsi di un’attitudine violenta. Per la 60. Esposizione Internazionale d’Arte Stranieri Ovunque – Foreigners Everywhere, questo aspetto assume particolare importanza. Le persone queer e trans di colore, i migranti e i rifugiati sono soggetti a particolari forme di violenza e disciplina, a stento affrontate nel testo qui generosamente ripubblicato . In realtà, le categorie “trans” e “gender” sono collegate con l’“essere bianchi” e il colonialismo . Nel frattempo, l’opposizione alle cosiddette “ideologie di genere” sopravvive ancora come collante, mantenendo allineate le destre europee (e globali) . Per esempio, nell’anno successivo alla pubblicazione del mio testo, il governo tedesco, all’insaputa dell’attenzione internazionale, ha promulgato la cosiddetta “Legge sull’autodeterminazione”, piegandosi alla retorica TERF (Trans Exclusionary Radical Feminist) con un connubio particolarmente infelice tra eloquenza permissiva e forza giuridica disciplinare . Poiché la situazione si sta rapidamente evolvendo, posso solo raccomandarvi di ascoltare le persone queer e trans intorno a voi – e quelle dentro di voi.

STRANIERI OVUNQUE

Esergo Luce deLire


LUCE DELIRE BIENNALE ARTE 2024

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ESERGO


STRANIERI OVUNQUE

Luce deLire

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MGA DAYUHAN SA LAHAT NG DAKO

Oltre la giustizia rappresentativa

Articolo pubblicato in “Texte Zur Kunst”, 129, marzo 2023, Trans Perspectives, pp. 48-63.


OLTRE LA GIUSTIZIA RAPPRESENTATIVA 158

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Anselm Franke ha usato questo termine in maniera piuttosto casuale durante la discussione finale della conferenza Freedom in the Bush of Ghosts, tenutasi il 16 dicembre 2017, nell’ambito della programmazione della mostra Parapolitics, alla Haus der Kulturen der Welt, Berlino.

2

Si veda anche D. Ballantyne-Way, The Secret History of Cross Dressing with Sebastian Lifshitz, in Exberliner, 12 settembre 2022, https://www.exberliner. com/art/the-secret-history-of-crossdressing-sebastian-lifshitz-co-berlin/.

LUCE DELIRE

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Per i case study, si veda Trap Door. Trans Cultural Production and the Politics of Visibility, a cura di R. Gossett, E.A. Stanley, J. Burton, Cambridge (MA), MIT Press, 2017.

Che cos’è la giustizia rappresentativa?1 Se ne può trovare un esempio nella mostra Under Cover. A Secret History of Cross­Dressers al C|O di Berlino. L’imponente collezione, accumulata da Sébastien Lifshitz nel corso di decenni di minuzioso lavoro, è composta in gran parte di cartoline e istantanee di persone gender-nonconforming. Una vera miniera per la ricerca storica2. Ma la mostra, curata da Lifshitz e Kathrin Schönegg, la trasforma in una scuola in cui si impara a capire che il genere delle persone rappresentate è diverso da quello mostrato. Si incontra una tipologia di persone gendernonconforming, con un’attenzione particolare alla femminilità transgender incentrata su Marie-Pierre Pruvot (nota come Bambi), che si è esibita come artista di burlesque in Francia dagli anni Cinquanta agli anni Settanta, poi ha studiato, ha fatto la transizione e in seguito ha lavorato come insegnante di scuola elementare nella periferia di Parigi. Oltre al ruolo centrale occupato nella mostra, troviamo un documentario di quasi 90 minuti sulla sua vita. La sua storia merita sicuramente di essere raccontata. Tuttavia, vorrei concentrarmi su un altro aspetto: la mostra trasforma i visitatori in agenti investigativi. Immagine dopo immagine, lo sguardo viene addestrato a individuare gli indizi più o meno sottili che indicano quale sesso è stato assegnato alla nascita alla persona raffigurata. La mostra sembra ignorare le conseguenze reali della visibilità. E qui abbiamo il nostro primo esempio: la giustizia rappresentativa tratta la rappresentanza come strumento di uguaglianza. Tuttavia, ignora che il problema non è la (mancata o errata) rappresentanza in sé, ma la violenza che essa perpetua. Da un lato, infatti, le persone transgender traggono beneficio dalla rappresentanza mediatica, nella misura in cui essa presenta l’identità transgender come una valida alternativa. Inoltre, tale rappresentanza genera anche un discorso sociale che può servire da base per cambiamenti legislativi. La visibilità, tuttavia, ha anche una componente tossica3. Alcune persone transgender – e per molti anni tra


micha cárdenas, Poetic Operations. Trans of Color Art in Digital Media, Durham (NC), Duke University Press, 2022, p. 15.

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J. Butler, Questioni di genere, trad. S. Adamo, Bari, Laterza, 2013 (ed. orig. Gender Trouble, New York, Routledge, 1999).

7

J. Butler, Gender Trouble, cit., pp. XX, XXIII.

8

G. Deleuze, Postscript on the Societies of Control, in October, 59, 1992, pp. 3-7; P.B. Preciado, Testo Junkie. Sex, Drugs, and Biopolitics in The Pharmacopornographic Era, trad. B. Benderson, New York, Feminist Press, 2013. Si veda anche L. deLire, Can the Transsexual Speak?, in Intersectionality Today, numero speciale, “philoSOPHIA: Journal of Transcontinental Feminism”, 13 (in pubblicazione).

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Citazione di Hailee Bland Walsh, proprietario di City Gym, Kansas City, Missouri, in Google Small Business, The Story of Jacob and City Gym, YouTube video, 16 giugno 2015, 2’30’’.

10 J.K. Puar, The Right to Maim. Debility, Capacity, Disability, Durham (NC), Duke University Press, 2017, p. 1; M. Wark, Capital Is Dead. Is This Something Worse?, London, Verso, 2021; L. deLire, Can the Transsexual Speak?, cit. 11 C. Keegan, Transgender Studies, or How to Do Things with Trans*, in The Cambridge Companion to Queer Studies, a cura di S.B. Somerville, Cambridge, Cambridge University Press, 2020, pp. 66-78, in part. 72. 12 Per più informazioni, si veda “Texte Zur Kunst”, 129, marzo 2023, Trans Perspectives, pp. 48-63.. 13 Si veda Trans­Exclusionary Feminisms and the Global New Right, a cura di S. Bassi e G. LaFleur, in “TSQ: Transgender Studies Quarterly”, numero speciale, 9, 3, agosto 2022; Anti­Genderismus­Sexualität und Geschlecht als Schauplätze aktueller politischer Auseinandersetzungen, a cura di S. Hark e P.-I. Villa, Berlin, Transcript, 2015.

どこでも外国人

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queste figurava anche Pruvot – preferiscono semplicemente non essere riconosciute come tali4. Un altro fattore è la sicurezza. Dopo che nel 2014 negli Stati Uniti è aumentata la visibilità delle persone transgender di colore, il tasso di violenza è sembrato drasticamente peggiorare. Nel 2015, il numero di omicidi di persone transgender è cresciuto del 50%. [...] Le donne transgender e le persone di colore sono ancora le vittime più colpite. [...] Il continuo aumento degli omicidi di donne transgender di colore sottolinea la profonda necessità di strategie politiche che vadano al di là della semplice visibilità o invisibilità [...]5. Ma la visibilità sovversiva non è forse un credo della teoria queer? Nel suo Questione di genere, Judith Butler sostiene che il genere è costantemente costruito attraverso la reiterazione performativa delle norme di genere6. Di conseguenza, queste norme possono essere gradualmente sovvertite attraverso la ripetuta messa in atto di modi alternativi e dissenzienti. Negli spazi così creati è possibile accogliere un più ampio spettro di persone di genere diverso. Questi effetti emancipatori della visibilità costituiscono il fondamento teorico della giustizia rappresentativa. Tuttavia, questo quadro è vero solo in parte. Dopo tutto, l’erosione delle norme è emancipatoria solo quando l’oppressione è attuata tramite l’applicazione violenta di norme prescrittive7. Ma che cosa accade quando la trasgressione stessa si fa meccanismo di controllo? Se distinguiamo le società disciplinari da quelle neoliberistiche, notiamo due modelli di normatività fondamentalmente diversi8. Le società disciplinari impongono l’obbedienza con la violenza; la devianza viene patologizzata, punita, minacciata, picchiata, esclusa, uccisa. Nelle società neoliberistiche, la trasgressione genera plusvalore; qui la devianza viene resa oggetto di consumo e produzione. L’“essere transgender” si trova attualmente sul confine tra disciplina normativa e controllo neoliberistico, cioè tra patologizzazione, criminalizzazione e violenza disciplinare, da un lato, e diversificazione del consumo e della produzione, dall’altro. Che cosa succederà? Questo è attualmente oggetto di un’intensa lotta. Nel 2015, ad esempio, Google Business ha approfittato della transizione di Jacob Wanderling per pubblicizzare l’azienda: “Quando le persone cercano online un tipo diverso di palestra, un posto sicuro e inclusivo, voglio che trovino noi”9. La devianza è molto richiesta come impulso creativo. Dopo tutto, le prospettive alternative offrono una risorsa ideale per il perpetuo rinnovamento dei meccanismi di produzione neoliberisti10. Di conseguenza, le persone transgender hanno contribuito in maniera significativa a ogni tipo di disciplina venendone sempre più spesso ricompensate11. Eppure, entusiasmo e paura nei confronti delle persone transgender possono coesistere, come di fatto succede12. Le persone transgender vengono da ogni parte schierate contro lo spettro della società disciplinare: mentre l’ostilità verso le persone transgender è servita come elemento unificante della politica autoritaria di destra nella sua lotta contro una presunta “ideologia di genere” autoritaria, le cosiddette forze progressiste si stanno formando in opposizione a ciò che vedono come un insieme oppressivo e restrittivo di norme, stereotipi e pregiudizi13. Tuttavia, la tolleranza progressista è mantenuta entro confini ristretti: alle persone transgender verrà garantita protezione e riconoscimento solo nella misura in cui parteciperanno ai regimi neoliberisti di sfruttamento come individui virilmente orientati verso il mercato libero, che pagano le tasse e che rispettano la legge. Visibilità e sovversione sono quindi diventate oggetto di sfruttamento ideologico di fronte ai meccanismi neoliberisti di controllo sociale. Questo vale sia per la politica del potere sia per la politica dello sfruttamento, e con una agency limitata per i soggetti transgender (perlomeno bianchi, borghesi, orientati al mercato). Qui il pinkwashing, là i valori conservatori, ma sempre in opposizione allo spettro di una società disciplinare. È solo in questo contesto di resistenza a presunte forze disciplinari che la visibilità e la sovversione acquistano senso come mezzo di emancipazione dalle norme. Ma la visibilità e la sovversione generano anche problemi diversi dallo sfruttamento ideologico.

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J. Halberstam, In a Queer Time and Place. Transgender Bodies, Subcultural Lives, New York, New York University Press, 2005.

STRANIERI OVUNQUE

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OLTRE LA GIUSTIZIA RAPPRESENTATIVA 160

14 P. Greenhalgh, Ephemeral Vistas. The Expositions Universelles, Great Exhibitions and World’s Fairs, 1851­1939, Manchester, Manchester University Press, 1988, p. 21.

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LUCE DELIRE

15 D.J. Getsy, How to Teach Manet’s Olympia after Transgender Studies, in “Art History”, 45, 2, aprile 2022, pp. 342-369, in part. 347. Altrove, definisco questo approccio “gender abolitionism”; si veda L. deLire, Catchy Title [1] – Gender Abolitionism, Trans Materialism, and Beyond, in “Year of the Women Magazine”, 2022, https://yearofthewomen.net/en/ magazin/catchy-title-1-gender-abolitionism-trans-materialism-and-beyond. 16 L’autoriconoscimento può essere una ragione alternativa, ma per molti è fondamentale anche l’intelligibilità sociale. Sulla comprensibilità sociale si veda L. deLire, Catchy Title [1], cit.

INDETERMINATEZZA Benché la trasgressione sistematica delle norme possa contribuire a trasformarle, può anche provocarne l’intensificazione: quando di recente, a una festa di Halloween, sono stata minacciata di morte, non sono stata percepita come emblema della sovversione queer. Anzi, la mia trasgressione è diventata occasione per esibire la mascolinità etero patriarcale cis in un modo del tutto privo di ironia. Niente può garantire l’effetto sovversivo dell’“essere transgender”. Lo stesso si può dire della mostra della collezione Lifshitz al C|O: nulla impedisce ai visitatori egemonicamente identificati di leggerla come un fenomeno da baraccone, di riaffermare la propria identità di genere una foto dopo l’altra, o di attingere a questa tipologia di trasgressioni per identificare le persone transgender al di fuori dello spazio espositivo, dove diventano soggette alle proiezioni e alle insicurezze degli altri. La sovversione senza ri­soggettivazione rischia di rimanere una mera riscrittura. L’obiettivo della sovversione non può essere la mera rappresentanza. Ci si deve rivolgere in un modo particolare a ogni pubblico. La modalità standard di soggettivazione in una mostra fotografica come Under Cover è ancora quella dell’arbitro incorporeo che decide tra buono e cattivo, interessante e non interessante, bello e noioso, emozionante e deprimente14. Questa è la soggettività patriarcale cis-bianca con cui spazio espositivo e relativa storia culturale sono inscritti e, di fatto, modellati. Pertanto, la sovversione non può semplicemente significare affrontare i soggetti patriarcali con alcune immagini e sperare per il meglio. La sovversione deve rendere attivamente impossibile la soggettivazione patriarcale bianca e cis, creando al contempo spazi alternativi. Pertanto, la sovversione è più una questione di cura e meno di rappresentanza. STANCHEZZA E NORMALIZZAZIONE L’idea di sovversione performativa può portare a concepire (implicitamente) l’“essere transgender” come trasgressione momentanea o come l’orizzonte di un processo di emancipazione della società in generale: il genere cis viene quindi tacitamente normalizzato come l’opposto scontato della trasgressione. Tuttavia, alcuni di noi devono vivere all’interno di metafore con cui altri abbelliscono le proprie teorie e opere d’arte. La giustizia rappresentativa, la politica della visibilità e la sovversione come strategia politica sono strumenti alla moda per l’analisi accademica. Sono concetti ottimi se vogliamo presentarci come soggetti rivoluzionari nei gruppi politici di sinistra, però sono difficili da vivere. Quali sono gli effetti quando l’aggressione socialmente sanzionata, la costante distanza nelle interazioni quotidiane, il ripetuto rifiuto della solidarietà e il privilegio verso il genere cis si trascinano per anni? Non sono forse stanchezza e sfiducia? La rivoluzione è attesa da tempo e i nostri alleati non devono – o devono a malapena – portarne il peso. L’esistenza di identità transgender possibili viene lasciata fuori dall’equazione. Perché? Chi ha paura delle transizioni irreversibili e degli interventi chirurgici, se non coloro che (implicitamente) normalizzano i corpi e le identità cis come intrinsecamente degni di protezione? Non è forse questa, in ultima analisi, la riscrittura del genere biologico a livello di realtà politica? SFRUTTAMENTO Nelle società neoliberiste, la trasgressione delle norme diventa essa stessa fonte di sfruttamento. Gli “assiomi” di David Getsy per gli studi transgender nella storia dell’arte possono servire da caso esemplare: “Prendiamo come assioma che vedere il corpo di qualcuno – anche in uno stato di esposizione e di controllo – non ci dice chi è o a quale genere sa di appartenere”15. Ma perché sottoporsi a un intervento di femminilizzazione del viso se non per motivi di intelligibilità sociale?16 Se, in nome degli studi transgender, i maschi bianchi cis possono dichiarare che le donne transgender non dovrebbero essere lette come donne, non si ottiene niente. Getsy, naturalmente, può trarre


19 Per una posizione contraria, confrontare J. Pelta Feldman, On Loss – or Feelings Thereof, in Texte zur Kunst, 128, dicembre 2022, pp. 72-82. 20 Ho cancellato “rimedio” perché questa scala di violenza non consente una vera e propria azione di questo genere. Si veda anche L. deLire, How Ideal is Ideal Theory actually? Rawls, Mills, Reverse Racism and Justice as Failure, in “Philosophy Today”, 67, 2 (in pubblicazione). 21 Oltre Texte zur Kunst, numeri speciali analoghi sono pubblicati da “Sinister Wisdom” (in pubblicazione) e da “Journal of Visual Culture”, 19, 2, agosto 2020. Resta da vedere quanto saranno sostenibili questi interventi. 22 Sono state, ad esempio, le prime a perdere la vita nel corso della colonizzazione (uso qui il termine “transgender” in modo catacrestico). Si veda ad esempio, J. Hinchy, Governing Gender and Sexuality In Colonial India. The Hijra, c. 1850­1900, Cambridge, Cambridge University Press, 2019; O. Oyěwùmí, The Invention of Women. Making an African Sense of Western Gender Discourses, Minneapolis, University of Minnesota Press, 1997.

HE TÁKATA PORA 161

18 C.W. Mills, The Racial Contract, Ithaca (NY), Cornell University Press, 1997, p. 75.

vantaggio dal crescente interesse per i soggetti transgender conferendo agli artisti cis la consacrazione della correttezza politica. Tuttavia, né lui né i suoi soggetti devono subire le conseguenze dell’elogiata trasgressione delle norme di genere17. Il punto è questo: le persone transgender vengono sfruttate. Getsy poggia la propria carriera accademica sulle spalle di coloro che vivono nelle sue teorie e, nel peggiore dei casi, addirittura li ostacola. La giustizia rappresentativa dimentica che il problema non è la rappresentanza in sé, ma la violenza che ne deriva. La giustizia rappresentativa non è che un’emancipazione nominale, non materiale. In relazione alla razza, Charles Mills descrive uno stato di riconoscimento nominale accompagnato dalla negazione delle conseguenze materiali del razzismo: Mentre prima si negava che i non bianchi fossero persone con gli stessi diritti, ora si finge che i non bianchi siano persone astratte con gli stessi diritti, che possono essere pienamente incluse nella politica semplicemente estendendo la portata dell’operatore morale [accesso ai diritti], senza alcun cambiamento fondamentale negli assetti risultati dal precedente sistema di esplicito privilegio razziale de iure [come la distribuzione della ricchezza]18. Nelle società disciplinari, alle persone minoritarie viene negato lo status di soggetti giuridici. Sono soggette a violenza, ignoranza e isolamento sociale. Le società neoliberiste, invece, le riconoscono come soggetti giuridici. Hanno ora il diritto di essere sfruttate senza rischiare la vita, proprio come tutti gli altri. Detto questo, l’ordine materiale esistente è, fra le altre cose, il risultato dell’imposizione disciplinare delle norme di genere cis. E gli effetti dell’ingiustizia storica del passato? Che cosa succede alle fortune accumulate con furti, espropri e omicidi? E che cosa succede alle carriere delle persone transgender che sono state rovinate, alle reti sociali che in parte traggono il loro potere vincolante da stereotipi transfobici (alleanze maschili, confraternite, socializzazione femminile patriarcale)? Che cosa succede alla canonizzazione artistica, agli ideali di bellezza, alle tradizioni pittoriche e agli archivi consolidati da secoli? Qui la violenza continua a vivere, giorno dopo giorno. Eppure i musei sono pieni di opere di artisti cis. Vendetele! Generate un nuovo canone! Svalutate il genere cis dal punto di vista estetico! Lasciate che le persone transgender scrivano della vostra arte! Affidate le vostre gallerie, i vostri studi, le vostre collezioni d’arte ai collettivi transgender!19 Fornite alle persone transgender denaro, alloggi, risorse, eccetera! Sarebbero misure adeguate per rispondere a come, storicamente, le identità transgender, le carriere e la rappresentanza delle persone transgender sono state rese impossibili. Scioccati? Provocati? La giustizia rappresentativa maschera l’entità dell’ingiustizia e offusca la natura radicale dei passi necessari per porvi rimedio20. Distorce il problema trasformandolo in una questione di minoranze. Ma l’omicidio, lo sfruttamento e il disciplinamento di tutte le minoranze significa sempre l’instaurazione di un ordine egemonico. Non si nasce cis, si viene resi tali. E in che modo? Attraverso la transfobia e soprattutto la transmisoginia. Incoraggiando il comportamento maschile cis e scoraggiando quello non maschile, cioè la femminilità transgender. Non c’è patriarcato senza transmisoginia. Essere cis significa pertanto trarre vantaggio dall’ostilità verso le persone transgender. Tuttavia, in questo contesto, aiuto e risarcimento significano molto di più di qualche posto di lavoro per qualche persona transgender, di un numero speciale e una qualche prospettiva transgender di tanto in tanto, dell’occasionale copertina su una rivista o della condivisione dei loro post sui social media21. La politica transgender deve significare la trasformazione fondamentale di ogni condizione sociale. Le persone transgender vengono sistematicamente uccise, intimidite e tenute in povertà22. La politica transgender non è

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17 Un altro esempio è S. Crasnow, Beyond Binaries: Trans Studies and the Global Contemporary, in “Art Journal”, 80, 4, 2021, pp. 82-90, in part. 84.


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23 Non è ancora stata scritta una lettera aperta alle istituzioni artistiche sul risarcimento delle persone trans. Per un esempio riguardante la psicoanalisi, si veda M. Wark, Dear Cis Analysts. A Call for Reparations, in “P&RAPRAXIS”, autunno 2022, https://www. parapraxismagazine.com/articles/ dear-cis-analysts.

LUCE DELIRE

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semplicemente la politica dell’uguaglianza giuridica. È anche la politica del miglioramento delle condizioni materiali di vita di tutte le persone attraverso lo sradicamento dello sfruttamento e della violenza nei confronti delle persone transgender. Pertanto, una valida politica transgender deve portare alla fine del patriarcato etero bianco cis. Politica transgender significa quindi anche confisca delle grandi società immobiliari, perché la stragrande maggioranza delle persone transgender paga l’affitto. Politica transgender significa anche depenalizzazione del lavoro sessuale, perché molte persone transgender operano in questo campo. Una politica transgender riguarda altresì contrattazione collettiva e contenimento dell’inflazione e dell’aumento del costo della vita, perché le persone transgender hanno maggiori probabilità di essere colpite dalla povertà e quindi, in proporzione, da queste tendenze. Politica transgender significa anche assegnare opportunità di assistenza terapeutica e programmi di gruppi di sostegno per aiutare ad affrontare la violenza quotidiana. Significa divieto di eredità, perché molte persone transgender sono disconosciute dalla propria famiglia. Per quanto riguarda la retribuzione delle persone transgender, significa anche tenere in debita considerazione il lavoro aggiuntivo che devono inevitabilmente svolgere nelle strutture cis, cosa che nemmeno Texte zur Kunst è riuscita a fare in maniera ottimale. Ufficialmente, non ho ricevuto una retribuzione inferiore a quella usuale per un co-direttore indipendente. Dal punto di vista materiale, però, mi è stato richiesto un lavoro supplementare per compensare le disuguaglianze esistenti. Mills lo riassume così: “Una lunga storia di discriminazione strutturale nei confronti delle persone transgender impedisce una cooperazione a livello materiale che distribuisca equamente il carico di lavoro”. La politica della visibilità, che mira alla giustizia rappresentativa, ignora queste dimensioni politiche concrete. In quanto tale, avvantaggia coloro che vogliono darsi una pacca sulla spalla per aver fatto tutto bene, senza cambiare effettivamente le condizioni reali delle persone transgender, degli artisti transgender o un canone intrinsecamente ostile alle persone transgender. La giustizia rappresentativa avvantaggia sistematicamente coloro che godono di maggiori privilegi. Rende i soggetti transgender sicuri... per le persone cis. Che cosa può fare l’arte? Le istituzioni artistiche possono smettere di orbitare ossessivamente intorno alla rappresentazione dell’identità e di considerare l’arte delle persone transgender come forma paradigmatica di arte transgender. Le istituzioni artistiche possono commissionare e acquistare opere di artisti transgender e farle discutere da critici transgender. Possono rimuovere dalle collezioni l’arte cis, per cambiare, o non parlarne così tanto; e che ne dite di non assumere persone cis per un po’?23 I testi e le opere presenti in questo numero di Texte zur Kunst possono forse fungere da gesti in questa direzione, auspicando che la cosa non si chiuda qui. Le istituzioni artistiche possono coltivare l’ospitalità verso le persone transgender? A tal fine, le persone transgender dovranno essere consultate. In questo spirito, questo numero di Texte zur Kunst vuole essere anche un invito alle persone trans: facciamo più arte! Facciamo più scrittura critica, al di là dei discorsi sui diritti, sul riconoscimento e sulla rappresentazione! spaccare tutto.


A VOSTRO RISCHIO E PERICOLO: TESTAMENTO DI UN SANTO, TRADUZIONE DI MANLIO BENIGNI E GIULIO LUPIERI, MILANO, UBULIBRI, 1994.

Questi nomi: gay, queer, omosessuale sono limitanti. Mi piacerebbe chiudere con loro ogni rapporto. [...] Per me usare la parola “queer” è una liberazione; era una parola che mi spaventava, ma ora non più.

DEREK JARMAN



COIGRICH ANNS GACH ÀITE

Questioni nell’arte popolare

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Ticio Escobar

Testo pubblicato in Beyond the Fantastic: Contemporary Art Criticism from Latin America, a cura di G. Mosquera, Cambridge (MA) e Londra, MIT Press e Institute of International Visual Arts (Iniva), 1996.


1

M. Chauí, Conformismo e resistência. Aspectos da cultura popular no Brasil, São Paulo, Brasiliense, 1986, p. 120.

2

M. Lauer, Crítica de la artesanía. Plástica y sociedad en los Andes peruanos, Lima, Centro de Estudios y Promoción de Desarrollo, 1982, p. 111.

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QUESTIONI NELL’ARTE POPOLARE

LA QUESTIONE DEL CAMBIAMENTO

TICIO ESCOBAR

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Uno dei miti più esemplari del mondo occidentale è che l’elemento popolare, soprattutto se autoctono, debba rimanere immutato, imprigionato nel passato. Pietrificata nelle sue manifestazioni più pittoresche, l’arte popolare diventa così la reliquia superstite di un mondo arcaico, un legame miracoloso con passati nostalgici e luoghi lontani. È uno dei miti preferiti dai romantici e dalle ideologie nazionaliste che sentono la necessità di porre sul piedistallo il concetto di essenza nazionale e di certo non sfuggono le derive che tale subdola versione della storia può generare. L’arte alta può cambiare, si nutre di una varietà di innovazioni e fonti, il suo compito è quello di aggiornarsi, espandersi e guardare avanti verso un futuro ottimistico. Nel frattempo, l’arte popolare è condannata a rimanere genuina e pura: il cambiamento equivale a perversione e la novità al tradimento della sua essenza, alla distorsione dei suoi veri valori e alla corruzione della sua autenticità primaria. Marilena Chauí ha scritto che per il populismo nazionalista: “Il passato conservato dalla cultura popolare è il futuro garantito dalla cultura colta”1. Naturalmente, se la cultura è un processo vivo di risposte simboliche a circostanze particolari, le sue forme inevitabilmente muteranno di fronte alle esigenze di nuove situazioni, ma alcuni miti interferiscono con questo processo isolando momenti particolari e trattandoli come fenomeni separati. È così che tradizione e futuro, o universale e locale, appaiono come concetti opposti in un discorso instabile e fratturato, costringendo a scegliere come fossero alternative astratte. Quando si fa della realtà un’essenza (un’entità nazionale o latinoamericana, priva di conflitti), le opposizioni concrete che rendono dinamica la storia vengono trattate più come rotture della logica (gli aut aut inconciliabili della metafisica) che come forze storiche dialettiche. In base a questa visione paralizzante si creano posizioni fisse: l’arte popolare appartiene al passato e l’arte alta al futuro. La prima deve fare i conti con le radici e occuparsi dello spirito indigeno o mestizo e dell’identità nazionale; la seconda deve essere freneticamente lanciata verso un vago obiettivo moderno lineare che, senza dubbio, dovrebbe provenire da venerabili radici precoloniali. Come ha scritto Mirko Lauer: “L’indigenismo è il punto fermo su cui si misura la modernità”2. Un fenomeno analogo si verifica con la netta divisione locale/universale e la conseguente violenta contrapposizione fra arte locale, originale e genuina, e forme straniere. Anche in questo caso si può notare la manipolazione in atto: il modo in cui la cultura popolare viene privata del contatto con le forme e le tecniche contemporanee rivela un atteggiamento paternalista e reazionario. Applicato alle teorie sull’arte latinoamericana, questo sistema è da sempre fonte di innumerevoli e inutili dicotomie e semplificazioni. La giovane arte latinoamericana si è dibattuta con grande dolore e senso di colpa di fronte alla drammatica scelta tra fedeltà alle proprie radici e accesso al mondo contemporaneo: tra arretratezza e parodia mimetica. Questa scelta tra isolamento e alienazione è falsa: la quarantena autoimposta è negativa quanto l’adozione automatica di forme imposte. Attraverso l’isolamento, l’arte non può affrontare la dipendenza: la sua unica opzione è fronteggiarla e cercare di riformularne e trasgredirne le condizioni. La questione non è se il cambiamento sia possibile, né che cosa debba essere conservato e che cosa modificato, ma piuttosto se abbiamo o meno il controllo su questo cambiamento. Non ha alcun senso pontificare paternalisticamente dall’esterno su ciò che dovrebbe o potrebbe essere cambiato. La creatività popolare è perfettamente in grado di accogliere nuove sfide e di formulare risposte e soluzioni in base alle proprie esigenze e alla propria velocità. Secondo gli stessi creatori, l’arte popolare può conservare elementi secolari o incorporarne di nuovi. L’unica vera condizione di autenticità è che le scelte tradizionali o innovative siano fatte in risposta a esigenze culturali interne e siano generate dalle


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Criollo: latinoamericano di origine spagnola che nell’era postcoloniale costituiva la classe dominante.

ДАР ҲАМА ҶО ХОРИҶИЁН 167 STRANIERI OVUNQUE

dinamiche di questa cultura. Per questo motivo, qualsiasi innovazione e appropriazione di elementi estranei o qualsiasi uso di immagini o tecniche create altrove sono validi solo nella misura in cui vengono adottati da una comunità in base alle sue esigenze; è sufficiente la minima incorporazione di sistemi estranei per disturbare un processo culturale, distorcerne le forme e confonderne il significato. Osservato dall’esterno, un corpo culturale appare fragilissimo, basta una piccola pressione per danneggiarlo. Visto dall’interno, invece, è vigoroso e resistente, capace di sopportare grandi pesi e di far fronte a forti resistenze senza cambiare il proprio corso. Una cultura subordinata può rispondere all’invasione di forme estranee integrandole nei propri processi, anche se ciò richiede un enorme sforzo assimilativo. Fin dalla colonizzazione, gli indios hanno dimostrato una capacità pressoché illimitata di digerire il processo che una cultura deve sopportare quando costretta a sopravvivere e adattarsi a nuove condizioni, ad assumere un ruolo di guida e dirigere il proprio sviluppo. Quando è la comunità stessa a scegliere gli elementi da preservare, incorporare o superare, per quanto sconvolgente possa apparire il processo di acculturazione, esso si risolverà in modo naturale e positivo. In generale, i gruppi etnici conservano una riserva formale di base legata ai propri nuclei simbolici; tendono a non cambiare i sistemi espressivi legati alle funzioni socioculturali più profonde, per esempio cerimonie e rituali, in particolare la lavorazione delle piume, i cesti e le ceramiche cerimoniali (indios Guaraní), la pittura del corpo, i tatuaggi e i tessuti caraguatá (indios del Chaco). Per contro, cambiano spesso le usanze legate alle faccende domestiche, al gioco, alle feste intertribali, al commercio, ecc. Quando, nel XV secolo, i Chiriguano Guaraní si recarono nella regione centrale, conservarono le tecniche e i motivi decorativi dei loro japepó (grandi recipienti rituali), ma ben presto adottarono le ricche forme e i motivi decorativi della ceramica subandina e, successivamente, dell’iconografia coloniale mestizo. Da qui, svilupparono schemi decorativi di indubbio valore basati su fonti stilistiche estremamente ampie. Quando, alla fine del XVIII secolo, i Caduveo Guaykurú attaccarono la missione gesuitica di Belén rimasero talmente colpiti dagli ornamenti delle vesti cerimoniali, dai ricami, dagli arazzi e dalle illustrazioni dei libri, da incorporarli nelle loro ceramiche, che si ricoprirono così di sorprendenti arabeschi rinascimentali e barocchi. Un fenomeno simile avvenne con i Payaguá che, vivendo alla periferia di Asunción durante il primo periodo coloniale, non ci pensarono due volte a decorare i loro mates (recipienti per bere il tè) con vivaci disegni basati su modelli europei per facilitarne la vendita, oppure a ornare le pipe sciamaniche con scene bibliche (anche se in questo caso si trattava probabilmente di aumentare il potere dello sciamano utilizzando il potente immaginario del conquistador cristiano). In fondo, tutti i fenomeni culturali sono essenzialmente ibridi. Il sogno delle culture pure è un mito romantico con implicazioni fasciste e di matrice antica; un mito che oscura il fatto che ogni assimilazione è nutrimento e che il cambiamento è indispensabile per garantire il flusso delle forme culturali, per sfidare l’immaginazione ed evitare la ripetizione automatica. Molti degli elementi considerati tipici di certe comunità oggi sono in realtà adozioni improvvise e recenti: le decorazioni sulle perle di vetro, caratteristiche di alcuni gruppi etnici, sono nate dal contatto con il vetro veneziano portato dai missionari; tutte le ceramiche e i tessuti di lana degli indios del Chaco, come i tipici cesti Chamacoco, sono il risultato di influenze tardo-coloniali e interetniche; la lavorazione del legno, diventata nel tempo un potente mezzo di comunicazione, è stata introdotta dagli insediamenti civili o missionari e non ha alcun precursore nella pratica indiana precoloniale. Inoltre, lo stesso fenomeno del mestizaje – riconosciuto e celebrato come l’origine mista dell’autentica paraguayidad – è sempre consapevole del suo doppio carattere. Molte delle tradizioni artigianali criollo3 più rappresentative prendono origine direttamente


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O. Salerno, Artesanía y arte popular, Asunción, Museo Paraguayo de Arte Contemporáneo, 1983, p. 20.

dall’Europa: il ñandutí, evoluzione del merletto di Tenerife; le immagini religiose, di origine cattolica spagnola, italiana, tedesca o austriaca; l’artigianato del cuoio, dell’argento e dell’ebano, di orgogliosa origine occidentale e cristiana. Questi fattori sono sufficienti a dimostrare l’inevitabile mescolanza dei processi culturali e la natura mutevole e complessa dei loro simboli, e fino a qui la cosa è indubbia. Tuttavia, giunti a questo punto i meccanismi del mito tendono una trappola; da una parte accettano che gli indios, in qualche lontano momento della loro storia, abbiano incorporato sistemi stranieri e approvano il fatto che anche l’artigianato popolare derivi dalla stessa doppia radice che sostiene il nostro passato criollo (in fin dei conti questa caratteristica ibrida della cultura serve a illustrare una versione edulcorata della storia basata sull’incontro idilliaco tra indios e conquistadores e a giustificare i numerosi dualismi del discorso ufficiale), dall’altra ritengono che la storia appartenga sempre al passato e che oggi la cultura popolare sia compiuta così com’è e se cambia, perde valore, e così via. Si tratta di un mito più diffuso di quanto si possa immaginare: molti antropologi, storici, giornalisti e intermediari culturali ritengono, più o meno esplicitamente, che il valore del popolare risieda nella tradizione e che sia impermeabile al cambiamento. Questa linea di pensiero si basa in gran parte sui danni provocati dall’acculturazione urbano-industriale delle forme popolari, dall’invasione delle immagini di massa, dalla perdita di tecniche e forme uniche e fortemente espressive, dall’allarmante proliferazione del kitsch incoraggiata dal turismo, ecc. Di fronte a queste circostanze, il problema è stato mal posto; la sua soluzione, come abbiamo visto, non è quella di nascondere la testa sotto la sabbia, ma di trovare un modo per controllarne l’impatto. Molti cambiamenti ora in atto nella cultura popolare sono rassicuranti in quanto dimostrano la capacità di superare le difficoltà e di affrontare le sfide utilizzando immaginazione, risorse e memoria. Attraverso le sue azioni, la cultura popolare quotidiana risolve i conflitti che sorgono tra tradizione e nuove tecniche. La ceramica, ad esempio, ha assorbito facilmente i soggetti urbani senza compromettere la sua ricca eredità stilistica. Alcuni pezzi prodotti a Tobatí si basano su antiche forme antropomorfe, ma ora incorporano soggetti audaci e soluzioni non autoctone: donne formose che indossano minuscoli bikini o allegre minigonne. Il loro successo formale e la loro potente energia rendono le figure femminili di Tobatí valide quanto le migliori espressioni di un ambiente rurale chiuso. Altre situazioni hanno creato forme cariche di un temperamento unico; alcune delle recenti ceramiche di Areguá (figure realizzate al tornio o tramite stampi e dipinte con smalto industriale) riescono a manifestare nuovi aspetti della cultura suburbana e suggeriscono una nuova originalità4. Abbiamo di recente assistito a espressioni popolari che utilizzano scarti industriali (come candelieri e lampade di latta), immagini della cultura di massa ed elementi prefabbricati. In tutti questi casi l’espressività non è stata compromessa: la novità è stata assorbita e ricreata dalla comunità. Persino i riti includono nuovi sistemi. Oggi è comune vedere straordinari allestimenti della kurusu jegua con luci al neon; pesebres tradizionali che utilizzano fiori artificiali, carta stagnola, fotografie e ornamenti di plastica; feste locali che comprendono messe in scena di eventi nazionali e internazionali attuali (come nell’antica festa di San Pedro y San Pablo ad Altos dove, accanto all’arcaico rituale del fuoco e della cattura delle donne da parte dei Guaykurú, un’ossessione fin dall’epoca coloniale, persone che indossano maschere e vestono elaborati costumi di foglie recitano eventi recenti: concorsi di bellezza, dispute politiche, sfilate di moda, satira sulle celebrità internazionali, ecc.). La tradizionale festa agricola dei Chiriguanos, l’Areté guasú, si è unita al carnevale criollo, mantenendo una propria coesione sociale e i propri riti esclusivi. Le maschere utilizzate per la cerimonia sono di origine chané arawak, i cappelli a cilindro sono un retaggio coloniale, l’abbigliamento rivela un’influenza andina sugli abiti mestizo, gli ornamenti sono di


A partire dagli anni Cinquanta, alcune compagnie petrolifere iniziarono a effettuare escursioni esplorative nella regione del Cerro León (Chacho paraguaiano). L’ingresso nel territorio ayoreode causò violente persecuzioni che provocarono la morte di alcuni paraguaiani e di diversi indios. Questo caso degli ayoi mi è stato raccontato da Luke Holland di Survival International, che, diversi anni dopo l’evento, acquistò il copricapo per un prezzo ridicolo presso la missione Nuevas Tribus (dove furono poi imprigionati i Totobeigosoode) e lo donò al Museo Etnográfico de Asunción.

ІНОЗЕМЦІ СКРІЗЬ 169 STRANIERI OVUNQUE

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matrice chiriguana, criollo, andina, nivaklé, lengua, forse mennonita. Alcuni travestimenti, oltre a pelli di giaguaro, piume di airone e tessuti di caraguatá, utilizzano guanti da motociclista, parrucche finte e occhiali scuri. Le maschere di legno samuhú sono decorate con ali di falco e portano, come un collage, un volto ritagliato da una rivista. Maschere realizzate con la pelliccia di gatti selvatici, pecari o cervi convivono con altre fatte di cartone e plastica; rappresentazioni di antenati o bestie mitologiche condividono la festa con Batman ed ET. Ma la festa nel suo insieme è perfettamente coerente al di là della sua apparente eterogeneità e del suo disordine; è un rito vivo e sano, capace di assorbire e assimilare qualsiasi cosa, in grado di digerire le immagini più lontane e di trovare in esse un proprio valore. Talvolta certi modelli ritenuti immutabili vengono improvvisamente ridefiniti dalla novità, dalla curiosità, dalla fantasia e dal gusto personale di individui che, reintroducendo i significati alterati in un nuovo ordine, stimolano l’ambito socioculturale. In una cerimonia Tomároho (Chamacoco) a San Carlos, Alto Paraguay, nel 1986, uno dei konsáha (sciamani), incuriosito dal colore di una scatola di plastica per medicine che avevamo portato, la tagliò in lunghe strisce sottili e le intrecciò con cura a formarne una corona che poi inserì nel suo copricapo di piume. In casi come questo, la sostituzione delle forme si basa sul meccanismo retorico caratteristico di ogni discorso estetico: i significanti si muovono liberamente in base ad associazioni formali o semantiche. Attraverso la metafora o la metonimia, si modificano i vecchi codici e si stabiliscono nuove verità. Gli asuté (capi guerrieri ayoreode) indossano un cappello conico di pelliccia di giaguaro, chiamato ayoi, come segno del loro dominio su un nemico pericoloso. Negli anni Sessanta un gruppo di Ayoreode, i Totobeigosode, che fino a quel momento vivevano isolati nella giungla, si sentirono sotto crescente attacco da parte di proprietari terrieri e missionari fanatici. Molti persero la libertà o addirittura la vita in campi di concentramento evangelici (come quelli di Nuevas Tribus), furono decimati da malattie sconosciute e perseguitati da una civilizzazione imposta come una punizione. A metà del 1965, nella regione del Cerro León, un asuté, sentendo minacciata la propria terra e la propria vita, uccise un uomo d’affari di una compagnia petrolifera e si fece un nuovo ayoi con la “pelle” della vittima. Il cappello dell’invasore rimpiazzò, in senso figurato, quello del giaguaro5. Una comunità può resistere agli impatti culturali e cambiare o adattare il proprio repertorio formale solo se ha la garanzia di uno spazio per la creazione e il controllo simbolico per rispondere ai nuovi elementi con le proprie risorse. Per questo motivo non si tratta di isolare le comunità minacciate di acculturazione (ogni forma di apartheid è discriminatoria), quanto di riconoscere la necessità di rafforzare la loro capacità di organizzazione interna. Mentre alcune comunità sono state culturalmente svuotate in maniera brutale (come gli Ayoreode, che a causa dei missionari hanno perso il loro intero universo rituale in soli quattro decenni), altre, culturalmente integrate, sono riuscite a mantenere la loro forza interna e quindi a sopravvivere anche nelle circostanze più avverse. È sorprendente vedere ancora oggi nella città di Asunción estacioneros e pasioneros in abiti coloniali, che reggono candele, lampade e stendardi mentre intonano canti struggenti in alcune celebrazioni (kurusu jegua, Pasqua). Si possono ancora vedere i kambá ra’anga nel cuore della modernità e del progresso. San Bernardino è una piccola città termale a quaranta chilometri dalla capitale, affacciata sul lago Ypacaraí. Vanta un lussuoso Hotel Casinò in stile internazionale, con spazi puliti e privi di riferimenti storici e personale formato secondo i più alti standard internazionali. Tuttavia, in alcune serate di giugno, alcuni camerieri e croupier abbandonano le giacche da smoking, i tavoli verdi e le cordiali frasi in inglese per tornare alla vicina Compañía Yvyhanguy (da cui proviene la maggior parte di loro) e coprirsi il volto con lucide maschere nere per mettere in atto un oscuro rituale antico.


LA QUESTIONE DEL DESTINO NELL’ARTE POPOLARE

Questo processo di commercializzazione di un’economia naturale è avvenuto fondamentalmente come risultato della riforma agraria e anche a causa dell’imposizione egemonica del capitale finanziario. È stato particolarmente importante durante la Seconda guerra mondiale e da allora il capitale ha continuato ad avanzare costantemente nelle campagne. Da questo momento l’agricoltore inizia a produrre un prodotto universale destinato all’esportazione (cotone, soia, tabacco ecc.) e diventa una parte vitale delle attività economiche della nazione; non produce più per la sua comunità ma per Asunción, le multinazionali e il resto del mondo.

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L’ effettiva urbanizzazione in Paraguay iniziò solo alla fine degli anni Sessanta. Morínigo ha sottolineato: “Un altro fattore nella configurazione delle culture paraguaiane è la mancanza di un processo urbano dinamico. Il Paraguay era un paese rurale fino agli anni Settanta. Se è vero che Asunción era senza dubbio al comando, l’economia rurale-agricola e la sua demografia impedivano una forte presenza culturale urbana nelle campagne. Al contrario, Asunción come città di migrazione contadina, senza un’industrializzazione sufficiente per assorbire questa migrazione, si definì in parte attraverso l’influsso della cultura rurale”, J.N. Morínigo, El Impacto de la cultura urbano­industrial, in El hombre paraguayo y su cultura, Semana Social Paraguaya, Cuadernos de Pastoral Social 7, Conferencia Episcopal Paraguaya, Equipo Nacional de Pastoral Social, Asunción, 1986, p. 53.

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A) STERMINIO E SOPRAVVIVENZA Una volta accettato che l’arte popolare ha la necessità e il diritto di cambiare, in quale direzione dovrebbe avvenire questo cambiamento? Qual è il futuro dell’arte popolare e quali possibilità ha di reagire a condizioni socioeconomiche diverse da quelle che l’hanno creata? L’arte popolare in Paraguay risponde a forme rurali di sussistenza e baratto, sistemi culturali in cui il valore pratico è più importante del commercio. Tuttavia, le comunità producono sempre più spesso i loro oggetti per venderli e non per uso personale. L’ingresso del capitale nelle campagne, insieme alla crescente urbanizzazione e al graduale aumento dei modelli di consumo industriali, ha portato all’abbandono della cultura tradizionale6,7. La migrazione, le reti di comunicazione (costruzione di strade e miglioramento dei trasporti) e l’espansione dei mass media hanno creato nuovi modelli, gusti e valori e il graduale abbandono delle funzioni tradizionali. A partire da questo punto, gran parte della nostra definizione di arte popolare inizia a sgretolarsi. Se la intendiamo ancora come un insieme di pratiche i cui prodotti sono consumati dal gruppo che li realizza (un’arte di e per il popolo), allora questa alterazione del circuito produttivo (produzione-distribuzione-consumo) si traduce nella separazione della comunità dai suoi stessi prodotti e nella rottura dell’unità di forma e funzione caratteristica dell’arte popolare. Se, ad esempio, andiamo alla festa popolare di San Blás-í (piccola San Blás) nella Compañía Caaguazú de Itá l’ultima domenica di febbraio, possiamo ancora vedere la processione del santo patrono, le danze e gli scherzi dei kambá ra’anga, le tradizionali sfilate a cavallo, le bandiere, le brocche d’acqua decorate con fiori per dissetare i pellegrini, la musica triste della banda Peteke-Peteke, gli ornamenti di carta velina, frasche e rose. Tuttavia, ciò che si vede in vendita nella fiera di fronte alla cappella non sono le ceramiche di Itá – le brocche, i recipienti e i giocattoli di argilla che hanno reso famoso il villaggio fin dall’epoca coloniale – bensì secchi di plastica, vari tipi di stoviglie argentine, coreane o brasiliane e giocattoli e decorazioni industriali. A parte le brocche rosse per l’acqua, ancora molto diffuse nelle zone rurali (e anche ad Asunción fino a venti o trent’anni fa), è più probabile vedere la ceramica di Itá nei negozi della capitale che nelle case dei contadini. Lo stesso accade per il ñandutí, gli oggetti in argento, l’iconografia, ecc. Sembra quindi che l’incessante abbandono delle forme tradizionali conduca l’arte popolare in un vicolo cieco: può scomparire o rinnegare se stessa diventando una pittoresca appendice dell’arte “alta”. Tralasciando quelle posizioni che vedono nell’arte popolare un ostacolo da eliminare, elencherò alcune proposte per far fronte a questa situazione: a) La conservazione, la tutela e il salvataggio degli oggetti sopravvissuti al crollo generale delle culture autosufficienti. Se uno stile di vita, e quindi anche un mezzo di espressione, stanno scomparendo per sempre sotto i nostri occhi, il minimo che possiamo fare è raccogliere e catalogare ciò che resta e proteggerlo e salvarlo per le generazioni future. Pubblicazioni, musei, registrazioni, fotografie e film sono il rifugio della memoria minacciata, un magazzino di simboli e frammenti di sogni. Naturalmente, il recupero di queste ultime forme è importante in quanto dimostra il riconoscimento delle culture popolari e l’appoggio al loro diritto di essere alternative, oltre a portare a una migliore comprensione dei loro valori. Spesso questo salvataggio può diventare un elemento importante per il riconoscimento e il rispetto delle specificità espressive. Ma di per sé non è sufficiente se avulso da una comprensione più complessa dei processi all’origine di queste forme, e può sfociare nella feticizzazione, producendo segni mummificati


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Baudrillard ha analizzato l’autenticità dal punto di vista dominante in quegli oggetti che definisce marginali (oggetti insoliti, barocchi, popolari, esotici, antichi). Secondo lui, questi oggetti hanno una funzione molto specifica all’interno di questo sistema: significano il tempo, non il tempo reale ma “segni o indicatori del tempo”. Il sistema, seppure con difficoltà, cerca di controllarlo visto che “la natura e il tempo, tutto si consuma in questi segni”. Per questo motivo, per quanto autentici possano sembrare questi oggetti, sono sempre in qualche modo falsi; per questo motivo non possono sottrarsi alle esigenze di un “sé definito e consumato”. L’oggetto mitologico esiste nel tempo verbale perfetto: “È ciò che ha il suo posto nel presente come se avesse avuto un posto nel passato, e per questo è autentico...”. Questa esigenza si esprime attraverso due aspetti che mitizzano l’oggetto: “nostalgia delle origini e ossessione per l’autenticità”. J. Baudrillard, ll sistema degli oggetti, trad. S. Esposito, Milano, Bompiani, 1972 (ed. orig. Le système des objets, Paris, Gallimard, 1968).

c) La rottura dell’unità tra forma e funzione è stata affrontata in due modi: 1) L’estetismo, di fronte all’estinzione dell’arte popolare, cerca di salvare almeno le forme, anche se le funzioni devono essere (a volte volutamente) sacrificate. Dal momento in cui manca la continuità tra creazione artistica e condizioni sociali di produzione (e quindi una crescente autonomia della forma rispetto alla funzione), il più delle volte per effetto dell’inerzia culturale, i modelli formali continuano a essere utilizzati anche dopo che i loro significati originari si sono esauriti. Questa continuità delle forme nel vuoto può essere spiegata nei termini della particolare forza di certe espressioni che sono così radicate da poter sopravvivere alla loro stessa perdita di validità funzionale. Questo fenomeno, caratteristico di ogni attività creativa, è in qualche modo più evidente nell’arte popolare, in cui le forme hanno una maggiore dimensione sociale. Secondo Gilberto Giménez: “Nella misura in cui creano un sistema duraturo, le abitudini o l’ethos di classe possono anche spiegare la sopravvivenza di forme e pratiche culturali anche dopo la scomparsa o il deterioramento delle loro basi materiali. In altre

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b) Con un analogo obiettivo di conservazione, altre proposte suggeriscono la conservazione non degli oggetti in sé, ma di tecniche e motivi in via di sparizione e considerati distintivi della cultura popolare. Sono in molti a proporre di salvare l’autenticità dell’arte popolare conservando a tutti i costi le tecniche e i motivi tradizionali, o addirittura facendoli rivivere laddove sono scomparsi, nel tentativo di percorrere a ritroso la storia per individuare un punto prescelto che possa fungere da paradigma di autenticità: alcuni indios sono incoraggiati – per ragioni estetiche o commerciali – a utilizzare tinture vegetali arcaiche (il pezzo acquista valore in modo direttamente proporzionale alla scarsità della tecnica), colori naturali, tecniche ancestrali e motivi antichi. Non interessa sapere se queste comunità rispondono a questi colori, se queste tecniche permettono loro di esprimersi più liberamente o se questi motivi hanno un significato simbolico attuale. Il punto è far apparire gli oggetti più autentici e naturali, corrispondendo il più possibile a una visione archetipica di quella che dovrebbe essere un’immagine popolare (bucolica, arcaica, spontanea e con un pizzico di selvaggio)8. Naturalmente è importante sostenere per quanto possibile le tecniche tradizionali, ma solo qualora le comunità ne abbiano la necessità. A volte, a causa del rifiuto della cultura popolare, dell’impossibilità di ottenere determinate forniture o dell’imposizione coercitiva di modelli stranieri, una comunità può perdere l’uso di una tecnica o di un’immagine ancora valida. In questi casi non si può dubitare dell’utilità di rimuovere gli ostacoli e recuperare i mezzi espressivi autoctoni. Ciò che è inaccettabile è costringere un gruppo a curarsi fingendo emozioni che non prova più. C’è chi ha cercato di salvare tecniche o motivi tipici applicandoli a pratiche estranee. Un esempio è l’uso di motivi indigeni o rurali applicati al design industriale, oppure l’uso manieristico di immagini o simboli stereotipati senza comprenderne il significato. Finzione e falsità nell’arte hanno effetti disastrosi: quando le scene rurali vengono ricreate dall’esterno, il risultato è un realismo maldestro che tradisce sempre la realtà attraverso caricature tipiche. Quando si cerca di riprodurre i presunti segni della cultura guaraní (il paradigma dell’indigenismo paraguaiano), le immagini che ne risultano sono indistinguibili da qualsiasi immagine indigena standard dei mass media (motivi a zig-zag, fasce apache, colori vivaci, ecc.).

‫זרים בכל מקום‬

privi di contesto e significato. Pensare che la mera conservazione sia un’alternativa, significa accettare un atteggiamento fatalista e proporre una cultura archivistica passiva.


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G. Giménez, Cultura popular y religión en el Anáhuac, Ciudad de Mexico, Centro de Etudios Ecuménicos, 1978, p. 229.

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10 Mi riferisco a questo punto a quelle proposte che tentano di riscattare l’arte popolare dall’esterno. Non sto in alcun modo negando il diritto di qualsiasi comunità a sviluppare processi artistici che privilegino gli aspetti formali e le funzioni tradizionali.

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parole, possono spiegare la discrepanza spesso riscontrata tra la base economica e la sovrastruttura ideologico-culturale”9. L’arte popolare tradizionale (mestizo e indios) ha un ritmo proprio, una scala temporale diversa da quella di altri sistemi culturali e un approccio più conservativo nei confronti della ripetizione dei modelli comunitari; è così che, anche di fronte a nuove circostanze, può continuare a produrre soluzioni formali relative a esigenze precedenti. A questo punto le forme appaiono scollegate dalla loro funzione. È una proposta che mantiene l’arte popolare in questo limbo e suggerisce di continuare a produrre in termini di forme pure, rendendola così paragonabile all’“inutilità” dell’arte “alta”. Si tratta di un atteggiamento presente in un approccio comune all’arte popolare che, promuovendone le caratteristiche estetiche, ne dimentica i ruoli utilitari o simbolici. Sebbene questa promozione sia uno stimolo alla creatività e un riconoscimento delle possibilità artistiche dell’arte popolare, incoraggia anche un dualismo tra forma e funzione che ne altera i meccanismi produttivi comuni e ne distorce il significato10. 2) Il funzionalismo tecnico opta per un sacrificio dei fattori estetici, sperando di migliorare la qualità tecnica del prodotto, garantendone così la sopravvivenza e aprendolo a un mercato più esigente. Questa posizione è tipica delle teorie dello sviluppo: enfatizza gli aspetti commerciali e la frattura tecnica, ma ignora le implicazioni simboliche e il contesto storico. In Paraguay il Banco Interamericano de Desarrollo (Consejo Nacional de Entidades Benéficas) promuove un programma che è una chiara illustrazione di questo pensiero tecnocratico. I progetti di “promozione dell’artigianato” vengono sviluppati con l’aiuto di tecnici e istituzioni straniere, ignorando totalmente i fattori creativi. I risultati sono risibili e oscillano infelicemente tra lo stereotipo totale e l’“artigianato urbano applicato” che, come tutti i tentativi di distorsione, finisce per diventare un insipido kitsch. Tutte le posizioni finora discusse affrontano la questione dal punto di vista della cultura dominante e cercano di salvare l’arte popolare isolandola dal suo contesto, frammentandone le pratiche, privilegiandone arbitrariamente alcuni aspetti (estetici, commerciali, utilitaristici, simbolici) e banalizzandone i significati più profondi. In sintesi: nonostante alcune buone intenzioni, la cultura dominante cerca di appropriarsi delle espressioni popolari, trasformandole in trofei, oggetti per la ricerca scientifica, beni commerciali o souvenir. Salva l’arte popolare a condizione di controllarne la distribuzione (attraverso musei, boutique, negozi turistici, gallerie), di modificarla per adattarla alle aspettative e soddisfare desideri particolari (nostalgia primitiva, autenticità, riferimenti alla tradizione coloniale, ecc.) Da questo punto di vista, è chiaro che l’unica opzione per l’arte popolare, se vuole sopravvivere, è cercare di mettersi al passo con una modernità estranea o chiudersi nel passato e rinunciare al destino storico. Queste proposte sono quindi paternalistiche; dall’esterno cercano di scrivere le regole per l’arte popolare, se può o meno firmare i propri prodotti, innovare o vendere. Le sue fortune (o la sua morte) sono decise dall’esterno: si teme il cambiamento e si formulano progetti che dovrebbero essere di competenza della comunità.


4) i sistemi sociali non condizionano al punto da determinare totalmente il destino di una cultura. Anche se abbiamo già discusso molti di questi punti, è opportuno ripercorrerli rapidamente per strutturare questa sezione.

11 N. García Canclini, Las culturas populares en el capitalismo, Ciudad de Mexico, Nueva Imagen, 1986, p. 104. 12 M.A. Bartolomé, S.S. Robinson, Indigenismo, dialéctica y conciencia étnica, in Journal de la Societé des Americanistes, 60, 1971, pp. 291-298, in part. p. 296. 13 A. Colombres, Liberación y desarrollo del arte popular, Asunción, Museo del Barro, 1986, p. 26.

1) Di fatto, in Paraguay, come in altri paesi latinoamericani, sono solo le comunità rurali ed etniche (che rientrano nella categoria precapitalistica) a creare opere artistiche; ma da questo non dobbiamo dedurre che non esista un potenziale espressivo negli altri settori (urbano e suburbano), che potrebbero sviluppare spazi creativi man mano che maturano le loro pratiche e i loro discorsi. Inoltre, la coesistenza in America Latina di diverse scale temporali ha creato una rete così complessa che molte forme culturali possono facilmente passare da un estremo storico all’altro o prosperare nello spazio incerto tra ciascuno di essi. Non è facile isolare il precapitalismo. Néstor García Canclini ha affermato che: “L’artigianato è, e al tempo stesso non è, un prodotto precapitalistico. […] Il suo doppio carattere – storico (in un processo iniziato nelle società precolombiane) e strutturale (nell’attuale logica del capitalismo dipendente) – è ciò che crea i suoi aspetti ibridi”11. Infine, il termine “precapitalistico”, che assume come paradigma la società occidentale moderna, è discutibile quando viene semplicemente applicato a processi storici diversi e presuppone un obiettivo che non è necessariamente lo stesso. Bartolomé e Robinson hanno sostenuto che il modo in cui le società indios sono considerate precapitalistiche (cioè parte della storia e dello sviluppo economico dell’Occidente) le pone “indietro” rispetto a questa storia, mentre in realtà: “Le società indios relativamente non influenzate dal colonialismo sono ‘acapitalistiche’ e non ‘precapitalistiche’. Presentano quindi di per sé un modello sociale e politico diverso da quello creato dalla storia economica e politica della nostra società”12. Per questo Adolfo Colombres sceglie di usare il termine “acapitalistico” piuttosto che “precapitalistico”, in quanto quest’ultimo presuppone un destino unico e inevitabile13. 2) L’uso del concetto di egemonia può mettere in discussione l’assunto che il dominante sia una forza onnipotente, in grado di coprire ogni area e divorare tutto ciò che incontra sul suo cammino. Canclini ha parlato di un “concetto teologico” relativo all’onnipotenza di un capitalismo che controlla tutto; in società complesse come quelle del capitalismo periferico, i processi socioculturali sono il risultato di forze contrastanti. “Una di queste è la continuazione (o i resti) di organizzazioni economiche e culturali comunitarie che interagiscono con la cultura

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3) i settori popolari non sono passivi e incapaci di rispondere o resistere;

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2) nemmeno la cultura dominante può (o vuole) dissolvere tutte le altre forme creative e sociali;

ETRANJE TOUPATOU

B) IL MITO DEL DOMINIO DIVINO Le previsioni apocalittiche sull’estinzione dell’arte popolare si basano su un verdetto mitico indiscutibile: poiché le forme popolari sono un prodotto precapitalistico e non possono cambiare al di fuori di questo modello, saranno costrette a entrare in una modernità che le distruggerà insieme a tutte le altre forme tradizionali. Tuttavia, la constatazione di alcuni fatti ci costringe ad ammettere che: 1) popolare non sempre significa precapitalistico;


14 N. García Canclini, Las culturas populares, cit., p. 105. 15 Ivi, p. 192.

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16 Ivi, p. 104.

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17 J.J. Brunner, Los debates sobre la modernidad y el futuro de América Latina, Santiago de Chile, FLACSO 293, 1986, pp. 30-31.

dominante in modo molto più dinamico di quanto si supponga da parte di chi parla solo di penetrazione e distruzione delle culture autoctone”14. Per questo motivo: “Lo sviluppo capitalistico sovraurbano, la sua necessità di produzione e consumo standardizzati sono limitati dalle caratteristiche specifiche di ogni particolare cultura e dall’interesse che il sistema stesso può avere nel preservare antiche forme di organizzazione e rappresentazione sociale; la cultura dominante conserva alcuni arcaismi da riconfigurare e ricontestualizzare”15. Quindi, anche se non possono essere considerati come un concetto di onnipotenza di un capitalismo che controlla tutto, i processi socioculturali sono il risultato di forze in conflitto. Pertanto, anche se non contribuiscono direttamente allo sviluppo di nuove forme di produzione, alcune forme precapitalistiche sono necessarie per una riproduzione equilibrata del sistema, in quanto possono tenere insieme ampi settori della società, essere una fonte di reddito aggiuntiva per le campagne, rinnovare i consumi e stimolare il turismo16. 3) Il prezzo pagato dalle “forme tradizionali” per ottenere l’accettazione è che si adattino al meccanismo generale del sistema e non siano d’intralcio. Per questo motivo, la cultura egemone cerca di ripulire e modificare le forme che non si adattano al suo sistema; il folklore pittoresco, l’invasione, la distorsione del significato e l’indebolimento della base simbolica sono strategie caratteristiche di questo processo. Il dominante frammenta la cultura del subordinato e ne isola gli elementi per manipolarli e ricondizionarli a proprio piacimento. Tuttavia, come abbiamo notato in precedenza, la cultura popolare non è un contenitore debole e informe che accetta passivamente l’invasione e si arrende alle sue richieste. Inoltre, la cultura popolare non solo è sedotta, ma si lascia sedurre, indietreggia e si arrende; i suoi obiettivi non sono sempre molto chiari, né i confini tra essa e l’avversario sono così stabili. Per questo motivo incorpora e si appropria di molti elementi nocivi e riceve con gratitudine diversi falsi regali. Abbiamo anche sottolineato come le stesse contraddizioni del sistema dominante creino al suo interno piccole sacche di dissenso in cui viene difeso il diritto alla differenza culturale. Da queste sacche è possibile incoraggiare questo diritto e disattivare molti meccanismi volti a svuotare i discorsi popolari. L’idea che l’arte popolare sia irrimediabilmente condannata a scomparire di fronte ai progressi dell’industria culturale, con il presupposto che quest’ultima sia responsabile di tutti i problemi dell’espressione tradizionale, si basa in parte su un’applicazione meccanica delle teorie critiche della Scuola di Francoforte alle culture dipendenti. Questa scuola ritiene che l’avanzata incontrollabile di una nuova cultura distrugga tutte le precedenti, riducendone le differenze e le particolarità. Ma questi critici parlavano da contesti diversi; per questo Brunner insiste sul fatto che prima di applicare le teorie critiche dovremmo analizzare il significato dell’industria culturale dell’America Latina, ovviamente diverso da quello che potrebbe avere in un contesto storico totalmente differente. “Per cominciare […] la critica europea all’industria culturale non è mai stata legata a un discorso sulla sopravvivenza delle culture popolari. […] Al contrario: la denuncia era che l’industria culturale distrugga la cultura ‘alta’, sottomettendola a una nuova forma di cultura di massa. Al contrario, nei paesi periferici e in via di sviluppo, le industrie culturali agiscono su enormi aree di cultura popolare...”. La sua conclusione è che il rifiuto di tutto ciò che proviene dall’industria culturale e che entra nella cultura popolare “si basa sul presupposto che le coscienze siano manipolate, che i destinatari siano vulnerabili e che il consumo culturale sia totalmente passivo”17. Abbiamo già notato come l’applicazione meccanica di un concetto a realtà culturali diverse generi semplificazioni. In questo caso lo spostamento crea una grande spaccatura tra la cultura popolare (originariamente innocente e buona) e l’industria culturale (alienante e fatalmente corruttrice). La prima è considerata passiva e malleabile,


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4) Il tentativo di definire l’arte popolare in termini di un particolare sistema socioeconomico (in questo caso, la produzione precapitalistica) potrebbe condurre a una semplificazione meccanicistica dei processi di significazione, intendendoli come bloccati nelle condizioni che esprimono. La condizione dei popoli paleolitici illustra bene questo punto. Esaminiamo gli Zamuco (Ayoreo e Chamacoco), cacciatoriraccoglitori che vivono nel Chaco paraguaiano. Che ci piaccia o no nel mondo di oggi non c’è posto per i cacciatori; l’espansione della società nazionale sta progressivamente restringendo le foreste e sterminando intere specie animali, al punto che, inseguendo un tapiro o un pecari, un cacciatore si scontrerà inevitabilmente con la recinzione di una fattoria dell’immensa Compañía Carlos Casado, con una pubblicità mennonita o missionaria, con una strada o una pista aerea. Così un’intera civiltà viene a poco a poco distrutta per sempre. Il problema è che la struttura simbolica di ognuna di queste comunità è organizzata attorno a un insieme specifico di condizioni che ne determinano i miti, le cerimonie, le forme artistiche e sociali. La cerimonia del debylyby dei Tomároho (Chamacoco), ad esempio, è in parte un rito di riappacificazione. La misteriosa festa degli Anábser, esseri soprannaturali, invoca buone catture e frutti abbondanti attraverso lo scuotimento delle piume; attraverso il grande segreto cerimoniale che richiede l’uso di maschere vegetali; attraverso l’improvvisa apparizione di spiriti con corpi dipinti di rosso, bianco e nero; e infine attraverso il profondo coro di grida che riecheggia in tutto il villaggio e si diffonde nella giungla dall’hárra (cerchio cerimoniale), provocando un’allarmante esplosione di canti di uccelli e grida di animali che, come il rumore degli spiriti, spaventa bambini e aironi. Gli ultimi sopravvissuti dei Tomároho, in fuga dallo sfruttamento, si lasciarono alle spalle le loro montagne devastate e si trasferirono a Péixota, dove decisero (senza molta scelta) di diventare, in una certa misura, agricoltori. Si tratta di un cambiamento brusco e drastico, che presuppone un repentino cambiamento di stile di vita e di tempo storico. Per il momento, conservano la cerimonia del debylyby quasi intatta; è troppo presto perché il rituale assorba queste nuove condizioni. Che cosa accadrà poi a questa cerimonia di caccia? L’approccio che sto criticando risponderebbe che non succederà nulla, che questa cerimonia è costruita con forme condannate e strutture anacronistiche che presto scompariranno come è già accaduto al loro (paleolitico) sistema. Questo sarebbe vero in quei casi in cui il cambiamento viene imposto in modo compulsivo, senza lasciare alla comunità alcun margine di reinterpretazione. La storia recente degli Ebytoso (un altro gruppo chamacoco) illustra la rapida morte dei rituali quando il gruppo viene attaccato dai missionari o sfruttato. A Puerto Esperanza una comunità è stata lacerata da sette fanatiche, lasciandola priva di immagini comunitarie e del desiderio di sognarle. A Puerto Diana c’è un altro gruppo ebytoso minato dai profitti e dalle credenze straniere; ora non è altro che un’ombra imbarazzata della sua storia, un bacino di manodopera a basso costo e fonte di approvvigionamento per i bordelli. Queste comunità, come molte altre, hanno perso la propria vitalità simbolica, la forza con cui reinterpretare le nuove condizioni.

‫ألجانب في كل مكان‬

mentre la seconda sarebbe una valanga distruttiva e inarrestabile. Abbiamo visto come la complessa ambiguità dell’arte popolare e la sua natura conflittuale agiscano come forze di tensione, minacciando costantemente una perdita di coerenza e di comprensione. Tuttavia, queste stesse forze ne garantiscono paradossalmente la sopravvivenza: creano un paesaggio mentale parallelo pieno di nascondigli, un mondo residuale senza frontiere o porte in cui i simboli popolari possono svilupparsi protetti da ombre e immagini ibride; si nascondono e crescono al di là del controllo, dell’interesse o della portata della cultura dominante.


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18 Questa citazione è tratta da un’intervista, tuttora inedita, che ho avuto con Miguel Bartolomé nell’aprile 1987 sulla situazione attuale degli ayoreo, costretti all’interno delle missioni Nuevas Tribus.

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Ma quando un gruppo conserva uno spazio produttivo significativo, può ricostruire un repertorio sociale per incorporare le nuove condizioni. È allora che il culto può essere riorganizzato, i miti di origine adattati e nuove figure create per spiegare gli eventi recenti. L’ipotesi che i sistemi culturali di significato siano totalmente definiti dalle condizioni sociali originarie si basa sull’illusione che i miti non siano storici. In realtà, le odierne storie dei Tomároho spiegano l’arrivo degli uomini bianchi, dei cavalli, degli aerei e delle armi da fuoco; parlano anche dei mitici eroi della guerra del Chaco (1932-1935). Molti vecchi ebytoso conservano gli Anábser come clandestini di questa nuova religione: collegano Axnuwerta alla Vergine Maria e Nemur a Gesù Cristo, e spiegano l’estinzione della loro cultura come il compimento della maledizione dell’ultimo Anábsoro. Riferendosi a questo tema e richiamando l’ipotesi di Claude Lévi-Strauss (che Clamstres applicò alla cultura guaraní), Miguel Bartolomé afferma che è possibile ipotizzare che gli Zamuco fossero gruppi arcaici, antichi agricoltori costretti a diventare cacciatori da altre circostanze storiche. Così, il loro modello mitico-culturale neolitico originario si sarebbe adattato alle nuove esigenze culturali e avrebbe iniziato a concepire forme tipiche delle condizioni paleolitiche. Cita il caso dei contadini araucani che, sfuggendo alle battaglie di frontiera sul loro territorio, nel XVIII secolo si trasferirono in Argentina; qui divennero cacciatori a cavallo, prima di struzzi, poi di bovini fino a diventare pastori stanziali. Per questo motivo i rituali araucani contemporanei mostrano la commistione di più mondi: sono essenzialmente cerimonie agricole che includono offerte di frutta e sacrifici animali (originariamente provenienti dalla loro esperienza di cacciatori-raccoglitori) ed elementi dell’attuale status di pastori. Bartolomé aggiunge che è difficile immaginare un ebreo o un cristiano a New York che si ricordi che la sua religione è nata tra i pastori ed è stata poi riadattata e modificata in base a nuove condizioni18. In fin dei conti, che cos’è la materia dell’arte occidentale se non un accumulo di residui, di substrati diversi e di forme originariamente appartenenti ad altre storie, a sistemi scomparsi e a situazioni dimenticate? Sebbene le condizioni siano cambiate e sebbene possa trascinarsi dietro forme e tecniche notevolmente superate, l’arte contemporanea si è sviluppata secondo linee sostanzialmente rinascimentali. Anche se può essere difficile da accettare, la pittura di Picasso è essenzialmente pittura da cavalletto. Inoltre, le forme rinascimentali non sono nate dal nulla nel XV secolo, ma sono state costruite a partire da forme precedenti sfuggite al proprio destino trasformandosi o adattandosi alle esigenze di una nuova epoca, dove potevano riaffermarsi e riprodursi. Quanti resti di sistemi dimenticati si nascondono sotto l’iconografia, i codici visivi e le tecniche contemporanee? Quanti simboli paleolitici, pastorali o feudali possiamo ritrovare nel ricco patrimonio che l’arte occidentale rivendica per sé? Se questa comunità chamacoco dimenticata riesce a mantenere aperta la possibilità di generare significati, può trovare soluzioni per le sfide che deve affrontare, rielaborando forme consolidate o creandone di nuove in cui i residui del vecchio saranno sempre presenti.


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20 Lauer sostiene che: “È quando la produzione viene effettuata in anticipo per soddisfare una domanda esterna al villaggio o alla regione (e ai settori dominati) che iniziamo a vedere i produttori precapitalisti spostarsi da un sistema di mercato a un altro” (M. Lauer, Crítica de la artesanía, cit., p. 187). Nel Paraguay coloniale, e ancor più repubblicano, la produzione artigianale è anticipata in quasi tutte le zone elencate. Ad esempio, gli argentieri di colore che vivevano vicino ad Asunción, i fabbricanti di immagini, i fabbricanti di mobili di Itá, i fabbricanti di ñandutí accumulavano prodotti da vendere fuori dalla comunità.

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19 Campesino: letteralmente “abitante della campagna”, più neutro di “contadino” [n.d.T.].

C) PROPRIETARI DI SIMBOLI Per questo motivo la questione non è se si debba conservare, proteggere, superare o integrare l’arte popolare. Se la questione viene posta in questi termini, dall’esterno, le soluzioni saranno inevitabilmente populiste o protezionistiche. Il dibattito sull’arte popolare dovrebbe sempre tenere conto del suo processo costitutivo. Un’opera non è popolare per qualità intrinseche, ma per l’utilizzo da parte di settori popolari. Finché questi settori mantengono il controllo, l’oggetto sarà sempre un’opera d’arte popolare, anche se le sue qualità, le sue funzioni e i suoi elementi stilistici cambiano. Finché le persone si impegneranno nella propria produzione estetica, ci sarà sempre arte popolare, sia essa tradizionale o meno. Il destino di una particolare forma d’arte popolare dipenderà dal fatto che sia sostenuta o meno da un immaginario collettivo, e che una comunità si riconosca o meno in essa, che la veda rispondere a momenti della propria identità ed esperienza, della propria sensibilità e della propria storia. Le nuove condizioni che separano il campesino19 e l’indio dai loro prodotti creano seri problemi. Tuttavia, anche in questo caso, la separazione non deve essere considerata come la trasgressione di una norma, ma piuttosto come un conflitto con molte soluzioni possibili. A partire dal primo periodo coloniale, vennero realizzati molti pezzi che sfuggivano al sistema del consumo da parte dei fabbricanti e del baratto: immagini religiose create per gli altari di famiglia e per le cappelle locali, e altri articoli così costosi e lussuosi che tendevano a essere utilizzati più dai criollo ricchi che dai campesinos, ad esempio ñandutí (pizzi pregiati per altari e abiti eleganti), pezzi d’argento e d’oro (mates, finimenti e gioielli), mobili e porte di pregio. La domanda di questi prodotti crebbe alla fine del XVIII secolo per soddisfare una nuova borghesia commerciale più raffinata di quella precedente. Tuttavia, sono espressioni segnate dal gusto solenne e semplice dell’arte rurale paraguaiana; sono forme popolari, anche se il loro consumo non coincide esattamente con la comunità che le ha realizzate20. Quando una comunità rurale mantiene il controllo sulla propria produzione simbolica, creando simboli in cui si riconosce, in cui si condensano le sue esperienze e i suoi desideri, allora questi simboli sono popolari anche se le nuove condizioni economiche li hanno allontanati da molte delle loro funzioni. Un campesino non diventa meno campesino o meno “popolare” perché i suoi prodotti sono passati da un’economia di sussistenza a un’economia di mercato. La sua produzione artistica deve mostrare questo cambiamento; ciò che fa è adattarsi e riadattarsi. I mercati capitalistici creano spazi molto particolari. Ogni oggetto artistico che vi entra si scompone e una parte diventa merce, feticcio, evasione. Nella misura in cui le sue condizioni sono imposte, il campesino si separa parzialmente dai propri prodotti. Il modo in cui creerà nuove forme per risolvere questo problema è una domanda a cui non possiamo rispondere dall’esterno. Per il momento, molte forme precedenti (quelle legate alla logica dell’uso) continueranno a essere prodotte e generate da un impulso genuino che tuttavia non può sostenerle nel vuoto per sempre. L’immaginazione popolare ha però elaborato modi efficaci per affrontare sfide almeno altrettanto difficili. Nel frattempo occorre conservare una riserva simbolica con cui resistere al trauma di nuovi impatti violenti e con cui alimentare la capacità di creare nuove forme. È importante non perdere il senso e la direzione poetica e non abbandonare il filo che ha creato tante figure e dato forma a tante memorie. È più facile esplorare nuove strade se si ha una storia solida alle spalle. A volte il simbolo scompare quando l’oggetto diventa qualcos’altro. A volte si arrende a una pressione schiacciante. Alcuni ceramisti di Itá, ad esempio, non sono stati in grado di rispondere alle nuove condizioni create dal mercato e hanno iniziato a produrre compulsivamente centinaia di pezzi identici. Questi pezzi erano inespressivi


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21 Soprattutto nel caso delle culture etniche, il sostegno per uno spazio creativo dedicato è importante quanto la lotta per uno spazio vitale. La creatività garantisce l’identità di un gruppo ed è una forza di resistenza. Quando esposte alle forze etnocide, le comunità si disgregano e si alienano.

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non perché fossero uguali, ma perché erano indefiniti. Erano oggetti muti, senza memoria e senza desiderio. Non contenevano passioni né segreti. Ecco perché è essenziale che di fronte a nuove situazioni, spesso avverse, i settori popolari trovino una base solida da cui affrontarle. Non ha senso approvare o condannare le alternative dall’esterno: se riescono a generare un cambiamento e a trovare le forme per farlo, saranno valide. In questo senso la cultura popolare ha il diritto di utilizzare tutti i canali e le istituzioni (con cui la cultura dominante interrompe e interferisce) e di usarli come rifugi, trincee o addirittura come piste per potenziali voli. Da questo punto di vista non si può criticare la decisione di ricorrere al mercato e di lottare per ottenere prezzi più equi e un maggiore riconoscimento della creatività popolare. Si può anche comprendere il desiderio di occupare tutti gli spazi disponibili, anche provvisoriamente, per resistere o creare nuove forme21. Lo spazio, tuttavia, non è sufficiente. Se in definitiva l’energia delle forme e il segreto del loro successo risiedono nella coesione interna della comunità, per preservarne il destino dovremmo anche lottare per rafforzare la loro identità sociale e sostenere le comunità stesse. Se accettiamo che la subordinazione (in una situazione di un conflitto) e l’autoaffermazione comunitaria siano caratteristiche fondamentali della cultura popolare, allora la conquista del territorio e il rafforzamento interno sono tappe essenziali nel processo di resistenza e sviluppo della cultura popolare e unici garanti della sua continuità. Per i settori emarginati e oppressi, l’organizzazione interna, l’affermazione della differenza e la costituzione di un corpo comunitario sono fondamentali affinché il gruppo possa affrontare la società civile, confrontarsi con altre forze e settori e articolare le proprie lotte e richieste in termini di sogni e aspirazioni comuni. Una comunità internamente equilibrata, capace di mobilitarsi per conquistare posizioni e lottare per il proprio spazio, può svolgere un ruolo di primo piano nello sviluppo immaginario delle proprie realtà, indipendentemente dall’intensità delle forze storiche che la condizionano.


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Queste forze storiche esistono e sono potenti; ma il destino dell’arte popolare dipende anche da altre forze. Se accettiamo che l’arte popolare possa cambiare e modernizzarsi, a quale modernità ci riferiamo? Si tratta di una domanda particolarmente pertinente ora che è in discussione il significato stesso di modernità. L’arte popolare può accedere alla modernità cavalcandola, o ha invece il diritto non solo di accedervi, ma anche di avere una modernità propria? Ci troviamo nuovamente di fronte al consueto problema di cercare di inserire la produzione culturale latinoamericana all’interno di categorie e progetti a essa estranei. Il fatto che l’arte popolare, essenzialmente precapitalistica, sia oggi considerata da un punto di vista che potremmo vagamente definire postmoderno è un sintomo del rischio che corriamo entrando in uno spazio illusorio definito tra un “pre” e un “post” che segnano il prima e il dopo di esperienze e desideri estranei. Per questo motivo, una critica della modernità in America Latina dovrebbe considerarla come il risultato di un’esperienza adulterata e incompleta piuttosto che come un momento esaurito. La modernità periferica non è il risultato di processi locali, ma la conseguenza di imposizioni e seduzioni, il risultato della dipendenza e del consumo. È una modernità contraddittoria, un progetto semi-mistificato ispirato tanto da una ragione incompresa quanto dai desideri alieni di un mercato globale. È una modernità di second’ordine, programmata per totalità monumentali in cui sarà sempre periferica, ispirata da solenni concetti di progresso, civiltà e libertà, i cui benefici sono pochi e lontani da questa parte dell’oceano, da questo lato oscuro della storia. Ora ci troviamo di fronte a una situazione strana e confusa in cui la coscienza moderna ha diagnosticato la propria crisi e ha annunciato di aver superato i propri limiti, diventando “post” (in un modo che preserva l’onnipotenza e il narcisismo del sistema che in teoria doveva sostituire). Per la prima volta nella storia siamo contemporanei a uno “stato di post” (postmodernità), che normalmente veniva deciso a posteriori. Di fronte al crollo di tante utopie razionaliste, al discredito dei paradigmi tecnologici e al cliché del progresso indefinito, la cultura tardo-moderna è in preda a un profondo disagio e oggetto di dolorose domande. Da un lato, questa crisi rivela sintomi che oscillano tra scetticismo e nichilismo, delusione e nostalgia, ironia cinica e vera e propria disillusione. Dall’altro lato, le posizioni critiche variano da radicali attacchi ai miti fondamentali della modernità a diversi tentativi di soluzione. Il Postmodernismo, come promosso da alcuni centri metropolitani, attacca le conseguenze del Modernismo senza riuscire a liberarsi dai suoi vizi. In qualche modo si rifà alle vecchie forme, non per trovarvi nutrimento o una base da cui lanciarsi verso il futuro, bensì un rifugio, un alibi in cui nascondersi dai nuovi conflitti. Così il Postmodernismo diventa più un movimento epigonale che di rottura; mette in discussione le avanguardie ma finisce per essere un’altra avanguardia, seppure priva della forza innovatrice originaria. Lamenta la morte delle utopie ma è incapace di proporre alternative. Si oppone all’uniformità culturale dell’imperialismo tecnologico mentre impone e diffonde nuovamente forme standard e modelli astratti, sempre dipendenti dalle potenze tecnologiche. Nel suo cammino verso una modernità confusa, non c’è motivo per cui la cultura latinoamericana debba subire le conseguenze di un processo in cui, in generale, ha svolto il ruolo passivo dello spettatore o è stata considerata un’eterna perdente. Il culto del progresso illimitato, dipendente dalla produzione industrializzata, o la glorificazione della ragione tecnologica e la schiacciante espansione del funzionalismo internazionale hanno invaso le nostre storie e lasciato dietro di sé figli bastardi, territori uniformi (o sterili) e scarsi benefici. In realtà, le nostre società non hanno mai creduto del tutto in un progresso ininterrotto, né si sono fidate di una ragione che non hanno mai compreso appieno. Le

KUMAACHI-U ‘AGA-VA-TU-SAPA-NUM

LA QUESTIONE DELLA MODERNITÀ NELL’ARTE POPOLARE


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QUESTIONI NELL’ARTE POPOLARE

22 J.J. Brunner, Los debates sobre la modernidad, cit., p. 58.

23 In quest’ultimo punto non mi riferisco più a quei segni che sanno riadattarsi alle nuove circostanze e crescere nonostante esse, ma a quelli che appaiono immutabili.

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nostre prime avanguardie non potevano promettere molto: isolate dalla società, represse o ignorate, erano parodie senza importanza o non avevano la forza di catturare ed esprimere i sogni collettivi. Per questo motivo dovremmo stare in guardia per evitare di pagare per beni che non abbiamo avuto il tempo o l’opportunità di esplorare. “Siamo condannati a vivere in un mondo in cui tutte le immagini della modernità provengono dall’esterno e diventano obsolete prima ancora di poterle usare”22. I Paesi periferici possono resistere e non entrare nel vicolo cieco in cui si ritrovano ora le culture esauste e ciniche. Bloccate in questo processo, queste ultime non sono in grado di evadere immaginando un altro tempo o trovando una via di fuga in pratiche artistiche capaci di ribaltare la storia e metterla in discussione. Gli esperimenti artistici in America Latina non hanno ancora esaurito molte possibilità né si sono addentrati in percorsi che ora sembrano chiusi; non hanno condiviso presupposti, storie e valori che hanno creato molte frustrazioni e delusioni. Molti di questi esperimenti sono stati realizzati da settori popolari emarginati che hanno memorie e desideri diversi. Perciò hanno ancora la possibilità di proporre progetti attraverso miti antichi o simboli di nuova acquisizione; hanno ancora il diritto all’utopia. Allo stesso tempo, si può ancora imparare dalla critica della modernità nella misura in cui ha messo in discussione l’omogeneizzazione culturale creata dal terribile peso delle forze tecnologiche; è stata data nuova attenzione a voci particolari e alternative e a piccoli frammenti, a sforzi specifici che possono creare nuovi significati e fondare altri progetti senza toni messianici o apocalittici. Qual è il destino ultimo dell’arte popolare in questa macchina universale? Che posto hanno le sue forme in una storia che guarda sempre avanti? Come si inseriscono queste forme “primitive” nelle forze interne del progresso? Oggi queste domande sembrano in qualche modo ingenue. Ma forse il prestigio della Ragione si riprenderà e tenterà ancora una volta di organizzare il tutto in totalità (così necessarie per riempire il vuoto), di fondere le immagini in un’unica memoria e tutti i simboli nello stesso stampo. Nel frattempo possiamo godere di questo momento di respiro, forse di tregua, per esaminare quei molti eventi che non rientrano nei progetti universalistici e che non sono benedetti dalla Ragione; alcuni brandelli di culture condannate che sopravvivono ostinatamente a dispetto dei decreti e dei piani23. È inutile interrogarsi sul destino ultimo di molte forme scartate da una storia esclusiva. Il fatto è che esistono ora. Sono qui, nascoste o minacciate, sostenute dai loro ricordi o nel loro puro presente, sono ancora vive, ognuna riflettendo una particolare porzione di tempo. Quando i capi ayoreode vengono sconfitti e portati nelle missioni, lasciano dietro di sé le pellicce e le piume; hanno perso il diritto e l’orgoglio di indossarle. Quando gli sciamani Chamacoco si avvicinano alle fattorie per offrire il loro lavoro e i loro poteri di guarigione, non indossano né ghirlande né corone. Ma gli ultimi capi e sciamani liberi cercano con zelo gli uccelli prescelti e compiono pazientemente complicati rituali che i loro figli non useranno, ma che in questo momento possono evocare la verità effimera del momento, evocare tempi alieni e catturare un momento intenso e fugace nella sua insostenibile leggerezza, bello e reale come un fulmine.


EMPIRE TWENTY YEARS ON, IN “NEW LEFT REVIEW”, N. 120, NOVEMBRE-DICEMBRE 2019.

Bisogna fare un passo indietro per distinguere il disegno del mosaico, per apprezzare il significato politico delle migrazioni globali come un’insurrezione in corso. State certi che le autorità al potere riconoscono la minaccia: il potere dell’insurrezione è confermato dalle crudeli e costose strategie di contro insurrezione lanciate contro i migranti, dai campi di concentramento sostenuti dall’UE in Libia alle barbare politiche al confine con gli Stati Uniti. L’insurrezione dei migranti, semplicemente attraversandoli, minaccia di far crollare e sgretolare i vari muri che segmentano il sistema globale.

ANTONIO NEGRI E MICHAEL HARDT



DOXANDÉEM FÉPP 183 STRANIERI OVUNQUE

Walter D. Mignolo

Colonialità: il lato oscuro della modernità Precedentemente pubblicato in Modernologies: Contemporary Artists Researching Modernity and Modernism, a cura di Sabine Breitwieser et. al., Barcellona, MACBA, 2009, pp. 39-49.


COLONIALITÀ: IL LATO OSCURO DELLA MODERNITÀ

L’articolo è disponibile in inglese: Coloniality and Modernity/ Rationality, in Cultural Studies, 21, 2-3, 2007, pp. 155-167.

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La prima pubblicazione in inglese del lavoro svolto dal collettivo dal 1998 è stata pubblicata in Cultural Studies, 21, 1-2, 2007. Un numero speciale su Globalizzazione e opzione decoloniale.

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Il punto è stato più volte dibattuto nell’ultimo decennio. Si veda, ad esempio, A. Escobar, Beyond the Third World. Imperial Globality, Global Coloniality, and Anti­ globalization Social Movements, in Third World Quarterly, 25, 1, 2004, pp. 207-230.

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I. Molti anni fa (intorno al 1991), nell’“edicola” di una libreria, il titolo dell’ultimo libro di Stephen Toulmin – Cosmopolis, The Hidden Agenda of Modernity (1990) – suscitò la mia curiosità. Andai in una caffetteria di fronte alla libreria Borders di Ann Arbor e divorai il libro davanti a una tazza di caffè; la domanda intrigante era: “Qual è l’agenda nascosta della modernità?”. Poco tempo dopo, ero a Bogotà dove mi imbattei in un libro appena pubblicato, Los conquistados: 1492 y la población indígena de América (1992), il cui ultimo capitolo attirò la mia attenzione. Era scritto da Anibal Quijano, di cui avevo sentito parlare ma che non conoscevo, e si intitolava Coloniality and Modernity/Rationality1. Comprai il libro e trovai un’altra caffetteria nelle vicinanze. Divorai il capitolo e la lettura fu una sorta di epifania. In quel periodo stavo completando il manoscritto di The Darker Side of the Renaissance (1995), ma decisi di non includere quanto scritto da Quijano. C’era molto a cui dovevo pensare e il manoscritto era già impostato. Dopo averlo consegnato alla stampa, mi concentrai sulla “colonialità”, che divenne poi un concetto centrale in Local Histories / Global Designs. Coloniality, Subaltern Knowledge and Border Thinking (2000). Dopo l’uscita del libro, scrissi un lungo articolo teorico, The Geopolitics of Knowledge and the Colonial Difference, pubblicato in South Atlantic Quarterly (2002). Per Toulmin l’agenda nascosta della modernità era il fiume umanistico che scorreva dietro la ragione strumentale. Per me l’agenda nascosta (e il lato oscuro) della modernità era la colonialità. Quel che segue è una ricapitolazione del lavoro svolto da allora in collaborazione con membri dell’intera modernità/colonialità2. La tesi di base è la seguente: la “modernità” è una narrazione europea che nasconde il suo lato più oscuro, la “colonialità”, che, in altre parole, è parte integrante della modernità: non c’è modernità senza colonialità3. Quindi, oggi, l’espressione comune “modernità globali” implica “colonialità globali” nel senso preciso che la matrice coloniale del potere (in breve, la colonialità) viene contestata da molti contendenti: se non ci può essere modernità senza colonialità, non ci possono nemmeno essere modernità globali senza colonialità globali. È la logica dell’odierno mondo capitalista policentrico. Di conseguenza, a partire dal XVI secolo, il pensiero e l’azione decoloniali sono emersi in risposta alla tendenza oppressiva e imperiale dei moderni ideali europei proiettati e attuati nel mondo extraeuropeo.

II. Inizierò con due scenari: uno del XVI secolo e l’altro della fine del XX e del primo decennio del XXI secolo. Immaginiamo il mondo intorno al 1500. Si trattava, in sintesi, di un mondo policentrico e non capitalista. Coesistevano diverse civiltà, alcune di lunga data, altre in via di formazione in quel periodo. In Cina, la dinastia Ming regnò dal 1368 al 1644. Era un centro di commercio e una civiltà dalla lunga storia. Intorno al 200 a.C., l’impero di Qin Shi Huangdi (spesso erroneamente chiamato “Impero Cinese”) coesisteva con l’Impero Romano; quando questo, all’inizio del XVI secolo, divenne il Sacro Romano Impero delle nazioni germaniche, coesisteva ancora con l’impero di Huangdi governato dalla dinastia Ming. Dallo smembramento del Califfato Islamico (costituito nel VI secolo e governato dagli Omayyadi nel VII e VIII secolo e dagli Abbasidi dall’VIII al XIII secolo), nel XIV secolo emersero tre sultanati: il sultanato ottomano in Anatolia con centro a Costantinopoli; il sultanato safavide con centro a Baku, in Azerbaigian, e il sultanato moghul formatosi dalle rovine del sultanato di Delhi, che durò dal 1206 al 1526. I Moghul (il cui primo sultano fu Babur, discendente di Gengis


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W.D. Mignolo, Cosmopolitanism and the De­Colonial Option, in Cosmopolitanism in the Making, numero speciale di Philosophy and Education. An International Journal, a cura di T. Strand, di prossima pubblicazione.

All’inizio del XXI secolo il mondo è interconnesso da un unico tipo di economia (il capitalismo)4 e caratterizzato da una molteplicità di teorie e pratiche politiche. La teoria della dipendenza dovrebbe essere rivista alla luce di questi cambiamenti. Mi limiterò però a distinguere due orientamenti generali. Da un lato è in atto la globalizzazione dell’economia capitalista e la diversificazione della politica globale. Dall’altro, stiamo assistendo alla moltiplicazione e alla diversificazione della globalizzazione anti-neoliberista (ad esempio, del capitalismo anti-globale). Per quanto riguarda il primo orientamento, Cina, India, Russia, Iran, Venezuela e l’emergente Unione delle nazioni sudamericane hanno già chiarito di non essere più disposte a seguire gli ordini unidirezionali provenienti dal Fondo Monetario Internazionale, dalla Banca Mondiale o dalla Casa Bianca. Alle spalle dell’Iran c’è la storia della Persia e del sultanato safavide; alle spalle dell’Iraq la storia del sultanato ottomano. Questi ultimi sessant’anni di ingresso dell’Occidente in Cina (marxismo e capitalismo) non hanno sostituito la storia cinese con quella dell’Europa e degli Stati Uniti dal 1500 in poi; e lo stesso vale per l’India. Al contrario, hanno rafforzato l’obiettivo di sovranità della Cina. In Africa, la spartizione imperiale dei Paesi occidentali tra la fine del XIX e l’inizio del XX secolo (che ha provocato la Prima guerra mondiale) non ha sostituito il passato dell’Africa con quello dell’Europa occidentale. E così in Sudamerica, cinquecento anni di dominio coloniale da parte di ufficiali peninsulari e, dall’inizio del 1900, di élite creole e meticce, non hanno cancellato l’energia, la forza e le memorie del passato indigeno (si vedano le questioni attuali in Bolivia, Ecuador, Colombia, Messico meridionale e Guatemala); né hanno cancellato le storie e le memorie delle comunità di origine africana in Brasile, Colombia, Ecuador, Venezuela e nei Caraibi insulari. In direzione opposta si è mossa la nascita dello Stato di Israele nel 1948, esplosa verso la fine del primo decennio del XXI secolo. Per quanto riguarda il secondo orientamento, stiamo osservando molte organizzazioni transnazionali non ufficiali (più che non governative) che non solo si dichiarano “contro” il capitalismo, la globalizzazione e mettono in discussione la modernità, ma aprono anche orizzonti globali non capitalistici e si svincolano dall’idea che esista una modernità unica e principale circondata da altre periferiche o alternative. Non necessariamente rifiutando la modernità, ma chiarendo che la modernità va di pari passo con la colonizzazione e, pertanto, la modernità deve essere accettata con le sue glorie e i suoi crimini. Questo dominio globale definiamolo “cosmopolitismo decoloniale”5. Non vi è dubbio che gli artisti e i musei abbiano e giochino un ruolo importante nelle formazioni globali di soggettività transmoderne e decoloniali.

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Ogni volta che parlo di “capitalismo” lo intendo nel senso di Max Weber: “Lo spirito del capitalismo è qui usato in questo senso specifico, è lo spirito del capitalismo moderno [...] il capitalismo dell’Europa occidentale e americano”. L’etica protestante e lo spirito del capitalismo, trad. di P. Burresi, Firenze, Sansoni, 1989, (ed. orig. The Protestant Ethics and the Spirit of Capitalism [1904-1905], London, Routledge, 1992, pp. 51-52).

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處處都是外人

Khan e Timur) regnarono dal 1526 al 1707. Nel 1520, i Moscoviti avevano espulso l’Orda d’Oro e dichiarato Mosca la “Terza Roma”: iniziò così la storia dello zarato russo. In Africa, il regno di Oyo (attorno all’odierna Nigeria), formato dalla nazione Yoruba, era il più vasto regno dell’Africa Occidentale incontrato dagli esploratori europei. Il regno del Benin, il secondo più esteso dopo quello di Oyo, durò dal 1440 al 1897. E infine, gli Inca di Tawantinsuyu e gli Aztechi di Anáhuac erano due sofisticate civiltà all’epoca dell’arrivo degli spagnoli. Che cosa accadde dunque nel XVI secolo che avrebbe cambiato l’ordine mondiale trasformandolo in quello in cui viviamo oggi? Una risposta semplice e generale potrebbe essere: l’avvento della “modernità”, ma... quando, come, perché, dove?


COLONIALITÀ: IL LATO OSCURO DELLA MODERNITÀ

K. Armstrong, L’Islam, trad. di A.M. Cossiga, Milano, Rizzoli, 2001 (ed. orig. Islam. A Short Story, New York, The Modern Library, 2000, p. 142), corsivo aggiunto.

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Ivi, p. 142.

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E. Williams, Capitalismo e schiavitù, trad. di L. Trevisani, Bari, Laterza, 1971, (ed. orig. Capitalism and Slavery, Chapel Hill, The University of North Carolina Press, 1944, p. 32).

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J. Dagenais, The Postcolonial Laura, in MLQ: Modern Language Quarterly, 65, 3, settembre 2004, pp. 365-389.

10 Si veda ad esempio il simposio sulle modernità globali, un dibattito concettuale su Altermodern, Tate Triennal 2009 (http:// www.tate.org.uk).

III. Che cosa è successo tra i due scenari sopra delineati, tra il XVI e il XXI secolo? La storica Karen Armstrong – osservando la storia dell’Occidente dalla prospettiva di una storica dell’Islam – ha sottolineato due aspetti cruciali. Armstrong evidenzia la singolarità delle conquiste occidentali rispetto alla storia conosciuta fino al XVI secolo. Rileva due ambiti salienti: l’economia e l’epistemologia. Per quanto riguarda l’economia, fa notare che “la nuova società dell’Europa e delle sue colonie americane aveva una base economica diversa” che consisteva nel reinvestire il surplus per aumentare la produzione. La prima trasformazione radicale nel campo dell’economia, che ha permesso all’Occidente di riprodurre le proprie risorse all’infinito, è generalmente associata al colonialismo6. La seconda trasformazione, di tipo epistemologico, è generalmente associata al Rinascimento europeo. L’aggettivo “epistemologico” viene qui esteso a comprendere sia scienza/conoscenza sia arti/significato. Armstrong situa la trasformazione nella sfera della conoscenza nel XVI secolo, quando gli europei “realizzarono una rivoluzione scientifica che diede loro un controllo sull’ambiente maggiore di quanto chiunque avesse mai ottenuto in precedenza”7. Senza dubbio, la storica ha ragione nel mettere in luce l’importanza di un nuovo tipo di economia (il capitalismo) e della rivoluzione scientifica. Entrambi si conformano e corrispondono alla retorica celebrativa della modernità, ovvero alla retorica della salvezza e della novità, basata sulle conquiste europee del Rinascimento. C’è tuttavia una dimensione nascosta negli eventi che si stavano contemporaneamente svolgendo sia nella sfera dell’economia sia in quella della conoscenza: la spendibilità della vita umana (ad esempio, gli africani ridotti in schiavitù) e della vita in generale dalla Rivoluzione industriale al XXI secolo. Il politico e intellettuale afrotrinidadiano Eric Williams ha sinteticamente descritto questa situazione osservando che “una delle conseguenze più importanti della Gloriosa Rivoluzione del 1688 [...] fu l’impulso dato al principio del libero commercio. Solo in un particolare la libertà accordata nel commercio degli schiavi differiva da quella accordata in altri commerci: la merce coinvolta era l’uomo”8. E così, nascoste dietro la retorica della modernità, le vite umane diventavano sacrificabili a favore di una ricchezza crescente e tale sacrificabilità veniva giustificata dalla naturalizzazione della classificazione razziale degli esseri umani. Tra i due scenari sopra descritti, entrava in scena l’idea di “modernità”. È dapprima comparsa come una doppia colonizzazione, del tempo e dello spazio; quella del tempo creata dall’invenzione simultanea del Medioevo nel processo di concettualizzazione del Rinascimento9; quella dello spazio dalla colonizzazione e dalla conquista del Nuovo Mondo. Nella colonizzazione dello spazio, la modernità incontra il suo lato oscuro, la colonialità. Nell’arco di tempo che va dal 1500 al 2000 si possono distinguere tre volti cumulativi (e non successivi) della modernità: il primo è il volto iberico e cattolico guidato da Spagna e Portogallo (1500–1750, circa); il secondo, il volto del “cuore dell’Europa” (Hegel) guidato da Inghilterra, Francia e Germania (1750–1945); e infine il volto americano guidato dagli Stati Uniti (1945–2000). Da allora, ha cominciato a delinearsi un nuovo ordine globale: un mondo policentrico interconnesso dallo stesso tipo di economia. Nell’ultimo quarto del XX secolo, la “modernità” è stata messa in discussione nella sua stessa cronologia e nei suoi ideali, in Europa e negli Stati Uniti: il termine postmodernità si riferisce a tali argomenti critici. Più recentemente, l’altermodernità sta emergendo come nuovo termine e periodo, in Europa10. Sul piano spaziale, per spiegare la modernità sono state introdotte espressioni quali modernità alternative, modernità subalterne e modernità periferiche, per tradurre prospettive non europee. Queste narrazioni hanno però tutte un problema comune:


13 K. Shaman, Islam and the Orientalist World­System, London, Paradigm Publishers, 2008. 14 W.D. Mignolo, The Darker Side of the Enlightenment. A Decolonial Reading of Kant’s Geography, in Kant’s Geography, a cura di S. Elden, E. Mendieta, Stony Brook, Stony Brook Press, di prossima pubblicazione. 15 Si veda E. Dussel, Modernity, Eurocentrism and Transmodernity: in dialogue with Charles Taylor, Atlantic Highlands, New Jersey, Humanities Press, 1996. Per una disamina analitica di “transmodernità” e “colonialità”, si veda R. Grosfóguel, Trans­modernity, Border Thinking and Global Coloniality. Decolonizing Political Economy and Postcolonial Studies, in Eurozine, 2007, (http:// www.eurozine.com).

16 On the Colonization of Amerindian Languages and Memories. Renaissance Theories of Writing and the Discontinuity of the Classical Tradition, in Comparative Studies in Society and History, 34, 2, 1992, pp. 301-330 (http://www.jstor.org).

IV. Le esplorazioni precedenti si basano sull’ipotesi che modernità e colonialità siano due facce della stessa medaglia. “Colonialità” è l’abbreviazione di “matrice (o ordine) di potere coloniale”; descrive e spiega la colonialità come il lato nascosto e più oscuro della modernità. L’ipotesi è la seguente: 1. Come ho già detto, il Rinascimento europeo è stato concepito come tale, stabilendo le basi per l’idea di modernità, attraverso la doppia colonizzazione del tempo e dello spazio. La doppia colonizzazione equivaleva all’invenzione delle tradizioni europee. Una era la tradizione propria dell’Europa (colonizzazione del tempo). L’altra era l’invenzione di tradizioni non europee: il mondo non europeo che coesisteva prima del 1500 (colonizzazione dello spazio). L’invenzione dell’America è stata infatti il primo passo verso l’invenzione delle tradizioni extraeuropee che la modernità si è incaricata di soppiantare con la conversione, la civilizzazione e in seguito con lo sviluppo16. 2. “Modernità” divenne – in relazione al mondo extraeuropeo – sinonimo di salvezza e novità. Dal Rinascimento all’Illuminismo venne guidata dalla teologia cristiana e dall’umanesimo laico rinascimentale (ancora legato alla teologia). La retorica della salvezza attraverso la conversione al cristianesimo si tradusse nella retorica della salvezza attraverso la missione civilizzatrice quando, a partire dal XVIII secolo, l’Inghilterra e la Francia rimpiazzarono la Spagna

MAMÕYGUARA OPÁ MAMÕ PUPÉ 187

12 Si veda l’intervista di Suzy Hansen a Kishore Mahbubani in http://dir.salon.com.

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11 K. Mahbubani, The New Asian Hemisphere. The Irresistible Shift of Global Power to the East, New York, Public Affairs, 2008. Mahbubani è preside della Lee Kwan Yee School of Public Policy di Singapore e collaboratore del Financial Times. Si veda un’illuminante intervista su YouTube.

mantengono la centralità della modernità euro-americana o, se si vuole, presumono una “modernità di riferimento” e si pongono in posizioni subordinate. Inoltre, tutte presumono che “il mondo sia piatto” nella sua marcia trionfale verso il futuro, nascondendo la colonialità. Infine, tutte hanno trascurato la realtà possibile che gli attori locali del mondo extraeuropeo rivendichino la “nostra modernità” svincolandosi dagli imperativi occidentali, che si tratti del campo imprenditoriale rivendicando la “nostra modernità capitalista”, o del campo decoloniale, con la “nostra modernità non capitalista e decoloniale”. La rivendicazione imprenditoriale (de-occidentalizzazione) è stata sostenuta con forza, tra gli altri, dal singaporiano Kishore Mahbubani. Mahbubani ha sostenuto l’ascesa del “nuovo emisfero asiatico e lo spostamento del potere globale”11. La “modernità” non viene rifiutata ma fatta propria nell’attuale spostamento guidato dall’Asia orientale e meridionale. La domanda provocatoria di Mahbubani: “Can Asians Think?” – gli asiatici possono pensare? – è, da un lato, un aperto confronto con il razzismo epistemico occidentale e, dall’altro, un’appropriazione ribelle e insubordinata della “modernità” occidentale: perché l’Occidente dovrebbe sentirsi minacciato dall’appropriazione asiatica del capitalismo e della modernità se tale appropriazione andrà a beneficio del mondo e dell’umanità in generale12? Nel campo decoloniale (cioè non in quello postmoderno e altermoderno), il concetto parallelo sarebbe la transmodernità. Questo tipo di argomentazione è già presente tra gli intellettuali islamici. Essendo parte del sistema del mondo moderno e pienamente radicato nella modernità europea, il futuro globale risiede nel lavorare per il rifiuto della modernità e della ragione genocida e nell’appropriazione dei suoi ideali emancipatori13. Allo stesso modo, vengono avanzate rivendicazioni nei confronti dei sempre più frequenti riferimenti al “cosmopolitismo decoloniale”. Mentre il cosmopolitismo di Kant era eurocentrico e imperiale, il cosmopolitismo decoloniale diventa critico nei confronti sia dell’eredità imperiale di Kant sia del capitalismo policentrico, in nome della de-occidentalizzazione14. Per queste ragioni, la transmodernità sarebbe una descrizione più appropriata dei futuri immaginati da prospettive decoloniali15.


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17 Si veda F. Jameson, A Singular Modernity. Essays on the Ontology of the Present, London, Verso, 2002. 18 Per esempio, in Africa, K. Gyekye: Tradition and Modernity. Philosophical Reflections on the African Experience, New York: Oxford University Press, 1997; in Iran, Iran: Between Modernity and Tradition, a cura di R. Jahanbegloo, Laham (MD), Lexigton Books, 2004; in India, A. Nandy, Talking India. Ashis Nandy in Conversation with Ramin Jahangegloo, New York, Oxford University Press, 2006. In Sudamerica, dove l’intellighenzia è fondamentalmente di origine europea (contrariamente all’Africa, all’Iran o all’India, dove l’intellighenzia è fondamentalmente “nativa”, cioè non di origine europea), la tendenza è più per la modernità che per la tradizione, poiché la “tradizione” per questa etno-classe è fondamentalmente la tradizione europea. Cosa che non avviene per gli africani, gli iraniani o gli indiani.

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19 Si veda M. Tlostanova, The Janus­Faced Empire Distorting Orientalist Discourses. Gender, Race and Religion in the Russian/(post) Soviet Construction of the Orient, in WKO, primavera 2008; L. Heretz, Russia on the Eve of Modernity. Popular Religion and Traditional Culture under the Last Tsars, Cambridge, Cambridge University Press, 2007; E. Ivakhnenko, A Threshold­Dominant Model of the Imperial and Colonial Discourses of Russia, in South Atlantic Quarterly, 105, 3, 2006, pp. 595-616. 20 S. Baruah, India and Cina: Debating Modernity, in World Policy Journal, 23, 4, 2006-2007, p. 62.

portando all’espansione imperiale/coloniale occidentale. La retorica della novità fu accompagnata dall’idea di “progresso”. Salvezza, novità e progresso assunsero una nuova piega – e un nuovo vocabolario – nel secondo dopoguerra, quando gli Stati Uniti presero il posto della precedente leadership di Inghilterra e Francia, sostennero la lotta per la decolonizzazione in Africa e Asia e avviarono un progetto economico globale sotto il nome di “sviluppo e modernizzazione”. Oggi conosciamo le conseguenze della salvezza attraverso lo sviluppo. La nuova versione di questa retorica, “globalizzazione e libero scambio”, è controversa. Da una prospettiva decoloniale, quindi, queste quattro fasi e versioni della salvezza e della novità coesistono oggi in accumulo diacronico, anche se dalla prospettiva (post)moderna e dalla narrazione autocostruita della modernità, basata sulla celebrazione della salvezza e della novità, ogni fase sostituisce e rende obsoleta la precedente: si basa sulla novità e sulla tradizione della modernità stessa. 3. La retorica della modernità (salvezza, novità, progresso, sviluppo) è andata di pari passo con la logica della colonialità. In alcuni casi, attraverso la colonizzazione, in altri casi, come in Cina, attraverso manipolazioni diplomatiche e commerciali, dalla guerra dell’oppio a Mao Zedong. Il periodo della globalizzazione neoliberista (da Ronald Reagan e Margaret Thatcher al crollo dell’amministrazione di George W. Bush con il fallimento in Iraq e a Wall Street) esemplifica la logica della colonizzazione portata all’estremo: all’estremo di rivelarsi nel suo stesso spettacolare fallimento. Il fallimento economico di Wall Street, unito al fallimento in Iraq, ha aperto le porte all’ordine mondiale policentrico. In sintesi, modernità/colonialità sono due facce della stessa medaglia. La colonialità è parte integrante della modernità; non c’è, né può esserci, modernità senza colonialità. La postmodernità e l’altermodernità non se ne liberano. Presentano solo una nuova maschera che, intenzionalmente o meno, continua a nasconderla.

V. Poiché l’idea di modernità è stata costruita come esclusivamente europea e, in base a tale argomentazione, non c’è stata, e non c’è, che una “singola” modernità17, ciò ha generato una serie di ultimi arrivati e aspiranti (ad esempio, modernità alternative, periferiche, subalterne, altermoderne). Tutto ciò riproduce la tormentata questione di “modernità e tradizione”, sulla quale non si riscontra un gran dibattito tra gli intellettuali euro-americani. Proprio per questo motivo, gli scambi su “modernità e tradizione” hanno occupato, e occupano tuttora, soprattutto gli intellettuali del mondo extraeuropeo (e statunitense)18. Fondamentalmente, i problemi e le preoccupazioni riguardanti la modernità e la tradizione sono enunciati da, o in relazione a, l’ex Terzo Mondo e dalla storia dei Paesi extraeuropei, come ad esempio il Giappone, dove la modernità è stata ed è un tema ampiamente esplorato e dibattuto. Harry Harootunian l’ha trattato in dettaglio nel suo libro Overcome by Modernity. History, Culture and Community in Interwar Japan (2000); in Russia, la modernità ha rappresentato un problema fin dai tempi di Pietro e Caterina la Grande, che vollero salire sul carro della modernità europea, ma era troppo tardi e finirono per riprodurre, in Russia, una sorta di modernità di seconda classe19. Cina e India non ne sono esenti. Ho citato gli argomenti di de-occidentalizzazione avanzati in Asia orientale e sudorientale. Sanjib Baruah ha recentemente riassunto il dibattito sulla modernità in “India e Cina”. In una sezione dal titolo rivelatore, “impegnare il moderno”, Baruah osserva che l’India, nonostante il suo recente volto imprenditoriale, è – seguendo l’insegnamento del Mahatma Gandhi – patria di una forte opposizione intellettuale alle idee di sviluppo e modernizzazione20. La sua analisi indica scenari conflittuali


24 P. Chatterjee, Talking About Modernity in Two Languages, in A Possible India. Essays in Political Criticism, New Delhi, Oxford India, 1998, pp. 263-285.

In Inghilterra, Anthony Giddens conclude la propria argomentazione nel suo celebre libro The Consequences of Modernity (1990) chiedendosi: “La modernità è un progetto occidentale?”. Egli vede lo Stato-nazione e la produzione capitalistica sistematica come l’ancora europea della modernità. Vale a dire, il controllo dell’autorità e il controllo dell’economia fondati sulla base storica dell’Europa imperiale. In questo senso, la risposta alla sua domanda è “un chiaro sì”23. Quello che dice Giddens è vero. Allora, qual è il problema? Il problema è che è vero a metà: è vero nella storia raccontata da chi abita, comodamente si dovrebbe pensare, nella casa della “modernità”. Se accettiamo che la “modernità” è un progetto occidentale, allora prendiamoci la responsabilità della “colonialità” (il lato oscuro e costitutivo della modernità): i crimini e la violenza giustificati in nome della modernità. La “colonialità”, in altre parole, è una delle più tragiche “conseguenze della modernità” e allo stesso tempo la più promettente, in quanto ha generato la marcia globale verso la decolonizzazione.

VI. Se si abita nella storia dell’India britannica, più che in quella della Gran Bretagna, il mondo non appare lo stesso. In Gran Bretagna si può vedere attraverso le lenti di Giddens; in India probabilmente attraverso quelle di Gandhi. Fareste una scelta o operereste con l’innegabile coesistenza conflittuale di entrambi? Lo storico e teorico politico indiano Partha Chatterjee ha affrontato il problema della “modernità in due lingue”. Il saggio, incluso nel suo libro A Possible India (1998), è la versione inglese di una conferenza tenuta in bengalese e presentata a Calcutta24. La versione inglese non è solo una traduzione, ma anche una riflessione teorica sulla geopolitica della conoscenza e sul delinking epistemologico e politico. In modo deciso e senza riserve, Chatterjee ha impostato il suo intervento sulla distinzione tra la “nostra modernità” e la “loro modernità”. Piuttosto che un’unica modernità difesa dagli intellettuali postmoderni del “Primo Mondo”, Chatterjee posa un solido pilastro per costruire il futuro della “nostra” modernità – non indipendente dalla “loro modernità” (perché l’espansione occidentale è un dato di fatto), ma caparbiamente e audacemente “nostra”. È uno dei punti di forza del ragionamento di Chatterjee. Ma ricordiamo, innanzitutto, che gli inglesi sono penetrati in India, commercialmente, verso la fine del Settecento e, politicamente, nella prima metà dell’Ottocento, quando Inghilterra e Francia, dopo Napoleone, hanno allungato i loro tentacoli in Asia e in Africa. Quindi per Chatterjee, in contraddizione con gli intellettuali sudamericani e caraibici, “modernità” significa Illuminismo e non Rinascimento. Non

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23 A. Giddens, Le conseguenze della modernità, trad. di M. Guani, Bologna, Il Mulino, 1994, (ed. orig. The Consequences of Modernity, California, Stanford University Press, 1990, p. 174).

I critici della modernità godono di un certo prestigio intellettuale in India (anche se ciò non va confuso con un’effettiva adesione alle loro idee). L’India è la patria di una sofisticata opposizione intellettuale e attivista alle idee mainstream sullo sviluppo e la modernizzazione. Come sottolinea lo storico della Cina Prasenjit Duara, in India le narrazioni contro la modernità hanno ‘pressoché la stessa visibilità della narrazione del progresso’. In un’ottica comparativa, la ‘generale accettabilità e il prestigio’ delle idee antimoderne di Gandhi in India sono notevoli, anche se nella pratica i politici ignorano le sue idee22.

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22 S. Baruah, India and Cina, cit., p. 63.

che mettono a confronto le argomentazioni in difesa della “volontà di diventare moderni e di svilupparsi” con quelle che si impegnano in critiche radicali della modernità e dello sviluppo21. Lo scenario è comune in Africa e in Sud America. Ma in questo scenario generale, la vera posta in gioco della modernizzazione è lo sviluppo economico. Scrive Baruah:

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21 La “modernizzazione” dal 1945 si traduce in “sviluppo”, fondendo cioè lo spirito di un periodo storico con i disegni economici imperiali. L’argomentazione è stata avanzata più volte. Ad esempio, A. Escobar, Encountering Development. The Making and Unmaking of the Third World, Princeton, Princeton University Press, 1994; per l’area mediterranea, si veda E.H. Shohat, The Narrative of the Nation and the Discourse of Modernization. The Case of Arab­Jews in Israel, 1998 (http://www.worldbank.org).


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25 Ivi, pp. 273-274. 26 Ivi, p. 275.

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27 Ibidem.

a caso Chatterjee prende il “Che cos’è l’Illuminismo” di Immanuel Kant come pilastro della fondazione dell’idea europea di modernità. Per Kant, l’Illuminismo significava che l’uomo (nel senso di essere umano) stava diventando adulto, abbandonando la sua immaturità, raggiungendo la sua libertà. Chatterjee fa notare il silenzio di Kant (intenzionale o meno) e la miopia di Michel Foucault nel leggere i saggi di Kant. Nella celebrazione della libertà e della maturità di Kant e in quella di Foucault manca il fatto che il concetto di uomo e di umanità di Kant si basa sull’idea europea di umanità dal Rinascimento all’Illuminismo e non sui “minori” che popolavano il mondo oltre il cuore dell’Europa. Quindi, l’“illuminismo” non era per tutti, a meno che non diventassero “moderni” secondo l’idea europea di modernità. Un punto della perspicace interpretazione che Chatterjee fa di Kant-Foucault è rilevante per l’aspetto che intendo qui sviluppare. Seguendo l’argomentazione di Chatterjee, suppongo che a Kant e a Foucault mancasse l’esperienza coloniale e il relativo interesse politico stimolato dalla ferita coloniale. Non che dovessero averla. Però, stando così le cose, la loro visione non può essere universalizzata. Se si è nati, si è stati educati e la propria soggettività si è formata in Germania e in Francia, la concezione del mondo e dei sentimenti sarà diversa da quella di chi è nato e cresciuto nell’India britannica. Così Chatterjee può affermare che “noi – in India – abbiamo costruito un’intricata struttura differenziata di autorità che specifica chi ha il diritto di dire cosa su quali argomenti”25. In Talking About Modernity in Two Languages Chatterjee ci ricorda che il “Terzo Mondo” è stato principalmente “consumatore” di studi e conoscenze del Primo Mondo: In qualche modo, fin dall’inizio, avevamo intuito che, data la stretta complicità tra la conoscenza moderna e i moderni regimi di potere, saremmo rimasti per sempre consumatori della modernità universale; non saremmo mai stati presi come seri produttori26. Chatterjee conclude che è per questo motivo che “abbiamo cercato, per oltre cento anni, di distogliere lo sguardo da questa chimera della modernità universale e di liberare uno spazio in cui potessimo diventare i creatori della nostra modernità”27. Immagino si sia compreso il punto. L’altro (l’anthropos) ha deciso di disobbedire: una disobbedienza epistemica e politica che consiste nell’appropriazione della modernità europea pur abitando nella casa della colonizzazione.

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28 Non sorprende quindi trovare oggi una crescente preoccupazione e un certo numero di studiosi che lavorano sulla decolonizzazione del diritto internazionale: Decolonizing International Relations, a cura di B. Gruffydd Jones, Boulder/ New York, Lanham, MD, Roman & Littlefield, 2006. 29 Per la differenza ontologica ed epistemica, si veda N. MaldonadoTorres, On the Coloniality of Being: Contributions to the Development of a Concept, in Cultural Studies, 21, 2-3, 2007, pp. 240-270.

VII. Non è comune pensare al diritto internazionale come legato alla costruzione della “modernità”. In questa sezione sosterrò che il diritto internazionale (più esattamente la teologia giuridica) ha contribuito nel XVI secolo alla creazione – creazione pretesa dalla “scoperta” dell’America – delle differenze razziali così come le percepiamo oggi. Che cosa fare, si chiesero i teologi legali spagnoli, con gli “indiani” (nell’immaginario spagnolo) e, più concretamente, con la loro terra? Il diritto internazionale era fondato su presupposti razziali: gli “indiani” dovevano essere concepiti, se umani, come non del tutto razionali, sebbene pronti alla conversione28. La “modernità” rivelava il suo volto nei presupposti epistemici e nelle argomentazioni della teologia giuridica per decidere e determinare chi fosse che cosa. Allo stesso tempo, il volto della “colonialità” era mascherato sotto lo status di inferiorità dell’inferiore inventato. Ecco un chiaro caso di colonialità come lato oscuro necessario e costitutivo della modernità. La modernità/colonialità si articola qui sulle differenze ontologiche ed epistemiche: gli indiani sono, ontologicamente, esseri umani inferiori e, di conseguenza, non pienamente razionali29.


33 Un esempio in tal senso si trova in I. Kant, Osservazioni sul sentimento del bello e del sublime, trad. di L. Novati, Milano, Rizzoli, 1989 (in particolare la sezione IV). 34 A. Anghie, Francisco de Vitoria and the Colonial Origins of International Law, in Laws of the Post­colonial, a cura di E. Darian-Smith, P. Fitzpatrick, Ann Arbor, University of Michigan Press, 1999, pp. 89-108. 35 Una storia decoloniale del diritto internazionale si trova in S. N’Zatioula Grovogui, Sovereigns, Quasi Sovereigns, and Africans, Minneapolis, University of Minnesota Press, 1996.

VII.1. Francisco de Vitoria è giustamente celebrato, soprattutto tra gli studiosi spagnoli ed europei, per essere uno dei padri del diritto internazionale. Il suo trattato, Relectio de Indis, è ritenuto un caposaldo nella storia della disciplina. Al centro dell’argomentazione di Vitoria vi era la questione dello ius gentium (diritti delle genti o diritti delle nazioni). Lo ius gentium permetteva a Vitoria di mettere sullo stesso piano di umanità sia gli spagnoli sia gli indiani. Non si accorse che, raggruppando Quechua, Aymara, Nahuatl, Maya, ecc. sotto l’etichetta “indiani”, stava già entrando in una classificazione razziale. Non gli fu quindi difficile procedere agevolmente al passo successivo della sua argomentazione: pur essendo uguali agli spagnoli nell’ambito dello ius gentium, Vitoria concludeva (oppure già lo sapeva e poi lo ha argomentato) che gli indiani erano come bambini e necessitavano della guida e della protezione degli spagnoli. In quel momento Vitoria inseriva la differenza coloniale (ontologica ed epistemica) nel diritto internazionale. La differenza coloniale opera convertendo le differenze in valori e stabilendo una gerarchia ontologica ed epistemica degli esseri umani. Ontologicamente, si presume che esistano esseri umani inferiori. Dal punto di vista epistemico, si presume che gli esseri umani inferiori siano razionali ed esteticamente carenti33. Lo studioso di diritto Anthony Anghie ha fornito un’acuta analisi del momento storico fondante della differenza coloniale34. In poche parole, il ragionamento è il seguente: indiani e spagnoli sono uguali di fronte al diritto naturale poiché entrambi, per legge naturale, sono dotati di ius gentium. Con questa mossa, Vitoria impedì al papa e alla legge divina di legiferare su questioni umane. Tuttavia, una volta stabilita la distinzione tra i “principes Christianos” (e i castigliani in generale) e “los bárbaros” (ad esempio, l’anthropos), e dopo aver fatto del suo meglio per bilanciare le sue argomentazioni sulla base dell’uguaglianza attribuita a entrambi i popoli dalla legge naturale e dallo ius gentium, Vitoria passa a giustificare i diritti e i limiti che gli spagnoli avevano, o meno, nei confronti dei “barbari” di espropriare, dichiarare guerra e governare. La comunicazione e l’interazione tra cristiani e barbari sono unilaterali: i barbari non hanno voce in capitolo è quanto affermato da Vitoria, perché i barbari sono stati privati della sovranità anche quando riconosciuti uguali per diritto naturale e ius gentium. La mossa è fondamentale per la costituzione giuridica e filosofica della modernità/colonialità e il principio del

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Al contrario, i musei sono stati considerati parte integrante nella costruzione della modernità30. Tuttavia, non sono state poste domande sui musei (come istituzioni) e sulla colonialità (come logica nascosta della modernità). Si dà per scontato che i musei siano “naturalmente” parte dell’immaginario e della creatività europea. Nel paragrafo VII.1 cerco di portare alla luce la colonialità del diritto internazionale che regola le relazioni internazionali e nel paragrafo VII.2 affronto la questione dei musei e della colonialità. I musei, come li conosciamo oggi, non esistevano prima del 1500. Sono stati costruiti e trasformati da un lato per essere le istituzioni in cui la memoria occidentale viene onorata ed esposta, in cui la modernità europea conserva la sua tradizione (la colonizzazione del tempo) e, dall’altro, per essere le istituzioni in cui viene riconosciuta la differenza delle tradizioni non europee31. La questione aperta è quindi come decolonizzare i musei e come usare i musei per decolonizzare la riproduzione della colonizzazione occidentale del tempo e dello spazio32.

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30 Penso certamente a T. Bennett, The Birth of the Museum. History, Theory, Politics, London, Routledge, 1995, pp. 60 e sgg., ma anche a studi più specifici come N. Prior, Museums and Modernity, Art Galleries and the Making of Modern Culture, Oxford, Berg Publisher, 2002, e G. Weiss, Sinnstiftung in der Provinz: Westfälische Museen im Kaiserreich, Paderborn, Ferdinand Schöning Verlag, 2005; e la recensione di E. Giloi per H­German, giugno 2007 (https:// www.h-net.org). 31 W.D. Mignolo, Museums in the Colonial Horizon of Modernity, in CIMAM Annual Conference, São Paulo, novembre 2005, pp. 66-77, (http://www.cimam.org). 32 Due esempi di uso decoloniale delle installazioni museali sono Mining the Museum di Fred Wilson (http:// www.citypaper.com) e Pedro Lasch, Black Mirror/Espejo Negro (http:// www.ambriente.com).


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36 A. Anghie, Francisco de Vitoria, cit., p. 102 (corsivo aggiunto). 37 L’analisi di Franz Hinkelammert sull’inversione dei diritti umani di Locke è molto utile per comprendere la doppia faccia/ doppia densità di “modernità/ colonialità” e come la retorica della modernità continui a cancellare la colonialità. Si veda il suo The Hidden Logic of Modernity. Locke’s Inversion of Human Rights, in Worlds and Knowledges Otherwise, 1, 1, 2004, pp. 1-27. 38 È certamente molto significativo che uno studioso giapponese, Nishitan Osanu, abbia sostenuto in modo convincente che “anthropos” e “humanitas” sono due concetti occidentali. Infatti, essi producono l’effetto di realtà in cui gli ideali moderni di “humanitas” non possono esistere senza l’invenzione moderna/coloniale di “anthropos”. Si pensi, ad esempio, al dibattito sull’immigrazione in Europa. Ecco la modernità/colonialità al suo meglio. Si veda N. Osamu, Anthropos and Humanitas. Two Western Concepts, in Translation, Biopolitics, Colonial Difference, a cura di N. Sakai, J. Solomon, Hong Kong, Hong Kong University Press, 2006, pp. 259-274. 39 A. Anghie, Francisco de Vitoria, cit., p. 103 (corsivo aggiunto).

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40 Si veda la convincente argomentazione, su questo tema, di D. Preziosi, Brain of the Earth’s Body: Museums and the Framing of Modernity, in Museum Studies. An Anthology of Contexts, a cura di B. Messias Carbonell, London, Blackwell, 2004, pp. 71-84.

ragionamento si manterrà nei secoli, modificato nel vocabolario, da barbari a primitivi, da primitivi a comunisti, da comunisti a terroristi35. Così orbis christianius, cosmopolitismo laico e globalismo economico sono nomi che corrispondono a diversi momenti dell’ordine di potere coloniale e a distinte leadership imperiali (dalla Spagna all’Inghilterra, agli Stati Uniti). Anghie ha espresso tre punti importanti su Vitoria e sulle origini storiche del diritto internazionale che chiariscono il legame tra modernità e colonialità e il modo in cui la salvezza giustifica l’oppressione e la violenza. Il primo è che “Vitoria si occupa non tanto del problema dell’ordine tra Stati sovrani, quanto del problema dell’ordine tra società appartenenti a due sistemi culturali diversi”36. Il secondo è che il quadro esiste per regolarne la violazione. E quando la violazione si verifica, i suoi creatori ed esecutori erano giustificati nell’invadere e usare la forza per punire ed espropriare il violatore. È una logica magnificamente riproposta da John Locke nel suo Secondo trattato sul governo (1681). Si può dire che la “colonialità”, in Vitoria, ha posto le basi non solo per il diritto internazionale, ma anche per le concezioni “moderne ed europee” della governabilità. Appare evidente che Locke non attinse tanto da Machiavelli quanto dalla nascita del diritto internazionale nel XVI secolo, e dal modo in cui Vitoria e i suoi seguaci stabilirono di discutere sia la questione della “proprietà” sia quella della “governance” nell’interazione tra cristiani e barbari37. Il terzo è che il “quadro” non è dettato dalla legge divina o naturale, ma dagli interessi umani e, in questo caso, dagli interessi dei maschi cristiani castigliani. Pertanto, il “quadro” presuppone un luogo di enunciazione molto ben localizzato e singolare che, tutelato dalla legge divina e naturale, si presume universale. E d’altro canto, il quadro universale e unilaterale “include” i barbari o gli indiani (principio valido per tutte le politiche di inclusione di cui oggi sentiamo parlare) nella loro differenza, giustificando così qualsiasi azione intrapresa dai cristiani per domarli. La costruzione della differenza coloniale va di pari passo con l’istituzione dell’esteriorità: l’esteriorità è il luogo in cui si inventa l’esterno (l’anthropos) nel processo di creazione dell’interno (l’humanitas) per garantire lo spazio sicuro in cui l’enunciatore dimora38. È chiaro, quindi, che il lavoro di Vitoria suggerisce che la visione convenzionale secondo cui la dottrina della sovranità è stata sviluppata in Occidente e poi trasferita al mondo extraeuropeo è, sotto importanti aspetti, fuorviante. La dottrina della sovranità ha acquisito il suo carattere attraverso l’incontro coloniale. Questa è la storia più oscura della sovranità, che non può essere compresa da nessuna interpretazione della dottrina che presupponga l’esistenza di Stati sovrani. In breve, se la modernità è un’invenzione occidentale (come afferma Giddens), lo è anche la colonialità. Sembra pertanto molto difficile superare la colonialità da una prospettiva moderna occidentale. Le argomentazioni decoloniali premono su questo punto cieco sia nelle argomentazioni orientate a destra sia in quelle orientate a sinistra39.

VII.2. Nel contesto attuale, i “musei” come li conosciamo oggi (e le loro forme precedenti: Wunderkammer, Kunstkammer) sono stati strumentali nel plasmare le soggettività moderne/coloniali, dividendo le Kunstkammer in “musei delle arti” e “musei di storia naturale”40. Inizialmente, la Kunstkammer di Pietro il Grande fu istituita verso il 1720, mentre il British Museum (fondato come Cabinet of Curiosity) fu creato più tardi (verso il 1750). Tuttavia, l’istituzione della Kunstkammer in Occidente divenne il luogo di raccolta delle curiosità portate dalle colonie europee, il più


VIII. CONCLUSIONI Spero di aver contribuito alla comprensione di come si sia strutturata la logica della colonialità nel corso del XVI e del XVII secolo; a comprendere come essa sia passata di mano, si sia trasformata e adattata alle nuove circostanze, pur mantenendo le sfere (e le interrelazioni) in cui si è giocata la gestione e il controllo dell’autorità, dell’economia, delle persone (soggettività, genere, sessualità) e del sapere nella costruzione dell’ordine mondiale monocentrico dal 1500 al 2000; e come tale ordine si stia trasformando in uno policentrico. Che cos’è dunque esattamente la matrice coloniale del potere/colonialità? Immaginiamola a due livelli semiotici: il livello dell’enunciato e il livello dell’enunciazione. A livello dell’enunciato, la matrice coloniale opera su quattro domini interrelati: interrelati nel senso specifico che un singolo dominio non può essere correttamente compreso indipendentemente dagli altri tre. Si tratta della giunzione tra le concettualizzazioni del capitalismo (liberista o marxista) e la concettualizzazione della matrice coloniale, che implica una concettualizzazione decoloniale. I quattro domini in questione, brevemente descritti, sono (e ricordiamo che ognuno di questi domini è mascherato da una costante e mutevole retorica della modernità (cioè quella della salvezza, del progresso, dello sviluppo, della felicità):

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delle volte tramite saccheggi. La storia dell’edificio del Louvre risale al Medioevo, ma il museo è nato dopo la Rivoluzione francese. O g g i è g i à i n i z i ato u n p ro c e s s o d i de-occidentalizzazione. Processo di cui fanno parte le centinaia di musei che si stanno costruendo in Cina. La de-occidentalizzazione è un processo parallelo alla decolonialità a livello di stato e di economia. Kishore Mahbubani, citato in precedenza, è una delle voci più coerenti della de-occidentalizzazione e dello spostamento politico, economico ed epistemico verso l’Asia41. Ci si può chiedere, quindi, data questa mostra intitolata Modernologies, qual è il posto dei musei e dell’arte, in generale, nella retorica della modernità e nella matrice coloniale del potere? Come possono i musei diventare luoghi di decolonizzazione della conoscenza e dell’essere o, al contrario, come possono rimanere istituzioni e strumenti di controllo, regolamentazione e riproduzione della colonizzazione?42 Ponendo queste domande, entriamo nel territorio puro e semplice della conoscenza, del significato e della soggettività. Se il diritto internazionale ha legalizzato l’appropriazione economica di terre, risorse naturali e manodopera non europea (di cui l’“esternalizzazione” oggi dimostra l’indipendenza del settore economico dalle argomentazioni patriottiche o nazionaliste degli Stati “sviluppati”) e ha garantito l’accumulazione di denaro, le università e i musei (e ultimamente i media mainstream) hanno garantito l’accumulazione di significato. La complementarità tra accumulazione di denaro e accumulazione di significato (quindi la retorica della modernità come salvezza e progresso) sostiene le narrazioni della modernità. Mentre la colonialità è la conseguenza inevitabile del “progetto incompiuto della modernità” (come direbbe Jürgen Habermas) – poiché la colonialità è costitutiva della modernità – la decolonialità (nel senso di progetti decoloniali globali) diventa l’opzione globale e l’orizzonte della liberazione. L’orizzonte di tale liberazione è un mondo transmoderno, non capitalista, non più mappato dalla “pensée unique”, adattando l’espressione di Ignacio Ramonet, né da destra né da sinistra: la colonialità ha generato la decolonialità.

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41 Si veda K. Mahbubani, The New Asian Hemisphere, cit., nota 9, e anche le sue provocatorie argomentazioni dal titolo Can Asians Think? (http://dir.salon.com). 42 Ad esempio, Modernity in Central Europe, 1918­1945 (Washington D.C., National Gallery of Art, 10 giugno – 10 settembre 2007) è una di quelle mostre che “valorizza” l’Europa occidentale abbracciando la modernità.


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1) gestione e controllo delle soggettività (per esempio, l’educazione cristiana e laica, ieri e oggi, i musei e le università, i media e la pubblicità oggi, ecc.); 2) gestione e controllo dell’autorità (per esempio, i vicereami nelle Americhe, l’autorità britannica in India, l’esercito statunitense, il Politbureau in Unione Sovietica, ecc.); 3) gestione e controllo dell’economia (ad esempio, attraverso il reinvestimento del surplus generato dall’appropriazione massiccia di terre in America e in Africa, lo sfruttamento massiccio della manodopera a partire dalla tratta degli schiavi, l’indebitamento estero attraverso la creazione di istituzioni economiche come la Banca Mondiale e il Fondo Monetario Internazionale, ecc.); 4) gestione e controllo del sapere (ad esempio, la teologia e l’invenzione del diritto internazionale che ha istituito un ordine geopolitico del sapere fondato su principi epistemici ed estetici europei che hanno legittimato la squalifica nel corso dei secoli dei saperi e degli standard estetici extraeuropei, dal Rinascimento all’Illuminismo e dall’Illuminismo alla globalizzazione neoliberista, la filosofia). I quattro domini (gli enunciati) sono tutti e costantemente interconnessi e tenuti insieme dalle due ancore dell’enunciazione. Chi sono stati e chi sono gli agenti e le istituzioni che hanno generato e continuano a riprodurre la retorica della modernità e la logica della colonialità? Si dà il caso che, in generale, gli agenti (e le istituzioni) che hanno creato e gestito la logica della colonialità fossero europei occidentali, per lo più uomini che, se non tutti eterosessuali, perlomeno davano per scontata l’eterosessualità come norma di condotta sessuale. Ed erano – in generale – per lo più bianchi e cristiani (cattolici o protestanti). L’enunciazione della matrice coloniale si fondava quindi su due pilastri incarnati e geo-storicamente collocati: il seme della successiva classificazione razziale della popolazione del pianeta e la superiorità degli uomini bianchi sugli uomini di colore, ma anche sulle donne bianche. L’organizzazione razziale e patriarcale di fondo del processo di creazione della conoscenza (l’enunciazione) mette insieme e mantiene la matrice coloniale del potere, che ogni giorno diventa meno visibile a causa della perdita della visione olistica promossa dall’enfasi moderna sulla competenza e sulla divisione e suddivisione del lavoro e della conoscenza scientifica. I futuri globali devono essere immaginati e costruiti attraverso opzioni decoloniali, cioè lavorando globalmente e collettivamente per decolonizzare la matrice coloniale del potere, per fermare i castelli di sabbia costruiti dalla modernità e dai suoi derivati. I musei possono davvero svolgere un ruolo cruciale nella costruzione di futuri decoloniali.


COURTS VOYAGES AU PAYS DU PEUPLE, PARIGI, LE SEUIL, 1990.

Lo straniero... persiste nella curiosità del proprio sguardo, sposta l’angolazione, rielabora l’originale montaggio di parole e immagini e, scardinando le certezze del luogo, risveglia il potere presente in ognuno di diventare straniero nella mappa dei luoghi e dei percorsi generalmente conosciuti come realtà.

JACQUES RANCIÈRE



QUEER, IN “TSQ. TRANSGENDER STUDIES QUARTERLY”, 1, NN. 1-2, MAGGIO 2014.

La parola “queer”, con le sue valenze di strano, bizzarro e sconcertante, doveva anche indicare una serie di pratiche sessuali non normate e di identificazioni di genere oltre a quella gay e lesbica. Proponendo un modello di coalizione tra gli emarginati e gli esclusi, il queer, nella sua forma più ampia, era immaginato come un grido d’allarme contro “i regimi del normale” (Michael Warner), pronto ad affrontare “le complessità frattali del linguaggio, della pelle, della migrazione, dello Stato” (Eve Kosofsky Sedgwick).

HEATHER LOVE



ON BEING A REFUGEE, AN AMERICAN—AND A HUMAN BEING, IN FINANCIAL TIMES, 3 FEBBRAIO 2017.

I rifugiati sono l’incarnazione vivente di un’inquietante possibilità: che i privilegi umani siano piuttosto fragili, che la propria casa, la propria famiglia e la propria nazione possano essere distrutte dalla prossima catastrofe.

VIET THANH NGUYEN






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Pacita Abad

Haitians Waiting At Guantanamo Bay, 1994 Olio, stoffa dipinta, bottoni e perline su tela cucita e imbottita, 231,1 × 177,8 cm. Courtesy Pacita Abad Art Estate.

BASCO, FILIPPINE, 1946 – 2004, SINGAPORE

L’opera di Pacita Abad si caratterizza per l’uso esuberante del colore e per l’ampia gamma di tecniche e materiali, influenzata e ispirata dai contatti avuti con persone e culture nel corso dei suoi viaggi. Nata in una famiglia molto impegnata politicamente, Abad lascia le Filippine per trasferirsi in Spagna nel 1970, dove studia diritto dell’immigrazione. Una tappa a San Francisco si trasforma in un soggiorno permanente, quando entra in contatto con la cultura alternativa della città e con la crescente popolazione di immigrati. Gli eventi di questo periodo, tra cui il suo avvicinamento all’arte e l’incontro con il marito, finiscono per dare il via all’inevitabile carriera artistica di Abad. Intraprende una prolifica attività che, secondo il critico Tausif Noor, “aggira le gerarchie tra artigianato e cultura artistica di alto profilo e scardina le nozioni ricevute in materia di dimensione locale, nazionale e globale, perseguendo [...] un vibrante eclettismo che spesso è in contrasto con i movimenti artistici dominanti del suo tempo”.

Insieme al marito, un economista per lo sviluppo il cui lavoro richiede frequenti spostamenti, Abad vive in undici paesi e ha al suo attivo viaggi in sessantadue nazioni. Il suo interesse per l’esperienza degli immigrati ispira una serie che utilizza la tecnica pittorica del trapunto. Haitians Waiting At Guantanamo Bay (1994) raffigura l’attesa speranzosa dietro il filo spinato di migranti che si lasciano alle spalle gli scafi vuoti e una città caratterizzata da cieli soleggiati e palme. In questo periodo, Abad realizza anche Contemplating Flor (1995) e Filipinas in Hong Kong (1995). You Have to Blend In Before You Stand Out (1995) è una grande opera a trapunto raffigurante una donna abbigliata con un sarong, abbinato a un cappellino da baseball degli Yankees e a una maglia da basket dei Bulls, intesa a descrivere la lotta interiore degli immigrati e delle loro famiglie per integrarsi in una nuova società. La stessa Abad è diventata cittadina statunitense ventiquattro anni dopo il suo arrivo negli Stati Uniti. L’opera di Pacita Abad è esposta per la prima volta alla Biennale Arte. —Joselina Cruz

BIENNALE ARTE 2024


You Have to Blend In Before You Stand Out, 1995 Olio, stoffa dipinta, lustrini, bottoni su tela cucita e imbottita, 294,6 × 297,2 cm. Courtesy Pacita Abad Art Estate.

STRANIERI OVUNQUE

Filipinas in Hong Kong, 1995 Acrilico su tela cucita e imbottita, 270 × 300 cm. Collezione Art Jameel. Courtesy Pacita Abad Art Estate.


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Claudia Alarcón & Silät

Claudia Alarcón è un’artista tessile della comunità del popolo wichí di La Puntana, a nord di Salta, in Argentina. Lavora sia a livello individuale, sia in collaborazione con Silät, un collettivo che comprende un centinaio di tessitrici di diverse generazioni delle comunità wichí di Alto la Sierra e La Puntana. Il nome Silät viene dalla lingua lhämtes dei Wichí e significa “messaggio” o “avvertimento”, e riflette così il valore attribuito dai Wichí alla comunicazione non verbale e all’intuizione subcosciente, oltre al ruolo dei manufatti tessili nel trasmettere messaggi e un sentimento culturale condiviso. Il collettivo nasce nel 2015 dall’organizzazione Thañí/Viene del monte, un progetto pubblico finalizzato a far rivivere e progredire le tradizioni tessili ancestrali.

Alarcón offre a donne di varie generazioni un modo di tramandare una cultura indigena contemporanea negli intrecci dei dialoghi artistici internazionali. La sua pratica, sostenuta da nuove prospettive curatoriali, segna un punto di svolta nel sistema artistico contemporaneo, in senso più ricettivo verso le pratiche collettive e di comunità. Alarcón lavora con altri membri di Silät (Anabel Luna, Graciela López, Ana López, Mariela Pérez, Fermina Pérez, Francisca Pérez, Marta Pacheco, Rosilda López, Margarita López, Melania Pereyra, Nelba Mendoza, Tomasa Alonso ed Edith Cruz) per elaborare, filare e tingere le fibre provenienti dalla pianta nativa del chaguar e tesserle nei manufatti esposti

COMUNIDAD LA PUNTANA, SANTA VICTORIA ESTE, ARGENTINA, 1989 VIVE A COMUNIDAD LA PUNTANA

alla Biennale. A partire dalle pratiche tessili ereditate, i tradizionali motivi geometrici si piegano in forme fluide di colore che si riversano nelle opere, animandole. Nel marcare uno stretto legame con l’acqua e con la terra, esse evocano i cicli della natura. Queste opere hanno origine dalle storie sognate e raccontate dagli anziani della comunità, che mettono in guardia sulle relazioni che gli umani creano e rompono con tutti gli esseri viventi. L’opera di Claudia Alarcón, e quelle realizzate in collaborazione con Silät, sono esposte per la prima volta alla Biennale Arte. —María Amalia García

Kates tsinhay [Donna stella], 2023 Fibra di chaguar filata a mano, tinture naturali della foresta nativa, tessuto, punto “yica”, 192 × 203 cm. Photo Eva Herzog. Antonio Murzi & Diana Morgan Collection. Courtesy Cecilia Brunson Projects.


Claudia Alarcón & Silät Chelhchup [Autunno], 2023 Fibra di chaguar filata a mano, tinture naturali e anilina, tessuto, punto “yica”, 187 × 176 cm. Photo Eva Herzog. Courtesy Cecilia Brunson Projects.

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NUCLEO CONTEMPORANEO

Fwokachaj kiotey [Orecchie di armadillo], 2023 Fibra di chaguar filata a mano, tinture naturali della foresta nativa, tessuto, punto antico, 152,5 × 139 cm. Photo Eva Herzog. Courtesy collezione Estrellita B. Brodsky.


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Aloïse

Aloïse Corbaz nasce a Losanna in una famiglia della classe media e sogna di diventare una cantante d’opera; viene però mandata in Germania, dove trova impiego come governante alla corte dell’imperatore Guglielmo II. In base a quanto si dice, nutriva sentimenti appassionati per l’imperatore, che appare come una delle figure maschili archetipiche nel novero dei personaggi che occupano le sue caleidoscopiche immagini intrise di romanticismo e teatralità. Dopo il ritorno in Svizzera all’inizio della Prima guerra mondiale, Aloïse inizia a manifestare un comportamento ritenuto bizzarro dai membri della famiglia. Nel 1918, viene ricoverata in ospedale; due anni dopo è internata nel manicomio di La Rosière, dove rimarrà fino alla morte. Durante il periodo di internamento, inizia a scrivere e a disegnare di nascosto, utilizzando materiali rudimentali come dentifricio, filo ed estratti vegetali, oltre a matite colorate e pastelli a olio. In una lettera inviata al padre all’inizio del suo ricovero, Aloïse scrive: “Avverto un lento e costante decadimento fisico, fanatismo dell’amore folle che ha strappato tutto dal mio corpo”. In risonanza con la concezione surrealista di André Breton della natura infinitamente rivelatrice della passione romantica, il senso di “amore folle” proprio di Aloïse può essere visto come la forza generativa che sottende la sua visione delle dame di corte, degli affascinanti uomini in uniforme e delle figure mitiche, tra cui Cleopatra e Ben-Hur.

BIENNALE ARTE 2024

LOSANNA, SVIZZERA, 1886 – 1964, GIMEL, SVIZZERA

Cloisonné de théâtre (1941– 1951), un’epopea a più pannelli che raffigura una serie di ardenti abbracci in un contesto sfarzoso, è strutturato in “atti”. Come in molte delle sue opere, le figure femminili ammantate di splendore o di una voluttuosa nudità hanno il ruolo di protagoniste. Nel 1936, la sua attività pittorica è portata all’attenzione del suo medico, che a sua volta la segnala a Jean Dubuffet; il lavoro di Aloïse diventa quindi una presenza chiave nella collezione di Dubuffet e della sua teorizzazione dell’Art Brut, ammirata da Breton e da altri esponenti chiave del Surrealismo e del Modernismo del XX secolo. L’opera di Aloïse Corbaz è esposta per la prima volta alla Biennale Arte. —Sybilla Griffin

L’Angleterre – Trône de Dehli, 1960-1963 Disegno con matite colorate, 101 × 72 cm. Photo Atelier de numérisation de la Ville de Lausanne. Collezione Christine et Jean-David Mermod. Courtesy SIK-ISEA, Zurigo.


209 NUCLEO CONTEMPORANEO Cloisonné de théâtre, 1941-1951 Disegno con matite colorate, 14 m. Photo LAM (Lille métropole, musée d’art moderne, d’art contemporain et d’art brut). Collezione Christine e Jean-David Mermod. Courtesy SIK-ISEA, Zurigo.

STRANIERI OVUNQUE

Gloria in excelsis Deo Chanteuse Bornod, 1951-1960 Disegno con matite colorate, 70 × 98 cm. Photo Jean-David Mermod. Collezione Christine et Jean-David Mermod. Courtesy SIK-ISEA, Zurigo.


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Giulia Andreani

Giulia Andreani vive a Parigi da dieci anni. Il suo lavoro rivela e sovverte la storia affrontando questioni legate all’amnesia e generando nuovi strati di significato, interrogando le narrazioni veicolate dagli archivi fotografici, setacciando le pieghe della storia ufficiale per liberarle. Andreani si confronta con i fantasmi di un passato che deve ancora essere narrato, spesso rivelando un approccio femminista che offre una riflessione pregnante sulla posizione della donna nella società, sulla maternità, sul trauma e sulle figure dimenticate della storia politica e artistica. Dipinti principalmente con il grigio di Payne, un colore simile al vecchio inchiostro delle foto dei giornali, e con la tecnica dell’acquerello, spesso associata alle arti minori e raramente utilizzata su tele di grandi dimensioni come quelle di Andreani,

Genitæ Manæ, 2022 Acrilico su tela, 150 × 200 cm. Photo Charles Duprat. Courtesy l’Artista; Galerie Max Hetzler Berlino, Parigi, Londra. © Giulia Andreani.

BIENNALE ARTE 2024

i suoi quadri tentano di resuscitare e rievocare storie intrappolate sotto una coltre commemorativa. Il lavoro di Andreani prende le mosse da un dialogo con l’artista autodidatta Madge Gill. Lavorando sotto l’influenza di Myrninerest, il suo spirito guida, il lavoro di Gill è il risultato delle sue traumatiche esperienze di vita e della sua capacità di essere medianicamente connessa ad altri mondi. Tracciando un collegamento tra la sua storia e la storia dell’accesso delle donne alla pratica artistica, i cinque dipinti e la scultura in vetro di Andreani mettono in risalto il movimento per il suffragio femminile in Gran Bretagna agli inizi del XX secolo. In dialogo con il capolavoro di Gill, Crucifixion of the Soul (1936), l’opera di Andreani trae ispirazione in parte dagli archivi che documentano le donne pioniere dell’epoca e dalla posizione di Gill come donna e artista in quel periodo. Esplorando i

VENEZIA, ITALIA, 1985 VIVE A PARIGI, FRANCIA

possibili legami tra femminismo e spiritualismo come forma di emancipazione e resistenza, Andreani si occupa delle invisibili affinità emotive tra i corpi femminili creativi. L’opera di Giulia Andreani è esposta per la prima volta alla Biennale Arte. —Michela Alessandrini


211 La mariée, 2019 Vetro di Murano e base in legno di pero, 37 × 30 × 30 cm. Photo Marc Domage. Courtesy l’Artista; Galerie Max Hetzler Berlino, Parigi, Londra. © Giulia Andreani.

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La scuola di taglio e cucito, 2023 Acquerello su carta, 140 × 300 cm. Photo Charles Duprat e Dario Lasagni. Courtesy l’Artista; Galerie Max Hetzler Berlino, Parigi, Londra. © Giulia Andreani.


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Claudia Andujar

Claudia Andujar è sopravvissuta al genocidio grazie all’esilio e la sua vita è segnata da un passato di guerra e sterminio. Nata Claudine Hess, si trasferisce con la famiglia in Transilvania fino al ritorno in Svizzera nel 1944 con la madre. Nello stesso anno, il padre e i parenti di origine ebraica sono sterminati nei campi di concentramento. Nel 1955, a ventiquattro anni, emigra in Brasile e si stabilisce a San Paolo, ricongiungendosi con la madre che si era trasferita in precedenza. Non conoscendo il portoghese, l’artista trova il modo di confrontarsi con le abitudini locali e le popolazioni indigene attraverso la fotografia. Il suo primo incontro con gli Yanomami avviene a Catrimani, nello Stato di Roraima, nel 1971. Da quel momento inizia a raccontare la vita nell’urihi a (foresta-terra) e le esperienze rituali dello sciamano con gli xapiri (spiriti). È stata una delle

fondatrici della Commissione Pro-Yanomami, che si batte per la demarcazione delle terre indigene. Il lavoro di Andujar racchiude un repertorio di immagini che vanno ben oltre la fotografia puramente documentaria, evocando, dal punto di vista della cosmovisione indigena, quanto a noi risulta invisibile. Nella serie intitolata A casa (1974), l’artista riprende la vita quotidiana degli Yanomami occupati in faccende domestiche. In una delle fotografie della serie, un bambino appare illuminato dalla luce che, attraverso delle fessure, filtra nell’ambiente buio di uno yano (casa collettiva), trasformandolo in una manifestazione visiva dell’assenza di separazione tra la vita nella foresta e l’incorporeo mondo spirituale degli xapiri. Nella serie O reahu (1974), l’artista documenta un’importante cerimonia funebre. In queste fotografie

NEUCHÂTEL, SVIZZERA, 1931 VIVE A SAN PAOLO, BRASILE

in bianco e nero, i partecipanti appaiono ornati da piumaggi di uccelli, mentre la luce che filtra dalle fessure illumina nuovamente l’ambiente circostante. I punti di luminosità che penetrano negli spazi collettivi di abitazione, lavoro e rituali registrati da Andujar contribuiscono a comporre un ambiente onirico. L’opera di Claudia Andujar è esposta per la prima volta alla Biennale Arte. —André Mesquita

Xirixana Xaxanapi thëri mistura mingau de banana em cocho suspenso, capaz de armazenar até 200 litros de alimento para as festas, Catrimani - da série A casa, 1974 Ingrandimento analogico alla gelatina e argento su carta opaca Ilford Multigrade Classic, con viraggio al selenio, 40 × 60 cm. Courtesy Galeria Vermelho. © Claudia Andujar.


213 Catrimani - da série O reahu, 1974 Ingrandimento analogico alla gelatina e argento su carta opaca Ilford Multigrade Classic, con viraggio al selenio, 40 × 60 cm. Courtesy Galeria Vermelho. © Claudia Andujar.

Yanomami da série Casa, 1974 Ingrandimento analogico alla gelatina e argento su carta opaca Ilford Multigrade Classic, con viraggio al selenio, 40 × 60 cm. Courtesy Galeria Vermelho. © Claudia Andujar.


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Aravani Art Project

Aravani Art Project è un collettivo formato da donne cis e transgender con l’obiettivo di diffondere positività e speranza nelle loro comunità attraverso dipinti murali realizzati su commissione. Il progetto, che riunisce una quarantina di partecipanti fissi, è nato a Bangalore, in India, ma ora ha membri in varie parti del paese. Prende il nome dall’annuale Aravani Festival, in cui esponenti della comunità transgender eseguono rituali religiosi. L’Aravani Art Project inizia ogni progetto con dei disegni per dare corpo alle narrazioni che si intendono creare; questi vengono poi digitalizzati, prima di essere impiegati nei dipinti murali. Di recente il collettivo ha lavorato anche con i tessuti, trasponendo i colori vivaci dei materiali nel linguaggio patchwork che gli è proprio. BIENNALE ARTE 2024

Il dipinto murale commissionato per la Biennale di Venezia mette in relazione le rappresentazioni dei corpi trans e la natura, con un cenno ai processi di transizione, disforia e accettazione che le persone trans sperimentano nel riconoscere la propria identità. Rifiutando le costruzioni di genere, il lavoro mette in discussione le norme dominanti e si sofferma sulla disforia di genere, una sensazione di estraneità all’interno del proprio corpo, e sul modo in cui questo ostacolo viene superato. Utilizzando colori vivaci e immagini sfaccettate, la narrazione mostra le diverse possibilità che le persone trans dovrebbero avere, al di là dei ristretti stereotipi imposti dalla società. In questo senso, il colore diventa elemento cruciale del loro lavoro, sia come eco del loro background

BANGALORE, INDIA, 2016 CON BASE A BANGALORE

indiano – in cui i colori vivaci compaiono nei vestiti, nelle spezie e nell’architettura – sia come amplificazione dei colori delle bandiere LGBTQ+ e trans che spesso figurano nel loro lavoro e che rimandano alla diversità tra le persone. L’opera di Aravani Art Project è esposta per la prima volta alla Biennale Arte. —Leandro Muniz

Forever Womanhood, 2020 Murale. Courtesy gli Artisti.


Mural experience in Asia’s largest Red light district, 2018 Murale. Courtesy gli Artisti.

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Trans Lives Matter Lodhi Art District, 2019 Murale. Courtesy gli Artisti.


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Iván Argote

L’arte di Iván Argote è fortemente influenzata dalla resistenza, dalla disobbedienza civile e dalla sua emigrazione dalla Colombia alla Francia. I suoi progetti attraversano diversi paesi e supporti, come sculture, installazioni, interventi e immagini in movimento. La sua opera si basa su una rielaborazione delle narrazioni egemoniche e approfondisce le complessità di emozioni condivise e individuali, prendendo in esame gli intrecci del potere e la produzione della storia. In una stratificazione ciclica di tempo, significato e interpretazione, l’approccio multidisciplinare di Argote ribalta le convenzioni e va a scovare nuovi immaginari politici emergenti. Argote opera di frequente in spazi pubblici, intervenendo sui monumenti e creando sculture su larga scala in ambienti esterni. L’artista suggerisce nuove interpretazioni simboliche e innesca una critica ecologica che pretende la massima attenzione.

Descanso (2024) presenta il corpo di Cristoforo Colombo, figura emblematica della colonizzazione latinoamericana, invaso da specie vegetali locali e migranti. Ai Giardini della Biennale, dove l’opera è esposta, le connotazioni politiche della statua si tramutano in contenitori per la vita naturale. Oltre all’installazione, all’Arsenale è presente anche il video di Argote, Paseo. Quest’ultimo è una fiction decoloniale in cui la statua equestre di Colombo di Plaza de Colón a Madrid vaga esiliata per la capitale. Le decostruzioni di Argote sottolineano il suo impegno contro le ingiustizie storiche e sulle tematiche ecologiche. Il disfacimento di Colombo genera una splendida trasformazione che fa sbocciare una nuova vita e scrivere una nuova storia.

BOGOTÁ, COLOMBIA, 1983 VIVE A PARIGI, FRANCIA

Descanso (particolare), 2022-2024 Scultura, pietra arenaria scolpita, piante selvatiche migranti e piante locali coltivate nella regione, 1250 × 280 × 140 cm. Courtesy l’Artista; Albarrán Bourdais, Perrotin & Vermelho.

—Amanda Carneiro

Paseo (still), 2022 Video, 23’ 30”. Courtesy l’Artista; Albarrán Bourdais, Perrotin & Vermelho.


217 NUCLEO CONTEMPORANEO STRANIERI OVUNQUE

Descanso, 2022-2024 Scultura, pietra arenaria scolpita, piante selvatiche migranti e piante locali coltivate nella regione, 1250 × 280 × 140 cm. Courtesy l’Artista; Albarrán Bourdais, Perrotin & Vermelho.


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Karimah Ashadu

Cresciuta in Nigeria, Karimah Ashadu studia pittura presso l’Università di Reading. Il suo interesse per la corporeità e la spazialità la spinge tuttavia a passare alla performance e infine al video, con una laurea in Spatial Design presso il Chelsea College of Art. Nei suoi filmati, Ashadu esplora storie legate alla Nigeria e all’Africa occidentale. Si concentra sulle pratiche di autodeterminazione e resilienza, in particolare all’interno delle economie alternative o clandestine dei lavoratori irregolari in Nigeria e in Europa, contesti chiaramente legati al neoliberismo e alle eredità del potere coloniale. I suoi video, molto apprezzati nei circuiti cinematografici e nelle gallerie internazionali, sono il prodotto di progetti di ricerca condotti in stretta collaborazione con gli stessi protagonisti, a loro volta anche voci narranti, con i quali l’artista stabilisce intensi contatti per lunghi periodi di tempo.

BIENNALE ARTE 2024

Machine Boys (2024) ritrae i mototaxi, colloquialmente noti come okada, nella megalopoli di Lagos. Nel 2022, a causa di numerosi incidenti che avevano coinvolto questi mezzi di trasporto e dell’impossibilità di regolamentarne l’economia informale, è stato imposto un divieto che ha reso passeggeri e conducenti passibili di reclusione. In Machine Boys, Ashadu si sofferma sulle conseguenze di questo divieto, ritraendo al contempo le abitudini e le sfide quotidiane affrontate dai guidatori di okada, persone che incarnano un particolare tipo di mascolinità grazie al loro abbigliamento elegante e al loro comportamento sicuro e autorevole. Attraverso questa esplorazione degli ideali patriarcali nigeriani, l’artista mette in relazione la rappresentazione della mascolinità con la vulnerabilità di una classe di lavoratori precari. Il filmato è proiettato all’interno di una stanza viola, colore che trae ispirazione dai fari sfavillanti di uno dei motociclisti. La scultura in ottone Wreath (2024), un rilievo intrecciato di pneumatici, che evoca un medaglione, suggerisce concetti di commemorazione e legittimità.

LONDRA, REGNO UNITO, 1985 VIVE AD AMBURGO, GERMANIA, E LAGOS, NIGERIA

L’opera di Karimah Ashadu è esposta per la prima volta alla Biennale Arte. —Sofia Gotti

Machine Boys (stills), 2024 Video. Courtesy l’Artista; Fondazione In Between Art Film.


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NUCLEO CONTEMPORANEO

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Dana Awartani

Dana Awartani è un’artista palestinese-saudita che ha cercato affinità tra le conoscenze delle comunità indigene nel mondo arabo, in India e in altri paesi, dove ha sviluppato il proprio lavoro in dialogo con gli artigiani. Attraverso la loro saggezza generazionale, l’artista ha inglobato nella propria arte gli atti simbolici della guarigione, utilizzando tecniche sostenibili e rispettose della natura, facendo rivivere i motivi vernacolari e impiegando materiali naturali nelle installazioni, nei video, nelle performance e nei dipinti. Awartani ha ricevuto una formazione in arti contemporanee e tradizionali, come testimoniano la laurea alla Central Saint Martins e un Master of Arts alla Prince’s School of Traditional Arts di Londra. Sta inoltre lavorando

per ottenere la prestigiosa certificazione Ijazah. Questo orientamento diversificato permette alla pratica di Awartani di intrecciare forme contemporanee e tradizionali, come dimostra il modo meditativo di lavorare con movimenti misurati, in cui ogni gesto e segno hanno un significato preciso. L’installazione Come, let me heal your wounds. Let me mend your broken bones (2024) è un requiem dedicato ai siti storici e culturali distrutti nel mondo arabo a causa di guerre e atti di terrorismo. In maniera terrificante, l’installazione si espande a ogni iterazione per fare spazio a una nuova documentazione. Questa edizione aggiunge una testimonianza della devastazione di Gaza e dei siti che sono stati

PALESTINESE, NATA A JEDDAH, ARABIA SAUDITA, 1987 VIVE A JEDDAH E NEW YORK, USA

indiscriminatamente rasi al suolo dai bombardamenti e dai bulldozer. L’artista crea dei buchi su metri di tessuto di seta, dove ogni strappo segna un sito. Poi rammenda ogni squarcio – una pratica in via di estinzione, più intima ma sottovalutata rispetto al patchwork – con tenerezza, come gesto di guarigione; le cicatrici risultanti simboleggiano quelle fisiche ed emotive lasciate nel mondo reale. Il tessuto viene immerso in tinture naturali a base di erbe e spezie che hanno valore medicinale, sfruttando le sacre proprietà curative incorporate nelle pratiche tradizionali di tintura tessile del Kerala che Awartani ha appreso nel tempo. L’opera di Dana Awartani è esposta per la prima volta alla Biennale Arte. —Saira Ansari


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Come, let me heal your wounds. Let me mend your broken bones, as we stand here mourning, 2019 Rammendo su seta tinta con medicinali, 630 × 720 × 300 cm. Photo Anna Shtraus. Courtesy l’Artista; Athr Gallery.


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Aycoobo (Wilson Rodríguez)

Aycoobo ha imparato la sua arte in modo empirico e attraverso il padre, il rinomato pittore ed esperto di piante Abel Rodríguez, la cui vasta conoscenza del paesaggio amazzonico ha posto le basi per riflettere sulla visione del mondo del popolo nonuya. In disegni meticolosi e intricati, Aycoobo narra aspetti della storia del suo popolo e del rapporto che questo ha con il mondo fisico, nonché le esperienze nell’accedere a più elevate forme di coscienza mediante piante rituali e medicinali come l’ayahuasca e il tabacco. Aycoobo intende la propria pratica, caratterizzata da colori vivaci, come manifestazione del sapere ereditato dal padre e da altri anziani della comunità, oltre che come canale per condividere miti, storie ed esperienze dei Nonuya.

Le opere presentate alla Biennale affrontano alcune fra le tematiche più urgenti per Aycoobo: Calendario (2023) rappresenta un calendario mensile che associa il trascorrere del tempo alle condizioni delle foreste amazzoniche in ogni mese dell’anno. Riproduce inoltre i processi agricoli della chagra (una parte di foresta coltivata con i principi dell’agricoltura biologica) così come i mondi sottomarini e il centro della Terra. In Laguna misterioso (2022) un saggio emerge da un lago sacro, suggerendo l’interconnessione fra tutte le specie nella cosmogonia nonuya, strutturata in base alla legge delle origini e guidata dal sapere ancestrale. Vibración (2022), invece, raffigura una donna anziana in uno stato di coscienza espansa, indotto dall’uso di piante medicinali. Insieme,

LA CHORRERA, COLOMBIA, 1967 VIVE A BOGOTÁ, COLOMBIA

queste opere parlano di ciò che Aycoobo intende come il suo compito: tramandare la conoscenza e creare immagini che scaturiscono da una consapevolezza superiore. L’opera di Aycoobo è esposta per la prima volta alla Biennale Arte. —Emiliano Valdés

Laguna misterioso, 2022 Acrilico su carta, 70 × 100 cm. Photo Nicole López. Courtesy l’Artista; Instituto de Visión.


223 NUCLEO CONTEMPORANEO

Vibración, 2022 Acrilico su carta, 70 × 100 cm. Photo Nicole López. Courtesy l’Artista; Instituto de Visión.

STRANIERI OVUNQUE

Calendario, 2023 Acrilico su carta, 70 × 100 cm. Photo Ana María Balaguera. Courtesy l’Artista; Instituto de Visión.


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Leilah Babirye

La pratica artistica di Leilah Babirye abbraccia molteplici discipline e si addentra nelle complesse intersezioni tra identità, sessualità e diritti umani. Il suo repertorio artistico comprende ritratti di membri della comunità LGBTQ+, che offrono un commento poetico e metaforico sulla svalutazione e il rifiuto che questi gruppi subiscono. Le sculture sono realizzate con materiali di scarto raccolti per strada, inestricabilmente combinati attraverso processi quali bruciatura, taglio, saldatura e brunitura. Il percorso di Babirye, che ha fatto pubblicamente outing, affronta la dura realtà dell’essere queer in Uganda: la recente approvazione della legge contro l’omosessualità l’ha portata a chiedere asilo a New York. Il paesaggio cosmopolita della città, che

spesso funge da scenario per la raccolta dei materiali che l’artista incorpora nelle proprie opere, diventa anche palcoscenico per sottolineare sottilmente le sfide dell’esilio politico. Le sculture presentate mettono in luce un aspetto fondamentale della sua pratica artistica: il popolamento degli spazi esterni con figure scultoree che incorporano i tratti visivi delle maschere africane, fondendo tradizione e contemporaneità. Realizzate in metallo, ceramica e legno intagliato a mano, con l’aggiunta di gomma, chiodi, teiere e altri oggetti recuperati, l’artista stabilisce un deliberato contrasto tra i materiali, conferendo ai pezzi una composizione intrigante. Namasole Wannyana, Mother of King Kimera from the Kuchu

KAMPALA, UGANDA, 1985 VIVE A NEW YORK, USA

Royal Family of Buganda (2021), trae ispirazione dal regno bantu ugandese di Buganda, noto per la sua importanza storica. Pur essendo radicata nei regni tradizionali dell’Uganda attuale, l’opera va oltre la rappresentazione storica e diventa espressione dell’immaginazione politica dell’artista, che intreccia la storia personale e la resilienza al concetto di discendenza queer tra i clan Buganda. Queste opere immaginano un’utopia in cui le persone queer ugandesi sono liberate dall’oppressiva omofobia prevalente nel paese d’origine dell’artista. L’opera di Leilah Babirye è esposta per la prima volta alla Biennale Arte. —Amanda Carneiro

Namasole Wannyana, Mother of King Kimera from the Kuchu Royal Family of Buganda, 2021 Ceramica, filo di ferro, guaine elettriche, camere d’aria di pneumatici di bicicletta e oggetti trovati, 273 × 84 × 84 cm. Photo Mark Blower. Courtesy l’Artista; Stephen Friedman Gallery, Londra e New York; Gordon Robichaux, New York.


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Namasole Namaganda, Mother of King Mutesa II from the Kuchu Royal Family of Buganda, 2021 Legno, cera, chiodi, colla, bulloni, dadi, rondelle e oggetti trovati, 281,9 × 61 × 48,3 cm. Photo Mark Blower. Courtesy l’Artista; Stephen Friedman Gallery, Londra e New York; Gordon Robichaux, New York.

Agali Awamu (Togetherness), 2022 Legno, cera, acciaio, alluminio, chiodi, bulloni, dadi, rondelle, filo di ferro, parti di biciclette, oggetti trovati e modificati, 264,2 × 365,8 × 182,9 cm. Photo Nicholas Knight. Courtesy l’Artista; Stephen Friedman Gallery, Londra e New York; Gordon Robichaux, New York; Public Art Fund, NY.


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Bordadoras de Isla Negra

Bordadoras de Isla Negra era un gruppo costituito da donne autodidatte che, tra il 1967 e il 1980, ricamavano tessuti in lana dai colori vivaci e dalle prospettive poliedriche per raccontare la vita quotidiana di questo villaggio costiero del Cile. Leonor Sobrino, un’aristocratica in visita culturale, rimase estasiata di fronte al patrimonio tessile rurale del gruppo di sedici donne e alla loro capacità di comporre forme sensibili che valorizzavano il significato della loro esperienza. Le forme oniriche e la spontaneità dei colori, così come la libertà radicale della composizione, impregnavano le loro trame di dinamismo e le collocavano al centro dell’arte popolare.

BIENNALE ARTE 2024

La creazione di Bordadoras de Isla Negra fu curata da Eduardo Martinez Bonati, consulente artistico della Terza Sessione della Conferenza delle Nazioni Unite sul Commercio e lo Sviluppo (UNCTAD III). Allestita in un tempo record di 275 giorni, grazie al lavoro di migliaia di operai, architetti, artigiani e artisti, fu inaugurata il 3 aprile 1972. Il progetto prevedeva la creazione di un tessuto che entrasse in dialogo estetico con l’edificio costruito per ospitare la sede dell’UNCTAD III e che fosse riconosciuto come opera del popolo. La composizione intima, frammentaria e discontinua di questi tessuti, ricamati con lane dai colori vivaci, è fondamentale per comprendere la loro forza e la loro libertà espressiva nel contesto di un lavoro artigianale tramandato a livello locale. I personaggi sono abitanti reali

ISLA NEGRA, CILE, 1967–1980

e riconoscibili di Isla Negra, tra cui Pablo Neruda a caccia di farfalle. Questo gigantesco manufatto tessile venne ricamato partendo da singole stoffe raffiguranti ambienti diversi, successivamente unite per realizzare uno spaccato del Cile, dal mare fino alle Ande. Il ricamo fu rubato e scomparve nel settembre del 1973, dopo che la dittatura di Pinochet si era insediata nell’edificio facendone il proprio centro operativo. È riapparso nell’agosto 2019 e oggi è stato nuovamente reintegrato nell’edificio. L’opera di Bordadoras de Isla Negra è esposta per la prima volta alla Biennale Arte. —Carolina Arévalo Karl


227 STRANIERI OVUNQUE

Untitled, 1972 Tela ricamata, 230 × 774 cm. Photo Nicolas Aguayo. Collezione Centro Cultural Gabriela Mistral. © Nicolas Aguayo e Collezione Centro Cultural Gabriela Mistral.


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Sol Calero

Sol Calero crea opere che esplorano i temi della rappresentazione e dell’identità, spesso attraverso ambienti immersivi carichi di motivi e tessuti colorati. Sebbene viva in Europa da diversi anni, Calero ha trascorso infanzia e adolescenza in Venezuela ed è particolarmente interessata ad analizzare gli stereotipi della cultura e dell’identità latinoamericana. Gran parte del suo lavoro è inoltre impregnato di una forte denuncia sociale. Tra i progetti realizzati figurano ricostruzioni di spazi quali un autobus, un salone di bellezza, un internet café, una casa in stile caraibico eretta in un parcheggio e un ufficio di cambio valuta, tutti resi con colori vivaci e pieni di oggetti giocosi. Vincitrice di

numerosi premi internazionali, Calero gestisce il project space berlinese Kinderhook & Caracas insieme al marito e collega Christopher Kline. Utilizzando un’ampia gamma di tecniche – tra cui pittura, scultura, oggetti trovati, tessuti, video, suono e installazioni site-specific – l’approccio concettuale di Calero è sottolineato da quesiti fondamentali che riguardano l’ospitalità e l’appartenenza. In occasione della 60. Esposizione Internazionale d’Arte, l’artista ha affrontato l’invito a progettare un’installazione site-specific nei Giardini della Biennale con la sensibilità che la contraddistingue. Qui, il concetto di padiglione nazionale viene allegramente

CARACAS, VENEZUELA, 1982 VIVE A BERLINO, GERMANIA

reinventato e proposto come ambiente formato da un caleidoscopio di forme e colori, con pareti dipinte a disegni geometrici, tetti spioventi, colonne e recinzioni monocromatiche, e terrazze curvilinee. Il progetto di Calero riflette il suo continuo interesse per il modo in cui gli oggetti, le forme architettoniche e gli interni comunicano preconcetti culturali ed esprimono forme di auto-esotizzazione, come spesso accade nei siti legati al turismo. L’opera di Sol Calero è esposta per la prima volta alla Biennale Arte. —Marko Ilić

Casa Isadora, 2018-2020 Tecnica mista, dimensioni variabili. Photo Anika Büssemeier. Courtesy l’Artista. © Brücke-Museum, Berlino.


Casa Anacaona, 2017 Veduta dell’installazione a Folkestone, UK . Photo Thierry Bal. Courtesy l’Artista.

STRANIERI OVUNQUE

Casa Anacaona (particolare), 2017 Veduta dell’installazione a Folkestone, UK. Photo Thierry Bal. Courtesy l’Artista.


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Kudzanai Chiurai

Kudzanai Chiurai utilizza cinema, fotografia, pittura, stampa, installazioni e interventi sonori per esplorare le problematiche sociopolitiche successive all’indipendenza. Nato nel 1981, un anno dopo l’indipendenza del suo paese d’origine, lo Zimbabwe, consegue una laurea in Belle Arti presso l’Univeristà di Pretoria, in Sudafrica, nel 2006, al culmine degli anni dell’iperinflazione dello Zimbabwe. La sua opera spesso riflette la politica dei contesti locali a lui più vicini, in Sudafrica e Zimbabwe, ma è ispirata anche da temi più ampi legati al continente africano. Attingendo largamente agli archivi e alla letteratura sudafricani, il suo

BIENNALE ARTE 2024

lavoro affronta questioni legate alle contestazioni sui terreni, alla postcolonialità, all’abuso di potere e alle narrazioni di liberazione sottorappresentate. Nel 2021 Chiurai ha dato vita a The Library of Things We Forgot to Remember, una mostra interattiva con sede a Johannesburg. Promossa e curata da vari bibliotecari o protagonisti invitati, la biblioteca è composta da vinili, stampe, dipinti e simili, provenienti da archivi e collezioni chiave del continente africano.

HARARE, ZIMBABWE, 1981 VIVE A HARARE

B-Diamond è una figura ricorrente nella pratica di Chiurai, che incarna una politica corrotta ed è spesso addobbata con lussuosi cappotti leopardati, catena cerimoniale e decorazioni varie. B-Diamond ha ereditato gli strumenti di ingiustizia di origine coloniale dai regimi precedenti. Il fogliame scuro che circonda la figura rinvia al Neoclassicismo e ai suoi legami con la nobiltà, mentre le stratificazioni di texture, pittura e testo rimandano ai complessi intrecci coloniali che caratterizzano l’attuale politica di post-liberazione. I testi dorati che ricoprono il volto includono iscrizioni derivate dai registri contabili del commercio

The Fear of Magic, 2020 Olio su tela, 150 × 120 cm. Courtesy Goodman Gallery.

degli schiavi ritrovati a Città del Capo, in Sudafrica. Questi dipinti fanno spesso parte di installazioni che includono elementi scultorei e d’archivio, come What More Can One Ask For? (2017). Collettivamente, elementi come la recinzione di filo spinato, la mappa coloniale e lo strumento di rilevamento del territorio evidenziano storie di estrazione e spostamento. Ci spingono a chiederci: chi o che cosa viene protetto, e da chi. L’opera di Kudzanai Chiurai è esposta per la prima volta alla Biennale Arte. —Tandazani Dhlakama


231 To Walk Barefoot, 2020 Olio su tela, 150 × 120 cm. Courtesy Goodman Gallery.

STRANIERI OVUNQUE

Sorcery, 2020 Olio su tela, 150 × 120 cm. Courtesy Goodman Gallery.


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Isaac Chong Wai

Isaac Chong Wai si dedica alla ricerca su performance, danza, video e alla creazione di oggetti con svariate tecniche. Ha studiato arti visive alla Hong Kong Baptist University e ha proseguito gli studi alla Bauhaus-Universität di Weimar, in Germania, dove ha conseguito un master in Arte pubblica e Nuove strategie artistiche. Da allora, Chong Wai vive a Berlino. La sua ricerca si basa generalmente sul concetto di narrazione, invitando lo spettatore a stabilire relazioni tra serie di immagini che tendono a trattare aspetti quali la fragilità, la ripetizione e l’assurdità.

HONG KONG, REPUBBLICA POPOLARE CINESE, 1990 VIVE A BERLINO, GERMANIA, E HONG KONG

In Falling Reversely (2021-2024) Chong Wai approfondisce la sua ricerca sugli atti di violenza commessi non solo contro le numerose comunità di migranti asiatici – in particolare di origine cinese – in Europa e all’estero, ma anche sulle aggressioni subite da individui queer. Prendendo spunto da un’aggressione subita da Chong Wai nei pressi di un’impalcatura, l’installazione ha un carattere scultoreo che rimanda all’edilizia civile. Alla sua struttura è collegata una serie di video che mostrano l’artista e un gruppo di ballerini che reagiscono all’atto di un corpo che cade di fronte a una comunità. Come reagire a questa caduta? Sarebbe possibile evitarla o almeno cercare di interrompere la caduta per ridurre il dolore fisico? Tra coreografia e atto spontaneo, Chong Wai suggerisce che l’individuo e la collettività si mescolano in un unico movimento. Anche noi, come spettatori, siamo agenti in grado di evitare cadute future e di desiderare la cura e l’attenzione dei nostri amici. L’opera di Isaac Chong Wai è esposta per la prima volta alla Biennale Arte. —Raphael Fonseca

BIENNALE ARTE 2024

Falling Reversely (stills), 2021-2024 Video. Photo Isaac Chong Wai, Julia Geiß e Lana Immelman. Courtesy l’Artista; Blindspot Gallery e Zilberman. © Isaac Chong Wai.


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Chaouki Choukini

CHOUKINE, LIBANO, 1946 VIVE A LA VERRIÈRE, FRANCIA

Chaouki Choukini ha trascorso più di sessant’anni a reagire materialmente al modo in cui i paesaggi evolvono e le società si trasformano nel corso della storia. Il suo cognome significa “da Choukine”, il villaggio del Libano meridionale dove da bambino costruiva giocattoli di legno. Nel 1967, Choukini lascia Beirut per Parigi e studia all’École nationale supérieure des Beaux-Arts. In Francia, la sua pratica fiorisce negli anni Settanta e Ottanta con la serie di sculture orizzontali Lieux e Paysages. Trascorre cinque anni a fianco dello scultore giapponese Fumio Otani, zio della moglie e ancor oggi sua principale influenza. Nel 1984, trascorre un anno cruciale in Giappone in cui la sua pratica assume un aspetto più minimalista. Poco dopo torna nel Levante, dove insegna scultura a Tripoli, in Libano, e a Irbid, in Giordania. All’inizio degli anni Novanta, Choukini si stabilisce a Parigi dove tuttora prosegue con la propria opera realizzando sculture prevalentemente verticali.

Pur avendo lavorato anche con il bronzo, la pietra e altri materiali, questa selezione di opere illustra la sua maestria nella scultura lignea a forma libera. La fascinazione esercitata su di lui dal legno di wenge, originario dell’Africa centrale, va di pari passo con l’uso nella sua pratica di altri legni africani. Oltre al wenge, fra i pezzi selezionati figurano anche sculture in legno di iroko, mogano sipo e bubinga, con occasionale utilizzo di quercia. Per l’artista, il legno è un materiale profondamente legato a quella stessa terra che esamina nel suo lavoro. L’intaglio e la raschiatura seguono la direzione naturale delle fibre del legno. Che si tratti di orizzonti, concetti astratti, figure umane, vedute aeree della terra, voli di uccelli, figure celesti o tragedie, l’artista tratta questi temi con geometrie curve e originali. Le sue opere tridimensionali, che oscillano tra il ruvido e il levigato, la presenza e l’assenza, potrebbero essere la “seconda vita” degli schizzi ad acquerello da cui in genere prendono corpo i suoi lavori. L’opera di Chaouki Choukini è esposta per la prima volta alla Biennale Arte. —Daniel Rey

BIENNALE ARTE 2024

Claire de Lune, 2011-2012 Iroko, 97 × 19 × 19 cm. Courtesy collezione Sharjah Art Foundation, Emirati Arabi Uniti.


Dame de Coeur, 2007 Rovere e bubinga, 42,50 × 43,50 × 19 cm. Courtesy collezione Sharjah Art Foundation, Emirati Arabi Uniti.

STRANIERI OVUNQUE

NUCLEO CONTEMPORANEO

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Blessure de Gaza, 2009 Rovere, 80 × 36 × 15 cm. Photo Anna Shtraus. Collezione Fairouz e JeanPaul Villain, Abu Dhabi.


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Claire Fontaine

Claire Fontaine, collettivo con sede a Palermo e fondato a Parigi nel 2004 dal duo italo-britannico di artisti Fulvia Carnevale e James Thornhill, si confronta con l’impotenza politica e con la crisi della singolarità all’interno dell’arte e della società di oggi. Ricorrendo a un’ampia gamma di supporti, fra cui il neon, il video, la scultura, la pittura e il testo, Claire Fontaine rifiuta la mercificazione degli artisti. Piuttosto, mette in atto una pratica collettiva di resistenza all’automercificazione attraverso gli approcci sperimentali della condivisione di creatività e saperi. La scrittura svolge un ruolo cruciale, decostruendo la consolidata gerarchia fra espressione visiva e verbale. Il nome, mutuato da un marchio francese di prodotti di cancelleria, evidenzia la natura ready-made del collettivo, impiegando questo concetto per criticare le barriere all’uso

e alla divulgazione di idee ed esplorando gli effetti del feticismo della merce sulla produzione e sulla ricezione dell’arte contemporanea. Claire Fontaine si integra pienamente nei principali circuiti dell’arte, instaurandovi alleanze e spronando al cambiamento, impegnandosi proattivamente nei meccanismi e nei temi dell’industria artistica. Stranieri Ovunque - Foreigners Everywhere (60. Esposizione Internazionale d’Arte) (2004– 2024) comprende una serie di sculture al neon in più lingue, che catturano le molteplici sfumature di ambivalenza intrinseche nel titolo dell’opera. I lavori traggono ispirazione dal nome di un collettivo anarchico che si batteva contro la xenofobia nella Torino dei primi anni 2000. Esposte in vari contesti e spazi pubblici, queste sculture fungono sia da dichiarazione fattuale contro potenziali minacce razziste,

FONDATO A PARIGI, FRANCIA, 2004 CON BASE A PALERMO, ITALIA

sia come antidoto rispetto a queste. Evocano il palpabile senso di straniamento avvertito dagli individui che cercano di rimanere a galla in una società globalizzata – un sentimento che si può riferire a migranti e ad altri gruppi emarginati e include problematiche di razza, genere e classe. Quest’opera riconosce che l’atto del trasferimento può alterare o confondere i significati. Nel ricercare una “lingua straniera all’interno del linguaggio”, i due artisti approfondiscono nuovi significati e nuove esperienze per dimostrare che ciascuno di noi può essere, o è stato, straniero rispetto a qualcosa o a qualcuno in qualche momento della propria vita.

Foreigners Everywhere (Romany), 2010 Vista dell’installazione, neon a sospensione, a parete o a finestra, struttura, trasformatore elettronico e cavi, 98 × 2,28 × 45 cm. Photo Studio Claire Fontaine. Courtesy gli Artisti e Mennour, Parigi. © Studio Claire Fontaine.

L’opera di Claire Fontaine è esposta per la prima volta alla Biennale Arte. —Amanda Carneiro

Foreigners Everywhere (Spanish), 2007 Vista dell’installazione, neon a sospensione, a parete o a finestra, struttura, trasformatore elettronico e cavi, 98 × 2,16 × 45 cm. Photo Studio Claire Fontaine. Courtesy gli Artisti e Mennour, Parigi. © Studio Claire Fontaine.


237 NUCLEO CONTEMPORANEO STRANIERI OVUNQUE

Foreigners Everywhere (Tibetan), 2010 Vista dell’installazione, neon a sospensione, a parete o a finestra, tubo Tecnolux n. 44s 8/10mm, struttura, trasformatore elettronico e cavi, 48 × 3,25 × 45 cm. Photo Florian Kleinefenn. Courtesy gli Artisti e Mennour, Parigi. © Studio Claire Fontaine.


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Manauara Clandestina

La pratica di Manauara Clandestina comprende fotografia, video, performance, tessuti e moda; collabora di frequente con altri artisti e ha come soggetto principale la comunità dei travesti. In questo senso, alterna ricordi personali e critica sociale, facendo cenno alle relazioni tra queste sfere. Il nome si riferisce alle proprie origini a Manaus, capitale dello stato di Amazonas, in Brasile. Il nome Manaus deriva da quello del popolo indigeno Manaós. Con “Clandestina” allude anche al proprio costante spostamento nel mondo e alla propria condizione sociale di persona afro-indigena trans. Per la Biennale di Venezia, l’artista presenta la seconda versione del video Migranta (2020-2023), incorporando nuovi elementi come recenti registrazioni del padre. In

BIENNALE ARTE 2024

questo senso, si dovrebbe intendere il titolo come segno del processo di costruzione in corso dell’opera, nonché dell’identità e delle relazioni dell’artista. Il video alterna schermate del suo cellulare, spezzoni di telecamere di sicurezza, materiale d’archivio e filmati storici, utilizzando un’ampia gamma di tecnologie, dalle immagini ad alta risoluzione a quelle low-tech, che danno vita a diverse texture e qualità di rappresentazione. Per Clandestina, l’uso di immagini già pronte traspone nella sua pratica video il concetto di “upcycling” – in cui si utilizza materiale di scarto per creare nuovi abiti – mutuato dal mondo della moda. In termini narrativi, Building (2021-2024) raccoglie scene

MANAUS, BRASILE, 1992 VIVE A MANAUS

che ritraggono l’esplorazione della luna, edifici in crollo e l’artista stessa, oltre a racconti sul travestitismo, l’ecologia, le disuguaglianze economiche, il lavoro, la religione, la violenza, l’intimità e l’affetto, proponendo interconnessioni tra tutti questi temi. L’opera di Manauara Clandestina è esposta per la prima volta alla Biennale Arte. —Leandro Muniz

Building, 2021-2024 Video, 5’ 37”

Migranta, 2020 Video, 17’


STRANIERI OVUNQUE

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River Claure

River Claure è un fotografo e artista visivo noto soprattutto per i ritratti meticolosamente costruiti, i paesaggi magici e le serie di docufiction fotografiche. Nel suo lavoro si interroga sul ruolo dell’identità culturale e sulla centralità delle immagini fotografiche nella nostra percezione della realtà. Figlio di una famiglia di immigrati provenienti da una piccola comunità dell’altopiano andino, Claure cresce vivendo le tensioni tra le proprie radici indigene e le realtà urbane dell’inizio del XXI secolo. Formatosi dapprima nella sua città natale, Cochabamba, in seguito studia fotografia contemporanea a Madrid, diventando presto uno degli artisti boliviani più in vista della

sua generazione. La sua opera ha ricevuto il premio nazionale d’arte della Bolivia, il Premio Nacional Eduardo Abaroa, ed è acclamata dalle principali piattaforme internazionali, quali il National Geographic, il New York Times e la World Press Photo Foundation. Le serie fotografiche Warawar Wawa (2019-2020), un adattamento del Piccolo principe di Antoine de Saint Exupéry ambientato nella Bolivia contemporanea, e Mita (2022-in corso), un sensibile ritratto della vita nelle comunità minerarie andine che rimanda a cinquecento anni di estrattivismo coloniale, rivelano un approccio alla fotografia sostanzialmente performativo. Più che

COCHABAMBA, BOLIVIA, 1997 VIVE A COCHABAMBA E LA PAZ, BOLIVIA

rappresentazioni meccaniche di una realtà data, appaiono interventi giocosi su ciò che diamo per scontato. Una persona ritratta può diventare un attore o una fotografia documentaria può diventare un set cinematografico. Le sue fotografie sono veri e propri ritratti di volti, paesaggi e identità reali e si basano sul suo lungo lavoro all’interno delle comunità. Inoltre, riorganizzano gioiosamente i codici e la disposizione degli elementi per rappresentare una realtà data: sono tableaux vivants in cui le persone e le cose ritratte possono esprimere l’indescrivibile a modo loro, in base a principi di autodeterminazione e dignità e a un pizzico di magia.

Yatiri - from the series Warawar Wawa, 2019 Stampa a pigmenti su carta opaca di cotone, 127 × 85 cm. Courtesy l’Artista.

L’opera di River Claure è esposta per la prima volta alla Biennale Arte. —Max Jorge Hinderer Cruz


Cerro 3 - from the series Mita, 2023 Stampa a pigmenti su carta opaca di cotone, 112 × 84 cm. Courtesy l’Artista.

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Villa Adela - from the series Warawar Wawa, 2019 Stampa a pigmenti su carta opaca di cotone, 190 × 127 cm. Courtesy l’Artista.


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Liz Collins

Liz Collins si muove in maniera fluida tra arte e design per produrre un’ampia gamma di opere percorse da una vibrante energia ottica e da una sensibilità femminista queer. Incorporando Fiber Art, pittura, disegno, video, performance e forme di design, il suo lavoro comprende molteplici processi e associazioni: fatto a mano e meccanico, familiare e astratto, giocoso e politico. Specializzata in tessuti e fibre, nel 1999 Collins ha lanciato il suo innovativo marchio di maglieria e continua a sperimentare molteplici tecniche di produzione, sviluppate operando a livello internazionale. Nel primo decennio del XXI secolo, si allontana dalla moda e amplia la portata delle sue opere

BIENNALE ARTE 2024

ALEXANDRIA, USA, 1968 VIVE A NEW YORK, USA

per interagire con ambienti e pubblici più ampi. Esposte negli Stati Uniti e all’estero, le sue opere tessili attuali variano da piccoli oggetti ricamati a pezzi industriali collaborativi e installazioni architettoniche che creano spazi sociali immersivi. L’attivismo costituisce un elemento centrale della sua pratica: i suoi ampi progetti affrontano le politiche globali del lavoro, le crisi ecologiche e le comunità queer. Spinta da forze affettive ed elementari, l’opera di Collins evoca fenomeni naturali e genera sensuali incontri tattili. Gli enormi arazzi creano un orizzonte immersivo: gli arcobaleni sgorgano dalle cime delle montagne contro un cielo scuro, evocando ciò che l’artista descrive come

“fantasia di un’utopia queer che è appena fuori portata”. Un sogno modulato anche dal pericolo ambientale: una cascata di fulmini si abbatte come un vortice. Un globo lunare rende omaggio alle astrazioni geometriche della visionaria artista e designer Sonia Delaunay. Questa visione simbolica lascia trasparire la sua stessa costruzione: da vicino, la trama dell’arazzo è un disegno fratturato e linee di filo colorato scorrono dietro un vasto cielo nero. Evocando una molteplicità di significati possibili, l’opera di Collins riconosce la nostra condizione di precarietà collettiva e al tempo stesso ci permette di percepire i mondi queer che possono manifestarsi solo se riusciamo a immaginarli e a materializzarli.

L’opera di Liz Collins è esposta per la prima volta alla Biennale Arte. —Lex Morgan Lancaster


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Rainbow Mountains Weather, 2024 Lino, mohair, monofilamento, nylon, poliestere, lana, 340 × 425 cm. Photo Joe Kramm. Courtesy l’Artista. © Liz Collins 2024.

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Rainbow Mountains Moon, 2024 Lino, mohair, monofilamento, nylon, poliestere, lana, 340 × 373 cm. Photo Joe Kramm. Courtesy l’Artista. © Liz Collins 2024.


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Beatriz Cortez

Beatriz Cortez è un’artista e studiosa cresciuta durante la guerra civile in El Salvador (1979-1992) e successivamente emigrata a Los Angeles. Profondamente impegnata a rendere visibili molteplici temporalità all’interno del nostro spazio condiviso del presente, le sue opere spesso seguono le tracce materiali delle culture mesoamericane premoderne e la loro relazione con i processi geologici e le cosmologie che oggi continuano attraverso le pratiche indigene. L’artista costruisce sculture immaginifiche in acciaio saldato e battuto a mano, che articolano un’esperienza diasporica di simultaneità e molteplicità. Come una doppia esposizione che cattura più luoghi e momenti in un unico fotogramma, le sue opere sono macchine del tempo o portali speculativi

BIENNALE ARTE 2024

verso altre dimensioni. I temi della migrazione e delle sue dinamiche di ricorsività e connessione sono presenti in tutte le sue opere. In particolare, Cortez li indaga attraverso molteplici registri, da quello sociale a quello geologico, poiché anche un paesaggio è in perpetuo movimento tettonico attraverso territori e confini. Stela XX (Absence) (2024), una scultura monolitica in acciaio, segue la migrazione di particelle della colossale eruzione Tierra Blanca Joven del Ilopango, avvenuta a metà del V secolo d.C. La roccia e il magma esplosi nella stratosfera oscurarono il sole e trasportati dalle correnti atmosferiche precipitarono su tutto il mondo, provocando un inverno prolungato che colpì l’antica civiltà maya e altri continenti. Le tracce del vulcano sono presenti sia vicino che lontano: la caldera,

SAN SALVADOR, EL SALVADOR, 1970 VIVE A LOS ANGELES E DAVIS, USA

o profonda depressione terrestre, lasciata dal vulcano si è successivamente riempita d’acqua fino a diventare il lago Ilopango, mentre le particelle delle sue ceneri si trovano ancora nelle profondità del ghiaccio artico. Le linee sagomate di Stela XX si ispirano a fotografie e disegni di monoliti maya premoderni oggi conservati in collezioni museali, che furono deliberatamente infranti per estrarli dai loro siti sacri. La sua superficie ondulata in acciaio è saldata con glifi che tracciano questa perdita e rimarcano l’assenza. L’opera di Beatriz Cortez è esposta per la prima volta alla Biennale Arte. —Vic Brook

Glacial Erratic, 2020 Acciaio, 289,5 × 274 × 160 cm. Photo Beatriz Cortez Studio. Courtesy l’Artista e Commonwealth and Council.


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Stela Z, after Quiriguá (Contrary Warrior), 2023 Acciaio, 252 × 101 × 60 cm. Photo Jeffrey Jenkins. Courtesy l’Artista e Commonwealth and Council.

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Ilopango, the Volcano that Left, 2023 Acciaio, 366 × 595 × 305 cm. Photo Jeffrey Jenkins. Courtesy l’Artista e Commonwealth and Council.


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Andrés Curruchich

Andrés Curruchich Cúmez, un importante pittore autodidatta del popolo kaqchikel, è ampiamente considerato l’artista più autorevole del Guatemala. Il suo percorso artistico inizia negli anni Venti, quando entra in contatto con i materiali della pittura, ed è successivamente segnato dalla presentazione delle sue opere in numerosi festival guatemaltechi. Ha guadagnato consensi per le sue narrazioni dettagliate che ritraggono la vita quotidiana delle comunità maya, riflettendo anche il profondo impatto della colonizzazione spagnola e della religione cristiana sulle tradizioni indigene. I suoi dipinti raffigurano scene di incontri, mercati, devozione spirituale, feste e comunione. Spesso caratterizzati da narrazioni scritte a mano e da intricati trajes ornati da disegni e motivi caratteristici che si trovano nei tessuti realizzati a mano dai Maya, l’eredità imperitura di Curruchich riecheggia attraverso il lavoro di un gruppo di pittori kaqchikel a Comalapa, un centro per l’arte autodidatta. Artisti come Rosa Elena Curruchich, Paula Nicho e María Elena Curruchich continuano a portare avanti il suo lascito.

BIENNALE ARTE 2024

COMALAPA, GUATEMALA, 1891–1969

Procesión: patrón de San Juan está en su trono (1966) cattura la vibrante celebrazione di giugno di san Giovanni, il venerato patrono di San Juan Comalapa, da cui la città kaqchikel prese il nome dopo la colonizzazione spagnola. Il dipinto presenta altari colorati, abbelliti da piume e bandierine, dedicati al santo. I devoti, nella loro venerazione, portano gli altari tenendo i cappelli in mano lungo il corpo e camminando a piedi nudi. La firma distintiva di Curruchich si trova alla base della tela. L’adozione del cristianesimo da parte delle popolazioni indigene nelle Americhe è stato un processo complesso e spesso conflittuale, caratterizzato da metodi di conversione coercitivi come la confisca delle terre e la distruzione della cultura e delle tradizioni indigene. Oggi, molte popolazioni indigene nelle Americhe praticano forme sincretistiche di cristianesimo, che incorporano elementi del credo e delle pratiche religiose tradizionali. L’opera di Andrés Curruchich è esposta per la prima volta alla Biennale Arte. —Amanda Carneiro

Procesión patron de San Juan esta en su trono, 1966 Olio su tela, 44 × 48,3 cm. Photo Martin Seck. Collezione El Museo del Barrio, New York. Dono di Gale Simmons, Craig Duncan e Lynn Tarbox in memoria di Barbara Duncan, 2007.


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NUCLEO CONTEMPORANEO

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Rosa Elena Curruchich

Rosa Elena Curruchich – artista maya kaqchikel – è considerata la prima donna pittrice di Comalapa, nel dipartimento di Chimaltenango, in Guatemala. Nipote di Andrés Curruchich – uno dei più importanti pittori di Comalapa, rinomato a livello internazionale negli anni Cinquanta – ha imparato a dipingere da sola a metà degli anni Settanta. La sua prima mostra risale al 1979, presso l’Istituto Francese di Città del Guatemala, ma il suo lavoro non riceve accoglienza positiva a causa della diffidenza e dei pregiudizi che circondano una donna operante in quella che, all’interno della sua comunità, era considerata una forte tradizione. Gli stessi membri della sua famiglia hanno opposto grande resistenza alla sua dedizione al mestiere, facendola a volte sentire rifiutata e isolata.

Le opere di Curruchich rivelano il desiderio di documentare, attraverso dipinti meticolosamente dettagliati, la vita quotidiana, le usanze tradizionali, le feste religiose e il lavoro artigianale della sua comunità indigena, come la produzione di candele, pane, aquiloni e perrajes (coperte). Il formato in miniatura delle opere è in gran parte dovuto al fatto che lavorava in segreto e al tempo stesso le permetteva di trasportarle con discrezione durante il periodo della violenta guerra civile in Guatemala (1960-1996). Invece di offrire immagini esotiche prodotte per il consumo turistico, i suoi dipinti prestano attenzione al ruolo delle donne all’interno dell’organizzazione sociale indigena locale e riconoscono il valore del lavoro di cura. In ciascun dipinto inserisce un piccolo testo che descrive i personaggi e le loro azioni. Le sue immagini raccontano la sua storia personale e al contempo rivendicano il potere di trasformazione del lavoro comune. L’opera di Rosa Elena Curruchich è esposta per la prima volta alla Biennale Arte. —Miguel Lopez

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COMALAPA, GUATEMALA, 1958–2005

Rosa Curruchich vendiendo comidas. Mi hermanita, 1980 ca. Olio su tela, 14,3 × 16,9 × 1,3 cm. Photo Margo Porres. Courtesy La Galería, Panajachel e Proyectos Ultravioleta, Guatemala City. Van a escoger capitana del nuevo año, 1980 ca. Olio su tela, 14,30 × 19 × 1,20 cm. Photo Margo Porres. Courtesy La Galería, Panajachel e Proyectos Ultravioleta, Guatemala City.


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Mi tío Pablo pintando Rosa Elena, 1980 ca. Olio su tela, 12 × 15,60 × 1,40 cm. Photo Margo Porres. Courtesy La Galería, Panajachel e Proyectos Ultravioleta, Guatemala City.

Iglesia San Marcos, 1980 ca. Olio su tela, 15 × 16,40 × 1,60 cm. Photo Margo Porres. Courtesy La Galería, Panajachel e Proyectos Ultravioleta, Guatemala City.

STRANIERI OVUNQUE

NUCLEO CONTEMPORANEO

Campesinas van a hacer una Fiesta. Las Muchachas que cortan árboles, 1980 ca. Olio su tela, 13,10 × 15,10 × 1,40 cm. Photo Margo Porres. Courtesy La Galería, Panajachel e Proyectos Ultravioleta, Guatemala City.


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Filippo de Pisis

Filippo de Pisis – dandy, aristocratico, scrittore e pittore – trascorre i suoi anni tra Roma, Milano, Venezia e Parigi, alla ricerca di ispirazione artistica ed esperienze di vita. A Roma, de Pisis viene influenzato dal Futurismo e dalla pittura metafisica. Trasferitosi a Parigi nel 1925, dipinge en plein air, creando paesaggi, nature morte e ritratti dalle tonalità delicate, con tratti vibranti e suggestioni oniriche. Nel 1928, fonda il gruppo Les Italiens de Paris con Giorgio de Chirico, Alberto Savinio, Gino Severini, Massimo Campigli, Mario Tozzi e René Paresce; affermatosi come artista di successo, espone alla Biennale nel 1926, 1930 e 1942. Rientrato in Italia nel 1939, la sua omosessualità lo rende persona non grata. Nel dopoguerra torna a Parigi con la giovane nipote e protégée Bona Pieyre de Mandiargues (nata Tibertelli), la cui opera è inclusa nel Nucleo Storico. A causa di una malattia di origine nervosa, trascorre la maggior parte dei suoi ultimi anni in ospedali psichiatrici italiani.

FERRARA, ITALIA 1896 – 1956, MILANO, ITALIA

Famoso per i paesaggi e le nature morte pervase di malinconia – come Vaso di fiori (1942) e Vaso di fiori con ventaglio (1952) –, de Pisis si dedica anche al nudo maschile, soprattutto a Parigi dove può vivere più apertamente la propria omosessualità. Invita spesso giovani prostituti nel suo studio di rue Servandoni 7 dove li ritrae in pose languide dal vago sapore rinascimentale, dando origine a una sospesa atmosfera erotica. I delicati Volto di ragazzo (1931) e Ragazzo con cappello (metà anni Trenta) esemplificano la sua abilità nel cogliere la personalità dei soggetti. La bottiglia tragica (1927) allude a un drammatico episodio della vita del pittore: durante una conversazione, due ragazzi che aveva invitato nel suo studio all’improvviso lo aggrediscono e tentano di rapinarlo. Dopo essere riuscito a respingerli, de Pisis osserva il suo tavolo, ornato da una tovaglia colorata e sovraccarico di vari oggetti, tra cui la sua tavolozza. L’immagine gli rimane impressa nella mente, ispirando una simbolica natura morta. —Antonella Camarda

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Il nudino rosa, 1931 Olio su tela, 65,2 × 46 cm. Photo Carlo Favero. Courtesy P420, Bologna.


251 NUCLEO CONTEMPORANEO Vaso di fiori con ventaglio, 1942 Olio su tela, 80,5 × 59,5 cm. Photo Carlo Favero. Courtesy P420, Bologna.

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Ragazzo con cappello, metà anni Trenta Matita colorata su carta velina, 42,4 × 25,5 cm. Photo Carlo Favero. Courtesy P420, Bologna.


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Pablo Delano

Pablo Delano è un artista visivo e fotografo con uno spiccato interesse per gli archivi e per la vita, le storie e le lotte delle comunità latinoamericane e caraibiche. Nato e cresciuto nel territorio statunitense non incorporato di Porto Rico e inizialmente formatosi come pittore, si è poi trasferito negli Stati Uniti dove ha iniziato a lavorare con la fotografia sotto l’influenza del padre, il noto fotografo immigrato ucraino Jack Delano. Utilizzando la sua vasta raccolta di materiale storico, fotografie d’archivio, manufatti e filmati relativi alla storia di Porto Rico, Pablo Delano costruisce intricate installazioni che approfondiscono la complessa storia del colonialismo statunitense nella sua terra d’origine. Con queste opere, l’artista sfida le narrazioni ufficiali e richiama l’attenzione su elementi costanti che, a uno sguardo più attento, rivelano sintomi e sistemi di razzismo, oppressione e dominio. The Museum of the Old Colony (2024), un’installazione concettuale basata su materiali di archivio, esamina le persistenti strutture coloniali attraverso la lente dell’esperienza di Porto Rico. L’isola caraibica – a partire dall’arrivo di Cristoforo Colombo nel 1493, che ha portato alla dominazione spagnola – ha vissuto oltre cinquecento anni di dominio coloniale. Dopo la guerra ispano-americana del 1898, Porto Rico è diventato un territorio non incorporato dagli Stati Uniti e ha dovuto affrontare diversi effetti politici ed economici negativi, tra cui

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l’espropriazione capitalistica, la gerarchia razziale e un’idea di cittadinanza senza diritto di voto alle elezioni presidenziali statunitensi. Il titolo dell’installazione fa ironicamente riferimento alla complicità dei musei e alla marca di una bibita statunitense molto popolare a Porto Rico, evidenziando come il potere e la presenza degli Stati Uniti siano fondati sullo sfruttamento coloniale, sull’igienismo e sulla gerarchia razziale in molteplici modi: dalla circolazione di beni, popoli e valori al reclutamento di antropologi, missionari, fotografi e politici a sostegno della matrice coloniale. The Museum of the Old Colony comprende una miriade di oggetti, fotografie, giornali, film e riviste di varia provenienza che raccontano molteplici storie legate alla dominazione spagnola e statunitense sulle comunità indigene e native, nonché sulle persone di origine africana, producendo un arazzo intricato delle travagliate vicende di Porto Rico. L’opera di Pablo Delano è esposta per la prima volta alla Biennale Arte. —Amanda Carneiro e Adriano Pedrosa

SAN JUAN, PORTO RICO, 1954 VIVE A WEST HARTFORD, USA

School for Maids in Puerto Rico from The Museum of the Old Colony: Foreigners Everywhere, 1948 Stampa ai pigmenti su carta straccia, 91,5 × 72 cm. Courtesy l’Artista; Wide World Photo.

The Museum of the Old Colony from The Museum of the Old Colony: Foreigners Everywhere, 2022 Photo Pablo Delano. Courtesy Duke Hall Gallery of Fine Art, James Madison University, Harrisonburg, USA.

War Bird and Banana Man - from The Museum of the Old Colony, 1940 Stampa ai pigmenti su carta straccia, 91,5 × 72 cm. Courtesy l’Artista; International News Photo. Statue of Liberty with Puerto Rican flag - from The Museum of the Old Colony, 1991 Stampa ai pigmenti su carta straccia, 91,5 × 71 cm. Courtesy l’Artista; UPI; Bettman Archive.


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Disobedience Archive

Disobedience Archive è un archivio video multifase, mobile e in continua evoluzione incentrato sul rapporto tra pratiche artistiche e azione politica. Sviluppato dal curatore e teorico dell’arte Marco Scotini nel 2005, il progetto genera un atlante delle tattiche di resistenza contemporanea, dall’azione diretta alla controinformazione, dalle pratiche costituenti alla bioresistenza. Funge anche da “guida all’uso” della disobbedienza sociale, poiché contiene centinaia di materiali documentari che coprono decenni. Disobedience Archive esplora l’attivismo artistico emerso dopo la fine del Modernismo e comprende centinaia di immagini video e cinematografiche che rivelano la natura mediatizzata della storia. Da un lato, mira a mostrare esattamente ciò che le industrie mediatiche, in quanto agenti centrali dell’autoritarismo politico, tentano di nascondere o rimuovere dalla vista. Dall’altro, mira a riprendere il controllo dell’espropriazione violenta dell’esperienza e, a sua volta, finisce per produrre storia e renderla visibile.

Presentato quindici volte in diversi paesi, Disobedience Archive si trasforma ogni volta senza mai assumere una configurazione definitiva. Che si tratti di un parlamento, di una scuola o di un giardino pubblico, il progetto trasforma l’archivio, per sua natura statico e tassonomico, in un dispositivo dinamico e generativo. Per la Biennale, Disobedience Archive rappresenta The Zoetrope, la macchina pre-cinematografica che animava le immagini. Indaga la rappresentazione del movimento, dando vita a uno spazio centrifugo. In questa occasione presenta due nuove macrosezioni che comprendono quaranta filmati: Diaspora Activism affronta i processi migratori transnazionali nel contesto del neoliberismo egemonico, come lotta che spinge a nuovi modi di abitare il mondo e mette in discussione il significato stesso di cittadinanza. Gender Disobedience è, in continuità con la sezione precedente, dedicato alle soggettività nomadi, concepite come rottura del binarismo eterosessuale. Questa sezione riunisce le alleanze tra l’attivismo che critica il capitalismo e i movimenti LGBTQ+ emersi a livello globale.

MARCO SCOTINI CON: URSULA BIEMANN, BLACK AUDIO-FILM COLLECTIVE, SEBA CALFUQUEO, SIMONE CANGELOSI, CINÉASTES POUR LES SANSPAPIERS, CRITICAL ART ENSEMBLE, SNOW HNIN EI HLAING, MARCELO EXPÓSITO WITH NURIA VILA, MARIA GALINDO & MUJERES CREANDO, BARBARA HAMMER, MIXRICE, KHALED JARRAR, SARA JORDENÖ, BANI KHOSHNOUDI, MARIA KOURKOUTA & NIKI GIANNARI, PEDRO LEMEBEL, LIMINAL & BORDER FORENSICS (LORENZO PEZZANI, JACK ISLES, GIOVANNA REDER, STANISLAS MICHEL, CHIARA DENARO, ALAGIE JINKANG, CHARLES HELLER, KIRI

SANTER, SVITLANA LAVRENCHUK, LUCA OBERTÜFER), ANGELA MELITOPOULOS, JOTA MOMBAÇA, CARLOS MOTTA, ZANELE MUHOLI, PINAR ÖĞRENCI, DANIELA ORTIZ, THUNSKA PANSITTIVORAKUL, ANAND PATWARDHAN, PILOT TV COLLECTIVE, QUEEROCRACY, OLIVER RESSLER AND ZANNY BEGG, CAROLE ROUSSOPOULOS, GÜLIZ SAĞLAM, IRWAN AHMETT & TITA SALINA, TEJAL SHAH, CHI YIN SIM, HITO STEYERL, SWEATMOTHER, RAPHAËL GRISEY AND BOUBA TOURÉ, NGUYỄ ỄN TRINH THI, JAMES WENTZY, ŽELIMIR ŽILNIK

Disobedience Archive è esposto per la prima volta alla Biennale Arte. —Marco Scotini

Disobedience Archive, 2010 Veduta dell’installazione a Raven Row, Londra. Photo Marcus J. Leith. Allestimento dell’esposizione Xabier Salaberria.

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Disobedience Archive (Ders Bitti), 2022 Veduta dell’installazione alla 17. Bienniale di Istanbul, Central Greek School for Girls, Istanbul. Photo Sahir Ugur Eren. Allestimento dell’esposizione Can Altay.


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Aref el Rayess

Aref el Rayess – scultore, pittore e designer – è stato un prolifico ed eclettico modernista arabo la cui opera abbraccia i periodi coloniale, decoloniale e postcoloniale. Nato da una famiglia drusa (una minoranza etnica e religiosa), inizia a dipingere con la madre, Latifeh Abi Rafeh, e i suoi studi lo portano lontano. In Senegal, duratura influenza, dipinge paesaggi e delicati ritratti. A Parigi, dopo incursioni in varie discipline, torna a dipingere all’École des Beaux-Arts, insieme ad altri artisti libanesi: Shafic Abboud, Etel Adnan, Farid Aouad e Said Akl, per citarne alcuni. Ovunque si rechi – Algeria, Messico, Italia per borse di studio, Stati Uniti su commissione –, el Rayess è al centro dei dibattiti intellettuali, politici e filosofici del periodo della decolonizzazione del dopoguerra. Persona nomade e profondamente spirituale, si immerge nel cristianesimo in Libano; a Londra esplora il buddismo e a Jeddah, in Arabia Saudita, si interessa all’Islam.

Toli’ al Bader Alaina (1982) raffigura la maquette di una delle tante sculture che el Rayess e altri artisti sono incaricati di realizzare nell’ambito del progetto di abbellimento di Jeddah. Una di queste opere è la Colonne de Lumière (1980), un monumento in alluminio alto 28 metri che rappresenta la parola Allah, installato in Palestine Square. Facendo riferimento a un nasheed, un canto per il profeta Maometto ad alMadīna, il dipinto fa parte di Desert, importante serie in cui il paesaggio del deserto, le dune e le strutture emergono da colori sfumati e al tempo stesso vibranti. Con la moglie e la figlia lascia il Libano per l’Arabia Saudita negli anni Ottanta, durante la guerra civile.

ALEY, LIBANO, 1928–2005

L’opera di Aref el Rayess è esposta per la prima volta alla Biennale Arte. —Khushi Nansi

Toli’ al Bader Alaina (Moonrise), 1982 Olio su tela, 60 × 91 cm. Courtesy the Estate of the Artist e Sfeir-Semler Gallery Beirut / Amburgo.

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Untitled (Desert series), 1986 Olio su tela, 61 × 91,5 cm. Courtesy the Estate of the Artist e Sfeir-Semler Gallery Beirut / Amburgo.

Untitled (Desert series), 1986 Olio su tela, 91,5 × 120 cm. Courtesy the Estate of the Artist e Sfeir-Semler Gallery Beirut / Amburgo.


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Elyla

Elyla reinterpreta le tradizioni popolari per sconvolgere il nostro rapporto con le stesse e con le strutture di potere che rappresentano. Forza dinamica dell’arte performativa e dell’attivismo proveniente dall’America Centrale, ha coniato il termine barro-mestiza per prendere le distanze dalla lettura tradizionale del mestizaje durante il processo di decolonizzazione in corso. La ricerca artistica autogestita condotta ai margini del mondo accademico si manifesta come una forma di autoetnografia sperimentale che comprende performance video, installazioni, foto-performance, teatro e attivismo comunitario anticoloniale. Il suo lavoro mette in discussione le costruzioni egemoniche delle politiche identitarie e le narrazioni culturali nazionaliste relative al mestizaje, alla queerness e all’ancestrale cosmovisione indigena. Smantella attivamente le modalità convenzionali di abitare il corpo, e quest’ultimo diventa territorio e memoria collettiva, un luogo da cui lanciare una sfida al sistema. I primi lavori di Elyla contestavano le politiche patriarcali e repressive sostenute dalle forze conservatrici e il loro effetto sull’esistenza queer.

CHONTALES, NICARAGUA, 1989 VIVE A MASAYA, NICARAGUA

La video performance Torita-encuetada (2023), una cerimonia anticoloniale, esplora la liberazione dal giogo coloniale attraverso un rituale del fuoco che affonda le radici in una pratica culturale nicaraguense chiamata toro encuetado. La danza rituale, o mitote – struggente atto di ricordo politico –, sollecita il ritorno a pratiche di rispetto della terra e alla decolonizzazione del mestizaje delle identità sessuali e di genere in Mesoamerica. In collaborazione con il regista nicaraguense Milton Guillén e con le musiche di Susy Shock e Luigi Bridges, il rituale filmato si addentra nell’incontro di corpodivinità ancestrali della regione del Pacifico del Nicaragua, invitando gli spettatori ad assistere alle intersezioni tra cultura, prassi artistica anticoloniale e sacro. Nella sfida alle norme sociali, Elyla trasforma l’utopia cochón (queer) in una pratica artistica rivoluzionaria del presente. La performance è dedicata ai leader culturali indigeni Mangue-Chorotega e ai custodi del sapere ancestrale Gustavo Herrera e Cristian Ruiz (19772022), amici, collaboratori e guide dell’artista. L’opera di Elyla è esposta per la prima volta alla Biennale Arte. —Sofía Shaula Reeser-del Rio

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Torita-encuetada, 2023 Videoperformance, 9’ 43”. Courtesy l’Artista. Realizzato in collaborazione con Milton Guillén.


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Romany Eveleigh

Romany Eveleigh, nata a Londra ma cresciuta a Montreal, è figlia d’arte: il padre era il pittore e designer Henry Rowland Eveleigh e la madre era la sua modella, Ivy Florence Beasley. La carriera artistica di Eveleigh copre una traiettoria di oltre cinquant’anni, a partire dagli studi all’École des Beaux-Arts di Montreal prima di seguire le orme del padre alla Slade School of Fine Art di Londra. Inizia a esporre le sue opere a livello internazionale negli anni Cinquanta e diviene nota per i suoi dipinti e disegni astratti essenziali, quasi monocromatici. Questi sono caratterizzati da segni distintivi e da linee delicate che attingono alla scrittura come vocabolario visivo. Spesso si evidenzia il 1963 come anno decisivo nella sua biografia: è l’anno in cui incontra la fotogiornalista italiana Anna Baldazzi, che diviene sua

compagna e moglie e che la introduce al movimento femminista radicale. Eveleigh si stabilisce a Roma ma viaggia molto in Europa e in Asia, dividendosi anche fra New York e Montreal. Le opere su carta incollata alla tela – Pages (1973) e Tri-Part (1974) – prendono spunto dalla pagina scritta e stampata per la loro estetica, per i materiali e le tecniche. I disegni di Pages sono caratterizzati dalla ripetizione della lettera “o” che riempie di colonne di testo verticale lo sfondo quadrato, creando fasce irregolari di colore tenue, così che da lontano questi lavori astratti sembrano pagine di un libro o supporti stampati. La pratica di Eveleigh si produce nella forma scritta, ma non comunica un messaggio. Piuttosto, le campiture di colore bidimensionale che ricoprono la

LONDRA, REGNO UNITO, 1934 – 2020, ROMA, ITALIA

superficie della pagina evocano il gesto della mano dell’artista e sono state paragonate ai lavori dei pittori del Colour Field. Sebbene ricolme di testo, le opere generano un effetto di estrema frugalità che l’artista ha definito “non la ricerca di una fine, ma la ricerca di un inizio”. L’opera di Romany Eveleigh è esposta per la prima volta alla Biennale Arte. —Teresa Kittler

Tri-Part, 1974 Olio e inchiostro da stampante su carta, montato su tela di lino, 78 × 70 cm (ciascuno). Collezione privata. Courtesy Delancey e Greene, LLC. © The Estate of Romany Eveleigh.


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1/2 Eight, 1974 Pittura e inchiostro da stampante su carta, montata su tela di lino, 123 × 131,5 cm. Courtesy Tia Collection, Santa Fe, New Mexico, USA. © The Estate of Romany Eveleigh.


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Alessandra Ferrini

Alessandra Ferrini è un’artista, ricercatrice ed educatrice italiana residente a Londra. La sua ricerca si inserisce nel panorama metodologico postcoloniale, attingendo a pratiche storiografiche e archivistiche e ai Critical Whiteness Studies. In particolare, finora si è concentrata sulla rielaborazione dell’esperienza coloniale italiana e sul modo in cui le narrazioni storiche segnano le attuali relazioni tra l’Italia, il Mediterraneo meridionale e il continente africano. Nel farlo, l’artista accosta diversi media, rivisitando il formato del documentario ed esplorando lo sguardo multiprospettico offerto dal mezzo cinematografico, dalla fotografia, dall’installazione e dalla saggistica testuale.

FIRENZE, ITALIA, 1984 VIVE A LONDRA, REGNO UNITO

Gaddafi in Rome: Anatomy of a Friendship (2024) fa parte di una ricerca condotta da Ferrini a partire dal 2017. Il titolo si riferisce al “trattato di amicizia, partenariato e cooperazione tra Italia e Libia”, firmato dagli allora capi di Stato Muammar Gheddafi e Silvio Berlusconi nel 2008. Questi accordi sono stati ratificati durante la visita del leader libico a Roma nel 2009. In quell’occasione, l’uniforme di Gheddafi mostrava l’immagine di Omar al-Mukhtar, leader della resistenza anticolonialista. Partendo dall’iconicità di quell’incontro, il cortometraggio Anatomy of a Friendship analizza la relazione tra i due stati, scavando nelle radici dell’occupazione italiana tra il 1911 e il 1943 per arrivare ai recenti accordi bilaterali che hanno ridisegnato le politiche migratorie nel Mediterraneo. Il film è corredato dall’immagine molto discussa di Omar al-Mukhtar e da una linea temporale di accordi diplomatici. La serie intende sviscerare gli eventi storici e le dinamiche coloniali che hanno caratterizzato questa relazione controversa. Un intento non solo esplicitato nel titolo, ma richiamato anche nella configurazione dell’ambiente dell’installazione, che cita, nei tendaggi e nelle sedute, il primo teatro anatomico di Padova. L’opera di Alessandra Ferrini è esposta per la prima volta alla Biennale Arte. —Lorenzo Giusti

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Gaddafi in Rome: Anatomy of a Friendship, 2024 Video still. Courtesy l’Artista.


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Victor Fotso Nyie

Victor Fotso Nyie è un artista contemporaneo il cui lavoro è incentrato su sculture figurative, spesso ritratti, in cui la forma delle tradizionali statuette lignee africane si fonde con personaggi immaginari di fantascienza. Spinto dall’interesse per la matericità e la maestria artigiana, Fotso Nyie si è specializzato in ceramica nel suo paese d’origine e ha proseguito gli studi presso l’Istituto Tecnico Superiore Tonito Emiliani di Faenza, l’Accademia di Belle Arti di Ravenna e l’Accademia di Belle Arti di Bologna. Ponendo particolare enfasi sulle caratteristiche materiche e simboliche dell’argilla, la sua pratica ruota intorno all’intero processo di produzione, culminando in sculture antropomorfe che oscillano tra sogno e inquietudine. L’opera di Fotso Nyie traccia un parallelismo tra la sensazione di sradicamento e di essere senza dimora vissuta dagli artisti in Italia e in Europa in generale, terre percepite come familiari ed estranee allo stesso tempo. Inoltre, mette in discussione il patrimonio sradicato dell’arte africana, disseminato nelle collezioni etnografiche di tutto il mondo. L’iconografia delle figure in argilla a doppia cottura, sottoposte a una terza cottura con l’oro, fonde elementi biografici con la cultura vernacolare panafricana, in particolare la conoscenza spirituale proveniente dall’Africa occidentale. In Malinconia (2020), un omaggio a una delle sue due sorelle, una giovane donna si trova di fronte a uno specchio. Il suo sguardo, profondamente introspettivo, rivela solitudine e la malinconia che dà il titolo all’opera; il ritratto trasmette l’equilibrio precario tra la sua

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bellezza delicata e la fragilità della vita. Un senso di nostalgia affiora nell’opera Veglia (2023), un omaggio all’amata madre defunta, rappresentata con la testa sprofondata nel sonno, i capelli raccolti all’indietro e un sorriso lieve. Gioia (2023) è un ritratto dell’altra sorella dell’artista: raffigura la testa di una giovane ragazza, la cui espressione gioiosa racchiude l’ottimismo, l’entusiasmo e la spensieratezza tipici della gioventù, catturati dall’artista con uno sguardo assorto e tenero. L’opera di Victor Fotso Nyie è esposta per la prima volta alla Biennale Arte. —Mariella Franzoni

DOUALA, CAMERUN, 1990 VIVE A FAENZA, ITALIA

Malinconia, 2020 Ceramica smaltata e oro, 37 × 25 × 30 cm. Photo Carlo Favero. Courtesy P420, Bologna. Gioia, 2023 Ceramica smaltata e oro, 45 × 35 × 40 cm. Photo Carlo Favero. Courtesy P420, Bologna.


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Louis Fratino

Louis Fratino è un artista i cui dipinti e disegni del corpo maschile e degli spazi domestici catturano l’intimità e la tenerezza trovate nella vita quotidiana queer. Le sue immagini – che si tratti di una grande pila di piatti sporchi nel lavello o della luce del mattino che illumina il busto del partner – iniziano con un disegno e vengono via via trasformate sulla tela da un vocabolario visivo che egli sintetizza dai massimi successi della storia dell’arte. Dopo la laurea, grazie a una borsa di studio Fulbright in pittura, ha vissuto per un anno a Berlino dove ha assaporato la “libertà di essere un artista che lavora”. La nuova opera nasce dal desiderio di archiviare osservazioni importanti e le esperienze emotive vissute durante il periodo trascorso

all’estero. Il lavoro di Fratino è profondamente personale e si pone in dialogo con una schiera di altri artisti queer che cercano di sovvertire le forme classiche dell’arte celebrando i piaceri della vita quotidiana LGBTQ+. Per la Biennale Fratino presenta una serie di nuovi dipinti che esplorano i modi in cui le persone LGBTQ+ socializzano per sopravvivere nel mondo come “outsider”. Questo nuovo corpus di opere critica la complessità delle dinamiche familiari che le persone queer devono affrontare, a partire dall’infanzia e fino all’età adulta. Attingendo a fonti visive personali, Fratino contrappone l’immagine della famiglia a viscerali rappresentazioni omoerotiche come modo per rendere visivamente complesse le tensioni tra i due mondi. Da decenni, le comunità

NEW YORK, USA, 1993 VIVE A NEW YORK

queer sopportano il peso di essere “altro”, sottoposte a vari gradi di violenza, in ambito domestico e pubblico, permessi dai valori tradizionali della famiglia e persino dalla legge. Il nuovo lavoro di Fratino – connotato da un urgente carico emotivo – svela un ulteriore livello di risposta politica al clima sociale che le persone queer si trovano ovunque a dover affrontare. L’opera di Louis Fratino è esposta per la prima volta alla Biennale Arte. —Juan Manuel Silverio

I keep my treasure in my ass, 2019 Olio su tela, 217,8 × 165,1 cm. Collezione privata. Courtesy Sikkema Jenkins & Co., New York. © Louis Fratino.


267 NUCLEO CONTEMPORANEO Eggs, dishes, coreopsis, 2020 Olio su tela, 106,7 × 106,7 cm. Collezione privata. Courtesy Sikkema Jenkins & Co., New York. © Louis Fratino.

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Metropolitan, 2019 Olio su tela, 152,4 × 240,7 cm. Collection Tom Keyes e Keith Fox. Courtesy Sikkema Jenkins & Co., New York. © Louis Fratino.


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Ṣàngódáre Gbádégẹsin Àjàlá

Ṣàngódáre Gbádégẹsin Àjàlá è un pittore batik di tessuti colorati a mano secondo una tecnica di tintura a riserva con la cera, nella quale fonde la propria pratica artistica e rituale. Nato da una stirpe di sacerdoti Ṣàngó (il dio del tuono degli Yoruba), Àjàlá è sul punto di ricevere la propria iniziazione quando, nel 1959, il padre muore; viene allora adottato da un’artista austriaca appassionata di religione yoruba che viveva a Osogbo, Susanne Wenger, anch’essa sacerdotessa iniziata, e nel 1960 viene finalmente iniziato al culto di Ṣàngó. Dopo aver appreso la pittura batik dalla stessa Wenger, diventa a sua volta un rinomato innovatore di questa tecnica. Ha esposto a livello internazionale e ha viaggiato in Nigeria, Cuba e Brasile per supervisionare le iniziazioni sacerdotali. Diventa uno degli artisti di punta del New Sacred Art Movement fondato da Wenger e da altri artisti, assicurando in seguito la conservazione dei santuari e delle sculture nella foresta sacra di Osun-Osogbo, che si estende per 75 ettari ed è dichiarata patrimonio dell’umanità dall’UNESCO.

OSOGBO, NIGERIA, 1948–2021

La pratica di Àjàlá trasmette, come afferma egli stesso, “la ricca complessità della sua eredità culturale e della sua spiritualità”. La densa narrazione dei suoi batik spesso raffigura iniziazioni degli olórìṣàs, individui consacrati alle divinità yoruba, come era stato il suo caso, o feste dedicate alle divinità. Altri, invece, celebrano la vita quotidiana, come uomini che spillano vino di palma o donne che trasportano merci al mercato. La predilezione per il disegno preciso e il colore multidimensionale lo porta a una continua sperimentazione nella tecnica di tintura a riserva del batik che si può osservare in queste opere, in cui i disegni vengono tracciati con la cera e la tintura applicata successivamente. Oltre alla caratteristica figurazione, le innovazioni formali nella pittura batik sono legate alla sua vasta conoscenza yoruba delle piante officinali, grazie alla quale crea tinture vegetali che permettono la straordinaria colorazione e l’ombreggiatura delle sue opere, con composizioni come quelle esposte in Biennale che includono fino a trentacinque colori. L’opera di Ṣàngódáre Gbádégẹsin Àjàlá è esposta per la prima volta alla Biennale Arte. —Merve Fejzula

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Unknown title (O . ya pe. lu às. e. re. , O . ya with her symbols of sacred force), s.d. Batik, 148 × 235 cm. Courtesy Susanne Wenger Foundation. © Martin Bilinovac.

Unknown title (abstract batik motif around palm wine tapper scene), s.d. Batik, 125 × 93 cm. Courtesy Susanne Wenger Foundation. © Martin Bilinovac.


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Untitled, s.d. Batik, 136 × 88 cm. Collezione J. & W. Druml. Collezione Lucia e Helmut Wienerroither. Courtesy. Susanne Wenger Foundation. © Martin Bilinovac.


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Madge Gill

I disegni, i tessuti e gli scritti di Madge Gill sono stati via via accolti come comunicazioni medianiche provenienti da un altro mondo, capolavori visionari e opere influenzate dai suoi problemi mentali. L’artista nasce Maude Eades nel 1882 nell’East London da genitori non sposati. A nove anni viene affidata all’orfanotrofio Barnardo’s che la invia in Canada, nell’ambito di un programma di immigrazione infantile; lì rimane a lavorare come domestica per sette anni, per poi tornare nel Regno Unito. Gill incontra una serie di difficoltà nel costruirsi una vita a Londra: la morte di un figlio nel 1918, una bambina nata morta e una salute gravemente cagionevole, fino a subire un esaurimento nervoso. A questo periodo traumatico si fa risalire la comparsa del suo impulso creativo. A partire dal 1920 inizia a sperimentare visioni, spesso di tono mitico o religioso, e comincia a produrre disegni e tessuti a grande velocità, affermando di essere “guidata da una forza invisibile”. Mentre continua a comunicare con questo regno di influenze ultraterrene, Gill diventa una medium di fama locale, partecipando a circoli spiritici.

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WALTHAMSTOW, REGNO UNITO, 1882 – 1961, LONDRA, REGNO UNITO

I disegni di Gill sono popolati da enigmatici volti femminili, scale vertiginose e piani a scacchiera che sembrano proliferare all’infinito in una fitta rete di segni ripetitivi. Nelle sue immense dimensioni, Crucifixion of the Soul (1934) è una reiterazione dello stile caratteristico dell’artista, sebbene si discosti dall’abituale tavolozza monocromatica. La composizione – che per la fulgida complessità e il processo frammentario di realizzazione ricorda una vetrata in frantumi – si è sviluppata via via che il tessuto di calicò veniva srotolato in sezioni, per dispiegarsi poi nell’insieme finale. Si ipotizza che i volti che punteggiano l’opera siano autoritratti, immagini dello spirito guida di Gill o espressioni sublimate di isolamento, sospese in paesaggi instabili. L’opera di Madge Gill è esposta per la prima volta alla Biennale Arte. —Sybilla Griffin

Crucifixion of the Soul , 1936 Inchiostro su calicò, 147 × 1062 cm. Photo Ollie Harrop. Courtesy London Borough of Newham. © London Borough of Newham.


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Marlene Gilson

WADAWURRUNG, WARRNAMBOOL, AUSTRALIA, 1944 VIVE A GORDON, AUSTRALIA

Marlene Gilson è una Wathaurung/Wadawurrung Elder e Traditional Owner la cui pratica pittorica contemporanea è caratterizzata da una meticolosa attenzione ai dettagli. In possesso di una conoscenza intergenerazionale trasmessale dalla nonna, Gilson formula delle ipotesi sulla vita degli aborigeni all’epoca della colonizzazione, durante la corsa all’oro nel territorio Wathaurung/Wadawurrung. I suoi dipinti raffigurano spesso i suoi antenati Willem Baa Nip (re Billy) e sua moglie, la regina Mary, e presentano i suoi totem, Bunjil (Aquila dalla coda a cuneo) e Waa (Corvo). Le opere di Gilson sono esposte in tutta l’Australia e recentemente sono state animate e ampliate in arte pubblica su larga scala.

I dipinti di Gilson pongono rimedio a una storia dell’arte che ha cancellato le persone, le comunità e la cultura aborigene. Gli ampi paesaggi panoramici del deserto, della spiaggia e della savana spalancano vie di accesso molto dettagliate e culturalmente ricche sul passato, popolate dai suoi riconoscibili personaggi immersi nella loro vita quotidiana. Nell’intera sua opera, l’artista mette in evidenza il coinvolgimento dei Wathaurung/Wadawurrung in eventi storici. Tra questi, l’Eureka Stockade (1854) e le interazioni tra gli abitanti delle Prime Nazioni e gli immigrati di altre culture, tra cui William Buckley (1780-1856) – un evaso britannico che visse con i Wathaurung/Wadawurrung

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per trentadue anni prima di tornare nella società coloniale – e i cammellieri afghani. Compaiono anche importanti siti culturali come le cascate di Moorabool, legate a Bunjil, il creatore ancestrale della nazione Kulin. Attestando la presenza dei propri antenati Wathaurung/Wadawurrung e relativi significanti culturali, i dipinti di Gilson assumono la forma di racconto di una verità personale. L’autrice afferma che “ogni pennellata contribuisce a collocare la storia della mia famiglia sulla mappa del mondo e a riportarla nei libri di storia”. L’opera di Marlene Gilson è esposta per la prima volta alla Biennale Arte. —Jessica Clark

Building the Stockade at Eureka, 2021 Acrilico su lino, 100 × 120 cm. Photo Jessica Maurer. Collezione privata, Sidney, Australia. Courtesy Martin Browne Contemporary, Sydney.


273 NUCLEO CONTEMPORANEO Market Day, 2022 Acrilico su lino, 76 × 100 cm. Photo Jessica Maurer. The Wesfarmers Collection, Perth, Australia. Courtesy Martin Browne Contemporary, Sydney.

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William Buckley, Interpreter, 2023 Acrilico su lino, 60 × 76 cm. Photo Jessica Maurer. Collezione privata, Sidney, Australia. Courtesy Martin Browne Contemporary, Sydney.


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Gabrielle Goliath

Gabrielle Goliath opera principalmente per mezzo di video e performance, esplorando i temi relativi alle forme di violenza nei confronti di esseri umani storicamente emarginati o sottorappresentati, come le persone nere, marroni, queer e femme. Ha conseguito un BFA (2007) e un MAFA (2011) presso l’Università del Witwatersrand, in Sudafrica. Attraverso la sua pratica, Goliath esplora la pervasività della violenza e la politica del linguaggio che la circonda, gli atti di rispetto e commemorazione per le persone colpite e le manifestazioni di dolore. Personal Accounts (2022) è un’installazione audiovisiva in corso, transnazionale e multicanale, radicata nel rifiuto e nella riparazione.

KIMBERLEY, SUDAFRICA, 1983 VIVE A JOHANNESBURG, SUDAFRICA

Qui, donne e collaborator gender non-conforming condividono le proprie storie personali su forme di violenza fisica, psicologica e sistemica. Invece di ascoltare racconti dettagliati, si odono respiri, sospiri, mormorii, pianti e risate che testimoniano tenacia e sopravvivenza. Gli spettatori vengono informati attraverso le espressioni del corpo che solitamente impreziosiscono e danno enfasi al linguaggio. Quest’opera parla di cura, sopravvivenza e cameratismo. Sebbene il lavoro sia radicato nella performance, invece di obbedire alla spettacolarizzazione della violenza e delle sue conseguenze, Goliath sceglie di mettere in risalto ciò che è discreto e specifico. Il lavoro è stato prodotto a Johannesburg, Tunisi, Oslo, Milano, Edimburgo e Stellenbosch. L’opera di Gabrielle Goliath è esposta per la prima volta alla Biennale Arte. —Tandanzani Dhlakama

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Personal Accounts (There’s a river of birds in migration), 2024 Video stills. Courtesy l’Artista.


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Brett Graham

Cresciuto nel pieno del movimento artistico māori contemporaneo, la pratica artistica di Brett Graham ha esteso e consolidato la posizione di uno specifico linguaggio visivo māori, ampliandone le connessioni con le questioni indigene globali. Pur assorbendo l’influenza del padre, Fred Graham, e dei suoi contemporanei, spesso formatisi in ambito artistico, frequenta la Elam School of Fine Arts dell’Università di Auckland, seguita da un diploma post-laurea presso la University of Hawai’i, Honolulu (1990), una roccaforte degli studi indigeni. Tornato in Nuova Zelanda, espone regolarmente sculture e installazioni che incorporano una vasta gamma di materiali, attraverso cui esplora temi politici, filosofici e artistici centrali nella storia māori e del Pacifico. In un periodo della storia dell’arte māori rinomato per l’inclusione di pratiche Post-Pop e di narrazioni urbane, il lavoro di Graham è unico nel suo genere per il suo essere esplicitamente incentrato sulla conoscenza māori e sulla whakapapa (ascendenza) informata dal passato, pur rimanendo politicamente impegnato in questioni contemporanee.

La scultura Wastelands (2024) colloca un pātaka (magazzino) intagliato su ruote, evocando le nozioni di mobilità, transitorietà e separazione dalla patria. Struttura architettonica rialzata su pali, il pātaka era tradizionalmente usato dai Māori come deposito di cibo e beni, spesso con intagli particolarmente ricercati sull’architrave, indicativi della ricchezza e del prestigio della comunità iwi. Invece di utilizzare i tradizionali motivi intagliati, Graham ricopre i suoi pātaka di anguille, in riferimento alla fonte di cibo e in segno di riverenza verso il mondo naturale del suo popolo Tainui. Nel 1858, come parte del progetto coloniale, il governo neozelandese aveva approvato il Waste Lands Act, che trasformava la definizione di grandi terre paludose – una ricca risorsa per i Māori – in “waste”, “rifiuti”, appunto. La legge rivendicava queste vaste paludi come terre non occupabili, ridefinendole come territori di zone umide da prosciugare e destinare all’agricoltura. La presentazione di questo magazzino da parte di Graham ricorda che per i Māori queste riserve di anguille erano preziose quanto miniere d’oro. L’opera di Brett Graham è esposta per la prima volta alla Biennale Arte. —Natasha Conland

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Maungārongo Ki Te Whenua, Maungārongo Ki Te Tangata, 2020 Legno, vernice a polimeri sintetici e grafite, 320 × 800 × 320 cm. Photo Neil Pardington. Courtesy l’Artista.

AUCKLAND, AOTEAROA/NUOVA ZELANDA, 1967 VIVE AD AUCKLAND


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Fred Graham

Stimato artista e docente, Fred Graham è una delle più apprezzate figure emerse dalla prima generazione di artisti māori contemporanei negli anni Cinquanta. Come molti di questo gruppo, che combinavano organicamente due distinte tradizioni artistiche – quella indigena māori e quella del Modernismo occidentale – per forgiare una propria identità artistica, Graham si è inizialmente formato come docente di arte. Per tutti gli anni Cinquanta e Sessanta ha ricoperto importanti incarichi di educazione artistica nelle scuole māori, sviluppando al contempo il proprio linguaggio scultoreo con legno intagliato, pietra e acciaio. Per la sua prima mostra, nel 1965, torna a casa nella sua comunità iwi del Waikato, nell’Isola del Nord, esponendo insieme a un crescente movimento di māori. Queste mostre diventano un meccanismo di scambio di idee e un mezzo per rafforzare la visibilità dell’arte Māori. Nel 1978 Graham partecipa a un importante programma di scambio negli Stati Uniti, che consolida le sue convinzioni sull’importanza delle conoscenze tradizionali dell’intaglio e della visione del mondo indigeno.

ARAPUNI, AOTEAROA/NUOVA ZELANDA, 1928 VIVE A WAIUKU, AOTEAROA/NUOVA ZELANDA

Whiti Te Ra (1966) rappresenta quattro figure in movimento. Con l’abile combinazione di forme semplificate riprese dagli intagli tradizionali e i segni fluidi del pastello a olio, l’artista rende l’azione e la frase iconica della haka māori composta da Te Rauparaha, leggendario capo Ngāti Toa, intorno al 1820. La haka, che recita “Ka mate, ka mate” (È la morte, è la morte), celebra la vita sulla morte e la fortunata fuga di Te Rauparaha. Il titolo Whiti Te Ra (Verso la luce del sole) è un’esclamazione positiva di benessere e avanzamento. Il gruppo di opere scolpite mostra gli inizi sperimentali di Graham, con cui ha dato creativamente forma a concetti della mitologia māori che includono narrazioni sulle origini dell’intaglio stesso e sulla sua interrelazione con il mondo naturale. Le figure del dio Tangaroa e del guardiano Tinirau, entrambi centrali nella storia delle origini dell’intaglio, sono rappresentate in un nuovo e sorprendente linguaggio visivo che incarna, assieme alla continuità con le conoscenze indigene māori e il rispetto per la terra, una nuova forma ribelle che sfida una definizione univoca. L’opera di Fred Graham è esposta per la prima volta alla Biennale Arte. —Natasha Conland

Tamariki a Tangaroa, 1970 Legno, 76 × 244 × 120 cm. Collezione Colleen Hill. Courtesy l’Artista.

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Whiti Te Rā, 1966 Colori a olio solidi su tavola, 137 × 62,8 × 6 cm. Courtesy Auckland Art Gallery Toi o Tāmaki. © Auckland Art Gallery Toi o Tāmaki.


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Nedda Guidi

Nedda Guidi – artista in conflitto con il mondo dell’arte contemporanea in quanto donna queer, femminista convinta e insegnante – sceglie di lavorare con la ceramica, da molti considerata una tecnica minore. In sessant’anni di pratica artistica, ha stravolto i modi tradizionali di lavorare l’argilla, utilizzandola in maniera inusuale rispetto alle tecniche e alle forme convenzionali. A seguito del suo trasferimento a Roma nei primi anni Cinquanta, le sue ceramiche giocano con l’intersezione tra astrazione e figurazione. La sua prima personale alla Galleria Numero nel 1964, introdotta dal celebre critico Filiberto Menna, presenta sculture sottili come carta che evocano volumi e curve corporee. Alla fine del decennio, Guidi si orienta verso la modularità e si allontana dagli smalti. Vuole studiare l’alchimia degli ossidi naturali mescolandoli direttamente con l’argilla per “ritrovare un’innocenza perduta e recuperare l’originalità della materia”.

GUBBIO, ITALIA, 1923 – 2015, ROMA, ITALIA

Smaltato in blu Sèvres, Modular 1 (1967-1968) cattura una negoziazione tra volumi geometrici e forme corporee. Pur essendo composta da quattro blocchi identici, l’opera ha l’altezza di una persona e le sue sezioni di colore rosso rubino antropomorfizzano la scultura e le conferiscono un genere. Per contro, Otto B o Naturale-Artificiale (1974) esemplifica il suo impiego della modularità. Con precisione millimetrica, Guidi fonde elementi composti da impasti diversi, ciascuno dei quali richiede tempi e temperature di cottura specifici, che si uniscono in molteplici formazioni. Rivelando una padronanza alchemica dei processi di colorazione naturale dell’argilla, Deposizione (1977) è costituita da una sequenza di elementi rettangolari nei toni del blu. L’opera ingloba due indicatori del potere patriarcale: il cattolicesimo, con il riferimento alla Deposizione di Cristo, e il linguaggio, traducendo lo spazio che l’artista ha posto tra le lettere del titolo nella struttura dell’opera. De-position è stata esposta per la prima volta nel 1977 negli spazi della Cooperativa Beato Angelico, il pionieristico collettivo di artiste femministe co-fondato da Guidi l’anno precedente. L’opera di Nedda Guidi è esposta per la prima volta alla Biennale Arte. —Sofia Gotti

Tavola di Campionatura n. 1 (crudo-cotto), 1976 Terracotta e ossidi in custodia di legno, 50 × 50 cm. Photo Giorgio Benni. Collezione privata, Roma, Italia.

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La presenza di Nedda Guidi alla Mostra Internazionale è completata da una piccola rassegna, un Progetto Speciale a Forte Marghera, Mestre.

Otto B o Naturale-Artificiale, 1974 Terracotta non smaltata e terracotta smaltata rosa. Otto elementi totali ø 90 cm. Courtesy Museo Internazionale delle Ceramiche di Faenza, Italia.

De-posizione, 1977 Terracotta e ossidi, 6 × 66 × 155 cm. Photo Giorgio Benni. Collezione privata, Roma, Italia.


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Antonio Jose Guzman & Iva Jankovic

Nella loro collaborazione artistica, Antonio Jose Guzman e Iva Jankovic includono tessuti indaco, paesaggi sonori e performance per affrontare il modo in cui il nostro mondo è stato plasmato dal colonialismo e dalla migrazione. Spesso presentati in installazioni monumentali, i loro tessuti a stampa xilografica dimostrano che i confini sono il prodotto di una costante ricostruzione di pratiche politiche, culturali e sociali. Come uno dei capitoli della serie Electronic Dub Station, Orbital Mechanics si configura come un labirinto immersivo incentrato sugli spazi tra le culture, come identificato dallo studioso Homi Bhabha nella sua teoria del terzo spazio. Il “terzo spazio” descrive l’identità culturale ibrida che emerge dall’intreccio di elementi di culture diverse. Ciò si collega a un concetto centrale nei progetti di Guzman e Jankovic: la “cultura atlantica nera”, coniata dallo studioso Paul Gilroy come cultura non specificamente

africana, americana, caraibica o europea, ma tutte queste insieme. Guzman e Jankovic reinterpretano la storia dei tessuti sacri di colore indaco, che sono profondamente legati alla storia coloniale e al commercio degli africani schiavizzati che portarono nelle Americhe la loro esperienza della coltivazione dell’indaco. I tessuti dell’installazione presentano un modello astratto di sequenze di DNA interculturali che incarnano una connessione globale nell’Atlantico Nero. I tessuti sono stampati nel laboratorio Ajrakh di Sufiyan Khatri ad Ajrakhpur, in India. Utilizzando metodi tradizionali di tintura manuale, l’Ajrakh è una pratica antica di quattromila anni, tramandata oralmente di generazione in generazione. Il paesaggio sonoro di accompagnamento allude alle idee di appartenenza ed esclusione attraverso l’esplorazione di suoni diasporici che combinano musica

PANAMA, 1971 VIVE AD AMSTERDAM, PAESI BASSI, E PANAMA RUMA, SERBIA, 1979 VIVE AD AMSTERDAM, PAESI BASSI

elettronica, dub, punk e tamburi senegalesi. La musica risuona in una performance intitolata Messengers of the Sun, che incarna i temi del progetto quali migrazione, razza e identità culturali ibride in una danza e parata cerimoniale. L’opera di Antonio Jose Guzman e Iva Jankovic è esposta per la prima volta alla Biennale Arte. —Amanda Pinatih e Britte Sloothaak

Jupiter Moonrise Dub, Electric Dub Station Series, 2020 Ajrakh stampato a blocchi tinto con indaco. Photo Natascha Libbert. Courtesy Atelier GF Workstation. © Antonio José Guzman e Iva Jankovic. Ultra DNA Sequencing, Electric Dub Station Series, 2020 Ajrakh stampato a blocchi tinto con indaco. Photo Natascha Libbert. Courtesy Atelier GF Workstation. © Antonio José Guzman e Iva Jankovic.

Orbital Ignition, Electric Dub Station Series, Sonsbeek 20-24, 2021 Ajrakh stampato a blocchi tinto con indaco e cubi parametrici. Photo Natascha Libbert. Courtesy Atelier GF Workstation. © Antonio José Guzman e Iva Jankovic.



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Lauren Halsey

LOS ANGELES, USA, 1987 VIVE A LOS ANGELES

Lauren Halsey è un’artista che reinventa il rapporto tra architettura e comunità. Halsey opera in collaborazione con la propria comunità di South Central Los Angeles per creare progetti che ripensino, su scala più ampia possibile, i parametri delle possibilità estetiche e architettoniche. Le sue opere, reattive e sitespecific, sono una critica alla continua espropriazione delle popolazioni storicamente operaie, nere, marroni e queer della comunità, conservando e archiviando le loro eredità nel paesaggio culturale e nella memoria della città. Le sue installazioni sono proposte architettoniche reali che diventano modelli su larga scala forgiati con un’etica “per noi, da noi” che stimolano una visione collettiva per una cultura di radicale inclusione.

In occasione della Biennale, Halsey presenta, al termine dell’Arsenale, una nuova installazione composta da una serie di colonne monumentali ispirate alla vita quotidiana di South Central Los Angeles. Halsey ha già realizzato colonne in passato, alcune iscritte con parole e immagini, altre dipinte a mano. Per questa iterazione, ricontestualizza la forma della colonna hathorica, intagliando i capitelli con le sembianze e le storie delle persone del suo quartiere, rendendo così omaggio al loro contributo. Tale rimescolamento di temporalità – l’antico con il contemporaneo – è un gesto politico a sostegno della diaspora nera e afroamericana e della sua storia, accordandole la stessa riverenza che viene solitamente riservata ad altri punti di riferimento architettonici in tutto l’Occidente. L’installazione, intrisa della forza e delle storie della comunità locale dell’artista, dialoga con il resto dell’architettura di Venezia. L’opera di Lauren Halsey è esposta per la prima volta alla Biennale Arte. —Juan Silverio

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The Eastside of South Central Los Angeles Hieroglyph Prototype Architecture (I), 2023 Installazione al Metropolitan Museum of Art, New York. Courtesy The Metropolitan Museum of Art; Art Resource; Scala, Firenze.


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Evan Ifekoya

Evan Ifekoya – artista interdisciplinare la cui pratica rispecchia il ruolo di terapista spirituale – percepisce l’arte come piattaforma per ridistribuire e rinegoziare le risorse, sfidando le regole e gerarchie implicite negli spazi pubblici e sociali. Attraverso indagini d’archivio e sonore, esplora l’abbondanza della Blackness. Utilizzando interventi architettonici, rituali, installazioni e laboratori, stabilisce una pratica di vita che si contrappone alla disperazione. Il corpo costituisce il fulcro di un’esplorazione concentrata sul modo in cui quanti sono percepiti come marginali si muovono, si trasformano e trasmutano. I ritratti e le installazioni spaziali coinvolgono più sensi e collegandosi ad aspetti più profondi della consapevolezza spingono a riesaminare le categorie convenzionali. Operando con lo pseudonimo di Oceanic Sage, si addentra nelle tradizioni sacre influenzate dalla cosmologia dei propri antenati Yoruba. Il suo lavoro esplora le credenze, mettendo in risalto il corpo come sistema di conoscenza.

IPERU, NIGERIA, 1988 VIVE A LONDRA, REGNO UNITO

The Central Sun (2022) funge da stazione di trasmissione all’interno del progetto Resonant Frequencies, un’installazione sonora immersiva che mira a indagare l’esistenza e la comprensione al di là dei limiti della percezione visiva. Comprimendo in una sola ora il movimento di un’intera giornata, l’opera aspira a promuovere la trasformazione a livello cellulare tramite un coinvolgimento sensoriale e ambienti immersivi. Caratterizzato dal disco solare e dalla mezzaluna quali simboli di equilibrio e armonia, The Central Sun incorpora frequenze come la curativa 528 Hz. Questa integrazione trasforma l’opera in spazi di rinnovamento e riparazione, favorendo il benessere individuale e comunitario di coloro che sono storicamente esclusi dagli spazi sacri. L’artista, immergendosi in stati alterati di coscienza attraverso l’esperienza del suono, del silenzio e dell’ascolto, attinge alla saggezza delle tradizioni e delle pratiche Yoruba, ponendo sempre in primo piano l’elevazione della coscienza nera e queer. L’opera di Evan Ifekoya è esposta per la prima volta alla Biennale Arte. —Amanda Carneiro

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The Central Sun, 2022 Installazione sonora a un canale, altoparlanti, legno, vetro acrilico, styrodur, motore, sonagli di zucca dipinti, tamburo in pelle di gomma con gusci di ciprea, sughero, tappeto. Photo Stefan Altenburger Photography, Zurigo. Courtesy Sammlung Migros Museum für Gegenwartskunst. © ProLitteris, Zurigo


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Julia Isídrez

Julia Isídrez – artista e ceramista indigena guaraní – ha appreso le tecniche della ceramica dalla madre, Juana Marta Rodas. A metà degli anni Novanta, a causa di difficoltà economiche, progetta di trasferirsi a Buenos Aires; tuttavia, la madre e la sua stessa vocazione di ceramista la dissuadono dall’idea, scelta questa che le permette di sviluppare una brillante carriera artistica in Paraguay e di raggiungere la notorietà nell’arte contemporanea. Sia l’artista che la madre sono state protagoniste di varie mostre e biennali ed entrambe hanno ricevuto premi condivisi. Dopo la scomparsa della madre, Isídrez ottiene il diploma di Maestra del Arte, promosso nel 2014 dal Centro Cultural Cabildo, Congreso de Paraguay, e nel 2018 il premio Carlos Colombino, conferito dal Dipartimento Nazionale della Cultura del Paraguay.

Isídrez opera all’interno della tradizione guaraní, secondo la quale il mestiere di ceramista deve essere tramandato di madre in figlia, e sempre dalla madre ha appreso a raccogliere la sfida di incorporare audacemente forme e funzioni appartenenti a periodi diversi. Dopo la scomparsa della madre, ha continuato a percorrere nuove strade che non cancellano quelle ereditate: le sue continue e innovative sperimentazioni non le fanno dimenticare la forza elementare dell’argilla, né le antiche tecniche guaraní. Nutriti da mondi diversi, mossi dalla pura pulsione estetica, i vasi plasmati passano da una figurazione fantasmagorica, a volte barocca, all’esattezza di volumi austeri e linee pulite. Alimentata da un’immaginazione febbrile e sostenuta da una vocazione impeccabile per quanto riguarda la forma, la sua opera è oggi una delle più importanti nel suo paese natale. L’opera di Julia Isídrez è esposta per la prima volta alla Biennale Arte. —Ticio Escobar

Ginea (Diseño de Juana Marta), 2017 Ceramica, 110 × ø 48 cm. Photo Edouard Fraipont. Courtesy Gomide & Co.

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Vasija base tinója con tapa 2 ranas, 2023 Ceramica, 77 × 35 × 35 cm. Photo Edouard Fraipont. Courtesy Gomide & Co.

ITÁ, PARAGUAY, 1967 VIVE A ITÁ


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Grito de libertad, 2019 Ceramica, 102 × ø 55 cm. Photo Edouard Fraipont. Courtesy Gomide & Co.


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Nour Jaouda

Nour Jaouda è un’artista libica che fonde vita e pratica estetica attraverso continui spostamenti tra luoghi reali e ricordati. Tramite colori saturi e terrosi e fibre tessili, Jaouda esplora le tensioni tra vicinanza e distanza, presenza e assenza, frammentazione e ricostruzione. La simultanea esperienza di radicamento, come processo, e di assenza di radici conferiscono alla sua opera dimensioni concettuali e sensoriali. Sia che evochino lo sradicamento o il reimpianto del sé, i tessuti di Jaouda trasmettono la fluidità dell’identità e una condizione in costante divenire. Questo mutamento di forma è reso visibile attraverso la stratificazione e la piegatura di tessuti riccamente colorati tinti a mano, tagliati e ricuciti dall’artista. Attraversando ambienti ed ecologie, Jaouda raccoglie pigmenti naturali, stoffe e materiali per i suoi arazzi e le sue installazioni in tessuto. Vive e lavora tra il Cairo, dove risiede la sua famiglia, e Londra, dove ha conseguito un master in pittura presso il Royal College of Art nel 2021.

LIBICA, NATA A IL CAIRO, EGITTO, 1997 VIVE A IL CAIRO E LONDRA, REGNO UNITO

Gli alberi di fico appartenenti alla nonna dell’artista a Bengasi, in Libia, regalano il loro impulso poetico ai tre tessuti esposti alla Biennale. Fortemente legati al luogo, gli alberi custodiscono e incarnano i ricordi. Jaouda ne ricrea gli elementi botanici decostruendo le stoffe, tingendole con toni terrosi e ricucendole in arazzi scultorei. Per l’ideazione e il titolo si ispira alla personificazione degli ulivi del poeta palestinese Mahmoud Darwish. In queste opere e nelle precedenti affiorano concetti di assenza di radici e resilienza, di distruzione, rigenerazione e atemporalità. Jaouda ama i processi lenti, fisici e sentiti della fabbricazione dei tessuti tinti a mano. La loro intrinseca connettività li associa all’eterno e al divino; per l’artista, i tessuti non hanno inizio né fine. Le tinture vegetali possiedono una forza propria e imprevedibile, che dà vita all’opera. I suoi tessuti, sontuosamente stratificati, risuonano di colori profondi ed eterei, ombrosi e luminescenti, e infinitamente strutturati come la memoria stessa. L’opera di Nour Jaouda è esposta per la prima volta alla Biennale Arte. —Jessica Gerschultz

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This poem will never be finished, 2023 Tintura e pigmento su tela, acciaio, 170 × 80 cm. Photo Nour Jaouda. Courtesy l’Artista.

Everything touches everything else, 2023 Tintura e pigmento su tela, acciaio, 170 × 80 cm. Photo Nour Jaouda. Courtesy l’Artista.


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Rindon Johnson

SAN FRANCISCO, USA, 1990 VIVE A SAN FRANCISCO

The stage is no place for the riot, 2019 - in corso Pelle grezza, acqua, dimensioni variabili. Photo Kyle Knodell. Courtesy l’Artista e Max Goelitz, Monaco e Berlino.

La pratica artistica di Rindon Johnson è radicata nell’esplorazione delle complessità dell’identità e dell’esperienza umana attraverso la lingua e gli oggetti. Il suo lavoro spesso scava nei temi dell’appartenenza, dell’alterità e del modo in cui la lingua può plasmare la nostra percezione della realtà e, attraverso una serie di mezzi – tra cui poesia, scultura, fotografia, performance e realtà virtuale –, crea esperienze immersive e contemplative. Come poeta, utilizza spesso l’umorismo e un tono pacato ma pungente che richiama l’attenzione su dettagli cruciali e al tempo stesso trascurati della vita quotidiana. Nel frattempo, il lavoro basato sugli oggetti affronta le carenze della lingua e la sua incapacità di contenere adeguatamente tutto il contesto del mondo che ci circonda. La pratica di

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Johnson si muove all’interno di questo paradosso: da un lato, la lingua struttura la nostra esperienza, dall’altro, è spesso incapace di comunicare la profondità dei nostri sentimenti. In Coeval Proposition #1: Tear down so as to make flat with the Ground or The *Trans America Building DISMANTLE EVERYTHING (2021), Johnson affronta sia il poetico gioco delle parole che l’incapacità delle stesse di catturare la totalità di un’esperienza. Con un gioco di parole, l’artista riproduce con legno di sequoia recuperato la forma del Transamerica Pyramid – un grattacielo modernista di 48 piani nel centro di San Francisco – per affrontare la propria esperienza di uomo trans in America. La sagoma della piramide diventa sinonimo dello skyline della città natale dell’artista, riflettendo il modo in cui la lingua, il luogo di origine

e l’emigrazione plasmano collettivamente l’identità di una persona, identità ulteriormente complicata dalla sua incompletezza, come una pelle vuota. Opere come The stage is no place for a riot (2019 - in corso) utilizzano la pelle bovina in vari modi: riciclata per finestre, usata come contenitore per l’acqua e appesa come bandiera. Questo corpus di opere vuole ricordare il modo in cui l’identità può essere equipaggiata e protetta, trasformandola in un indumento simbolico o in uno strumento materiale. L’opera di Rindon Johnson è esposta per la prima volta alla Biennale Arte. —William Hernandez Luege Coeval Proposition #1: Tear down so as to make flat with the Ground or The*Trans America Building DISMANTLE EVERYTHING, 2021 Sequoia, 520 × 125 cm. Photo Andy Keate. Courtesy l’Artista; Max Goelitz, Monaco e Berlino; con un ringraziamento a Rennie Collection, Vancouver, Canada.


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Joyce Joumaa

Joyce Joumaa è un’artistafilmmaker la cui opera si confronta con realtà storiche plasmate dal conflitto e dalla crisi, spesso radicate nel nativo Libano o in esperienze diasporiche. Con documentari e film sperimentali, attraverso la ricerca di materiali d’archivio e la fotografia, l’artista crea narrazioni che complicano la nostra lettura degli eventi passati, delle figure storiche o di luoghi emblematici, studiando il modo in cui continuano ad agire su di noi nel presente. In questo senso, i suoi lavori intendono analizzare spazi politicamente carichi e memorie collettive, evidenziando relazioni, strutture di potere e paradossi al loro interno. Nel 2021-2022 Joumaa viene selezionata per l’Emerging Curator Residency Program presso il Canadian Centre for Architecture, durante il quale produce To Remain in the No Longer (2023). Il film prende in esame il fallimento del progetto della Fiera internazionale di Tripoli, disegnata dall’architetto brasiliano Oscar Niemeyer, nel quadro dell’attuale contesto socioeconomico in Libano.

In Memory Contours (2024), Joumaa si occupa di un capitolo del movimento eugenetico negli Stati Uniti e dei suoi effetti sui nuovi immigrati all’inizio del Novecento. In particolare, studia i testi sull’“intelligenza” concepiti per identificare deficit mentali e, potenzialmente, far incarcerare e deportare le persone così individuate. A partire dal reportage dell’Ufficio per la Salute Pubblica degli Stati Uniti del 1914 intitolato Mentality of the Arriving Immigrant (la mentalità dell’immigrato in arrivo) Joumaa si concentra su un particolare test condotto a Ellis Island, New York, in cui ai partecipanti era chiesto di disegnare forme a memoria. L’artista riproduce quattro dei disegni che compaiono nel reportage come casi studio e affianca a ciascuno un video con il primo piano delle mani che ricreano lo schizzo. Questa interazione accentua la tensione fra il disegno come espressione gestuale e la sua strumentalizzazione come parametro per misurare competenze e intelligenza. L’installazione di Joumaa svela come ai neoarrivati fossero imposti controlli discriminatori e come il semplice fatto di essere stranieri fosse sistematicamente stigmatizzato, ricollegandolo a inadeguatezza, inidoneità e inferiorità.

BEIRUT, LIBANO, 1998 VIVE A MONTREAL, CANADA

Joyce Joumaa è tra i quattro beneficiari della borsa di studio del Biennale College Arte 2024. Quest’opera è fuori concorso.

L’opera di Joyce Joumaa è esposta per la prima volta alla Biennale Arte. —Julia Eilers Smith

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Joyce Joumaa è tra i quattro beneficiari della borsa di studio per l’edizione della Biennale College Arte 2024. Quest’opera è fuori concorso.

Immagini del libro: Mentality of the Arriving Immigrant pubblicato dal Dipartimento di Sanità Pubblica degli Stati Uniti nel 1917.


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Nazira Karimi

I filmati di Nazira Karimi raccontano storie di donne ed esplorano l’identità, la memoria e la riappropriazione del territorio centroasiatico colpito dalla colonizzazione sovietica. L’artista, di origini per metà tajike e per metà kazake, è rimpatriata in Kazakistan con la famiglia nel 2013. Ad Almaty ha studiato scenografia e pittura e, dal 2018, prosegue la sua indagine artistica a Vienna. Nelle opere di Karimi, femminismo e decolonialità non costituiscono soltanto un tema, ma ne incarnano il processo creativo. È attivamente coinvolta in vari collettivi e piattaforme artistiche femminili, promuovendo la produzione di arte e conoscenza e incoraggiando le comunità artistiche in Asia centrale. Karimi ha partecipato a documenta 15 (2022) come membro del gruppo di ricerca DAVRA avviato dall’artista Saodat Ismailova. Negli ultimi cinque anni, Karimi ha preso parte a residenze artistiche e ha esposto i suoi filmati e le sue installazioni in Asia e in Europa.

DUSHANBE, TAGIKISTAN, 1996 VIVE AD ALMATY, KAZAKISTAN, E VIENNA, AUSTRIA

Il filmato Hafta (che in tagico significa “sette” e “una settimana”), del 2024, è un’opera video in sette parti che racconta gli antenati dell’artista. Secondo la tradizione dell’Asia centrale chiamata Jety-Ata (“sette nonni” in kazako), bisogna conoscere i nomi di sette nonni di sangue diretti. Karimi invece immagina e racconta le storie di sette donne della propria linea materna, che rappresentano le generazioni che hanno vissuto i terribili episodi storici dell’Asia centrale. Per realizzare questo filmato, Karimi ha percorso un lungo viaggio dal Kazakistan al Tagikistan e ritorno, insieme alla madre Mariam. Hanno ripetuto il percorso della loro famiglia, rappresentato in Hafta, dallo sfollamento e dalla migrazione lungo il Mare d’Aral e il Syr Darya fino al loro recente rimpatrio. Nelle acque che si ritirano e nei paesaggi che si disseccano, Karimi ritrova il dolore e il lutto di tutte le perdite subite dalla regione. L’opera di Nazira Karimi è esposta per la prima volta alla Biennale Arte. —Dana Iskakova

BIENNALE ARTE 2024

Nazira Karimi è tra i quattro beneficiari della borsa di studio per l’edizione della Biennale College Arte 2024. Quest’opera è fuori concorso.

Hafta, 2024 Video stills. Courtesy l’Artista


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Bhupen Khakhar

Bhupen Khakhar si forma come contabile a Bombay prima di trasferirsi a Baroda per studiare critica d’arte presso la Facoltà di Belle Arti. Qui entra a far parte dell’affiatata cerchia di artisti, scrittori e poeti che all’epoca risiedevano in città. Il lavoro di Khakhar trae la sua forza dall’assenza di formazione ufficiale, unita allo studio di David Hockney, R.B. Kitaj e Henri Rousseau, nonché al suo profondo interesse per l’arte premoderna indiana e per la cultura pop contemporanea. Insieme ad artisti come Vivan Sundaram, Gulam Mohammed Sheikh, Sudhir Patwardhan, Nalini Malani e altri, Khakhar è stato determinante nella svolta verso un’arte figurativa e narrativa che trae i suoi soggetti da “persone particolari in luoghi particolari”. Questo ha portato alla serie di dipinti degli anni Settanta che ritraggono lavoratori e commercianti come sarti, negozianti e riparatori di orologi, radicata nel suo impegno verso la rappresentazione della vita quotidiana.

BOMBAY, INDIA, 1934 – 2003, BARODA, INDIA

Negli anni Ottanta Khakhar si dichiara omosessuale e dipinge una serie di opere iconiche come You Can’t Please All (1981). I suoi sono tra i primi dipinti ad approfondire in India i temi delle relazioni tra uomini e dei tabù sociali sull’omosessualità. Fishermen in Goa (1985) raffigura un gruppo di tre uomini: uno completamente vestito, un altro in canottiera e il terzo nudo. È un esempio di feticizzazione del corpo maschile, sessualizzato attraverso gesti e metafore, come il pesce che l’uomo al centro tiene in una mano, mentre l’altra mano si infila sotto la camicia del compagno. Le grandi figure in primo piano e lo spesso strato di pigmento sono tipici dello stile di Khakhar di questo periodo. Le sue opere sono state ampiamente esposte a livello internazionale in mostre collettive a Londra, Parigi, Kassel, Amsterdam, New York e Tokyo. L’opera di Bhupen Khakhar è esposta per la prima volta alla Biennale Arte. —Latika Gupta

BIENNALE ARTE 2024

Fisherman in Goa, 1985 Olio su tela, 168 × 168 cm. Collezione Shireen Gandhy. Courtesy l’Artista; Chemould Prescott Road, Mumbai, India.


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Bouchra Khalili

Bouchra Khalili studia cinema all’Université Sorbonne Nouvelle e arti visive all’École nationale supérieure d’arts di Paris-Cergy. La pratica multidisciplinare di Khalili sviluppa strategie collaborative di narrazione insieme ai membri delle comunità escluse dall’appartenenza alla cittadinanza. Con le sue opere, suggerisce ipotesi poetiche che meditano su nuovi immaginari di comunità. Il lavoro di Khalili è stato oggetto di numerose mostre personali in tutto il mondo.

The Mapping Journey Project di Khalili è stato elaborato nel corso di tre anni attraverso le rotte migratorie mediterranee dell’Africa settentrionale e orientale, del Medio Oriente e dell’Asia meridionale. Khalili ha raccolto le storie partecipative dei migranti che ha incontrato nelle stazioni ferroviarie locali e in altri spazi pubblici. Le otto video installazioni di The Mapping Journey Project documentano queste storie insieme alle mani dei migranti, che tracciano sulle mappe l’arduo percorso geopolitico compiuto tra mare e terra. Nell’era contemporanea del movimento Land Back e del genocidio colonialista, The Mapping Journey Project è un appello storico a favore

CASABLANCA, MAROCCO, 1975 VIVE A VIENNA, AUSTRIA

dell’autodeterminazione delle comunità diasporiche e indigene. Constellations Series, il capitolo conclusivo di The Mapping Journey Project, riformula e illumina poeticamente la videoinstallazione. Le otto serigrafie traducono i viaggi narrati sotto forma di costellazioni, facendo riferimento all’astronomia antica radicata nella mitologia. Khalili invita gli spettatori a proiettarsi attivamente nella costellazione per immaginare collettivamente altri modelli di appartenenza. —Tracy Fenix

Constellations, 2011 Serigrafia su carta, 60 × 40 cm. Courtesy l’Artista.


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The Mapping Journey Project, 2008-2011 Installazione video, 8 proiezioni video, Dimensioni e durata variabili. Photo Jonathan Muzikar. Courtesy l’Artista. © Jonathan Muzikar.


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Kiluanji Kia Henda

Kiluanji Kia Henda nasce nel 1979, quattro anni dopo l’indipendenza dell’Angola dal Portogallo e l’inizio della guerra civile. L’Angola è stato uno degli ultimi paesi africani a ottenere l’indipendenza e i tredici anni di lotta con il Portogallo fascista sono stati una delle guerre d’indipendenza più lunghe dell’Africa. Kia Henda è fortemente interessato alle dimensioni politiche dell’arte, della cultura e della storia, soprattutto quando si intersecano con la sua nativa Luanda e con il continente africano. L’artista opera attraverso diversi media – video, fotografia, scultura, installazione e performance – spesso manipolando immagini e narrazioni, a volte con un notevole senso dell’umorismo. Nel suo lavoro si intrecciano temi come l’architettura modernista di Luanda, il passato coloniale dell’Angola

BIENNALE ARTE 2024

e l’eredità comunista, l’immigrazione africana in Europa, l’astrazione e la griglia modernista. Kia Henda presenta alla Biennale tre opere che, benché realizzate nell’arco di sette anni, sono tra loro strettamente collegate. The Geometric Ballad of Fear (2015) comprende nove fotografie che documentano le ringhiere metalliche protettive dipinte di bianco che si trovano negli edifici e nelle case dell’Angola e che sono una preminente caratteristica nelle grandi città del Sud globale contraddistinte da notevoli disparità tra le popolazioni. Anche The Geometric Ballad of Fear (Sardegna) (2019) consiste in nove fotografie in bianco e nero, con le medesime griglie, questa volta nere, sovrapposte come elemento grafico a vedute del paesaggio sardo affacciato sul Mediterraneo. A espiral do medo (2022) utilizza

LUANDA, ANGOLA, 1979 VIVE A LUANDA

le ringhiere metalliche prese dagli edifici e dalle case di Luanda che nel 2015 hanno attirato l’interesse dell’artista. Seppure costituita da ringhiere metalliche che un tempo offrivano una solida protezione a chi si trovava all’interno, la scultura di grandi dimensioni appare ora permeabile e alquanto instabile – come una sorta di rovina – e funge da mero emblema della paura. —Adriano Pedrosa

The Geometric Ballad of Fear, 2015 Stampa a getto d’inchiostro su carta di cotone, 70 × 100 cm. Courtesy Galeria Filomena Soares, Lisbona; Galleria Fonti, Napoli; Goodman Gallery, Johannesburg. The Geometric Ballad of Fear (Sardegna), 2019 Stampa a getto d’inchiostro su carta fine art, 100 × 120 cm. Courtesy Galeria Filomena Soares, Lisbona; Galleria Fonti, Napoli; Goodman Gallery, Johannesburg.


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A Espiral do Medo, 2022 Scultura in ferro, 400 × 400 cm. Courtesy Galeria Filomena Soares, Lisbona; Galleria Fonti, Napoli; Goodman Gallery, Johannesburg; Jahmek Contemporary Art, Luanda.


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Shalom Kufakwatenzi

Shalom Kufakwatenzi, artista non-binari , opera prevalentemente con performance, fotografia e tessuti, il tutto spesso combinato con elementi letterari e sonori, dando origine a una pratica che è una riflessione sulla vita quotidiana e sulle politiche identitarie in Zimbabwe. Pratica informata dal continuo processo interno di guarigione, rifiuto e accettazione di sé che si verifica quando ci si muove all’interno di gravose strutture sociali, siano esse politiche o familiari. Nel 2015 Kufakwatenzi si diploma alla National Gallery School of Visual Art and Design (NGSVAD) di Harare, una piccola scuola d’arte da cui provengono molti degli artisti più acclamati del paese. Pur specializzat in scultura e fotografia, la sua pratica risente della vicinanza a mentori artisti il cui

lavoro sperimentale rifiutava i vincoli della categorizzazione classica. Per questo, desideros di approfondire il potenziale dell’espressione transdisciplinare, successivamente si iscrive all’accademia AfriKera Professional Dance Training (APDT), diretta dalla famosa ballerina Soukaina Edom, diplomandosi nel 2021. Under the sea (2023) e Mubatanidzwa (Adjoined) (2023) sono opere tessili, poiché Kufakwatenzi è interessat alla natura malleabile e trasformativa del tessuto, un materiale che può essere adattato, allungato, piegato e cucito, similmente a come Kufakwatenzi si muove nel proprio contesto come persona queer. Under the sea incarna il desiderio e l’appartenenza. Sentendosi stranier in patria,

HARARE, ZIMBABWE, 1995 VIVE A HARARE

con quest’opera crea uno spazio privo del mare di opinioni della società. I colori vivaci e materici ricordano l’infanzia richiamando luoghi oscuri, pericolosi e allo stesso tempo bellissimi. Tuttavia, sebbene il personale sia spesso il punto di partenza, Kufakwatenzi esplora anche temi più ampi legati alla terra, da sempre di grande importanza in Zimbabwe. Mubatanidzwa è realizzato con tela di juta, lenza da pesca, spago, lana e pelle, tutti materiali legati al lavoro agricolo. Le linee cartografiche cucite indicano le politiche inique di distribuzione della terra, lo sfollamento e la corruzione. L’opera di Shalom Kufakwatenzi è esposta per la prima volta alla Biennale Arte. —Tandanzani Dhlakama

Mubatanidzwa (Adjoined), 2023 Tessuto di iuta, lana, spago per tabacco, pelle, tela per tappezzeria, 240 × 186 cm. Photo Sekai Machache.


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Under the sea, 2023 Tessuto di iuta, lana, spago per tabacco, filo da pesca, 96 × 216 cm. Photo Sekai Machache.


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Fred Kuwornu

Fred Kudjo Kuwornu è un regista e attivista italiano afrodiscendente, attualmente residente a New York. La sua prima formazione avviene nel campo delle scienze politiche. Dopo alcune esperienze in TV – come autore per la RAI-Radiotelevisione Italiana e come presentatore per l’emittente LA7 – nel 2007, sul set del film Miracolo a Sant’Anna, per il quale recita come comparsa, conosce il regista statunitense Spike Lee. L’incontro lo porterà a intraprendere la carriera di regista-documentarista e a scegliere di dedicarsi al racconto dell’eredità coloniale italiana e al tema dell’invisibilità delle comunità nere. A caratterizzare i lavori di Kuwornu è una forma documentaristica ibrida, che mescola investigazione e denuncia con l’intento di generare conoscenza, promuovere il multiculturalismo e innescare un cambiamento sociale.

BOLOGNA, ITALIA, 1971 VIVE AD ACCRA, GHANA, BOLOGNA, E NEW YORK, USA

We Were Here (2024), il film realizzato da Kuwornu per questa Biennale, si inserisce nel percorso avviato con Inside Buffalo (2010) e proseguito con 18 Ius Soli (2012) e BlaxploItalian (2016). Al centro di questi film vi è l’intenzione di restituire visibilità alle vicende degli afrodiscendenti nelle società occidentali: dagli eventi storici – come il contributo del reggimento 92ª Divisione Buffalo, che combatté in Italia durante la Seconda guerra mondiale – alle microstorie degli immigrati di seconda generazione impegnati nel riconoscimento della cittadinanza italiana, sino alla rivendicazione dell’identità nera nel mondo delle industrie creative e delle arti. Se BlaxploItalian indaga i processi di oscuramento della comunità nera nei media, We Were Here si concentra sulla storia dell’arte e sulla rappresentazione dei neri africani nella cultura visuale europea a partire dal Rinascimento. Il percorso è accompagnato dalla voce dell’autore, la cui presenza mira a creare una connessione empatica con lo spettatore. L’opera di Fred Kuwornu è esposta per la prima volta alla Biennale Arte. —Lorenzo Giusti

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We Were Here: The Untold History of Black Africans in Renaissance Europe, 2024 Video, 45’. Courtesy l’Artista.


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Bertina Lopes

Bertina Lopes ha prodotto uno straordinario complesso di opere intimamente intrecciato con attivismo politico e critica sociale. Lopes ha studiato a Lisbona; lì è entrata in contatto con il Modernismo, che ha influenzato la sua produzione artistica e l’ha portata a fonderlo con l’iconografia africana. Tornata in Mozambico all’inizio degli anni Cinquanta, Lopes diventa un’illustre docente d’arte e allo stesso tempo si impegna attivamente con i poeti, gli scrittori e gli attivisti politici del paese. Al consolidarsi delle sue idee anticolonialiste, si trova ad affrontare persecuzioni che la spingono a rifugiarsi a Roma, dove trascorrerà il resto della sua vita. La sua opera rimane legata agli eventi del Mozambico, e riflette il desiderio di indipendenza, la fine del colonialismo e la consapevolezza della propria identità africana. A Roma, l’artista diventa una figura cruciale in qualità di addetta culturale dell’ambasciata del Mozambico. Dopo la sua morte, viene istituito nella capitale italiana l’Archivio Bertina Lopes per preservare la sua eredità, la sua casa e lo studio.

MAPUTO, MOZAMBICO, 1924 – 2012, ROMA, ITALIA

Unendo spesso elementi formali e costruttivi ripresi dai circoli artistici europei a una visualità associata al continente africano, l’artista trasforma la tela in un mezzo per esprimere la libertà, sia a livello personale che in risposta alla situazione repressiva del proprio paese d’origine. Le sue opere sono caratterizzate da intricate composizioni di diverse prospettive e volumi disposti sullo stesso piano. L’influenza cubista risulta evidente, benché contrassegnata da un forte gesto personale quando combina maschere e totem a creare forme che evocano movimenti di danza realizzati con audaci pennellate. Non di rado, nelle sue opere l’artista incorpora paglia, piume e tessuti colorati. I suoi Totem si ispirano alle cerimonie Nyau e alle danze Tufo, tradizioni locali del Mozambico oggetto di sprezzo durante il periodo coloniale. Queste influenze rafforzano in lei il suo essere straniera in Italia e allo stesso tempo contribuiscono a mantenere un forte legame con la propria eredità mozambicana. L’opera di Bertina Lopes è esposta per la prima volta alla Biennale Arte. —Amanda Carneiro

BIENNALE ARTE 2024

Totem, 1980-1986 Olio su tela, 130 × 150 cm. Courtesy Richard Saltoun Gallery, Londra e Roma. © The Estate of Bertina Lopes.


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MAHKU (Movimento dos Artistas Huni Kuin)

Il Movimento dos Artistas Huni Kuin (MAHKU) nasce ufficialmente nel 2013 a seguito di alcuni workshop universitari di disegno nella regione dell’alto Rio Jordão, Acre, in Brasile, vicino al confine con il Perù. Il txana (maestro di canto) Ibã Huni Kuin e alcuni suoi parenti hanno sviluppato da tempo metodi per memorizzare e riportare in pittura le conoscenze orali Huni Kuin, in particolare i canti che guidano i rituali chiamati nixi pae (filo incantato), che prevedono l’ingestione della bevanda psicoattiva ayahuasca. Attraverso questa esperienza è possibile produrre ramibiranai (immagini emergenti), un’incarnazione dello spirito della foresta, accedendo alla prospettiva di yube (il boa constrictor), che aveva trasmesso agli uomini la ricetta della bevanda. I dipinti di MAHKU, murali, su tela o

carta, sono registrazioni di miti, storie ancestrali sull’avvento del mondo e sull’umanità in relazione agli altri esseri. I colori e le forme di queste opere rispecchiano l’esperienza visionaria che avviene durante i rituali dell’ayahuasca. Nel grande murale realizzato per la facciata del Padiglione Centrale della Biennale di Venezia, MAHKU ha dipinto la storia di kapewë pukeni (il ponte-alligatore). Il mito descrive il passaggio tra il continente asiatico e quello americano attraverso lo stretto di Bering. Per attraversarlo, gli uomini trovarono un alligatore che si offrì di portarli sulla schiena in cambio di cibo. Tuttavia, man mano che attraversavano, gli animali diventavano sempre più scarsi e gli uomini alla fine ricorsero alla caccia di un piccolo alligatore, tradendo la fiducia del grande alligatore, che si

FONDATO A KAXINAWÁ (HUNI KUIN) TERRITORIO INDIGENO, ACRE, BRASILE, 2013. CON BASE A KAXINAWÁ (HUNI KUIN) TERRITORIO INDIGENO

inabissò nel mare. Da qui ebbe origine la separazione tra popoli e luoghi diversi. Questo mito sottolinea come MAHKU e i suoi membri siano produttori e prodotti di passaggi tra contesti e territori lontani, collegando gli aspetti visibili della loro arte alla natura invisibile delle loro visioni, attraverso l’associazione e la traduzione delle pratiche tradizionali del villaggio nei parametri e convenzioni del mondo dell’arte.

Kapewë pukeni, 2022 Acrilico su tela, 140 × 115 cm. Photo Daniel Cabrel. Courtesy gli Artisti; Collezione Museu de Arte de São Paulo Assis Chateaubriand (MASP).

L’opera di MAHKU è esposta per la prima volta alla Biennale Arte. —Guilherme Giufrida

Hawe Henewakame Mural painted in Montreal, 2023 Acrilico su muro, 240 × 7200 cm. SBC galerie d’art contemporain MilMurs.

Yube Nawa Ainbu - Mural painted at the exhibition Vaivém, 2019 Acrilico su muro, 377 × 472 cm. Photo Edson Kumasaka. Courtesy gli Artisti; Centro cultural Banco do Brasil, San Paolo, Brasile.


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Anna Maria Maiolino

La variegata produzione artistica di Anna Maria Maiolino, influenzata dai cambiamenti vissuti nel corso della propria vita, abbraccia diversi mezzi espressivi e poetiche sperimentali. Dopo la Seconda guerra mondiale, la famiglia lascia l’Italia per Caracas, in Venezuela, dove l’artista studia alla Scuola nazionale di Belle Arti. Nel 1960 si trasferisce a Rio de Janeiro, Brasile, integrandosi nella vita artistica della città ed entrando successivamente a far parte del movimento Nova Figuração (Nuova Figurazione), una risposta artistica al clima politico di opposizione alla dittatura brasiliana. Nell’arco della sua vita abita a New York e a Buenos Aires, e collabora con artisti tra cui Lygia Clark, Ivan Serpa e Helio Oiticica, diventando un punto di riferimento per diverse generazioni di artisti brasiliani. Sebbene la sua pratica sia via via cambiata per includere temi relativi alla propria migrazione, al territorio, alla memoria e alle relazioni familiari, la sua poetica segue una traiettoria a spirale. In questo percorso, l’artista rivisita

le proprie opere, reinventandole nel tentativo di esorcizzare situazioni politiche arbitrarie o sentimenti che necessitano di essere rielaborati. L’installazione site-specific Indo e Vindo (2024) alla Casetta Scaffali è parte dell’iconica serie di Maiolino Terra Modelada (1993-2024), in cui il lavoro in argilla evidenzia le qualità primordiali, organiche, elastiche e piacevoli al tatto del materiale. Per la Biennale torna a lavorare sull’installazione intitolata Ao Infinito, una costruzione realizzata con la vegetazione, utilizzando rami di pino. L’opera esalta il gesto manuale e la ripetizione nella costante modellazione di numerose piccole sculture, simili e diverse, mantenendo il lavoro incompiuto, aperto, in perenne evoluzione – firma, questa, della singolarità di Maiolino. L’azione trasformativa della natura per mano umana, che modella la materia grezza, significa anche costruzione della forma attraverso il lavoro e indica il ciclo naturale dell’argilla: si disidrata, si pietrifica e può

SCALEA, ITALIA, 1942 VIVE A SAN PAOLO, BRASILE

tornare a essere polvere. L’installazione è completata dall’inclusione di filmati e audio prodotti negli ultimi decenni in collaborazione con amici fotografi e musicisti. Questi lavori si inseriscono in una linea di continuità con la produzione audiovisiva iniziata dall’artista con i film in Super8 degli anni Settanta. Ha ricevuto il Leone d’oro alla carriera della Biennale Arte 2024.

Hic et Nunc - dalla serie Terra modelada, 1994-2017 Veduta dell’installazione. Photo Brian Forrest. Courtesy l’Artista. © Anna Maria Maiolino.

L’opera di Anna Maria Maiolino è esposta per la prima volta alla Biennale Arte. —Amanda Carneiro

In-locu - da Terra modelada alla mostra Poetic Wanderings, 2018 Veduta dell’installazione. Photo Timothy Doyon. Courtesy l’Artista; Hauser & Wirth. © Anna Maria Maiolino.

Here and There, 2012 Veduta dell’installazione. Photo Elzbieta Bialkowska. Courtesy l’Artista. © Anna Maria Maiolino.


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Teresa Margolles

Teresa Margolles lavora con la presenza della morte, dentro e oltre i confini del Messico. La sua pratica artistica è basata sulla ricerca e comprende installazioni, film e sculture create con le tracce materiali di vittime e luoghi di violenza. Dopo aver studiato arte, comunicazione e medicina forense, ha lavorato in un obitorio statale, esaminando i corpi di innumerevoli vittime. Ha co-fondato il Grupo SEMEFO, che affrontava la dimensione sociale e politica della violenza nel suo Paese attraverso la manipolazione di materiale organico proveniente da obitori e cadaveri di animali. Per i suoi progetti, Margolles interviene in vari siti di ricerca. La sua opera comprende installazioni immersive con fluidi corporei e progetti cinematografici collaborativi con le vittime, le loro famiglie e i loro amici, fino a includere sculture di cemento o vetro, acquisiti da luoghi di violenza, sobrie nella forma. L’artista affronta diverse questioni politiche come la guerra del narcotraffico, il femminicidio e la migrazione forzata, punta inoltre i riflettori sull’indifferenza e l’oblio sociale nei confronti delle vittime in tutto il mondo.

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CULIACÁN, MESSICO, 1963 VIVE A CITTÀ DEL MESSICO, MESSICO E MADRID, SPAGNA

Parte di un progetto di ricerca su lavoro e migrazione durato anni al confine tra Venezuela e Colombia, Tela Venezuelana (2019) mostra una sagoma umana impressa su un grande panno bianco. Il colore marrone della sagoma deriva dal sangue secco di un giovane venezuelano, ucciso presso il fiume Táchira a Cúcuta, sul lato colombiano del confine. Posizionando il panno sul corpo durante l’autopsia, Margolles ha fatto in modo che il sangue del viso, delle braccia, del torso e delle gambe dell’uomo lasciasse un segno duraturo, creando allo stesso tempo un ritratto irregolare e anonimo di un’ennesima vittima della migrazione forzata. La stoffa diventa un’indecifrabile mappa o documento con una forte presenza materiale. La quantità di sangue testimonia non solo la violenza inflitta al corpo, ma anche la brutalità subita da migliaia di migranti venezuelani durante il loro viaggio. —Sebastián Eduardo

Tela venezuelana, 2019 Impronta umana su tessuto, 210 × 210 cm. Photo Aurélien Mole. Courtesy l’Artista; mor charpentier.


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Mataaho Collective

Il Mataaho Collective, formato dalle artiste māori Bridget Reweti, Erena Baker, Sarah Hudson e Terri Te Tau, collabora da un decennio alla realizzazione di vaste installazioni in fibra che si addentrano negli intrichi della vita e dei sistemi di sapere māori. Il termine māori mata include in sé vari significati, fra cui canto profetico e harakeke, una pianta di lino usata per tessere; aho (trama) indica i fili orizzontali in tessuto intrecciato, fondamentali per la struttura, in unione con i fili verticali dell’ordito. Il nome del collettivo designa dunque un’interconnessione, riflettendo la storia, la filosofia e il sapere generazionale māori e rimarcando l’essenza collaborativa della loro pratica artistica; evidenzia inoltre un senso di libertà solidale, manifestazione dell’emancipazione delle donne māori. L’utilizzo di materiali sia in fibra industriale che naturale e l’impiego delle tecniche artistiche tradizionali māori segnalano la vivacità e l’adattabilità del pensiero Te Ao Māori nel trattare le realtà delle comunità indigene contemporanee.

Il takapau è una stuoia tessuta finemente, tradizionalmente usata nelle cerimonie, in particolare durante il parto. In Te Ao Māori, l’utero racchiude un significato sacro in quanto spazio in cui i bambini sono in connessione con gli dei. Takapau segna il momento della nascita, come transizione fra luce e buio, Te Ao Marama (il regno della luce), e Te Ao Atua (il regno degli dei). I tiranti usati nell’installazione di Mataaho Collective incorporano materiali minuziosamente selezionati, attrezzi per mettere in sicurezza e per sostenere carichi in movimento e che sono allo stesso tempo economici e facilmente accessibili. Questa scelta intenzionale vuole dare visibilità a lavoratori spesso ignorati, sottolineando la forza che deriva dall’interdipendenza e celebrando un patrimonio che merita di essere riconosciuto. L’installazione Takapau, osservabile da molteplici prospettive, rivela la sua intricata struttura nel gioco di luci e ombre su motivi intessuti, offrendo un’esperienza multisensoriale. L’opera di Mataaho Collective è esposta per la prima volta alla Biennale Arte. —Amanda Carneiro

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TE ATIAWA KI WHAKARONGOTAI, NGĀTI TOA RANGĀTIRA, NGĀTI AWA, NGĀI TŪHOE, NGĀTI PŪKEKO, NGĀTI RANGINUI, NGĀI TE RANGI, RANGITĀNE KI WAIRARAPA FONDATO AD AOTEAROA/NUOVA ZELANDA, 2012 – CON BASE AD AOTEAROA/NUOVA ZELANDA

Takapau, 2022 Fasce in poliestere ad alta visibilità, fibbie in acciaio inossidabile, dimensioni variabili. Photo Maarten Holl. Courtesy le Artiste; Museum of New Zealand, Te Papa Tongarewa.


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Naminapu Maymuru-White

Naminapu Maymuru-White è una Grande Anziana yolŋu la cui pratica artistica contemporanea spazia dalla pittura all’intaglio, dalla stampa alla tessitura e al batik. I suoi dipinti rappresentano una notevole evoluzione della pratica creativa e culturale yolŋu, poiché appartiene alla prima generazione di donne a cui è stato insegnato a dipingere i miny’tji (disegni sacri del clan), una tradizione tramandata dal padre Nänyin Maymuru e dallo zio Narritjin Maymuru, artisti maŋgalili e uomini di legge. Dal 1984, Maymuru-White espone in molteplici occasioni, a livello nazionale e internazionale. Gli iconici disegni miny’tji di Maymuru-White riflettono

DJARRAKPI, AUSTRALIA, 1952 VIVE A YIRRKALA, AUSTRALIA

il concetto yolŋu di Milŋiyawuy, che rappresenta contemporaneamente il fiume Milŋiyawuy che serpeggia attraverso il paese dei Maŋgalili e la Via Lattea celeste. I suoi dipinti su corteccia ospitano tentacolari fiumi di stelle che si torcono e ruotano sulla superficie per trasmettere una visione immersiva della costellazione nel cielo notturno. Maymuru-White raffigura Milŋiyawuy dall’alto e dal basso, dal cielo e dalla terra, per riflettere la convergenza dei regni fisico e ancestrale. Ha spiegato che ogni stella rappresenta le anime maŋgalili passate, presenti e future. Il cielo pieno di stelle e i paesaggi fluviali dell’artista – delicatamente realizzati con il sacro gapan (ocra bianca), un marwat (pennello tradizionale fatto con capelli umani) e uno stecchino di legno – sottolineano una comprensione multidimensionale del Paese; l’inestricabile legame tra il mondo ancestrale e quello vissuto che attraversa le generazioni, il tempo, lo spazio e il luogo. I dipinti di MaymuruWhite pulsano di energia e conferiscono strati di forma e significato al concetto ciclico di vita e morte. L’opera di Naminapu MaymuruWhite è esposta per la prima volta alla Biennale Arte. —Jessica Clark

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Milniyawuy, 2023 Dipinto su tavola, 60 × 90 cm. Photo Aaron Anderson.


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Omar Mismar

TAANAYEL, LIBANO, 1986 VIVE A BEIRUT, LIBANO

Two Unidentified Lovers in a Mirror, 2023 Mosaico, 130 × 130 cm. Photo Mahmoud Merjan. Courtesy l’Artista.

Parting Scene (with Ahmad, Firas, Mostafa, Yehya, Mosaab) dalla serie Studies in Mosaics (2019-2023), 2023 Mosaico, 151 × 201 cm. Photo Mahmoud Merjan. Courtesy l’Artista.

Omar Mismar si è formato prima come grafico a Beirut e poi come artista negli Stati Uniti. La sua pratica, estremamente sovversiva e versatile in termini di tecniche, sonda l’intreccio tra arte, politica ed estetica del disastro. Nelle serie Studies in Mosaics (2019 – in corso) e Two Unidentified Lovers in a Mirror (2023), l’artista impiega la maestria e il linguaggio classico del mosaico per riprodurre istantanee digitali. Genera un deterioramento temporale tra tecniche e linguaggio artistico formale per catturare tracce visive di persone comuni e del loro quotidiano. Il collasso tra pixel contemporanei e tessere musive riecheggia quello temporale della nostra epoca, che assiste alla sconsiderata crudeltà dell’antichità in concomitanza con l’ipertecnologia, mentre i concetti fondanti

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di umanesimo, solidarietà ed empatia sono gestiti secondo il calcolo politico dei poteri dominanti. Con Ahmad and Akram Protecting Hercules (20192020) e Parting Scene (with Ahmad, Firas, Mostafa, Yehya, Mosaab) (2023), Mismar sovverte la commissione per render omaggio alle azioni eroiche dei dimenticati e benevoli guardiani di un museo archeologico in Siria. Con Fantastical Scene [sic] (20192020), sostituisce la testa del leone, il predatore, con quella del toro, la preda: un gioco di parole in arabo, dato che il primo si traduce in al-assad e il secondo in al-thawr, che suona come thawra, o rivoluzione. Con Spring Cleaning (2022), l’artista rovescia le rappresentazioni dei manufatti preziosi consacrando invece l’economica coperta in poliestere, emblematica delle condizioni di vita dei rifugiati.

Con Two Unidentified Lovers in a Mirror (2023), rivendica audacemente un’immagine esplicita della vita queer, ritenuta innaturale in Libano, ma la cui esplicitezza viene stravolta riorganizzando le tessere dei volti dei due uomini. L’opera di Omar Mismar è esposta per la prima volta alla Biennale Arte. —Rasha Salti

Ahmad and Akram Protecting Hercules - dalla serie Studies in Mosaics (2019-2023), 2019-2020 Mosaico, 130 × 200 cm. Photo Mahmoud Merjan. Courtesy l’Artista.


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NUCLEO CONTEMPORANEO

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Sabelo Mlangeni

Sabelo Mlangeni è un fotografo che richiama l’attenzione sulla bellezza, l’affetto, la vulnerabilità e la quotidianità in luoghi inaspettati. Nato nel 1980 a Saul Mkhizeville, un piccolo villaggio del Mpumalanga, in Sudafrica, Mlangeni produce soprattutto fotografie in bianco e nero che gli permettono di concentrarsi sull’essenza dell’intimità umana. L’artista è noto in particolare per aver documentato la queerness in spazi rurali, come la sua provincia natale, o nelle case rifugio in Nigeria. Dopo aver ricevuto una borsa di studio nel 2001, si trasferisce a Johannesburg per frequentare il Market Photo Workshop fondato da David Goldblatt, dove si diploma nel 2004. Da allora produce opere che coinvolgono e mettono in luce comunità spesso sottorappresentate.

Le opere seminali di Mlangeni comprendono Country Girls (2003-2009), Black Men in Dress (2011) e The Royal House of Allure (2020). Rifiutandosi sempre di mettere al centro la violenza, tutti e tre i lavori esaltano persone queer in situazioni di relax, di riposo o di divertimento. Il prerequisito per catturare tale intimità è di solito costituito dalla fiducia e dalla vicinanza, perciò Mlangeni trascorre spesso lunghi periodi di tempo con le persone che sta fotografando, per assicurarsi di catturare sia la loro particolare aura che le più ampie esperienze universali. Royal House of Allure è il nome di una casa rifugio LGBTQI+ a Lagos, in Nigeria. L’artista è entrato in contatto con chi vi abita, realizzando immagini sia di momenti celebrativi che di situazioni ordinarie di persone in rilassato ozio.

MPUMALANGA, SUDAFRICA, 1980 VIVE A JOHANNESBURG, SUDAFRICA

Analogamentema, questa volta in Sudafrica, Country Girls e Black Men in Dress ritraggono gli aspetti eleganti, provocatori e sentimentali della vita queer in luoghi spesso percepiti come minacciosi. —Tandanzani Dhlakama

A rooftop photoshoot with the dancers; Tonnex, (Ruby, Nonso and Oshodi) dalla serie The Royal House of Allure, 2019 Stampa digitale ultrachrome d’archivio. Courtesy l’Artista; Blank Projects, Città del Capo. © Sabelo Mlangeni.

Faith and Sakhi Moruping Thembisa Township dalla serie Isivumelwano, 2004 Stampa alla gelatina d’argento realizzata a mano. Courtesy l’Artista; Blank Projects, Città del Capo. © Sabelo Mlangeni.


323 NUCLEO CONTEMPORANEO STRANIERI OVUNQUE

Identity dalla serie Black Men in Dress, 2011 Stampa alla gelatina d’argento realizzata a mano. Courtesy l’Artista; Blank Projects, Città del Capo. © Sabelo Mlangeni.


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Paula Nicho

COMALAPA, GUATEMALA, 1955 VIVE A COMALAPA

Paula Nicho è una pittrice maya che vive a Comalapa, in Guatemala. Fin dalla prima infanzia, il nonno, lo scultore Francisco Cumez, la incoraggia ad approfondire le proprie capacità artistiche. Con il sostegno del proprio insegnante – il pittore Salvador Cumez Curruchich, che diventerà poi suo marito – inizia a produrre le sue prime opere a metà degli anni Ottanta, in un contesto in cui la pittura era ancora tradizionalmente riservata agli uomini. In quel periodo, insieme ad altre cinque donne maya, Nicho promuove la creazione di un gruppo di artiste, prima noto come Pintoras Surrealistas Kaqchikeles (Pittrici surrealiste Kaqchikel) e poi semplicemente come Pittrici Kaqchikel di Comalapa. In origine il suo lavoro trae ispirazione dalle storie raccontate dagli anziani della sua comunità e dalla lettura delle narrazioni sacre del popolo maya, quali quelle contenute nel Chilan Balan e nel Popol Vuh.

I dipinti di Nicho vedono nell’equilibrio e nella reciprocità dei mondi naturali e spirituali una componente essenziale per il ripristino dell’autodeterminazione indigena. Il simbolismo onirico gioca un ruolo centrale nelle sue creazioni. Le opere realizzate per la Biennale raffigurano donne consapevoli del proprio potere, che ricordano le antiche dee maya della guarigione, della fertilità e della tessitura; esse appaiono nude, ricoperte da forme e vivaci motivi geometrici indigeni. Le immagini sono una risposta ai ricordi d’infanzia dell’artista, quando non le era permesso indossare abiti indigeni a scuola. Nicho trasforma quel dolore in rappresentazioni assertive in cui i motivi maya emergono come la vera pelle delle donne. L’artista contrasta la storia della colonizzazione e dell’assimilazione occidentale, esaltando al tempo stesso il valore e la bellezza della produzione tessile maya, espressa soprattutto nell’huipil, un indumento tradizionale tessuto a mano i cui motivi riflettono memorie collettive, sapere e storie politiche. L’opera di Paula Nicho è esposta per la prima volta alla Biennale Arte. —Miguel Lopez

Tejiendo mi segunda piel, 2023 Olio su tela, 64 × 84 cm. Courtesy l’Artista.

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Mi piel y sombrero, 2023 Olio su tela, 64 × 84 cm. Courtesy l’Artista.

Camino a xejul, 2005 Olio su tela, 102 × 122 cm. Courtesy l’Artista.


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NUCLEO CONTEMPORANEO

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Taylor Nkomo

Taylor Nkomo – artista ndebele, diplomato al Mzilikazi Arts and Crafts Centre di Bulawayo – è considerato un’icona nel campo della scultura in pietra dello Zimbabwe. È stato introdotto alla scultura presso i laboratori della National Gallery of Zimbabwe, dopo esservi entrato nel 1973 e avervi lavorato anche come grafico. Le influenze della sua precedente professione sono evidenti nel modo in cui crea le proprie opere, offrendo un diverso punto di vista sulla rappresentazione della vita quotidiana. Le sue sculture sono spesso realizzate in opale bianco, verdite verde e pietra di cobalto in varie forme e dimensioni. Tale varietà viene esplorata nelle diverse acconciature delle figure, nei concetti di bellezza e nelle scarificazioni del viso, il tutto in dialogo con le forme visive presenti nell’intero continente africano.

Le opere presentate alla Biennale sono spesso esposte all’aperto, nel giardino dello studio di Nkomo: un gesto che stabilisce una connessione tra l’artista, i suoi lavori e la comunità. La scultura The Thinker (2023) instaura un dialogo tra spazi positivi e negativi, enfatizzando la prominenza di un occhio in contrasto con l’assenza dell’altro, accentuando le opposizioni. Anche Fashion Girl (2023) esplora forme contrastanti: su un lato del volto compaiono delle scarificazioni, mentre nell’altro è in risalto l’acconciatura, suggerendo una fusione tra figura maschile e figura femminile. Le opere di Nkomo rendono omaggio alle diverse tradizioni scultoree del continente africano, riaffermando al contempo una potente firma individuale. L’opera di Taylor Nkomo è esposta per la prima volta alla Biennale Arte. —Raphael Chikukwa

Singing Blues, 2022 Cobalto, 27 × 11 × 48 cm. Courtesy l’Artista.

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Thinker, 2023 Cobalto, 27 × 23 × 46 cm. Courtesy l’Artista.

BULAWAYO, ZIMBABWE, 1957 VIVE A HARARE, ZIMBABWE


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Fashion Girl, 2023 Opale bianco, 33 × 25 × 10 cm. Courtesy l’Artista.


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Philomé Obin

BAS-LIMBÉ, HAITI, 1892 – 1986, CAP-HAÏTIEN, HAITI

Philomé Obin, come il fratello minore Sénèque, è uno dei creatori della scuola di pittura di Cap-Haïtien, dal nome del comune sulla costa settentrionale di Haiti. Obin fa riferimento a questo luogo fondamentale in diversi suoi dipinti, in cui appare insieme al figlio Antoine e a Sénèque davanti all’edificio che ospitava la sede locale del Centre d’Art. Il centro originario era stato fondato nel 1944 nella capitale Port-au-Prince dal critico americano DeWitt Peters e da intellettuali e artisti haitiani come Philippe ThobyMarcelin e Albert Mangonès. Insieme ai colleghi Hector Hyppolite, Rigaud Benoit e Préfète Duffaut, Obin è uno dei primi artisti a essere coinvolto nel centro, sebbene dipingesse già da diversi decenni. Il gruppo entra a far parte di una rete internazionale che comprendeva anche il pittore cubano Wifredo Lam, il surrealista francese André Breton e il fotografoetnografo Pierre Verger. Con una grande varietà di temi e complesse composizioni narrative dallo stile riconoscibile e autorevole, Obin è un cronista delle dinamiche sociali all’interno dello spazio pubblico. Le sue vivaci scene di strada del carnevale sono spesso contrapposte a tranquilli paesaggi urbani, come nel caso di Carnaval (1958), dove una folla in costume sfila davanti alla facciata di un centro sanitario, le cui finestre sono chiuse in un cupo silenzio. In Deux déguisés du Carnaval (1947), una coppia in costume in mezzo alla strada forma un inquietante trio con una figura maschile in abito da sera che osserva da una porta vicina.

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L’artista è noto anche per i suoi dipinti storici. Una delle sue scene politiche più famose rappresenta la crocifissione di Charlemagne Péralte, che combatté contro l’occupazione statunitense (1915-1934), a testimoniare l’importanza dell’autodeterminazione. L’opera di Philomé Obin è esposta per la prima volta alla Biennale Arte. —Rodrigo Moura

Missionaire, 1951 Olio su tavola di legno, 58,5 × 71 cm. Collezione Josh Feldstein. Courtesy Zelaya Qattan Gallery, Philadelphia.


329 NUCLEO CONTEMPORANEO Deux Deguiseś du Carnaval, 1947 Olio su faesite, 38 × 47 cm. Collezione Chocolate Cortés.

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Carnaval de 1958 au Cap-Haitien, 1958 Olio su tavola di legno, 66 × 83,1 cm. Collezione Josh Feldstein. Courtesy Zelaya Qattan Gallery, Philadelphia.


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Sénèque Obin

Sénèque Obin – parte di una famiglia di artisti che comprende il fratello maggiore Philomé, i nipoti Antoine e Telemaque e il figlio Othon – ha cinquant’anni quando inizia a dipingere e si unisce al Centre d’Art di Port-auPrince nel 1948. Lui e la sua famiglia sono figure chiave nel successivo sviluppo della scuola di pittura di Cap-Haïtien, promuovendo e influenzando gli artisti della scena della città sulla costa settentrionale. Massone praticante, Obin ha rappresentato cerimonie massoniche, scene di vita quotidiana e nature morte. È noto per i suoi dipinti di eventi e personaggi storici, come il leader rivoluzionario Toussaint Louverture, che portò la popolazione schiava autoliberatasi verso l’indipendenza di Haiti nel 1804. Ha anche creato una rappresentazione

allegorica dell’ascesa al potere del presidente Paul Magloire, con lo stemma nazionale di Haiti e il motto L’union fait la force. La pratica di Obin come pittore e attivista artistico offre un fecondo punto di vista tramite cui comprendere le arti nelle Americhe a metà del XX secolo. Il suo lavoro espone le contraddizioni del processo di modernizzazione, sfidando le etichette di “autodidatta”, “ingenuo” e “primitivo”, spesso applicate agli artisti neri come lui e che hanno pregiudizialmente oscurato la comprensione della complessità delle loro opere. Attraverso una miriade di temi, motivi e iconografie, Obin ha articolato visivamente diversi aspetti della cultura haitiana – come i mercati di strada,

LIMBÉ, HAITI, 1893 – 1977, CAP-HAÏTIEN, HAITI

il carnevale e il sincretismo spirituale – nonché le dinamiche politiche del Paese. Marché Clugny (1966) raffigura un tema su cui Obin tornerà più volte: pone il mercato costruito nel 1890 al centro della vita sociale di Cap-Haïtien. Con le sue linee precise, i colori decisi e le molteplici narrazioni, il dipinto allude al commercio, all’estrazione e alla trasformazione delle risorse naturali, evocate sia dalle merci offerte al mercato sia dal circostante paesaggio montuoso sullo sfondo.

Marché Clugny, 1950s-1960s Olio e/o gouache su masonite. Photo Jason Mandella. Collezione El Museo del Barrio, New York. Dono di Roslyn e Lloyd Siegel. Courtesy El Museo del Barrio, New York. Marché Poissons, 1956 Olio su masonite, 42 × 53,5 cm. Collezione Josh Feldstein.

L’opera di Sénèque Obin è esposta per la prima volta alla Biennale Arte. —Rodrigo Moura

Eglise Sacré-Coeur, 1961 Olio su masonite, 60 × 76 cm. Photo Jose Zelaya. Collezione Josh Feldstein .

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Daniel Otero Torres

La pratica multidisciplinare di Daniel Otero Torres comprende installazioni, sculture e disegni, che rappresentano movimenti di resistenza basati sulla comunità e portati avanti da gruppi emarginati. La tecnica di Otero Torres, che consiste in disegni scultorei caratterizzati da una figurazione dettagliata ed espressiva, prevede l’utilizzo di immagini tratte da diverse fonti, tra cui archivi storici, libri, giornali, fonti online e propria documentazione. Questo processo formale di giustapposizione e collage stratifica eventi di diverse regioni, creando metafore visive delle esperienze, delle conoscenze e delle tecnologie dei popoli.

Aguacero (2024), che si sviluppa dal suo lavoro precedente Lluvia (2022) ed è un’installazione effimera site-specific fatta di materiali raccolti localmente e riciclati, riflette il coinvolgimento dell’artista rispetto all’impatto della crisi ecologica sulla vita degli emarginati colombiani. L’opera evoca l’insolito sistema di architettura vernacolare a palafitte della comunità emberà, lungo le rive del fiume Atrato, progettato per raccogliere l’acqua piovana e fornire agli abitanti acqua non inquinata. Paradossalmente, pur abitando in una delle regioni più ricche di precipitazioni, gli Emberà devono affrontare gravi difficoltà per ottenere acqua pulita a causa dell’esteso inquinamento provocato dall’estrazione illegale dell’oro. Attraverso una ricostruzione metaforica, Otero Torres richiama l’attenzione sulla sfida che le comunità di tutto il mondo devono affrontare per garantire l’accesso all’acqua potabile e pulita, un problema strettamente connesso ai processi di privatizzazione e finanziarizzazione della natura. Struttura aperta agli occhi del mondo, questo lavoro rivela il viaggio dell’acqua che scorre e i suoi molteplici significati. L’opera di Daniel Otero Torres è esposta per la prima volta alla Biennale Arte. —Amanda Carneiro

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BOGOTÁ, COLOMBIA, 1985 VIVE A BOGOTÁ

Lluvia, 2020 Tecnica mista, 435 × 610 × 700 cm. Photo Omar-Tajmouati. Courtesy l’Artista e mor charpentier, Bogotá e Parigi.


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Lydia Ourahmane

Lydia Ourahmane conosce da sempre il movimento; la transitorietà è il modo in cui le è stato insegnato a vivere. Il suo lavoro è al contempo effimero e un esercizio di palinsesto: interseca colonialismo, migrazione, spiritualità e geopolitica. Cresciuta tra Londra e l’Algeria, ha vissuto nelle comuni cristiane fondate e gestite dal padre algerino e dalla madre malese: gioiosi spazi di fede che offrivano sollievo alla minoranza ancora perseguitata durante il decennio della guerra civile (1991-2002). Da quasi estranei, ballavano, cantavano, mangiavano, crescevano i loro figli. Allo stesso tempo, le loro comunità erano sottoposte a una stretta sorveglianza, che impregna la sua installazione interattiva Barzakh (che significa limbo, in mezzo, sapere-non sapere). Nelle esposizioni a Kunsthalle di Basilea (2021), Triangle-Astérides (2021) e S.M.A.K. (2022), Ourahmane ha sradicato e ricreato integralmente il proprio appartamento in affitto di Algeri, per essere “a casa” quando le frontiere si sono chiuse a causa della pandemia. Si tratta di un esercizio sulla burocrazia dello Stato-nazione, la cui seconda parte riguarda l’impossibilità di ‘restituzione’ di oggetti fondamentalmente mutati dai molteplici viaggi, toccati e alterati da mani sconosciute, di cui rimane solo l’ingresso.

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Entrance (1901-2021) comprende due porte funzionanti. Sulla seconda strada dal mare, la porta originale in legno (1901) deriva dal progetto di un tipico appartamento parigino, poiché l’occupazione francese voleva che Algeri assomigliasse alla Francia. La seconda porta in metallo, con cinque serrature, è stata aggiunta negli anni Novanta, durante la guerra civile. Incarnando una fusione dei due momenti, l’ingresso leggermente socchiuso è un’invasione architettonica della fiducia collettiva che era stata costruita e poi di nuovo spezzata nella guerra d’indipendenza. La scrittrice e curatrice Negar Azimi l’ha descritta come una “scultura emozionante, un palinsesto di storie”. È carica di tensione psicologica: quando l’artista si sentiva assalita dalla paranoia, chiudeva più serrature per sentirsi al sicuro. Ora l’appartamento e i suoi oggetti “restituiti” sono tornati a essere utilizzati da amici. Liberarlo dall’ingresso originale, dice Ourahmane, è stato catartico. L’opera di Lydia Ourahmane è esposta per la prima volta alla Biennale Arte. —Khushi Nansi

SAÏDA, ALGERIA, 1992 VIVE AD ALGERI, ALGERIA E BARCELLONA, SPAGNA


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21 Boulevard Mustapha Benboulaid (entrance), 1901–2021 Porta in metallo, porta in legno, 9 serrature, cemento, intonaco, mattoni, telaio in acciaio, 220 × 200 × 16 cm. Stedelijk Museum Amsterdam. Photo Philipp Hänger. Courtesy l’Artista


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Dalton Paula

BRASÍLIA, BRASILE, 1982 VIVE A GOIÂNIA, BRASILE

Artista poliedrico, Dalton Paula si occupa di pittura, installazione, performance art, fotografia, video e creazione di oggetti. Residente a Goiânia, ha fondato e dirige Sertão Negro, uno spazio dedicato alla formazione di artisti locali. Opera a partire da una ricerca visiva che cerca di interpretare in maniera critica gli eventi storici e il cammino della popolazione nera del Brasile. Ha ottenuto riconoscimenti internazionali grazie alla creazione di una serie di ritratti che conferiscono dignità a uomini e donne neri che hanno lottato per la libertà, combattuto contro ogni tipo di ingiustizia, e che ancora oggi vedono la propria immagine cancellata o sottorappresentata dalla storia brasiliana. Full-Body Portraits (2023) è una serie di sedici dipinti che riprendono l’indagine condotta dall’artista a partire dalla mostra Afro-Atlantic Histories (2018) tenutasi presso il Museu de Arte de São Paulo. In queste opere, figure storiche di origine africana che hanno guidato i movimenti di resistenza antischiavista in Brasile, o ne sono state in qualche modo coinvolte (Chico Rei, Zeferina e Ventura Mina, tra gli altri), sono rappresentate in grandi tele bipartite, un tratto stilistico che evoca il divario come metafora per unire storie e ricordi. La composizione instaura un dialogo tra paesaggio e sfondo, presentando un rapporto quasi monocromatico tra i due, e fa riferimento alle strutture scenografiche degli studi

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fotografici di fine Ottocento e inizio Novecento. Oggetti altrettanto scenografici – tra cui bicchieri, rocce, sedie, bandiere, colonne, tende, scale e scettri – sono inseriti in questa nuova serie in modo critico e simbolico, rendendo evidenti le possibili relazioni tra immagine, memoria e potere.

L’opera di Dalton Paula è esposta per la prima volta alla Biennale Arte. —Glaucea Helena de Britto

Manuel Congo, 2022 Olio e foglia d’oro su tela, 61 × 45 cm. Photo Paulo Rezende. Museu de Arte de São Paulo Assis Chateaubriand, opera commissionata, 2019-2022, MASP.10837 Courtesy l’Artista.


337 Mariana Crioula, 2022 Olio e foglia d’oro su tela, 61 × 45 cm. Photo Paulo Rezende. Museu de Arte de São Paulo Assis Chateaubriand, opera commissionata, 2019-2022, MASP.10842 Courtesy l’Artista.

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Marcilio Dias, 2022 Olio e foglia d’oro su tela, 61 × 45 cm. Photo Paulo Rezende. Museu de Arte de São Paulo Assis Chateaubriand, opera commissionata, 2019-2022, MASP.10836. Courtesy l’Artista.


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La Chola Poblete

La Chola Poblete è un’artista transdisciplinare che opera con performance, videoarte, fotografia, pittura e oggetti: attraverso un sofisticato immaginario queer, recupera conoscenze ancestrali dai territori sudamericani. Proveniente da una famiglia operaia di origine boliviana, ha studiato arti visive all’Università nazionale di Cuyo. Il suo lavoro denuncia l’abuso e il pregiudizio nei confronti delle popolazioni indigene, nonché la stereotipizzazione e l’esotizzazione dei popoli nativi. In questa linea, la scelta del suo nome (che riflette il termine comune per le donne mestiza native andine) serve come affermazione di identità. Nella sua critica radicale della normalità, l’artista porta l’attenzione su forme antiegemoniche di bellezza e di incarnazione. La cultura pop, i fumetti e il rock contribuiscono al repertorio di strategie visive che sfidano l’eredità coloniale.

MENDOZA, ARGENTINA, 1989 VIVE A BUENOS AIRES, ARGENTINA

I grandi acquerelli di La Chola Poblete rivelano la fluidità derivante dalla sua identità. Una marea di esseri ibridi convive con motivi astratti, religiosi e pop, tra cui figurano piccole riproduzioni delle sue opere, come le maschere di pane. Vergini con le trecce, spade che affettano patate e forme organiche ornate di peni risuonano come canti di resistenza. La Vergine è un motivo centrale e sfaccettato nell’opera di quest’artista, che incarna il sincretismo tra cultura occidentale e comunità indigene. La serie Vírgenes Chola riprende dal barocco mestizo l’identificazione tra la Vergine e la dea Pachamama (Madre Terra per le comunità andine). Anche in questa serie, le Vergini in trono indossano i loro attributi come icone pop. La performance Il martirio di Chola (2014) affronta l’emarginazione sociale della comunità boliviana residente in Argentina, insieme all’uso dell’evangelizzazione come forma di tortura emotiva e fisica. L’opera di La Chola Poblete è esposta per la prima volta alla Biennale Arte. —María Amalia García

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Il Martirio di Chola, 2014 Fotografia, 100 × 70 cm. Courtesy l’Artista.


Untitled, 2019 Tessuto, 140 × 90 cm. Courtesy l’Artista.

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NUCLEO CONTEMPORANEO

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Virgen del cerro - dalla serie Virgenes Chola, 2022 Acquerello e inchiostro su carta, 198 × 153 cm. Courtesy l’Artista.


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Charmaine Poh

Charmaine Poh è un’artista, documentarista e scrittrice che scava in storie incentrate su esperienze femministe e queer asiatiche, attraversando temi legati a norme di genere, dinamiche di parentela e creazione di mondi queer. Essendo cresciuta a Singapore, dove la rappresentazione delle persone queer nei media statali è fortemente regolamentata, Poh insiste sul potere delle micronarrazioni per riflettere sulle forme di resistenza, riparazione e sopravvivenza di quanti sono ai margini della società. Nella sua pratica, che spazia tra fotografia, film e lezioni-performance, combina la narrazione con l’indagine e l’analisi etnografica, nel costante intento di promuovere uno spazio collaborativo che consenta la stratificazione di diversi immaginari e codici di genere, di corpi in relazione e di introspezione. Nel 2022 si è trasferita a Berlino, dove sta attualmente svolgendo una ricerca di dottorato sull’avatar femminile asiatico, rintracciandone le origini a partire dal “miracolo economico” dell’Asia orientale degli anni Ottanta e dall’emergere del tecno-orientalismo e del cyberfemminismo.

SINGAPORE, 1990 VIVE A BERLINO, GERMANIA, E SINGAPORE

La serie di documentari ibridi Kin (2021) penetra nella vita domestica queer a Singapore. L’autrice mette in luce le contraddizioni vissute dalle persone queer, il cui desiderio di vivere e prosperare è limitato dall’idealizzazione delle famiglie nucleari eterosessuali da parte della società. In Kin, tre giovani queer riflettono sui concetti di casa e di famiglia scelta, dove l’accesso agli alloggi pubblici dipende da definizioni eterosessuali di matrimonio. Con Kin ll (2024), Poh esamina le difficoltà dei genitori queer nel crescere i figli quando la loro famiglia non ha legittimazione agli occhi dello stato. Nel 2022, il Parlamento di Singapore ha abrogato la Sezione 377a, una legge di epoca coloniale che criminalizzava il sesso tra uomini, blindando però al contempo la definizione di matrimonio e bloccando così i futuri sforzi per stabilire pari diritti coniugali per le persone LGBTQ+. Intrecciando lettere personali di genitori queer con pratiche intergenerazionali di cura, il film immagina la vita domestica queer – nella sua simultanea ordinarietà, fantasiosità e complessità – come luogo di potenziale per forme alternative di comunità. I legami queer diventano un orizzonte aperto di possibilità relazionali che punta oltre l’organizzazione eteronormativa di intimità, desiderio, cura e riproduzione. L’opera di Charmaine Poh è esposta per la prima volta alla Biennale Arte. —Joleen Loh

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Kin, 2022 Video, 2’ 45”. Photo Charamine Poh. Courtesy l’Artista.


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Sandra Poulson

Sandra Poulson è un’artista angolana che vive tra Londra e Luanda. Concentrandosi su eventi, contesti e storie locali vissuti e osservati a Luanda, nelle sue opere costruisce narrazioni che parlano di politiche globali e strutture sociali e dei modi in cui essi definiscono l’accesso, il movimento e gli ambienti abitabili. Operando attraverso tecniche e scale diverse crea installazioni e performance scultoree e spaziali; utilizza inoltre una varietà di materiali, spesso mescolando quelli con differenti qualità e possibilità, tra cui tessuti, carta, sapone, legno e cemento. La sua pratica comprende anche la scrittura e la documentazione visiva, adoperati e come materiale di ricerca e tradotti e direttamente nel suo lavoro.

ANGOLANA, NATA A LISBONA, PORTOGALLO, 1995 VIVE A LUANDA, ANGOLA E LONDRA, REGNO UNITO

Onde o Asfalto Termina, e a Terra Batida Começa (2024) prosegue l’esplorazione degli ambienti formali e informali di Luanda e del modo in cui essi dettano il movimento nella città, sia in senso letterale sia in termini di strutture sociali. L’opera si concentra sul momento in cui lo sterrato di una strada informale incontra quella asfaltata e lo utilizza per esplorare le sfumature tra ciò che è considerato centrale o periferico, abitabile o inabitabile, locale o globale. Realizzata con cartone recuperato e amido, questa installazione site-specific di cartapesta include stralci di paesaggio urbano che costituiscono attività e divisioni umane. Un’installazione video multicanale, esposta sulle pareti laterali, è formata da video spontanei girati con un cellulare che catturano diversi momenti, eventi e materiali che avvengono nella città e la formano. I video completano l’installazione offrendo una visione del rigoroso ed esteso processo di documentazione che alimenta la ricerca di Poulson. L’opera di Sandra Poulson è esposta per la prima volta alla Biennale Arte. —Natalia Grabowska

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Sandra Poulson è tra i quattro beneficiari della borsa di studio per l’edizione della Biennale College Arte 2024. Quest’opera è fuori concorso.

Dust as an Accidental Gift, 2023 Veduta dell’installazione, Sharjah Architecture Triennial 2023, Al Qasimiya School, Sharja, Emirati Arabi Uniti. Photo Danko Stjepanovic. Courtesy Sharjah Architecture Triennial.


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NUCLEO CONTEMPORANEO

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Puppies Puppies

DALLAS, USA, 1989 VIVE A NEW YORK, USA

(Jade Guanaro Kuriki-Olivo) Puppies Puppies (Jade Guanaro Kuriki-Olivo) lavora tra scultura, installazione e performance art per trattare in modo incisivo tematiche personali e politiche. È conosciuta per le opere con le quali critica le modalità di produzione patriarcali e capitalistiche, servendosi di ready-made, oggetti di uso comune e durational performance che seguono le sue attività quotidiane, esse stesse una forma di resistenza e di sopravvivenza. I suoi lavori si confrontano con i simboli di identificazione e misidentificazione, visibilità e opacità, fisico e digitale, pubblico e privato, spesso sfumandone i confini, nel rifiuto di un pensiero binario. Con il suo modus operandi ricco di nuance e stratificazioni, l’artista

porta scompiglio in istituzioni, centri commerciali, gallerie e nel concetto stesso di identità e di origine culturale, spesso coinvolgendo dei collaboratori. A Sculpture for Trans Women… (2023) è una scultura di bronzo a grandezza naturale realizzata a partire da una scansione in 3D del corpo dell’artista. L’opera, che presenta l’incisione “WOMAN” – e che viene animata da performance durante tutta l’esposizione – intende sovvertire il potere dei monumenti rendendo visibile e celebrando la vita trans in un atto di protesta e di commemorazione. Electric Dress (Atsuko Tanaka) (2023) rende omaggio alle persone che nel 2016 sono state uccise nel corso della sparatoria avvenuta durante una “Notte

latina” al Pulse, un nightclub queer a Orlando, Florida. La scultura si riferisce a Electric Dress (1956) di Atsuko Tanaka, con luci LED che tremolano seguendo il battito del cuore e luci che alternano i colori dell’arcobaleno della bandiera del Pride. Le due sculture sono un tributo alla vita queer e trans per combattere l’oblio e l’invisibilità. L’opera di Puppies Puppies (Jade Guanaro Kuriki-Olivo) è esposta per la prima volta alla Biennale Arte. —Elena Ketelsen González

A sculpture for Trans Women. A sculpture for the Non-Binary Femmes A sculpture for Two-Spirit People. I am a woman. I don’t care what you think. (Transphobia is everywhere and everyone is susceptible to enacting it at any moment) (Unlearn the transphobia brewing within) I am a Trans Women. I am a Two-Spirit Person. I am a Woman. This is for my sisters and siblings everywhere. History erased many of us but we are still here. I will fight for our rights until the day I die. Exile me and I’ll keep fighting, 2022 Fusione in bronzo su una base in ottone inciso, 190 × 60 × 60 cm. Photo Vincent Blebois. Courtesy l’Artista; Galerie Balice Hertling; Galerie Barbara Weiss; Hannah Hoffman Gallery; Galerie Francesca Pia.

Electric Dress (Atsuko Tanaka), 2023 Abito a LED in tessuto e plastica, drappeggiato su manichino, 12 batterie agli ioni di litio in custodie in tasche di tessuto, scheda micro SD programmata con Madrix, 81 × 66 × 63 cm. Photo Cedric Mussano. Courtesy l’Artista; Galerie Francesca Pia, Zurigo.


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Agnes Questionmark

Agnes Questionmark è un’artista che si divide tra performance, scultura, video e installazione. Esplorando i confini del sé, la pratica di Questionmark si addentra negli esperimenti genetici, nelle operazioni chirurgiche e nei processi riproduttivi artificiali con cui l’identità viene sconvolta. Costringendo il proprio corpo e il pubblico all’interno di spazi in cui l’umanità non riesce ad affermare le proprie istanze normative, Questionmark scardina le implicazioni biopolitiche dei corpi transgender e trans-specie in un mondo dominato dall’essere umano. Le recenti performance di lunga durata, presentate in spazi pubblici come strade e stazioni ferroviarie, così come i suoi testi, sono parte integrante della sua pratica artistica, che sta ottenendo ampia visibilità.

ROMA, ITALIA, 1995 VIVE A ROMA E NEW YORK, USA

Cyber-Teratology Operation (2024) mette in primo piano un corpo trans (trans-specie, transgender, transumano) all’interno di una sala operatoria dove ogni persona è sorvegliata. Mentre il pubblico osserva i movimenti al suo interno, l’occhio del soggetto è anche uno schermo di monitoraggio, in cui il sé e il dispositivo diventano tutt’uno. Il lavoro di Questionmark affronta il corpo transgender come un corpo spesso patologizzato, meccanizzato e ospedalizzato, facendo luce sulla biopolitica patriarcale in gioco nell’ambito della scienza e della sanità. L’installazione solleva il problema delle nozioni di artificialità percepita o presunta per i corpi trans da parte della società normativa e celebra il potenziale emancipatorio di un corpo in trasformazione che sfida la tassonomia attraverso il suo stesso processo rivendicato del divenire. Solleva domande sull’insistenza, ancora attuale, nel collegare il genere con la riproduzione, e muove guerra al controllo scientifico esercitato sui corpi che stanno affrontando i propri processi di deterritorializzazione. CyberTeratology Operation oscilla tra realtà, fantasia e mondi più che umani, incubando futuri e nuovi neuroni resi possibili se sogniamo e ci fondiamo in altro modo. L’opera di Agnes Questionmark è esposta per la prima volta alla Biennale Arte. —Kostas Stasinopoulos

BIENNALE ARTE 2024

Agnes Questionmark è tra i quattro beneficiari della borsa di studio per l’edizione della Biennale College Arte 2024. Quest’opera è fuori concorso.

Cyber-Teratology Operation, 2024 Scultura in silicio, metallo e resina con schermo video, 180 × 190 × 270 cm. Courtesy l’Artista.


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Violeta Quispe

LIMA, PERÙ, 1989 VIVE A LIMA

Violeta Quispe è un’artista e attivista legata alle tradizioni andine della cultura quechua della regione di Ayacucho, in Perù. È cresciuta immersa nella produzione artistica locale, tra cui le Tablas de Sarhua, dipinti su legno – raffiguranti le usanze, i rituali, le festività e le credenze della suddetta comunità – che vengono tramandati di generazione in generazione. Generalmente realizzate dagli uomini, che le offrivano in dono alle nuove famiglie, nell’opera di Quispe acquistano altri significati recuperando l’artigianato femminile e trasformandolo in uno strumento per combattere la violenza di genere. Dal 2018, l’artista si concentra su rappresentazioni che reimmaginano la figura dell’Ekeko andino, una divinità maschile associata alla prosperità e all’abbondanza, spesso raffigurata come un mercante che trasporta diversi oggetti, alcuni simbolicamente legati alla virilità, come il toro e il drago. Sfidando le credenze locali che equiparano la presenza femminile alla sfortuna, Quispe sovverte il genere dell’Ekeko, creando Ekekas ed Ekekes.

Le lettere finali “e” e “x” nel nome Ekeke Sarhuinx sottolineano l’aspetto neutro rispetto al genere della figura di Sarhuina, che combina elementi maschili, come il poncho, il sigaro e i baffi, con gonne e sandali tipicamente femminili. Il megafono, la maschera antigas e il guantone da boxe con la frase “lotta costante” denotano il suo attivismo politico, mentre il pallone e la macchinina – giocattoli solitamente associati ai maschi – interrogano le convenzioni di genere. Allo stesso modo, bandiere, libri e slogan difendono la libertà sessuale e i diritti LGBTQIA+. Il “vino sangue di Cristo” è una critica al conservatorismo cristiano e la bibita “HincaCola” denuncia l’imperialismo culturale. Quispe incorpora anche riferimenti alla cultura andina, come i colori al neon della street art Chicha, i diversi tipi di mais, la foglia di coca e gli strumenti musicali come il flauto di Pan. Nella parte inferiore sono raffigurate le divinità del sole e della luna, accompagnate dalla frase “Kuyaykusqay Kuyaykusqaymi”, che in quechua significa “l’amore è amore”. L’opera di Violeta Quispe è esposta per la prima volta alla Biennale Arte. —Matheus de Andrade

BIENNALE ARTE 2024

Ekeke, 2021 Policromia, terra, pigmento naturale su MDF, 60 × 35 cm. Courtesy _VIGILGONZALES.


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El matrimonio de la chola, 2022 Policromia mista, pigmento naturale con applicazione di foglia d’oro su MDF, 150 × 170 cm. Courtesy Collezione Jorge M. Pérez, Miami.


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Juana Marta Rodas

Juana Marta Rodas – nata in un villaggio contadino – è stata iniziata all’arte della ceramica dalla nonna Maria Balbina Cuevas, seguendo un’usanza popolare paraguaiana di trasmissione di saperi tra madri e figlie. Questa tradizione trae origine dalla cultura indigena preispanica, attraversa la storia coloniale e conduce in uno spazio segnato da diverse sfide culturali. Le sue ceramiche costituiscono un pregevole caso di appropriazione transculturale di grande interesse sia per la teoria sia per le pratiche artistiche latinoamericane contemporanee. Il lavoro di Rodas è stato presentato in mostre e biennali in Paraguay, Brasile, Spagna e Francia e ha ricevuto il Premio de la ciudad de Madrid, Spagna (1998) e il Premio Prince Claus, Amsterdam, Paesi Bassi (1999). La ceramica, una delle più significative manifestazioni dell’arte popolare in Paraguay, prosegue una tradizione millenaria che resiste alle

ITÁ, PARAGUAY, 1925 – 2003

continue sfide poste – o imposte – da colonizzazione, modernità e globalizzazione. A questa tradizione Juana Marta Rodas imprime audacemente una brusca svolta, sovvertendone le forme e i temi e sviluppando uno stile singolare, che si rifà alle sue origini guaraní ed esprime una sensibilità unica influenzata dall’arte contemporanea. Le antiche brocche, i vasi e le fontane di origine mestizoindigena si trasformano, incorporano forme zoomorfe e antropomorfe e assumono fantasiose protuberanze e concavità. Le figure di Rodas qui presentate rifiutano le grandi dimensioni dei vasi convenzionali; l’artista crea invece un bestiario di animali immaginari ed esseri ibridi, guidata da un’immaginazione libera da qualsiasi dipendenza dalla rappresentazione naturalistica. L’opera di Juana Marta Rodas è esposta per la prima volta alla Biennale Arte. —Ticio Escobar

Untitled, 1993 ca. Ceramica modellata e ingobbio rosso, 10 × ø 11 cm. Collezione del Centro de Artes Visuales/Museo del Barro (CAV/MdB) - Fundación Carlos Colombino Lailla (FCCL). The Musicians (serie), 1993 ca. Ceramica modellata e ingobbio rosso, 12,5 × 8,5 × 14 cm. Collezione del Centro de Artes Visuales/Museo del Barro (CAV/MdB) - Fundación Carlos Colombino Lailla (FCCL).


351 Untitled, 1993 ca. Ceramica modellata, 18,5 × ø 55 cm. Collezione del Centro de Artes Visuales/ Museo del Barro (CAV/MdB) - Fundación Carlos Colombino Lailla (FCCL).

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Untitled, 1993 ca. Ceramica modellata e ingobbio rosso, 11 × 19 cm. Collezione del Centro de Artes Visuales/ Museo del Barro (CAV/MdB) - Fundación Carlos Colombino Lailla (FCCL).


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Abel Rodríguez

Abel Rodríguez nasce con il nome di Mogaje Guihu nel Dipartimento di Putumayo in Colombia e si forma come esperto botanico fra i Nonuya, uno dei numerosi gruppi etnici dell’Amazzonia. Il suo incarico di “battezzatore di piante” (esperto della flora della foresta pluviale tropicale) e la sua profonda conoscenza delle proprietà curative di una grande varietà di specie attirano l’attenzione della comunità scientifica internazionale. Nel tentativo di sistematizzare e documentare la sua vasta conoscenza – e dato che fra i popoli indigeni le informazioni vengono trasmesse oralmente e visivamente – l’artista ricorre allo strumento del disegno, che diventa rapidamente un dispositivo per registrare e rappresentare l’ambiente amazzonico e la sua ricca

complessità naturale. Rodríguez è oggi ritenuto uno dei maggiori artisti indigeni e uno dei maggiori esperti di piante dell’Amazzonia. Le opere esposte alla Biennale sono rappresentative della produzione recente di Rodríguez. Sin título (2023) è tratta da una serie che si concentra sull’esplorazione tassonomica delle varietà degli alberi amazzonici, catturandone le qualità distintive quali colore, forma delle foglie, consistenza del tronco e architettura generale della pianta. Queste meticolose raffigurazioni riflettono le caratteristiche reali degli esemplari e non sono soltanto efficaci riproduzioni artistiche, ma anche rappresentazioni scientificamente accurate della biodiversità amazzonica.

CAHUINARÍ, COLOMBIA, 1944 – VIVE A BOGOTÁ, COLOMBIA

Centro el terreno que nunca se inunda (2022), una sezione della foresta pluviale amazzonica presentata in prospettiva bidimensionale, è una composizione in cui diverse specie di flora coesistono con animali ed elementi del paesaggio. L’opera racconta il modo in cui alberi e piante – in cui l’artista è specializzato – si intrecciano dal punto di vista biologico e cosmologico nella concezione di natura e vita dei Nonuya e di altri gruppi indigeni; nella loro visione del mondo, un punto di vista non può esistere senza l’altro. L’opera di Abel Rodríguez è esposta per la prima volta alla Biennale Arte. —Emiliano Valdés


353 NUCLEO CONTEMPORANEO Sin título, 2023 Inchiostro su carta, 30 × 20 cm (ciascuna). Photo Ana María Balaguera. Courtesy l’Artista; Instituto de Visión.

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Centro el terreno que no se inunda, 2022 Inchiostro su carta, 70 × 100 cm. Photo Nicole López. Courtesy l’Artista; Instituto de Visión.


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Aydeé Rodríguez López

Aydeé Rodríguez López è un’artista afro-messicana autodidatta impegnata a rendere visibili la storia e le voci delle comunità nere in Messico. Cresciuta in una famiglia di contadini, si trasferisce a Città del Messico in giovane età. A trentotto anni inizia il suo percorso nella pittura con un ritratto della nonna. Da allora, Rodríguez López richiama l’attenzione sulla storia, la cultura e le credenze delle popolazioni afrodiscendenti. Nati dalla volontà di combattere il razzismo, i suoi dipinti affrontano questioni di violenza razziale, argomenti ufficialmente riconosciuti nel suo paese solo in questi due ultimi decenni. Ricche di dettagli intricati e narrazioni avvincenti, le sue opere approfondiscono gli eventi storici e le loro ripercussioni sulla società contemporanea. Alcune sono un atto d’accusa, mentre altre ritraggono visioni utopiche di un futuro definito da giustizia e libertà.

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Ex hacienda de Guadalupe Collantes (2014) raffigura il sistema di piantagione con le varie fasi dell’industria del cotone, simboleggiando così il sistema coloniale di schiavitù in Messico. Situata nello stato di Oaxaca, questa hacienda ha avuto un ruolo significativo nella storia della madre, della nonna e dei bisnonni di Rodríguez López. Dopo la morte della nonna, l’artista ha intrapreso una ricerca per scoprire le proprie radici e la propria ascendenza nera. L’opera costituisce un importante contributo al riconoscimento delle persone nere in Messico, delle loro lotte, della loro visibilità e della loro libertà, tutti temi affrontati nitidamente nel corpus di opere di Rodríguez López. El Negro Yanga (2011) rende omaggio a Gaspar Yanga, uno dei primi

CUAJINICUILAPA, MESSICO, 1955 – VIVE A CUAJINICUILAPA

liberatori nelle Americhe, che guidò ribellioni nel Messico coloniale e fondò, intorno al 1618, l’insediamento africano libero di San Lorenzo de los Negros. Migración (2018) porta l’attenzione sul confine tra Messico e Stati Uniti, mettendo a confronto le restrizioni alla circolazione umana e la libera migrazione degli uccelli e delle farfalle monarca sul continente. L’opera di Aydeé Rodríguez López è esposta per la prima volta alla Biennale Arte. —Eva Posas

Ex hacienda de Guadalupe Collantes, 2014 Olio su tela, montato su telaio in legno di pioppo tinto e intagliato a mano, 171,5 × 221 cm. Photo Ramiro Chaves. Courtesy Proyectos Monclova. El Negro Yanga, 2011 Olio su tela, montato su telaio in legno di pioppo tinto e intagliato a mano, 117 × 135,5 cm. Photo Ramiro Chaves. Courtesy Proyectos Monclova.

Migración, 2018 Olio su tela, montato su telaio in legno di pioppo tinto e intagliato a mano, 110 × 153,5 cm. Photo Ramiro Chaves. Courtesy Proyectos Monclova.


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Miguel Ángel Rojas

Dalla metà degli anni Sessanta del XX secolo, Miguel Ángel Rojas lavora con vari linguaggi, quali disegno, incisione, ricamo e videoarte. La sua opera affronta diverse tematiche, tra cui l’omosessualità e il conflitto armato interno in Colombia, concentrandosi in particolare sull’esplorazione delle varie sfaccettature dell’esperienza e sul corpo maschile. Le sue foto in bianco e nero degli anni Settanta trattano la discriminazione e altre tematiche sociali legate al corpo e all’esperienza personale, mettono in mostra inoltre pratiche nascoste dell’intimità queer e incontri clandestini a Bogotá. Anche la politica nazionale e la geopolitica sono narrate con un occhio di riguardo per l’esperienza, come nel ritratto di soldati feriti e di tossicodipendenti attraverso video e fotografie che sottolineano la bellezza

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maschile. L’artista inserisce foglie di coca, oro e terra per formare grandi composizioni che vanno osservate da diverse angolazioni. Quando sono esposti, il peso economico, ambientale e umano di questi materiali viene trasmesso attraverso complesse esperienze di visione. Analogamente ad altre serie fotografiche di quel periodo, El Emperador (1973-1980) prende il nome da un cinema della capitale colombiana che negli anni Settanta era usato come punto di ritrovo per incontri sessuali illegali tra uomini. Nelle stampe in bianco e nero vediamo il contorno delle parti del corpo contro un muro rivestito di mattonelle. Le fotografie di El Negro (1979) inquadrano in un cerchio l’immagine sfocata di un uomo. Sono state scattate da un foro nella porta del bagno del Teatro Mogador, un altro cinema nel

BOGOTÁ, COLOMBIA, 1946 VIVE A BOGOTÁ

centro di Bogotá in cui avevano luogo incontri intimi. Il tipo di ambientazione impedisce a Rojas di catturare il corpo intero, generando così ritratti anonimizzati che mettono l’osservatore nella posizione di voyeur. Il titolo della serie indica l’origine africana del soggetto ed evidenzia l’interesse di Rojas nel mostrare frequentatori appartenenti a diverse sfere sociali. Il modo accurato con cui tratta luci e ombre sottolinea la relazione ambivalente tra segretezza ed esibizione. L’opera di Miguel Ángel Rojas è esposta per la prima volta alla Biennale Arte. —Sebastián Eduardo

El Negro, 1979 4 stampe vintage alla gelatina d’argento, 20,3 × 25,4 cm. Photo Miguel Ángel Rojas. Courtesy l’Artista; Sicardi Ayers Bacino, Houston, USA. © Miguel Ángel Rojas 2023.


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Erica Rutherford

Artista, attrice, regista, contadina, insegnante e scrittrice, il percorso incredibilmente multidisciplinare di Erica Rutherford la conduce in numerosi paesi e continenti, tra cui la Gran Bretagna, gli Stati Uniti, la Spagna, il Sudafrica e, infine, il Canada. Nata nel 1923, l’artista si sottopone a un intervento chirurgico per l’affermazione del genere nel 1976, a cinquantatré anni. La sua lotta, durata tutta la vita, con quella che descrive come “disforia di genere” è documentata nell’autobiografia Nine Lives. The Autobiography of Erica Rutherford (1993). Membro della Canadian Royal Academy of Arts, Rutherford continua a dipingere fino a oltre i suoi ottant’anni e le sue opere vengono esposte in numerose importanti gallerie in Europa e Nordamerica. Muore nel 2008, a ottantacinque anni, a Charlottetown, Isola del Principe Edoardo, dove lascia un segno indelebile sulla comunità artistica locale.

EDIMBURGO, REGNO UNITO, 1923 – 2008, CHARLOTTETOWN, CANADA

Mentre affronta la transizione, negli anni Settanta, Rutherford inizia le sperimentazioni con l’autoritratto. Molte delle opere qui esposte sono autoritratti dipinti basati su fotografie dell’artista. In tutti, le figure sono senza volto – il viso è appiattito e privo di ogni connotato – e rappresentate in una serie di pose rigide. Le tonalità monocromatiche e brillanti sono un’altra caratteristica comune a queste opere, insieme alle strisce di colore che incorniciano le figure anonime. In un’ovvia affinità con la Pop Art, lo stile di Rutherford amplia la critica del fenomeno dei mass media per aggiungervi una complessa riflessione su costruzione di genere e agentività. Lo scrittore Jay Prosser descrive gli autoritratti dell’artista come opere “che immaginano la donna che Rutherford desidera diventare e durante la sua transizione si trasformano gradualmente in una registrazione di quel divenire... l’autoritratto dipinto appare come un modello per il corpo transessuale che verrà”. L’opera di Erica Rutherford è esposta per la prima volta alla Biennale Arte. —Marko Ilic

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The Diver, 1968 Acrilico su tela, 172,6 × 121,6 cm. Courtesy Richard Saltoun Gallery, Londra e Roma. © The Estate of Erica Rutherford.


The Coat (The Mirror), 1970 Acrilico su tela, 122 × 127,2 cm. Courtesy Richard Saltoun Gallery, Londra e Roma. © The Estate of Erica Rutherford.

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Self-Portrait with Red Boots, 1974 Acrilico su tela, 137,2 × 132,1 cm. Courtesy of the Collection of Beth Rudin DeWoody. © The Estate of Erica Rutherford.


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Dean Sameshima

LOS ANGELES, USA, 1971 VIVE A BERLINO, GERMANIA

Anonymous Homosexual, 2020 Acrilico su tela, 30 × 40 cm. Courtesy l’Artista; Kristina Kite Gallery, Los Angeles; Soft Opening, Londra.

Il lavoro di Dean Sameshima si pone in equilibrio tra una malinconica posizione psicosociale e la nostalgia presente negli spazi che indaga attraverso la fotografia. In veste di documentarista, come si autodefinisce, Sameshima esplora le sfumature della cultura gay del passato per raccontare anche la propria esperienza di persona gay che cresce nella Los Angeles degli anni Novanta. Nato a Torrance, frequenta il CalArts e in seguito l’ArtCenter College of Design, dove si concentra sulla fotografia e consegue il proprio MFA. Il senso attivo del “guardare” lo porta a lavorare nelle librerie, dove impara a conoscere fotografi come Bruce Weber e Larry Clark. Questo “guardare” critico lo porta poi a consultare le pagine gialle alla ricerca di uomini,

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nonché di un senso di sé e di comunità gay. Gli spazi pubblici gli permettono di comprendere a fondo che cosa significhi essere un uomo asiatico gay a Los Angeles, tra altri gay. Ora risiede a Berlino e opera tra le due città. In sintonia con lo spazio e il gesto queer, Sameshima documenta le sale cinematografiche per adulti di Berlino per creare la serie del 2022 being alone, in cui fotografa di nascosto figure solitarie. Mentre fissano gli schermi, gli spettatori rivolgono lo sguardo anche verso un orizzonte di (im)possibilità. Qui Sameshima sfrutta la fotografia in modo tale da integrare un linguaggio di desiderio e piacere in un tempo che fu, suggerendone allo stesso tempo il ritorno. Oscillando tra

più spettatori, l’artista rivela le sfumature del cruising e l’azione continua del “guardare”. Che si tratti di pagine gialle, librerie o sale cinematografiche, Sameshima ci ricorda che questi spazi di svago e piacere possono farci sentire soli e insieme, rendendoci allo stesso tempo anonimi. L’opera di Dean Sameshima è esposta per la prima volta alla Biennale Arte. —Xavier Robles Armas

being alone (no.5), 2022 Stamp d’archivio a a getto d’inchiostro su carta Hahnemühle Photo Rag, 59,4 × 42 cm. Courtesy l’Artista; Kristina Kite Gallery, Los Angeles; Soft Opening, Londra. being alone(no.12), 2022 Stampa d’archivio a getto d’inchiostro su carta Hahnemühle Photo Rag, 59,4 × 42 cm. Courtesy l’Artista; Kristina Kite Gallery, Los Angeles; Soft Opening, Londra. being alone (no.15), 2022 Stampa d’archivio a getto d’inchiostro su carta Hahnemühle Photo Rag, 59,4 × 42 cm. Courtesy l’Artista; Kristina Kite Gallery, Los Angeles; Soft Opening, Londra. being alone (no.17), 2022 Stampa d’archivio a getto d’inchiostro su carta Hahnemühle Photo Rag, 59,4 × 42 cm. Courtesy l’Artista; Kristina Kite Gallery, Los Angeles; Soft Opening, Londra.


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Bárbara Sánchez-Kane

Bárbara Sánchez-Kane decostruisce e disseziona le idee di mascolinità attraverso la moda, la performance, la scultura e la pittura. Dopo un periodo trascorso in Italia a studiare modellistica sartoriale, con particolare attenzione al vestiario maschile, il suo lavoro è in gran parte informato dalla storia dell’abbigliamento, per lei “strumento usato per rappresentare identità e incarnare ideologie su base quotidiana”. Presentando spesso il proprio lavoro tramite epiche passerelle performative, Sánchez-Kane utilizza il comune linguaggio e contesto dell’industria della moda per esplorare, con ampie ambizioni multidisciplinari, i tropi ricorrenti di identità mutevoli. Scegliendo di alternare i pronomi, l’artista utilizza il concetto di “macho sentimentale” per descrivere il proprio lavoro come persona in contatto con la mascolinità e la femminilità. In Prêt-à-Patria (2021), Sánchez-Kane disegna e crea una nuova uniforme militare e orchestra una performance che dà vita a un’installazione video e scultorea. Prendendo

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MÉRIDA, MESSICO, 1987 VIVE A CITTÀ DEL MESSICO, MESSICO

il titolo dal termine francese prêt-à-porter, e inserendo il concetto in lingua spagnola di patria, l’opera altera l’immagine militare, dello Stato per commentare i proposti simboli egemonici di mascolinità e potere. Basata sul rituale della milizia di salvaguardare e onorare la bandiera nazionale, noto in Messico come Escolta de Bandera (scorta della bandiera), la performance presenta un gruppo di uomini che praticano questa cerimonia indossando la versione di Sánchez-Kane dell’uniforme militare con la schiena aperta che espone lingerie di pizzo. Accostando indumenti maschili e femminili sul corpo dei militari, Prêt-à-Patria si propone come approccio salace e sardonico al nazionalismo messicano, alla devozione allo Stato e al suo violento indottrinamento delle identità. L’opera di Bárbara SánchezKane è esposta per la prima volta alla Biennale Arte. —José Esparza Chong Cuy

Prêt-à-Patria, 2021 Fibra di vetro, resina, struttura in acciaio e poliestere, 560 × 63 × 170 cm. Photo Gerardo Landa / Eduardo López (GLR Estudio). Courtesy l’Artista; Kurimanzutto, Città del Messico / New York.


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Greta Schödl

Greta Schödl è una poetessa visiva diplomata all’Accademia di Arti Applicate di Vienna nel 1953. Nel 1959 si trasferisce a Bologna e interrompe per un breve periodo la propria attività artistica per dedicarsi alla famiglia, per poi riprenderla a metà degli anni Sessanta. A partire dagli anni Cinquanta le sue opere – dai libri a collage alle installazioni di grandi dimensioni – sono esposte a livello internazionale. Alla fine degli anni Settanta inizia a sperimentare gli effetti della ripetizione di linee sulla pagina, prima di passare alle parole. L’artista combina questi segni con oggetti trovati – libri di preghiere, camicie, piante e mappe – che vengono utilizzati come supporto fisico per la sua scrittura. È stata inclusa nella mostra Materializzazione del linguaggio curata da Mirella Bentivoglio per la Biennale (1978), che riuniva il lavoro di artiste la cui pratica esplorava il rapporto tra corpo, identità e linguaggio, temi che continuano a informare la pratica di Schödl.

HOLLABRUNN, AUSTRIA, 1929 VIVE A BOLOGNA, ITALIA

La recente serie Scritture, che comprende Piccolo marmo rosato (2020), Granito rosso Serra Chica (2020) e Marmo basso calcareo (2023), è caratteristica del pluriennale approccio al lavoro di Schödl. La scrittura ricopre interamente le facce piane o curve degli oggetti, dando forma alle sue parole. Su queste pietre, scelte per la loro qualità tattile, Schödl ripete, scritte a mano, le parole “marmo”, “granito” o “quarzite” distinguendo così la loro composizione materiale. Isola poi una lettera della parola (“o” o “q” in questi casi), sulla quale viene apposta la foglia d’oro. I riflessi dorati appaiono come linee delicate che percorrono la pietra e creano un ritmo sulla superficie, trasformando la scrittura in un disegno astratto. Queste linee sono descritte dall’artista come “vibrazioni” che registrano le variazioni della scrittura e l’esperienza o il processo di creazione dell’artista. —Teresa Kittler

Untitled - Scritture series, 2020 Inchiostro e foglia d’oro su quarzite, 13,5 × ø 8,5 cm. Courtesy l’Artista. © Greta Schödl. Marmo travertino piccolo, 2023 Inchiostro e foglia d’oro su travertino, 14,5 × 8,5 × 3 cm. Photo Letizia Rostagno. Courtesy l’Artista. © Greta Schödl.


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Untitled, 1980 ca. Olio, inchiostro e foglia d’oro su tela francese, 185 × 102 cm. Courtesy l’Artista. © Greta Schödl.


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Ana Segovia

Il lavoro di Ana Segovia sfida le narrazioni dominanti della mascolinità, in particolare quelle propagate attraverso la perenne influenza dell’industria cinematografica e la persistente metafora western. Nei suoi dipinti, Segovia sembra rallentare e mettere in pausa la pellicola cinematografica, per trasformarla in vibranti fotogrammi che evidenziano e inquadrano la natura performativa dei ruoli di genere. Caratterizzata da una rappresentazione romantica e ipermascolina dei suoi protagonisti, l’età dell’oro del cinema messicano si trasforma in ricca fonte di ispirazione per l’artista la quale, invece di perpetuarne gli stereotipi, crea un nuovo discorso visivo che consente un’esplorazione più sfumata dell’identità. Attraverso la deliberata alterazione di questi fotogrammi cinematografici, Segovia non solo critica le rappresentazioni storiche, ma invita anche a una profonda riflessione sulla fluidità della mascolinità.

CITTÀ DEL MESSICO, MESSICO, 1991 VIVE A CITTÀ DEL MESSICO

In Pos’ se acabó este cantar (2021), accanto a una coppia di dipinti che rappresentano il suo stile eterogeneo, l’artista presenta anche il suo primo filmato, dando vita e movimento alle proprie scene fluorescenti. Con due charros (cowboy messicani) che indossano abiti tradizionali dalle tonalità alterate, il primo piano è organizzato quasi come un provino, rivelando un certo omoerotismo tra gli attori e invitando gli spettatori a riesaminare le dinamiche all’interno degli ambienti maschili. Il charro, qui interpretato dall’artista, è uno stereotipo ricorrente nella cultura messicana ed è particolarmente associato alla figura proto-maschile. Dopo numerosi rifiuti da parte di molti sarti, a causa di quelli che con sprezzo definivano tessuti da “finocchio”, gli abiti che compaiono nel film sono stati creati dal nipote charro del sarto di Jorge Negrete, iconica star del cinema messicano dell’età d’oro che tuttora incarna l’idea di mascolinità nel paese. L’opera di Ana Segovia è esposta per la prima volta alla Biennale Arte. —José Esparza Chong Cuy

Charro Azul, 2023 Olio su tela, 185 × 130 cm. Collezione privata. Courtesy l’Artista; Odette Peralta.

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Aunque Me Espine la Mano - Veduta dell’installazione alla mostra “Pos’ se acabó este cantar” , 2020 Video, 5’ 35”. Courtesy l’Artista; Odette Peralta.


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Vámonos con Pancho Villa!, 2020 Olio su tela, 210 × 240 cm. Collezione privata. Courtesy l’Artista; Odette Peralta.


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Joshua Serafin

Joshua Serafin è un artista multidisciplinare nato a Bacolod, nelle Filippine. Si è formato presso la Philippine High School for the Arts, la Hong Kong Academy for Performing Arts, la P.A.R.T.S. School for Contemporary Dance e l’Academie voor Beeldende Kunst di Gand, in Belgio. Attualmente vive a Bruxelles ed è artista in residenza presso il Viernulvier Ghent (2023-2027). La sua pratica ricopre varie modalità – testo, arte visiva, video e suono, con un’attenzione particolare a danza e coreografia – e inserisce questi luoghi di creazione in metodologie queer e trans tratte dall’interno del mito tropicale. Essi sono inoltre ispirati dal lavoro onirico di una cosmopoli non binaria, popolata da figure emancipate dal genere coloniale e incarnate a turno in diversi stati di solennità e di gioco. Le performance di Joshua, acclamate in tutto il mondo, sono dedicate all’abitare all’interno di spazi interstiziali, rifiutando deliberatamente di partecipare a strutture dimorfiche in modo da poter creare un idioma da cui parlare dalla detta “in-betweenness”.

BACOLOD, FILIPPINE, 1995 VIVE A BRUXELLES, BELGIO

La calma evocata in VOID (2022-in corso) non è il vuoto, ma un intervallo di tempo basato sul possibile, realizzato attraverso una divinità non binaria che immagina un mondo nuovo e lo mette in atto attraverso gesto, espressività e movimento. La visione tropicale e futurista del corpo bruno nello spazio primordiale di VOID infrange i concetti del patriarcato imperiale non solo di potere e bellezza, ma anche di esistenza e della stessa esperienza. Attingendo ai miti che raccontano la creazione dell’arcipelago filippino attraverso performance queer e trans, VOID immagina un futuro che evoca incarnazioni di una specie non binaria nel regno della diversità di genere. Questa visione è prefigurata da un dio non binario che danza in uno spazio in continua evoluzione. Al limite della cancellazione e dell’écriture, Serafin presenta un’allegoria dell’assenza per proporre risonanze di una certa ri-presenza. Il vuoto è quel momento generativo in cui l’essere si trasfigura come élan vital del divenire-aperto, un paradosso volutamente abbracciato solo dal postumano queer che è anche umanamente trans-divino. L’opera di Joshua Serafin è esposta per la prima volta alla Biennale Arte. —Jaya Jacobo

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VOID, 2022 Video performance. Photo Joshua Serafin. Courtesy l’Artista.


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Kang Seung Lee

Kang Seung Lee tratta diversi linguaggi artistici, fra cui il disegno, il ricamo, l’installazione e l’appropriazione di materiali e oggetti organici. Il suo lavoro implica lunghi periodi di ricerca, non solo a fine documentario ma anche con l’integrazione di elementi immaginifici. Ha conseguito un MFA in arti visive presso il California Institute of the Arts negli Stati Uniti, dove l’interesse per i vari periodi storici l’ha spinto a creare ambienti che invitano il pubblico a un’osservazione dettagliata. Si interessa in particolare agli artisti asiatici e a quelli delle molte diaspore asiatiche negli Stati Uniti, nonché agli artisti queer, spesso messi in ombra dalle storie dell’arte predominanti.

insieme ad altri artisti deceduti a causa di complicazioni dovute all’AIDS. Nell’ambiente creato dall’artista, lo spettatore è in grado di riconfigurare le narrazioni queer in modo transnazionale e transstorico. Disegni, ricami con linee placcate oro a 24 carati, oggetti appesi al soffitto e altri elementi installati alle pareti permettono a chi osserva di attraversare narrazioni che rendono omaggio, in modo anti-monumentale, a personaggi fondamentali per la cultura queer. Com’è possibile ritrovare la storia micro e quella macro all’interno di una stessa installazione? Lee preferisce una visione pluralistica della storia a una narrazione enciclopedica.

L’opera di Lee è un’installazione basata sulle molteplici possibilità narrative e iconografiche di figure artistiche come Goh Choo San, Tseng Kwong Chi, Martin Wong, José Leonilson e Joon-soo Oh,

L’opera di Kang Seung Lee è esposta per la prima volta alla Biennale Arte.

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—Raphael Fonseca

SEOUL, COREA, 1978 VIVE A LOS ANGELES, USA

Untitled (Lazaro, José Leonilson 1993), 2023 Grafite, filo d’oro antico 24K, Sambe, perle, ago da piercing, foglia d’oro 24K, chiodi in ottone su pergamena di pelle di capra, 137,2 × 82,5 cm. Photo Paul Salveson. Courtesy l’Artista e Commonwealth and Council, Los Angeles, Città del Messico. © Lee Kang Seung. Lazarus, 2023 Filo d’oro antico 24 carati su Sambe, legno, 62,2 × 35,6 cm ciscuno (dimensioni complessive variabili). Photo Paul Salveson. Courtesy l’Artista e Commonwealth and Council, Los Angeles, Città del Messico. © Lee Kang Seung.


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Yinka Shonibare

Yinka Shonibare, artista britannico-nigeriano di fama mondiale, supera l’artificiale concetto di cultura attraverso un corpus di opere acclamato a livello internazionale. Nato a Londra, cresciuto a Lagos, in Nigeria, e di nuovo trasferito a Londra, Shonibare utilizza pittura, scultura, fotografia, cinema e installazione per un’indagine critica su colonialismo, postcolonialismo e identità culturale nel contesto della globalizzazione. Il caratteristico uso di tessuti fantasia, importati in Africa con il commercio olandese, riflette una comprensione dei paradigmi culturali ricca di sfumature. La sua teatralità cattura l’attenzione e immerge gli spettatori in un mondo fantastico che sfida le norme e mette in discussione lo status quo. Riconoscendo nella percezione il ruolo centrale dell’identità, Shonibare affronta coraggiosamente la storica sottomissione subita dalle persone di origine africana in Europa e negli Stati Uniti. La serie Refugee Astronaut (2023) presenta un astronauta nomade a grandezza naturale ornato di tessuto “africano”, equipaggiato per affrontare crisi ecologiche e umanitarie.

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LONDRA, REGNO UNITO, 1962 VIVE A LONDRA

Portando con sé una rete colma di beni terreni, la figura simboleggia le sfide poste dal dislocamento. Nata dalla contemplazione dello spazio come potenziale rifugio, l’opera mette in guardia contro la negligenza ambientale e il capitalismo, contestando l’insostenibile ricerca di crescita perenne; sovverte inoltre le connotazioni coloniali, presentando un rifugiato astronauta in netto contrasto con l’istinto coloniale di conquistare il mondo. In tono cautelativo, Shonibare sottolinea che l’opera serve da monito, esortando a meditare sulle potenziali conseguenze dell’inazione riguardo all’innalzamento del livello delle acque e al conseguente spostamento delle persone. Per l’artista, la questione generale dell’umanità è incredibilmente varia e ribadisce che non esiste un unico modo di essere umani. —Sofía Shaula Reeser del Rio

Refugee Austronaut II, 2016 Manichino in fibra di vetro, tessuto di cotone stampato a cera olandese, rete, oggetti, casco da astronauta, stivali lunari e base in acciaio, 210 × 90 × 103 cm. Photo Stephen White & Co. Courtesy l’Artista e Goodman Gallery, Città del Capo, Johannesburg, Londra e New York, James Cohan Gallery, New York e Stephen Friedman Gallery, Londra e New York. © Yinka Shonibare.


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Leopold Strobl

Leopold Strobl, cresciuto in una regione rurale a nord di Vienna dove vive tuttora, disegna e dipinge fin dall’infanzia, senza mai aver seguito una preparazione formale. A partire dal primo decennio del XXI secolo è stato di tanto in tanto ospite dello studio dell’Art Brut Center Gugging, in Bassa Austria. Strobl ha sviluppato il suo stile distintivo e minimalista intorno al 2014, quando ha iniziato a rielaborare con matita e pastelli colorati piccole fotografie, ritagliate da giornali locali. Ogni mattina sceglie un’immagine e la modifica abilmente con radi e precisi interventi. Ne risultano paesaggi interiori che assomigliano a scene di un acquario, dove le persone e le tracce di civiltà sono state in gran parte cancellate, o meglio, coperte e avvolte da tratti di matita, trasformandosi in blocchi monolitici e forme simili a montagne. Nella misteriosa quiete di queste miniature si legge anche la precarietà del nostro tempo. Le opere di Leopold Strobl fanno parte, tra l’altro, della collezione del MoMA.

MISTELBACH, AUSTRIA, 1960 VIVE A MISTELBACH

Per quanto i suoi scenari possano sembrare onirici, sono generati da frammenti di realtà filtrata dai media. L’artista ne individua il potenziale trasformativo come grazie a una bacchetta da rabdomante, estraendolo a livello compositivo. Tinti di giallo e verde, delineati con pochi tratti, i paesaggi emergono in una spettrale monumentalità, mentre le persone e i loro feticci sono appena discernibili, come fantasmi sotto la rete disegnata su di loro. Sebbene il suo lavoro possa ricordare le sovrapitture di Arnulf Rainer e le strategie estetiche del collage, Strobl ha sviluppato il proprio stile senza alcun riferimento alla storia dell’arte. Le sue opere sono interessanti non solo per la loro natura diaristica, quasi rituale, ma anche per il loro orientamento coerente verso una prospettiva interna. I curvi bordi neri di ogni immagine assomigliano a orbite oculari che guardano verso un cielo enigmaticamente luminoso. A volte, quando la sovrapittura si solleva come una lava grigio scuro, di questo cielo rimane solo un sinuoso frammento. L’opera di Leopold Strobl è esposta per la prima volta alla Biennale Arte. —Gisela Steinlechner

Untitled, 2016 Matita, matite colorate su carta da giornale, montata su carta, 13,3 × 9,5 cm. Courtesy Galerie Gugging.

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Untitled, 2022 Matita, matite colorate su carta da giornale, montata su carta, 8,9 × 13,8 cm. Courtesy Galerie Gugging.

Untitled, 2022 Matita, matite colorate su carta da giornale, montata su carta, 7 × 9,3 cm. Courtesy Galerie Gugging.


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Superflex

Superflex è un collettivo artistico danese fondato da Bjørnstjerne Christiansen, Jakob Fenger e Rasmus Nielsen nel 1993, cresciuto da allora fino a includere a rotazione un crescente numero di collaboratori globali. Superflex si basa su un approccio flessibile e tenace alla creazione artistica con cui affronta temi quali la disuguaglianza economica, la sostenibilità ambientale e le strutture del potere politico. Rendendo spesso indistinti i confini tra artista, partecipante e spettatore, Superflex mette in atto un’ampia gamma di strategie per minare o aggirare i sistemi di sfruttamento. Uno di questi progetti è stato Free Beer (2004) che, insieme alla Copenhagen IT University, ha applicato i principi digitali dei metodi open-source alla birrificazione, creando una marca di birra libera da

copyright per aggirare i sistemi legali di regolamentazione. In quello che è diventato il suo tipico approccio alla risoluzione dei problemi, questo collettivo trova soluzioni intelligenti e innovative agli ostacoli materiali e ideologici per un futuro più sostenibile. Lo spazio pubblico costituisce spesso uno dei luoghi più fertili e provocatori in cui Superflex sfida le ideologie reazionarie. In quello che è forse l’uso più famoso dello spazio pubblico, Foreigners Please Don’t Leave Us Alone With The Danes! (2002), ha creato una serie di poster che prendevano in giro la retorica danese, più xenofoba nei confronti degli immigrati. Il manifesto allude umoristicamente al crescente pericolo che l’ideologia antiimmigrazione e nazionalista rappresenta non solo per gli immigrati, ma anche

FONDATO A COPENAGHEN, DANIMARCA, 1993 CON BASE A COPENAGHEN

per il tessuto morale di una maggioranza etnica all’interno di una nazione. Dall’iniziale uscita durante la presidenza danese dell’Unione Europea nel 2002, l’autoironico poster si è radicato nella politica danese, comparendo nei ristoranti, nei caffè e sui pali della luce ogniqualvolta che il sentimento anti-immigrati è in aumento. Negli ultimi due decenni, Superflex ha ristampato e ridistribuito il manifesto non solo come commento politico continuo, ma anche per sperimentare la circolazione pubblica di oggetti culturali.

Foreigners, Please Don’t Leave Us Alone With The Danes!, 2002 Poster. 70 × 50 cm. Photo SUPERFLEX. Courtesy gli Artisti. Foreigners, Please Don’t Leave Us Alone With The Danes!, 2002 Poster a Copenaghen. Photo SUPERFLEX. Courtesy gli Artisti

—William Hernandez Luege

Foreigners, Please Don’t Leave Us Alone With The Danes!, 2002 Poster.

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Maria Taniguchi

DUMAGUETE, FILIPPINE, 1981 VIVE A MANILA, FILIPPINE

Il vasto progetto pittorico di Maria Taniguchi, che copre oltre quindici anni, costituisce la base per i suoi grandi monocromi, apparentemente spenti. L’artista crea con grande precisione dipinti che richiedono un’ispezione ravvicinata per riuscire a distinguere le variazioni nella sua sottile resa di mattoni; opere che funzionano sia come dispositivi che come sistemi. A un attento esame, emergono accumuli di vernice, accenni di viola nelle profondità del nero, pennellate quasi invisibili e scintillanti linee di grafite. Il pubblico è invitato a impegnarsi in una lenta e metodica lettura, scoprendo sfumature che rivelano l’essenza stessa del processo pittorico come fenomeno intrinseco, una pratica strettamente legata al tempo, al lavoro e all’etica. Il repertorio artistico di Taniguchi comprende video, sculture e installazioni. La sua esplorazione del mattone come motivo – non nel senso di concetto astratto autonomo, ma come modo per identificare il dipinto come prassi – è iniziata durante gli studi del suo MFA alla Goldsmiths nel Regno Unito, dopo il diploma alla Philippine High School for the Arts.

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Untitled, 2023 Acrilico su tela, 228,6 × 114,3 cm. Courtesy l’Artista; Silverlens, Manila / New York.

I tre dipinti presentati alla Biennale fanno parte del più ampio progetto di Taniguchi dedicato all’astrazione. Queste opere esistono in un regno ambiguo. Pur essendo superfici dipinte, una volta adagiate contro una parete assumono il peso di una scultura, creando volume in questa posizione solo appoggiata. Questo gesto intenzionale produce instabilità, costringe chi osserva a percepirle come immagine e oggetto, astrazione e rappresentazione, scultura e pittura. Taniguchi combatte le categorizzazioni e inserisce la figurazione in questo progetto cumulativo. La figura assente dell’artista diventa presente nel dipinto attraverso il lavoro, il tempo e la dimensione. L’opera di Maria Taniguchi è esposta per la prima volta alla Biennale Arte. —Joselina Cruz


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Untitled, 2023 Acrilico su tela, 274,3 × 487,7 cm. Courtesy l’Artista; Silverlens, Manila / New York.


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Evelyn Taocheng Wang

Evelyn Taocheng Wang, originaria di Chengdu e attualmente residente a Rotterdam, opera con diverse tecniche e tradizioni pittoriche. Dapprima formatasi all’interno della pittura dei letterati dell’Asia orientale, nel 2006 si laurea presso il Dipartimento di Belle Arti dell’Università Normale di Nanchino. Mentre è ancora in Cina, Wang è esposta anche al Realismo Sociale e al Modernismo occidentale. Nel 2007, ottiene una residenza artistica in Germania che la porta a studiare alla Städelschule di Francoforte (2010-2012), per poi proseguire presso De Ateliers di Amsterdam (2012-2014). Il percorso transnazionale e nomade influenza la sua pratica, in cui temi legati a tradizioni culturali, multilinguismo, storia

dell’arte, identità, autenticità, genere e interazione delle immagini diventano oggetto di appropriazione, rielaborazione o narrazione romanzata. Caratteristica ricorrente del suo lavoro è il riferimento a figure femminili moderniste (Ingeborg Bachmann, Octavia Butler, Eileen Chang, Agnes Martin) che fungono da specchi o oggetti di scena per la queerizzazione delle storie di cui l’artista si appropria. La serie di dipinti Do Not Agree with Agnes Martin All the Time (2022-2023), nasce dalla lunga fascinazione per la pittrice americana di origine canadese, che Wang definisce “maestraeremita”, iniziata attraverso i cataloghi più che con i dipinti reali di Agnes Martin. Emigrata, figura centrale ma allo stesso tempo outsider dell’ambiente

CHENGDU, REPUBBLICA POPOLARE CINESE, 1981 VIVE A ROTTERDAM, PAESI BASSI

dell’arte minimalista e ispiratasi al pensiero dell’Asia orientale (taoismo e buddismo zen), la vita e l’opera di Martin raggruppano immagini con cui Wang si identifica e sulle quali si rifrange il proprio linguaggio. Per questa serie, Wang segue letteralmente le didascalie di alcuni dipinti di Martin. Sebbene parli indistintamente di “imitazione” e “appropriazione”, la lettura delle didascalie porta alla luce un elemento represso, ovvero la quantità di acqua utilizzata con la pittura. Se leggerezza e fluidità diventano rimandi alla tradizione cinese della pittura dei letterati, la allontanano anche dalla sua base confuciana-patriarcale, mentre l’inserimento di elementi figurativi all’interno della griglia modernista sembra canzonare le pretese universalistiche del Minimalismo.

L’opera di Evelyn Taocheng Wang è esposta per la prima volta alla Biennale Arte. —Adeena May

Three Stage of a Corn Life and Imitation of Agnes Martin - Do Not Agree with Agnes Martin All the Time series, 2023 Acrilico, gesso colorato, inchiostro di china, matita colorata, grafite su tela di lino, 185 × 185 × 2,5 cm. Photo Yan Tao. Courtesy l’Artista; Antenna Space, Shanghai; Carlos/Ishikawa, Londra; Galerie Fons Welters, Amsterdam; Kayokoyuki, Tokyo; e The Rockbund Art Museum (RAM), Shanghai. © Evelyn Taocheng Wang 2023.


Soymilk and Imitation of Agnes Martin - Do Not Agree with Agnes Martin All the Time series, 2022 Inchiostro di china, colore acrilico, gesso colorato, matita colorata su tela di lino, 185 × 185 × 2 cm. Photo Yan Tao. Courtesy l’Artista; Antenna Space, Shanghai; Carlos/Ishikawa, Londra; Galerie Fons Welters, Amsterdam; Kayokoyuki, Tokyo; e The Rockbund Art Museum (RAM), Shanghai. © Evelyn Taocheng Wang 2024.

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NUCLEO CONTEMPORANEO

Tangerines and Imitation of Agnes Martin - Do Not Agree with Agnes Martin All the Time series, 2022 Acrilico, grafite, matita colorata su tela di lino, 185 × 185 × 2 cm. Photo Aad Hoogendoorn. Courtesy l’Artista; Antenna Space, Shanghai; Carlos/ Ishikawa, Londra; Galerie Fons Welters, Amsterdam; Kayokoyuki, Tokyo. © Evelyn Taocheng Wang 2023.


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Mariana Telleria

RUFINO, ARGENTINA, 1979 VIVE A ROSARIO, ARGENTINA

Dios es inmigrante (God Is an Immigrant) - detail, 2017 Targa in bronzo, 1500 × 390 × 925 cm. Photo Ignacio Iasparra. Collezione Bienalsur; Collezione Jorge M. Pérez, Miami. Courtesy BIENALSUR, Muntref; Museo de la Inmigración, Buenos Aires, Argentina. © Mariana Telleria.

L’opera di Mariana Telleria scava nelle profondità del significato suscitato dagli oggetti, spesso manipolando prodotti di uso quotidiano (vecchie cornici di legno, rami, letti e crocifissi) e generando sincronicità tra entità disparate. La sua produzione si basa sull’ambiguità, evidente sia concettualmente sia materialmente, una versatilità che le permette di unire il misero oggetto a un’impeccabile maestria. Ad esempio, l’interno del tettuccio di un’automobile si trasforma in un soffitto dipinto in stile barocco, i tralicci si trasformano in crocifissi e persino la

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spazzatura può diventare un monumento. El nombre de un país ha rappresentato l’Argentina alla 58. Biennale di Venezia, nel 2019. La versione iniziale dell’opera Dios es inmigrante (God Is an Immigrant) (2017) è collocata nel giardino di quello che un tempo era un hotel/ ospedale, eretto nei dintorni del porto di Buenos Aires per assistere l’ingresso degli immigrati nel paese all’inizio del XX secolo (attualmente MUNTREF - Museo de la Inmigración). L’opera è composta da dieci alberi di barca a vela in alluminio

verniciato di nero, di dimensioni variabili. Le sartie in acciaio inox affondano in un mare sotterraneo e gli alberi delle barche si trasformano in croci evangelizzatrici. Una sontuosa targa in bronzo sottolinea il suo status di monumento di commemorazione nazionale, mentre il titolo dell’opera celebra il transito transnazionale. “I flussi migratori sono una delle forze che hanno plasmato il mondo”, osserva l’artista. —María Amalia García

Dios es inmigrante (God Is an Immigrant), 2017 10 alberi per barche a vela in alluminio, vernice epossidica nera, linee di controllo/cavi e tenditori in acciaio, targa in marmo e bronzo, 1500 × 390 × 925 cm. Photo Laura Glusman. Collezione Bienalsur; Collezione Jorge M. Pérez, Miami. Courtesy BIENALSUR, Muntref; Museo de la Inmigración, Buenos Aires, Argentina. © Mariana Telleria.



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Güneş Terkol

Artista residente a Istanbul, Güneş Terkol studia pittura e consegue la laurea al Dipartimento di Arte Multidisciplinare. Viene coinvolta in importanti mostre collettive e fa parte dei collettivi artistici HaZaVuZu e Alaca Heyheyler e suona con il gruppo GuGuOu. Utilizza vari linguaggi, ma negli ultimi diciassette anni si è concentrata soprattutto su narrazioni stratificate di ricami su tessuto, con personaggi che oscillano fra l’astratto e il figurativo. Per le sue opere trae ispirazione da quanto la circonda, dalle condizioni sociali, le relazioni, le immagini, la propria storia personale e i materiali che trova. Terkol impiega il cucito o il disegno direttamente sui tessuti per creare i

personaggi di un regno incerto, caratterizzato da confini labili che inducono l’osservatore a diventare narratore. L’artista si fa portatrice di uno spirito comunitario che va al di là dell’espressione individuale. I suoi striscioni collettivi presentati alla Biennale e prodotti in Turchia, Cina, Germania, Regno Unito, Italia, Austria, Francia e a Yogyakarta riuniscono a livello internazionale donne di diversa origine. Attraverso laboratori femministi, Terkol genera una piattaforma in cui le donne possono condividere le proprie esperienze e affrontare le sfide socioeconomiche mediante un processo concettuale collettivo. Nell’approfondire la narrazione e il contesto culturale di ogni donna, l’artista

ISTANBUL, TURCHIA, 1981 VIVE A ISTANBUL

progetta l’immagine di fondo dello striscione affinché possa offrire spazi di espressione alle storie individuali all’interno della narrazione collettiva. Questi banner di tessuto, con i loro racconti senza tempo, amplificano la voce delle donne e promuovono un profondo senso di comunità. Allo stesso tempo, la produzione artistica di Güneş Terkol subisce una trasformazione in ragione del processo partecipativo collettivo della narrazione, in cui le donne reinterpretano le proprie storie, le proprie realtà attuali e il proprio modo di essere.

Home is my Heart, 2017 Ricamo su tessuto (creato collettivamente/laboratorio Home is my Heart a Londra, UK - Middlesex Street Estate), 200 × 300 cm. Collezione privata Banu & Hakan Çarmıklı. Courtesy l’Artista.

L’opera di Güneş Terkol è esposta per la prima volta alla Biennale Arte. —Arzu Yayıntaş


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Against the Current, 2013 Ricamo su tessuto, 200 × 265 cm. Photo Sahir Uğur Eren. Courtesy Istanbul Museum of Modern Art.


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Salman Toor

The Lock, 2023 Olio su pannello, 61 × 45,7 cm. Photo Farzad Owrang. Courtesy l’Artista; Luhring Augustine, New York. © Salman Toor. The Backseat Boy, 2023 Olio su tavola, 45,7 × 61 cm. Photo Farzad Owrang. Courtesy l’Artista; Luhring Augustine, New York. © Salman Toor.

LAHORE, PAKISTAN, 1983 VIVE A NEW YORK, USA


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The Beating, 2019 Olio su tela, 119,4 × 119,4 cm. Photo Farzad Owrang. Courtesy l’Artista; Luhring Augustine, New York. © Salman Toor.


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Frieda Toranzo Jaeger

Frieda Toranzo Jaeger realizza dipinti e installazioni modulari ispirati a una varietà di fonti storiche, iconografiche e tecnologiche, reimmaginando queste influenze per creare utopie in cui rappresenta libertà, consapevolezza ecologica e un senso di comunione tra gruppi marginalizzati. Influenzati dai suoi studi sulla tradizione del ricamo nel Messico precolombiano e sui dipinti degli altari del Quattrocento europeo, e da motivi legati al mondo dell’automotive, i polittici di Toranzo Jaeger offrono prospettive varie sui processi collaborativi. L’artista fonde tecniche tradizionali e un approccio contemporaneo, sfidando le nozioni convenzionali di ciò che si considera canonico ed esplorando l’ibrido, la sessualità e l’anatomia come concetti all’interno della sua produzione artistica. I temi centrali sono il movimento e la tecnologia, con una minuziosa esplorazione delle relazioni tra i simboli dell’oppressione coloniale e il potenziale distruttivo del sistema capitalista, trasformati in immaginari politici radicali di un futuro che resiste contro i sistemi oppressivi accogliendo identità queer.

CITTÀ DEL MESSICO, MESSICO, 1988 VIVE A CITTÀ DEL MESSICO E BERLINO, GERMANIA

Nel progetto realizzato per la Biennale, Toranzo Jaeger approfondisce il proprio interesse per le automobili, le tradizioni del ricamo, i dipinti murali e gli altari delle religioni occidentali, guidando il fruitore tra le esperienze delle comunità emarginate nella loro resistenza di genere e contro il colonialismo. La fascinazione dell’artista per le auto, soprattutto elettriche, trae origine nella percezione che esse siano intrinsecamente femminili e ispirino così fantasie utopistiche. Toranzo Jaeger sottolinea la sensualità delle superfici creando anche una tensione attraverso i riferimenti presenti nel suo lavoro. L’opera allude al Venditore di fiori (1941) di Diego Rivera e ai murales di Juan O’Gorman presso la biblioteca UNAM (19491952). Inoltre, rende omaggio a Saffo (circa 630-604 a.C.), la famosa poetessa greca dell’isola di Lesbo, celebrata come simbolo queer per i suoi versi rivolti ad altre donne, dal carico fortemente emotivo. Le dimensioni esagerate della firma dell’artista non solo rappresentano una parodia dell’autorialità tradizionalmente maschile associata alla pittura, ma reclamano anche quello spazio per una voce femminile queer. L’opera di Frieda Toranzo Jaeger è esposta per la prima volta alla Biennale Arte. —Amanda Carneiro

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Times Come to an End, 2021 Polittico a sette pannelli, olio su tela con ricami e cerniere per porte, 200 × 1000 cm. Courtesy l’Artista. © Frieda Toranzo-Jaeger.


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Ahmed Umar

Ahmed Umar vive in Norvegia e mette in scena le proprie radici sudanesi plasmate da un’infanzia alla Mecca, incarnando storie queer di migrazione musulmana. Cresce in un ambiente in cui i vicini osservano gli insegnamenti wahhabiti, mentre la sua famiglia è portatrice di una forte eredità fatta di misbahah ̇ e amuleti del sufismo. In lotta con temi di fede, libertà e mancanza della stessa, nel 2008 Umar chiede asilo in Norvegia e oggi percorre un costante pellegrinaggio SudanNorvegia. Attraversando performance, scultura, fotografia e oltre, con la sua pratica ottiene la collettiva emancipazione di norme, corpi e insegnamenti attraverso la liberazione di materiali, oggetti e modalità di creazione. Autobiografiche in principio e politiche in applicazione, le sue narrazioni spesso rivisitano l’antico regno sudanese di Kush, i cui faraoni neri sono per lui oggetto di studio approfondito. Attualmente Umar sta ideando il festival Nile Pride 2030.

SUDAN, 1988 VIVE A OSLO, NORVEGIA

Talitin, The Third (2023) mette in scena una danza nuziale sudanese, tradizionale apice di una settimana di celebrazioni. Umar interpreta la sposa che deve esibire la propria bellezza e ricchezza e nel contempo coreografa il percorso degli sposi dal corteggiamento in poi. Talitin, ovvero “terzo” in arabo, allude a un insulto locale – essere “il terzo delle ragazze” – diretto ai ragazzi interessati alle cosiddette attività femminili. Attraverso gli abiti, i tessuti e le trecce, l’artista si riappropria di una pratica delle donne della sua famiglia, a cui ha assistito in prima persona fino all’esclusione una volta raggiunta la pubertà. Le canzoni sono un elogio alla famiglia della sposa e anche il paesaggio sonoro in cui mostra la sua nuova floridezza. Per la performance, Umar ha aumentato il consumo di cioccolato norvegese per ingrandire la propria silhouette. I gioielli esposti provengono dal Cairo, una città fondamentale nella pratica di Umar e il proprio diasporico accesso all’odierno Sudan in fermento. L’opera di Ahmed Umar è presente per la prima volta alla Biennale Arte. —Daniel Rey

Talitin (The Third), 2023 Performance, 25’ 23”. Photo Nadia Caroline Andersen. Courtesy l’Artista. © Nadia Caroline Andersen.

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(The Third), 2023 Talitin Veduta dell’installazione. Photo Romana Halgošová. Courtesy l’Artista.


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Artiste cilene ignote, Arpilleristas

Chiamate con il termine spagnolo che designa i sacchi di iuta, la loro base di supporto, le arpilleras sono manufatti tessili ricamati e realizzati in Cile durante la dittatura militare di Augusto Pinochet (19731990). Venivano realizzate dalle donne in laboratori condivisi che fungevano anche da reti di supporto sociale per le mogli e le madri di persone arrestate o assassinate dal regime. Cucite a mano a partire da pezzi di tessuto, spesso provenienti dagli abiti delle persone scomparse, queste opere servivano come espressioni catartiche, intese a rievocare il trauma e a commemorare l’esperienza collettiva di perdita e amnesia. La loro ricca iconografia raffigura le talleres (incontri collettivi) e le proteste in cui le stesse arpilleras vengono realizzate ed esposte come forma di resistenza. Altre rappresentano ambienti domestici in cui l’assenza delle persone “scomparse” viene evocata con spazi vuoti e segni di incertezza.

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Il gruppo di arpilleras esposto alla Biennale fa parte di una vasta collezione di oltre duecento opere donate al Museo del Barrio di New York. Anche se la loro provenienza rimane incerta, i tessuti sono stati probabilmente acquistati dai rispettivi donatori durante le vendite di solidarietà degli anni Ottanta, dal momento che questa era la modalità principale attraverso la quale il pubblico statunitense veniva a conoscenza delle arpilleras in quel periodo. Presenti anche a livello internazionale nelle case degli esuli latinoamericani, la loro influenza continua a riverberare anche ai nostri giorni nelle opere di artiste più giovani, come Carolina Caycedo

CILE

e Maria Guzmán Capron. Presentate un anno dopo il cinquantesimo anniversario del colpo di Stato e nel bel mezzo dell’incertezza politica che regna in Cile, le arpilleras ci ricordano le continue lotte per il cambiamento istituzionale in atto nella nazione sudamericana, ancora governata dalla costituzione imposta dal regime di Pinochet. Il sole splendente presente in ogni arpillera, tuttavia, rappresenta un segno di speranza nei confronti del cambiamento. È la prima volta che le artiste ignote arpilleras vengono presentate alla Biennale Arte. —Rodrigo Moura

Untitled, anni Ottanta Stoffa lavorata e applicata, uncinetto e tecniche miste, 96,5 × 81,3 cm. Photo Matthew Sherman. Collezione El Museo del Barrio, New York; dono di Arthur e Dorothy Hammer. Courtesy El Museo del Barrio, New York.

Untitled, anni Ottanta Stoffa lavorata e applicata, uncinetto e tecniche miste, 96,5 × 81,3 cm. Photo Matthew Sherman. Collezione El Museo del Barrio, New York; dono di Arthur e Dorothy Hammer. Courtesy El Museo del Barrio, New York.

Untitled, anni Ottanta Stoffa lavorata e applicata, uncinetto e tecniche miste, 96,5 × 81,3 cm. Photo Matthew Sherman. Collezione El Museo del Barrio, New York; dono di Arthur e Dorothy Hammer. Courtesy El Museo del Barrio, New York.


STRANIERI OVUNQUE

NUCLEO CONTEMPORANEO

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Rubem Valentim

Rubem Valentim è una figura centrale nell’arte brasiliana ed è un riferimento fondamentale nella produzione afro-atlantica del XX secolo. Vive a Roma negli anni Sessanta, periodo in cui realizza una raccolta di opere iconiche con diverse tecniche. Si dedica alla pittura, all’incisione e alla scultura, reinterpretando l’Astrazione geometrica, il Costruttivismo e il Concretismo, predominanti nella produzione artistica brasiliana e latino-americana. Nel concepire complesse composizioni geometriche che ridisegnano e riconfigurano in modo intricato simboli ed emblemi delle religiosità afro-atlantiche, Valentim introduce riferimenti africani nei linguaggi artistici europei. Particolarmente degni di nota sono i motivi e i disegni delle divinità yoruba, che ricordano le tradizioni di questo popolo trapiantato in Brasile nei secoli della tratta degli schiavi e che sono un elemento indissolubile dalla storia del Paese. Con questo gesto, Valentim effettua una delle operazioni più radicali nella storia dell’arte in un contesto di diaspora.

SALVADOR, BRASILE, 1922 – 1991, SAN PAOLO, BRASILE

Questo corpus di opere emerge durante la “fase romana” dell’artista. Immerso nell’esperienza di essere straniero, Valentim approfondisce la ricerca di un linguaggio che si intrecci con l’eredità africana del Brasile. Tramite simboli legati agli orixás — le divinità venerate nel pantheon del Candomblé, la religione africana che si sviluppa in Brasile — l’artista si addentra in curve e geometrie, decodificando ed esplorando simmetrie e dialoghi tra forme pure e sintetiche. Nel suo alfabeto artistico, Valentim pone l’accento su figure geometriche e colori primari, costruendo un vocabolario di forme che genera tante parole quante sono le possibili combinazioni fra loro. Nelle sue opere di questo periodo osserviamo l’influenza della recente esplorazione che Valentim fa della scultura e che lo porta a evidenziare il pensiero tridimensionale nelle proprie tele. Al centro delle composizioni si ergono forme totemiche che contribuiscono a creare simmetria. I lati uguali alludono a Xangô, l’orixá della giustizia, ritratto con l’ascia, che taglia metaforicamente i due lati con lo stesso peso e la stessa misura. —Amanda Carneiro

BIENNALE ARTE 2024

Pintura 3, 1966 Olio su tela, 100 × 73 cm. Photo Sergio Guerini. Collezione privata. Courtesy Almeida & Dale Galeria de Arte.


395 Pintura 26, 1965-1966 Olio su tela, 100 × 73 cm Collezione Luiz Paulo Montenegro. Courtesy Almeida & Dale Galeria de Arte.

STRANIERI OVUNQUE

Composição Bahia no1, 1966 Olio su tela, 101 × 73,5 cm. Photo Sergio Guerini. Collezione Roberto Bicca. Courtesy Almeida & Dale Galeria de Arte.


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Kay WalkingStick

Kay WalkingStick, madre di origine scozzese-irlandese e padre cherokee, da oltre sessant’anni realizza dipinti e sculture che si confrontano con il passato dell’America, reinserendo la presenza indigena in una storia da cui è stata in larga parte cancellata. WalkingStick passa la maggior parte dell’età adulta tra New York e la Pennsylvania, ma viaggia anche molto, con soggiorni a Roma, dove insegna, e un periodo nelle Colorado Rockies (Montagne Rocciose meridionali) che l’influenza profondamente e continua a permeare tutto il suo lavoro. I suoi quadri citano paesaggisti statunitensi come Thomas Cole e Albert Bierstadt che, con le loro rappresentazioni di campagne aspre e vuote, imposero il repertorio dei colonizzatori al territorio indiano. I dipinti dell’artista sovvertono queste visioni, fondendo l’immaginario sublime di montagne, vallate e specchi d’acqua con motivi geometrici mutuati dalle tribù che da tempo immemore vivono in queste terre.

SYRACUSE, USA, 1935 VIVE IN PENNSYLVANIA, USA

The Silence of the Glacier (2013), South Rim (2016), Galena Pass (2023) e Salmon River Valley (2023) attingono ai ricordi di WalkingStick e tratteggiano vedute maestose del Grand Canyon, del Glacier National Park e della Sun Valley. Rinomati come località ricreative e turistiche, questi luoghi sono anche la patria ancestrale delle comunità native, che un tempo furono sfollate e trasferite nelle riserve. In queste opere, l’artista sovrappone temi appartenenti ai popoli che erano i custodi originari di queste terre, al fine di recuperare la memoria storica della loro perdurante esistenza. Proprio come lei si è interrogata sul proprio senso di appartenenza in quanto cittadina della Cherokee Nation dell’Oklahoma e sulla propria eredità mista, l’artista chiede ai fruitori di riflettere sul conflitto fra queste storiografie e di immaginare come potrebbero coesistere. L’opera di Kay WalkingStick è esposta per la prima volta alla Biennale Arte. —Elena Ketelsen González

Galena Pass, 2023 Olio su pannello diviso in due parti, 101,6 × 203,2 × 3,8 cm. Photo JSP Art Photography. Courtesy l’Artista; Hales, Londra e New York. © Kay Walkingstick. The Silence of Glacier, 2013 Olio su pannello diviso in due parti, 91,4 × 182,9 × 5,1 cm. Photo JSP Art Photography. Courtesy l’Artista; Hales, Londra e New York. © Kay Walkingstick.

BIENNALE ARTE 2024

South Rim, 2016 Olio su pannello diviso in due parti, 91,4 × 182,9 × 6,3 cm. Photo JSP Art Photography. Courtesy l’Artista; Hales, Londra e New York. © Kay Walkingstick.


STRANIERI OVUNQUE

NUCLEO CONTEMPORANEO

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WangShui

È paradossale premettere informazioni biografiche all’arte di WangShui, poiché la sua pratica è guidata dal desiderio di smaterializzare l’identità. Cresciut tra gli Stati Uniti e la Tailandia da immigrati cinesi, e in seguito operanti in Nepal, Sudafrica e New York, dove attualmente risiede, la sua vita itinerante sfugge alla narrazione. Con la stessa libertà e fluidità, lavora con video, installazione e pittura per abitare stati mutevoli di materialità e coscienza. Questo stratagemma vuole riflettere la fame della società di consumare e categorizzare corpi segnati dalla differenza, un allettante desiderio pericolosamente avvantaggiato dalle nuove tecnologie. Approfondendo l’indagine sulla liminalità, WangShui presenta un’installazione commissionata di recente, che comprende tre dipinti in alluminio di grandi dimensioni e una scultura video a LED. Esplorando la migrazione di materia e forma

tra America Latina, Asia ed Europa, l’installazione si basa sull’interesse di WangShui per l’interpolazione transnazionale della forma. Ogni opera integra processi tattili e meccanici per sfumare il confine tra mente e macchina. Per questa nuova serie di dipinti, l’artista ha anodizzato manualmente pannelli di alluminio con la cocciniglia, un pigmento rosso messicano commercializzato a livello globale e ottenuto dalla macinazione di insetti parassiti. La scultura video multicanale è assemblata con schermi LED intrecciati, un’altra trasmutazione di immagine e luce. Le luci pulsanti della scultura video attraggono e allo stesso tempo disorientano gli spettatori: con questo WangShui avverte che la coscienza si forma negli spazi latenti tra i nodi della leggibilità. L’opera di WangShui è esposta per la prima volta alla Biennale Arte. —Wong Binghao

DALLAS, USA, 1986 VIVE A NEW YORK, USA

Fundamental Attribution Error, 2023 Simulazione a canale singolo, schermo LED flessibile, sensori di movimento. Photo Frank Sperling. Courtesy l’Artista.


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Weak pearl, 2023 Veduta dell’installazione. Photo Alwin Lay. Courtesy l’Artista.


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Agnes Waruguru

Agnes Waruguru lega sempre le proprie opere alla pittura e al rapporto di questa con il design, il ricamo, la scultura e l’installazione tramite idee di appartenenza geografica, tempo e transitorietà. Waruguru ha studiato al Savannah College of Art and Design negli Stati Uniti, ottenendo un Bachelor in Fine Arts nel 2017; dal 2021 al 2023 ha vissuto ad Amsterdam, dove ha frequentato la Rijksakademie, e di recente è tornata a Nairobi. Le pratiche dell’artista spesso instaurano un dialogo con lo spazio architettonico circostante, il fulcro in un’indagine in cui anche i concetti di trasparenza e opacità assumono la massima importanza. Quella di Waruguru è una continua ricerca sui materiali organici e su come questi possano

essere il punto di partenza per la creazione di dipinti in cui il processo si esprime in maniera concreta e omogenea. Alla Biennale l’artista espone dipinti in formato tradizionale e un’installazione che contiene materiali organici, stabilendo una relazione tra la propria ricerca e il libro Vagabonds! (2022) della scrittrice nigeriana Eloghosa Osunde. Il volume ruota in parte attorno ai rapporti tra vita spirituale e quotidiana nelle grandi città, tra ciò che è visibile e invisibile. Mentre i personaggi si spostano tra mondi e situazioni diverse, l’artista invita chi osserva a muoversi intorno alla sua opera, a stabilire relazioni con questa narrazione letteraria e con i legami tra organico e industriale, o tra tempo e spazio. Dietro gesti

NAIROBI, KENYA, 1994 VIVE A NAIROBI

e forme apparentemente astratte e formalmente minimaliste, l’artista ci porta silenziosamente a riflettere sullo scorrere del tempo e sul possibile futuro di alcuni di questi materiali. A quali ecosistemi appartengono? Quali di questi materiali, visti nel contesto della Biennale, possono essere considerati “stranieri”? In che modo possono essere associati alla vita e alla morte? L’opera di Agnes Waruguru è esposta per la prima volta alla Biennale Arte. —Raphael Fonseca

I dreamed a place for you, will you visit?, 2022 Varie opere su carta, pavimento dipinto, ceramica ed elementi floreali, profumo di mughetto, veduta dell’installazione. Photo Sander Van Wettum. Courtesy l’Artista.


401 NUCLEO CONTEMPORANEO STRANIERI OVUNQUE

Morning Dew, 2023 Inchiostro di china, pigmenti naturali, inchiostro acrilico e sequenza su cotone, 285 × 190 cm. Photo Tomek-Dersu-Aaron. Courtesy l’Artista.


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Susanne Wenger

Susanne Wenger è stata una scultrice, pittrice e graphic designer. Ha iniziato la propria formazione artistica nella sua città natale per poi completare gli studi a Vienna dal 1933 al 1935. A Vienna si unisce agli artisti organizzati contro i nazisti; la guerra, tuttavia, la spinge a dieci anni di continui spostamenti attraverso l’Europa e a un personale viaggio spirituale nel misticismo esoterico. Arrivata in Nigeria nel 1950, affascinata dalle credenze e dall’estetica yoruba, Wenger si stabilisce a Osogbo, dove rimane per il resto della sua vita. A metà degli anni Cinquanta inizia un lungo processo di iniziazione a diversi culti, diventando infine olórìṣ à, ovvero persona consacrata a una divinità. Si dedica alla rinascita dell’estetica yoruba e al restauro dei santuari di Osogbo, dando avvio al New Sacred Art Movement insieme agli artisti yoruba. I giornali nigeriani hanno periodicamente commentato la ridicolaggine di una “sacerdotessa bianca” che abbraccia le usanze locali, eppure per molte persone a Osogbo rimane una figura venerata.

BIENNALE ARTE 2024

Durante l’iniziazione ai culti yoruba negli anni Cinquanta e Sessanta, Wenger comincia uno studio approfondito dei vari repertori estetici associati ai rituali religiosi yoruba: tintura batik, pittura murale e scultura di sacrari. Le opere qui selezionate rappresentano la sua sperimentazione nell’àdìre olórìsà, una tecnica ̇ di tinturȧ a resistenza in cui un disegno viene applicato con una pasta di amido di manioca prima di immergere il tessuto nel colorante indaco. Convenzionalmente utilizzata per abiti femminili, Wenger ha adattato questa tecnica per produrre composizioni tessili di grande formato, dipinte a mano, talvolta, come in questo caso, cucendo

GRAZ, AUSTRIA, 1915 – 2009, OSOGBO, NIGERIA

insieme diversi pezzi di stoffa. La figurazione angolare e l’uso delle dimensioni per differenziare i soggetti divini dagli altri è caratteristica dei principi estetici yoruba e, come suggeriscono i titoli di queste sei opere, i suoi batik sono ispirati alla cosmologia yoruba. Tuttavia, le sue opere sono interpretazioni personali più che rappresentazioni fedeli del pantheon yoruba, indicative di una propria ricerca junghiana di archetipi primordiali. L’opera di Susanne Wenger è esposta per la prima volta alla Biennale Arte. —Merve Fejzula Das große Fest des Ajagẹmọ, 1958 Àdìrẹ batik di amido di manioca, 200 × 400 cm. Photo Martin Bilinovac. Courtesy Susan Wenger Foundation. © Martin Bilinovac.


403 NUCLEO CONTEMPORANEO

Die magische Frau, 1960 Àdìrẹ batik di amido di manioca, 252 × 163 cm. Photo Martin Bilinovac. Courtesy Susan Wenger Foundation. © Martin Bilinovac.

Leopard, die magische Erdendimension, 1959 Àdìrẹ batik di amido di manioca, 253 × 258 cm. Photo Martin Bilinovac. Courtesy Susan Wenger Foundation. © Martin Bilinovac.


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Emmi Whitehorse

CROWNPOINT, USA, 1957 VIVE A SANTA FE, USA

Emmi Whitehorse, artista indigena diné, lavora principalmente su paesaggi poetici, astratti e di grandi dimensioni, degli Stati Uniti sud-occidentali. Il suo rapporto quarantennale con la pittura inizia nel 1980 sotto l’ala del suo mentore, Harmony Hammond. Ha inoltre appreso le tecniche tradizionali di tessitura diné dalla propria cerchia familiare indigena che ha guidato il suo stile pittorico e l’ha portata a esplorare il rapporto con le ecologie e i territori nativi circostanti. La propria pratica di meditazione la rende sensibile alle psico-geografie atmosferiche e alla relazione tra l’uso culturale del territorio e la cura dell’ambiente condivisa dalle comunità indigene.

Cópia (2023) è un dipinto a tema paesaggistico su due pannelli che innesca la bellezza e la caotica tensione della rottura. L’artista mette in evidenza le ecologie native utilizzando il concetto tradizionale diné/ navajo di Hózhó, che esprime l’interconnessione tra terra e persone per raggiungere l’armonia e la bellezza. Le sue opere su carta e su tela rappresentano le temporalità spirituali dei Diné, che vedono nel paesaggio una sinfonia nel tempo. È una partitura sorprendente, composta da armonie naturali e dalle innaturali dissonanze provocate dai rapaci scavi postcoloniali sulla terra indigena. In Outset, Launching, Progression (2015), Whitehorse risponde alla fratturazione estrattiva di petrolio e gas naturale nei

BIENNALE ARTE 2024

territori navajo. Ha seguito lo spostamento e lo sfruttamento delle comunità indigene nei territori diné in cui è cresciuta. Le tecniche di marcatura sensoriale del paesaggio di Whitehorse, presentate attraverso composizioni disorientanti, mettono in luce strategie alternative per preservare l’indigenità e resistere alla violenza e all’estrazione coloniali. L’opera di Emmi Whitehorse è esposta per la prima volta alla Biennale Arte. —Tracy Fenix

Pressed Flower, 2023 Tecnica mista su tela, 129,5 × 199,3 cm. Courtesy l’Artista; Garth Greenan Gallery, New York.


405 NUCLEO CONTEMPORANEO Pollinator, 2023 Tecnica mista su tela, 129,5 × 199,3 cm. Courtesy l’Artista; Garth Greenan Gallery, New York.

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Wild Flower, 2023 Tecnica mista su tela, 129,5 × 199,3 cm. Courtesy l’Artista; Garth Greenan Gallery, New York.


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Xiyadie

Xiyadie – padre, contadino, omosessuale, lavoratore migrante e artista – crea ritagli di carta elaborati in modo intimo che documentano l’evoluzione della vita queer in Cina a partire dagli anni Ottanta. Cresciuto in una famiglia di artigiani, apprende l’arte di ritagliare la carta dalla madre. Questa antica tradizione popolare, solitamente tramandata per linea femminile, prevede la creazione di motivi spesso appesi a finestre e porte come portafortuna. Alle scuole superiori Xiyadie capisce di essere attratto dagli uomini, ma le aspettative familiari lo portano a sposarsi e ad avere due figli. Negli anni Ottanta, alla ricerca di una stabilità economica, emigra per lavorare a Xi’an e in seguito a Pechino, dove scopre un’accogliente comunità queer in cui può esprimersi liberamente. I suoi intricati ritagli di carta vengono esposti

PROVINCIA DI SHAANXI, REPUBBLICA POPOLARE CINESE, 1963 VIVE NELLA PROVINCIA DI SHANDONG, REPUBBLICA POPOLARE CINESE

per la prima volta presso il Centro LGBT di Pechino sotto uno pseudonimo che significa “farfalla siberiana”, una creatura a un tempo resiliente, appariscente e delicata. Anche se già nel primo decennio del XXI secolo i ritagli di Xiyadie ritraggono scene d’amore queer sullo sfondo di luoghi dove si pratica il cruising, scoperti al suo arrivo a Pechino nel 2005, le prime opere sono ambientate per lo più in spazi domestici. In Sewn (1999) Xiyadie descrive la difficoltà di accettare la propria sessualità, intrappolato in un matrimonio eterosessuale. I suoi pantaloncini gialli pendono da una gamba mentre stringe il proprio pene cucendolo con un grande ago e con filo fatto di sperma e sangue. Rifugiatosi in una stanzetta dominata da una porta e da un tetto tradizionali cinesi, Xiyadie guarda una foto del suo primo ragazzo, un assistente ferroviario di nome

Minghui. La lama appuntita che gli fora la gamba evoca dolore e incapacità di reagire, mentre un lungo serpente che striscia dentro di lui rappresenta il suo irreprimibile desiderio. È significativo che l’ago usato da Xiyadie per cucirsi attraversi anche il tetto dell’edificio, suggerendo così un progressivo affrancamento dalla pressione della tradizione e della famiglia. L’opera di Xiyadie è esposta per la prima volta alla Biennale Arte. —Rosario Güiraldes

Wall, 2016 Carta ritagliata con tintura all’acqua e pigmenti cinesi su carta Xuan, 140 × 140 cm. Courtesy l’Artista; Blindspot Gallery; P21 Gallery. Sewn, 1999 Carta ritagliata con tintura all’acqua e pigmenti cinesi su carta Xuan, 141 × 140 cm. Courtesy l’Artista; Blindspot Gallery; P21 Gallery.


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Kaiyang, 2021 Carta ritagliata con tintura all’acqua e pigmenti cinesi su carta Xuan, 140 × 300 cm. Photo Daniel Terna. Courtesy l’Artista; Blindspot Gallery; P21 Gallery; The Drawing Center.


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Rember Yahuarcani

Rember Yahuarcani è un pittore, scrittore, curatore e attivista appartenente al clan Aimeni (clan dell’Airone Bianco) della Nazione Uitoto dell’Amazzonia settentrionale, in Perù. Figlio degli artisti Santiago Yahuarcani e Nereida López, ha appreso dal padre la preparazione dei coloranti naturali e della llanchama (corteccia d’albero usata come superficie per i suoi dipinti). Le storie raccontate dalla nonna, Martha López Pinedo, lo hanno profondamente influenzato, al punto che la maggior parte del suo lavoro rende omaggio al legame spirituale con lei. Voce attiva per i diritti dei popoli indigeni, i suoi scritti denunciano la situazione ambientale dell’Amazzonia e affrontano le strutture culturali razziste e coloniali del Perù. Ha pubblicato diversi libri che raccolgono leggende e miti uitoto, tra cui El sueño de Buinaima (2010) e El guardian de la selva (2020).

I suoi dipinti attingono alle narrazioni della mitologia uitoto e alle tradizioni e tecniche artistiche occidentali. Dal 2003, il suo vocabolario artistico è passato dallo stile descrittivo dei primi dipinti alla creazione di paesaggi lirici e onirici su larga scala, come quello presentato alla Biennale. Attraverso tracce delicate e colori vivaci, Yahuarcani presenta scene che ci invitano a immergerci nel pensiero, nella narrazione e nella vita quotidiana degli Uitoto, per vedere e sentire il mondo da un diverso sistema di credenze. Gli animali, le piante, gli spiriti, gli esseri umani e gli altri esseri della foresta amazzonica che popolano i suoi dipinti sono rappresentati come molecolarmente connessi gli uni agli altri; l’artista ne prende possesso come fonti di saggezza. Yahuarcani dipinge i suoi molteplici personaggi

PEBAS, PERÙ, 1985 VIVE A PEBAS

in perenne movimento, come in fuga dalle identità e dalle narrazioni imposte dallo stato e dal mondo occidentale. L’opera di Rember Yahuarcani è esposta per la prima volta alla Biennale Arte. —Miguel López

Los Abuelos, 2021 Acrilico su tela, 170 × 240,5 cm. Photo Juan Pablo Murrugarra. Courtesy l’Artista.


Las canoas tienen sueños feroces, 2023 Acrilico su tela, 170 × 240 cm. Photo Juan Pablo Murrugarra. Courtesy l’Artista.

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El Territorio de los Abuelos, 2023 Acrilico su tela, 300 × 300 cm. Photo Juan Pablo Murrugarra. Courtesy l’Artista.


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Santiago Yahuarcani

Santiago Yahuarcani è un pittore e scultore autodidatta appartenente al clan Aimeni (clan Airone Bianco) della Nazione Uitoto dell’Amazzonia settentrionale. La madre, Martha López Pinedo, era discendente di Gregorio López, l’unico membro del clan emigrato da La Chorrera (oggi parte dell’Amazzonia colombiana) alla regione del fiume Ampiyacu (oggi Amazzonia peruviana settentrionale) nell’ambito dell’operazione che prevedeva il trasferimento delle popolazioni indigene per lavorare nell’industria della gomma. L’esperienza gli è stata trasmessa proprio dal nonno Gregorio, uno dei sopravvissuti al genocidio di Putumayo (1879-1921), durante il quale quasi trentamila indigeni, soprattutto dei popoli Bora, Uitoto, Andoque e Ocaina, furono ridotti in schiavitù e crudelmente annientati.

BIENNALE ARTE 2024

I dipinti di Yahuarcani non derivano né dipendono dalla storia dell’arte occidentale. Raccolgono i ricordi narrati dai suoi antenati, la conoscenza sacra delle piante medicinali, i suoni della giungla e i miti uitoto che spiegano le molteplici configurazioni dell’universo. Nei suoi lavori, il territorio e i suoi abitanti mostrano coscienza, affetto, memoria e intelligenza e mettono in atto forme di comunicazione udibili al di là dei parametri della colonizzazione coloniale. Non raccontano un passato rigido, ma creano un dialogo con il presente e si interrogano su un futuro collettivo. Rivendicando la presenza e la forza degli spiriti (guardiani) delle piante, degli alberi e degli animali, ampiamente ignorati nell’era moderna, Yahuarcani sottolinea come la catastrofe climatica non sia un evento recente, ma parte di una lunga storia

PEBAS, PERÙ, 1960 VIVE A PEBAS

di espropriazione coloniale iniziata con lo sradicamento dei mondi spirituali e dei poteri che emanano dalla stretta interrelazione con il territorio. L’opera di Santiago Yahuarcani è esposta per la prima volta alla Biennale Arte. —Miguel López

Hultoto Cosmovisión, 2022 Tinture naturali e acriliche su Ilanchama, 210 × 410 cm. Photo Juan Pablo Murrugarra. Courtesy l’Artista; CRISIS Gallery. Ni vergüenza ya tienen los pucachus, 2020 Tinture naturali su Ilanchama, 115 × 200 cm. Photo Juan Pablo Murrugarra. Courtesy l’Artista; CRISIS Gallery.

Shiminbro, el Hacedor del sonido, 2023 Tinture naturali e acriliche su Ilanchama, 207 × 410 cm. Photo Juan Pablo Murrugarra. Courtesy l’Artista; CRISIS Gallery.


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Nil Yalter

Nil Yalter è considerata una pioniera del movimento artistico femminista francese. Inizialmente si dedica a dipinti fortemente influenzati dalla tradizione astratta, soprattutto quella del Costruttivismo russo, ancora oggi riconoscibile nelle sue opere digitali. Trasferitasi a Parigi, l’artista si concentra su installazioni, performance, film e fotografia, spesso affrontando temi come la liberazione sessuale femminile, l’oggettivazione orientalista delle donne mediorientali e le esperienze delle persone che si confrontano con i movimenti migratori, intersecando questioni di razza, classe e genere. Il suo approccio autobiografico – che rievoca una metodologia antropologica applicata alle arti – intreccia esperienze personali e collettive ponendo le voci sottorappresentate al centro non solo della propria arte, ma anche dei temi cruciali della società.

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TURCA, NATA A IL CAIRO, EGITTO, 1938 VIVE A PARIGI, FRANCIA

Nell’installazione per la Biennale, Yalter combina due delle sue opere iconiche. Exile is a hard job (1977-2024), ispirata alle parole del poeta turco Nâzim Hikmet, presenta immagini di immigrati ed esiliati affisse illegalmente, con il titolo dell’opera dipinto sopra in grosse lettere rosse, a ricordare le frasi politiche che ornano i paesaggi urbani. Gli schermi video mostrano testimonianze della vita e delle lotte dei migranti, affrontando idee di integrazione, precarietà e stigmatizzazione ed evocando al contempo una certa nostalgia per quanto lasciato alle spalle e per le sfide future, intrecciate a miti e poesie turche. Topak Ev (1973) fa riferimento a un’esperienza dell’artista nella comunità nomade Bektik,

che storicamente viveva in tende rotonde nell’Anatolia centrale ed era emigrata intorno al X secolo. La loro tecnologia costruttiva fa luce sulle modalità di vita di queste comunità storicamente misconosciute e confonde le generali percezioni che se ne hanno. L’opera sensibilizza sui ruoli di genere e sulle norme sociali che confinano le donne negli spazi domestici, fornendo un’esplorazione dei ruoli femminili nel contesto della migrazione. Alla Biennale Arte 2024 Yalter riceve il Leone d’Oro alla Carriera.

Untitled, pre-1976 Video, bianco e nero, suono, 5’ 41”. Courtesy l’Artista.

L’opera di Nil Yalter è esposta per la prima volta alla Biennale Arte. —Amanda Carneiro

Topak Ev, 1973 Struttura in metallo, feltro, pelle di pecora, testi e tecniche miste, 250 × 300 cm. Arter Collection Istanbul. Exile is a hard job, 1983-2024 Installazione video, dimensioni variabili. Courtesy l’Artista.


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Joseca Mokahesi Yanomami

Joseca Mokahesi, artista appartenente al popolo degli Yanomami, nasce nell’Amazzonia brasiliana e vive nella comunità di Watoriki (catena montuosa ventosa), situata nella Terra Indígena Yanomami. L’infanzia di Mokahesi coincide con un momento particolarmente drammatico per il suo popolo, colpito dai primi contatti – intensi e non voluti – con persone non indigene e con le loro malattie. La madre, vittima dell’epidemia di morbillo, viene a mancare quando l’artista è ancora un bambino, e successivamente muore anche il padre, un insigne sciamano. Spinto da un profondo hixio (rabbia per il lutto), Mokahesi fugge dalla sua comunità e cammina in mezzo ai boschi per duecento chilometri. Anni dopo, al suo ritorno, organizza una scuola e diventa il primo insegnante

BIENNALE ARTE 2024

e assistente sanitario della comunità. All’inizio degli anni Duemila, scolpisce nel legno piccoli animali per poi dedicarsi a disegnare con crescente fascinazione personaggi, scene e paesaggi dell’universo yanomami. I disegni di Joseca Mokahesi rappresentano miti e canti sciamanici, nonché momenti dell’esistenza quotidiana della sua gente, accompagnati da titoli descrittivi in lingua yanomami che hanno una funzione esplicativa. Molti fra i personaggi ritratti dall’artista sono xapiri, spiriti lasciati da Omama – la dea della creazione per gli Yanomami – per aiutare gli sciamani nei loro compiti. Quando vengono evocati, scendono e si manifestano nei corpi degli sciamani. Yamanaioma, il femmineo spirito dell’ape, viene rappresentata come figura

TERRITORIO DEGLI INDIGENI YANOMAMI, BRASILE, 1971 VIVE NEL TERRITORIO DEGLI INDIGENI YANOMAMI

umana che cammina sulla terra e fa in modo che l’erba cresca bene; Hawahiri, invece, è disegnato come un albero – l’albero della noce amazzonica – che emerge da una bocca. Le pitture di viso e corpo che compaiono nei disegni di Mokahesi si riferiscono alla prima umanità, yarori pë. L’opera di Joseca Mokahesi è esposta per la prima volta alla Biennale Arte. —David Ribeiro

Yamanayomani thë urihi karukai xoao tëhë wamotima thëpë raruu totihio tëhëma thëa. Yamanayoma a, 2013 Penna idrografica, matita colorata e grafite su carta, 30 × 42 cm. Photo Isabella Matheus. Collezione Museu de Arte de São Paulo Assis Chateaubriand. Dono di Clarice O. Tavares, 2021.

Xapiri Hawarihiri omamari a ithuu tëhë anë yai kiriai mahi, kuë yaro yanomãe yamaki amuku haari keai. Hwei hawarihiri omamari aka kii ani xawara a waiha ani yai waro pata a kutaeni kuë yaro hwei xapiri pata yamapë yai pihipo, 2011 Penna idrografica, matita colorata e grafite su carta, 30 × 42 cm. Photo Isabella Matheus. Collezione Museu de Arte de São Paulo Assis Chateaubriand. Dono di Clarice O. Tavares, 2021. Untitled, 2011 Penna idrografica, grafite e pastelli su carta, 29,5 × 42 cm. Photo Isabella Matheus. Collezione Museu de Arte de São Paulo Assis Chateaubriand. Dono di Clarice O. Tavares, 2021.


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André Taniki Yanomami

André Taniki è uno sciamano nativo della regione dell’alto Rio Catrimani, nell’Amazzonia brasiliana. La sua produzione artistica è direttamente collegata alla presenza sul territorio della fotografa e attivista elveticobrasiliana Claudia Andujar e dell’antropologo francese di origini marocchine Bruce Albert, che lavorano fra gli Yanomami dagli anni Settanta. Interessata a instaurare forme alternative di comunicazione fra stranieri con la mediazione delle immagini, Andujar incoraggia Taniki a esprimersi visivamente. Lei e Albert, che da allora diventano importanti alleati degli Yanomami, forniscono allo sciamano i materiali necessari per disegnare: carta e pennarelli, all’epoca materiali nuovi per la popolazione (che solo

recentemente è entrata in contatto con persone non indigene). I disegni diventano argomento di conversazione fra Taniki e i napë (“stranieri”, in lingua yanomami), che trascorrono ore a parlare sia di pitture sul corpo sia di quelle su “pelli di carta”. Questi disegni sono stati realizzati dall’artista, in dialogo con Bruce Albert, alla fine degli anni Settanta, quando entrambi cercavano modalità per rappresentare le visioni sciamaniche. Riccamente colorati, combinano astrazioni e schemi figurativi in strutture che sembrano riprodurre l’organizzazione del cosmo dal punto di vista dell’universo di senso degli Yanomami. In questo modo possono essere considerati come una sorta di cartografia di ciò che è

TERRITORIO DEGLI INDIGENI YANOMAMI, BRASILE, 1949 VIVE NEL TERRITORIO DEGLI INDIGENI YANOMAMI

visibile soltanto agli xapiri – gli spiriti ausiliari dello sciamano yanomami – e agli sciamani stessi. Le circostanze in cui si sono originati e i disegni stessi costituiscono un’importante espressione delle possibilità di traduzione e comunicazione fra diversi sistemi di sapere e relazioni. L’opera di André Taniki è esposta per la prima volta alla Biennale Arte. —David Ribeiro

Untitled 1, 1978-1981 ca. Pastelli su carta, 21 × 29 cm Untitled 2, 1978-1981 ca. Pastelli su carta, 21 × 29 cm Untitled 3, 1978-1981 ca. Pastelli su carta, 21 × 29 cm Untitled 4, 1978-1981 ca. Pastelli su carta, 21 × 29 cm Tutte le opere Collezione Fondation Cartier pour l’art contemporain


STRANIERI OVUNQUE

NUCLEO CONTEMPORANEO

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Kim Yun Shin

WONSAN, COREA DEL NORD, 1935 VIVE A BUENOS AIRES, ARGENTINA E YANGGU, COREA DEL SUD

Add Two Add One, Divide Two Divide One, 2001 Diaspro, 39 × 61 × 29 cm. Photo KIM Mingon. Collezione privata.

Figura pionieristica dell’arte coreana e argentina, attiva nella scultura, nella pittura e nella stampa, Kim Yun Shin ha viaggiato molto nel corso della vita, esperienza profondamente riflessa nella sua opera. È nata nella città di Wonsan, nell’attuale Corea del Nord, durante l’occupazione giapponese, ma parte della sua famiglia è riuscita a fuggire in Corea del Sud durante la divisione della Corea del 1945. Negli anni Cinquanta studia scultura all’Università Hongik di Seul per poi trasferirsi a Parigi negli anni Sessanta, dove studia all’École Nationale Supérieure de Beaux-Arts di Parigi (1964-1969). Partecipa alla Bienal de São Paulo del 1973. Il 1984 è l’anno in cui il suo percorso cambia radicalmente: va a vivere a Buenos Aires per poi percorrere l’America Latina,

BIENNALE ARTE 2024

vivendo in Messico (19881991) e in Brasile (2001-2002), esperienza che influenza il suo lavoro e la scelta dei materiali, come le sculture in legno e pietra. Di recente si è trasferita nella piccola città di Yanggu, Gangwon-do, nella Corea del Sud settentrionale. Alla Biennale, Kim Yun Shin presenta un gruppo di otto sculture, quattro in legno realizzate tra il 1979 e il 1984 e quattro in pietra prodotte tra il 1991 e il 2001. In modo concettuale, tutte le sue opere a partire dalla fine degli anni Settanta riportano lo stesso titolo: Add Two Add One, Divide Two Divide One. Add e Divide sono collegati allo Yin e allo Yang della filosofia cinese, che a loro volta rappresentano dicotomie multiple e concetti opposti

strettamente interconnessi: due che sono uno, uno che è due. Lo Yin rappresenta la frammentazione, la scissione, la divisione, mentre lo Yang rappresenta la convergenza, l’integrazione, l’aggiunta. Le operazioni e il processo scultoreo dell’artista sono proprio questo: divide, separa, estrae dalla pietra e dal legno per costruire le proprie opere. In questo senso, al centro dell’opera scultorea di Kim in legno e pietra si esprime il contrapposto rapporto tra arte e natura, cultura e paesaggio, geometria e organico che, attraverso il laborioso processo scultoreo, diventano uno e due. L’opera di Kim Yun Shin è esposta per la prima volta alla Biennale Arte. —Adriano Pedrosa Add Two Add One, Divide Two Divide One, 1986 Legno, 87 × 37 × 37 cm. Photo KIM Mingon. Collezione privata.


STRANIERI OVUNQUE

NUCLEO CONTEMPORANEO

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Anna Zemánková

L’artista autodidatta Anna Zemánková nasce in Moravia e comincia a produrre le sue composizioni di carattere lirico nella fase matura della sua vita. Zemánková si forma come odontotecnica prima di diventare madre di quattro figli, uno dei quali muore all’età di quattro anni; dopo essere caduta in una profonda depressione, inizia a creare le composizioni liriche per cui oggi è nota, scoprendo la natura terapeutica che sottende la loro creazione. Lavora nelle prime ore del mattino, abbracciando la semicoscienza tra sonno e veglia e approfittando della calma prima di affrontare le incombenze domestiche. Accompagnando regolarmente il suo lavoro con l’ascolto di musica classica, Zemánková disegna, incide e ricama intuitivamente sul supporto da lei scelto, realizzando astrazioni botaniche in uno stato di trance che si avvicina all’automatismo. L’impatto della musica sulla sua pratica può essere rintracciato attraverso la struttura ritmica delle sue forme, molte delle quali sono costruite intorno a un ritornello visivo che si snoda in variazioni melodiche.

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Se considerate come una serie, le opere di Zemánková costituiscono un erbario inventato di organismi ultraterreni, come lei stessa afferma: “coltivo fiori che non crescono altrove”. Sebbene la sua pratica sia stata paragonata a quella di Hilma af Klint e di altri artisti medianici, Zemánková non ha mai affermato di essere influenzata da una filosofia mistica o dal dialogo con un regno spirituale. Invece, le sue opere sono nate da un impulso sub cognitivo radicato nella sua sfera interiore. Le forme sembrano dilagare con una forza vitale propria, cariche di appendici simili a frutti e delicati arabeschi. L’arte figurativa dei pezzi in mostra è a cavallo tra gli ordini microcosmici e macroscopici, evocando una cartografia di formazioni astronomiche ignote e strutture riproduttive di una vita vegetale immaginaria. —Sybilla Griffin

HODOLANY, MORAVIA, 1908 – 1986, PRAGA, CECOSLOVACCHIA

Untitled, 1980 ca. Collage satinato, colore per tessuto, acrilico e penna a sfera su carta, 62,6 × 45 cm. Courtesy Christian Berst Art Brut.


Untitled, 1980 ca. Collage satinato, colore per tessuto e penna a sfera su carta, 62,6 × 45 cm. Courtesy Christian Berst Art Brut.

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NUCLEO CONTEMPORANEO

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Untitled, 1975 ca. Matite colorate, penna a sfera, ricamo e perle su carta, 62,6 × 45 cm. Collezione privata. Courtesy Christian Berst Art Brut.





INTERVENTIONS: DECENTERING MODERNISM: ART HISTORY AND AVANT-GARDE ART FROM THE PERIPHERY, IN “THE ART BULLETIN”, VOL. 90, N. 4, DICEMBRE 2008.

Il Modernismo si è diffuso in tutto il mondo grazie al dominio dell’Occidente, ciononostante il messaggio radicale del Modernismo ha ispirato le regioni non occidentali a creare la propria arte di resistenza contro l’ordine coloniale. Nonostante il programma radicale, l’avanguardia occidentale non ha tenuto conto né della progressiva eterogeneizzazione dell’arte né della ricchezza e della creatività delle pratiche artistiche all’interno delle periferie. I suoi limiti derivano dalla narrazione monolitica e lineare di una storia dell’arte che non ammette differenze, che in parte è il riflesso delle diseguali relazioni di potere tra centro e periferia. Il mio ragionamento contribuisce ai recenti dibattiti sulla necessità di spostare il centro di gravità dal discorso originario a una definizione più eterogenea di Modernismo globale, che incorpori i cambiamenti avvenuti nel XX secolo. Risponde alla sfida dell’arte transnazionale, mettendo in discussione la “purezza” del canone modernista e la conseguente accusa del carattere derivativo della periferia.

PARTHA MITTER



Tupi or not tupi, questo è il dilemma.

OSWALD DE ANDRADE

MANIFESTO ANTROPÓFAGO, IN “REVISTA DE ANTROPOFAGIA”, MAGGIO 1928.



INCOMPLETE GLOSSARY OF SOURCES FOR LATIN AMERICAN ART, IN CARTOGRAPHIES, A CURA DI IVO MESQUITA, PAULO HERKENHOFF E JUSTO MELLADO, WINNIPEG, WINNIPEG ART GALLERY, 1993.

DUALITÀ. Dove finisce il Terzo Mondo e dove inizia il Primo Mondo in questo mondo? (O viceversa?) L’arte latinoamericana è allineata a quella europea e nordamericana? O è l’ambientazione di una tradizione locale? Il dilemma shakespeariano si trasforma in “Tupi, or not Tupi, questo è il dilemma”, dove il nome di questo popolo nativo dà al poeta brasiliano Oswald de Andrade la possibilità di condensare in una sintesi il dubbio fondamentale dell’identità nazionale al crocevia di culture e tempi storici.

PAULO HERKENHOFF



Adriano Pedrosa

431 NUCLEO STORICO • RITRATTI STRANIERI OVUNQUE

Questa sezione del Nucleo Storico è dedicata ai ritratti e alle rappresentazioni della figura umana realizzati nel Sud del mondo nel corso del XX secolo. Raccoglie oltre cento opere di artisti provenienti da Algeria, Aotearoa–Nuova Zelanda, Argentina, Bolivia, Brasile, Cile, Cina, Colombia, Corea, Cuba, Ecuador, Egitto, Filippine, Ghana, Guatemala, India, Indonesia, Iran, Iraq, Giamaica, Libano, Malesia, Messico, Mozambico, Nigeria, Pakistan, Perù, Porto Rico, Repubblica Dominicana, Singapore, Sudafrica, Sri Lanka, Sudan, Tunisia, Turchia, Uruguay, Venezuela, Vietnam e Zimbabwe. Si tratta per lo più di dipinti, ma anche di sculture e opere su carta, che coprono un arco di tempo che va dal 1915 al 1990. È difficile stabilire una cronologia generale rigorosa, poiché i processi possono essere alquanto specifici di ogni paese o regione, e spesso seguono percorsi del tutto propri. Per questo motivo, l’arco cronologico è molto più ampio del tipico arco temporale modernista. La selezione testimonia come la figura umana sia stata esplorata in innumerevoli modi diversi dagli artisti del Sud del mondo, e riflette sulla crisi della rappresentazione dell’umano che ha caratterizzato gran parte dell’arte del XX secolo, ponendosi ulteriori domande: chi può essere rappresentato, da chi, e come? La maggior parte dei lavori ritrae personaggi non bianchi, il che a Venezia, nel cuore della Biennale, diventa un tratto eloquente di questo gruppo così ampio ed eterogeneo e della stessa Esposizione Internazionale d’Arte. Molti artisti del Sud del mondo sono venuti a contatto con il Modernismo europeo attraverso viaggi, studi o libri. Tuttavia, apportano alle proprie opere delle riflessioni potenti e contributi personali, ritraendo figure prese dai propri repertori visivi, dalle proprie storie e vite, se stessi inclusi. In questo processo, nella regione, il Modernismo è stato acquisito e divorato. Il riferimento qui è al concetto di antropofagia, termine coniato dal modernista e intellettuale brasiliano Oswald de Andrade nel suo Manifesto antropófago del 1928. L’antropofagia è offerta all’intellettuale moderno ai margini dell’Europa come strumento per impadronirsi della cultura metropolitana, cannibalizzandola e producendo qualcosa di proprio. Il concetto evoca la pratica cannibalistica degli indigeni tupinambá del Brasile pre-invasione, che mangiavano la carne dei nemici sconfitti per acquisirne le virtù. Le tipologie uniche e distinte di Modernismo del Sud globale assumono figure e forme radicalmente nuove in dialogo con narrazioni e riferimenti locali e indigeni. Conosciamo fin troppo bene la storia del Modernismo dell’Euro-America, ma i modernismi del Sud del mondo rimangono in gran parte sconosciuti e assumono quindi una vera e propria rilevanza contemporanea: abbiamo urgente bisogno di imparare di più su e da quei contesti. La maggior parte degli artisti presenti nel Nucleo Storico partecipa per la prima volta alla Biennale Arte: viene così pagato un debito storico nei loro confronti. In questo contesto, un’attenzione particolare è rivolta alla vita straordinaria di tutti gli artefici che rappresentano vasti movimenti e trasformazioni culturali impossibili da catturare in un’unica mostra. Per questo motivo, il Nucleo Storico è inteso come bozza, provocazione e come un esercizio curatoriale speculativo volto a mettere in discussione i confini e le definizioni del Modernismo, aprendo nuove strade e possibilità di comprensione dell’arte del XX secolo.


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Mariam Abdel-Aleem

ALESSANDRIA, EGITTO, 1930–2010

Artista e docente, Mariam Abdel-Aleem, forse più nota per le sue pratiche di stampa, nel corso della sua attività sperimenta una varietà di tecniche e soggetti. Formata presso la facoltà di Belle Arti del Cairo (1954), consegue un master in arti grafiche presso la University of Southern California (1957), seguito da un dottorato di ricerca presso l’Università Helwan del Cairo. Studia inoltre al Pratt Institute di New York. Membro fondatore dell’Associazione degli artisti di Alessandria, è stata una docente stimata della facoltà di Belle Arti di Alessandria fin dalla sua istituzione nel 1958. Nel corso della sua carriera, esplora principalmente stampa e incisione, dipinti su carta e su tela, disegno e scultura con opere in gran parte incentrate su temi sociali e attingendo alla vita quotidiana in Egitto.

Clinic (1958) raffigura una fila di pazienti in attesa all’ingresso di un ambulatorio medico, mentre una colomba bianca si libra sopra di loro. Le donne sono in coda con i figli, tutte vestite con abiti in stoffa fantasia; una porta prodotti freschi, mentre altre reggono ciotole di cibo. Un infermiere, in uniforme bianca, sorveglia l’ingresso, contrassegnato da un cartello con la scritta “Visita” in arabo. Il dipinto è caratteristico della pratica di Abdel-Aleem, con le protagoniste rese con figurazioni stilizzate

BIENNALE ARTE 2024

Clinic, 1958 Olio su tavola, 77 × 83 cm. Collezione Barjeel Art Foundation, Sharja. Courtesy Barjeel Art Foundation, Sharja.

e pennellate gestuali; rappresenta inoltre un commento sociale sulla vita nell’Egitto degli anni Cinquanta, e soprattutto sulle lotte della donne egiziane. Abdel-Aleem ha esposto in Egitto e nel mondo intero e ha rappresentato l’Egitto in numerose biennali internazionali. Il suo lavoro è stato presentato alla Biennale Arte del 1964. —Nadine Nour el Din


Affandi ha realizzato molti autoritratti con diverse tecniche, tra cui inchiostro, olio e argilla. Self-Portrait (1975) è una delle opere presentate all’interno della sua personale tenutasi a Singapore nel 1975, in occasione della laurea honoris causa conferitagli dall’Università di Singapore. Una fotografia dell’evento mostra Affandi mentre crea quest’opera sul posto, in presenza del pubblico. L’artista ha donato due dipinti, tra cui questo, alla National Museum Art Gallery di Singapore dopo la sua fondazione nel 1976, dipinti successivamente incorporati nell’attuale collezione della National Gallery Singapore. La tela mostra lo stile maturo di Affandi: fili sinuosi di giallo, rosso e verde formano i tratti del viso, mentre le aree di ocra e verde dipinte con il palmo della mano o con le dita assomigliano a una lavatura a pennello. —Anissa Rahadiningtyas

Self-Portrait, 1975 Olio su tela, 130 × 100,5 cm. Collezione National Gallery Singapore. Courtesy l’Artista; National Heritage Board, Singapore. © Affandi Foundation.

STRANIERI OVUNQUE

Affandi, uno dei più rinomati pittori indonesiani, inizia a dipingere da autodidatta negli anni Trenta. Il periodo della guerra d’indipendenza indonesiana (1945-1950) lo vede parte attiva in un movimento di guerriglia e nei sanggar (spazi e atelier comuni gestiti da artisti) di Yogyakarta, Giava Centrale. Nel 1946, insieme ad altri artisti indonesiani della sua generazione, come S. Sudjojono e Hendra Gunawan, Affandi si unisce al gruppo Seniman Indonesia Muda (Giovani pittori indonesiani). Finanziato dal governo indiano, dal 1949 al 1951 studia pittura all’eremo di Santiniketan prima di iniziare a viaggiare ed esporre le proprie opere in Europa. Ha rappresentato l’Indonesia alla Bienal de São Paulo nel 1953 e alla Biennale di Venezia nel 1954. È noto per dipingere i suoi soggetti senza alcuno schizzo preliminare; spremeva i colori direttamente sulle tele, stratificandoli in maniera spontanea per trasmettere forte tensione e movimento.

CIREBON, INDONESIA, 1907 – 1990, YOGYAKARTA, INDONESIA

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Affandi


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Miguel Alandia Pantoja

CATAVI, BOLIVIA, 1914 – 1975, LIMA, PERÙ

L’opera di Miguel Alandia Pantoja deve essere vista sia nell’ambito della storia politica della Bolivia sia in relazione al muralismo messicano. Rivoluzionario, pittore e combattente nella guerra del Chaco, sopravvissuto alla prigionia in Paraguay, è stato un leader sindacale e un artista che ha ricevuto importanti incarichi statali a La Paz dopo la rivoluzione del 1952. I suoi murales La educación (1957) e La medicina boliviana (1957) dialogano senza dubbio con le opere di Diego Rivera. Con i suoi drammatici chiaroscuri e le tormentate rappresentazioni di corpi di indigeni e campesinos stremati, feriti e afflitti, i dipinti di Alandia rivelano affinità con quelli di José Clemente Orozco e David Siqueiros. Il suo lavoro, tuttavia, non era semplice imitazione dei maestri messicani, ma un potente contributo all’arte politica del XX secolo. Alandia, costretto a fuggire dalla Bolivia in seguito al colpo di stato militare del 1971, muore poco tempo dopo in esilio a Lima, in Perù. Sebbene il titolo (“ragazza” in Aymara) non abbia nulla di sorprendente, Imilla (1960) è tutt’altro che innocuo. La figura seduta occupa l’intero quadro notturno. Il corpo fasciato appare come un’alta cima che si erge dall’altipiano. L’abbigliamento dell’imilla ricorda quello delle miliziane del precedente Milicianos (1957). Perfettamente simmetrico, il volto è immobile come lo è il corpo. Guarda direttamente lo spettatore, anche se gli occhi rimangono nascosti nell’ombra. Non è una bambina addormentata né un’allegoria romantica della femminilità

BIENNALE ARTE 2024

indigena. Questa imilla aspetta, osserva, vigila come una sentinella nella notte. La forma triangolare sembra essere più di una preferenza compositiva: la solidità pietrosa della sua presenza vigile suggerisce una sorellanza con la sua omonima: la montagna Imilla Apachita. Anche questa ragazza aymara è una montagna, una militante che difenderà il suo popolo. L’opera di Miguel Alandia Pantoja è esposta per la prima volta alla Biennale Arte. —Lisa Trever

Imilla, 1960 Olio su cartone pressato, 77 × 59,7 cm. Photo Michael Dunn. Collezione Museo Nacional de Arte. Courtesy Fundación Cultural del Banco Central de Bolivia.


letteratura irachene, nonché alle proprie origini assire, babilonesi e sumere. Al-Azzawi è un umanista di profondo impegno politico e molte opere riflettono sulla guerra, la sofferenza umana e la causa palestinese. A Wolf Howls: Memories of a Poet (1968) si distingue tra i primi dipinti di al-Azzawi, realizzati negli anni Sessanta, per il ricorso a riferimenti mitologici e folcloristici. È stato dipinto all’indomani di un periodo turbolento, ovvero la Guerra dei sei giorni del 1967 (quando Siria, Giordania e Iraq furono sconfitti da Israele) e il colpo di stato che in Iraq riportò al potere il partito socialista Ba’ath. L’opera prende spunto da una poesia inedita di Muzaffar Al-Nawab – amico di al-Azzawi e figura di spicco della letteratura araba nonché feroce critico dei regimi dittatoriali – che racconta la storia di una

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madre che perde il figlio durante il colpo di stato Ba’ath. Gli intricati motivi colorati fanno riferimento ai tappeti kilim usati dai contadini del Sud, evocando l’astrazione geometrica modernista. Nel 1969, l’opera illustrava il manifesto radicale Towards a New Vision (Verso una nuova visione), di cui era coautore, in cui si sosteneva la necessità di una pratica artistica trasgressiva e innovativa e che l’artista fosse allo stesso tempo critico e rivoluzionario. —Adriano Pedrosa

A Wolf Howls: Memories of a Poet, 1968 Olio su tela, 84 × 104 cm. Collezione Barjeel Art Foundation, Sharja. Courtesy Barjeel Art Foundation, Sharja.

NUCLEO STORICO • RITRATTI

Dia al-Azzawi è una figura centrale del Modernismo iracheno, arabo e del Sud globale. Ha studiato archeologia al College of Arts di Baghdad e arti visive all’Institute of Fine Arts di Baghdad, e ha svolto il servizio militare a Mosul, con la sua ricca storia e cultura: uno straordinario background che gli ha permesso di approfondire la storia e le tradizioni irachene. Al-Azzawi appartiene alla terza generazione di artisti moderni iracheni seguita ai Pionieri, che hanno introdotto il Modernismo nel paese, e al Gruppo d’Arte Moderna di Baghdad cofondato da Jewad Selim. Quest’ultimo e al-Azzawi sono considerati i due artisti iracheni più iconici del XX secolo. al-Azzawi, in particolare, è stato in grado di sfruttare le proprie eccezionali conoscenze ed esperienze di vita, attingendo al folclore, alla poesia e alla

BAGHDAD, IRAQ, 1939 VIVE A LONDRA, REGNO UNITO, GIORDANIA E LIBANO

STRANIERI OVUNQUE

Dia al-Azzawi


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María Aranís

María Aranís, pittrice cilena, appartiene alla generazione di donne che all’inizio del XX secolo ha consolidato la presenza femminile nel sistema moderno delle arti. Poco si sa della sua storia perché – a differenza della sorella, la pittrice Graciela (Chela) Aranís – le informazioni sul suo sviluppo artistico e sulla sua biografia personale sono scarse. Tra le poche informazioni in nostro possesso, sappiamo che si iscrisse alla Scuola di Belle Arti e che le sue opere furono incluse nella spedizione cilena per l’Esposizione Iberoamericana di Siviglia del 1929. Entra inoltre a far parte dell’Associazione degli artisti del Cile, che denuncia l’indifferenza dello stato nei confronti degli affari culturali e che dà vita al Salón de los

Independientes (1931). Esorta la collaborazione con i colleghi e si batte per un’arte sociale che consenta l’accesso delle classi popolari. Aranís sarà l’unica donna su dodici nel consiglio di amministrazione. La comparsa di un nucleo di produzione artistica tra le donne dell’epoca ci presenta la corporalità come questione politica attraverso la quale le artiste costruiscono la propria identità. La negra (1931) risponde a questo aspro impulso. Dipinto a Parigi, rivela l’interesse dell’artista a trattare delle esperienze delle donne insieme alla lotta per le rivendicazioni femminili, il miglioramento dei salari, la sanità pubblica e il suffragio universale. Ciò si interseca, tuttavia, con la coniugazione

SANTIAGO, CILE, 1903 – 1966, [LUOGO IGNOTO], CILE

di classe sociale e gruppo etnico presente in questi temi: donne bianche e della classe media contro le esperienze di donne razzializzate, operaie e contadine. È proprio in questo periodo che si rafforzano le riunioni multiclasse in Cile, con la comparsa del Fronte Popolare e del MEMCH (Movimiento ProEmancipación de las Mujeres de Chile) a cui partecipano diverse associazioni femminili e femministe, creando legami di appartenenza in un nuovo paradigma all’interno della storia delle donne. L’opera di María Aranís è esposta per la prima volta alla Biennale Arte. —Gloria Cortes Aliaga

La negra, 1931 Olio su tela, 64,8 × 54 cm. Collezione Museo Nacional de Bellas Artes, Santiago del Cile.


Baroukh riceve l’Hallmark Art Award. Dopo gli inizi figurativi, si distingue come pittore prevalentemente astratto, passando da composizioni geometriche dai colori vivaci all’astrazione lirica. Baigneuse (1952-1954 circa) è stato dipinto a Parigi nell’anno in cui Baroukh frequenta l’accademia del pittore cubista André Lhote. La resa scultorea e decostruita del corpo della bagnante, così come la sua posizione reclinata con le gambe incrociate e la testa appoggiata sul braccio piegato, ricordano i nudi femminili di Pablo Picasso. Ma qui la figura non è nuda. Il formato allungato della tela, enfatizzato da linee orizzontali e curve dinamiche, conferisce alla scena un’atmosfera riposante, nonostante la tavolozza sia dominata dai toni del rosso. La bagnante ha gli occhi chiusi:

il tema del dipinto sembra essere il sonno, o meglio il sogno. Il seno destro sferico, che domina la scena, evoca sia una luna che la testa di una possibile seconda figura che avviluppa la donna, mentre le loro braccia si fondono in un solo arto. La figura termina con una mano con quattro dita corte e arrotondate che evocano la zampa di un animale. Questi elementi onirici collocano Baigneuse all’incrocio tra figurazione geometrica e Surrealismo.

437 NUCLEO STORICO • RITRATTI

Ezekiel Baroukh è stato membro del gruppo surrealista Art et Liberté, formatosi in Egitto nel 1938. Cresciuto ad Alessandria, grazie a una borsa di studio finanziata dallo stato, studia all’Accademia di Belle Arti di Roma per poi tornare in Egitto. Alla vigilia della Seconda guerra mondiale, Art et Liberté denuncia il fascismo, sollecitando molti comunisti ed ebrei come Baroukh e la moglie, l’avvocata Annette Fedida, a mettersi in gioco. Baroukh diventa anche membro dell’Atelier d’Alexandrie, istituzione chiave della scena culturale egiziana del XX secolo, che riuniva artisti e intellettuali cosmopoliti. Nel 1946 si stabilisce in Francia ed espone regolarmente a Lione con un gruppo di artisti chiamato Contraste, fondato da Jean-Marcel Héraut-Dumas. Nel 1949

MANSOURA, EGITTO, 1909 – 1984, PARIGI, FRANCIA

L’opera di Ezekiel Baroukh è esposta per la prima volta alla Biennale Arte. —Nadine Atallah

Baigneuse, 1952-1954 ca. Olio su tela, 60 × 120 cm. Photo Maria e Mansour Dib. Courtesy Ramzi e Saeda Dalloul Art Foundation.

STRANIERI OVUNQUE

Ezekiel Baroukh


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Baya

Baya Mahieddine, nata Fatima Haddad e conosciuta semplicemente come Baya, è stata un’artista algerina autodidatta la cui pratica creativa si è estesa per oltre sei decenni. In relazione al suo lavoro, è facile imbattersi in parole come “primitivo”, “infantile”, “arte popolare”, “arte naïf”, “arte femminista”, “arte dell’emigrazione del dopoguerra”, “art brut” e “Surrealismo”, a indicare l’eterogeneità e la complessità delle influenze che hanno plasmato il suo percorso artistico. Lei stessa sfidava le categorizzazioni della storia dell’arte definendo umoristicamente la propria pratica come Baya-ismo. A quattordici anni viene presentata dall’artista Jean Peyrissac al mercante d’arte francese Aimé Maeght, in occasione della visita di quest’ultimo ad Algeri. Due anni dopo, il suo lavoro viene incluso nella seconda esposizione surrealista a Parigi, seguita da una mostra personale alla Galerie Maeght nella stessa città, per la quale André Breton scrive una prefazione in un numero speciale della rivista d’arte Derrière le Miroir.

BIENNALE ARTE 2024

BORDJ EL KIFFAN, ALGERIA, 1931 – 1998, BLIDA, ALGERIA

Baya è nota soprattutto per le vivaci rappresentazioni di paradisi occupati esclusivamente da donne in abiti sfarzosi. I suoi personaggi femminili appaiono spavaldi e briosi e spesso guardano direttamente l’osservatore con occhi prominenti e audacemente truccati. Di solito sono impegnate in attività piacevoli, come suonare strumenti musicali, portare vasi di frutta appena raccolta o ammirare farfalle. Femme à la Robe Rose (1945) è una delle

prime opere di Baya, realizzata quando l’artista aveva appena quattordici anni. Descrivendo le proprie composizioni come “paesaggi onirici”, Baya le satura di colori luminosi e motivi vivaci, presentando il mondo attraverso una lente allegra e fantasiosa. Immerse nei ricordi della sua infanzia, le opere offrono una tregua idilliaca dalla realtà spesso difficile della sua vita. —Suheyla Takesh

Femme à la Robe Rose, 1945 Acquerello e gouache su carta, 59 × 47,2 cm. Collezione Barjeel Art Foundation, Sharja. Courtesy Barjeel Art Foundation, Sharja.


Femme au Paon, s.d. Guache su carta, 103 × 70 cm. Photo Maria e Mansour Dib. Courtesy Ramzi e Saeda Dalloul Art Foundation.

Non datato, Femme au Paon riflette la vivacità, l’estrosità e il simbolismo culturale che caratterizzano la sua opera. L’immagine ritrae una giovane figura femminile seduta in un giardino paradisiaco brulicante di vita. La fronte tatuata della donna, le mani ricoperte di henné, la scollatura ricamata e i gioielli si mescolano a un ambiente di forme atmosferiche e vegetali, piume decorate e creature beneauguranti. L’iconografia, le campiture di colore piatte e la resa spaziale di Ben Salem collegano l’opera alle tradizioni pittoriche islamiche da lui venerate. Le sue linee ondulate e la tavolozza di rosa pastello, blu, verdi e arancioni

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animano la composizione con una gioiosa vitalità che riflette la sua pratica più ampia. Le qualità immaginifiche e allegoriche dell’opera raccontano il viaggio filosofico dell’artista attraverso l’esistenza e il potere della creatività di fronte alla colonizzazione e alla cancellazione storica. Convinto che un artista debba portare gioia e scongiurare la distruzione, Ben Salem dipinge per infondere nei suoi osservatori serenità, libertà mentale e amore. L’opera di Aly Ben Salem è esposta per la prima volta alla Biennale Arte. —Jessica Gerschultz

NUCLEO STORICO • RITRATTI

Aly Ben Salem è stato un artista moderno che ha descritto la pittura come un liberatorio atto d’amore. Pur avendo trascorso gran parte della sua carriera in Svezia e in Francia, si impegna a favore del patrimonio culturale tunisino e dell’autonomia politica. Negli anni Trenta, Ben Salem è tra i primi musulmani arabi a frequentare l’École des Beaux-Arts di Tunisi. Decora il padiglione tunisino all’Esposizione Internazionale di Parigi del 1937 e lavora come grafico per il Musée des Arts Indigènes sotto il protettorato francese. La sua rivisitazione dell’arte storica tunisina ha informato i suoi approcci estetici aprendo un campo di indagine per una generazione di artisti dediti a riconquistare l’arte dall’egemonia coloniale. Trasferitosi a Stoccolma dopo il 1945, Ben Salem esprime solidarietà politica attraverso una pratica socialmente impegnata, che trae ispirazione dalle miniature e dalla pittura su vetro a rovescio. Ha creato composizioni liriche nell’intento di coltivare l’amore per la bellezza e la vita stessa.

TUNISI, TUNISIA, 1910 – 2001, STOCCOLMA, SVEZIA

STRANIERI OVUNQUE

Aly Ben Salem


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Semiha Berksoy

Semiha Berksoy – celebre soprano drammatico, pittrice, scultrice, attrice, costumista e artista performativa – nel corso di una lunga e prolifica vita in prima linea sulle scene culturali turche e tedesche dominate da uomini, ha praticato l’“arte totale” attraversando svariate discipline. Cresciuta in una famiglia di intellettuali nel cuore culturale del quartiere Tepebaşı di Istanbul, negli ultimi anni dell’Impero Ottomano, si dedica alla pittura e alla scultura presso l’Accademia di Belle Arti di Istanbul e alla formazione vocale sotto la guida di Nimet Vahit, una delle prime cantanti turche formate alla musica classica occidentale. È stata inoltre una stella dei primi film turchi, il che ha portato alla sua caratteristica acconciatura a caschetto nero. Fino ai novant’anni ha interpretato Arianna nell’Arianna a Nasso di Richard Strauss, Ayşim in Özsoy di Adnan Saygun, Leonore nel Fidelio di Beethoven, Azucena ne Il trovatore di Giuseppe Verdi e la protagonista della Tosca di Giacomo Puccini. A partire dagli anni Sessanta ha esposto la sua arte a Berlino, Bonn, Vienna, Istanbul, New York e Lussemburgo. Collocato sopra il suo letto, My Mother the Painter Fatma Saime (1965) figura come elemento chiave in Semiha Berksoy Room (1994), un’installazione profondamente biografica che l’artista

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ISTANBUL, TURCHIA 1910–2004

ottantenne ha creato all’interno del proprio appartamento utilizzando i dipinti di amici e i loro oggetti quotidiani. Il busto-ritratto della defunta madre, vittima a ventisette anni dell’influenza spagnola, fluttua in uno sfondo rosa pallido in cui da un’aureola bianca si dipanano raggi di luce irregolari e al tempo stesso carichi di vita. Gli occhi insolitamente grandi ricordano quelli dei ritratti funerari del Fayyum e qui l’artista dipinge la madre come un bellissimo cadavere e anche come una santa. Nonostante la presenza del sangue, imprescindibile, a esso è contrapposto un enorme fiore sbocciato, simile al sacro cuore, che simboleggia l’amore sconfinato della madre e l’eredità artistica trasmessa alla figlia a dispetto della morte. La decisa linea nera, che compare nella maggior parte dei dipinti di Berksoy, non vuole evocare la morte, bensì la vita terrena e ultraterrena. —Deniz Turker

My Mother the Painter Fatma Saime, 1965 Olio su masonite, 93 × 65 cm. Collezione Gallerist. Courtesy Galerist e Semiha Berksoy Estate. © Galerist e Semiha Berksoy Estate.


La vita di Georgette Chen può essere caratterizzata da due fasi: la prima – contraddistinta dai viaggi tra Cina, Stati Uniti ed Europa – durante la quale persegue la propria arte mentre attorno a lei si svolgono due guerre mondiali e la guerra civile cinese; la seconda, quando si stabilisce in una nuova casa a Singapore e insegna a una nuova generazione di artisti. Ciò che rimane costante nel corso della sua vita è la capacità di trovare ispirazione nella pluralità di culture con cui entra in contatto. Nata in Cina dalla ricca famiglia Zhang Jingjiang, Chen ha i mezzi per seguire un’educazione artistica classica. Si forma sotto la guida dell’artista russo Viktor Podgursky a Shanghai e successivamente presso accademie d’arte come l’Art Students League di New York e l’Académie Colarossi di Parigi. Il matrimonio nel 1930 con il diplomatico cinese Eugene Chen, nato a Trinidad, le permette di continuare la pratica artistica in Francia e in Cina. Dopo la Seconda guerra mondiale, nel 1951, si trasferisce

in Malesia per poi stabilirsi a Singapore nel 1953, dove diventa una figura di spicco nel mondo dell’arte. Self Portrait (1946 circa) attesta la permanente dedizione alla propria arte. Il volto in primissimo piano affronta l’osservatore con sguardo sicuro. I colori pastello utilizzati per l’incarnato contrastano con lo sfondo grigio e marrone, conferendo al dipinto un senso di austerità. In quel periodo l’artista aveva perso da poco il marito, Eugene Chen, ed è alla ricerca di un luogo tranquillo dove potersi riprendere e dipingere. Nonostante la tragedia personale, Chen rimane ferma nella volontà di affermarsi come artista. Tra il 1945 e il 1947 viaggia in Cina, realizzando opere in preparazione delle successive mostre personali a Shanghai (1947), New York (1949), Parigi (1950) e Singapore (1953). L’opera di Georgette Chen è esposta per la prima volta alla Biennale Arte. —Lim Shujuan

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ZHEJIANG, CINA, 1906 – 1993, SINGAPORE

Self Portrait, 1946 ca. Olio su tela, 22,5 × 17,5 cm. Collezione National Gallery Singapore. Courtesy National Heritage Board, Singapore; Lee Foundation.

NUCLEO STORICO • RITRATTI

Georgette Chen


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Saloua Raouda Choucair

BEIRUT, LIBANO, 1916-2017

Saloua Raouda Choucair è un’artista con la mente della poetessa, l’anima da architetta e la precisione di una matematica. Pur avendo ricevuto un’istruzione artistica formale, sceglie di ideare un proprio percorso di esplorazioni artistiche. Scopre il misticismo sufi e i fondamenti aritmetici dell’arte islamica durante un viaggio in Egitto nel 1943. Nel 1948, continua gli studi d’arte a Parigi, presso l’Académie des Beaux-Arts, e frequenta l’Atelier d’Art Abstrait; ha però sempre sottolineato che, prima ancora di incontrare le tendenze e le filosofie artistiche occidentali, è stata l’esposizione all’astrazione geometrica dell’arte islamica a plasmare la sua sensibilità artistica. Choucair si dedica alle sue sculture più rappresentative dopo il 1957; queste si compongono di parti modulari che possono essere assemblate e disassemblate – sculture che catturano il ritmo, l’armonia, la perfezione.

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Self-Portait, 1943 Olio su tavola, 44 × 32 cm. Courtesy Saloua Raouda Choucair Foundation.

In Self-Portrait (1943), Choucair esibisce la naturale universalità della sua tecnica. Luci e ombre sono viste come forme geometriche più che come tonalità, generando così ritmo e profondità. Questo quadro si trova a un crocevia di diverse epoche nell’opera dell’artista, e dimostra che l’avanguardismo di Choucair non è legato ad alcuna storia dell’arte specifica, ma piuttosto incarna con naturalezza molteplici storie in una. L’opera di Saloua Raouda Choucair è esposta per la prima volta alla Biennale Arte. —Fadia Antar


NUCLEO STORICO • RITRATTI

Chua Mia Tee – uno dei principali artisti realisti di Singapore, dove emigra nel 1937 in fuga dalla guerra sinogiapponese – è autore di alcune delle opere più iconiche della storia di questo paese, come ad esempio Epic Poem of Malaya (1955) e National Language Class (1959). Avendo rivelato precoci inclinazioni artistiche, sotto la guida di Chen Chong Swee, un altro emigrato cinese trasferitosi a Singapore, studia arte presso l’Accademia di Belle Arti di Nanyang di cui diventa poi docente. Chua figura come membro di spicco all’interno di due organizzazioni artistiche fondate a Singapore negli anni Cinquanta che si occupavano di arte per le masse: il Singapore Chinese High Schools’ Graduates of 1953 Arts Research Group e la Equator Art Society. Questi gruppi, composti da professionisti di varie discipline artistiche, credevano nel ritrarre la realtà della vita quotidiana e nel creare arte che elevasse la società. La Equator Art Society, in particolare, ha contribuito allo sviluppo dell’arte realista sociale a Singapore.

Road Construction Worker (1955) è il ritratto di un anonimo manovale. Il soggetto è seduto a terra, a torso nudo e a piedi nudi. Le vene sporgono dalle braccia e dalle mani, mentre il sudore gli cola dal collo e dalle ascelle, a testimonianza dello sforzo fisico del suo lavoro. Ha la barba non rasata, i capelli scuri arruffati e incolti, la fronte aggrottata e dirige verso l’osservatore uno sguardo struggente che pare implorare compassione. Chua, aderendo ai principi di

Road Construction Worker, 1955 Olio su tela, 96 × 66 cm. Collezione National Gallery Singapore. Courtesy National Heritage Board, Singapore.

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SHANTOU, CINA, 1931 VIVE A SINGAPORE

“verità, virtù e bellezza”, crede nella necessità di catturare non solo le sembianze fisiche dei propri soggetti, ma anche il loro spirito. Dipingendo questo individuo, l’artista rende omaggio ai lavoratori edili di Singapore, molti dei quali immigrati, che sono stati fondamentali per l’espansione delle infrastrutture del paese. L’opera di Chua Mia Tee è esposta per la prima volta alla Biennale Arte. —Clarissa Chikiamco STRANIERI OVUNQUE

Chua Mia Tee


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Julia Codesido

Julia Codesido è stata pittrice, incisora e docente, e, a partire dai primi decenni del XX secolo, anche attivista femminista. Nel 1900, a diciassette anni, Codesido si trasferisce con la famiglia in Europa dove nei successivi diciotto anni entra in contatto con le opere dei maestri europei. Tornata a Lima nel 1918, decide di diventare pittrice. Una delle prime donne a essere ammessa alla Escuela Nacional de Bellas Artes di recente fondazione, ne diventa in seguito una delle docenti più innovative. La filosofia di Codesido cambia direzione quando si iscrive ai corsi di José Sabogal, primo sostenitore dell’indigenismo pittorico in Perù, il cui obiettivo primario era la rivendicazione delle popolazioni indigene e la creazione di una visione più

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ampia e inclusiva della nazione. Pur essendo principalmente una pittrice, Codesido esplora anche la xilografia. I suoi lavori sono stati spesso pubblicati sull’influente rivista Amauta. Ispirata dall’indigenismo pittorico e dai frequenti viaggi in ogni angolo del suo Perù, Codesido sviluppa un distintivo linguaggio pittorico che ridefinisce l’identità nazionale abbracciandone le radici native. Nel suo lavoro, l’artista non solo esplora l’identità peruviana, ma rielabora altresì la figura femminile. Attivista femminista, all’inizio degli anni Venti Codesido fa parte di una serie di gruppi che difendevano i diritti delle donne sia nella sfera privata sia in quella pubblica. Dipinto con colori vivaci, Vendedora ayacuchana (1927) raffigura

LIMA, PERÙ, 1883–1979

una donna scalza avvolta in una tipica coperta peruviana; colpiscono i suoi splendidi lineamenti e lo sguardo profondo. Quest’opera, come tutta la produzione di Codesido di questo periodo, riflette il suo interesse per l’estetica e la sensibilità delle Ande. L’opera di Julia Codesido è esposta per la prima volta alla Biennale Arte. —Sonia Becce

Vendedora ayacuchana, 1927 Olio su tela, 95 × 110 cm. Museo de Arte de Lima. Comité de Formación de Colecciones 2017.


NUCLEO STORICO • RITRATTI

Dopo l’incontro con Toyo Kurimoto, che in seguito diventerà sua compagna di vita, Colson sperimenta una fase di trasformazione. Questa circostanza decisiva non solo lo spinge a integrare nei propri lavori elementi della cultura giapponese di Kurimoto, ma ne ispira anche il ritratto in uno stile frammentato con strati di colore che si fondono in modo organico. Nel 1926 Colson inizia la sua incursione nel Cubismo e Japonesa, realizzato in quell’anno, funge da precursore nell’evoluzione in questo ambito stilistico. La sua intensità cromatica, la purezza formale e l’intrinseca organicità non hanno pari nelle sue successive creazioni cubiste. Degno di nota è l’inserimento di cerchi neri che generano un nesso visivo tra cielo e terra, così come l’occhio solitario e penetrante, ottenuto attraverso un’incisione nel pigmento che scopre il legno sottostante. Colson usa la figura femminile come archetipo di serena santità. Si osservi la firma che scende in verticale con tratti che richiamano la calligrafia orientale. L’opera di Jaime Colson è esposta per la prima volta alla Biennale Arte. —Sara Herman

Japonesa, 1926 Olio su cartoncino, 35,5 × 41 cm. Photo Mariano Hernández. Courtesy Museo Bellapart. © Mariano Hernández 2024.

STRANIERI OVUNQUE

Jaime Colson è un artista originario di Tubagua, nella regione di Puerto Plata, nel nord della Repubblica Dominicana. La singolarità del luogo in cui nasce, una vivace città costiera, unita alla cultura variegata dei genitori – un mix di origini spagnole, nordamericane e dominicane, ciascuna con sostrati black e taíno – esercita una profonda influenza sulla sua opera artistica. Colson studia pittura alla Real Academia de Bellas Artes de San Fernando di Madrid e in seguito si stabilisce a Barcellona, instaurando legami con l’avanguardia catalana. Negli anni Venti reitera questo processo artistico immersivo a Parigi. Nel corso di cinquant’anni di carriera, il suo stile attraversa il Realismo, il Cubismo, il Surrealismo e una variante di Neoclassicismo che l’artista denomina Neo-umanismo. Il talento nello sperimentare diversi percorsi artistici si evidenzia nella varietà delle sue espressioni creative. Ciò che davvero definisce l’opera di questo artista è l’incrollabile impegno nei confronti della pittura come piattaforma ideologica ed emotiva. Questo sforzo indefesso promuove una transizione fluida e organica fra diversi vocabolari artistici.

PUERTO PLATA, REPUBBLICA DOMINICANA, 1901 – 1975, SANTO DOMINGO, REPUBBLICA DOMINICANA

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Jaime Colson


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Olga Costa

LIPSIA, GERMANIA, 1913 – 1993, GUANAJUATO, MESSICO

Olga Kostakowsky, più nota come Olga Costa, è stata una pittrice e un’influente promotrice culturale del Modernismo messicano. Nata in Germania nel 1913, a dodici anni emigra con la famiglia a Città del Messico, dove, nel 1933 e per un breve periodo, studia alla Scuola di Belle Arti con Carlos Mérida e Rufino Tamayo. Assieme a Diego Rivera, Frida Kahlo e María Izquierdo, tra gli altri, partecipa alla mostra inaugurale del Salón de la Plástica Mexicana nel 1949. Appassionata di arte e cultura, è stata cofondatrice di numerose gallerie e spazi artistici e di diversi musei nello stato di Guanajuato, come il Museo del Pueblo. Con mostre a New York, Parigi e Stoccolma, Costa è tra le più importanti rappresentanti femminili del Modernismo messicano, impegnata in questioni riguardanti l’identità messicana, i ruoli di genere e la vita quotidiana.

In Autorretrato (1947), incontriamo una pittrice sicura di sé nel patio di una casa tradizionale nella campagna messicana. Seduta all’ombra in una giornata afosa, Olga ci fissa con fermezza, soppesando i nostri sguardi invadenti. Forse è l’intensità dei suoi occhi azzurri, quasi turchesi – un tratto distintivo che di rado si riscontra tra gli abitanti del Messico –, a suscitare profonda ammirazione. Eppure, abbigliata con la tradizionale camicetta messicana e gli orecchini artigianali,

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Costa ci fa capire che appartiene allo stesso popolo, indipendentemente dalle sue origini. Dipinto nello stesso anno in cui Costa diventa cittadina messicana, Autorretrato rivela il suo impegno nei confronti della nuova patria, attraverso la rappresentazione della cultura di questo paese. L’opera di Olga Costa è esposta per la prima volta alla Biennale Arte. —Eva Posas

Autorretrato, 1947 Olio su tela, 90 × 75 cm. Photo Francisco Kochen. Collezione Andrés Blaisten. Courtesy Collezione Andrés Blaisten. © Francisco Kochen.


El Hueso (1940) raffigura un uomo indigeno con ombrello e cappello tranquillamente seduto, vestito di tutto punto – una scelta di abiti che si addice a un “uomo moderno” – con accanto un osso. In attesa in quello che sembra essere un portico da qualche parte nel Messico rurale, l’uomo ha un barlume di tristezza negli occhi. Conosciuta anche con il titolo Maestro Rural, la tela mostra un insegnante in attesa di un hueso, che in gergo significa ottenere un lavoro grazie al favore del politico in carica. In questo caso, la spilla sul bavero indica che l’uomo

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sta aspettando qualcuno del Partito Rivoluzionario Istituzionale, fondato nel 1929 e che ha mantenuto il controllo ininterrotto del paese per settantuno anni. Mentre ritrae la vita quotidiana nelle campagne, Covarrubias dipinge una sottile critica alla situazione politica e sociale della modernizzazione del Messico. L’opera di Miguel Covarrubias è esposta per la prima volta alla Biennale Arte. —Eva Posas

El Hueso, 1940 Olio su tela, 35,6 × 26 cm. Courtesy Instituto Nacional de Bellas Artes y Literatura; Museo Nacional de Arte, Città del Messico.

NUCLEO STORICO • RITRATTI

Miguel Covarrubias è stato un pittore, scrittore, illustratore e documentarista delle culture indigene dotato di umorismo tagliente e occhio satirico, la cui ricerca etnografica avrebbe esercitato un grande impatto sull’identità nazionale del Messico dopo la Rivoluzione. Nato a Città del Messico nel 1904, a diciannove anni si reca a New York, dove inizia a lavorare per riviste come Vanity Fair, e dove conosce artisti del calibro di Tina Modotti, Edward Weston, Diego Rivera e Frida Kahlo. Negli anni Trenta percorre l’Asia e al suo ritorno in Messico, negli anni Quaranta, esplora il paese alla ricerca della cultura messicana. I libri che ne sono risultati sono Mexico South: The Isthmus of Tehuantepec (1946) e Indian Art of Mexico and Central America (1957). Sebbene i suoi richiami all’Art Déco possano aver rafforzato alcuni stereotipi attraverso un occhio esterno, Covarrubias documenta le culture non occidentali, ammirando ciò che ai suoi tempi era ancora inosservato e rifiutato.

CITTÀ DEL MESSICO, MESSICO 1904–1957

STRANIERI OVUNQUE

Miguel Covarrubias


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Djanira da Motta e Silva

“Dipingere e viaggiare sono i verbi del mio destino”: così Djanira da Motta e Silva ha definito il proprio percorso artistico. Pittrice autodidatta, Djanira – come preferiva essere chiamata – emerge sulla scena artistica brasiliana negli anni Quaranta. Figlia di madre austriaca e di padre di origine indigena, l’artista trascorre l’infanzia e l’adolescenza nei remoti dintorni di San Paolo. Alla fine degli anni Trenta si trasferisce a Rio de Janeiro, dove si dedica alla pittura e instaura rapporti professionali e affettivi con i suoi contemporanei. L’ambiente artistico degli anni Quaranta a Rio de Janeiro è caratterizzato dalla presenza dei rifugiati di guerra europei,

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dal mecenatismo pubblico dell’Estado Novo (la Terza Repubblica brasiliana) e dall’assorbimento delle rotture formali e tematiche provocate dall’avanguardia modernista degli anni Venti. In tale contesto, l’opera di Djanira attira l’interesse dei critici d’arte, che la classificano come “naïve” e “primitiva”, etichette che l’artista contesta con forza per tutta la sua vita. Interessata alla vita quotidiana, alla cultura vernacolare brasiliana, alle rappresentazioni del lavoro e dei lavoratori e alla varietà culturale del paese, Djanira percorre il Brasile traducendo in dipinti la realtà che insisteva a vedere da vicino. In una dichiarazione del

AVARÉ, BRASILE, 1914 – 1979, RIO DE JANEIRO, BRASILE

1976, la pittrice afferma che questa esperienza si è rivelata “più ricca di insegnamenti plastici rispetto alla sterilità di formalismi non sentiti né vissuti”. Nel 1960, si reca nel Maranhão, nel nord-est del Brasile, dove trascorre del tempo con il popolo canela (oggi autodefinitosi timbira). In una rappresentazione del tutto priva di romanticismo, due bambini mostrano le pitture sul loro corpo, mentre le gambe e i piedi si confondono con le radici dell’albero che li sostiene. Quest’opera non solo riflette l’interesse di Djanira per il grafismo indigeno, ma segna l’incontro dell’artista con la propria ascendenza indigena,

Crianças Kanelas, 1960 Olio su tela, 130 × 97 cm. Photo Jaime Acioli. Courtesy Pinakotheke, Rio de Janeiro. © Jaime Acioli.

in parte persa nel processo di miscegenazione, ma sempre rivendicata dall’artista come propria origine. L’opera di Djanira da Motta e Silva è esposta per la prima volta alla Biennale Arte. —Isabella Rjeille


NUCLEO STORICO • RITRATTI

Artista precoce, Emiliano Di Cavalcanti inizia il suo percorso artistico all’età di diciotto anni nel mondo della caricatura e delle vignette per riviste e quotidiani. Nato a Rio de Janeiro, Cavalcanti approda a San Paolo nel 1917, insieme ai vari gruppi di artisti, pittori e scrittori che si stavano mobilitando per il festival della Settimana dell’Arte Moderna, per cui realizza anche il manifesto e la copertina del catalogo. La grande contraddizione del Modernismo brasiliano era la stessa che opprimeva Cavalcanti e il suo lavoro: da un lato si difendeva la necessità di “aggiornare” l’arte brasiliana traendo spunto da ciò che avveniva nelle avanguardie europee, in particolare il Cubismo, mentre dall’altro si cercava di ricollegare l’arte brasiliana a un’idea di “identità nazionale”, una ricerca di radici perdute che portava a interessarsi a una cultura brasiliana “popolare”.

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RIO DE JANEIRO, BRASILE, 1897–1976

Três mulatas (moças do interior) (1922) vuole rappresentare uno stereotipo tipicamente brasiliano, quello della mulata, un termine usato in Brasile in modo razzista e discriminatorio per designare le persone di etnia mista. Riferendosi al tema classico delle “tre Grazie”, la donna in primo piano volta le spalle alle altre due, ognuna osserva in una direzione diversa e non si rivolgono lo sguardo; una costruzione che rafforza l’opposizione tra il senso di reciproca unità e l’isolamento in cui ciascuna versa. La singolarità di ognuna è accentuata anche dalla

Três mulatas (moças do interior), 1922 Olio su tela, 60 × 50 cm. Photo Instituto Tomie Ohtake. Collezione Igor Queiroz Barroso, Fortaleza. Courtesy Instituto Tomie Ohtake.

differenza di tonalità della pelle, che contrasta con i colori degli abiti. Come in altre rappresentazioni di donne realizzate in questa fase, il titolo “Ragazze di campagna” (moças do interior), insieme alla semplicità degli abiti e all’assenza di gioielli o di qualsiasi altro ornamento, evidenzia le umili origini sociali dei personaggi, in un’idealizzazione del povo (gente comune) tipica della classe sociale e dell’elitarismo di molti modernisti brasiliani. —Fernando Oliva

STRANIERI OVUNQUE

Emiliano Di Cavalcanti


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Cícero Dias

Cícero Dias – nato in una piantagione di zucchero nel nord-est del Brasile – ha vissuto tra Parigi e Recife, la capitale del suo stato natale. È stato il più longevo di tutti i modernisti brasiliani e la sua opera spazia da dipinti a tema regionalistico all’astrazione geometrica. Nei lavori figurativi, le reminiscenze dell’infanzia in campagna si fondono con la cultura popolare, occupando la superficie della tela come fossero collage disposti secondo una logica molto particolare, in cui, a detta dell’artista, “non regna la legge del tempo e dello spazio”. Già prima del viaggio in Francia, la produzione artistica di Dias è stata associata a quella di Marc

Chagall per via delle figure fluttuanti e sproporzionate rispetto al paesaggio. Nel 1948 realizza un murale astratto per il Dipartimento delle Finanze di Recife, considerato il primo del suo genere nel paese. Negro (anni Venti) è un commento critico sulla condizione degli ex schiavi (liberati per legge nel 1888) nel contesto di un Brasile ancora agricolo. Il senso di non appartenenza, solitudine e incomunicabilità è trasmesso attraverso i toni neri e ocra utilizzati per il protagonista in primo piano, che si contrappongono ai toni chiari e vivaci usati nel resto del dipinto. Inoltre, il fatto che

ESCADA, BRASILE, 1907 – 2003, PARIGI, FRANCIA

il protagonista non guardi nella stessa direzione delle altre figure, messo all’angolo dalla coppia di donne che gli impediscono il passaggio, esalta queste emozioni. Il suo sguardo è rivolto allo spettatore, ma l’espressione indica che i suoi pensieri sono lontani. La direzione dello sguardo è infatti diametralmente opposta a quella del volo dell’uccello nero libero. Il collegamento tra queste due realtà antagoniste (la libertà dell’uccello e la reclusione del protagonista) è messo in atto da chi osserva, che assiste a questa disparità. —Regina Barros

Negro, 1920s Olio su tela, 79 × 52 cm. Photo Sergio Guerini. Courtesy Almeida & Dale Galeria de Arte. © Segio Guerini.


BUENOS AIRES, ARGENTINA, 1925 – [LUOGO E DATA IGNOTI]

NUCLEO STORICO • RITRATTI

Juana Elena Diz, pittrice, stampatrice e ceramista, nasce in Argentina nel 1925. Nel suo lavoro, incentrato sulla generale solitudine delle donne lavoratrici indigene, crea un approccio singolare al realismo modellando i corpi in strutture geometriche solide, quasi monumentali e costruendo l’intimità emotiva con colori desaturati e spazi vuoti. È nota per essere l’unica donna all’interno del Grupo Espartaco (1959–1968), un collettivo di artisti che rivendicava l’eredità del muralismo messicano. Il gruppo promuoveva una visione dell’arte che privilegiava la sperimentazione formale con motivi regionali, ponendosi come azione rivoluzionaria contro il colonialismo culturale dell’arte d’avanguardia degli anni Sessanta. Insieme ai colleghi Ricardo Carpani, Mario Mollari, Juan Manuel Sánchez e Carlos Sessano, tra gli altri, partecipa a numerose mostre in Argentina, Stati Uniti ed Europa. Nel 1975 emigrò alle Isole Baleari, in Spagna, e di lei non si seppe più nulla.

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Juana Elena Diz

Lavandera, s.d. Olio su tela, 127,8 × 97,9 cm. Collezione del Museo de Arte Moderno di Buenos Aires.

Modernismo. In questo dipinto, Diz cattura un momento di introspezione che interrompe il peso del lavoro. È una caratteristica distintiva del suo lavoro: le donne sono spesso rappresentate con espressioni assenti, bloccate nei loro pensieri, ricordi e sogni, forse inseguendo un fugace senso di libertà. L’opera di Juana Elena Diz è esposta per la prima volta alla Biennale Arte. —Nicolas Cuello

STRANIERI OVUNQUE

Come altri membri del Grupo Espartaco, Diz attinge a una serie di riferimenti formali e pittorici, tracciando in Lavandera il ritratto di una donna indigena in posizione statica, con lineamenti sproporzionati e toni terrosi. Diz non solo infonde un senso di monumentalità alla forma geometrica della donna, di cui di solito sperimenta i contorni, ma crea altresì una rappresentazione decolonizzata del corpo femminile utilizzando il vocabolario visivo del


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Tarsila do Amaral

Tarsila do Amaral è stata una delle più grandi artiste moderniste brasiliane del XX secolo. Nata a Capivari, nella campagna dello stato di San Paolo, da una famiglia di agricoltori benestanti, studia a Barcellona e a Parigi. Nella capitale francese, tra il 1920 e il 1923, inizialmente riceve una formazione tradizionale presso l’Académie Julian sotto la guida dell’artista accademico Émile Renard, prima di proseguire gli studi con i cubisti André Lhote e Albert Gleizes e di frequentare lo studio di Fernand Léger. Al suo rientro in Brasile, si unisce al gruppo modernista di San Paolo, composto da Anita Malfatti, Oswald de Andrade (che sposerà), Mário de Andrade e Paulo Menotti Del Picchia. La sua carriera professionale prosegue anche a Parigi, dove partecipa alle prime mostre collettive (il Salon de la Société des artistes français al Grand Palais, 1922; il Salon des Indépendants al Palais de Bois, 1926); le sue prime due mostre personali si tengono alla Galerie Percier, nel 1926 e nel 1928.

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Do Amaral realizza Estudo (Academia n. 2) (1923) dopo i suoi studi di pittura con Lhote e Gleizes: l’opera rivela chiare influenze cubiste, in particolare nelle costruzioni volumetriche e geometriche, ravvisabili nel corpo della donna al centro, nei mobili, nella vegetazione sulla destra e nel paesaggio incorniciato sullo sfondo. Tuttavia, la tipica luminosità che caratterizza l’opera dell’artista, e che raggiungerà il suo apice nella fase Pau-Brasil (19241928), è già evidente qui nei

CAPIVARI, BRASILE, 1886 – 1973, SAN PAOLO, BRASILE

toni bluastri e rossastri, ma soprattutto nella vegetazione vicino alla schiena della donna, una pianta tropicale del luogo, la stessa delle rappresentazioni assurde nella sua fase antropofagica (1929-1930). Do Amaral ha esposto alla Biennale di Venezia nel 1964. —Fernando Olivia

Estudo (Academia no. 2), 1923 Olio su tela, 61 × 50 cm. Photo Diego Bresani. Collezione privata. Courtesy Almeida & Dale Galeria de Arte. © Diego Bresani.


Istriku [My Wife], 1953 Olio su tela, 102 × 83 cm. Courtesy National Gallery of Indonesia.

Istriku (1953) rivela la sua superiorità realista-romantica nel rappresentare figure femminili come soggetto principale. Come suggerisce il titolo, la figura in questo dipinto è la moglie, Jan Jaerabby Fatima. La si vede seduta e in posa come modella nello studio, con il tradizionale kebaya e un ventaglio in mano. Oltre all’impegno sostanziale nei confronti dei temi nazionalisti, dell’umanesimo e dei valori locali, Dullah è noto come ritrattista abile nel rappresentare l’umanità e la

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bellezza naturale dell’Indonesia e della sua gente. Oltre a Istriku, Dullah ha dipinto altre figure, tra cui Halimah Gadis Atjeh (Halimah la ragazza Atjeh, 1950) e Ni Samprik (1952), entrambe appartenenti alla collezione del primo presidente indonesiano Sukarno. L’opera di Dullah è esposta per la prima volta alla Biennale Arte. —Asep Topan

NUCLEO STORICO • RITRATTI

Dullah è stato una figura fondamentale nella nascita della pittura rivoluzionaria in Indonesia durante la Rivoluzione nazionale (1945-1949). Nel corso dell’occupazione olandese di Yogyakarta (1948-1949), guida un gruppo di giovani artisti, invitandoli a dipingere e disegnare direttamente per documentare la storia della lotta nazionale. L’evento spinge i suoi contemporanei a definirlo “pittore rivoluzionario”. Realista convinto, Dullah vede nel proprio realismo anche un mezzo per difendere i contadini e la gente di campagna. Proveniente da una famiglia di fabbricanti di batik di Surakarta, Dullah impara a dipingere da S. Sudjojono e Affandi quando era membro del Seniman Indonesia Moeda (Giovani artisti indonesiani) e si fa conoscere come maestro nel ritratto. Nel 1950 viene nominato pittore del palazzo presidenziale indonesiano. Durante i dieci anni di servizio, il suo compito speciale è quello di curare e rinnovare i dipinti della collezione del palazzo del presidente Sukarno.

SURAKARTA, INDONESIA, 1919 – 1996, YOGYAKARTA, INDONESIA

STRANIERI OVUNQUE

Dullah


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Inji Efflatoun

IL CAIRO, EGITTO, 1924–1989

Prisoner, noto anche con il titolo Ahlam al-sitt Bahanna (1963), viene dipinto durante i quattro anni di detenzione. L’artista, una donna dell’alta società, si è impegnata a comprendere più a fondo la realtà del popolo egiziano e ha definito la prigione un’opportunità per entrare in contatto con le donne svantaggiate. Attraverso i numerosi ritratti delle compagne di detenzione, Efflatoun ha voluto denunciare gli effetti devastanti della povertà sulle donne. Ahlam al-sitt Bahanna, o “I sogni di Bahanna”, mostra una detenuta, indicata con il nome di battesimo, che ricama un indumento a fantasia destinato al bambino che spera di concepire. Questa immagine di una prigioniera che ricama è la testimonianza di un evento specifico: le detenute avevano ottenuto il diritto di svolgere lavori manuali in seguito a uno sciopero della fame a cui la stessa Efflatoun aveva partecipato.

Inji Efflatoun – artista e attivista femminista, marxista e anticolonialista – nasce in una famiglia aristocratica turcocircassa. Impara a dipingere con Kamel el-Telmissany, membro del gruppo surrealista Art et Liberté al quale si unisce quando è ancora adolescente. Negli anni Quaranta pubblica libri e articoli politici e viaggia in tutta Europa come attivista. Negli anni Cinquanta, usa la propria arte per condannare le disuguaglianze di genere e la guerra, e per celebrare i lavoratori. Gli anni dal 1959

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al 1963 la vedono prigioniera politica sotto il regime di Gamal Abdel Nasser. Dopo il suo rilascio, dipinge principalmente paesaggi rurali e scene di lavoro nei campi, lasciando visibile gran parte della tela sottostante e definendo questo nuovo stile “la luce bianca”. Nel corso della sua attività in Egitto, fa frequenti viaggi all’estero ed espone a San Paolo (1953), Parigi e Roma (1967), Mosca, Varsavia, Berlino Est e Dresda (1970), Belgrado (1974), Sofia (1975), Praga (1976), Nuova Delhi (1979) e Kuwait (1988).

Le opere di Inji Efflatoun sono state esposte alla Biennale Arte nel padiglione dell’Egitto nel 1952 e nel 1968 e nel Padiglione Centrale nel 2015. —Nadine Atallah

Prisoner, 1963 Olio su legno, 50 × 38 cm. Photo Maria e Mansour Dib. Courtesy Ramzi e Saeda Dalloul Art Foundation.


NUCLEO STORICO • RITRATTI

Uzo Egonu è stato descritto come un solitario, un bambino prodigio e uno studioso della cultura nigeriana Nok. Sostenuto dal padre, Egonu arriva in Inghilterra alla fine del 1945, dove viene prontamente iscritto a una scuola privata e subito sottoposto alla dura esperienza di essere l’unica persona nera. Riservato e laborioso, lascia il Norfolk per Londra e si iscrive al Camberwell College of Arts dove si diploma nel 1951. Nel 1953 si trasferisce a Parigi per un anno, trascorrendo il tempo in musei e gallerie, soprattutto al Musée de l’Homme. Nel 1959, deciso a perfezionare il disegno, Egonu frequenta i corsi serali della St. Martins School of Art. Rimane nel Regno Unito, seguendo con attenzione gli eventi sul continente. Nel 1983, l’International Association of Art lo ammette nel gruppo di consiglieri a vita, onore conferito in precedenza, tra gli altri, a Henry Moore, Joan Miró e Louise Nevelson.

I primi anni Sessanta sono gli anni dell’indipendenza in Africa; per gli artisti in esilio si tratta di un momento di orgoglio nazionalista ed Egonu non fa eccezione. Di tenore vagamente fauvista, la sua produzione è caratterizzata da una tavolozza di blu, giallo e nero che emerge in tutta la sua forza in Guinean Girl (1962). Caratterizzato da una deliberata ingenuità, dallo sprezzo per la precisione fisionomica e animato dalla determinazione a sentire con il colore, questo animato ritratto sottolinea i lineamenti

Guinean Girl, 1962 Olio su tela, 76 × 63,5 cm. Photo Justin Piperger. Courtesy Grosvenor Gallery, Londra.

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ONITSHA, NIGERIA, 1931 – 1996, LONDRA, REGNO UNITO

del soggetto, i grandi occhi, il portamento e i modi assertivi. L’abbigliamento nazionale è reso in maniera minuziosa e la collana, che scende sulla spalla, suggerisce che la donna si è appena avvicinata. Un anno dopo aver realizzato Guinean Girl, Egonu tiene la sua prima grande personale alla Woodstock Gallery di Londra. L’opera di Uzo Egonu è esposta per la prima volta alla Biennale Arte. —Nancy Dantas STRANIERI OVUNQUE

Uzo Egonu


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Hatem El Mekki

Hatem El Mekki – nato a Batavia (attuale Giacarta) da padre tunisino e madre indonesiana di origine cinese – si trasferisce nel paese del padre all’età di sei anni. Frequenta il liceo Carnot di Tunisi, dove apprende la tecnica dell’acquarello cinese, prima di recarsi a Parigi con una borsa di studio governativa. Parigi lo vede artista in residenza presso la prestigiosa Cité internationale des arts e durante questo periodo produce illustrazioni, lavora nel cinema e collabora con la rivista francese Marianne. Tornato in Tunisia nel 1939, tiene le sue prime mostre personali ad Algeri e a Tunisi, che riscuotono grande successo. Nel 1947 si trasferisce nuovamente a Parigi per un breve periodo, esponendo in varie gallerie e incontrando intellettuali di spicco quali Albert Camus, Gaston Bachelard e Gertrude Stein. Rientrato a Tunisi nel 1951, El Mekki realizza murales pubblici e disegna oltre 450 francobolli tunisini.

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La Femme et le coq (anni Cinquanta) raffigura una donna che tiene in braccio un gallo su uno sfondo nero. La figura e l’uccello sono entrambi resi come semplici silhouette, distinte solo da un contorno bianco quasi a gesso e dai bargigli rossi sulla testa del gallo. La donna punta gli occhi spalancati direttamente sull’osservatore mentre le braccia – tracciate in maniera

La Femme et le Coq, anni Cinquanta Olio su tela, 64,7 × 50 cm. Collezione Barjeel Art Foundation, Sharja. Courtesy Barjeel Art Foundation, Sharja.

GIACARTA, INDONESIA, 1918 – 2003, CARTAGINE, TUNISIA

affrettata e quasi macabra – stringono il volatile. In molte culture il gallo è considerato simbolo di speranza e di una nuova alba, e nel contesto del dipinto di El Mekki può essere letto come segnale della liberazione della Tunisia dal protettorato coloniale francese, avvenuta tra il 1952 e il 1956. —Suheyla Takesh


OMDURMAN, SUDAN, 1930 VIVE A OXFORD, REGNO UNITO

NUCLEO STORICO • RITRATTI

Ibrahim Mohamed El-Salahi, oggi conosciuto come Ibrahim El Salahi, è uno dei più rinomati artisti moderni del Sudan, nonché membro illustre della Scuola di Khartoum, fondata nel 1961 da un gruppo di artisti con l’obiettivo di sviluppare un nuovo vocabolario visivo per una nazione indipendente. Il padre di Salahi era un rispettato capo religioso dell’Istituto islamico e della scuola coranica di Omdurman, dove il giovane Salahi viene educato a osservare l’importanza e il significato della lettera nella calligrafia araba. Ottenuta una borsa di studio dal governo sudanese per studiare nel Regno Unito, entra alla Slade School of Art (19541957), dove incontra l’artista tanzaniano Sam Joseph Ntiro e la portoghese Paula Rego. In cambio della borsa di studio, Salahi accetta di insegnare alla Scuola di Belle Arti e Arti Applicate di Khartoum di cui assume la direzione a partire dal 1960. Con i colleghi, Salahi si dedica alle culture e alle tradizioni del Sudan, organizzando viaggi semestrali nella città di Wadi Halfa, a Suakin, sulle colline del Mar Rosso e sui Monti Nuba. circondate da mezzelune, lune nuove e profili astratti; una visualizzazione di qualcosa di simile a un’attrazione gravitazionale, che suggerisce il trapasso dell’amato padre in una composizione che traduce l’evanescenza e la crescente distanza dell’ultimo respiro del patriarca. The Last Sound compare in Postwar: Art Between the Pacific and the Atlantic, 1945-1965 (2016) a cura fra gli altri di Okwui Enwezor e in Surrealism Beyond Borders (2021). — Nancy Dantas

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Dopo la morte del padre, avvenuta nell’ottobre del 1964, Salahi inizia a lavorare al gruppo di dipinti che comprende The Last Sound (1964), il cui titolo allude alla preghiera sufi: “Chi si profuma per Allah, l’Altissimo, sarà innalzato nel Giorno della Resurrezione, profumando più del muschio dolce”. Questa preghiera di addio è l’ultimo suono udito quando il corpo lascia il regno terreno. Nella sua visione di questo momento, resa con i colori della terra del Sudan – calda terra di Siena e ocra diafana –, Salahi presenta linee radiali

The Last Sound, 1964 Olio su tela, 121,5 × 121,5 cm. Collezione Barjeel Art Foundation, Sharja. Courtesy Barjeel Art Foundation, Sharja.

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Ibrahim El-Salahi


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Ben Enwonwu

ONITSHA, NIGERIA, 1917 – 1994, LAGOS, NIGERIA

Ben Enwonwu è riconosciuto come pioniere della seconda fase del Modernismo nigeriano (1930–1960), periodo questo caratterizzato dall’anti-europeizzazione e dall’anticolonialismo radicale. Nato dalla nobile famiglia di Umueze-Aroli, nel 1944 riceve una borsa di studio per studiare in Gran Bretagna dove si diploma in Belle Arti presso la Slade School of Fine Arts, proseguendo poi con una laurea in antropologia. Nel 1954, diventa membro dell’Ordine dell’Impero Britannico. Nel 1956 gli viene commissionato un ritratto della regina Elisabetta II, diventando il primo artista africano a realizzare il ritratto di un monarca europeo. La sua decisione di rappresentare la regina con labbra più carnose – un abile gioco provocatorio (definito da uno storico dell’arte “imposizione inversa”) – scatenò polemiche nel mondo dell’arte imperiale britannico, che lo accusò di “africanizzare” la regina.

The Dancer (1962) riprende il tema della masquerade africana che attraversa e soffonde l’opera dell’artista. Qui celebra l’Agbogho Mmuo, la rappresentazione Igbo che onora ragazze e antenate nubili attraverso lo Spirito di una Fanciulla. Impersonato da uomini, Enwonwu cattura la molteplicità e l’elusività dell’Agbogho Mmuo; mobile, trasfigurato e indeterminato, colto a metà del volo, con un sontuoso copricapo di pennacchi multicolori che rimbalzano, punteggiati di morbidissime piume che sfiorano leggere il volto bianco come il gesso del portatore dello spirito. L’artista cattura l’Agbogho Mmuo in posizione intermedia – braccia, gambe e mani tese in posa transitoria – sospeso su uno sfondo di pennellate blu impressioniste, utilizzate con effetto dinamico. I toni contrastanti accentuano l’abbagliante danzatore richiamando l’attenzione su un corpo densamente ricoperto da ricchi motivi e colmo di riferimenti e oggetti carnevaleschi. L’opera di Ben Enwonwu è esposta per la prima volta alla Biennale Arte. —Nancy Dantas

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The Dancer (Agbogho Mmuo - Maiden Spirit Mask), 1962 Olio su tela, 93 × 62 cm. Photo Ben Uri Gallery and Museum. Courtesy Ben Uri Gallery and Museum. © Estate Ben Enwonwu.


Le Gardien de la vie, 1967-1968 Olio su tela, 132 × 100 cm. Collezione Barjeel Art Foundation, Sharja. Courtesy Barjeel Art Foundation, Sharja.

Dipinto all’indomani della guerra arabo-israeliana del 1967, Le Gardien de la vie offre un’immagine di forza ma anche di cautela: il soldato tiene saldamente il fucile in una mano, mentre con l’altra teneramente ripara e protegge le persone nella loro vita quotidiana. Oltre la mano a coppa del soldato, a destra, compare un paesaggio deserto e un albero spoglio, a suggerire la perdita della penisola del Sinai da parte dell’Egitto durante la guerra

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del 1967. In lontananza, sono raffigurati una piantagione, un villaggio, una fabbrica e un gruppo di lavoratori. L’opera di Hamed Ewais è esposta per la prima volta alla Biennale Arte. —Suheyla Takesh

NUCLEO STORICO • RITRATTI

Hamed Ewais si diploma alla Madrasat al-funun al-jamila (scuola di Belle Arti) del Cairo nel 1944, sotto la guida del pedagogo e critico Youssef el-Afifi, per poi proseguire gli studi presso la Real Academia de Bellas Artes de San Fernando a Madrid tra il 1967 e il 1969. Il 1947 lo vede cofondatore del Gruppo di Arte Moderna insieme ad artisti e artiste quali Gamal el-Sigini, Gazbia Sirry e Zeinab Abdel Hamid, e tra il 1977 e il 1979 è il direttore della Facoltà di Belle Arti di Alessandria. Nel 1956 riceve il Guggenheim International Award. Influenzato da figure chiave del muralismo messicano come Diego Rivera e David Alfaro Siqueiros, Ewais sceglie di operare con uno stile estetico che riflette le sue inclinazioni politiche socialiste, ponendo in evidenza la condizione della classe operaia egiziana. Un momento chiave per l’artista è la visita alla Biennale di Venezia del 1952, dove incontra i pittori italiani del Realismo Sociale. In Le Gardien de la vie (1967–1968), Ewais dipinge un soldato sovradimensionato che incombe protettivo sopra un gruppo di civili egiziani impegnati in una serie di attività quotidiane: un matrimonio, una madre che allatta, bambini che vanno in bicicletta, uno scienziato che esegue un esperimento, una coppia che si abbraccia affettuosamente.

BENI SOUEIF, EGITTO, 1919 – 2011, IL CAIRO, EGITTO

STRANIERI OVUNQUE

Hamed Ewais


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Dumile Feni

WORCESTER, SUDAFRICA, 1939 – 1991, NEW YORK, USA

Dumile Feni inizia la propria carriera come pittore di murales e apprendista in una fonderia di Johannesburg negli anni Sessanta, prima di un esilio volontario a Londra nel 1968, a causa della minaccia di arresto, e del suo successivo trasferimento a New York. Feni è stato criticato dai suoi contemporanei per avere esposto soggetti legati all’apartheid durante la sua partecipazione alla Bienal de São Paulo nel 1967 e gli è stata perfino attribuita l’etichetta di “Goya delle Township” per avere ritratto la sofferenza della popolazione nera. Considerato a un certo punto della sua vita maestro dell’immaginario turbolento, negli anni Sessanta e Settanta passa a una nuova estetica che celebra l’aspetto spirituale ispirato dalla letteratura, dalla danza e dalla musica. Scegliendo di mettere in evidenza la speranza piuttosto che la disperazione, reagisce allo stile prevalente della “Township Art”, che spesso ricorreva a immagini senza speranza e trasforma la propria arte in un’aspirazione fiduciosa e rivolta al futuro.

Head (1981 circa) presenta un motivo ricorrente nell’opera di Feni: incentrato sulla testa di una figura maschile, il soggetto è caratterizzato dal volto allungato su un lungo collo. Composta da linee decise e da un’attenzione particolare alla forma del viso e della testa, l’opera colpisce per l’equilibrio, che ricorda Brancusi, di curve morbide e linee definite con cui vengono raffigurati i lineamenti. La fronte e gli zigomi sembrano

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formare i tratti di una maschera o di una corazza, suggerendo un riferimento ai copricapi tradizionali. Realizzata in bronzo, la scultura è un riferimento alle maschere e alle tradizionali figure africane intagliate nel legno. L’opera di Dumile Feni è esposta per la prima volta alla Biennale Arte. —Heba Elkayal

Head, 1981 ca. Bronzo, 52 × 18,5 × 26 cm. Courtesy Norval Foundation. Photo Amber Alcock.


Toccata nel profondo dalla Guerra civile spagnola, fu sostenitrice della lotta internazionale contro il fascismo. Le serie España ed El Drama, prodotte fra il 1937 e il 1950, manifestano la sua disperazione. Attraverso la complessa iconografia che circonda la sua figura in Autorretrato, che appartiene alla seconda di queste serie, Forner racconta gli effetti della guerra in prima persona. In primo piano, l’artista regge tre pennelli; nel mappamondo, sulla parte destra della tela, l’Africa e l’Europa sono parzialmente nascoste dalle pagine insanguinate di un giornale sgualcito. Al centro, una colomba morta giace sul palmo di una mano e due donne in lutto si abbracciano di fronte a un corpo esanime. Come contrappunto spaziale e simbolico, la parte sinistra della tela mostra una mappa dell’Argentina con un fascio di spighe. È in quella terra dell’abbondanza che l’artista ha scelto la propria casa e ha formato una famiglia. In lontananza, minuscoli paracadutisti discendono su una terra desolata. In questo dipinto e in altri, l’artista elabora il trauma del suo tempo. —Sonia Becce

Autorretrato, 1941 Olio su tela, 186 × 141 cm. Collezione Museo Provincial de Bellas Artes Emilio Pettoruti. Courtesy FornerBigatti Foundation, Buenos Aires.

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Raquel Forner, figura iconica dell’arte argentina, riuscì a superare le sfide implicite nell’essere una donna artista nella sua epoca. A dodici anni fece con la famiglia un viaggio in Spagna, luogo natale del padre; lì sperimentò un risveglio artistico dinanzi ai capolavori spagnoli. Fece ritorno in Europa nel 1929 per studiarvi arte e visitò l’Italia, la Spagna, il Marocco e la Francia. Come altri artisti argentini in Europa – fra loro Lino Enea Spilimbergo, Antonio Berni e lo scultore Alfredo Bigatti, che sarebbe poi diventato suo marito – si unì al Grupo de París. Rientrata a Buenos Aires, iniziò a lavorare a una serie di opere che, insieme, costituiranno un vasto universo. La sua sincera preoccupazione per le sofferenze umane è evidente nella maggior parte dei suoi dipinti, che raffigurano al centro una donna, sola o in gruppo.

BUENOS AIRES, ARGENTINA, 1902–1988

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Raquel Forner


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Enrique Grau Araújo

Enrique Grau Araújo – pittore, scultore, scenografo, incisore, regista e docente – è esponente di spicco del Modernismo colombiano. Nato a Panamá da una famiglia benestante, riceve sin da giovane una formazione artistica non ufficiale. La sua carriera registra una svolta decisiva nel 1940, quando presenta al primo Salón de Artistas Colombianos l’emblematico dipinto La mulata cartagenera (1940), un ritratto di donna caraibica. Il successo di quest’opera gli permette di ottenere una borsa di studio dal governo colombiano per studiare pittura e grafica all’Art Students League di New York, dove si immerge nelle idee dell’avanguardia e studia sotto la guida dell’espressionista tedesco George Grosz. Al suo ritorno in Colombia nel 1943, si stabilisce a Bogotá e si unisce a un gruppo di giovani artisti – tra cui Edgar Negret, Alejandro Obregón e più tardi Cecilia Porras – che cercano di modernizzare la scena artistica colombiana, promuovendo la rappresentazione di temi nazionali e la ricerca di un’identità artistica locale.

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Hombre Dormido (1945) ritrae la monumentale figura di un uomo raggomitolato e addormentato su una coperta bianca. L’opera rivela un legame con l’estetica del Muralismo messicano e l’interesse dell’artista a rappresentare la popolazione indigena e afrocolombiana all’interno di un programma di riappropriazione culturale. Nei decenni successivi Grau Araújo esplora l’astrazione e il Surrealismo. Co-dirige, con Gabriel García Márquez e Álvaro Cepeda Samudio, il pionieristico cortometraggio

PANAMA, 1920 – 2004, BOGOTÁ, COLOMBIA

surrealista latinoamericano La langosta azul (1954). Nel 1955, dopo aver visitato il Messico per studiare di persona il Muralismo, si reca a Firenze, dove rimane influenzato dall’uso della geometria sul corpo umano di Piero della Francesca. L’opera degli anni Settanta evolve verso la pittura figurativa, di cui rivisita le figure umane espressioniste, creando scene teatrali simboliche che includono elementi di umorismo e fantasia. —Laura Hakel

Hombre Dormido, 1945 Olio su tela, 79 × 107 cm. Photo. Collezione Banco de la República, Bogotá. Courtesy Colección Banco de la República.


Cabeza de Hombre Llorando, 1957 Olio su tela, 105 × 70 cm. Collezione Banco de la República, Bogotá. Courtesy Colección Banco de la República.

In Cabeza de Hombre Llorando (1957), un uomo, reso con forme angolari e tratti allungati, piange. La pittura vicino agli occhi si screpola, conferendo alla figura un profondo senso di stanchezza e di logorio. Questo aspetto è accentuato dalla prospettiva appiattita che crea un senso di intrappolamento e di angoscia. Il soggetto è dipinto in grigio, marrone, nero e rosso, toni terrosi che sembrano fatti di pigmenti naturali e che l’artista associa alle culture visive pre-contatto. L’uomo rivolge uno sguardo di sfida allo spettatore; nella sua angoscia, permane la dignità. L’opera è emblematica

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dell’Espressionismo proprio di Guayasamín che utilizza il colore e la distorsione delle forme per raffigurare figure oppresse. Mentre molti espressionisti europei usavano colori e forme per rispondere alle ansie di una società sempre più industrializzata, Guayasamín usa l’Espressionismo come protesta sociale, riproducendo l’oppressione subita da molte culture native dell’America Latina. L’opera di Oswaldo Guayasamín è esposta per la prima volta alla Biennale Arte. —Diego Chocano

NUCLEO STORICO • RITRATTI

Oswaldo Guayasamín è stato un pittore e attivista politico le cui rappresentazioni espressionistiche della condizione delle popolazioni indigene gli sono valse un grande successo tra la metà e la fine del XX secolo. Nel 1943 si reca in Messico dove lavora con José Clemente Orozco, il famoso muralista messicano. Qui sviluppa il proprio personale approccio all’Indigenismo. Attraverso i monumentali murales e le serie di dipinti come Huaycañán (1946–1952) – ovvero “il sentiero delle lacrime” in quechua, una lingua diffusa nella catena montuosa andina – Guayasamín cerca di catturare la variegata composizione etnica dell’Ecuador e di denunciare la violenza politica. Pur difendendo strenuamente i diritti delle popolazioni indigene, il suo lavoro spesso idealizza queste culture, associandole alla natura, alla tradizione e a un innato senso di bontà: un appiattimento di identità eterogenee, per loro natura complesse e ibride.

QUITO, ECUADOR, 1919 – 1999, BALTIMORA, USA

STRANIERI OVUNQUE

Oswaldo Guayasamín


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Hendra Gunawan

Tra i più prolifici e rinomati pittori indonesiani, Hendra Gunawan inizia negli anni Trenta la propria attività, che attraversa il periodo della rivoluzione indonesiana fino al regime dittatoriale dell’Ordine Nuovo. Come molti altri artisti emersi in questo periodo, quali Affandi, S. Sudjojono ed Emiria Sunassa, Gunawan è in gran parte autodidatta. La sua pratica sposa i principi socialisti della vita in comune e del lavoro cooperativo. Tra gli anni Quaranta e Sessanta, è attivo all’interno di diversi gruppi di artisti e organizzazioni culturali, tra cui i Seniman Indonesia Muda (Giovani pittori indonesiani), i Pelukis Rakyat (Pittori del popolo) e la Lembaga Kebudayaan Rakyat (LEKRA – Associazione culturale del popolo). Molti

dei suoi dipinti mettono in primo piano la vita quotidiana delle persone comuni in modo espressivo ma delicato, in genere concentrandosi sulle attività di un gruppo affiatato in uno spazio incerto. Le sue opere sono spesso caratterizzate da motivi simili a tessuti, da colori vivaci e pennellate fluide e sinuose. My Family (1968) è stato probabilmente dipinto quando Gunawan era imprigionato a causa dei suoi legami con una presunta fazione comunista in Indonesia. Nello stesso anno, la contesa della Guerra Fredda in Indonesia si conclude con la soppressione e l’annientamento delle forze comuniste e l’ascesa di un nuovo regime dittatoriale sostenuto dagli Stati Uniti. Dipinto in modo più realistico

BANDUNG, INDONESIA, 1918 – 1983 BALI, INDONESIA

rispetto alle precedenti opere degli anni Quaranta e Cinquanta, My Family ritrae l’artista, seduto con i pantaloni a brandelli, assieme alla moglie e ai tre figli. Sullo sfondo, una folla è radunata davanti a un edificio qualunque, forse la prigione di Bandung dove era stato detenuto. Dopo il suo rilascio nel 1978, Gunawan si trasferisce a Bali e continua a dipingere fino ai suoi ultimi giorni, ispirandosi a scene di vita quotidiana della gente comune. L’opera di Hendra Gunawan è esposta per la prima volta alla Biennale Arte. —Anissa Rahadiningtyas

My Family, 1968 Olio su tela, 197,5 × 145,5 cm. Collezione National Gallery Singapore. Courtesy National Heritage Board, Singapore.


Questo ritratto, senza titolo e data, raffigura un beduino in abiti tradizionali, un tema centrale nell’opera di Hadad che era conosciuta come “l’artista dei beduini”, poiché molti dei suoi ritratti raffiguravano per l’appunto questi soggetti. Il dipinto, realizzato con tonalità vivaci e decise, enfatizza questo giovane protagonista dall’espressione cupa, posto davanti a uno sfondo astratto. Come in molti dei suoi ritratti, lo sguardo penetrante è fissato sull’osservatore. L’approccio di Hadad viene descritto come Realismo Sociale, anche se le figure e i paesaggi delle sue composizioni di soggetti libanesi assumono forme stilizzate intensamente emotive. Nel rappresentare i beduini, l’artista evoca un’immagine diversa da quella percepita dalla società benestante di Beirut e dal pubblico delle mostre in Francia, Gran Bretagna e Stati Uniti. Prima e unica artista libanese a essere ammessa al Salon d’Automne del Grand Palais di Parigi (19331937), Hadad ha esposto ripetutamente in Libano e a livello internazionale. L’opera di Marie Hadad è esposta per la prima volta alla Biennale Arte. —Nadine Nour el Din

Untitled, s.d. (anni Trenta ca.) Olio su tela, 40 × 60 cm. Collezione Barjeel Art Foundation, Sharja. Courtesy Barjeel Art Foundation, Sharja.

STRANIERI OVUNQUE

Marie Chiha Hadad è stata un’importante artista e scrittrice libanese, nota soprattutto per i dipinti figurativi di soggetti del suo paese. In gran parte autodidatta, deve la sua formazione a lezioni private con l’artista polacco Jean Kober a Beirut (1924-1925). Hadad nasce in una famiglia benestante di politici dotata di un’ampia rete di contatti che le permette di avanzare nella propria carriera di artista. Dipinge paesaggi espressivi, nature morte e ritratti di bambini, contadini, beduini e montanari libanesi, con scarsa attenzione agli approcci della pittura europea convenzionale. Considerata una pioniera del movimento artistico libanese, ha diretto la Società d’Arte Libanese. Firma Les Heures libanaises (1937), una raccolta di racconti corredata da alcuni dei suoi dipinti. La sua carriera si interrompe bruscamente nel 1945, quando smette di dipingere in seguito alla morte della figlia.

BEIRUT, LIBANO, 1889–1973

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Marie Hadad


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Tahia Halim

Tahia Halim proviene da una famiglia aristocratica egiziana. Studia pittura con insegnanti privati prima di entrare a far parte, nel 1941, dello studio del pittore Hamed Abdalla, che sposa nel 1945. Dal 1949 al 1951 la coppia si stabilisce a Parigi, dove Halim studia all’Académie Julian. Dal 1956 al 1957 si iscrive alla Scuola Libera del Nudo annessa all’Accademia di Belle Arti di Roma. Dopo aver scoperto che, mentre lei si trovava in Italia, il marito aveva sposato segretamente una seconda moglie, ottiene il divorzio, affrontando lo stigma sociale che colpisce le donne divorziate in Egitto. Nel 1958 riceve il Premio Internazionale Guggenheim e per tutta la sua carriera viene finanziata dal governo egiziano. Se lo stile delle prime opere si avvicina

all’Impressionismo, la sua produzione artistica si evolve verso composizioni cubiste, arricchendosi, a partire dagli anni Sessanta, di stili e tecniche dell’antico Egitto. Il suo nome è strettamente collegato alla Nubia. Nel 1962, viene incaricata dal Ministero della Cultura egiziano di documentare la regione dell’Alto Egitto che si estende a nord del Sudan. In seguito alla costruzione della diga di Assuan (1960–1970), molti villaggi nubiani scomparvero sotto le acque del Nilo costringendo le popolazioni a emigrare. Three Nubians raffigura tre donne sedute in un paesaggio collinare. La figura centrale regge una foglia di palma, un motivo ricorrente nei dipinti nubiani dell’artista, in particolare nelle

DONGOLA, SUDAN, 1919 – 2003, IL CAIRO, EGITTO

scene di matrimonio come The Wedding Ceremony in Nubia (1964). I volti stilizzati e la silhouette delle figure frontali conferiscono alla scena una dimensione atemporale. Halim presenta l’immagine di una cultura dalle radici antiche e africane. Sullo sfondo, le cupole delle moschee accanto alle tradizionali case di mattoni di fango evocano l’islamizzazione della Nubia, originariamente una regione cristiana, rimandando a una storia secolare di assimilazione e discriminazione da parte dell’Egitto. Alcune sue opere sono state esposte nel Padiglione egiziano della Biennale nel 1956, 1960 e 1970. —Nadine Atallah

Three Nubians, s.d. Olio su tavola, 84 × 76 cm. Photo Maria e Mansour Dib. Courtesy Ramzi e Saeda Dalloul Art Foundation.


Il suo dipinto intitolato The Lotus Girl (1955), presenta in semi profilo una figura femminile che indossa un vivace sari fantasia, una corona di fiori e tiene in mano un elegante fiore di loto bianco, originario dell’India. Lo sfondo di questa composizione riprende il fiore di loto come motivo, ripetuto e accostato a forme geometriche che rimandano ai temi del batik tradizionale. Dipinto nell’anno in cui Hamdi si trasferisce per iniziare i suoi studi in India, The Lotus Girl trae ispirazione dalla formazione classica lì ricevuta, dai soggetti indiani e dagli abiti che lei stessa indossava quando era studentessa. L’uso di contorni neri e decisi, di toni piatti e uniformi nonché di forme stilizzate e allungate è da attribuire alla sua specializzazione in antiche arti orientali, miniatura, pittura murale, pittura su tessuti di seta e nell’arte del batik, tecniche che hanno esercitato grande influenza sulla sua opera. Il dipinto fa parte di una serie di lavori realizzati in India e raffiguranti soggetti indiani, tra cui i dipinti murali delle università di Tagore e del Rajasthan. Hamdi ha tenuto numerosissime mostre in Egitto e nel mondo. L’opera di Nazek Hamdi è esposta per la prima volta alla Biennale Arte. —Nadine Nour el Din

The Lotus Girl, 1955 Olio su tela, 70 × 50 cm. Collezione Barjeel Art Foundation, Sharja. Courtesy Barjeel Art Foundation, Sharja.

STRANIERI OVUNQUE

L’artista e docente egiziana Nazek Hamdi è celebre per essere stata una pioniera dell’arte del batik nella regione araba. Studia presso l’Istituto Superiore di Studi Pedagogici per l’Arte del Cairo dove si diploma nel 1949. Grazie alla prima borsa di studio indiana di questo tipo, nel 1955 si reca in India dove consegue la laurea in Belle Arti presso l’Università di Tagore, a cui segue un dottorato presso l’Università del Rajasthan. Autorevole docente, insegna alla facoltà di Arti Applicate della Helwan University, alla facoltà di Belle Arti del Cairo e di Alessandria, nonché presso l’American University del Cairo. Ha inoltre assunto incarichi di docenza in Arabia Saudita e in Kuwait.

IL CAIRO, EGITTO, 1926–2019

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Nazek Hamdi


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Faik Hassan

BAGHDAD, IRAQ, 1914 – 1992, PARIGI, FRANCIA

Nonostante il suo stile pittorico riveli l’influenza degli studi condotti in Europa, Faik Hassan dedica l’intera sua carriera alla celebrazione della cultura irachena e alla creazione di un linguaggio visivo nazionale. Laureato all’École Nationale Supérieure des Beaux-Arts di Parigi nel 1938, grazie a una borsa di studio governativa, al termine degli studi rientra in Iraq e fonda il Dipartimento di Pittura dell’Istituto di Belle Arti di Baghdad. Il 1940 lo vede dar vita al collettivo di artisti Société Primitive, dal 1959 ribattezzato Pioneers Group. Nel 1967 fonda il gruppo artistico al-Zawiya, insieme ad artisti quali Kadhim Haider e Muhammad Ghani Hikmat. Nel 1964, riceve il Golden Prize della Fondazione Gulbenkian in Iraq.

Bedouin Tent (1950) raffigura una scena di vita quotidiana di contadini iracheni residenti lungo i fiumi Tigri ed Eufrate. Due figure maschili sono sedute all’interno di una tenda, circondate da oggetti tradizionali come i dallah e finjan (caffettiera e tazze). L’opera è resa in modo da rompere la profondità spaziale e colloca le figure e gli oggetti su più piani distinti, offrendo così simultaneamente una serie di punti di vista diversi sull’intimità della scena. In questo modo, l’artista

riesce ad accentuare le particolarità di alcuni elementi della composizione, come la forma del tappetino giallo o il beccuccio della caffettiera, che dipinge con angolazioni innaturali. L’opera è parte del grande impegno dell’artista per rappresentare la vita quotidiana irachena e catturare le condizioni di vita degli abitanti dei villaggi, dei lavoratori e dei contadini. L’opera di Faik Hassan è esposta per la prima volta alla Biennale Arte. —Suheyla Takesh

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Bedouin Tent, 1950 Olio su legno, 58 × 74 cm. Collezione Barjeel Art Foundation, Sharja. Courtesy Barjeel Art Foundation, Sharja.


Kadhim Hayder è stato un artista, incisore, scenografo e organizzatore teatrale la cui pratica delle arti visive ha contribuito allo sviluppo del Modernismo iracheno. Studente negli anni Cinquanta dell’Istituto superiore per la formazione degli insegnanti e dell’Istituto di Belle Arti di Baghdad, studia letteratura e pittura, per poi iscriversi al Royal College of Art di Londra e specializzarsi in incisione. Partecipante attivo dei gruppi artistici Al-Ruwad (Pionieri), Jama’et Baghdad Lil Fann al-Hadith (Arte moderna di Baghdad) e al-Zawya (Angoli), è stato anche un membro di spicco dell’Unione degli artisti arabi, per la quale ha organizzato eventi e conferenze. Oltre alle numerose mostre a livello nazionale, ha esposto al Musée d’Art Moderne de la Ville de Paris. Il 1974 vede la sua presenza alla prima Biennale araba di Baghdad, l’inaugurale incontro di idee e di arte moderna panaraba. Il linguaggio artistico di Hayder fonde tropi antichi e moderni e attinge ampiamente alla favola, alla mitologia e alla religione.

Tramite l’esplorazione di rappresentazioni rituali e cerimonie religiose, i riferimenti artistici di Hayder attingono all’antica epopea mesopotamica di Gilgamesh (2150–1400 a.C. circa) e alla battaglia di Karbala (680 d.C.), dove Husayn Ibn Ali, nipote del profeta Maometto, venne trucidato in un combattimento contro il califfo omayyade Yazid. L’evento ebbe come conseguenza di ampliare ulteriormente l’abisso tra musulmani sciiti e sunniti riguardo a chi fossero i successori e custodi dell’Islam e portò alla divisione di imperi e nazioni. La battaglia è stata rappresentata anche nella cultura visiva, nella letteratura,

Thalathat Ashkhas Raqm 20 [Three People no. 20], 1970 Olio su tela, 55 × 75 cm. Photo Humayun Memon. Courtesy Collezione Taimur Hassan.

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BAGHDAD, IRAQ, 1932–1985

nei sermoni e nella Ta’ziyeh, un’opera originaria del mondo islamico incentrata sul martirio di Husayn e rappresentata in Iraq, Iran e altrove. I dipinti di Hayder illustrano il simbolismo astratto dell’epopea di Karbala. Nell’opera Thalathat Ashkhas Raqm 20 (1970) sono evidenti le immagini della Ta’ziyeh e delle favole antiche, che fungono da studio morale sulle trasformazioni e le divisioni delle società moderne. L’opera di Kadhim Hayder è esposta per la prima volta alla Biennale Arte. —Sara Raza

STRANIERI OVUNQUE

Kadhim Hayder


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Gilberto Hernández Ortega

BANÍ, REPUBBLICA DOMINICANA, 1923 – 1979, SANTO DOMINGO, REPUBBLICA DOMINICANA

Gilberto Hernández Ortega – guidato nella sua formazione di pittore da Celeste Woss y Gil – è stato uno dei primi iscritti alla Escuela Nacional de Bellas Artes dopo la sua istituzione nel 1942. Incontra André Breton e Wifredo Lam durante la loro permanenza a Santo Domingo nel 1941. In seguito, diventerà docente della scuola e per molti decenni guiderà importanti artisti dominicani. Le sue opere sono state premiate in biennali e concorsi nazionali dal 1950 al 1972. Come musicista e poeta, entra a far parte del movimento letterario La Poesía Sorprendida – di natura surrealista – per il quale scrive e illustra riviste. Eccezionale pittore dell’identità dominicana, Ortega perfezionò la pennellata e il colore per sviluppare, a partire dall’Espressionismo, un linguaggio tutto proprio, radicato nello spazio, nei miti, nelle realtà e nell’esuberanza dei tropici delle Antille: surreale, magico, familiare, vicino, strano e lontano allo stesso tempo.

Allievo di Josep Gausachs e insegnante multigenerazionale di artisti dominicani, Ortega crea un’interpretazione dell’habitat caraibico, stabilendo una simbiosi che esprime l’irreale essenza della sua foresta e dei suoi costumi attraverso tratti sciolti e pennellate audaci. In Marchanta (1976), l’artista ripropone un tema presente nella pittura dominicana fin dalla sua inclusione da parte di Yoryi Morel negli anni Trenta, assemblando fiori e frutti sulla testa di una donna dalla pelle scura, dal lungo collo e un volto contraddistinto dall’orbita completamente bianca di

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un occhio spettrale. Il pittore fa risaltare l’abito candido attraverso uno sfondo di patine scure, con accenni di alcune case dipinte con pochi tratti di luce che guidano lo sguardo dello spettatore sull’intera tela. Il tracciato, l’applicazione dei pigmenti e l’aura magica che emana da questa composizione ne fanno uno dei capolavori di Ortega. L’opera di Gilberto Hernández Ortega è esposta per la prima volta alla Biennale Arte. —Myrna Guerrero Villalona

Marchanta, 1976 Olio su tela, 117 × 88 cm. Photo Mariano Hernández. Courtesy Museo Bellapart. © Mariano Hernández 2024.


Femme et Mur, 1977-1978 Olio su tela, 162 × 130 cm. Collezione Barjeel Art Foundation, Sharja. Courtesy Barjeel Art Foundation, Sharja.

Femme et Mur (1977-1978) raffigura una donna algerina vestita con abiti, gioielli e copricapo tradizionali amazigh, gli occhi bassi e un’espressione cupa sul volto, ha le mani giunte e guarda in lontananza, in silenziosa contemplazione. Inquietante e quasi spettrale, incarna un’etica di silenziosa sopportazione e uno spirito di resistenza più e più volte dimostrato dalle donne algerine nel corso del XX secolo. Alle sue spalle, una parete con delle scritte simili a graffiti che fanno riferimento alla guerra d’indipendenza algerina, svoltasi tra il 1954 e il 1962, e

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acronimi quali FLN, riferito al Front de Libération Nationale dell’Algeria, e OAS, riferito all’Organisation Armée Secrète, un’organizzazione paramilitare segreta francese. Sul muro è presente anche un’immagine dell’hamsa, altrimenti nota come mano di Fatima, un amuleto a forma di palmo ampiamente riconosciuto come simbolo di protezione. L’opera di Mohammed Issiakhem è esposta per la prima volta alla Biennale Arte. —Suheyla Takesh NUCLEO STORICO • RITRATTI

Mohammed Issiakhem è uno dei principali artisti modernisti algerini le cui opere hanno spesso come tema il movimento anticoloniale del paese, le lotte personali e collettive, le tradizioni amazigh (berbere) e i ritratti di persone comuni. Nel 1943, a quindici anni, perde il braccio sinistro nell’esplosione di una granata. Nel 1947 inizia la sua formazione artistica con lezioni gratuite presso la Société des Beaux-Arts di Algeri, per poi frequentare l’École des Beaux-Arts algerina dal 1948 al 1951, dove studia miniatura sotto la guida di Omar Racim. Issiakhem, in possesso dello status ufficiale di “francese musulmano”, figura tra i primi algerini a essere ammessi all’istituzione, che fino al 1945 era riservata esclusivamente agli studenti francesi. In seguito, tra il 1951 e il 1959, studia all’École Nationale Supérieure des Beaux-Arts di Parigi, per poi tornare in Algeria dopo l’indipendenza del 1962.

TIZI OUZOU, ALGERIA, 1928 – 1985, ALGERI, ALGERIA

STRANIERI OVUNQUE

Mohammed Issiakhem


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Elena Izcue Elena Izcue è stata docente, illustratrice, artista, designer tessile e pioniera delle rappresentazioni artistiche legate alle moderne arti decorative indigene e peruviane. Il suo lavoro si inserisce nell’ambito della nascita dell’archeologia andina e della ricerca di fonti per la costruzione dell’identità nazionale peruviana degli anni Venti. Con la sorella Victoria, Izcue sviluppa una serie di progetti incentrati sul design, l’arte e l’educazione in Perù. Entrambe emigrate a Parigi, si cimentano con la ceramica, l’intaglio del legno e la produzione di tessuti utilizzando motivi precolombiani, legati a loro volta all’industria della moda in Francia e negli Stati Uniti. L’attività didattica di Izcue comprende pubblicazioni come Arte peruano en la escuela (1926), tradotto in

LIMA, PERÙ, 1889–1970

inglese e francese, volto alla divulgazione dell’arte preispanica e delle arti popolari come mezzo pedagogico. L’interesse europeo per l’opera di Izcue coincide con la circolazione di mostre dedicate al lavoro di artisti latinoamericani e che pongono l’abitante indigeno come tema di rappresentazione artistica. Tali mostre hanno permesso a questi artisti di creare linguaggi visivi riconoscibili, mettendo al contempo in discussione il canone, le relazioni di potere e la formazione di un linguaggio artistico moderno. Tra loro troviamo Laura Rodig, Lola Cueto, Carmen Sacco, Julia Codesido, Tarsila do Amaral e la stessa Izcue, artiste che hanno affrontato questi temi a partire dalla loro triplice condizione di genere (donne), identità razziale e culturale

(latinoamericana), nonché di soggetti sociali (non cittadine). In particolare, hanno esplorato i temi del corpo e la costruzione culturale di un’identità femminile “altra”. Tuttavia, la femminilizzazione delle discipline intrapresa da Izcue (design, tessile, arti popolari e decorative) ha marginalizzato il suo inserimento nella storiografia latinoamericana. Solo di recente le sono state dedicate delle ricerche, rimediando così all’assenza e mettendone in risalto l’importanza nella formazione delle arti visive della regione. L’opera di Elena Izcue è esposta per la prima volta alla Biennale Arte. —Gloria Cortés Aliaga

Mujer de Perfil, 1924 Olio su tela, 73,8 × 66 cm. Photo Courtesy MALI – Museo de Arte de Lima.


SAN JUAN DE LOS LAGOS, MESSICO, 1902 – 1955, CITTÀ DEL MESSICO, MESSICO

NUCLEO STORICO • RITRATTI

María Izquierdo è stata la prima donna messicana a esporre opere negli Stati Uniti. Nata nel 1902 nel villaggio meta di pellegrinaggio di San Juan de los Lagos, Izquierdo cresce circondata da tradizioni popolari cattoliche diventate in seguito leitmotiv dei suoi dipinti ed elementi caratteristici del movimento artistico postrivoluzionario. Mentre frequenta l’Escuela Nacional de Bellas Artes (1928-1931), subito dopo la Rivoluzione, incontra artisti come Diego Rivera e Rufino Tamayo. Izquierdo dipinge un’ampia varietà di immagini di devozione, tradizioni e rappresentazioni popolari, raffigurando scene tratte dai propri ricordi del Messico rurale. Allo stesso tempo, accoglie l’immagine delle donne moderne che partecipano alla lotta rivoluzionaria.

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María Izquierdo

al di là delle nazionalistiche esibizioni della propaganda di stato. Nel 1947, il curatore Fernando Gamboa organizzò la mostra 45 Autorretratos de Pintores Mexicanos al Palacio de Bellas Artes, dove Izquierdo espose questa tela, affermando uno stile che catturava la complessità del ruolo della donna messicana moderna. L’opera di María Izquierdo è esposta per la prima volta alla Biennale Arte. —Eva Posas

Autorretrato, 1947 Olio su tela, 55 × 45 cm. Photo Francisco Kochen. Collezione Andrés Blaisten. Courtesy Andrés Blaisten. © Francisco Kochen.

STRANIERI OVUNQUE

Autorretrato (1947) fa parte di una serie di autoritratti realizzati negli anni Quaranta. Una pensierosa María che indossa un abito giallo ocra si staglia su uno sfondo blu e grigio di cielo e nuvole. A differenza di altri suoi vivaci ritratti con gioielli e abiti sontuosi, in Autorretrato l’artista è coronata solo da una treccia e da un ornamento abbinato, presentando così un’immagine austera che dà grande risalto al volto e ai suoi pensieri in quella giornata uggiosa. Si ritiene che gli autoritratti possano costituire una risposta al movimento muralista, un modo per mostrare altre narrazioni


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Frida Kahlo

CITTÀ DEL MESSICO, MESSICO 1907–1954

Frida Kahlo è un’icona la cui immagine è ampiamente diffusa come simbolo di femminismo, emancipazione e impegno politico. La fascinazione per la sua estetica e la sua biografia, però, in parte oscura la radicalità delle sue opere, ispirate più allo studio delle tradizioni dell’arte popolare in Messico e alla militanza comunista, che ai movimenti modernisti europei come il Surrealismo. Kahlo appartiene a un contesto intellettuale che sostiene la Rivoluzione messicana e che cerca di re-immaginare il paese svincolato dai retaggi del colonialismo europeo e riconnesso con la propria eredità precolombiana. Tema vitale in tutta la sua opera è la creazione di un’estetica personale che si estende anche a considerazioni sulla costruzione di genere. Moglie del rinomato artista Diego Rivera, è ben consapevole delle difficoltà che le donne incontrano nel perseguire una carriera artistica: nel corso della sua vita ebbe solo due mostre personali, una a New York e una in Messico.

In Diego y Yo (1949), l’autoritratto di Kahlo occupa quasi l’intera tela e sul suo volto è presente un ritratto di Diego Rivera. Lo sguardo è puntato su chi osserva. Il marito, Diego, rappresentato sulla sua fronte, domina i suoi pensieri. Le tre lacrime che le scorrono sulle guance si riflettono nei tre occhi di Rivera. Il terzo occhio, simbolo di un sapere visionario, mostra ciò che gli occhi anatomici non riescono a percepire e svela in Rivera una straordinaria coscienza sensitiva e creativa. Nel ritratto, Kahlo è addolorata per le difficoltà coniugali e i capelli attorcigliati al collo sembrano soffocarla. Kahlo costruisce la propria identità attraverso l’aspetto esteriore, esplorando il corpo femminile e le sue convenzioni. Indossa un huipil, una tunica tipica di Tehuantepec, regione del Messico in cui le donne sono protagoniste delle società in cui vivono. Le tehuanas incarnano la resistenza al colonialismo. Vestita come loro, Kahlo riafferma la propria identità messicana, ponendo in risalto la parola “Mexico” accanto alla firma sul quadro. L’opera di Frida Kahlo è esposta per la prima volta alla Biennale Arte. —Florencia Malbrán

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Diego y Yo, 1949 Olio su masonite, 30 × 22,4 cm. Collezione Eduardo F. Costantini.


La vita e la carriera di George Keyt hanno attraversato le sfide artistiche e politiche del XX secolo ed è riconosciuto come uno dei più importanti pittori srilankesi della sua generazione. Negli anni che precedettero l’indipendenza dello Sri Lanka (ex Ceylon) avvenuta nel 1948, Keyt si prefigge di abbracciare il Modernismo europeo rinvigorendo al contempo le tradizioni dell’Asia meridionale. Proveniente da una famiglia eurasiatica di Burgher, nella sua arte include riferimenti che spaziano dai racconti buddisti alle immagini erotiche indù, fino al Cubismo. Il 1943 lo vede tra i membri fondatori del Gruppo ’43, capeggiato dal fotografo e critico Lionel Wendt, che apriva la strada del Modernismo nello Sri Lanka. Consolida una significativa conoscenza con il poeta cileno Pablo Neruda e stringe una duratura amicizia con Martin Russell, autore della prima monografia dedicata all’artista. Nel corso della vita, Keyt trascorre lunghi periodi anche in India, dove è stato altrettanto riconosciuto. Nayika – Vasanta Raga (1943) è stato dipinto lo stesso anno della fondazione del Gruppo ’43 a Colombo e poco dopo aver completato i murales del Gotami Vihara che raffigurano la vita di Buddha. Di tono lirico, il dipinto colloca due figure femminili vestite di semplici sari in una natura rigogliosa. La composizione è

strettamente incentrata sulle teste e sui busti, oltre che sulle foglie lussureggianti e i loro contorni audaci. Le affinità tra le curve dei motivi naturali e quelle della posa lasciva della nayika conferiscono un senso di unità all’opera. L’arte europea rappresentava una risorsa per l’artista, che tuttavia ricalibra l’uso del linguaggio visivo cubista e dell’arte di Henri Matisse per servire i temi dell’Asia meridionale. Tra questi, la nayika, o eroina romantica, rimarrà una caratteristica del suo lavoro. In questo caso, il titolo fa riferimento anche alla musica carnatica dell’India del Sud e a una delle sue melodie, nota come Vasanta raga, mentre l’ambiente circostante e lo stato d’animo distaccato evocano un’idealizzata vita di villaggio. —Devika Singh

KANDY, SRI LANKA, 1901 – 1993, COLOMBO, SRI LANKA

Nayika - Vasantha Raga, 1943 Olio su tela, 89 × 59 cm. Photo Justin Piperger. Courtesy Collezione Taimur Hassan.

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George Keyt


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Ram Kumar

Ram Kumar ha studiato economia e ha lavorato per breve tempo come bancario e giornalista prima di ricevere lezioni d’arte informali da Sailoz Mukherjee presso la Sarada Ukil School of Art di Delhi. Nel 1948 inizia a esporre le sue opere. Tra il 1949 e il 1952 vive a Parigi, dove studia arte con André Lhote e lavora come apprendista nello studio di Fernand Léger. In questo periodo conosce artisti, poeti e scrittori come Pablo Neruda e Jacques Roubaud e artisti indiani come Francis Newton Souza, Sayed Haider Raza e Akbar Padamsee che all’epoca vivevano in Francia. Compie molti viaggi in Europa e diventa membro del Partito comunista francese, prima di tornare in India dove inizia a dipingere secondo la modalità figurativa ispirata al Realismo Socialista. È noto soprattutto per i paesaggi e per i dipinti sempre più astratti realizzati a partire dalla metà degli anni Cinquanta, in particolare l’iconica serie di Varanasi.

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A detta di molti, il percorso di Kumar come artista e scrittore riflette la sua indole solitaria. Sono stati tracciati dei paralleli tra la figura umana rappresentata in pittura e i personaggi dei racconti scritti nel corso della sua prolifica attività di autore di narrativa hindi. Entrambi sono permeati di un senso di alienazione, solitudine e tristezza che per Kumar costituiva la condizione esistenziale della vita urbana contemporanea. In Women (1953), le quattro figure sono private di qualsiasi contesto di tempo e di luogo; non sono presenti marcatori culturali, come i vestiti, né altri elementi oltre ai torsi che riempiono

SHIMLA, INDIA, 1924 – 2018, DELHI, INDIA

lo spazio pittorico. Kumar ha compiuto numerosi viaggi nel nord e nel sud del mondo e il suo lavoro è stato celebrato ed esposto a livello internazionale in mostre personali e collettive in India, Europa, Stati Uniti e Giappone, tra cui la Biennale di Tokyo (1957, 1959), la Bienal de São Paulo (1961, 1965, 1980) e la Biennale di Venezia (1958). —Latika Gupta

Women, 1953 Olio su tavola, 60,5 × 102 cm. Photo Justin Piperger. Courtesy Collezione Taimur Hassan.


Girl in Red (Portrait of Gladys Ankora), 1954 ca. Olio su tela di lino, 76,2 × 55,8 cm. Photo Lucid Plane. Collezione Pamela Clarkson Kwami. Courtesy Estate di Atta Kwami.

Girl in Red ritrae Gladys Ankora, una donna che lavorava per la sorella di Kwami. Ankora riempie lo spazio della tela, suggerendo una vicinanza fisica tra l’artista e la donna, che ha interrotto le sue attività e si è vestita appositamente per essere ritratta. È probabile che Ankora abbia scelto con cura il suo abbigliamento: un abito rosso su misura degli anni Cinquanta, con un’ampia scollatura a barchetta tipica dell’epoca modernista. In un’epoca in cui la stoffa era fondamentale per integrare le persone nello stato, Kwami non solo presta attenzione al tessuto e alle pieghe, ma anche all’espressione

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solenne e ai lineamenti della sua protagonista, attirando sapientemente l’attenzione dello spettatore sul piccolo orecchino a forma di diamante che ha scelto di indossare, oltre a una collana intenzionalmente sobria. L’opera di Grace Salome Kwami è esposta per la prima volta alla Biennale Arte. —Nancy Dantas

NUCLEO STORICO • RITRATTI

Grace Salome Kwami inizia la sua formazione artistica nel 1951 presso la School of Art and Craft di Achimota, dopo essersi dedicata per svariati anni all’insegnamento nelle scuole secondarie. Nel 1953, si laurea in pittura e scultura. La perdita del marito Robert Ashong Kwami, pianista ed esperto insegnante di musica ad Achimota, segna irrimediabilmente la sua vita. Nonostante le vicissitudini vissute come vedova e madre, Kwami ha creato regolarmente sculture per circa cinquant’anni. La sua inclinazione per la figurazione umana si manifesta sia nelle sue figure di argilla che nei suoi dipinti. Girl in Red (1954 circa) è stata inclusa nella recente mostra African Modernism in America, un’importante esposizione itinerante sulle reti artistiche e i dialoghi creati tra gli Stati Uniti e l’Africa durante la Guerra Fredda. Un ritratto di Kwami compare due volte nel catalogo della mostra, testimoniando la sua importanza sia come pittrice che come esponente di spicco dello stile del Realismo di Kumasi in Ghana.

WORAWORA, GHANA, 1923–2006

STRANIERI OVUNQUE

Grace Salome Kwami


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Lai Foong Moi

NEGERI SEMBILAN, MALESIA, 1931 – 1995, SINGAPORE

Plaudita come la prima donna nata in Malesia a tenere una mostra personale a Singapore, la storia di Lai Foong Moi racchiude il modo in cui lo sviluppo dello stile artistico si è intrecciato con riflessioni su nazione e identità nel contesto di una Malesia (dominio britannico fino al 1963) postbellica e postcoloniale. Prima diplomata dell’Accademia Nanyang di Belle Arti di Singapore a proseguire la formazione presso l’École Nationale Supérieure des Beaux-Arts di Parigi, Lai raccoglie fin da subito i primi consensi per i suoi dipinti che rivelano una straordinaria sensibilità per il colore e la composizione, sostenuta dai principi modernisti acquisiti durante gli studi. Rivelando un’iniziale propensione per la rappresentazione empatica di nudi femminili e per la resa emotiva di paesaggi urbani, l’artista continua a sviluppare il proprio interesse per le persone e i paesaggi di tutti i giorni anche dopo il suo ritorno in Malesia nel 1959. Rispetto ai coetanei, l’eredità di Lai è di relativa oscurità, nonostante il precoce successo. Labourer (Lunch Break) (1965) è un ritratto introspettivo che esemplifica l’attenzione dell’artista verso il mondo interiore dei propri soggetti.

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Labourer (Lunch Break), 1965 Olio su tela, 104 × 67 cm. Collezione National Gallery Singapore. Courtesy National Heritage Board, Singapore.

La figura al centro della composizione è presentata in un momento di riposo e contemplazione mentre guarda oltre la cornice. L’identità di bracciante è rivelata dalla camicia blu, segno distintivo dei lavoratori migranti cinesi, chiamati coolie, che fin dal XIX secolo si sono recati in Malesia per svolgere lavori manuali. Dietro di lui, voltata di spalle e con i lineamenti in parte nascosti, una donna sta consumando il proprio pasto. Il foulard rosso, che spicca come momento di differenziazione cromatica, denota la sua identità di donna samsui, ovvero una lavoratrice immigrata. Sebbene entrambe le figure occupino la stessa linea visiva all’interno della composizione, le posture divergenti permettono all’artista di suggerire una gerarchia di anonimato all’interno di questo trascurato segmento della società. L’opera di Lai Foong Moi è esposta per la prima volta alla Biennale Arte. —Teo Hui Min


Untitled (Mujer Caballo), 1942-1946 Olio su tela, 196 × 91 cm. Photo N. Bueno. Collezione Paz Illobre-Orteu. Courtesy Collezione Paz Illobre-Orteu.

Al centro dell’iconografia di Wifredo Lam figurano elementi esoterici, poiché, pur non avendo mai praticato personalmente la santeria afrocubana, ha partecipato ai suoi rituali e alle sue cerimonie tramite la sorella Eloísa. Attento osservatore degli altari domestici delle case cubane, dal 1941 al 1952 – anni che l’artista trascorre a Cuba – Lam dipinge oltre cento opere con immagini legate a questa pratica spirituale. La femme cheval (donna con la testa di cavallo), un tema ricorrente nelle opere di Lam di questo

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periodo, rappresenta sia una donna posseduta da un orisha – entità soprannaturale della religione dell’Africa occidentale – sia una forza spirituale anticolonialista. In opere come Untitled (Mujer Caballo), i tratti delle figure sono un incrocio tra l’umano e l’animale. La figura femminile in quest’opera ha la testa e la criniera di un cavallo. Realizzata tra il 1942 e il 1946, è una delle più importanti opere dipinte da Lam intorno a questo tema. –Sonia Becce NUCLEO STORICO • RITRATTI

Abile pittore e disegnatore, Wifredo Lam lascia la nativa Cuba per Madrid e Parigi nel 1923. Il suo impegno per la causa repubblicana durante la Guerra civile spagnola è evidente in molte delle sue opere. A Parigi stringe amicizia con i maggiori esponenti dell’avanguardia cubista e con importanti surrealisti. Tornato a L’Avana nel 1941, si scopre attratto dall’estetica vernacolare afrocubana. È a New York, dove espone frequentemente durante gli anni Quaranta, che entra in contatto con l’arte astratta. Nel 1952 si stabilisce con la famiglia a Parigi. L’ampio riconoscimento come pittore e disegnatore non gli impedisce di esplorare le arti grafiche o la ceramica, padroneggiandole entrambe. Grazie al suo interesse per la ceramica, trascorre lunghi periodi ad Albissola Marina – centro tradizionale di produzione di ceramica e ambiente stimolante di scambio artistico e intellettuale – dove conosce, tra gli altri, Lucio Fontana, Asger Jorn e Piero Manzoni.

SAGUA LA GRANDE, CUBA, 1902 – 1982, PARIGI, FRANCIA

STRANIERI OVUNQUE

Wifredo Lam


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Maggie Laubser

Maggie Laubser – nata nel 1886 in un Sudafrica rurale e considerata, insieme a Irma Stern, una pioniera dell‘arte modernista sudafricana – dopo gli studi condotti alla Slade School of Fine Art di Londra introduce l’Espressionismo in Sudafrica. A seguito di una permanenza tra il 1922 e il 1924 a Berlino, dove vede esempi dell’Espressionismo tedesco, la sua opera si trasforma e, da ritratti e paesaggi cupi e calvinisti in colori tenui dominati da grigi, marroni e blu, passa a rappresentazioni dai colori vivaci di animali da fattoria, braccianti e abitanti delle campagne del Capo Occidentale. All’inizio della sua carriera viene aspramente criticata, salvo

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poi essere in seguito accettata e riconosciuta. È apprezzata soprattutto per la sua prolifica produzione di ritratti e per lo studio di soggetti locali. L’attenzione rivolta all’essere umano comune rappresenta una novità e un allontanamento dallo stile di ritratto classico e immobile all’epoca prevalente in Sudafrica. Meidjie (s.d.) è probabilmente il ritratto di una giovane che viveva nella fattoria della famiglia Laubser a Oortmanspost, o nelle sue vicinanze, dove l’artista risiedeva a causa delle ristrettezze economiche dopo la morte del suo mecenate. Laubser dipingeva con un senso di empatia e stima per le persone che la circondavano,

BLOUBLOMMETJIESKLOOF, SUDAFRICA, 1886 – 1973, STRAND, SUDAFRICA

con molte delle quali aveva sviluppato un forte rapporto grazie ai molti anni trascorsi in quella fattoria isolata e lontana dal centro urbano di Città del Capo. In questa tenera rappresentazione, la giovane guarda l’osservatore con luminosi occhi color rame e un’adorabile, maliziosa espressione di sfida. L’attenzione dell’artista per questo soggetto testimonia il grande rispetto che nutriva per le persone attorno a lei. —Heba Elkayal

Meidjie (Young Girl), s.d. Olio su tela, 46 × 36,5 cm. Courtesy Norval Foundation. Photo Amber Alcock.


Lê Phô è stato uno dei primi artisti vietnamiti a diplomarsi all’École des Beaux-Arts de l’Indochine di Hanoi e le sue opere rappresentano le ambiziose sperimentazioni artistiche della sua generazione. La scuola, fondata dal pittore francese Victor Tardieu e dal suo collaboratore vietnamita Nam Sơn, mirava a modernizzare l’arte vietnamita con riferimenti alle pratiche locali e un programma di stampo europeo. Lê Phô si specializza nella pittura a olio che affronta con sobria sensibilità. Le opere della Scuola indocinese furono esposte a Parigi e quelle di Lê Phô apparvero nelle gallerie e all’Exposition Coloniale Internationale (1931). Nel 1937, l’artista emigra a Parigi, dove trascorre il resto della sua vita. In Francia sviluppa una nuova estetica, dipingendo su seta con stile elegante e lineare e creando immagini stilizzate di donne vietnamite, gruppi familiari, pietà e nature morte. Jeune Fille en Blanc (1931) ritrae una giovane dallo sguardo

assorto, in una sottile armonia di toni pallidi e argentei. La scritta nell’angolo superiore sinistro della composizione suggerisce il contenuto dei suoi pensieri: questo estratto da una poesia vietnamita del XVIII secolo è il lamento di una moglie il cui marito è in guerra. Mentre le “donne moderne” erano un soggetto popolare nell’arte e nella letteratura vietnamita degli anni Trenta, Lê Phô sceglie un’immagine più tradizionale di fedeltà e dovere femminile. Lo stile piatto ed essenziale dell’opera suggerisce il suo interesse per l’arte moderna europea, ma la limitata tavolozza di colori, l’inclusione della scritta calligrafica e il vaso celadon in primo piano stabiliscono un legame

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HANOI, VIETNAM, 1907 – 2001, PARIGI, FRANCIA

con l’estetica vietnamita. Quest’opera fu realizzata per essere esposta alla Prima Mostra Internazionale d’Arte Coloniale di Roma (1931), nell’ambito di una politica di invio dell’arte vietnamita all’estero a scopo commerciale e propagandistico. Opere come quelle di Lê Phô, tuttavia, vanno al di là delle ristrette ambizioni coloniali e sono considerate come una conquista del Modernismo vietnamita. L’opera di Lê Phô è esposta per la prima volta alla Biennale Arte. —Phoebe Scott

Jeune Fille en Blanc (Young Girl in White), 1931 Olio su tela, 81 × 130 cm. Collezione National Gallery Singapore. Courtesy National Heritage Board, Singapore.

STRANIERI OVUNQUE

Lê Phô


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Lee Qoede

Lee Qoede – importante pittore di figura coreano attivo soprattutto dagli anni Trenta agli anni Cinquanta – è principalmente noto per i suoi dipinti in risposta alla colonizzazione giapponese. Il suo percorso segue di pari passo l’occupazione della Corea da parte del Giappone (1910-1945), la liberazione del paese e la sua divisione (1945) e la guerra di Corea (1950-1953). Formatosi negli anni Trenta a Daegu e in Giappone presso la Teikoku bijutsu gakkō (Scuola d’arte imperiale), dapprima Lee sostiene l’estetica occidentale, e in seguito la combina con le tecniche dell’Asia orientale, utilizzando linee e contorni netti per ottenere la bidimensionalità. Alla fine degli anni Quaranta, sotto l’egida della Joseon misul munhwa hyeophoe

(Associazione per l’arte e la cultura di Joseon), di cui è cofondatore, Lee realizza dipinti dedicati alla liberazione della Corea dal Giappone. Verso la fine della guerra di Corea, viene arrestato e detenuto nei campi di prigionia. Scegliendo di schierarsi con la Corea del Nord, diserta nel 1954 e viene di conseguenza inserito nella lista nera. La sua opera è stata riscoperta e ha ricominciato a essere esposta in Corea del Sud dal 1988. Self-portrait in a Long Blue Coat (1948–1949) mostra l’artista che indossa un durumagi azzurro, un soprabito maschile che fa parte dell’abbigliamento tradizionale coreano. Uno dei quattro autoritratti ancora esistenti dei molti realizzati dall’artista, è

CHILGOK, COREA DEL SUD, 1913–1965

considerato il suo capolavoro e un perfetto esempio dell’ibridazione da lui operata fra pittura occidentale e quella dell’Asia orientale. Ciò è visibile nell’inclusione di vari significanti visivi. L’abbigliamento coreano è completato da un fedora, un cappello occidentale indossato dalle classi più elevate, che rivela il suo status. Lee si ritrae inoltre con in mano una tavolozza di colori a olio europei e un pennello da inchiostro dell’Asia orientale chiamato mopil. Si erge orgoglioso con sguardo sicuro di fronte a un paesaggio rurale con donne nel tradizionale hanbok sullo sfondo. Dai colori vivaci e innovativi, questo autoritratto conferisce all’artista il ruolo e il potere di immaginare il futuro della Corea e delle arti coreane.

L’opera di Lee Qoede è esposta per la prima volta alla Biennale Arte. —Adeena Mey

Self-portrait in a Long Blue Coat, 1948-1949 Olio su tela, 72 × 60 cm. Collezione privata, Corea del Sud.


SCHOEMANSVILLE, SUDAFRICA, 1929 – 1985, GA-RANKUWA, SUDAFRICA

NUCLEO STORICO • RITRATTI

Simon Lekgetho è noto per le sue nature morte e i suoi ritratti, benché non abbia mai seguito una vera e propria formazione artistica. Dopo aver goduto della protezione e guida di artisti come Walter Battiss, sviluppa un’opera unica che comprende immagini di animali selvatici e lavori ispirati alla pittura rupestre boscimane che lo influenzerà nell’adozione di uno stile di disegno vernacolare unico nel suo genere. I suoi temi sono incentrati sulle idee di guarigione, rinascita e continuità, idee messe in risalto da linee forti, intensi chiaroscuri e una visione attenta ai soggetti sulla tela. Le sue nature morte presentano oggetti fortemente illuminati, come ceramiche locali e conchiglie, collocati su sfondi scuri nei toni spenti del marrone, del grigio e del nero.

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Simon Lekgetho

Self-Portrait, 1957 Olio su tavola, 38,5 × 38 cm. Courtesy Norval Foundation. Photo Amber Alcock.

dimostra un intrigante gioco cromatico, indicativo di un’acuta comprensione del colore. Collocato su uno sfondo arancione tenue, si ha la sensazione che l’artista stia dipingendo nella tradizione occidentale del ritratto, in particolare nella tradizione dell’autoritratto, tanto da firmare l’opera con la dicitura “autoritratto”. L’opera di Simon Lekgetho è esposta per la prima volta alla Biennale Arte. —Heba Elkayal

STRANIERI OVUNQUE

Self-Portrait (1957) rivela l’esplorazione del colore, dell’ombra e della forma seguendo un’ispirazione in un certo senso geometrica, con cui cattura uno sguardo grave rivolto all’osservatore. Dipinge con forza i propri lineamenti, forse amplificandone alcuni aspetti, come la sporgenza del mento e la forma appuntita della testa. Queste volute esagerazioni servono a enfatizzare diverse caratteristiche di se stesso. Gli occhi e le labbra sono dipinti con maggiore delicatezza e la resa del tono della pelle nei gialli e negli azzurri acquamarina


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Celia Leyton Vidal

SANTIAGO, CILE, 1895-1975

il riconoscimento della comunità con cui ha condiviso venticinque anni della sua vita, venendo ribattezzata Millaküyen (“Luna d’oro”). È così che Celia Leyton ha scelto di ritrarsi in quest’opera, riunendo la complessa rete di segni della cultura mapuche e auto-dislocando la propria identità. Così, indossa il trarilonko (fascia per capelli d’argento), alcuni chaway (orecchini), una trapelakucha (pettorale d’argento) e una trariwe (fusciacca intrecciata). L’opera compare sulla copertina del suo libro Raza Araucana del 1950, parte di una serie di libri autopubblicati dall’artista. Celia Leyton è stata emarginata dalla storiografia artistica, essendo scarsamente rappresentata nei musei. L’opera di Celia Leyton è esposta per la prima volta alla Biennale Arte. —Gloria Cortés Aliaga

Celia Leyton è stata una pittrice, muralista, educatrice, scrittrice e direttrice culturale cilena, nonché figura imprescindibile nella storia delle donne artiste che hanno sviluppato la loro produzione in territori decentrati negli anni Trenta. Ha studiato a Santiago, ma ha trascorso la maggior parte della sua vita nel sud del Cile, dove ha insegnato nelle scuole femminili, creando gruppi di formazione guidati dalle stesse studentesse, come il Circolo del disegno. Nel 1942 ha creato l’Accademia di Belle Arti di Temuco, che mirava a dare visibilità ai valori

BIENNALE ARTE 2024

locali, in particolare a quelli della cultura mapuche. Dopo aver lasciato l’Accademia, si è recata in Europa esponendo al Círculo de Bellas Artes di Madrid, e ha donato le sue opere a varie istituzioni, tra cui il Musée de l’Homme di Parigi. Nel 1961, al ritorno a Santiago del Cile, ha aperto il suo Rucatelier (da ruca, “casa” nella lingua mapudungun e atelier), offrendo spazi per la formazione dei giovani, soprattutto di origine indigena. La sua vicinanza al popolonazione mapuche e la sua sensibilità verso la critica sociale le valsero

Millaküyén, 1950 ca. Olio su tela, 84 × 71,8 cm. Collezione Museo Nacional de Bellas Artes, Santiago del Cile.


Questo piccolo autoritratto, dipinto intorno ai vent’anni, rivela l’ambizione personale ma anche la sua ansia, specchio dei sentimenti e delle sfide della costruzione della nazione di Singapore. A rappresentazione della raggiunta maggiore età, il dipinto è stato pubblicato sulla copertina del catalogo della sua prima personale tenutasi nel 1970 presso la Camera di Commercio Cinese. Nel dipinto, Lim compare seduto in uno studio con tele astratte dai colori vivaci su cavalletti sullo sfondo. Fissa lo spettatore con un occhio solo. Sulla metà rotta degli occhiali, indossati davanti all’altro occhio, si vede il riflesso dei dipinti astratti che lo circondano. Rispetto al precedente autoritratto del 1955, che raffigura la sua giovanile diffidenza di neodiplomato alla scuola d’arte, Self-Expression (1957-1963 circa) è una dichiarazione più matura e sicura di sé, che abbraccia la sperimentazione degli stili artistici moderni occidentali pur mantenendo uno sguardo saldamente realista sulle condizioni di Singapore. L’opera di Lim Mu Hue è esposta per la prima volta alla Biennale Arte. —Adele Tan

Self-Expression, 1957-1963 ca. Olio su tavola, 34,3 × 30 cm. Collezione National Gallery Singapore. Courtesy National Heritage Board, Singapore; Koh Seow Chuan. © Estate di Lim Mu Hue.

STRANIERI OVUNQUE

Lim Mu Hue è uno dei più importanti artisti di xilografie di Singapore, la cui erudita produzione comprende dipinti con varie tecniche artistiche e rilievi scultorei. Formatosi nei metodi pittorici occidentali presso l’Accademia di Belle Arti di Nanyang negli anni Cinquanta, ma anche immerso nelle tradizioni culturali cinesi, le sue opere testimoniano i cambiamenti avvenuti a Singapore prima e dopo l’indipendenza. Negli anni Sessanta, Lim insegna arte nell’università che ha frequentato, prima di diventare redattore artistico presso il Nanyang Siang Pau (Nanyang Business Daily), creando vignette e illustrazioni per il supplemento artistico del giornale, spesso corredate di acute osservazioni e ironici commenti sociali. Nei decenni successivi, Lim espone attivamente sia a livello locale sia all’estero, ricoprendo anche il ruolo di consulente museale onorario presso l’Università di Nanyang e di ricercatore senior e visiting professor in Cina.

SINGAPORE, 1936–2008

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Lim Mu Hue


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Anita Magsaysay-Ho

ZAMBALES, FILIPPINE, 1914 – 2012, MANILA, FILIPPINE

Anita Magsaysay-Ho è una pittrice filippina riconosciuta per il contributo fondamentale alla storia del Modernismo del Sud-Est asiatico. Nata in una famiglia benestante, ha studiato all’Università delle Filippine sotto la guida di Fernando Amorsolo, che esercitò un’influenza decisiva sul suo stile figurativo. In seguito, è stata esposta alle tradizioni moderniste grazie agli studi all’estero presso l’Art Students League e la Cranbrook Academy of Art. Magsaysay-Ho incorpora quanto appreso nelle sue rappresentazioni di donne filippine rurali al lavoro, nei campi o al mercato, molte delle quali frutto dell’immaginazione o dei ricordi dell’infanzia. Tutte, che esprimano vigore o tenerezza, sono rese con un tocco nobilitante. Pur costretta a continui spostamenti a causa dell’attività del marito, l’artista tornerà su questo soggetto, fonte continua di empatia e possibilità estetiche, per il resto della sua vita, lasciando un’opera che è al contempo un’ode alla femminilità filippina. L’opera di Anita Magsaysay-Ho è esposta per la prima volta alla Biennale Arte. —CJ Salapare

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Self-Portrait, 1944 Olio su cartoncino Bristol, 61 × 48 cm. Collezione privata. Courtesy National Museum of the Philippines.


Negro Aroused, 1935 Legno, 63,5 × 43,1 × 21,5 cm. Photo Franz Marzouca. Collezione National Gallery of Jamaica. Courtesy National Gallery of Jamaica.

Negro Aroused (1935), la sua scultura più iconica, è indicativa del suo impegno politico durante un periodo vitale della storia del lavoro giamaicano. Elegantemente scolpita in legno di mogano (l’artista ne realizzò in seguito una replica in bronzo), l’opera mostra la maestosa figura di un uomo che emerge dalla schiacciante oppressione del colonialismo. Massa corpulenta di enormi proporzioni, la figura rivolge lo sguardo verso il cielo, come se aspirasse a un’altra realtà, forse una libera da vincoli economici, sociali e razziali. Nel periodo

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in cui fu realizzata la scultura, i Caraibi erano attanagliati da un’ondata di ribellioni operaie che vedevano i lavoratori dell’intera area protestare per i bassi salari e le pessime condizioni di lavoro; Negro Aroused, quindi, è una sorta di monumento al loro fermento e all’ardore rivoluzionario che animava la loro lotta. L’opera di Edna Manley è esposta per la prima volta alla Biennale Arte. —Ade J. Omotosho NUCLEO STORICO • RITRATTI

Edna Manley è stata una figura chiave della storia dell’arte giamaicana e con il proprio lavoro ambiva a nobilitare la cultura e il popolo giamaicani. Nata nello Yorkshire nel 1900, Manley cresce nella Gran Bretagna coloniale, da giovane studia presso varie istituzioni artistiche del paese prima di sposarsi con il politico Norman Manley e trasferirsi in Giamaica. Il suo mezzo di comunicazione è la scultura, in cui sviluppa uno stile personale, attingendo a un tipo di estetica internazionalista profondamente influenzata da temi sociali e molto diffusa nella prima parte del XX secolo. Pur essendo cresciuta all’interno dell’élite britannica, Manley prende le distanze dalla politica borghese. La sua arte rivela la sua grande vicinanza al popolo giamaicano e sostiene le cause della classe operaia nera.

BOURNEMOUTH, REGNO UNITO, 1900 – 1987, KINGSTON, GIAMAICA

STRANIERI OVUNQUE

Edna Manley


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Josiah Manzi

Nato nel 1918 in Zimbabwe da genitori emigrati dal Malawi, Josiah Manzi è stato un membro fondatore della comunità artistica di Tengenenge a Guruve, nonché pioniere del movimento di scultura contemporanea in pietra del Paese, iniziato negli anni Sessanta. Nello Zimbabwe coloniale le opportunità per i neri erano limitate e Manzi studia per diventare operaio edile. Nel 1967 trova lavoro presso la piantagione di tabacco di Tengenenge; quando le tensioni politiche rendono meno redditizia l’agricoltura, ha la possibilità di dedicarsi all’arte a tempo pieno diventando uno degli artisti più acclamati del movimento. Tengenenge era un luogo favorevole alla creazione di opere d’arte, in quanto si trovava in prossimità di grandi affioramenti di serpentino e di pietra da taglio. All’intensificarsi della Seconda Chimurenga a metà degli anni Settanta, la famiglia di Manzi è una delle poche a rimanere a Tengenenge, dove l’artista continua a scolpire fino alla morte, avvenuta nel 2022. Mfiti Woman and Snake (1990)

[LUOGO IGNOTO], ZIMBABWE, 1933-2022

era fino a poco tempo fa collocata nei giardini di Harare, un parco centrale che circonda in parte la National Gallery of Zimbabwe. Nella lingua chichewa parlata in Malawi, mfiti significa stregone. In quest’opera, l’artista raffigura una donna seduta che tiene tra le braccia un serpente a due zampe. Curiosamente, sia il serpente sia la donna presentano una fusione di caratteristiche zoomorfe e antropomorfe. Tra i motivi ricorrenti nell’opera di Manzi figurano teste a forma di cono, colli allungati ed esseri in parte umani e in parte animali totemici, come rinoceronti e uccelli. Il metodo di Manzi prevedeva l’ascolto della pietra, la rimozione del primo strato esterno e la comprensione di come essa dovesse essere modellata. Gran parte della sua pratica si ispira alle cosmologie e al folclore africano. Il suo approccio visivo era stato influenzato dalla spiritualità tradizionale del popolo Yao del Malawi, poiché era un chigure – un mascherato della società segreta – che spesso costruiva maschere di legno con il padre. L’opera di Josiah Manzi è esposta per la prima volta alla Biennale Arte. —Tandazani Dhlakama

BIENNALE ARTE 2024

Mfiti Woman and Snake, 1990 Pietra, serpentino nero, 182 × 60 × 53 cm. Courtesy l’Artista e National Gallery of Zimbabwe.


Nel 1945, ancora all’estero, l’artista abbandona una certa visualità facilmente associabile al Brasile. In quello stesso anno Martins definisce le proprie sculture “le mie dee e i miei mostri”, mentre continua a creare le proprie mitologie personali incentrate su figure femminili ibride, fantastiche o mostruose, in cui i temi dell’erotismo e del desiderio assumono ancor più evidenza. However (1948) – opera esemplare di quel periodo – raffigura una figura femminile con il corpo circondato da serpenti, uno che le stringe le gambe, l’altro che le comprime il petto e il seno. Sul volto, solo una bocca aperta che suggerisce un grido di dolore o di piacere. I serpenti – comunemente associati al femminile nell’opera di Martins – evocano una dinamica di dominio e di minaccia esterna o interna alle figure, che avviene tramite il riferimento a figure della mitologia greca, come Medusa, o amazzonica, come il Cobra Grande. Queste figure, tuttavia, non sono mai mostrate completamente “libere” e sembrano trarre la loro forza da questa dicotomia. L’opera di Maria Martins è esposta per la prima volta alla Biennale Arte. –Isabella Rjeille

However, 1948 Bronzo, 130 × 24 × 32,5 cm. Photo Vicente de Mello. Collezione Dalal Achcar Bocayuva Cunha, Brasile.

STRANIERI OVUNQUE

Maria Martins è stata una scultrice brasiliana nota per la sua partecipazione al Surrealismo internazionale, il cui lavoro ha messo in discussione le idee sul femminile, sul Brasile e sui tropici. Sposata con un diplomatico, trascorre gran parte della propria vita fuori dal Brasile. È solo negli Stati Uniti, negli anni Quaranta, che ottiene riconoscimento come artista nel circuito internazionale; partecipa a mostre surrealiste a New York e Parigi e poi alla Biennale Arte del 1952. Acquista notorietà con le sue sculture in bronzo raffiguranti mitologie amazzoniche, che le valgono il soprannome di “scultrice dei tropici”, denominazione che tuttavia finisce per limitare le interpretazioni più complesse del suo lavoro, imprigionandola nel ruolo di narratrice culturale del proprio paese all’estero. Maria Martins oscilla tra l’essere “troppo brasiliana” per l’arte internazionale e “troppo straniera” per l’arte brasiliana.

CAMPANHA, BRASILE, 1894 – 1973, RIO DE JANEIRO, BRASILE

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Maria Martins


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Carlos Mérida

Carlos Mérida, nato a Città del Guatemala nel 1891, è uno dei primi artisti a fondere Modernismo europeo e regionalismo latinoamericano, portando la cultura indigena al centro di quella visiva. Dal 1910 al 1914 vive e lavora a Parigi, dove si mescola ad artisti dell’avanguardia, tra cui Pablo Picasso, Joan Miró e Paul Klee, e ad artisti latinoamericani quali Diego Rivera. Mosso dalla curiosità per lo status quo artistico post-rivoluzione in Messico, nel 1919 si trasferisce nella capitale dove vive fino alla morte, nel 1985. Pur facendo parte del movimento muralista messicano, il suo stile geometrico si concentra non tanto su narrazioni politiche quanto su rappresentazioni non figurative. La sua opera è profondamente influenzata dalle arti e dalla cultura delle popolazioni indigene di Messico e Guatemala, che egli si impegna a promuovere incorporando elementi simbolici nei suoi murales, tra cui figurano monumentali opere a mosaico su costruzioni architettoniche negli anni Cinquanta e Sessanta.

CITTÀ DEL GUATEMALA, GUATEMALA, 1891 – 1985, CITTÀ DEL MESSICO, MESSICO

Motivo Guatemalteco (1919) fa parte di un corpus di opere che tenta di catturare l’essenza dei popoli indigeni e della cultura maya. Mescolando gli stili pittorici del Modernismo europeo ai simboli e agli elementi dell’arte popolare delle Americhe, Mérida ritrae una donna maya quiché in posa orgogliosa con gli abiti tradizionali rappresentativi della propria comunità. La donna potrebbe essere originaria degli altopiani di Quetzaltenango in Guatemala, dove Mérida è cresciuto, tuttavia l’artista realizza questo dipinto nell’anno in cui si trasferisce definitivamente a Città del Messico. Le tracce geometriche e colorate mettono in risalto i dettagli della fusciacca, del cerchietto e dell’huipil. I motivi e colori simboleggiano la visione del mondo propria della cultura della figura ritratta, e rappresentano gli elementi naturali che formano le origini del mondo. Il dipinto guida l’attenzione dello spettatore verso i dettagli tessili, rivelando così una comprensione del mestiere e non un’esotizzazione dei corpi femminili. —Eva Posas

BIENNALE ARTE 2024

Motivo Guatemalteco, 1919 Olio su tela, 97,5 × 71,5 cm. Photo Juan Carlos Mencos. Collezione The Hugo Quinto e Juan Pablo Lojo. Courtesy Collezione The Hugo Quinto e Juan Pablo Lojo.


I ritratti di Mgudlandlu spesso raffigurano donne o ragazze del gruppo etnico xhosa, solitamente in coppia. Al posto delle figure in ombra che tipicamente accompagnano questi soggetti, tuttavia, una foschia bianca indica il freddo, per ripararsi dal quale si rannicchiano e si piegano le anziane signore del titolo. Forse essa indica anche ciò che l’artista considerava il “sacro e protettivo potere del bianco”, un colore che – come racconta alla sua biografa Elza Miles quando ricorda le fattorie della sua fanciullezza a Peddie – applicava alle cornici di porte e finestre. Un’idea di sacralità satura quest’opera, poco conosciuta, non datata e insolita, le cui ampie forme

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fanno pensare allo stile successivo di Mgudlandlu. Le due donne appaiono vestite con l’uniforme di quella che probabilmente è una chiesa AmaZioni. Sono osservate dalla prospettiva “a volo d’uccello” amata dall’artista, che si identificava profondamente con i volatili e le cui rappresentazioni di queste creature in coppie armoniose, come in The Oystercatchers (1964), sono evocate dalla simmetria estetica delle due donne e dal gesto concorde delle loro braccia. L’opera di Gladys Mgudlandlu è esposta per la prima volta alla Biennale Arte. —Ruth Ramsden-Karelse

Two Old Ladies Shopping on a Cold Day, s.d. Vernice in polvere su tavola, 51 × 63 cm. Collezione privata.

STRANIERI OVUNQUE

Con i paesaggi inquieti che dipinge di notte, attingendo a piene mani all’infanzia trascorsa nella provincia rurale del Capo Orientale, l’insegnante e auto-proclamata “sognatriceimmaginista” Gladys Mgudlandlu diventa l’artista visiva nera più insigne nel Sudafrica degli anni Sessanta. Mgudlandlu resta intrappolata fra due estremi: i successi commerciali annunciati alla sua prima mostra personale nel 1961 nascondono una persistente precarietà, che si manifesta nella perdita di gran parte della sua opera. Presentata come “primitiva”, Mgudlandlu è soggetta sia alla denigrazione razzista da parte dei media, sia alla critica di alcuni contemporanei neri che ritengono il suo lavoro troppo poco politico. Nel 1971 – proprio quando quello che l’artista descrive come un mix di Impressionismo ed Espressionismo cede il passo all’astrazione – le ferite riportate in seguito a un incidente stradale impediscono per sempre a Mgudlandlu di dipingere. Nonostante le sue opere siano state esposte con frequenza, si è iniziato a riconoscerne nuovamente il valore solo dal primo decennio del XXI secolo, e i suoi paesaggi dipinti sono ora reinterpretati come potente protesta contro gli espropri coloniali.

PEDDIE, SUDAFRICA, 1917/1926 – 1979, CITTÀ DEL CAPO, SUDAFRICA

NUCLEO STORICO • RITRATTI

Gladys Mgudlandlu


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Bahman Mohasses

Bahman Mohasses studia pittura sotto la guida di Seyyed Mohammed Habib Mohammedi, docente formatosi all’Accademia delle Arti russa. Prosegue la propria formazione presso la Facoltà di Belle Arti dell’Università di Teheran, città dove si unisce all’associazione culturale e letteraria iraniana Fighting Cock Society, e dove cura il settimanale Panjeh Khoroos (zampa di gallo), prima di partire per Roma per completare gli studi all’Accademia di Belle Arti. Tornato in Iran all’inizio degli anni Sessanta, diventa parte attiva del movimento artistico moderno iraniano, che beneficiava delle riforme culturali laiche dell’era Pahlavi.

Pittore eclettico e singolare, interessato a esplorare visioni astratte di tipo surrealista, grazie a una pratica artistica che abbraccia pittura, scultura, progettazione, regia teatrale e traduzione letteraria, Mohasses si distingue dai propri contemporanei. Partecipa a biennali a Parigi, Teheran, San Paolo e Venezia. A causa delle sue idee politiche, dopo la rivoluzione islamica del 1979 in Iran, le sue opere sono state distrutte. In seguito alle turbolenze provocate dalla rivoluzione, si trasferisce a Roma, dove vive fino alla morte, avvenuta nel 2010. Impregnato di simbolismo, Untitled (Personages) (1966) raffigura una muscolosa figura

RASHT, IRAN, 1931 – 2010, ROMA, ITALIA

ibrida umano-aliena simile a un minotauro mitologico, che non presenta tratti somatici se non due occhi incavati. Il minotauro è una figura ricorrente nei ritratti di Mohasses e spesso indica il suo senso di alienazione, mentre lavora contro le politiche identitarie. L’opera è anche un cenno alle favole persiane in cui gli animali vengono allegorizzati per trasmettere racconti morali, tradizione che affonda le sue radici nell’antico Panchatantra, una raccolta di favole indiane in sanscrito. Tradotto in persiano medio nel VI secolo, il Panchatantra ha successivamente influenzato il teatro e le performance iraniane. —Sara Raza

Untitled (Personages), 1966 Olio su cartoncino , 70 × 50 cm. Photo Justin Piperger. Courtesy Taimur Hassan Collection.


Montenegro è ancora in Europa quando scoppia la Prima guerra mondiale e questo lo porta a stabilirsi a Maiorca per sei anni. Lì dipinge scene ispirate ai costumi locali, tra cui una delle maggiori attività dell’isola: la pesca. Pescador de Mallorca (1915) ritrae di spalle un uomo bronzeo e muscoloso. Il pescatore volge lo sguardo a chi osserva, mentre il braccio destro stringe un grande vassoio di pesce fresco. Rami spogli e argentei e rigogliosi fichi d’India si frappongono tra la persona e il paesaggio costiero sullo sfondo, con

Pescador de Mallorca, 1915 Olio su tela, 100 × 97 cm. Courtesy Instituto Nacional de Bellas Artes y Literatura; Museo Nacional de Arte, Città del Messico.

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scogli che tagliano di netto il blu del mare. Ben lontano dalle atrocità della guerra, il soggetto del quadro, nello stile decorativo e nella sontuosa gamma cromatica usata per renderlo, preannuncia il ruolo che continueranno a svolgere la fantasia e la tradizione nell’opera più tarda dell’artista. L’opera di Roberto Montenegro è esposta per la prima volta alla Biennale Arte. —Marko Ilić

STRANIERI OVUNQUE

Roberto Montenegro, pittore, illustratore, tipografo e scenografo, è membro fondatore del movimento del Muralismo messicano. Nato da una famiglia dell’élite di Guadalajara, inizia la carriera artistica come apprendista di Félix Bernardelli, pittore brasiliano di origini italiane, e quindi si iscrive alla Escuela Nacional de Arte di Città del Messico, dove studia anche Diego Rivera. Come quest’ultimo, Montenegro trascorre la maggior parte della Rivoluzione messicana studiando all’estero, in Europa. Tornato definitivamente in Messico nel 1921, è uno dei quattro artisti cui vengono commissionati i primi murales finanziati dal governo a Città del Messico. In seguito diviene noto soprattutto per le opere che combinano una visione surrealista e uno stile popolare volutamente naïf. Figura di spicco del Modernismo messicano, Montenegro è anche appassionato dell’artigianato e dell’arte popolare messicani e, nel 1934, viene nominato primo direttore del Museo de Arte Popular del Messico.

GUADALAJARA, MESSICO, 1885 – 1968, CITTÀ DEL MESSICO

NUCLEO STORICO • RITRATTI

Roberto Montenegro


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Camilo Mori

VALPARAÍSO, CILE, 1896 SANTIAGO, CILE, 1973

Camilo Mori è stato un pittore, cartellonista e scenografo teatrale, uno dei più prolifici e poliedrici artisti d’avanguardia del Cile. Diplomato alla Scuola di Belle Arti di Santiago, Mori si reca in Europa all’inizio degli anni Venti, qui approfondisce i suoi studi nelle libere accademie e partecipa al Salon d’Automne. Questa esperienza è fondamentale per la sua carriera e al suo ritorno crea il collettivo artistico Gruppo Montparnasse (1923) e partecipa al Salón de Junio (1925) che ospita artisti come Pablo Picasso e Juan Gris. Nel 1928, riceve una borsa di studio dal governo per studiare arti applicate in Europa, dove si specializza in manifesti pubblicitari che sviluppa insieme alla pittura, ricevendo riconoscimenti internazionali. Compie un terzo viaggio nel 1957, quando sperimenta l’astrazione. La viajera (1928) è il risultato dei suoi primi esperimenti

con le tendenze europee, in particolare quelle emerse dopo Paul Cézanne. È un ritratto della moglie, la pittrice Maruja Vargas Rosas, la cui opera è scarsamente citata, essendo riconosciuta più come musa del pittore che come artista autonoma. Il ritratto, realizzato a Valparaíso, rappresenta la passeggera di un treno nel periodo di massimo splendore del trasporto ferroviario in Cile. Il treno divenne uno spazio di appropriazione per le donne, permettendo loro di spostarsi liberamente da un luogo all’altro nel bel mezzo della lotta per il diritto di voto femminile. La protagonista del dipinto porta con sé anche un libro, segno dell’accesso delle donne alla sfera culturale. Mori, membro del Partito Comunista e direttore del Museo Nazionale di Belle Arti, ha ricevuto il Premio Nazionale d’Arte nel 1950 e rimane una figura emblematica della storia dell’arte cilena. La viajera è la sua opera più nota ed è tuttora ampiamente riprodotta su francobolli, libri scolastici e calendari. L’opera di Camilo Mori è esposta alla Biennale Arte per la prima volta. —Gloria Cortés Aliaga

BIENNALE ARTE 2024

La viajera, 1928 Olio su tela, 100,5 × 70 cm. Collezione Museo Nacional de Bellas Artes, Santiago del Cile.


Questo autoritratto del 1970 esemplifica la sua ricerca artistica: l’immagine gioca con la pittura, il corpo umano e la rappresentazione. La figura tiene la cornice in un gioco di metalinguaggi che pervade il percorso di Morsi come artista visivo. In questo quadro nel quadro, notiamo come l’artista giochi con l’idea di astrazione – ponendosi in dialogo con molti artisti a essa interessati, – quando accosta un cerchio e aree di colore sul proprio corpo. È un autoritratto di Morsi che, più che un pittore, è stato un commentatore della storia dell’arte della propria generazione. L’opera di Ahmed Morsi è esposta per la prima volta alla Biennale Arte. —Raphael Fonseca

Portrait of the artist with a broken mirror, 1970 Olio su legno, 124 × 81 cm. Collezione Barjeel Art Foundation, Sharja. Courtesy Barjeel Art Foundation, Sharja.

STRANIERI OVUNQUE

Ahmed Morsi è uno scrittore, scenografo e artista visivo che ha dedicato gran parte della propria attività alla pittura e al suo rapporto con la figurazione. Con una pratica poetica iniziata negli anni Quaranta e articolata nell’ambito del Surrealismo egiziano, Morsi si laurea all’Università di Alessandria nel 1954 con una specializzazione in letteratura inglese. Nello stesso decennio si dedica alla pittura e partecipa a mostre collettive in Egitto. Tra il 1954 e il 1956, entra in contatto con la scena artistica di Baghdad, in Iraq, e inizia a lavorare come scenografo, diventando in seguito il primo egiziano a creare le scenografie per l’Opera del Cairo. Nel 1968, insieme ad altri intellettuali, crea la rivista Galerie 68, che diventa una delle pubblicazioni più importanti della critica culturale egiziana, soprattutto per le riflessioni su letteratura e arti visive. Nel 1974, per motivi familiari, si trasferisce a New York, dove prosegue la sua carriera non solo come artista ma anche come agitatore culturale, organizzando pubblicazioni, traducendo testi e stabilendo legami tra la scena delle arti visive negli Stati Uniti e gli artisti appartenenti alla varietà culturale del mondo arabo.

ALESSANDRIA, EGITTO, 1930 VIVE A NEW YORK, USA

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Ahmed Morsi


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Effat Naghi

Nata in una ricca famiglia di proprietari terrieri di Alessandria d’Egitto, Effat Naghi viene avviata al disegno, alla pittura e alla musica fin da piccola, per poi acquisire una formazione artistica ufficiale presso l’Accademia di Belle Arti di Roma nel 1947, dove apprende l’arte dell’affresco. A Parigi diventa allieva e amica di André Lhote. Nel 1954 sposa il pittore Saad al-Khadem e insieme studiano arti e tradizioni popolari egiziane. Naghi introduce nella propria arte elementi visivi attinti dall’astrologia e dalle scienze occulte, che diventeranno la sua cifra artistica. A partire dagli anni Sessanta produce assemblaggi di pezzi di legno dipinti e oggetti trovati. Visitando Assuan nell’ambito di missioni governative, raffigura i meccanismi dell’Alta Diga e partecipa alla riscoperta della cultura nubiana. Se il fratello, Mohamed Naghi, è considerato una figura di spicco della pittura egiziana della prima età moderna, anche lei si distingue per l’innovativo uso del vocabolario visivo e dei materiali.

ALESSANDRIA, EGITTO, 1905-1994

Alla fine degli anni Cinquanta, l’opera di Naghi subisce una svolta stilistica, alimentata dall’interesse per la storia egiziana e le culture popolari, e caratterizzata da colori vivaci e forme e figure semplificate. La composizione e la tavolozza naturalistica di questo ritratto di donna sono di natura più classica. L’andamento verticale, le tonalità ocra e marroni, l’acconciatura sofisticata della modella, la tunica bianca, le linee nere che accentuano i grandi occhi e le sopracciglia ricordano i ritratti del Fayyum che ricoprivano i volti delle mummie dell’alta società dell’Egitto romano. Tuttavia, l’uso del truciolato – un materiale con particelle visibili che spesso fungeva da base per i suoi dipinti – insieme all’aggiunta di riflessi verdi, blu e rosa sul viso e sui capelli della modella, dà vita a un’interpretazione moderna di questa antica tradizione pittorica su tavola. Lo sfondo è animato da linee in inchiostro nero che tracciano quelli che sembrano simboli e scritte evocativi delle parole magiche talvolta incorporate nei lavori dell’artista. Effat Naghi compare fra gli artisti che hanno rappresentato l’Egitto alla Biennale Arte del 1950, 1952 e 1956. —Nadine Atallah

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Untitled, 1960 Olio e inchiostro su pannello, 121,5 × 81,5 cm. Photo Maria e Mansour Dib. Courtesy Ramzi e Saeda Dalloul Art Foundation.


497 NUCLEO STORICO • RITRATTI

Ismael Nery, pittore, disegnatore e poeta, da bambino si trasferisce a Rio de Janeiro con la famiglia. Studia alla Escola Nacional de Belas Artes e negli anni Venti si reca due volte in Europa. Nel corso del primo viaggio, conosce il lavoro degli artisti d’avanguardia e nella propria pittura incorpora in particolar modo il Cubismo. Nel secondo viaggio incontra gli artisti surrealisti, tra cui Marc Chagall, che da quel momento eserciterà grande influenza sulla sua produzione artistica. Nery realizza molti ritratti e autoritratti in cui mira a rappresentare l’essenza dell’essere umano, indipendentemente dal tempo e dallo spazio. Sempre negli anni Venti concepisce un sistema filosofico denominato Essenzialismo che promuove la ricerca di un’unità originaria da lungo tempo perduta dall’umanità. Rappresenta questa teoria attraverso la pittura e la poesia, da lui considerate un’iniziazione al cattolicesimo. Si spegne all’età di trentatré anni a causa della tubercolosi.

BELÉM, BRASILE, 1900 – 1934, RIO DE JANEIRO, BRASILE

La riflessione sul senso della vita ha sempre guidato la produzione artistica di Ismael Nery: l’io, l’altro e la loro intersezione, i riflessi e le ombre, la ricerca dell’interezza sono tutti temi ricorrenti. Nel dipinto Figura decomposta (1927), due corpi rappresentati in maniera schematica – torsi maschili e femminili – sono parzialmente giustapposti, rivolti in avanti. All’altezza del collo, le figure si dividono formando immagini ambigue: sono entrambe di profilo o sono due metà dello stesso volto frammentato? Seguendo la propria teoria dell’Essenzialismo,

Figura decomposta, 1927 Olio su tela, 42 × 47,5 cm. Photo Sergio Guerini. Collezione privata. Courtesy Almeida & Dale Galeria de Arte. © Sergio Guerini.

Nery illustra la divisione dell’unità primordiale delle polarità femminile e maschile, idealmente costitutive di ogni individuo. La semplificazione delle forme, la geometrizzazione, la frammentazione delle figure in piani e la tavolozza monocromatica fanno parte del lessico cubista assorbito dal pittore durante il suo primo viaggio a Parigi negli anni Venti. L’opera di Ismael Nery è esposta per la prima volta alla Biennale Arte. —Regina Barros

STRANIERI OVUNQUE

Ismael Nery


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Malangatana Valente Ngwenya

MATALANA, MOZAMBICO, 1936 – 2011, MATOSINHOS, PORTOGALLO

Malangatana Valente Ngwenya – pittore, poeta, musicista, intellettuale e rivoluzionario – ha dato voce alle lotte dei popoli del suo Paese e dell’Africa. Nato nel Mozambico tardo-coloniale, ha vissuto le depredazioni del colonialismo portoghese. In assenza del padre lavoratore migrante, da bambino Ngwenya lavora come pastore, trasferendosi a Maputo (allora Lourenço Marques) a dodici anni. Scoperto l’interesse per la pittura, prende lezioni al Núcleo de Artes, dove espone per la prima volta in una mostra in onore del Ministro dei Territori d’Oltremare (1959). Fin dai primi lavori, utilizza l’intensità del colore per trasmettere la violenza del colonialismo e della guerra. Nel 1964 aderisce al partito socialista FRELIMO; viene incarcerato dalle forze di sicurezza portoghesi e durante i diciotto mesi di detenzione produce una serie di notevoli disegni. To the Clandestine Maternity Home (1961) è una densa composizione pittorica che parla dell’oppressione femminile sotto il dominio coloniale, del controllo del corpo e della riproduzione femminili, nonché dell’esistenza di reparti di maternità clandestini e di reti per l’aborto. La tela, affollata di corpi sovrapposti e intrecciati, è dominata dai volti tormentati di donne appartenenti a ogni estrazione sociale. I loro sguardi penetranti sono rivolti verso lo spettatore o di lato, segnalando la consapevolezza di quanto le circonda e dello sguardo maschile che sorveglia e controlla. Una delle figure dominanti è una

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madre emaciata; il feto in grembo è mostrato cullato dalle mani laboriose e dalle braccia rassicuranti della madre. A differenza di questa malnutrita madre in attesa, le sue controparti bianche sono corpulente. A destra un’altra figura rivelatrice, una domestica con i capelli legati da un doek, allatta un bambino nato da un’unione interrazziale (o da uno stupro) mentre osserva in silenzio il resto delle donne in quest’ode dell’artista alla maternità. L’opera di Malangatana Valente Ngwenya è esposta per la prima volta alla Biennale Arte. —Nancy Dantas

To the Clandestine Maternity Home, 1961 Olio su tela, 157 × 180 cm. Collezione Università di Bayreuth, Germania. Courtesy Università di Bayreuth.


Madona de Ternura, 1946-1951 Granito Comanche, 28,8 × 22,5 × 32,8 cm. Collezione MAC USP, San Paolo, Brasile.

El Olivar di San Isidro ospita oggi un museo e un giardino di sculture in cui sono ospitate molte delle sue opere. Madona de la Ternura (19461951), o Madonna della tenerezza, è una scultura in granito screziato che si colloca a metà strada nel percorso artistico di Núñez del Prado, tra le prime figure indigeniste in legno e pietra e le successive astrazioni organiche in metallo. È una coinvolgente immagine di madre e figlio che rappresenta la tenerezza indigena. La morbidezza dei due corpi avvolti come in un bozzolo all’interno della pietra – solo i tratti dei loro volti, l’uno accoccolato accanto all’altro, sono visibili all’interno dell’apertura – dimostra l’abilità dell’artista nel maneggiare il materiale. La scultura è

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monumentale ma intima, cattolica e aymara. Il materiale di cui è composta – pur trattandosi di un tipo di granito non originario né della Bolivia né del Perù – evoca la natura tellurica della mitologia e della cosmologia andina; tuttavia, con la scelta del soggetto religioso, Núñez del Prado ha creato un posto per sé e per le sue “figlie” aymara nella storia dell’arte. —Lisa Trever

NUCLEO STORICO • RITRATTI

Marina Núñez del Prado, celebrata tra i più famosi scultori dell’America del Sud del XX secolo, nel corso della propria carriera ha creato opere in stile indigenista e astratto con diversi medium artistici. Nata a La Paz, in Bolivia, da una famiglia appassionata di musica e arti, studia pittura e scultura presso l’Academia Nacional de Bellas Artes dove lavorerà in seguito come docente di scultura e anatomia artistica. Le sculture, a volte dall’artista definite le sue “figlie”, evidenziano i profili corporei femminili, anche nel successivo orientamento verso forme astratte. Le sue opere sono state esposte in tutta l’America Latina, negli Stati Uniti, in Europa e in Giappone. Nel 1971, Núñez del Prado si trasferisce a Lima, in Perù. La sua casa nell’elegante quartiere

LA PAZ, BOLIVIA, 1910 – 1995, LIMA, PERÙ

STRANIERI OVUNQUE

Marina Núñez del Prado


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Alejandro Obregón

BARCELLONA, SPAGNA, 1920 – 1991, CARTAGENA, COLOMBIA

Alejandro Obregón nasce a Barcellona da padre colombiano e trascorre l’infanzia tra l’Europa e gli Stati Uniti. Negli anni Quaranta si afferma come giovane artista promettente nella crescente scena artistica colombiana. In seguito all’assassinio del leader progressista Jorge Eliécer Gaitán nel 1948, lascia l’incarico di direttore della Escuela Nacional de Bellas Artes e si trasferisce ad Alba-la-Romaine, in Francia, dove risiede per quasi un decennio prima di tornare in Colombia. “È importante che Alejandro Obregón sia tornato in Colombia”, scrisse la critica Marta Traba nella sua rubrica sul quotidiano El Tiempo nel 1959. Cofondatrice del Museo d’Arte Moderna della Colombia e sostenitrice dell’avanguardia, Traba affermava spesso che Obregón era il primo pittore moderno del paese. Lo raggruppava con gli artisti che definiva “los nuevos” – tra cui Fernando Botero, Enrique Grau Araújo, Edgar Negret e Eduardo Ramírez Villamizar – vedendo nella loro arte un passo fondamentale nella modernizzazione delle pratiche artistiche locali.

In Máscaras (1952), un personaggio femminile mascherato regge un vassoio con del cibo e un elmo da conquistatore collegato a una maschera antigas. Questi due oggetti suggeriscono una continuità simbolica tra la colonizzazione delle Americhe e gli eventi postbellici del XX secolo, che stavano trasformando la geopolitica globale dell’epoca. Pur esplorando l’astrazione, l’opera di Obregón rimane sempre figurativa, con continui commenti sulla violenza politica in Colombia. Tra il 1955 e il 1956 riceve un premio nazionale Guggenheim e le sue opere entrano nelle collezioni dell’Organization of American States e del Museum of Modern Art di New York. All’apice del suo riconoscimento internazionale, Máscaras viene acquisito dal Museo Nacional de Colombia nel 1956 e collocato nella tromba delle scale che separava la collezione di Belle Arti da quella storica, intrecciando tra loro importanti connessioni. L’opera di Alejandro Obregón è esposta per la prima volta alla Biennale Arte. —Laura Hakel

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Máscaras, 1952 Olio su tela, 210 × 107 cm. Courtesy Museo Nacional de Colombia, Bogotá.


Male Model Standing, 1959 Olio su tavola, 92,3 × 60,7 cm. Photo Paul Odijie. Collezione G. Hathiramani. Courtesy Estate dell’Artista.

Okeke ha circa ventisei anni quando dipinge questo autoritratto di ispirazione postimpressionista, un anno prima della pubblicazione del manifesto Natural Synthesis e dell’indipendenza politica della Nigeria. Il colore predominante, l’indaco nigeriano, bagna le pareti alle sue spalle e si riflette sul petto, un riferimento all’antica cultura della tintura di indaco. Dalle ombre sulla parete alla sua sinistra, che

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appare più scura, Okeke ci guarda intensamente, rilassato, malinconico, bello, pronto per l’alba di una nuova Nigeria. L’opera di Uche Okeke è esposta per la prima volta alla Biennale Arte. —Nancy Dantas

NUCLEO STORICO • RITRATTI

Uche Okeke, nato nella Nigeria settentrionale da una famiglia igbo, fonda la Zaria Art Society (1957-1961) con i compagni Demas Nwoko e Simon Okeke mentre frequenta il secondo anno del Nigerian College of Arts, Science and Technology. Privilegiando le discussioni sull’arte e la cultura indigena e la documentazione di leggende e racconti popolari, il gruppo sfida il piano di studio eurocentrico coloniale del college e il programma artistico, ponendo i propri “studi collaterali” al centro del lavoro. Come risultato delle sessioni del gruppo, nel 1958 Okeke redige il manifesto Natural Synthesis, sostenendo l’impiego consapevole e intenzionale di nuovi materiali e tecniche per la creazione di immagini. Scrivendo del Nuovo Artista, Okeke afferma che questi dovrebbe adattarsi alle idee provenienti dall’Oriente e dall’Occidente, agendo al contempo da custode della propria eredità. Coerentemente, Okeke basa la propria ricerca e la propria pratica sulla produzione culturale degli Igbo. Con l’aiuto degli anziani dei villaggi, raccoglie diverse centinaia di racconti popolari (pubblicati nel 1971) e, con i suoi studenti, studia i principi dell’Úlí, una forma di pittura murale e corporea.

NIMO, NIGERIA, 1933-2016

STRANIERI OVUNQUE

Uche Okeke


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Pan Yuliang

Dalle sue umili origini di orfana venduta come prostituta, la vita errante di Pan Yuliang – artista rivoluzionaria, pedagoga e “Donna Nuova” forgiata durante il fronte di riforma culturale e sociopolitico noto come Movimento del Quattro Maggio – è stata profondamente intrecciata ai movimenti artistici moderni e alle rotture geopolitiche del XX secolo. Pan Yuliang è stata presente in mostre internazionali e celebrata per i suoi colori e ritratti esuberanti, soprattutto nudi femminili e spesso autoritratti, che hanno suscitato polemiche e ammirazione per il loro vibrante senso di individualità e indipendenza. Tra le prime studentesse ammesse allo Shanghai Fine Arts College nel 1920, vi ritorna nel 1928 come responsabile del corso di pittura occidentale, dopo aver studiato a Lione, Parigi e Roma. Le amicizie instaurate durante il suo primo soggiorno europeo annoverano prestigiosi artisti come Xu Beihong, Sanyu e Fang Junbi, altrettanto impegnati a calibrare le ricche tradizioni pittoriche della Cina con il Modernismo occidentale. Pan Yuliang torna a Parigi nel 1937 e rimane in una condizione di diaspora fino alla sua morte.

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Back of Nude (1946) esemplifica l’approccio unico di quest’artista al nudo femminile, che spesso combina la tecnica a linee sottili della tradizione pittorica cinese – a cui unisce un rigore intrinseco nell’articolazione espressiva della forma – con una libertà fauvista nel colore e nello spazio. I curiosi bagliori lungo la spina dorsale e il busto eretto della figura seduta suggeriscono una fonte luminosa che apparentemente contraddice il paesaggio aperto e leggermente smorzato della riva del fiume e delle palme. Gli esempi esistenti di figure quasi identiche con sfondi diversi suggeriscono un esperimento con il genere e le modalità di narrazione, in cui le tendenze

YANGZHOU, CINA, 1895 – 1977, PARIGI, FRANCIA

orientaleggianti – segno distintivo del Modernismo europeo – si intersecano con l’immaginazione cosmopolita di un’artista diasporica. Chen Duxiu, una delle figure culturali e politiche chiave del Movimento della Nuova Cultura, ha osservato che i dipinti di Pan Yuliang “traggono il loro spirito dalla pittura ad olio e dalle sculture europee, pur conservando la tecnica cinese della linea fine [...] uno stile che definisco nuova linea fine, una valutazione [con cui] Yuliang stessa concorda” (1937). L’opera di Pan Yuliang è esposta per la prima volta alla Biennale Arte. —Xin Wang

Back of Nude, 1946 Olio su tela, 65 × 50,2 cm. Collezione privata. © 2017 Christie’s Images Limited.


NUCLEO STORICO • RITRATTI

Amelia Peláez – pittrice, ceramista, illustratrice e muralista cubana – rappresenta una delle figure femminili più interessanti ed eccezionali della modernità latinoamericana. Entrata all’Academia San Alejandro di Cuba, prosegue gli studi all’Art Students League di New York e successivamente a Parigi, dove si iscrive alla Grande Chaumière, all’Ecole du Louvre e all’École Nationale Supérieure des Beaux Arts, in cui studia pittura con l’amica scrittrice cubana Lydia Cabrera. Nel 1931, entra nell’atelier di Fernand Léger, dove conosce la designer, scenografa e artista costruttivista russa Alexandra Exter, che la introduce a nuove idee sul colore e sul design. Il 1933 vede una sua personale presso la famosa Galerie Zak e il Salon des Tuileries, nell’ambito del circuito che permette agli artisti latinoamericani di posizionarsi strategicamente nell’ambiente parigino basato sul linguaggio internazionalista delle avanguardie, ma a partire dalle proprie posizioni e idee.

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YAGUAJAY, CUBA, 1896 – 1968, L’AVANA, CUBA

A questo periodo appartiene Mujer con abanico (1931). Tornata a Cuba nel 1934, un anno dopo espone le sue opere al Liceo femminile, un’istituzione culturale e sociale di grande importanza per la storia dell’arte cubana. Da questo momento in poi, Amelia Peláez dà vita a un’eccezionale opera che dalla cultura afrocubana prende gli elementi associati al colore, alla forma e alla natura, trasformandoli in un immaginario astrattoornamentale, personale e politico. Partecipa attivamente alle riviste Orígenes ed Espuela de plata, dirette dal poeta José Lezama Lima; queste

Mujer con abanico, 1931 Olio su tela, 69,4 × 58,5 cm. Collezione Sandy e George Garfunkel, Palm Beach, USA. Courtesy Sandy e George Garfunkel.

pubblicazioni erano proposte nazionaliste che consentivano una combinazione di immagini e aspetti scritti e visivi, nell’ambito delle possibilità di un’identità di “origine”. Infine, l’artista rappresenta Cuba alla Bienal de São Paulo nel 1951 e alla Biennale di Venezia l’anno successivo. Con l’avvento della Rivoluzione cubana, Amelia rimane all’Avana fino alla morte, avvenuta nel 1968. L’opera di Amelia Peláez è esposta per la prima volta alla Biennale Arte. —Gloria Cortes Aliaga

STRANIERI OVUNQUE

Amelia Peláez


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George Pemba

PORT ELIZABETH, SUDAFRICA, 1912 – 2001, CAPO ORIENTALE, SUDAFRICA

a olio a causa del maggior valore attribuito a questo mezzo dai potenziali acquirenti, in particolare dai collezionisti bianchi. La dedizione di Pemba all’acquerello e alla pittura a olio si traduce, oltre che nell’impegno a catturare gli aspetti tradizionali e culturali della vita sudafricana, in una delle più riuscite documentazioni visive dell’epoca. L’opera di George Pemba è esposta per la prima volta alla Biennale Arte. —Heba Elkayal

L’arte di George Pemba è stata spesso classificata come “Township Art”, ma il suo lavoro è essenzialmente apprezzato per la grande varietà di scene di vita e cultura sudafricane. Incoraggiato dai genitori fin da bambino a disegnare e dipingere, a sedici anni vince una borsa di studio per studiare arte. Con l’inconfondibile stile fatto di tratto semplice e pulito, forte uso del colore e rigore compositivo, le opere di Pemba presentano una varietà di ritratti di sudafricani e di momenti quotidiani – come le incursioni della polizia, i pazienti negli ambulatori medici e i contadini al lavoro nei campi. Celebrato

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soprattutto per la maestria nell’acquerello, le sue opere migliori sono ritenute quelle dipinte tra il 1933 e il 1947. Young Woman (1947) è un dipinto a olio che ritrae una ragazza alla soglia della pubertà. La figura – in abito tradizionale, ornata di gioielli e con un copricapo di tessuto – rivolge all’osservatore uno sguardo timido. Oltre a padroneggiare l’acquerello, Pemba utilizza i colori a olio per evidenziare la vivacità dei colori e dei paesaggi del Sudafrica. Benché sconsigliato dai colleghi, Pemba abbandona gli acquerelli a favore della pittura

Young Woman, 1947 Olio su tela, 59 × 44 cm. Photo Amber Alcock. Courtesy Norval Foundation.


Nato in Argentina da genitori italiani, Emilio Pettoruti intraprende un viaggio di formazione in Europa, dove soggiorna dal 1913 al 1924 e partecipa direttamente a gruppi d’avanguardia, pur non aderendo ai dettami di alcun movimento. Conoscitore del Futurismo e del Cubismo, dimostra interesse anche nei confronti dell’arte classica. Come egli stesso affermò, cercava un’arte che fosse “moderna, sì, ma coerente con le virtù dell’arte che ammiravo di più: quella del Quattrocento”. Pur studiando gli antichi maestri italiani, si confronta anche con Umberto Boccioni, Filippo Tommaso Marinetti e Carlo Carrà, tra gli altri. Al suo ritorno in Argentina, nel 1924, Pettoruti organizza una mostra dei suoi dipinti che lo consacra come pioniere dell’avanguardia. Si impegna per consolidare l’arte moderna attraverso il proprio lavoro, anche durante il suo incarico come direttore del Museo Provincial de Bellas Artes de La Plata, dove aspira ad ampliare il pubblico dell’arte d’avanguardia.

La del Abanico Verde o El abanico verde (1919) mostra la visione unica di Pettoruti dell’arte moderna. Il corpo della donna è sintetizzato in forme geometriche. Tiene in mano un ventaglio, le cui curve in movimento trovano risonanza visiva nelle linee che circondano la testa della donna, enfatizzando la percezione dinamica del movimento, un interesse essenziale che condivideva con i futuristi italiani. Le pieghe del volume del ventaglio inoltre permettono all’artista di dimostrare la sua padronanza dei piani frammentati e consecutivi tipici del Cubismo, dalla cui sobrietà cromatica sfugge tuttavia l’abito rosa della donna – che invece ricorda le tonalità delle tuniche degli angeli dipinte da Beato Angelico, un artista che Pettoruti studia. Questo quadro fu esposto per la prima volta a Milano nel 1919, dove Pettoruti viveva all’epoca. —Florencia Malbran

LA PLATA, ARGENTINA, 1892 – 1971, PARIGI, FRANCIA

La del Abanico Verde, 1919 Olio su tela, 96 × 50 cm. Collezione Eduardo F. Costantini.

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Emilio Pettoruti


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Candido Portinari

SAN PAOLO, BRASILE, 1903 – 1962, RIO DE JANEIRO, BRASILE

Candido Portinari, secondo di dodici figli, nasce a Brodowski, cittadina nella campagna intorno a San Paolo, in una famiglia di immigrati originari del Veneto. Talento naturale e artista autodidatta, inizia a disegnare all’età di sei anni. A quattordici, su invito di un gruppo di pittori e scultori italiani, partecipa al restauro della chiesa locale. Nel 1928, a venticinque anni, mostrando nuovamente la sua precocità, vince un premio per un viaggio studio in Europa e attraversa Italia, Inghilterra, Spagna e Francia, stabilendosi infine a Parigi. Nel 1931 fa ritorno in Brasile, dove diviene uno dei più importanti artisti nazionali del XX secolo. Nel 1939, il MoMa acquisisce il suo dipinto Morro (1933). Nel 1940, il museo statunitense ospita una sua personale, Portinari of Brazil, con circa 180 opere. Artista politicizzato, attento ai problemi sociali del Brasile, aderisce al Partito Comunista Brasiliano nel 1945.

Cabeça de Mulato (1934) è un’opera significativa nel contesto dei ritratti di Portinari, uno dei suoi linguaggi più rappresentativi. L’artista dimostra la sua straordinaria abilità di disegnatore, come si nota dall’uso del chiaroscuro e soprattutto dai tratti delicati e precisi che delineano gli occhi, il naso, la bocca e il mento. Nel corso della sua vita, Portinari dipinge oltre settecento ritratti. Gli interessa in particolare ritrarre tipologie di brasiliani “popolari”, tra cui contadini mulatti e di colore e umili

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migranti. Nel Brasile dell’epoca il termine “mulatto” designa una persona di origine multietnica — nata da genitori di etnie diverse, solitamente di ascendenza africana ed europea. Tuttavia da allora la parola ha acquisito connotazioni dispregiative e discriminatorie nel Paese e oggi se ne ripudia l’uso. Qui il personaggio guarda in faccia l’osservatore, enfatizzando così il potere, la dignità e la nobiltà che Portinari imprime ai propri ritratti di “gente comune”. —Fernando Olivia

Cabeça de Mulato, 1934 Olio su tela, 73.5 × 60 cm. Photo Jaime Acioli. Collezione Igor Queiroz Barroso, Fortaleza. Courtesy Collezione Igor Queiroz Barroso.


Waiting, s.d. Olio su tela, 91,44 × 66,04 cm. Photo Sebastian Bach. Courtesy Aicon, New York.

In tutti i quadri di Prabha ricorrono le figure femminili. Il tono è intimo, le scene sono spesso ambientate in un contesto di quotidianità rurale. Fra queste, Waiting (s.d.) offre una resa sorprendente per il suo uso ardito del verde. La sfumatura intensa color smeraldo, lavorata nella pittura a olio, amalgama lo sfondo, la flora e il panno che cinge i fianchi del soggetto femminile. Ne deriva una sensazione di sospensione del tempo. In una posa leggermente di tre quarti, la figura volge chiaramente la schiena al fruitore, mostrando

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un corpo snello, allungato e seminudo. Con lo sguardo fisso verso un punto lontano, il profilo sinistro del viso rivela tratti raffinati, ma anche un’espressione triste, quella della donna in attesa. La natura ipnotica del dipinto è data dalla tensione fra l’audace uso del colore e la modestia e dignità della figura solitaria. L’opera di B. Prabha è esposta per la prima volta alla Biennale Arte. —Devika Singh NUCLEO STORICO • RITRATTI

B. Prabha nasce in un villaggio vicino a Nagpur, nello stato del Maharashtra, e inizia a studiare alla Nagpur School of Art per trasferirsi poi alla Sir J.J. School of Art di Bombay (oggi Mumbai), città in cui si stabilirà con il marito, l’artista B. Vithal. L’importanza della sua arte viene riconosciuta da subito: alcune opere della prima mostra di Prabha, infatti, vengono acquisite dal fisico nucleare e mecenate dell’arte Homi J. Bhabha per la collezione del Tata Institute of Fundamental Research (TIFR). Tuttavia, nel corso di tutta la sua carriera, Prabha deve anche gestire le costrizioni sociali e le difficoltà che una donna incontra nel mondo dell’arte dell’India post-indipendenza: è un periodo in cui i circuiti artistici in India ruotano ancora prevalentemente intorno agli uomini. La sua opera si concentra fin da subito sulla figura umana, suggerendo un paragone con l’arte di Amrita Sher-Gil.

MAHARASHTRA, INDIA, 1933 – 2001, NAGPUR, INDIA

STRANIERI OVUNQUE

B. Prabha


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Alfredo Ramos Martínez

Alfredo Ramos Martínez, spesso descritto come “padre dell’arte messicana moderna”, è stato un prolifico pittore, muralista e insegnante, una figura chiave nella riconfigurazione delle scuole d’arte e del Modernismo messicano durante la Rivoluzione (1910-1920). Nato nel 1871 a Monterrey, Ramos Martínez si trasferisce prima a Città del Messico e poi, nel 1897, prosegue gli studi artistici a Parigi, dove conosce i postimpressionisti e artisti e poeti come il poeta nicaraguense Rubén Darío. Tornato in Messico nel 1913, diventa direttore dell’Accademia Nazionale, dove fonda le scuole all’aperto. Molti studenti di questo programma educativo diventeranno famosi pittori muralisti, come David Alfaro Siqueiros. Nel 1930, si trasferisce con la famiglia negli Stati Uniti alla ricerca di cure mediche speciali per la figlia, stabilendosi poi a Los Angeles, dove sviluppa un corpus di opere con numerosi murales riguardanti le proprie radici messicane.

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Mancacoyota (1930) trasmette l’idea di un’orgogliosa donna indigena, pervasa da una dignità derivante dalle sue radici native. Con sguardo indagatore, la donna ci osserva – esitante, serena e sospettosa allo stesso tempo – con un imponente muro di cactus come sfondo. Questo ritratto fonde la ritrovata ammirazione per le tradizioni native con l’idea di una nuova identità nazionale. Una forma di nazionalismo, rappresentata dalla scuola pittorica impressionista

MONTERREY, MESSICO, 1871 – 1946, LOS ANGELES, USA

messicana, è chiaramente rintracciabile nei fiori rossi sullo sfondo e nei tratti delicati del viso. Dipinta probabilmente dopo essersi stabilito a Los Angeles, Mancacoyota mostra una donna indigena forte, modello di femminilità indigena come soggetto degno di rappresentazione artistica. L’opera di Alfredo Ramos Martínez è esposta per la prima volta alla Biennale Arte. —Eva Posas

Mancacoyota, 1930 Olio su cartoncino, 38,4 × 38,3 cm. Photo Francisco Kochen. Collezione Andrés Blaisten. Courtesy Collezione Andrés Blaisten.


NUCLEO STORICO • RITRATTI

A Macuto, Reverón inizia a desaturare la propria tavolozza, creando dipinti tattili e quasi monocromatici. Essi fondono il postimpressionismo con uno stile estremamente gestuale in cui i pigmenti, applicati quasi direttamente sulla tela, producono superfici asciutte in cui le pennellate sembrano galleggiare nella composizione. Retrato de Alfredo Boulton (1934) raffigura l’intellettuale, amico e mecenate – un’importante voce della generazione impegnata nelle discussioni sulla modernizzazione del Venezuela e spesso ospite di Reverón a Macuto. Boulton è inoltre l’organizzatore della retrospettiva tenutasi nel 1995 presso il Museo de Bellas Artes di Caracas, in occasione dell’anniversario della morte di Reverón. Ricordando le sue visite a Macuto, Boulton scrive nel catalogo della mostra: “lo vidi uscire dal suo ranch e rimasi accecato dal bagliore del paesaggio”. —Laura Hakel

Retrato de Alfredo Boulton, 1934 Olio e gouache su carta aderente a una tavola, 120 × 85 cm. Photo John Berens. Courtesy Collezione Clarissa ed Edgar Bronfman Jr.

STRANIERI OVUNQUE

Armando Reverón, figlio unico di una coppia benestante, è stato cresciuto da una seconda famiglia a Valencia, in Venezuela. Isolato fin da giovane per problemi di salute, Reverón scopre un precoce interesse per l’arte e viene incoraggiato a studiare pittura presso l’Academia de Bellas Artes di Caracas. Nel 1911 si reca in Spagna e a Parigi, dove subisce l’influenza di Velázquez, Goya e degli impressionisti. Nel 1915 torna a Caracas, dove partecipa al Círculo de Bellas Artes fino ai primi anni Venti, quando si trasferisce con la moglie Juanita Mota in un appartato castillete a Macuto, una città costiera. In questo periodo crea paesaggi e ritratti e inizia a realizzare con la tela bambole a grandezza naturale, che utilizza come modelli e per popolare la propria abitazione.

CARACAS, VENEZUELA 1889-1954

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Armando Reverón


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Emma Reyes

Famosa per le sue magnetiche qualità di narratrice, la vita di Emma Reyes è materia di leggenda. Pur provenendo da un’indigente famiglia colombiana, riesce a viaggiare per tutto il Sud America, a ottenere una borsa di studio per vivere a Parigi, a lavorare a Washington D.C. per l’UNESCO, a collaborare con Frida Kahlo e Diego Rivera in Messico, a vivere a Roma, Gerusalemme e Tel Aviv prima di stabilirsi definitivamente in Francia nel 1960. Il toccante resoconto dei suoi primi anni di vita è contenuto nell’epistolario autobiografico The Book of Emma Reyes (2012), pubblicato postumo, che racconta i pericoli e la povertà della sua infanzia. Chiamata affettuosamente “Mama Grande” dagli artisti latinoamericani che vivevano a Parigi, Reyes è stata un punto di riferimento per molte delle figure culturali più influenti del XX secolo. In un’opera che abbraccia quasi sei decenni, l’artista torna continuamente alla figura umana e, pur sperimentando diversi stili, il ritratto rimane un tema costante.

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Il dipinto in mostra è stato realizzato durante la sua permanenza a Roma dal 1954 al 1960, periodo in cui frequenta importanti intellettuali, da scrittori quali Elsa Morante e Alberto Moravia al regista Pier Paolo Pasolini, fino a Enrico Prampolini, suo amante e artista postcubista con cui collabora. Le tele di Reyes combinano un lessico visivo radicato nella propria storia personale a un approccio alla pittura profondamente sperimentale, informato dall’Indigenismo e dal Primitivismo – tendenze che è stata incoraggiata a

BOGOTÁ, COLOMBIA, 1919 – 2003, BORDEAUX, FRANCIA

sperimentare nel corso della sua formazione a Parigi negli anni Quaranta. L’opera presenta l’immagine inquietante di una donna in uno stile figurativo che gioca con l’astrazione, la stratificazione e la forma. La tecnica anticipa un tratto distintivo del suo lavoro successivo: superfici dipinte che riproducono le qualità di fili, filati e tessuti. L’opera di Emma Reyes è esposta per la prima volta alla Biennale Arte. —Sofia Gotti

Untitled, 1955 Olio e colori a olio solidi su tela, 75 × 93 cm. Collezione Riccardo Boni, Roma.


Retrato de Ramón Gómez de la Serna, 1915 Olio su tela, 110 × 90 cm. Photo Gustavo Sosa Pinilla. Collezione Malba. Courtesy Museo de Arte Latinoamericano di Buenos Aires.

In Retrato de Ramón Gómez de la Serna (1915), Rivera rivela immediatamente il mestiere del soggetto: il famoso scrittore impugna infatti una penna. Il volto è mostrato sia frontalmente sia di profilo, rompendo la prospettiva fissa. Da Madrid, Rivera continua a sperimentare il Cubismo, che aveva intrapreso a Parigi prima della guerra. Frequenta la tertulia del Café Pombo, un focolaio di nuove idee fondato da Gómez de la Serna. In questo dipinto è raffigurato El rastro, un libro che l’autore dedicò al famoso mercato delle pulci di Madrid, pieno di oggetti che egli portava nello studio di Rivera, come la bambola e la spada presenti nella scena.

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L’artista ritrae Gómez de la Serna come un “anarchico che incita al crimine” – ecco il motivo della donna decapitata dalla spada – perché era “famoso per la sua opposizione a tutti i principi convenzionali”. Se l’arma in primo piano si riferisce all’accumulo di oggetti dello scrittore, potrebbe anche essere simbolo della cultura come arma o strumento per diffondere idee rivoluzionarie. —Florencia Malbran

NUCLEO STORICO • RITRATTI

Diego Rivera, protagonista del rinnovamento culturale favorito dalla Rivoluzione messicana, è stato un ponte tra arte e politica, diventando uno degli artisti più influenti del primo Novecento. Formatosi in Messico, nel 1907 si reca in Europa, dove prosegue la carriera di artista. Tornato in patria nel 1922, contribuisce alla riscoperta del passato preispanico e popolare, promuovendo la creazione di un’identità nazionale in grado di trascendere la colonizzazione europea. Per questo compito, fondamentali furono i murales, che presentavano la storia riscritta del Paese sulle pareti degli edifici pubblici. L’artista si schiera con la “rivoluzione sociale”, affermando che i murales devono essere “una chiara propaganda ideologica per il popolo”. Ottiene un ampio riconoscimento, arrivando a dipingere anche il Palazzo Nazionale. Rivera era sposato con Frida Kahlo ed era noto per la sua personalità imponente e la sua politica radicale.

GUANAJUATO, MESSICO, 1886 – 1957, CITTÀ DEL MESSICO

STRANIERI OVUNQUE

Diego Rivera


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Laura Rodig

Laura Rodig è stata docente, insegnante rurale, sostenitrice della causa mapuche, attivista femminista antifranchista e parte attiva nel cambiamento sociale del proprio tempo. Nell’ambito dell’iniziativa di modernizzazione del sistema educativo, realizza importanti progetti educativi insegnando il disegno, organizzando mostre d’arte per bambini e formando operatori museali. Partecipa attivamente al Movimiento Pro-Emancipación de las Mujeres de Chile (MEMCH), un organismo femminista di vitale importanza per il suffragio femminile. In Europa, riveste ruoli significativi in eventi culturali importanti per la costruzione dell’arte moderna, come la sua prima esposizione a Madrid – dove il Museo de Arte Moderno acquisisce la

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sua scultura Mexican Indian (1924) – il Salon d’Automne del 1929 e la Première Exposition du Groupe Latino-Américain de Paris, tenutasi alla Galerie Zak nel 1930. Nello stesso anno espone alla Maison des Nations Américaines e dona parte delle sue opere al Musée du Trocadéro. Catalizzatrice di reti queer, Rodig interagisce con le più importanti intellettuali del suo tempo, come Gabriela Mistral, conosciuta nel 1916 e con la quale mantiene anche una relazione sessualeaffettiva, oltre che uno scambio professionale. Viaggiano insieme per il Cile insegnando e, nel 1922, Rodig accompagna Mistral in Messico per lavorare al progetto educativo di José Vasconcelos. Questa esperienza le pone

LOS ANDES, CILE, 1896/1901 – 1972, SANTIAGO, CILE

entrambe in uno scenario di relazioni intellettuali ricche e diversificate, ma diventa altresì un fattore scatenante della loro rottura. Pur ritrovandosi insieme in varie occasioni di viaggio, la distanza tra Mistral e Rodig si amplia ulteriormente nel corso degli anni. Il ritratto qui presentato risale a questo primo periodo e riflette le numerose circostanze in cui Rodig raffigura la poetessa. La relazione tra le due donne è documentata anche in numerose lettere, scritti, poesie e quaderni, che costituiscono un vero e proprio archivio emotivo. L’opera di Laura Rodig è esposta per la prima volta alla Biennale Arte. —Gloria Cortés Aliaga

Retrato de Gabriela Mistral, 1914-1916 Olio su tela, 49 × 59,5 cm. Photo Francisco Urzua. Collezione Gabriela Mistral Museum.


Tehuana, 1940 Olio su tela, 61,5 × 51 cm. Collezione Eduardo F. Costantini.

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Rosa Rolanda è stata un’artista multidisciplinare la cui pratica poliedrica ha incluso coreografia, fotografia e pittura. Nel 1916 lascia la nativa California per esibirsi come ballerina per Marion Morgan a New York, danzando a Broadway e partecipando ai tour europei. Nel corso dei suoi viaggi esplora la fotografia e, dopo essersi formata con Man Ray, inizia la propria sperimentazione con i fotogrammi: una tecnica resa popolare dai fotografi surrealisti che prevede l’utilizzo di carta fotografica, oggetti e luce per creare delle stampe. Con i fotogrammi Rolanda crea un linguaggio iconografico unico nel suo genere, inquadrando rappresentazioni intime del proprio corpo con oggetti e simboli ricorrenti, per lei importanti dal punto di vista personale e politico. Nel 1930, dopo il matrimonio con l’artista Miguel Covarrubias, si stabilisce in Messico dove inizia a dipingere ed entra a pieno titolo nell’ambiente artistico di Città del Messico. I suoi dipinti, sovente autoritratti o raffigurazioni di donne indigene e delle zone rurali, sono influenzati nella forma e nella politica dal Surrealismo e dal Modernismo messicano e impiegano un linguaggio iconografico simile a quello dei suoi fotogrammi.

AZUSA, USA, 1896 – 1970, CITTÀ DEL MESSICO, MESSICO

Anche se Rolanda si definisce un’artista neofigurativa, non si può negare che Tehuana (1940) sia un’opera influenzata dal progetto politico del Muralismo messicano – che includeva frequenti ritratti idealizzati di bambini indigeni, a incarnare un’identità messicana “pura” – e dal suo stile moderno nella rappresentazione. L’artista ritrae una ragazzina con grandi occhi a mandorla, pelle molto scura e tratti fisionomici tondeggianti. Il soggetto, una giovane donna proveniente dall’istmo di Tehuantepec, indossa un huipil, la tunica tradizionale delle indigene zapotec. Alcuni considerano gli Zapotec una società matriarcale e Rolanda, come l’amica Frida Kahlo,

indossa l’huipil come simbolo di resistenza femminista nella società messicana patriarcale del XX secolo. Un colibrì, figura importante nei miti cosmogonici maya, è appeso come un ciondolo al collo della ragazza. Questo uso di un’iconografia antecedente all’arrivo dei colonizzatori è caratteristico del Modernismo messicano, in cui molti artisti guardano all’indigenità per forgiare un’identità messicana rivoluzionaria e culturalmente decolonizzata. L’opera di Rosa Rolanda è esposta per la prima volta alla Biennale Arte. —Diego Chocano STRANIERI OVUNQUE

Rosa Rolanda


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Jamini Roy

BENGALA, INDIA, 1887 – 1972, CALCUTTA, INDIA

Jamini Roy, spesso descritto come primitivista-modernista, è riconosciuto come un pioniere artistico nell’India del XX secolo. Le sue opere sono state ampiamente esposte sin dagli anni Quaranta, anche a Londra e New York. Sebbene i suoi primi quadri di paesaggi e ritratti si conformino a un realismo accademico europeo e all’Impressionismo, negli anni Trenta le sue opere subiscono una drastica trasformazione, perché inizia a guardare all’India indigena come ispirazione per soggetti, materiali e tecniche. Figure iconiche tratte dall’epica indiana, fiabe popolari e mitologie vengono rese in colori bidimensionali con contorni netti, in uno stile reminiscente del pattachitra, la tradizionale pittura su rotolo del Bengala. Sviluppa inoltre un vocabolario visivo attingendo ai dipinti Kalighat che ritraggono scene di vita quotidiana come commento sociale all’ipocrisia della vita urbana borghese. Roy critica l’idea di autorialità del singolo artista, allestendo un atelier-laboratorio in cui gli studenti e i suoi familiari lavorano insieme come una corporazione di artigiani.

Il soggetto di questo quadro senza titolo potrebbe essere

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Untitled - Krishna with Parrot, s.d. Tempera su tela, 96,5 × 51 cm. Collezione Sanjay Yaday, Londra.

identificato in Krishna, amata divinità indù, riconoscibile dal corpo scuro e dalle vesti gialle. Il pappagallo che Krishna stringe al petto compare spesso nei dipinti popolari bengalesi. Nell’atelier sono state dipinte più versioni di una figura simile, che potrebbe essere riferita a un indigeno santal o a Kama, divinità dell’erotismo e dell’amore solitamente in compagnia di un pappagallo. Gli spessi contorni neri, i colori bidimensionali e la popolare resa frontale e ieratica del corpo, che riempie il piano dell’immagine, sono tipici dello stile di Roy. Il “dio blu”, come viene anche chiamato Krishna, è una delle figure religiose spesso presenti nell’opera di Jamini Roy, che esplora anche soggetti cristiani. —Latika Gupta


Rómulo Rozo è uno scultore colombiano associato all’Indigenismo, un movimento che sosteneva la rappresentazione di soggetti indigeni in uno stile che fondeva elementi dell’ Espressionismo, del Cubismo e dell’Astrazione, con l’intenzione di riformulare l’identità e la cultura indigene nel moderno. Rozo studia alla Escuela Nacional de Bellas Artes di Bogotá, in un ambiente conservatore dominato dall’accademismo e dall’influenza degli antichi maestri spagnoli. Nel 1923 si trasferisce in Europa, dove si confronta con le idee d’avanguardia, allontanandosi così dalla propria formazione tradizionale. A Parigi, l’artista matura il proprio lessico visivo a cavallo tra patrimonio personale e Modernismo europeo. Nel 1931 si trasferisce in Messico, dove trascorrerà il resto della sua vita. Sebbene il lavoro di molti indigenisti latinoamericani come Rozo sia stato criticato per la romanticizzazione delle culture indigene, la sua ricerca di un linguaggio visivo autoctono ha esercitato grande influenza.

Bachué, diosa generatriz de los chibchas (1925) rappresenta il mito della creazione del popolo muisca della Colombia centrale. La scultura è divisa in due parti distinte: dal busto in su, Bachué – una divinità madre – indossa una corona composta da nove gusci di lumaca, uno per ogni mese di gravidanza; sopra di lei, un ragazzo è annidato all’interno di una forma conica. Nel mito, Bachué e il ragazzo creano l’umanità da una laguna prima che lei si trasformi in un serpente d’acqua, rappresentato da una spirale discendente nella metà inferiore della scultura. L’opera, moderna nella forma e nell’espressione del movimento, è debitrice dei linguaggi estetici di molte culture indigene della Colombia. Nel 1930, dopo aver visto su un giornale una fotografia di questa scultura, una generazione di giovani artisti decide di rompere con la formazione accademica e di orientarsi verso nuove forme di creazione, ispirate al Modernismo e all’indigenità. Questi artisti, considerati il primo movimento di arte moderna in Colombia, si autodefinirono Bachués. L’opera di Rómulo Rozo è esposta per la prima volta alla Biennale Arte. —Diego Chocano

BOGOTÁ, COLOMBIA, 1899 – 1964, MÉRIDA, MESSICO

Bachué, Diosa Generatriz de los Chibchas, 1925 Granito, 177 × 44 × 40 cm. Courtesy Proyecto Bachué, Colombia.

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Rómulo Rozo


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José Sabogal

Figura tra le più influenti della cultura peruviana del XX secolo, José Sabogal è stato pittore, disegnatore e incisore, ha realizzato anche progetti architettonici. Fin da giovane rivela un intenso desiderio di viaggiare e dipingere il mondo; a vent’anni visita diversi Paesi europei. Dal 1912 al 1918 vive in Argentina, dove frequenta la Escuela Nacional de Bellas Artes di Buenos Aires prima di trasferirsi a Jujuy, una delle province andine settentrionali del Paese. Nel 1922 si reca Messico, dove incontra le figure principali del nascente movimento muralista. È tuttavia il periodo tra 1918 e 1919, trascorso a Cusco e nelle Ande peruviane meridionali, a influenzare in maniera decisiva la sua arte: è determinante per la sua adesione all’indigenismo, il movimento sociale, politico e culturale degli anni Venti e Trenta che avrebbe ridefinito l’identità nazionale peruviana. Quale fondatore dell’indigenismo pittorico, Sabogal dà voce alle idee del proprio tempo e contribuisce ad ampliare la visione che la nazione aveva di se stessa, compresa la sua varietà culturale.

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José Sabogal ha un ruolo cruciale nella costruzione dell’immaginario collettivo del Perù. Dopo avere insegnato alla Escuela Nacional de Bellas Artes dal 1920 al 1932, ne assume la direzione fino al 1943. Le sue stampe sono state utilizzate per quasi tutte le copertine di Amauta, una rivista pubblicata dal 1926 al 1929 e incentrata sulla dimensione sociale, culturale e politica dell’indigenismo. È negli anni Venti che la sua visione artistica si consolida con l’introduzione nella sua pittura di paesaggi

El Recluta, 1926 Olio su tela, 60 × 60 cm. Courtesy Centro Cultural UNI.

CAJABAMBA, PERÙ, 1888 – 1956, LIMA, PERÙ

andini e figure indigene. El Recluta (1926) denuncia lo sfruttamento della manodopera indigena nei progetti di costruzione militare. La figura di quest’opera, come altri soggetti dei dipinti di Sabogal, è solenne; i tratti marcati e lo sguardo risoluto sono resi con colori vivaci. L’opera di José Sabogal è esposta per la prima volta alla Biennale Arte. —Sonia Becce


Untitled (Lady with Diya), anni Cinquanta-Sessanta Olio su tela, 91,4 × 60,9 cm. Photo Humayun Memon. Courtesy Taimur Hassan Collection.

Untitled (Lady with Diya), anni Cinquanta-Sessanta, è caratteristico dello stile dalle forme sintetiche sviluppato da Sadequain all’inizio della propria carriera. Reso in tonalità scure e smorzate, con linee finemente tratteggiate, un nudo femminile dal viso oblungo e dal corpo longilineo occupa il centro della composizione. Con la mano destra regge una diya, una lampada a olio tradizionale del sud dell’Asia. L’audacia del soggetto, che ha una connotazione apertamente sessuale, è sottolineata dalla posa eretta e assertiva. Ma

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l’opera si apre anche ad altre letture: da una finestra sulla destra, infatti, appare una mezzaluna. A livello simbolico, la figura nuda che regge una diya evoca i rituali indù, mentre la mezzaluna può essere interpretata come riferimento all’islam. Questo sincretismo e la resa sessualizzata dell’opera testimoniano l’ardire che ha accompagnato tutta la vita creativa di questo artista. L’opera di Syed Sadequain è esposta per la prima volta alla Biennale Arte. —Devika Singh

NUCLEO STORICO • RITRATTI

La vita e la carriera di Syed Sadequain percorrono la nascita e la storia del Pakistan. Sadequain nasce nel 1930 nell’India britannica, in una famiglia di calligrafi, e si trasferisce ancora giovane a Delhi, dove lavora per All India Radio prima di iniziare gli studi all’Università di Agra. Dopo la separazione dall’India e l’indipendenza, conquistata nel 1947, l’artista diventa membro del Progressive Artists’ and Writers’ Movement in Pakistan. Punto di svolta per la sua carriera è la mostra del 1955 presso la residenza di quello che diventerà il primo ministro, Huseyn Shaheed Suhrawardy. Sadequain parte per Parigi nel 1960, dove riceve uno dei premi della Biennale di Parigi (1961) e nel 1966 viene incaricato di illustrare L’Étranger di Albert Camus, pubblicato nel 1942. Al suo ritorno in Pakistan, nel 1967, la sua prolifica carriera lo porta anche a creare straordinari murali su larga scala alla diga di Mangla, al Museo di Lahore e alla Frere Hall di Karachi, oltre a opere che contribuiscono allo sviluppo transnazionale dell’astrazione calligrafica.

AMROHA, INDIA, 1930 – 1987, KARACHI, PAKISTAN

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Syed Sadequain


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Mahmoud Saïd

Nel 1947, Mahmoud Saïd lascia la carica di giudice presso i tribunali misti di Alessandria per dedicarsi all’arte. Appartenente a un’importante famiglia egiziana, si laurea alla Scuola di legge francese del Cairo nel 1919, ma in precedenza aveva fatto pratica negli studi di pittori italiani che si erano stabiliti nella sua città, quali Amelia Daforno Casonato e Arturo Zanieri. In seguito, tra le estati del 1919 e del 1921, frequenta corsi d’arte a Parigi presso l’Académie de la Grande Chaumière e l’Académie Julian. Visitando i centri culturali d’Europa, Saïd manifesta una profonda attrazione per l’arte del Rinascimento veneziano e per le opere dei Primitivi fiamminghi. L’artista troverà

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ispirazione anche nelle arti dell’Antico Egitto e nelle tradizioni egiziane locali, che diventeranno il cuore dei suoi dipinti. La sua opera illustra la società egiziana moderna cogliendone la ricchezza culturale e storica. Nel corso della propria carriera, Saïd produce una notevole serie di ritratti femminili, come Haguer (1923). L’opera viene esposta per la prima volta nel 1924, parte di una mostra collettiva di artisti egiziani moderni tenutasi al Cairo. Qui, Saïd raffigura una donna seduta sul pavimento, la schiena appoggiata a un muro, mentre fissa l’osservatore. Contrariamente alle donne dell’occidentalizzata élite locale, il soggetto non porta

ALESSANDRIA, EGITTO, 1897-1964

gioielli e indossa un semplice abito scuro e un copricapo azzurro. Con questo, assieme alla posa umile e alle mani giunte, il pittore alessandrino rivela che la modella appartiene alla classe operaia. Le conferisce tuttavia un aspetto sacro riflettendo una luce dorata proveniente dall’esterno sulla sua carnagione ambrata. Saïd ama celebrare la vita e i costumi della gente comune che personifica l’essenza dell’identità egiziana. —Arthur Debsi

Haguer, 1923 Olio su tela, 81,2 × 64,7 cm. Photo Hamad Yousef. Courtesy Mathaf: Arab Museum of Modern Art, Doha, Qatar.


NUCLEO STORICO • RITRATTI

sicure e colori e contrasti decisi. Datato “14.10.47” sul retro, a quanto pare il dipinto viene completato giorni prima dell’arrivo a Londra, mentre Sekoto è diretto a Parigi dopo un viaggio di due settimane da Città del Capo. Sull’orlo dell’esilio, dopo aver raccontato con sensibilità la normale vita di coloro che rifiutava di considerare vittime, Sekoto rivolge lo sguardo, in questo primo autoritratto noto, verso l’artista che osserva. Solitamente i suoi soggetti sono impegnati in attività, sempre in movimento; qui invece il protagonista guarda nel buio, mentre il corpo è rivolto alla luce, evocando così il futuro luminoso verso cui avanzano i lavoratori, reimmaginati con grande efficacia nel suo celebre e contemporaneo dipinto Song of the Pick: “guardo al futuro del nostro paese con molta ansia, ma del tutto determinato a vivere questa vita come fanno tutti”. L’opera di Gerard Sekoto è esposta per la prima volta alla Biennale Arte. —Ruth Ramsden-Karelse

Self-Portrait, 1947 Olio su tela su tavola, 45,7 × 35,6 cm. Photo Kristian Tobin Photography. The Kilbourn Collection.

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Negli anni Trenta e Quaranta, i dipinti di Gerard Sekoto – che ritraggono le classi lavoratrici urbane del Sudafrica – rifiutano il desiderio di esotismo del pubblico bianco e propongono invece una modalità di realismo sociale caratterizzata da empatia e assenza di sentimentalismo. A differenza di molti contemporanei, Sekoto è apprezzato già in vita; dal 1939 espone regolarmente e nel 1940 è il primo artista nero ad avere un’opera acquistata dalla Johannesburg Art Gallery. Nel 1947, spinto dalla crescente segregazione sociale, Sekoto parte per Parigi; nel 1966, mentre stava trascorrendo un anno in Senegal, gli viene tolta la cittadinanza e non rientrerà mai più in Sudafrica. Negli anni che precedono l’esilio, cattura lo spirito dei celebri centri culturali in cui aveva vissuto prima della loro distruzione sotto l’apartheid – Sophiatown di Johannesburg, il District Six di Città del Capo, così come Eastwood di Pretoria – in alcuni dipinti inclusi in seguito nella potente iconografia anti-apartheid. A Parigi le sue opere rimangono prevalentemente incentrate sulla vita sudafricana, anche se ormai permeate dalla distanza fisica. Realizzato durante il fecondo periodo Eastwood (1945-1947), Self-Portrait è un esempio della tecnica a olio sviluppata già dalla fine degli anni Trenta, espressa con pennellate

BOTSHABELO, SUDAFRICA, 1913 – 1993 NOGENT-SUR-MARNE, FRANCIA

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Gerard Sekoto


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Lorna Selim

Lorna Selim, Hales da nubile, nata e cresciuta nel Regno Unito, nel 1945 si iscrive alla Slade School of Fine Art di Londra dove studia arte e design e dove incontra l’artista iracheno Jewad Selim. Completati gli studi, i due si trasferiscono a Baghdad e nel 1950 si sposano. Docente al College femminile, insegna inoltre pittura di paesaggio alla facoltà di ingegneria dell’università locale, Jāmi‘at Baghdād. Soggetto centrale della sua opera diventa il popolo iracheno, di cui ritrae la vita quotidiana. In uno stile astratto-figurativo, adatta le tradizioni artistiche irachene a un linguaggio visivo moderno, impiegando pochi colori e mettendo in risalto linee e forme. Tornata in Inghilterra

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nel 1971, Selim realizza opere ispirate principalmente all’architettura di Baghdad, permeandole di nostalgia. A Baghdad nel 1950, sente il fascino della campagna irachena e della sua gente. In Unknown (1958), l’artista raffigura un trio che forse rappresenta una madre con il figlio sulla spalla e accanto la figlia. Utilizzando una prospettiva bidimensionale, Selim sceglie uno stile che riduce le parti principali del corpo a elementi quasi astratti. L’espressione ieratica degli occhi a mandorla dei protagonisti è un chiaro riferimento stilistico all’arte della scultura del periodo sumero del III secolo AEV. L’artista utilizza inoltre una

SHEFFIELD, REGNO UNITO, 1928 – 2021, ABERGAVENNY, REGNO UNITO

tavolozza limitata di colori – tra cui ocra, marrone e beige – i cui toni ricordano i colori terrosi dei manufatti mesopotamici. L’immagine della famiglia contadina simboleggia le tradizioni su cui è fondata la moderna nazione irachena e che vengono tramandate di generazione in generazione. L’opera di Lorna Selim è esposta per la prima volta alla Biennale Arte. —Arthur Debsi

Unknown, 1958 Olio su tela, 83 × 70,5 cm. Photo Hamad Yousef. Courtesy Mathaf: Arab Museum of Modern Art, Doha, Qatar.


le fasi della luna, da crescente a piena, e alludono alle tradizioni associate alla dea lunare sumera Nanna, un’importante divinità legata alla fertilità. Nell’Islam, la luna rappresenta la ricerca della via spirituale ed è il sistema su cui si basa il calendario lunare musulmano. Inoltre, nelle scritture islamiche la luna, o qamar, fa riferimento al miracolo della divisione della luna compiuto dal profeta Maometto, che preannuncia il giorno del giudizio e la divisione tra credenti e non credenti. Analogamente, le proprietà angolari della cassettiera,

Woman and a Jug, 1957 Olio su tela, 72 × 52 cm. Photo Anthony Dawton. Collezione privata. Courtesy Meem Gallery, Dubai.

su cui poggiano la figura e la caffettiera, equivalgono a 360 gradi, simboleggiando il concetto di cerchio completo.

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Jewad Selim – un precursore del Modernismo iracheno, proveniente da una famiglia militare della classe media – subisce l’influenza del padre, ufficiale, che si era formato come pittore di paesaggi presso l’Accademia militare ottomana. Nei primi anni Venti del Novecento la sua famiglia si trasferisce a Baghdad; gli anni di formazione dell’artista coincidono con il crollo dell’Impero ottomano, che aveva governato le nazioni arabe per quattro secoli, e la conseguente apertura della strada verso stati nazionali indipendenti. Fra il 1938 e il 1949 studia pittura e scultura a Parigi, Roma e Londra per poi tornare a Baghdad e aprire il proprio studio. Qui crea un vocabolario culturale visivo che riflette lo spirito dell’Iraq indipendente, che cerca attivamente di incorporare l’arte e le idee sociopolitiche del XX secolo senza abbandonare il passato epico del Paese. Nel 1951, insieme al collega Shakir Hassan Al Said, fonda l’importante Baghdad Modern Art Group. In Woman and a Jug (1957), Selim rivela la confluenza della moderna astrazione geometrica all’intersezione degli stili islamico, antico mesopotamico e occidentale. In quest’opera, i contorni curvilinei del volto della figura, delle braccia, della caffettiera e delle foglie adiacenti rappresentano

ANKARA, TURCHIA, 1919 – 1961, BAGHDAD, IRAQ

—Sara Raza

STRANIERI OVUNQUE

Jewad Selim


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Amrita Sher-Gil

Amrita Sher-Gil nasce nel 1913 a Budapest da Umrao Singh Sher-Gil – aristocratico sikh, studioso e fotografo autodidatta – e Marie Antoinette Gottesman, cantante d’opera ungherese. Si è formata all’École des Beaux-Arts di Parigi e ha vissuto e lavorato in Ungheria e a Shimla prima di stabilirsi a Lahore. Prima dell’indipendenza dell’India ottiene notevoli riconoscimenti come artista, ma muore tragicamente a soli ventotto anni, mentre è in procinto di realizzare una grande mostra. In un’autoproclamata ricerca delle proprie radici indiane, Sher-Gil percorre il paese e viene profondamente influenzata dall’arte antica e premoderna del subcontinente. A partire dalla metà degli anni Trenta, il suo lavoro denota un cambiamento sostanziale rispetto ai primi dipinti, basati sulla sua formazione accademica in Europa. Dipinge scene e figure dell’India rurale con colori scuri e terrosi in composizioni simili a tableau; i suoi soggetti, con occhi grandi ed espressioni cupe, ricordano le pitture murali di Ajanta e le sculture classiche indiane, in una confluenza unica di Oriente e Occidente.

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BUDAPEST, UNGHERIA, 1913 – 1941, LAHORE, INDIA

Head of a Girl (1937) segue lo stile dei suoi lavori più tardi, anche se il soggetto non è specificamente indiano. La testa e le spalle di una ragazza con grandi occhi a mandorla e un ovale incorniciato da una pesante frangia presentano una straordinaria somiglianza con una fotografia in bianco e nero di una giovane Sher-Gil scattata tra il 1920 e il 1924, forse dal padre. Sebbene all’inizio l’artista abbia dipinto diversi autoritratti, non ne esiste nessuno di lei da giovane e, benché lei non lo confermi, è probabile che la fotografia le sia servita da riferimento per il dipinto. Nel 2007, la Tate Modern ha esposto trenta suoi dipinti in una delle prime grandi mostre di un’artista indiana da parte di questa istituzione. —Latika Gupta

Head of a Girl, 1937 Olio su tela, 29 × 33 cm. Photo Justin Piperger. Courtesy Collezione Taimur Hassan.


DERBY, REGNO UNITO, 1954 – VIVE A HARARE, ZIMBABWE

NUCLEO STORICO • RITRATTI

Nata nel 1954 in Inghilterra da genitori giamaicani, Doreen Sibanda è un’artista, curatrice, amministratrice e attivista nel campo dell’educazione artistica – disciplina che ha studiato –, ed è sempre stata un’accanita sostenitrice delle arti. Nel 1980, si è trasferita in Zimbabwe alla vigilia dell’indipendenza ed è diventata la prima addetta alla didattica della National Gallery of Zimbabwe (NGZ). Il marito faceva parte del corpo diplomatico e negli anni Novanta hanno vissuto in Russia. L’artista ha continuato la propria attività e ha esposto in Repubblica Ceca, Russia e Svezia. Rientrata in Zimbabwe nel 2004, ha ripreso la collaborazione con la NGZ, di cui è stata direttrice esecutiva fino al 2021. In questo ruolo ha contribuito allo sviluppo del programma nazionale del Paese, ha commissionato il primo padiglione dello Zimbabwe alla Biennale, ha favorito incontri globali e sostenuto generazioni di artisti e curatori.

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Doreen Sibanda

Reclining Woman, 1978 Olio su tela, 60 × 60 cm. Courtesy National Gallery of Zimbabwe.

il colore, era inoltre entusiasta dell’arte classica africana e della relativa semplificazione della forma e dello spazio. Attratta dalla fierezza, dalla sicurezza di sé e dai tratti del viso di Diana, Sibanda pensa subito di documentare questa essenza attraverso la pittura. Quest’opera fa parte della collezione permanente della National Gallery of Zimbabwe. L’opera di Doreen Sibanda è esposta per la prima volta alla Biennale Arte. —Tandazani Dhlakama

STRANIERI OVUNQUE

Reclining Woman (1978) raffigura una figura femminile che riposa serena, la mano che regge il capo mentre guarda lontano. Reso con ampie pennellate gestuali in toni luminosi e contrastanti, il dipinto utilizza i dettagli in maniera contenuta per rappresentare i tratti nitidi del viso messi in evidenza dalla luce intensa. L’intento è ritrarre la forza e il carattere della protagonista, Diana, da poco immigrata dalla Giamaica. All’epoca l’artista era interessata al modo in cui i pittori modernisti catturavano le emozioni attraverso il gesto e


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Gazbia Sirry

IL CAIRO, EGITTO, 1925-2021

Gazbia Sirry, artista originaria del Cairo, sale alla ribalta negli anni Cinquanta, dopo aver vissuto la Rivoluzione dei Liberi Ufficiali del 1952 in Egitto e le ideologie socialiste e panarabiste promosse dal presidente Gamal Abdel Nasser. Studia presso l’Istituto Superiore di Educazione Artistica per Donne Insegnanti del Cairo (oggi noto come la facoltà di Educazione Artistica della Helwan University), diplomandosi nel 1950. Ottiene poi borse di studio governative per studiare in Europa: con Marcel Gromaire a Parigi nel 1950, all’Accademia d’Egitto a Roma nel 1952 e alla Slade School di Londra nel 1953. I suoi primi lavori affrontano le trasformazioni politiche del suo tempo e le lotte collettive della società egiziana moderna, mettendo spesso in risalto forti figure femminili.

In Portrait of a Nubian Family (1962), che si riferisce all’etnia nilo-sahariana originaria di alcune zone del Sudan e dell’Egitto, Sirry dipinge una madre circondata da quattro bambini. La donna indossa un abito dai colori vivaci, mentre i capelli e il corpo sono ornati da elaborati gioielli. La famiglia si trova davanti a quella che sembra essere la porta ad arco di una casa in mattoni di fango, comune nei villaggi nubiani, le cui pareti esterne sono decorate con motivi geometrici,

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floreali e animali. L’inclusione degli elementi ornamentali nel dipinto riflette l’interesse di Sirry per il patrimonio, la mitologia e il simbolismo tratti dalla cultura popolare. L’opera è stata dipinta durante la costruzione dell’alta diga di Assuan, che ha provocato l’inondazione di ampie zone della Bassa Nubia e il reinsediamento di oltre centomila persone. —Suheyla Takesh

Portrait of a Nubian Family, 1962 Olio su tela, 72 × 53 cm. Collezione Barjeel Art Foundation, Sharja. Courtesy Barjeel Art Foundation, Sharja.


The Guitarist, 1988 Legno ferro, 136 × 49 × 24 cm. Collezione privata.

Una delle sue numerose rappresentazioni di musicisti, The Guitarist (1988) è riconoscibile come opera di Sithole per il profilo e la complessa forma allungata che esemplifica l’uso delle proporzioni acclamato dal collega scultore Sydney Kumalo come una “sintesi” di “tradizioni africane e occidentali”. Aggraziata, sinuosamente inclinata, e allo stesso tempo scarna, quasi un serpente, la contorta figura racchiude insoliti contrasti. La solidità del legno è disturbata dall’articolazione dello spazio negativo e dal gioco

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di luci e ombre evocato dalla giustapposizione materica di superfici ruvide e segnate, tipica dei primi lavori di Sithole. Paragonate dall’artista a una brama di divino, le forme e le sottili spirali tortuose appaiono come rivelate nella grana e nelle lunghe fibre dei legni indigeni, che preferiva rispetto agli altri materiali con cui lavorava: pietra, argilla, bronzo e acciaio. Nel 1968, la sua opera Tornado (Antediluvian Animal) (1968) è stata presentata nella partecipazione sudafricana alla Biennale. —Ruth Ramsden-Karelse

NUCLEO STORICO • RITRATTI

Lucas Sithole, considerato uno dei massimi scultori sudafricani, è noto soprattutto per le caratteristiche rappresentazioni semi-astratte di animali, persone ed esseri mitologici swazi e zulu, intagliate in alberi morti cercati personalmente dall’artista. Dopo essersi formato in falegnameria e aver svolto lavori manuali, dal 1959 al 1960 partecipa a laboratori di pittura e scultura presso il Polly Street Art Centre di Johannesburg. All’epoca diretto da Cecil Skotnes, il Centro era una delle prime strutture educative alternative in cui gli artisti neri, legalmente esclusi dalla formale educazione artistica sotto l’apartheid, potevano ricevere una formazione. Dopo la prima personale a Johannesburg, nel 1966, le sue opere sono state esposte a Londra e a New York, anche se l’artista non ha mai viaggiato oltre il Sudafrica, il Lesotho e l’eSwatini.

KWATHEMA, SUDAFRICA, 1931 – 1994, SPEKBOOM, SUDAFRICA

STRANIERI OVUNQUE

Lucas Sithole


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Francis Newton Souza

Souza è stato un ribelle per tutta la vita e probabilmente uno degli artisti più significativi dell’India. Nato nel 1924 a Saligao, allora colonia portoghese, nel 1945 viene espulso dalla Sir J.J. School of Art di Bombay per il suo coinvolgimento nel movimento indipendentista indiano. Nello stesso anno tiene la sua prima mostra personale, seguita da una seconda nel 1946. Cresciuto in una rigida famiglia cattolica romana, Souza criticava la moralità e l’ipocrisia dei sacerdoti e dei loro seguaci. Gran parte della sua opera si concentra sull’istituzione della Chiesa, agendo da feroce commento sulla società contemporanea. Nel 1947, Souza forma l’importante Progressive Artists Group – con Krishna Hawlaji Ara, Sadanand

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Bakre, Hari Amba Das Gade, Maqbool Fida Husain, Syed Haider Raza – che rifiutava il revivalismo sentimentale della Scuola d’Arte del Bengala e cercava invece di formulare un’avanguardia indiana basata sull’internazionalismo. Nel 1949 si trasferisce a Londra (e in seguito a New York) e negli anni seguenti le sue opere sono esposte in tutta Europa, anche alla Biennale del 1954, e successivamente in Nord e Sud America. Souza, sostenitore della completa libertà di espressione nei contenuti e nella tecnica, sviluppa uno stile netto e riconoscibile sia nella pittura sia nella scrittura. Le opere della metà degli anni Cinquanta presentano spesso figure maschili, con occhi alti sulla fronte, barba e viso butterato,

SALIGAO, INDIA, 1924 – 2002, MUMBAI, INDIA

il corpo delineato da spesse linee nere. Spesso gli uomini sono archetipi di sacerdoti o santi cattolici. Untitled (1956) può essere letto insieme agli scritti di Souza in Words and Lines (1959): Gli occhi nella fronte per vedere meglio con il cervello Le stelle sul viso sono le cicatrici del vaiolo Le frecce nel collo, come mosche, significano afflizione. Il digrignare dei denti non è nel giorno della risurrezione, ma oggi La giacca, la cravatta e il colletto rigido sono segni di rispettabilità. —Latika Gupta

Untitled, 1956 Olio su tavola, 91 × 127 cm. Photo Justin Piperger; Grosvenor Gallery, Londra. Collezione Jane e Kito de Boer. Courtesy Grosvenor Gallery, Londra.


NUCLEO STORICO • RITRATTI

Irma Stern nasce in una famiglia benestante di immigrati ebrei tedeschi e per tutta la vita viaggia di frequente tra l’Africa e l’Europa. Nel 1910 gli Stern lasciano il villaggio di Wolmaransstad per trasferirsi nella cosmopolita Berlino, in Kurfürstendamm, permettendo così alla figlia di avere accesso ai principali luoghi d’arte della città. A diciannove anni, si iscrive alle classi d’arte dell’Accademia di Weimar. Nel 1918, anno della sua prima mostra personale, ha già incontrato il suo mentore, Max Pechstein, che la mette in contatto con i circoli espressionisti, ambiente ossessionato dalle idee primitiviste. Nella vita ha all’attivo un centinaio di mostre personali e beneficia enormemente del sostegno statale. Negli anni Cinquanta rappresenta il Sudafrica alle biennali di San Paolo e di Venezia. La diversità etnica caratterizza fortemente i suoi ritratti etnografici, catturati percorrendo lunghe distanze in tutta l’Africa subsahariana. Stern dipinge Watussi Princess (1942) mentre è in Ruanda per l’incoronazione del re. Il ritratto rappresenta Emma Bakayishonga, sorella del

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SCHWEIZER-RENEKE, SUDAFRICA, 1894 – 1966, CITTÀ DEL CAPO, SUDAFRICA

re Mutara III Rudahigwa. La principessa è seduta di tre quarti e i suoi occhi pensosi non guardano l’osservatore. Un telo bianco, che sfiora i due lati della cornice, le avvolge morbidamente le spalle inclinate, sottolineando la sua maestosa statura. In tutta la composizione di Stern si reiterano linee diagonali che segnalano un certo modo espressionista di tracciare la forma. L’acconciatura nera, ovaleggiante, svetta in alto, lontano dal viso. Questa forma oblunga viene riecheggiata

da una fascia a forma di lira elegantemente posata sulla fronte, tendendo i lineamenti e accentuando lo status regale. Il ritratto si discosta nettamente dalle vivaci raffigurazioni etnografiche dell’artista. L’armonioso interagire di colori e carattere conferisce alla principessa un senso di profondità e dimensione, evocando riverenza nei suoi confronti. —Zamansele Nsele

Watussi Princess, 1942 Olio su tela, 69 × 55 cm. Collezione privata. Courtesy Sotheby’s.

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Irma Stern


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Emiria Sunassa

TANAHWANGKO, INDONESIA, 1894 – 1964, LAMPUNG, INDONESIA

La vita di Emiria Sunassa è intrisa di indeterminatezza e le sue opere tendono a puntare l’attenzione sui diversi popoli dell’arcipelago indonesiano, che lei mostra al pubblico giavanese di Batavia. Vive in tutto l’arcipelago indonesiano, svolgendo vari lavori, tra cui infermiera, amministratrice di piantagioni e cantante di cabaret. Priva di formazione formale in pittura, entra a far parte del gruppo di artisti PERSAGI (Persatuan Ahli-Ahli Gambar Indonesia [Associazione dei disegnatori indonesiani]), attivo a Batavia (l’attuale Giacarta) negli anni Trenta e Quaranta. Questo gruppo progressista si batteva per una pittura moderna legata alla realtà della vita in Indonesia e criticava le opere pittoresche e banali che dominavano il mercato. Nel periodo successivo all’indipendenza continua a esporre le proprie opere in mostre personali e partecipando a collettive di arte indonesiana ad Amsterdam e New York.

Coerentemente con la qualità cruda ed espressiva del proprio corpus di opere, la figura in questo dipinto è resa con linee audaci e ampie, mentre il volto è simile a una maschera, evidenziata da un verde sorprendente sul fondo scuro. Nell’immagine, un uomo di Irian (Papua) è raffigurato mentre stringe al petto degli uccelli del paradiso: si tratta di animali sacri per gli indigeni di Papua, le cui piume erano però anche un bene prezioso per i cacciatori e i commercianti stranieri. Possono quindi essere considerate un simbolo dello sfruttamento delle risorse naturali locali. L’artista afferma la propria discendenza dal sultano di Tidore, un’isola BIENNALE ARTE 2024

dell’arcipelago di Maluku, che storicamente aveva governato parti della Papua Occidentale. Di conseguenza, in un momento cruciale in cui sia l’Indonesia sia la Papua Occidentale stavano lottando per la loro indipendenza (tra la fine degli anni Quaranta e l’inizio degli anni Sessanta), Sunassa rivendica di essere la legittima sovrana della regione, cosa mai ufficialmente accettata, ma che ha complesse implicazioni per i suoi dipinti di scene papuane. L’opera di Emiria Sunassa è esposta per la prima volta alla Biennale Arte. —Phoebe Scott

Orang Irian dengan Burung Tjenderawasih [Irian Man with Bird of Paradise], 1948 Olio su tela, 67,2 × 54,5 cm. Collezione National Gallery Singapore. Courtesy National Heritage Board, Singapore.


Imilla (1946) – ovvero “ragazza” in Aymara, la lingua parlata dalle comunità della Bolivia e del Perù meridionale – è un ottimo esempio dei dipinti di Armodio Tamayo con soggetti indigeni e meticci. La composizione triangolare è formata dal mantello a righe della giovane, che il pittore ha realizzato con pennellate sciolte. Per il mantello non usa il colore rosso cocciniglia intenso di altri tessuti aymara, ma principalmente toni terrosi come lo sfondo minimamente definito. L’enfasi cromatica è invece riservata ai lacci rossi del corpetto verde e bianco del vestito, un vivace contrasto tra tessitura tradizionale e moda più moderna. L’attenzione visiva si concentra infine sul volto luminoso dell’imilla – arrossato dal sole e levigato dal sudore e dalla concentrazione – i cui occhi luminosi rifiutano di incontrare il nostro sguardo e fissano intenti un oggetto che la attira oltre l’inquadratura. L’opera di Armodio Tamayo è esposta per la prima volta alla Biennale Arte. —Lisa Trever

Imilla, 1946 Olio su tela, 54 × 43 cm. Photo Michael Dunn. Courtesy Museo Nacional de Arte - Fundación Cultural del Banco Central de Bolivia.

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Armodio Tamayo si forma presso l’Academia de Bellas Artes di La Paz, in Bolivia, e studia con il principale pittore indigenista Cecilio Guzmán de Rojas. Figlio di Luisa Galindo e dell’importante intellettuale boliviano Franz Tamayo, autore di Creación de la pedagogía nacional (1910), Armodio (o Harmodio) prende il nome dall’antico martire ateniese tirannicida. Per il padre, Armodio e il suo amante Aristogitone rappresentano un ideale democratico per la moderna politica sudamericana. Le opere di Tamayo, meno conosciute di quelle di alcuni suoi contemporanei, consistono principalmente in ritratti di indigeni aymara e meticci boliviani e in figure allegoriche, come Cristo indio (s.d.) e Justicia del sol (1952). I suoi dipinti sono stati descritti come la “versione plastica dell’opera letteraria” di Franz Tamayo, ma sarebbe un errore ridurre l’opera del figlio interamente alle motivazioni del padre.

LA PAZ, BOLIVIA, 1924-1964

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Armodio Tamayo


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Lucy Tejada

PEREIRA, COLOMBIA, 1920 – 2011, CALI, COLOMBIA

Lucy Tejada, una pioniera che ha contribuito a consolidare il Modernismo in Colombia, è stata tra le prime donne a essere riconosciuta come artista professionista nel proprio paese. Nata in un ambiente culturale amante delle arti, Tejada studia alla Scuola Nazionale di Belle Arti di Bogotá, unica donna della sua classe. Parte attiva dei circoli intellettuali bohémien, frustrata dallo stantio accademismo istituzionale, si trasferisce in Spagna nel 1952, dove studia stampa e arte moderna presso l’Accademia Reale di Belle Arti San Fernando di Madrid. Tejada abbraccia il potenziale espressivo e la sperimentazione pittorica osservate nelle avanguardie europee. Tuttavia, nella nativa Colombia, dove torna nel 1956, l’artista non abbandona mai del tutto la figurazione, rivolgendo la propria attenzione a paesaggi e costumi specifici della regione, spesso dipingendo gruppi di donne, per catturare la bellezza e le difficoltà vissute nel proprio paese.

Immagine senza tempo della fecondità agricola, El Sembrador (1958) è realizzato in un periodo di successi professionali e riconoscimenti internazionali. Nel 1958 Tejada viene chiamata a rappresentare la Colombia alla Primera Bienal Interamericana de pintura y grabado di Città del Messico e alla Biennale di Venezia, oltre a tenere una personale presso la Biblioteca Luis Ángel Arango e una serie di incarichi pubblici. Per comunicare la fertilità della propria terra natale nonché la sua nascente modernità, l’artista rappresenta l’uomo e la terra in armonia attraverso un vocabolario modernista di forme geometrizzate. Con una tavolozza pallida, quasi traslucida, Tejada riduce il corpo al profilo smussato dei suoi contorni, ricordando così la sua formazione di incisora. Sfocando la figura con lo sfondo, composto da piani di colore vivido, Tejada si avvicina all’astrazione geometrica, ma mantiene il simbolismo narrativo: il paesaggio naturale è miniaturizzato nella forma del germoglio nutrito da mani umane. —Lucia Neirotti

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El Sembrador, 1958 Olio su tela, 130 × 70,5 cm. Collezione Banco de la República, Bogotá. Courtesy Collezione Banco de la República.


Retrato de VP, 1941 Olio su tela, 77 × 66 cm. Courtesy Estate di Joaquín Torres-García.

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Joaquín Torres-García – nato e morto a Montevideo, in Uruguay – dopo quarantatré anni trascorsi tra le avanguardie europee, diventa uno dei principali sostenitori dell’astrazione in America Latina. Artista di formazione classica nella Barcellona di fine secolo, Torres-García, a suo tempo assistente di Antoni Gaudí, passa dalle arti decorative e dall’Art Nouveau a una pratica pittorica incentrata sulla sintesi formale. Entrato in contatto con Theo van Doesburg e Piet Mondrian durante la sua permanenza a Parigi, Torres scopre una profonda affinità con il Concretismo e diventa uno dei principali collaboratori della rivista Cercle et Carré (19291930). Tornato in Uruguay nel 1934, Torres sviluppa il proprio stile, l’Universalismo costruttivo, insieme a una pratica pedagogica che, attraverso centinaia di conferenze e workshop, forma quella che divenne nota come la Scuola del Sud. Sebbene sia noto soprattutto per le composizioni geometriche a griglia di pittogrammi, Torres è stato un artista dall’ampia visione eclettica che ha prodotto nello stesso tempo arte astratta e figurativa fino alla morte, avvenuta nel 1949.

MONTEVIDEO, URUGUAY, 1874–1949

Retrato de VP (1941) è stato dipinto durante un periodo di intensa attività. Da poco nominato professore onorario d’arte dal governo uruguaiano e trasmettendo le sue lezioni alla radio, Torres consolida il proprio ruolo di esponente di spicco del Modernismo in America Latina. Mentre sviluppa la teoria e la pratica dell’Universalismo Costruttivo, Torres continua a dipingere in altri stili. L’impasto pesante e la cupa tavolozza di questo dipinto di una sconosciuta riecheggiano i ritratti precedenti, realizzati su commissione mentre, in Europa, stava ancora cercando

di mantenersi con la propria arte. In Retrato de VP, tuttavia, integra quella pratica figurativa con elementi strutturali del proprio caratteristico stile costruttivista. Come nelle sue tele a griglia, Torres costruisce la forma a partire da densi piani di colori primari, modulandoli con il bianco e il nero per creare una texture di gradazioni tonali. La composizione si basa sulla sezione aurea, un sistema di proporzioni di derivazione matematica sottostante la superficie pittorica. —Lucia Neirotti

STRANIERI OVUNQUE

Joaquín Torres-García


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Twins Seven-Seven

Twins Seven-Seven appartiene a un gruppo di pittori di Oshogbo formatosi in un periodo in cui la Nigeria stava vivendo uno sconvolgimento politico ed economico. Nato a Ijara, l’artista non era solo un ibeji, un gemello, ma anche un abiku, un bambino dotato di poteri spirituali, nato per morire. Il padre apparteneva a una casa reale di Ibadan, il che lo rendeva un principe; la madre era un membro molto stimato degli Ogboni. Twins Seven-Seven arriva al Mbari Club di Ibadan come frontman dei venditori di Superman Tonic (un tonico per la potenza sessuale maschile). Indossava sempre una camicia con il proprio nome stampato sulla schiena e le sue scelte sartoriali, il suo magnetismo e la bella vita facevano scalpore. Invitato a rimanere come animatore all’inizio della terza scuola estiva del club, Twins inizia a disegnare, sperimentando gouache e acquaforte, e dimostra una padronanza del disegno e un’espressività delicata usate per trasmettere le proprie storie e quelle degli altri. Come musicista, registra due album percepiti come critica nei confronti del governo, per i quali viene arrestato. Nel 1981 si candida alle elezioni, ma viene dichiarato ineleggibile. Maestro della giustapposizione radicale, Twins intreccia storie

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IJARA, NIGERIA, 1944 – 2011, IBADAN, NIGERIA

nelle storie e sogni con la realtà, evocando scambi tra lo spirituale e il culturale nelle proprie narrazioni orali e visive. Nel dettagliatissimo The Architect (1989), un trasferimento del disegno su legno, Twins presenta una serie di figure femminili che celebrano il linguaggio visivo dell’Úlí, una tradizione di pittura murale e del corpo femminile della Nigeria sudorientale basata su forme sinuose e naturali. La madre architetta, che occupa la quasi totalità dell’inquadratura con la sua posa da yogi, racchiude idee di simmetria, riflessione e delimitazione attraverso il serpente a due teste che le incorona il capo. Di particolare rilievo sono gli ammassi di tetti di paglia che appaiono alle sue spalle. Pur essendo unità eterogenee, Twins disegna le singole case, un riferimento all’architettura precoloniale, incastrandole politicamente in un insieme. L’opera di Twins Seven-Seven è esposta per la prima volta alla Biennale Arte. —Nancy Dantas

The Architect, 1989 Inchiostro su compensato, incollato e intagliato, 61 × 41 cm. Photo Maurice Aeschimann. The Jean Pigozzi African Art Collection. Courtesy The Jean Pigozzi African Art Collection.


Conversation, 1981 Olio su tela, 127,5 × 91 cm. Photo National Gallery of Jamaica. Courtesy National Gallery of Jamaica.

The Conversation (1981) è uno dei suoi più noti ritratti di donne giamaicane, suo soggetto abituale. Il dipinto mostra un trio di giovani donne che si godono una pausa nella loro giornata lavorativa, con i secchi di latta appoggiati dietro di loro mentre si osservano con attenzione. Vestite con gonne, camicie e foulard, sono in evidente posizione chiastica, forse stanno scherzando, sfogando le loro frustrazioni o intrattenendosi a vicenda con i dettagli dell’ultimo dramma del

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quartiere. Sebbene le donne da tempo svolgano un ruolo fondamentale all’interno della forza lavoro giamaicana, il loro contributo viene spesso trascurato; la sensibilità di Watson per questo momento di vita quotidiana conferisce alle attività femminili un carattere eroico. L’opera di Barrington Watson è esposta per la prima volta alla Biennale Arte. —Ade J. Omotosho

NUCLEO STORICO • RITRATTI

Barrington Watson ha passato tutta la vita a realizzare magnifici dipinti della storia e della cultura del proprio paese. Ha studiato al Royal College of Art di Londra, dove ha affinato uno stile di tipo realista sociale; tornato in patria negli anni Sessanta, si dedica all’insegnamento e crea un corpus di opere ricco di ritratti e paesaggi che raccontano la sua passione per la vita giamaicana. Le opere per cui Watson è più conosciuto sono le sensuali rappresentazioni femminili; immagini che spesso mostrano donne al lavoro: madri che si occupano dei figli, lavandaie che strizzano il bucato, lavoratrici domestiche sfinite dalla fatica.

LUCEA, GIAMAICA, 1931 – 2016, KINGSTON, GIAMAICA

STRANIERI OVUNQUE

Barrington Watson


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Osmond Watson

Il pittore e scultore Osmond Watson ha catturato le agitate trasformazioni culturali della Giamaica post-indipendenza. Dopo aver coltivato il suo precoce interesse per l’arte nelle principali accademie della città, la sua ambizione lo porta, come molti artisti caraibici della sua generazione, a Londra, dove studia alla St Martin’s School of Art. Il periodo trascorso in Europa affina il suo stile, in cui fonde le storie dell’arte occidentale con quelle della diaspora africana. La cultura popolare giamaicana è il grande soggetto di Watson e le sue opere spesso raffigurano scene di vita quotidiana, nonché i vivaci festival e le tradizioni religiose del paese.

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Johnny Cool (1967) è un esercizio nella cupa tavolozza degli azzurri e dei verdi che ricorre nell’opera di Watson. Il ritratto mostra un giovane in posa disinvolta davanti a uno sfondo blu-verde scuro, quasi fumoso. Indossa una bella polo azzurra con i bottoni allacciati, infilata in un paio di pantaloni. Sveglio e sicuro di sé, è l’immagine dell’indifferenza fanciullesca. L’abbigliamento è in linea con i capisaldi della sottocultura dei rude boy diffusa in tutta la Giamaica negli anni Sessanta. I contorni netti e stilizzati del viso e la carnagione lucente sono caratteristici dello stile di Watson e richiamano la sua abilità nella scultura.

KINGSTON, GIAMAICA, 1934-2005

Se l’espressione del soggetto nasconde i particolari della sua vita interiore, la postura indica la sua fiducia nella possibilità di lasciare un segno nel mondo attraverso lo stile. L’opera di Osmond Watson è esposta per la prima volta alla Biennale Arte. —Ade J. Omotosho

Johnny Cool, 1967 Olio su tela, 85,1 × 72,1 cm. Photo National Gallery of Jamaica. Courtesy National Gallery of Jamaica.


NUCLEO STORICO • RITRATTI

Selwyn Wilson, considerato una figura fondante del Modernismo māori, si iscrive alla Elam School of Fine Arts dell’Università di Auckland nel 1945 diventando il primo māori a diplomarsi in una scuola d’arte neozelandese. Nel 1951 i suoi dipinti sono esposti alla National Art Gallery di Wellington e due delle sue prime opere figurative sono state acquistate dalla Auckland Art Gallery Toi o Tāmaki, nel 1948 e nel 1950: si tratta delle prime opere di un artista māori contemporaneo a essere acquisite da una galleria pubblica in Nuova Zelanda. Nel 1957 Wilson ottiene la Sir Āpirana Ngata Memorial Scholarship per studiare alla Central School of Arts and Crafts di Londra. Al suo ritorno, si dedica all’insegnamento nella remota Northland Region per includere le arti e i mestieri māori nei programmi di studio tradizionali.

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TAUMARERE, AOTEAROA/NUOVA ZELANDA, 1927 – 2002, KAWAKAWA, AOTEAROA/NUOVA ZELANDA

Si ritiene che Study of a Head (1948) sia un ritratto del nipote dell’artista, Ponga Pomare Kingi Cherrington, nella casa di famiglia a Taumarere. L’opera, vincitrice del primo premio in un concorso della Elam School of Art and Design nel 1948, si era distinta per la tavolozza di colori pastello e la pennellata. I suoi primi lavori rivelano l’influenza del direttore della scuola d’arte, Archibald Fisher, sostenitore della forma e del design che sfidava il gusto contemporaneo, insistendo sul fatto che i pittori dovessero

commentare la vita. Questo cambiamento guida Wilson verso la soggettività māori e nel 1993 commenta: “Quello che ho sempre cercato di dare a tutti gli studenti è una consapevolezza del luogo in cui vivono... e un occhio per il design di tutte le cose funzionali che ci circondano”. L’opera di Selwyn Wilson è esposta per la prima volta alla Biennale Arte. —Natasha Conland

Study of a Head, 1948 Olio su tavola, 52 × 52 × 2,5 cm. Courtesy Auckland Art Gallery Toi o Tāmaki. © Auckland Art Gallery Toi o Tāmaki.

STRANIERI OVUNQUE

Selwyn Wilson


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Chang Woosoung

Artista di spicco della tradizione coreana della pittura a inchiostro, Chang Woosung nei suoi dipinti di figura ha rappresentato un nuovo tipo di realismo. A differenza dei suoi contemporanei, Chang non si reca in Giappone per una formazione artistica, ma studia in Corea con Kim Eun-ho (1892-1979), la cui esperienza nella ritrattistica e nell’inchiostro colorato era già nota. Già nel 1922, le opere di Chang vengono selezionate per l’annuale Mostra d’Arte Nazionale di Joseon 조선미술전람회(朝鮮美術展覽會), un concorso artistico ufficiale istituito dal governo generale giapponese durante il periodo coloniale in Corea (19101945). Dopo la liberazione, è stato professore di Belle Arti all’Università Nazionale di Seoul (1946-1963) e all’Università di Hongik (1971-1974), prendendosi delle pause per esporre le proprie opere negli Stati Uniti e per fondare la Scuola d’Arte Orientale a Washington, DC, nel 1965, tramite cui condividere gli insegnamenti dell’inchiostro coreano. Nel corso della sua vita ha ricevuto numerosi premi, tra cui l’Ordine al merito della Repubblica di Corea.

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Atelier (1943) raffigura lo stesso artista nel proprio studio con una modella. Si ritrae nelle vesti di uomo moderno che indossa abiti in stile occidentale, fuma disinvolto la pipa e usa la scala come seduta. La presenza della modella evidenzia la crescente popolarità della rappresentazione femminile nell’arte, un cambiamento drastico rispetto alla tradizione. La donna indossa un abito tradizionale coreano bianco (hanbok) e sfoglia una rivista. L’opera rappresenta la vita urbana modernizzata. Sotto il dominio coloniale, il paese era stato messo a dura prova dal punto di vista culturale,

CHUNGJU-SI, COREA, 1912 – 2005, SEOUL, COREA DEL SUD

costretto ad adottare nomi giapponesi e a vietare qualsiasi discorso e pubblicazione coreana. Sebbene vi siano diverse interpretazioni, l’hanbok bianco allude all’onnipresenza degli abiti bianchi indossati in epoca precoloniale, e lo sfondo vuoto distingue le opere coreane a inchiostro colorato da quelle giapponesi, in cui lo sfondo era spesso completato da motivi. L’opera di Chang Woosung è esposta per la prima volta alla Biennale Arte. —Virginia Moon Atelier, 1943 Inchiostro e colore su carta, 210,5 × 167,5 cm. Photo Kim Hyunsue. Collezione Leeum Museum of Art. Courtesy Leeum Museum of Art.


Desnudo, 1948 Olio su tela, 59 × 46 cm. Photo Mariano Hernández. Courtesy Museo Bellapart. © Mariano Hernández 2024.

Celeste Woss y Gil è considerata una maestra nella pittura di ritratti e nudi. Questi ultimi specialmente sono resi con notevole equilibrio e rigore e rivelano l’abile prospettiva corporea e muscolare. Desnudo (1948) si distingue per la sua modellazione e solidità, ed esalta la ricchezza e la bellezza della carne. È un esempio di padronanza anatomica, facilità tecnica e realismo intenzionalmente mantenuto. Woss y Gil è un’artista che ha compiuto il passaggio dalla tradizione accademica al Modernismo. Edward Sullivan collega la sua opera a quella

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di pittrici latinoamericane come Tarsila do Amaral, María Izquierdo, Amelia Peláez e Anita Malfatti. L’opera di Celeste Woss è esposta per la prima volta alla Biennale Arte. —Myrna Guerrero Villalona

NUCLEO STORICO • RITRATTI

Celeste Woss y Gil è stata un’artista moderna e un’icona femminista della pittura dominicana. Lei e la sua famiglia subirono un esilio a Parigi nel 1902 in seguito al rovesciamento del padre, il presidente Alejandro Woss y Gil. Trasferitisi nel 1903 a Santiago di Cuba, dal 1922 al 1924 l’artista frequenta la National Academy of Design e l’Art Student League di New York. Nel 1924 rientra a Santo Domingo per aprire uno studio-scuola, e tiene la prima mostra personale femminile della Repubblica Dominicana. Partecipa attivamente ai movimenti suffragisti e femministi. Come artista e insegnante all’avanguardia, introduce il disegno della figura umana nel suo stato naturale, allontanandosi da qualsiasi sua idealizzazione. Negli anni Quaranta – che segnano il suo periodo di maturità – crea i suoi formidabili nudi, sia femminili che maschili, evidenziandone la multirazzialità attraverso un intero spettro di forme e colori, con realismo sensuale ed energico. Si concentra sui Caraibi nell’approccio alla figura umana, ai ritratti e alle nature morte, in cui fiori e frutti tropicali sono elevati al rango di ritratto.

SANTO DOMINGO, REPUBBLICA DOMINICANA, 1891-1985

STRANIERI OVUNQUE

Celeste Woss y Gil


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Yêdamaria

SALVADOR, BRASILE, 1932-2016

La produzione di Yêdamaria in pittura, collage e incisione tratta principalmente nature morte con motivi della propria vita quotidiana, divinità afroreligiose, il paesaggio marino di Salvador – capitale dello stato di Bahia, in Brasile – e riferimenti ai movimenti neri e femministi. Dopo la laurea in Belle Arti a Bahia, lavora come docente e sviluppa un progetto di master negli Stati Uniti, dove vive alla fine degli anni Settanta. L’analisi del suo lavoro può essere intesa come resoconto della vita della classe media nera nella seconda metà del XX secolo in Brasile.

Il suo autoritratto Proteção de Yemanjá (1978) combina elementi della ritrattistica tradizionale ad altri immaginari e soggettivi. Il volto sereno e simmetrico è al centro della tela; indossa un cappotto rosa che contrasta con il blu predominante dello sfondo. Alle sue spalle compaiono una balaustra, una barca e un blu uniforme, a suggerire il mare e il cielo – elementi che contrappongono lo spazio architettonico al paesaggio. Nel turbante che porta in testa si alternano colori materici e solidi, che a volte suggeriscono due persone che fiancheggiano BIENNALE ARTE 2024

la stella rossa al centro, altre l’immagine di due sirene, con la coda di pesce e i lunghi capelli che rimandano a Yemanjá, l’orisha (divinità yoruba) dei mari presente nel titolo dell’opera. Non è chiaro se le sirene siano una stampa sul turbante o la rappresentazione di una proiezione psichica, come se si potesse vedere nella mente dell’artista. L’opera di Yêdamaria è esposta per la prima volta alla Biennale Arte. —Leandro Muniz Proteção de Yemanjá, 1978 Olio su tela, 91 × 80 cm. Photo Márcio Lima, Salvador. Courtesy Collezione Ayrson Heraclito, Salvador.


MINYA, EGITTO, 1913 – 1966, IL CAIRO, EGITTO

NUCLEO STORICO • RITRATTI

Pittore, scrittore e critico, Ramsès Younan nasce nell’Alto Egitto e cresce in una modesta famiglia copta. Nel 1929 si iscrive alla École des beauxarts del Cairo, ma nel 1933 abbandona gli studi senza conseguire la laurea. L’anno seguente ottiene un certificato di insegnamento dal Sindacato per l’istruzione superiore in Egitto e assume l’incarico di insegnante di arte nelle scuole secondarie di Tanta e Porto Said. Nel 1939, con Georges Henein, fonda il gruppo Art et Liberté, composto da artisti e intellettuali che danno vita a un movimento surrealista di matrice egiziana. È anche uno dei firmatari del manifesto Vive l’art dégéneré! del 1938. Nel 1947 è costretto a fuggire a Parigi a causa delle sue idee politiche anarchiche; tuttavia, le sue proteste contro il ruolo della Francia nella crisi di Suez del 1956 lo inducono a tornare al Cairo.

le composizioni oniriche, la mente subconscia e le forme distorte e biomorfe. Le opere di Younan presentano spesso corpi torturati o smembrati come commento contro la repressione e a sostegno dei diritti delle donne. —Suheyla Takesh

STRANIERI OVUNQUE

Portrait (s.d.) presenta due sagome sovrapposte di volti, resi in modo astratto. Il volto frontale si dilata in ampie spire che ricordano una conchiglia aperta o una sezione ingrandita dell’orecchio interno; il volto posteriore, invece, è piatto e simile a un’ombra. Separati e con lo sguardo rivolto in direzioni opposte, i visi appaiono separati e alienati. Accostando le due immagini, l’artista rivela la propria attrazione surrealista per

Portrait, s.d. Olio su tela, 50 × 35 cm. Collezione Barjeel Art Foundation, Sharja. Courtesy Barjeel Art Foundation, Sharja.

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Ramsès Younan


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Bibi Zogbé

SAHEL ALMA, LIBANO, 1890 – 1975, MAR DEL PLATA, ARGENTINA

Bibi Zogbé nasce a Sahel Alma, città costiera del Libano, e diviene nota in tutto il Sudamerica come “La pintora de flores” (la pittrice di fiori). A sedici anni si trasferisce a San Juan, Argentina, prima di spostarsi a Buenos Aires, dove studia pittura con l’artista bulgaro Klin Dimitrof. Zogbé inizia la carriera artistica con tre mostre personali consecutive: a Buenos Aires (1934), Parigi (1935) e in Cile (1939). Viaggiando di continuo tra Argentina, Senegal e Parigi, l’artista trova ispirazione in una grande varietà di paesaggi, fauna e flora. I suoi dipinti fondono spesso elementi di diversi movimenti artistici, ad esempio i colori vivaci del Fauvismo e l’eleganza e la sensualità dell’Art Déco. Il motivo per lei predominante dei fiori trascende un’estetica meramente decorativa e trasmette un profondo simbolismo.

In Femme aux fleurs (s.d.) Zogbé esprime l’aspetto mitico dei soggetti femminili nel movimento dell’Art Déco, ma infonde umiltà e connessione con la natura, anziché trasmettere la magnificenza dell’industrialismo. L’artista inoltre cancella lo sguardo maschile da un primitivismo alla Gauguin, volendo omaggiare con delicatezza la sua modella, anziché esotizzarla. Lo sfondo uniforme allude alle icone bizantine o ad altri antichi stilemi artistici in cui la sacralità del soggetto è enfatizzata dal posizionamento su un piano separato, al di là del tempo e dello spazio. In effetti il busto della donna dipinta ricorda uno dei primi ritratti funebri copti del Fayyum, Egitto, caratterizzato da grandi occhi che rappresentano l’anima e da un’espressione di calma eterna. La raffigurazione della donna operata dall’artista la colloca tra il simbolo e l’umano, ma identifica anche la femminilità stessa: forte e al contempo dolce e umile, un’aura di ricchezza e fertilità incorniciata da rigogliose piante in fiore, nell’armoniosa gamma cromatica di Zogbé. L’opera di Bibi Zogbé è esposta per la prima volta alla Biennale Arte. —Fadia Antar

BIENNALE ARTE 2024

Femme aux Fleurs, s.d. Olio su tavola, 69,5 × 50 cm. Photo Maria e Mansour Dib. Courtesy Ramzi e Saeda Dalloul Art Foundation.




INTRODUCTION, IN DISCREPANT ABSTRACTION, A CURA DI KOBENA MERCER, LONDRA, INSTITUTE OF INTERNATIONAL VISUAL ARTS: THE MIT PRESS, 2006.

L’astrazione discrepante è ibrida e parziale, sfuggente e ripetitiva, ostinata e strana: comprende quasi tutto ciò che non rientra nella narrazione istituzionale dell’arte astratta come ricerca monolitica della purezza. [...] Mentre gli artisti provenienti da contesti non occidentali e minoritari sono stati spesso esclusi dalla narrazione ufficiale a causa di discrepanze creative che andavano contro le preferenze istituzionali, le prospettive interculturali riunite in questo volume non mirano solo ad “aggiungere” coloro che un tempo erano stati trascurati, ma cercano di ridefinire l’intero campo di discussione riaprendo la storia dell’astrazione a una interpretazione più ampia dell’arte e della cultura del XX secolo.

KOBENA MERCER



THE OTHERWISE MODERN. CARIBBEAN LESSONS FROM THE SAVAGE SLOT, IN CRITICALLY MODERN: ALTERNATIVES, ALTERITIES, ANTHROPOLOGIES, A CURA DI BRUCE KNAUFT, BLOOMINGTON, INDIANA UNIVERSITY PRESS, 2002.

“Modernità” è un termine fumoso che appartiene a una famiglia di parole che potremmo definire “universali nordatlantici”. Con questo intendo parole ereditate da quello che oggi chiamiamo Occidente – e che io preferisco chiamare Nord Atlantico, non solo per motivi di precisione geografica – che trasmettono l’esperienza nordatlantica su una scala universale che hanno contribuito a creare. Come parte della geografia dell’immaginazione che ricrea costantemente l’Occidente, la modernità ha sempre richiesto un Altro e un Altrove. È sempre stata plurale, proprio come l’Occidente è sempre stato plurale. Questa pluralità è insita nella modernità stessa, sia strutturalmente che storicamente. La modernità come struttura richiede un altro, un alter, un nativo... anzi, un alter-nativo. La modernità come processo storico ha creato anche questo alter ego, moderno come l’Occidente, ma altrimenti moderno.

MICHEL-ROLPH TROUILLOT



THE DARKER SIDE OF WESTERN MODERNITY: GLOBAL FUTURES, DECOLONIAL OPTIONS, DURHAM E LONDRA, DURKE UNIVERISITY PRESS, 2011.

Il primo passo verso il decolonialismo è dissociarsi dal colonialismo e non cercare modernità alternative, ma alternative alla modernità.

WALTER D. MIGNOLO



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Il movimento del neoconcretismo brasiliano di metà secolo avrebbe potuto essere incluso in questo gruppo, e forse dovrebbe essere incluso in una sezione più ampia dedicata alle astrazioni del Sud del mondo. Tuttavia, dato il nostro ambito, considerato che i neoconcretistas brasiliani sono ormai noti a livello internazionale e, anzi, tre dei rappresentanti più significativi – Elio Oiticica, Lygia Clark e Lygia Pape – hanno già partecipato a Biennale Arte, ho deciso di privilegiare altre figure eccezionali del Sud del mondo.

Adriano Pedrosa

549 NUCLEO STORICO • ASTRAZIONI STRANIERI OVUNQUE

Questa sezione del Nucleo Storico è dedicata all’astrazione, un termine che comprende molteplici e variegate declinazioni artistiche e diffusamente inteso come quintessenza del Modernismo europeo del XX secolo. Eppure l’astrazione si riscontra nel repertorio visivo di molte culture extraeuropee e precede il XX secolo, ossia il luogo e il tempo in cui teoricamente ha avuto origine. Tuttavia, tentare di tracciare una mappa completa o una storia onnicomprensiva dell’astrazione in Euro-America, per non parlare del Sud del mondo, appare impresa pressoché impossibile. In tal senso, questa sezione si concentra sul modo in cui l’astrazione è stata reinventata, reinterpretata e rivitalizzata nel Sud del mondo durante il XX secolo. Presenta un piccolo campione di un panorama molto più ampio, con opere di una quarantina provenienti da vari Paesi, tra cui Argentina, Aotearoa–Nuova Zelanda, Brasile, Cile, Colombia, Cuba, Egitto, Filippine, Guatemala, India, Indonesia, Iraq, Giordania, Corea, Libano, Messico, Marocco, Pakistan, Palestina, Porto Rico, Repubblica Dominicana, Sudafrica e Turchia. Ciò che interessa in questa sede è un certo tipo di astrazione che si distacca dalla tradizione geometrica astratta costruttivista europea – con la sua tavolozza di colori primari, la rigida griglia ortogonale di verticali e orizzontali, le aspirazioni di purezza e di spiritualismo – per privilegiare forme più sinuose e curvilinee, colori vivaci, in composizioni di grande impatto, a volte lavorando su supporti diversi dalla tela che vanno da fili di lana e tessuti ai bambù. Pur apparentemente geometriche, le opere raccolte in questa sezione spesso resistono o mettono in discussione il concetto dei contrasti netti, poiché esplorano la qualità del “fatto a mano” e l’irregolarità della linea retta nettamente marcata. Un riferimento fondamentale è la straordinaria Scuola di Casablanca dei pittori attivi nel Marocco post-indipendenza degli anni Sessanta. I loro dipinti astratti, i murales e le grafiche sono spesso caratterizzati da colori vivaci, composizioni sensuali e linee ondulate e attingono a elementi della loro ricca tradizione afro-berbera, quali motivi e disegni presenti in ornamenti, elementi decorativi, tessuti e calligrafia. Sono presentate le opere di quattro membri del gruppo: Mohamed Chebaa, Mohamed Hamidi, Mohamed Kacimi e Mohamed Melehi. Gli artisti di questa sezione hanno pertanto tratto ispirazione da fonti, memorie, narrazioni e repertori di varia e diversa natura, al di là dei canonici riferimenti astratti, geometrici o costruttivisti europei: tessiture e ceramiche antiche e indigene; tessuti e patchwork; calligrafia, scrittura e alfabeto; paesaggi naturali e urbani; mappe e vedute aeree; il cosmico e il celeste; la luna, la mezzaluna e il sole; arcobaleni, onde e fiamme; biomorfismo e struttura cellulare; il corpo e le tassonomie razziali; diagrammi e simboli sacri ed esoterici1. Data la presenza di molti elementi e di fonti intensamente figurative e indigene, si deve necessariamente pensare ad astrazioni controcorrente, astrazioni impure, “contro-narrazioni dell’astrazione”, come propone Devika Singh, o “astrazioni discrepanti”, nei termini di Kobena Mercer, che riflettono in qualche modo una forte posizione anticoloniale. In questo gruppo eterogeneo e pluralista, l’astrazione è stata radicalmente cannibalizzata e divorata e ora ci spinge a ripensare i confini e i limiti del termine astrazione stesso.


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Etel Adnan

BEIRUT, LIBANO, 1925 – 2021, PARIGI, FRANCIA

Etel Adnan è stata una poetessa, saggista e artista visiva la cui pratica ha spaziato dalla pittura all’arazzo, dal disegno al cinema, all’interno di una vita caratterizzata da continui spostamenti e periodi di studio in diversi paesi. Nel 1950 si trasferisce a Parigi e studia filosofia alla Sorbona prima di recarsi negli Stati Uniti, dove studia alla UC Berkeley e a Harvard e insegna alla Dominican University of California. Negli anni Settanta torna in Libano e lavora come redattrice di giornale, occupandosi dei vari aspetti dei conflitti territoriali. Nel 1977 pubblica Sitt Marie Rose, libro premiato dall’Associazione di solidarietà franco-araba. La sua pratica come artista visiva ha inizio negli anni Sessanta, quando comincia a sperimentare con il colore. Ha collaborato spesso con la sua compagna di vita, l’artista Simone Fattal.

Interessata al contrasto tra i toni, molte delle sue opere rivelano diverse tradizioni di pittura paesaggistica e una marcata curiosità per il rapporto tra calligrafia, disegno e astrazione. Adnan ha lavorato con materiali e scale diverse e il suo percorso è esemplificativo della prima generazione riconosciuta di artisti araboamericani. Questo dipinto senza titolo attira inizialmente l’attenzione per le sue piccole dimensioni. Benché le sue misure neghino ogni idea di monumentalità, in esso Adnan genera un contrasto di colori che pare superare i vincoli fisici dell’oggetto. Attivamente

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impegnata nel corso della propria carriera di scrittrice e artista visiva, Adnan sembra sempre ricordarci che, anche in un mondo permeato di conflitti, il piacere che ci donano l’arte, il colore e la pittura è essenziale e ci radica nella nostra complessità di individui e di fautori della differenza. L’opera di Etel Adnan è esposta per la prima volta alla Biennale Arte. —Raphael Fonseca

Untitled, 1965 Olio su tela, 50 × 43,1 cm. Courtesy Estate dell’Artista; SfeirSemler Gallery, Beirut e Amburgo.


Waipuna, 1978 Acrilico su tavola, 101,7 × 101,7 × 3,5 cm. Courtesy Auckland Art Gallery Toi o Tāmaki. © Auckland Art Gallery Toi o Tāmaki.

551 NUCLEO STORICO • ASTRAZIONI

Cresciuto sulla costa orientale della Nuova Zelanda, immerso nelle tradizioni delle case comuni decorate, l’arte e gli insegnamenti di Sandy Adsett si ritrovano nei marae, nelle chiese, nei musei e negli edifici governativi di tutto il paese. L’artista ha frequentato l’Ardmore Teachers College (1958) un decennio dopo Fred Graham, quando c’era la necessità di aumentare il personale docente per far fronte al baby boom del dopoguerra. Il responsabile nazionale per l’educazione artistica, Gordon Tovey, lo presentò a Pine Taiapa, famoso maestro intagliatore Ngāti Porou, che influenzò profondamente il nuovo movimento artistico contemporaneo māori. Adsett fu attratto dall’esplorazione di forme dipinte ispirate ai kōwhaiwhai (ornamenti dipinti su rotoli), molto diffusi nell’area di Raupunga, nella baia di Hawke, a partire dal XIX secolo. Taiapa gli ha insegnato a promuovere la conoscenza e il controllo di queste forme fluide interconnesse.

WAIROA, AOTEAROA/NUOVA ZELANDA, 1939 VIVE A HASTINGS, AOTEAROA/NUOVA ZELANDA

Il dipinto Waipuna (1978), traducibile con “primavera”, appartiene a un periodo in cui Adsett ha creato le sue composizioni più elaborate di kōwhaiwhai, tipicamente su tavola quadrata. Qui la composizione spaziale si orienta intorno a un asse centrale e rompe la cornice dipinta per creare un senso di energia e la sensazione di correnti d’acqua. Per Adsett, la rottura del bordo è un dettaglio importante che concentra la nostra attenzione sul ruolo dello spazio negativo, cruciale per la comprensione del kōwhaiwhai. Le forme sontuose del disegno, che altrimenti potrebbero essere interpretate come astrazione geometrica, funzionano

all’interno delle tradizioni genealogiche māori come registrazione della storia, del luogo e del whakapapa. È allo stesso tempo comunicazione visiva, conoscenza preziosa e abilità pittorica. La profonda comprensione del kōwhaiwhai da parte di Adsett è stata esplorata nello spazio architettonico della casa comune e sulle tavole dipinte; ha sviluppato questa forma d’arte nel tempo, grazie ai ruoli importanti assunti nel restauro e nella decorazione delle case comuni. L’opera di Sandy Adsett è esposta per la prima volta alla Biennale Arte. —Natasha Conland

STRANIERI OVUNQUE

Sandy Adsett


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Zubeida Agha

LYALLPUR, INDIA, 1922 – 1997, ISLAMABAD, PAKISTAN

Zubeida Agha è annoverata tra le artiste che nei decenni del dopoguerra iniziano a costruire una contro-narrazione dell’astrazione. Si laurea in filosofia e scienze politiche al Kinnaird College di Lahore, prima di formarsi con l’artista B.C. Sanyal. Nel 1946 viene presentata a Mario Perlingieri, un prigioniero di guerra italiano che aveva studiato con Pablo Picasso. Sotto la sua guida, il lavoro di Agha si orienta decisamente verso l’astrazione e abbraccia l’uso di colori vivaci. Alla fine degli anni Quaranta, Agha espone le sue opere in Pakistan con grande successo. Nel 1950 riceve una borsa di studio per la Central Saint Martins di Londra e presto si reca a Parigi per frequentare l’École des Beaux-Arts. Tornata in Pakistan, espone regolarmente i propri dipinti e dirige per sedici anni la Galleria d’arte contemporanea di Rawalpindi, prima di stabilirsi a Islamabad nel 1977.

Composition (1988) è stato realizzato verso la fine della carriera di Agha. A differenza delle opere precedenti, che presentavano paesaggi surreali e tratti ancora narrativi, è un esempio di pura astrazione geometrica. Un insieme di forme asimmetriche modellate in nero, giallo e diverse tonalità di rosso – che evocano una disposizione tridimensionale – converge al centro dell’opera e sottolinea l’aspetto modulare dell’elemento centrale composto da triangoli e altri segmenti di linea diagonali. Contrariamente alle aspettative, non ci sono bordi

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netti; le linee sono volutamente irregolari. Alcune sembrano abbreviate e quasi distorte. Il risultato è magnetico, ma anche contenuto nell’uso parziale della superficie. Ostacolata da una fascia marrone che attraversa il primo piano, la composizione si sottrae alla risoluzione pittorica. È uno studio sulla forma e sulle sue possibilità. L’opera di Zubeida Agha è esposta per la prima volta alla Biennale Arte. —Devika Singh

Composition, 1988 Olio su tela, 91,4 × 76,2 cm. Photo Justin Piperger. Courtesy Collezione Taimur Hassan.


Untitled, 1971 Pigmento su compensato, 100 × 105,5 cm. Photo Hamad Yousef. Courtesy Mathaf: Arab Museum of Modern Art.

Negli anni Settanta, Rafa alNasiri impiega le lettere arabe nelle proprie opere, come in Untitled (1971). Sceglie una tela romboidale su cui dipinge strisce di colori vivaci che si espandono in diagonale nel quadro, da un angolo all’altro. Sopra queste strisce stende spesse linee nere che assomigliano alle forme calligrafiche dell’arabo. L’artista utilizza linee rette e curve per generare una composizione il cui stile astratto richiama i motivi decorativi dell’arte arabo-islamica. Rafa alNasiri e i suoi colleghi vedono nell’uso della grafia araba la

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massima espressione artistica ereditata dalla civiltà araboislamica. Tuttavia l’artista dà importanza unicamente alle forme dei caratteri arabi, anziché al loro significato letterale. Queste forme riflettono le sue sperimentazioni con l’astrazione, ricollegando così le comunità irachena e araba al loro comune patrimonio artistico. L’opera di Rafa al-Nasiri è esposta per la prima volta alla Biennale Arte. —Arthur Debsi

NUCLEO STORICO • ASTRAZIONI

Rafa al-Nasiri è ricordato come il primo artista in Iraq a specializzarsi nelle arti grafiche. Studia pittura all’Università di Baghdad e dopo la laurea, conseguita nel 1959 presso l’Istituto di Belle Arti, si specializza in incisione formandosi, in Cina e in Portogallo. Per oltre venticinque anni insegna all’Istituto di Belle Arti di Baghdad e, durante il suo incarico, fonda il Dipartimento di Arti Grafiche e lo dirige dal 1974 al 1989. Dopo lo scoppio della Guerra del Golfo nel 1990, si trasferisce definitivamente ad Amman dove viene nominato direttore del centro artistico Darat al-Funun dal 1993 al 1995. Negli anni Settanta è particolarmente coinvolto nello sviluppo del gruppo Jama’at al-Bu’d alWahid (One Dimension Group). Nell’approfondire il patrimonio artistico del mondo araboislamico, al-Nasiri si cimenta con l’astrazione per creare un’estetica contemporanea, che attingerà alla grafia araba come punto di partenza.

TIKRIT, IRAQ, 1940 – 2013, AMMAN, GIORDANIA

STRANIERI OVUNQUE

Rafa al-Nasiri


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Margarita Azurdia

Margarita Azurdia, nata nel 1931 da madre catalana e padre guatemalteco, respinge le costrizioni di una società conservatrice per sviluppare una pratica interdisciplinare, rivendicando uno spazio per le cosmologie femminili e indigene osservate nel nativo Guatemala. Si sposa giovane con un benestante uomo d’affari e inizia la propria carriera d’artista con tre figli piccoli e nessuna formazione ufficiale. Trovando rifugio ed emancipazione nella pratica artistica, Azurdia elabora un’opera riccamente variegata che comprende l’astrazione gestuale e geometrica, l’installazione, la performance e la poesia. Ben presto ottiene fama internazionale e, nei cinque anni che seguono la sua prima mostra, espone a El Salvador, a New York e alla Bienal de São Paulo. Nei tre decenni successivi, Azurdia continua il proprio impegno per l’emancipazione femminile e per il nativo Guatemala, integrando tradizioni e cosmologie indigene persino nelle sue opere più astratte. Untitled (1968) fa parte della serie Pinturas geométricas (dipinti geometrici), eseguita nel decennio successivo alla sua permanenza solitaria in California per studiare saldatura e arte moderna. Con spunti ripresi dall’Optical Art, dal Colour Field e

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ANTIGUA, GUATEMALA, 1931 1998, CITTÀ DEL GUATEMALA, GUATEMALA

dall’astrazione geometrica, la composizione romboidale caratteristica delle Geométricas di Azurdia si costruisce per campiture di colore bidimensionali nettamente delineate. Anche se queste opere si annoverano fra le sue più famose, sono subito state trascinate in un dibattito che ha polarizzato il mondo artistico guatemalteco: diviso tra la Nuova Figurazione socialmente impegnata e l’astrazione formale – il cui internazionalismo era contaminato dal contesto della Guerra Fredda –, in molti hanno accusato l’artista di essere, nella migliore delle ipotesi, apolitica. Le forme a losanga e le insolite combinazioni di colore compatto che ricorrono in questa serie rimandano, tuttavia, alle huipil (tuniche) degli indigeni maya, disegnate, create e indossate dalle donne. Nel suo intrecciare la pittura modernista a una tradizione di lavoro e performatività delle donne indigene, l’opera pittorica di Azurdia presenta una politica alternativa. L’opera di Margarita Azurdia è esposta per la prima volta alla Biennale Arte. —Lucia Neirotti

Untitled (serie geométricas), 1976 Acrilico su tela, 218 × 162 × 5 cm. Collezione Margarita Azurdia. Courtesy Asociación Milagro de Amor.


BEIRUT, LIBANO, 1931–2019

NUCLEO STORICO • ASTRAZIONI

Huguette Caland, figlia del primo presidente della Repubblica Libanese, si forma con Fernando Manetti, artista italiano a Beirut. Caland allestisce un atelier di pittura nel proprio giardino a Kaslik e nel 1964 si iscrive all’American University di Beirut per conseguire una formazione ufficiale nelle belle arti. Nel 1970, lascia il Libano e si reca a Parigi, dove, nel 1979, collabora con lo stilista francese Pierre Cardin per disegnare una collezione di caftani. Dopo oltre dieci anni in Francia, si trasferisce a Venice, California, dove risiede fino al 2013, anno in cui fa ritorno a Beirut dopo la morte del marito. La sua opera si avventura fra arte, moda, design, comunicando gioia e una profonda sensualità. Sua primaria fonte di ispirazione è il corpo femminile, il cui erotismo scandalizza il pubblico dell’epoca.

moda, sovrappone queste forme come se le avesse cucite insieme. La composizione ha l’aspetto di un patchwork con cui l’artista crea un paesaggio urbano immaginario. Lo spazio in negativo fa galleggiare gli elementi con un tocco di fantasia. Nella sua pratica, Huguette Caland rivela una grande brama di libertà, rifuggendo la realtà per lasciarsi guidare dalle emozioni. —Arthur Debsi

STRANIERI OVUNQUE

Negli anni Sessanta, Huguette Caland dedica sempre più tempo alla creazione artistica e all’esplorazione della scena artistica libanese. L’opera Suburb (1969) viene esposta nella personale Huguette Caland: Faces and Places presso il Mathaf: Arab Museum of Modern Art, a Doha nel 2020. Su uno sfondo beige, Caland usa una gamma di colori vivaci per dipingere forme astratte, riempiendole di linee nere, punti, quadrati e cerchi. Con una precisa sensibilità per la

Suburb, 1969 Olio su tela, 100,5 × 100,5 cm. Photo Hamad Yousef. Courtesy Mathaf: Arab Museum of Modern Art, Doha, Qatar.

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Huguette Caland


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Mohammed Chebaa

Mohammed Chebaa è membro fondatore della Casablanca Art School. Concepisce i tre pilastri della sua poetica – arte, architettura e artigianato – a partire dallo studio del Rinascimento italiano e della scuola del Bauhaus mentre frequenta l’Accademia di Belle Arti a Roma (1962–1964). Nella ricerca di un’arte nazionale marocchina, Chebaa guarda all’architettura, che storicamente è stata veicolo della massima genialità nella creatività locale. La sua opera è strettamente legata allo spazio e alla progettazione: con un occhio di riguardo per l’astrazione gestuale e geometrica, l’artista combina forme ed elementi in strutture che lasciano trapelare la dedizione all’architettura. Anche il movimento delle linee trasmette spesso un’interpretazione lirica delle forme architettoniche. Chebaa ha pubblicato numerosi scritti sull’arte marocchina e ha partecipato a tavole rotonde e

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conferenze intervenendo sulla democratizzazione dell’arte e sull’impatto che essa esercita sulla società e sull’individuo. Fondendo l’arte tradizionale marocchina con un approccio moderno all’astrazione geometrica, Composition (1974) fluisce sulla tela partendo da destra e ne scivola fuori in basso a sinistra. Sia il movimento, sia la direzione alludono alle curve e alle linee della grafia araba, dando quasi l’impressione di trovarsi di fronte a un’opera da leggere. L’artista introduce un senso di profondità e tridimensionalità impiegando una prospettiva realistica nelle sezioni a forma di scala, al centro della tela. Tuttavia, accanto all’influenza occidentale, la composizione adotta la bidimensionalità delle tradizioni orientali, nel suo esistere primariamente su un unico piano verticale. Qui evoca una confusione ininterrotta – un limbo fra superficie e profondità, vicino

TANGERI, MAROCCO, 1935 – 2013, CASABLANCA, MAROCCO

e lontano. Le ripetute linee parallele con colori alternati rendono omaggio all’artigianato marocchino dei cesti intrecciati e delle mattonelle in ceramica. Inoltre, in quest’opera l’approccio allo studio dello spazio ricorda quello dei progetti architettonici. L’opera di Mohammed Chebaa è esposta per la prima volta alla Biennale Arte. —Fadia Antar

Composition, 1974 Acrilico su tela, 94 × 220 cm. Photo Maria e Mansour Dib. Courtesy Ramzi e Saeda Dalloul Art Foundation.


queste si compongono di parti modulari che possono essere assemblate e disassemblate – sculture che catturano il ritmo, l’armonia, la perfezione. Rhythmical Composition with White Sphinx (1951) viene realizzato dopo il soggiorno di Choucair a Parigi, durante il quale frequenta gli artisti del periodo postbellico francese, e soprattutto Fernand Léger. Il paesaggio moderno è estremamente presente in quest’opera, sebbene il soggetto – una creatura mitologica – provenga da un’antica civiltà quasi diametralmente opposta a quella del XX secolo. Nondimeno, lo studio della linea e della relazione fra diversi motivi da parte dell’artista

Rhythmical Composition with White Sphynx, 1951 Olio su tela, 88 × 116 cm. Photo Hamad Yousef. Courtesy Mathaf: Arab Museum of Modern Art, Doha, Qatar.

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accenna ai principi dell’arte islamica senza ricorrere all’estetica dell’arabesco o della calligrafia. L’opera di Saloua Raouda Choucair è esposta per la prima volta alla Biennale Arte. —Fadia Antar

NUCLEO STORICO • ASTRAZIONI

Saloua Raouda Choucair è un’artista con la mente della poetessa, l’anima da architetta e la precisione di una matematica. Pur avendo ricevuto un’istruzione artistica formale, sceglie di ideare un proprio percorso di esplorazioni artistiche. Scopre il misticismo sufi e i fondamenti aritmetici dell’arte islamica durante un viaggio in Egitto nel 1943. Nel 1948, continua gli studi d’arte a Parigi, presso l’Académie des Beaux-Arts, e frequenta l’Atelier d’Art Abstrait; ha però sempre sottolineato che, prima ancora di incontrare le tendenze e le filosofie artistiche occidentali, è stata l’esposizione all’astrazione geometrica dell’arte islamica a plasmare la sua sensibilità artistica. Choucair si dedica alle sue sculture più rappresentative dopo il 1957;

BEIRUT, LIBANO, 1916–2017

STRANIERI OVUNQUE

Saloua Raouda Choucair


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Monika Correa

BOMBAY, INDIA, 1938 VIVE A MUMBAI, INDIA

Monika Correa, formatasi in microbiologia, inizia a tessere negli anni Sessanta dopo un viaggio in Finlandia dove conosce i tappeti Rya. Riceve una formazione di base a Boston da Marianne Strengell e una di quattro mesi presso il Weavers’ Service Centre di Bombay (1964-1965). Mentre impara dalle tessitrici tradizionali, Correa viene ispirata dal famoso artistapedagogo Kalpathi Ganpathi Subramanyan che utilizzava la lana filata a mano proveniente dallo Saurashtra per creare grandi sculture astratte in fibra. Ha inoltre avuto modo di osservare il lavoro del designer tessile americano Jack Lenor Larsen durante una breve visita di quest’ultimo al suddetto centro. Correa utilizza lana filata a mano, fine e grossa, proveniente da Panipat, nell’India settentrionale, che combina con filati di cotone, sfruttando le qualità materiche offerte dal materiale. Ha sviluppato una tecnica lavorando con un telaio tradizionale realizzato su misura con pettine rimovibile,

sperimentando con l’ordito e la saia per creare linee dinamiche che si discostano dalla forma strutturata della tessitura tradizionale. No Moon Tonight (1974) ha una trama verticale semplice, simile a quella di arazzi precedenti come Original Sin (1972), in cui l’artista lavora su grandi forme circolari in composizioni astratte che diventano emblematiche del suo stile maturo. La nitidezza della linea verticale è interrotta da motivi serpeggianti creati estraendo il pettine. Correa parla diffusamente della rappresentazione della natura, in particolare del cielo, nei dipinti persiani e dell’Asia centrale. Il titolo dell’opera e il cerchio alludono a un’astrazione tratta dalla natura: la luna che sorge o si eclissa in un gioco di buio e luce, il pannello superiore monocromatico bilanciato dai pannelli colorati nella metà inferiore. L’opera di Monika Correa è esposta per la prima volta alla Biennale Arte. —Latika Gupta

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No Moon Tonight, 1974 Ordito: cotone grezzo; trama: cotone grezzo, lana tinta a più colori, 180 × 93 cm. Photo JUDDartINDEX. Collezione Lorenzo Legarda Leviste e Fahad Mayet.


Muro tejido terruño 3, 1969 Lana, 210 × 137 cm. Courtesy Lisson Gallery. © Olga de Amaral.

Abakanowicz, Sheila Hicks e Lenore Tawney. Questa mostra ha contribuito in modo significativo alla rivalutazione della Fiber Art come importante luogo di indagine artistica, respingendo la frequente associazione con manodopera e uso e riconoscendo invece questi elementi come parte del potenziale creativo del mezzo. Muro tejido terruño 3 (1969) è un primo esempio della sperimentazione formale di Amaral con il tessuto come scultura. Utilizzando registri multipli di fili verticali avvolti a spirale, intrecciati e legati insieme, Amaral modula la superficie, la profondità e lo

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spazio negativo per creare una struttura pulsante che appare allo stesso tempo architettonica e organica. Nella loro disposizione ritmica, i fasci di corde raggruppate e distanziate a intervalli sembrano racchiudere una metrica subliminale o tattile, evocando la pratica incaica dell’annotazione attraverso l’annodamento e il raggruppamento delle fibre su un quipu. —Sybilla Griffin NUCLEO STORICO • ASTRAZIONI

Olga de Amaral è una figura chiave dell’avanguardia che ha contribuito alla crescente accettazione della Fiber Art come legittima e importante categoria della pratica artistica, degna di attenzione critica. Mentre molti dei suoi contemporanei europei e americani citavano i tessuti andini come influenze nel loro approccio alla fibra, il lavoro di Amaral fonde osmoticamente forme elementari, processi precolombiani e una sensibilità post-minimalista attraverso l’intuizione piuttosto che tramite una dichiarata intenzionalità. Dopo la formazione in progettazione architettonica a Bogotá, nel 1952 lascia la Colombia per studiare tessitura alla Cranbrook Academy of Art nel Michigan, Stati Uniti, dando inizio a un periodo di viaggi creativamente fecondi attraverso gli Stati Uniti e l’Europa. Nei sei decenni successivi, il lavoro di Amaral ha continuato a espandersi in termini di portata e ambizione, e rimane una delle artiste colombiane più prolifiche oggi operanti. Nel 1969, l’opera di Amaral è presente in Wall Hangings al Museum of Modern Art di New York, che comprendeva anche sculture tessili di Magdalena

BOGOTÁ, COLOMBIA, 1932 VIVE A BOGOTÁ

STRANIERI OVUNQUE

Olga de Amaral


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Saliba Douaihy

Saliba Douaihy nasce nel 1915 a Ehden, nel Libano settentrionale, e fin da giovane rivela un talento artistico; la sua carriera si sviluppa tra il Libano, Parigi e New York. A quattordici anni si trasferisce a Beirut ed entra a bottega dal pittore Habib Srour che assiste nell’esecuzione di grandi dipinti murali per le chiese. Nel 1932, a diciassette anni, la comunità di Ehden raccoglie i fondi necessari per mandarlo a Parigi a studiare all’École Nationale Supérieure des Beaux-Arts. Studia pittura a olio per due anni ed espone al Salon des Artistes Français. Rientrato in Libano nel 1936, nel 1947 ottiene un incarico di docenza in una scuola locale, che svolge parallelamente alla propria attività di pittore. Nel 1950, si trasferisce negli Stati Uniti, dove espone nel padiglione del Libano all’Esposizione Universale di New York, al Philadelphia Museum of Art (1952) e al Guggenheim Museum (1967). Gli incarichi ricevuti dalle chiese a Beirut hanno inciso sulle opere astratte che Douaihy avrebbe sviluppato e dipinto in un momento successivo della sua carriera. Regeneration (1974) è un ottimo esempio dello stile “flat” e minimalista a cui Douaihy giunge dopo alcuni anni di vita e attività a New York. Ispirato da Joseph Albers, riduce tutte le forme a linee semplici ma forti. I

BIENNALE ARTE 2024

suoi dipinti, a partire dai primi anni Sessanta – caratterizzati da linee che si incontrano in modo netto e preciso – si concentrano sull’esplorazione dei temi relativi alla forma e allo spazio, alludendo ai paesaggi del paese d’origine nelle linee e nelle bande orizzontali di colore che percorrono alcuni dei suoi quadri. Il cielo, i campi lontani, gli alberi e le montagne sono suggeriti ma

EHDEN, LIBANO, 1915 – 1994, NEW YORK, USA

mai esplicitamente disegnati. Si ritiene che abbia tratto ispirazione anche dalla forma lineare dell’architettura religiosa e dall’iconografia cristiana. L’opera di Saliba Douaihy è esposta per la prima volta alla Biennale Arte. —Heba Elkayal

Regeneration, 1974 Acrilico su tela, 152 × 202 cm. Photo Justin Piperger. Courtesy Taimur Hassan Collection.


L’opera senza titolo del 1974 di Ehsaei è una delle sue prime astrazioni calligrafiche, creata poco dopo la laurea all’Università di Teheran, dove – mentre era ancora studente – è stato uno dei fondatori del dipartimento di Grafica. La vivace tavolozza e le campiture piatte sono insolite rispetto ai lavori successivi, così come il grado di allontanamento dalle forme calligrafiche tradizionali. Le curve ritmiche, i ripetuti tratti verticali e i punti romboidali creano un forte rimando alla scrittura persiana, senza tuttavia formare parole leggibili. Ehsaei ha parlato di questa inaccessibilità come di una critica agli abusi storici del linguaggio, al modo in cui la scrittura è spesso al servizio dei potenti, sia nei documenti legali sia nella storiografia. L’illeggibilità è anche un invito a impegnarsi: “Gli spettatori che parlano la lingua potrebbero trovare qui o là una parola che riescono a leggere, quindi continueranno a cercare il resto, ma non lo troveranno mai. Ed è proprio questa ricerca il mio obiettivo”. L’opera di Mohammad Ehsaei è esposta per la prima volta alla Biennale Arte. —Media Farzin

Untitled, 1974 Olio su tela, 120 × 79 cm. Courtesy l’Artista.

STRANIERI OVUNQUE

Mohammad Ehsaei è un acclamato artista, calligrafo, designer e docente, nonché uno dei primi ad adottare il naqqashi-khat (pittura calligrafica), un approccio alla pittura modernista degli anni Sessanta che faceva un uso innovativo delle tradizionali scritture persiane. È spesso associato ad artisti iraniani Saqqa-Khaneh quali Faramarz Pilaram, Hossein Zenderoudi e Parviz Tanavoli, i cui dipinti e sculture degli anni Sessanta inglobavano elementi popolari dell’iconografia musulmana sciita. I dipinti di Ehsaei attingono alla sua formazione classica in calligrafia nas’taliq, ma ne enfatizzano l’astrazione, aggrovigliando le forme delle lettere persiane in gereh (nodi) indecifrabili e spesso colorati. Non tutto il suo lavoro è indecifrabile: una serie in corso iniziata negli anni Settanta, Eternal Alphabet, presenta parole e frasi derivate dalla liturgia musulmana. Ha anche realizzato murales pubblici (Università di Teheran, 1977 e Museo Nazionale dell’Iran, 1986) e manoscritti di calligrafia tradizionale (il Divān di Hafez, 2010 e il Corano, 2021).

QAZVIN, IRAN, 1939 VIVE A TEHERAN, IRAN, E VANCOUVER, CANADA

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Mohammad Ehsaei


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Samia Halaby

GERUSALEMME, PALESTINA, 1936 VIVE A NEW YORK, USA

Samia Halaby, nata a Gerusalemme e attualmente residente a New York, è una pittrice astratta, un’accademica ed ex docente. Prima donna a ricoprire l’incarico di professore associato alla Yale School of Art dal 1972 al 1982. Ha studiato arte negli Stati Uniti e da tempo è attiva come artista, attivista e docente negli Stati Uniti e in Medio Oriente. Trasferitasi in Libano nel 1948 a seguito della creazione di Israele, Halaby ha prodotto opere figurative legate al proprio attivismo politico per i movimenti di liberazione palestinesi. Nota principalmente per il suo stile astratto, cita i principi del Costruttivismo russo, dell’architettura islamica e dell’arte tradizionale mediorientale quali elementi fondanti della sua pittura. Riporta inoltre i ricordi d’infanzia in Palestina come punti d’ispirazione per elementi compositivi e motivi astratti quali il sole, il cielo e il paesaggio. L’interesse per la tecnologia la porta, all’inizio degli anni Ottanta, a realizzare dipinti generati dalla macchina, simulati con un computer Amiga. Il dipinto Black is Beautiful (1969) fa parte di un corpus di opere realizzate per esplorare i limiti del vedere gli oggetti così come sono, un’abitudine, secondo l’artista, autoritariamente trasmessa dal mondo accademico. In questo dipinto, Halaby esplora la prospettiva, incoraggiando l’osservatore a esaminare i bordi arrotondati. Il dipinto porta l’occhio a considerare i profili stondati della forma a croce. Quando questo si posa sul bordo liminare della curva, è invitato a soffermarsi:

BIENNALE ARTE 2024

lo sguardo è trattenuto da punti specifici della tela. L’esplorazione della forma, della sagoma e della qualità sfumata dei bordi è intellettualmente motivata, dando vita a un dipinto astratto che aderisce all’indagine condotta dall’artista sugli elementi formali e concettuali dell’arte astratta. L’opera di Samia Halaby è esposta per la prima volta alla Biennale Arte. —Heba Elkayal

Black is Beautiful, 1969 Olio su tela, 167,5 × 167,5 cm. Courtesy l’Artista; Sfeir-Semler Gallery, Beirut e Amburgo.


Harmonie, 1969 Acrilico su tela, 158 × 99 cm. Photo Maria e Mansour Dib. Courtesy Ramzi e Saeda Dalloul Art Foundation.

Harmonie (1969) – per i colori rossastri, la composizione, il bordo dipinto che incornicia il quadro e il rombo al centro – viene spesso citato come prova dell’ispirazione che Hamidi trae dai tappeti marocchini. Le pennellate visibili aggiungono all’opera una trama intenzionale e trasmettono la sensazione lanosa e tattile di un tappeto. Con il sapiente uso del colore, riesce a creare luci e ombre in qualsiasi sezione desideri, dando origine a una composizione visivamente piacevole, simile a un collage. Anche se i cerchi non si riscontrano tipicamente nelle tessiture tradizionali, qui potrebbero anticipare

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in modo sottile l’erotismo presente nelle opere più tardive. Inoltre, potrebbero essere letti anche come decostruzione della fusione lineare fra il tradizionale tratto dentellato delle tessiture marocchine e le forme ondulate impiegate dai membri del movimento della Scuola di Casablanca. Queste ondulazioni diventeranno in seguito motivo ricorrente in tutte le opere del gruppo. L’opera di Mohamed Hamidi è esposta per la prima volta alla Biennale Arte. —Fadia Antar

NUCLEO STORICO • ASTRAZIONI

Mohamed Hamidi inizia il proprio percorso artistico all’École des Beaux-Arts di Casablanca e in seguito esplora Parigi, immergendosi nei suoi movimenti artistici e musei, iscrivendosi a istituti d’arte e diplomandosi all’École Supérieure des Beaux Arts. Una volta tornato a Casablanca, nel 1966, Hamidi aspira a rafforzare il proprio legame con le tradizioni dell’arte popolare marocchina e a riconoscerne i valori estetici. La brillante interazione fra i colori con cui gioca, gli effetti ottici creati con spazi positivi e negativi e le variopinte astrazioni, rese con ampie campiture cromatiche e forme geometriche nette, alludono talvolta ai tappeti marocchini e in alcune istanze assumono forme implicitamente erotiche. A partire dal 1969, Hamidi si inoltra nell’esplorazione della sensualità che lo porta a realizzare i suoi iconici dipinti incentrati sull’eros, dalle forme che si compenetrano, e per i quali è maggiormente noto. Hamidi continua tuttora la propria audace e giocosa produzione artistica.

CASABLANCA, MAROCCO, 1941 VIVE AD AZEMMOUR, MAROCCO, E CASABLANCA

STRANIERI OVUNQUE

Mohamed Hamidi


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Carmen Herrera

L’AVANA, CUBA, 1915 – 2022, NEW YORK, USA

Carmen Herrera è un’artista statunitense di origine cubana le cui geometrie minimaliste hanno aperto nuovi orizzonti nella storia dell’astrazione mondiale. Nata e cresciuta a L’Avana in una famiglia benestante, in gioventù ha vissuto tra Francia e Cuba, studiando arte, storia dell’arte e architettura a L’Avana, New York e Parigi. Dopo il matrimonio con Jesse Loewenthal nel 1939, Herrera si trasferisce a New York. La sua pratica trova un impulso fondamentale durante il periodo trascorso nei circoli artistici della Parigi del dopoguerra. Nel 1954 l’artista si stabilisce definitivamente a New York e affina i suoi caratteristici giochi di colore, la simmetria e la percezione fino alla morte, avvenuta nel 2022. Raggiunti gli ottant’anni, l’artista è stata ampiamente riconosciuta per lo stile rarefatto e la disciplinata sensibilità affinata nel corso di decenni. Il sincopato ritmo visivo di Untitled (Halloween) (1948), realizzato durante gli anni formativi di Herrera nella Parigi del dopoguerra, è un primo esempio del rigoroso linguaggio minimalista per cui l’artista sarebbe poi diventata famosa. Durante la permanenza a Parigi dal 1948 al 1956, Herrera è stata esposta a vari stili di astrazione – risalenti a tradizioni europee, latinoamericane e sudamericane – che filtrano nella sua pratica in evoluzione. I dipinti di questo periodo, data la scarsità di materiali dell’epoca, sono spesso realizzati su tela da imballaggio con colori acrilici; Herrera è stata la prima artista

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a utilizzare questo supporto in Europa. In questo dipinto, l’economia di curve e linee produce un campo di forme reattive e colori contrastanti, un gioco di alternanza di sagome arancioni e nere. Composte all’interno di una forma ovale squadrata, queste scelte offrono un esercizio pittorico di ritmo e variazione, evocando al contempo la festività che dà il nome al dipinto. L’opera di Carmen Herrera è esposta per la prima volta alla Biennale Arte. —CJ Salapare

Untitled (Halloween), 1948 Acrylic on burlap, 96,5 × 123,2 cm. Collezione privata. © Estate di Carmen Herrera.


Composition in Red, Green and Yellow, 1963 Olio su tela, 91 × 71,5 cm. Photo Justin Piperger. Courtesy Collezione Taimur Hassan.

Composition in Red, Green, and Yellow (1963) fa parte della serie Square Compositions, iniziata nel 1963. Colori vibranti e tonalità di nero danno vita a forme e motivi ritmici. L’opera è composta da mezzelune, semicerchi e cerchi incastrati in unità quadrate e rettangolari. Tuttavia, nonostante l’apparente ripetitività, la disposizione a griglia offre molte variazioni. Le linee sono inoltre imperfette, cedevoli e irregolari, e la resa è volutamente disomogenea, sottolineando così il carattere artigianale della composizione. Ribaltando le convenzioni del minimalismo, la pittura di Shemza è intrisa, come nel

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caso delle serie Meem e Roots, di sottili riferimenti culturali, a cominciare dall’uso costante dell’urdu per datare e firmare le sue opere geometriche. L’opera di Anwar Jalal Shemza è esposta per la prima volta alla Biennale Arte. —Devika Singh

NUCLEO STORICO • ASTRAZIONI

Anwar Jalal Shemza – attivo sia in ambito artistico che letterario – ha pubblicato romanzi in urdu e curato il periodico Ehsas. All’inizio degli anni Cinquanta è stato anche membro fondatore del Circolo artistico di Lahore, che ha aperto la strada all’arte moderna in Pakistan. Nel 1956 si reca a Londra dove studia presso la Slade School of Fine Art. Pur essendo produttivo, questo primo periodo nel Regno Unito provoca in lui una crisi non solo artistica. “La ricerca era quella della mia identità”, ha spiegato in seguito. Dopo aver tentato di stabilirsi di nuovo in Pakistan nel 1960 per contribuire all’educazione artistica del paese, torna in Gran Bretagna e si trasferisce nelle West Midlands, dove accetta un posto di insegnante. La notevole opera di Shemza ha contribuito allo sviluppo dell’arte pakistana e alle forme transnazionali di Modernismo.

SHIMLA, INDIA, 1928 – 1985, STAFFORD, REGNO UNITO

STRANIERI OVUNQUE

Anwar Jalal Shemza


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Mohammed Kacimi

Mohammed Kacimi è stato pittore, poeta, docente, intellettuale e attivista politico. Ha iniziato a dipingere nell’ambito del programma Open Workshops promosso dal Ministero della Gioventù e dello Sport marocchino e diretto da Jacqueline Brodskis. Frequenta per un breve periodo l’Università di Fez e l’École nationale superiéure des Beaux-Arts di Parigi prima di perseguire una formazione nomade, viaggiando a lungo in Europa, Nord Africa e Asia occidentale e stringendo amicizia con molti artisti, letterati e intellettuali di spicco. Questa esperienza all’estero, unita al clima politico repressivo del Marocco durante il regno di re Hassan II, segna la sua lunga e variegata carriera artistica, in cui i confini fra modalità figurativa e astratta risultano sfumati. La sua opera rivela l’attenzione per le politiche di libertà, decolonizzazione, segni e marcature, rappresentazioni del corpo, slittamenti tra visibilità e invisibilità, e per i materiali. Ha prodotto anche sculture, grafica, installazioni site-specific, ceramiche e arte pubblica.

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Nomadic Signs – Abstract composition (1979) gioca tra astrazione geometrica e rappresentazione corporea. Il forte uso di linee curve e di campiture piatte di colori non modulati evoca segni, motivi e simboli. Allo stesso tempo, le forme geometriche sembrano assumere la sembianza di braccia umane, una proveniente dall’angolo in basso a destra e l’altra dall’angolo in alto a sinistra; le braccia potrebbero entrare in contatto nell’area circolare centrale, stringendosi la mano, ma ciò è oscurato e lasciato ambiguo. Il dipinto gioca con i concetti di spazio positivo e negativo e con il rapporto figura/sfondo, dove il color guscio d’uovo dello sfondo spezza le forme che compongono le braccia. Il titolo fa riferimento alle esperienze nomadi di Kacimi

MEKNES, MAROCCO, 1942 – 2003, RABAT, MAROCCO

durante i suoi viaggi e al suo interesse per i segni come sistemi di comunicazione. In questo particolare periodo risuona l’opera di Jewad Selim, vista dall’artista nelle mostre del Modernismo iracheno a Baghdad, Beirut e Londra. L’opera di Mohammed Kacimi è esposta per la prima volta alla Biennale Arte. —Riad Kherdeen

Nomadic Signs - Abstract composition, 1979 Olio su tela, 75,5 × 116 cm. Photo Maria e Mansour Dib. Courtesy Ramzi e Saeda Dalloul Art Foundation.


Acervo 290, concreto 18, 1954 Smalto su pannello, 72 × 60 cm. Photo Sergio Guerini. Collezione privata. Courtesy Almeida & Dale Galeria de Arte. © Sergio Guerini.

Qui lavora con la relazione tra forme e piani di colore, sviluppando complesse strutture a partire da figure semplici, ripetute in modo sistematico. La combinazione di elementi a volte scompone le figure e altre volte crea nuovi poligoni e strutture più organiche, generando ritmo e dinamismo sulla tela. Il triangolo e il rombo occupano una posizione centrale, svolgendosi e ripresentandosi in modi diversi, conferendo così un carattere discreto ed elegante al movimento interno della composizione. Questa dinamica matematica viene

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stemperata dall’uso dei colori e dal loro contrasto, insieme alla presenza solitaria di un unico cerchio in basso a destra, che crea un insospettato punto di fuga in un’operazione formale tipicamente lauandiana. L’opera di Judith Lauand è esposta per la prima volta alla Biennale Arte. —Fernando Olivia

NUCLEO STORICO • ASTRAZIONI

Judith Lauand – figlia di immigrati libanesi – trascorre l’infanzia e la giovinezza ad Araraquara, importante centro economico e culturale nella campagna intorno a San Paolo. Nel 1952 si trasferisce nella capitale dello Stato e, insieme a Waldemar Cordeiro, Geraldo de Barros e altri, è l’unica donna attiva nel pionieristico Grupo Ruptura, il cui manifesto del 1952 pone le basi per il Concretismo in Brasile. Nella sua fase figurativa e pop degli anni Sessanta, si sofferma su questioni politiche legate alla violenza, alla sessualità, alla sottomissione e alla libertà femminile, affrontando i temi della repressione attuata dalla dittatura militare in Brasile, della guerra del Vietnam e della condizione delle donne nella società brasiliana. Acervo 290, concreto 18 (1954) appartiene agli inizi della sperimentazione concretista di Lauand, quando l’artista ha già accantonato gli esordi accademici e figurativi.

PONTAL, BRASILE, 1922 2022, SAN PAOLO, BRASILE

STRANIERI OVUNQUE

Judith Lauand


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Esther Mahlangu

A ottantotto anni, la leggendaria Esther Mahlangu ha più anni della Repubblica del Sudafrica ed è stata testimone della dissoluzione dell’apartheid. La sua particolare e prolifica carriera artistica diviene simbolo della resilienza della cultura ndebele, che l’artista ha celebrato e preservato. Mahlangu ottiene un riconoscimento a livello internazionale nel 1989, dopo aver ricreato le intricate pitture degli esterni della sua casa rurale di Mpumalanga per l’esposizione anti-etnocentrica di arte contemporanea al Centre Pompidou, Magiciens de la Terre. Da allora espone in tutto il mondo, ma l’arte di Mahlangu non si limita mai al solo spazio della galleria. Dalla creazione della prima South African Art Car per la prestigiosa serie di BMW nel 1991, i dipinti geometrici di Mahlangu abbelliscono gli oggetti più disparati, dalle lattine di tè rooibos alle scarpe da ginnastica di lusso, fino alla coda di un jet Boeing, continuando ad adornare la casa in cui insegna le tecniche ndebele di pittura, scultura e lavorazione delle perline.

Untitled (1990) rappresenta uno dei primi esempi della tipica trasposizione operata da Mahlangu delle tecniche ndebele per dipingere gli edifici su superfici nuove, molto spesso delle tele. Mahlangu dipinge secondo l’usanza ndebele, appresa da sua madre e da sua nonna fin dall’età di dieci anni: a mano libera, senza righelli né schizzi preparatori e con un pennello di piume di gallina, preferendo le linee rette e l’equilibrio compositivo. Anche se condizionate dalla tela, le forme brillanti e le linee di un bianco intenso con spessi contorni neri evocano la simmetria e la ripetizione

MIDDELBURG, SUDAFRICA, 1935 VIVE IN MPUMALANGA, SUDAFRICA

dei vasti murales astratti ndebele, nonché un senso di movimento contraddittorio dato dall’accumularsi di forme angolari e motivi. Pur accennando alle tenui tonalità della terra, tradizionalmente create impastando argilla, terriccio e sterco di vacca, i colori piatti e decisi di quest’opera mettono più in risalto le tonalità blu e viola e le sfumature vibranti apprese da Mahlangu nell’infanzia e che continuano a caratterizzare il suo stile. L’opera di Esther Mahlangu è esposta per la prima volta alla Biennale Arte. —Ruth Ramsden-Karelse

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Untitled, 1990 Acrilico su tela, 123 × 190 cm. Photo Maurice Aeschimann. The Jean Pigozzi African Art Collection. Courtesy The Jean Pigozzi African Art Collection.


L’affiliazione di Mancoba agli artisti danesi di Linien e la sua visita al British Museum, dove studia una collezione di maschere centroafricane, determinano la sua virata verso il linguaggio della pittura e verso l’astrazione. Nella parte superiore di Composition si nota un caratteristico motivo romboidale, abbinato a una V e a ripetuti zig-zag. L’insieme ricorda in modo sorprendente le maschere a elmo (Bwoom) dei Kuba del Congo. Si ritiene che l’artista abbia potuto osservare questa tipologia di maschere proprio al British Museum. Composition viene creato otto anni prima della sua adesione al collettivo artistico internazionale CoBrA. Nel suo stile astratto, è evidente che Mancoba ha già abbandonato le rappresentazioni realistiche tipiche dei suoi primi lavori scultorei, prodotti prima di lasciare il Sudafrica. L’opera di Ernest Mancoba è esposta per la prima volta alla Biennale Arte. —Zamansele Nsele

Composition, 1940 Olio su tela, 59 × 50,5 cm. Collezione privata.

STRANIERI OVUNQUE

Ernest Mancoba, discendente del popolo migrante degli Mfengu, è figlio di un predicatore e minatore e di un’insegnante. Riceve un’istruzione anglicana presso una missione e in seguito scopre il proprio talento per la scultura. Dinanzi alle limitate prospettive per un artista nero in Sudafrica, dopo avere ottenuto una borsa di studio e conseguito la laurea nel 1937, Mancoba parte per Parigi e Londra, dove rimane profondamente colpito dalle collezioni di arte africana del British Museum. In Francia studia scultura presso l’École nationale supérieure des arts décoratifs e si lega ai compagni danesi che condividono il suo status di outsider e l’interesse per l’arte africana. Questi gli presentano la scultrice Sonja Ferlov, che l’artista sposa nel 1942 mentre è prigioniero in un campo di internamento durante la Seconda guerra mondiale. Nel 1948 è già membro attivo, sebbene emarginato, del collettivo artistico d’avanguardia CoBrA.

JOHANNESBURG, SUDAFRICA, 1904 – 2002, CLAMART, FRANCIA

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Ernest Mancoba


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María Martorell

María Martorell – artista originaria della tradizionale provincia di Salta, nel nord dell’Argentina – inizia a dedicarsi alla pratica artistica dopo i trentatré anni. A partire dalla metà degli anni Quaranta si reca spesso a Buenos Aires, dove il contatto con la nuova avanguardia astratta la porta gradualmente ad allontanarsi dal lavoro figurativo caratteristico dei suoi esordi, interessandosi in particolare ai principi del gruppo Arte Concreto-Invención, guidato da Tomás Maldonado. Nel 1952 si reca a Madrid e poi a Parigi, dove studia alla Sorbona. Dopo il ritorno in Argentina, la sua opera riflette l’influenza degli studi in Francia, in particolare la sociologia dell’arte e la psicologia della percezione. La sua ricerca e il suo interesse per la sintassi del colore e lo sviluppo delle forme nello spazio si dimostrano costanti. A metà degli anni Sessanta apre un laboratorio di ricerca e design tessile nella nativa Salta. Gli arazzi che progetta e realizza con le donne del luogo testimoniano il suo tentativo di far convivere l’iconografia ancestrale e la geometria contemporanea.

BIENNALE ARTE 2024

Nonostante l’economia dei colori, le forme esagonali dei dipinti di Martorell della fine degli anni Cinquanta producono un senso di tridimensionalità. Queste forme lasciano il posto prima alle ellissi e poi alle bande ondulate caratteristiche del suo lavoro a partire dalla metà degli anni Sessanta. In quegli anni inizia a produrre in serie, una scelta indubbiamente dettata dall’ammirazione per Josef Albers. Inoltre, amplia la sua tavolozza e ricorre a configurazioni come il dittico e il trittico. Realizzato nel 1968, il dittico Ekho Dos fa parte di una serie più ampia che porta

Ekho Dos, 1968 Olio su tela, 170 × 160 cm. Photo Otilio Moralejo. Collezione Museo de Artes Plásticas Eduardo Sívori, Buenos Aires, Argentina. Courtesy Museo de Artes Plásticas Eduardo Sívori, Buenos Aires, Argentina. © Otilio Moralejo.

SALTA, ARGENTINA, 1909-2010

lo stesso nome. In questo dipinto, onde dinamiche di colori vibranti si muovono sullo sfondo monocromo generando deviazioni sulla superficie. Le onde si estendono fino al bordo del telaio, producendo un effetto di ritmo e movimento e un generale senso di calma. L’opera di María Martorell è esposta per la prima volta alla Biennale Arte. —Sonia Becce


diversificare gli orientamenti di questi simboli, l’artista dà vita a composizioni dinamiche e ritmiche. Melehi si è spento a Parigi nel 2020. Nelle sue opere, Melehi incorpora le onde; queste a volte assumono la forma di parti del corpo umano o esplodono verso l’alto, come un magma, altre volte sono del tutto astratte e decostruite. Tuttavia, all’origine, queste onde sono l’interpretazione dell’artista di prodotti tribali noti come tappeti Glaoui, realizzati con un’ampia gamma di tecniche tessili a formare fasce su trame piatte allungate, comuni nella tradizione tribale amazigh. Sin dal 1970 Melehi inizia a usare la vernice per auto a base di cellulosa per applicare colori piatti e brillanti alle superfici in legno. Nell’intento di ottenere piattezza di composizione e

una sottile assenza dell’artista, non lascia pennellate visibili sulle sue opere. In Composition (1968), si avvicina alla piattezza desiderata anche utilizzando la pittura a olio su tela. La deliberata manipolazione di continuità e discontinuità nel dipinto da parte dell’artista coinvolge lo spettatore in un’esperienza giocosa: può scegliere di seguire il flusso vibrante dell’onda da un lato all’altro o di guardare l’intera immagine, abbracciandone il movimento animato e il rapimento visivo.

571 NUCLEO STORICO • ASTRAZIONI

Mohamed Melehi – nato ad Asilah, nel nord del Marocco, nel 1936 – è stato cofondatore della Scuola di Casablanca, movimento d’arte moderna post-coloniale degli anni Sessanta. Diplomato all’Istituto Nazionale di Belle Arti di Tetouan nel 1956, prosegue gli studi a Siviglia, Madrid e Roma (1956-1960). Grazie a una borsa di studio della Fondazione Rockefeller, studia poi presso la Columbia University di New York (1962-1964). Nel 1963 prende parte alle mostre Hard Edge and Geometric Painting and Sculpture al MoMA e Formalists alla Washington Gallery of Modern Art. Ispirato dalla vivace spiritualità della propria tradizione, Melehi si dedica a forme astratte e geometriche, integrando inoltre nelle sue opere tratti calligrafici arabi e una serie di elementi simbolici, come arcobaleni, fiamme e onde. Nel

ASILAH, MAROCCO, 1936 – 2020, PARIGI, FRANCIA

L’opera di Mohammed Melehi è esposta per la prima volta alla Biennale Arte. -Fadia Antar

Composition, 1968 Olio su tela, 89,8 × 199,6 cm. Photo Hamad Yousef. Courtesy Mathaf: Arab Museum of Modern Art, Doha, Qatar.

STRANIERI OVUNQUE

Mohamed Melehi


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Tomie Ohtake

Tomie Ohtake arriva a San Paolo da Kyoto nel 1936, nel corso della terza grande fase di emigrazione giapponese verso il Brasile. Madre di due figli, nel 1952 Ohtake prende le prime lezioni di pittura e si unisce al Seibi, un gruppo di artisti di origine giapponese formatosi nel 1935 e attivo fino al 1970. Nel 1957 il critico Mário Pedrosa, suo amico di lunga data e portavoce, la invita a tenere la sua prima mostra personale al Museu de Arte Moderna de São Paulo. Mentre i primi lavori sono costituiti per lo più da paesaggi naturali o urbani, a partire dal 1959 l’artista si dedica all’astrazione, collocandosi vicino alle tendenze più vivaci come il Concretismo e il Neoconcretismo, che dominavano la produzione d’avanguardia in Brasile. La prima serie di tele astratte – denominata Blind Series, perché le dipingeva bendata – ottiene immediati consensi per la ricchezza di stratificazioni, texture e sorprendenti cromatismi, tratti che ancor oggi caratterizzano la sua pratica.

BIENNALE ARTE 2024

Coltivando intenzionalmente l’immagine di persona riservata, Ohtake ha lasciato tutte le sue opere senza titolo, evitando inoltre di offrirne qualsiasi interpretazione in pubblico o in privato. Un attento esame della sua tecnica e preparazione, tuttavia, ci dice molto molto sul suo processo creativo. Questa astrazione senza titolo del 1978, ad esempio, rivela chiaramente un punto di svolta nella sua produzione, riconducibile ai primi anni Settanta, quando si allontana da uno stile espressionista per approdare a composizioni grafiche e ottiche caratteristiche della pittura a contrasti netti. In questo periodo, Ohtake sperimenta

KYOTO, GIAPPONE, 1912 – 2015, SAN PAOLO, BRASILE

la serigrafia e utilizza ritagli di riviste e altri materiali per realizzare studi preparatori per le sue tele. I vivaci accostamenti cromatici delle sue opere hanno anche favorito inaspettati accostamenti ad artisti quali Claudio Tozzi e Antônio Henrique Amaral – associati in particolare alla Pop Art e alla nuova figurazione –, con i quali nel 1977 ha condiviso una mostra alla Galeria Alberto Bonfiglioli di San Paolo. Potremmo osservare la potente corporeità dell’opera di Ohtake anche solo nelle semplici dimensioni e nella vivacità cromatica. —Sofia Gotti

Untitled, 1978 Acrilico su tela, 124,8 × 134,8 × 3,3 cm. Photo Erika Mayumi. Courtesy Estate dell’Artista e Nara Roesler.


573 NUCLEO STORICO • ASTRAZIONI

Marco Ospina è stato pittore, scrittore e grafico, ha insegnato alla Facultad de Artes dell’Universidad Nacional de Colombia per quarant’anni e alla Escuela de Bellas Artes, di cui è stato anche direttore nel 1948. È stato a lungo considerato una “figura di transizione” fra l’accademismo figurativo e il Modernismo, tuttavia una nuova analisi della sua opera dimostra che in realtà si tratta di un pioniere dell’astrazione. Nel 1947 partecipa al nazionale Salón de artistas jóvenes con un quadro considerato fra le prime opere che si avvicinano all’astrazione in tutta la storia della Colombia. Lo stesso anno pubblica El arte de la pintura y la realidad, un testo fondamentale che difende l’arte non figurativa da un ecosistema conservatore che vede l’astrazione come “importata” e non colombiana. Nel 1955 Ospina prende parte alla prima collettiva sull’astrazione del paese e contribuisce con un saggio al catalogo della mostra. Negli anni Ottanta si trasferisce in Messico, dove lavora e risiede negli ultimi anni della sua vita. Negli anni Quaranta, man mano che si affievolisce l’influenza di uno stile figurativo indigenista, molti pittori colombiani iniziano a cimentarsi con un linguaggio pittorico più astratto. Di conseguenza, nell’opera di Ospina si evidenzia una riduzione di linee e forme a favore di

BOGOTÁ, COLOMBIA, 1912–1983

strutture più elementari. Eppure l’artista – che dipinge spesso paesaggi – continua a fare riferimento alla natura e agli oggetti tangibili, e solo negli anni Cinquanta tronca definitivamente la relazione fra il proprio lavoro e il mondo esterno, rivolgendo l’attenzione soprattutto alla forma. Si presume che Abstracto (s.d.) sia caratteristico della produzione in quel periodo. Nel quadro, le forme arrotondate e organiche e le tonalità di viola, azzurro, verde e color crema

Abstracto, s.d. Olio su tela, 110 × 90 cm. Courtesy Proyecto Bachué, Colombia.

sono interrotte bruscamente e in modo netto da una linea, che delimita così tre sezioni distinte. La prospettiva è molto meno profonda rispetto ai lavori precedenti, diventando bidimensionale: una caratteristica fondamentale dell’astrazione. L’opera di Marco Ospina è esposta per la prima volta alla Biennale Arte. —Diego Chocano

STRANIERI OVUNQUE

Marco Ospina


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Samia Osseiran Junblatt

SAIDA, LIBANO, 1944 VIVE A BRAMIYEH, LIBANO

Samia Osseiran Junblatt si è immersa nella teoria dell’arte occidentale in Europa per poi recarsi in Oriente a esplorare una filosofia completamente diversa, incentrata sulla potenza attraverso la semplicità e la precisione. Si trasferisce a Firenze per conseguire il master in Belle Arti presso il Rosary College Pio XII, diplomandosi nel 1967; nel 1975, consegue invece la laurea in Arte Grafica presso l’Università di Belle Arti di Tokyo. L’artista combina complessità e semplicità nelle linee delle sue opere, infondendovi una cruda spiritualità caratteristica della scena artistica femminile della Beirut degli anni Sessanta. La recente esplosione di creatività di Osseiran riesamina i temi e i periodi attraversati nel corso della propria carriera. Con mano tremante, cerca di scoprire l’essenza della propria pratica.

In Sunset (1968) Osseiran dipinge un cammino lungo e stretto che percorre verticalmente la tela, lasciando spazio al sole che tramonta in un cielo circoscritto. Tra la moltitudine di linee che seguono la tradizionale prospettiva a punto di fuga centrale, una singola linea curva infrange l’illusione di perfezione. Questa sottile curvatura all’interno di una resa geometrica altrimenti rigida conferisce una sensazione animata al paesaggio astratto. Osseiran manipola abilmente la prospettiva e la geometria, immergendo lo spettatore in un’esperienza avvincente, in cui viene lasciato a chiedersi se ciò che vede sia solo un paesaggio. I toni terrosi sono allo stesso tempo vibranti e solidi. Il gioco di luci e ombre non proviene da un’unica fonte luminosa, come se ogni oggetto emanasse una propria luminosità. Il tramonto, che per sua natura è rapido e fugace, è in netto contrasto con il sentiero sottostante, dove il tempo stesso sembra indugiare. L’opera di Samia Osseiran Junblatt è esposta per la prima volta alla Biennale Arte. —Fadia Antar

BIENNALE ARTE 2024

Sunset, 1968 Olio su tela, 109,5 × 69 cm. Photo Maria e Mansour Dib. Courtesy Ramzi e Saeda Dalloul Art Foundation.


MADHYA PRADESH, INDIA, 1922 – 2016, DELHI, INDIA

NUCLEO STORICO • ASTRAZIONI

S.H. Raza nasce nelle zone rurali dell’India centrale e studia arte a Nagpur e Bombay, prima di trasferirsi a Parigi nel 1950 con una borsa di studio presso l’École Nationale Supérieure des Beaux-Arts. Il 1947 lo vede cofondatore dell’iconico Progressive Artists’ Group insieme a F.N. Souza e M.F. Husain, con l’obiettivo di sviluppare un linguaggio artistico moderno e internazionale per un’India divenuta da poco indipendente. Se le sue prime opere in Francia sono influenzate dagli stili europei, quali Impressionismo e Cubismo, a partire dagli anni Sessanta si reca spesso in India e i suoi viaggi nel paese danno il via alla fase successiva del suo lavoro, che distilla l’esperienza e la memoria dei paesaggi indiani, del colore e della luce, in composizioni sempre più astratte.

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Sayed Haider Raza

Offrande, 1986 Acrilico su tela, 100 × 100 cm. Courtesy Grosvenor Gallery, Londra.

esoterici sacri. Essa dimostra anche l’intento dichiarato della ricerca dell’artista, “finalizzata all’ordine plastico puro, all’ordine delle forme […], alla tematica della natura”. I quadri di Raza sono esposti diffusamente in India, Europa, Giappone e Nordamerica, e inoltre a biennali internazionali a Dakar, Senegal (1992), Avana, Cuba (1987), São Paulo (1958) e Venezia (1954, 1956 e 1958). —Latika Gupta

STRANIERI OVUNQUE

A partire dalla fine degli anni Settanta sviluppa un vocabolario visivo unico, con leitmotiv come quadrati, triangoli e cerchi in dipinti simbolici che rimandano alle tradizioni spirituali e filosofiche indiane. Offrande (1986) è un dipinto emblematico per l’opera di Raza, con una specifica gamma cromatica legata alla terra, fatta di ocra, verdi, terra d’ombra bruciata, rossi profondi e neri densi, memori del suolo arso dal sole e delle fitte foreste del Madhya Pradesh, dove è cresciuto. La composizione geometrica, con fasce di colore orizzontali e verticali e un triangolo invertito, attinge al simbolismo degli yantra – diagrammi


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Freddy Rodríguez

La pratica pittorica di Freddy Rodríguez – nato nella Repubblica Dominicana – si muove attraverso diversi stili, quali l’astrazione geometrica e la figurazione espressiva, affrontando l’identità personale dell’artista e la sua storia di migrazione e spostamento. Rodríguez cresce durante il violento regime del dittatore

Rafael Trujillo e, temendo per la propria vita di giovane attivista, a diciotto anni emigra a New York, dove studia presso l’Art Students League e la New School for Social Research con l’espressionista astratto Carmen Cicero. Attingendo alla geometria dell’architettura newyorkese, alla storia dell’arte moderna e a scrittori

SANTIAGO DE LOS CABALLEROS, REPUBBLICA DOMINICANA, 1945 – 2003, NEW YORK, USA

latinoamericani come Julio Cortázar, Rodríguez sviluppa un corpus di opere diverse che combinano la cultura e la storia dei Caraibi ai riferimenti storici dell’arte occidentale. Il dipinto Mulato de tal (1974) prende il titolo dal romanzo del 1963 Mulata de tal (in italiano Mulatta senza nome), del premio Nobel guatemalteco Miguel Ángel Asturias, che racconta la storia di un povero contadino del Guatemala che fa un patto con il diavolo. Mulato de tal, come molti altri dipinti di questa serie, è stato inizialmente abbozzato con penna e matita colorata su carta millimetrata. L’opera fa riferimento a un mulato, un uomo di etnia mista, attraverso forme geometriche che suggeriscono un corpo in movimento. La tavolozza di colori caldi suggerisce una relazione tra terra e corpo, ma anche le tassonomie razziali che regolano la vita dominicana. Attraverso linee dinamiche e tratti gestuali, il dipinto allude ai ritmi della musica latina diventata popolare a New York negli anni Settanta. Un dipinto gemello intitolato Mulata de tal (1974) è andato perduto durante gli spostamenti dell’artista tra i Caraibi e New York. L’opera di Freddy Rodríguez è esposta per la prima volta alla Biennale Arte. —Carla Acevedo Yates

Mulato de tal, 1974 Acrilico su tela, 203,2 × 101,6 cm. Courtesy Hutchinson Modern & Contemporary. © Estate Freddy Rodriguez.


Alla fine degli anni Sessanta, Sabri si interessa sempre più al rapporto tra arte e scienza. Influenzato dal testo di David Alfaro Siqueiros Towards a Transformation of the Plastic Arts (1934), il mutato approccio alla pittura di Sabri riecheggia le parole dell’artista messicano: “La nostra arte deve avere una vera base scientifica. [...] Per la prima volta nella storia, troveremo verità scientifiche che possono essere dimostrate, dal punto di vista fisico, chimico o psicologico. In questo modo, saremo in grado di creare un forte legame tra arte e scienza”. Nel 1971

Water (Quantum Realism Series), 1970 ca. Olio su tela, 87 × 87 cm. Collezione Barjeel Art Foundation, Sharja. Courtesy Barjeel Art Foundation, Sharja.

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Sabri pubblica un manifesto intitolato Quantum Realism, in cui chiede “l’applicazione del metodo scientifico nel campo dell’arte”. I suoi lavori successivi consistono in composizioni di colori che presentano una codificazione indicizzata della realtà, priva di figure e oggetti riconoscibili, come si può osservare nel suo dipinto Water (1970 circa). L’opera di Mahmoud Sabri è esposta per la prima volta alla Biennale Arte. —Suheyla Takesh

STRANIERI OVUNQUE

A metà degli anni Quaranta, Mahmoud Sabri si laurea in scienze sociali alla Loughborough University nel Leicestershire, in Inghilterra. Nel 1947 – artista ancora in gran parte autodidatta – partecipa a una mostra presso l’ambasciata irachena a Londra, esponendo accanto a Hafidh al-Droubi, Jewad Selim, Fahrelnissa Zeid e molti altri che presto sarebbero diventati figure di spicco dell’arte moderna del Medio Oriente. Al suo ritorno in Iraq, Sabri si unisce al collettivo artistico Société Primitive, in seguito ribattezzato Pioneers Group, e lavora a stretto contatto con l’artista e insegnante Faik Hassan. Il principio guida del gruppo era quello di far uscire l’arte dallo studio e portarla nelle strade, dipingendo direttamente dall’ambiente circostante. Nel 1960 si reca a Mosca per studiare all’Istituto d’arte Surikov, sotto la guida del pittore realista socialista Aleksandr Deyneka, e nel 1963 si trasferisce a Praga, dove entra a far parte del Comitato per la difesa del popolo iracheno.

BAGHDAD, IRAQ, 1927 – 2012, MAIDENHEAD, REGNO UNITO

NUCLEO STORICO • ASTRAZIONI

Mahmoud Sabri


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Nena Saguil

Nena Saguil è stata una pittrice filippina nota soprattutto per le sue pionieristiche astrazioni cosmiche. Anziché soddisfare il desiderio della famiglia, che avrebbe voluto si iscrivesse a una scuola cattolica, Saguil sceglie di diventare pittrice e nel 1949 si laurea all’Università delle Filippine. Successivamente è attiva presso la Philippine Art Gallery, importante punto di riferimento per il Modernismo del dopoguerra, ottenendo consensi per le sue opere figurative e sviluppando al contempo un crescente interesse per l’astrazione. Nel 1954 ottiene una borsa di studio e parte per la Spagna e la Francia, dove studia l’arte astratta prima di stabilirsi a Parigi per i successivi quattro decenni. Qui conduce un’esistenza modesta e solitaria; spesso lavora come domestica per finanziare la propria attività artistica. La sua è una pratica quotidiana, meditativa, consistente nel disporre cerchi, globi e sfere in composizioni ipnotiche che collegano il mondo cellulare e quello celeste, riflettendo la sua spirituale visione degli schemi spesso invisibili alla base dell’esistenza quotidiana.

BIENNALE ARTE 2024

Untitled (Abstract) (1972) evidenzia la sua proteiforme manipolazione di forme circolari a fini cosmici. Il cerchio è organizzato in vari modi sulla tela: piccoli punti in rilievo incrostano la superficie, circondano e spesso comprendono forme organiche più ampie, a loro volta raggruppate, concentriche e/o sovrapposte. All’interno di questa composizione, la forma è allo stesso tempo elemento primario, mezzo di relazione e struttura di controllo, il tutto reso in gradienti di colore

MANILA, FILIPPINE, 1914 – 1994, PARIGI, FRANCIA

con effetti disorientanti. Questa proliferazione rivela la porosità di vista, senso e scala ottenuta dal trattamento operato dall’artista: mentre la lettura dell’opera oscilla tra associazioni atomiche e planetarie, le singolari geometrie offrono possibili illuminazioni sui modelli alla base di piccoli e grandi mondi. L’opera di Nena Saguil è esposta per la prima volta alla Biennale Arte. —CJ Salapare

Untitled (Abstract), 1972 Olio su tela, 126,9 × 127,5 × 5,5 cm (con cornice). National Fine Arts Collection del National Museum of the Philippines. Courtesy Bengy Toda III e the National Museum of the Philippines.


579 NUCLEO STORICO • ASTRAZIONI

Kazuya Sakai è stato artista visivo, designer, critico, traduttore e ricercatore operante alla congiuntura fra Oriente e Occidente. Esperto di musica contemporanea e di jazz, Sakai lavorò come docente universitario in Argentina, negli Stati Uniti e in Messico. Quando aveva sette anni, dalla natia Buenos Aires i genitori lo mandarono a Tokyo; tornato nella capitale argentina a ventitré anni iniziò a dipingere. L’astrazione geometrica fu il primo linguaggio visivo che adottò, prima di abbracciare l’Arte Informale. Dopo un breve periodo a New York, in coincidenza con l’apice della Pop Art, si stabilì a Città del Messico, dove è considerato un pioniere dell’arte geometrica. Sarebbe divenuto famoso come illustratore e critico di Plural, la rivista culturale fondata da Octavio Paz. Dopo essersi trasferito in Texas, nel 1977, la sua pittura iniziò a trarre ispirazione dalle sue radici asiatiche.

BUENOS AIRES, ARGENTINA, 1927 – 2001, DALLAS, USA

Pintura No. 9 (1969) è una delle opere che Sakai realizzò durante i suoi anni in Messico, quando entrò in contatto con artisti come Gunther Gerzso, Vicente Rojo, Mathias Goeritz e Carlos Mérida. In quel periodo Sakai cambiò gradualmente direzione, per passare dalle composizioni gestuali ad altre caratterizzate da forme geometriche angolari, intersecate con fasce e campiture di un colore intenso e saturo. Le variazioni nella consistenza e nella luminosità della sua pittura sono l’esito di una sperimentazione con la resina acrilica. L’artista ne applicava molteplici strati in

Pintura No.9, 1969 Acrilico su tela, 130 × 130 cm. Collezione Marina Pellegrini.

alcune sezioni del dipinto e usava nastro adesivo protettivo in altre per impedirne la presa, ottenendo così varie gradazioni di spessore sulla superficie pittorica. In questa tela dalle ricche policromie, ad esempio, ha applicato il nastro adesivo sulle aree bianche e nere. Le brusche interruzioni, le punte aguzze e le linee prospettiche inclinate conferiscono ad alcune parti del quadro l’illusione della tridimensionalità. Una sintesi armoniosa ed equilibrata tra relazioni spaziali e forme semplici dà vita a un linguaggio davvero unico. —Sonia Becce

STRANIERI OVUNQUE

Kazuya Sakai


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Ione Saldanha

Ione Saldanha ha coraggiosamente esplorato nuovi supporti pittorici con un uso energico e caratteristico del colore. Nata in una cittadina nel sud del Brasile, si trasferisce a Rio de Janeiro negli anni Trenta, sviluppando lì la propria opera artistica per oltre cinquant’anni. Frequenta corsi aperti, ma non riceve mai un’istruzione tradizionale, cosa che le permette di mantenere semplicità e freschezza nella sua arte. I suoi primi quadri presentano spazi interni, case di città, facciate e orizzonti, catturando così l’immagine di una città in piena trasformazione. La verticalità diviene un elemento strutturale fondamentale man mano che il suo stile pittorico si fa più sintetico. Dal 1967 inizia a dipingere su ripas (assicelle di legno), solitamente usate

BIENNALE ARTE 2024

per produrre i telai dei quadri. Nello stesso periodo Saldanha inizia a produrre i suoi Bambus e in seguito passa ad altri oggetti tridimensionali come rocchetti di cavi elettrici e pile di blocchi di legno. I Bambus di Saldanha (anni Sessanta) rappresentano una modalità radicale di forzare i confini fra linguaggi artistici, dando corpo e anima alla pittura. Nel suo appropriarsi di un elemento naturale, la stessa organicità del supporto rivendica le sue proprietà scultoree. Per produrre i Bambus l’artista attraversa numerose fasi distinte. Dopo aver raccolto il bambù e averlo fatto seccare per più di un anno, Saldanha lo sabbia e vi applica cinque rivestimenti preparatori di pittura bianca. Quando arriva il momento

ALEGRETE, BRASILE, 1919 – 2001, RIO DE JANEIRO, BRASILE

di ricoprirli di colore, l’artista esegue questo passaggio contemporaneamente per tutti i bambù. Questi lavori ci invitano a sperimentare il colore mentre ci giriamo intorno. Appesi al soffitto, si muovono dolcemente, come fossero semoventi, trasmettendo giocosità e dinamismo. La pennellata leggera ma visibile sullo strato sottile di pittura acrilica evidenzia la sequenza e l’accuratezza del movimento della mano dell’artista. In gruppo, ogni Bambu è allo stesso tempo unico ma anche parte di una più vasta composizione. L’opera di Ione Saldanha è esposta per la prima volta alla Biennale Arte. —Laura Cosendey

Veduta dell’installazione di 35 singoli Bambus, anni Sessanta-Settanta. Acrilico su bambù. Alla mostra Ione Saldanha: The Invented City, Museu de Arte de São Paulo Assis Chateaubriand, 2021-2022. Courtesy Museu de Arte de São Paulo Assis Chateaubriand.


L’AVANA, CUBA, 1926 VIVE A SAN JUAN, PORTORICO

NUCLEO STORICO • ASTRAZIONI

Zilia Sánchez, con una pratica tutta propria di tele scultoree, sfuma i confini tra le forme artistiche. Formatasi come pittrice all’Avana, tende inizialmente all’astrazione gestuale e all’impegno politico come scenografa del gruppo teatrale di guerriglia Los Yesistas. Approfittando dei suoi primi successi, nel 1959 lascia Cuba per studiare al Museo del Prado di Madrid e poi al Pratt Institute di New York. Durante la sua permanenza in questa città, visita la mostra Primary Structures al Jewish Museum e assiste all’emergere del Minimalismo. Inizia quindi a stendere la tela su tre dimensioni, ridefinendo il rapporto tra pittura appesa al muro e spazio reale in un formato che perfezionerà nei decenni successivi da Portorico. Apertamente omosessuale, con una comprensione acuta e critica dell’arte moderna, Sánchez trasforma gli spigoli duri e spietati dell’arte minimalista in curve e fenditure corporee.

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Zilia Sánchez

Lunar [Moon], 1980 Acrilico su tela tesa, 118 × 121,9 × 29,9 cm. The Mende Collection.

opaca, le tonalità fredde e il profilo sporgente di Lunar sono tutti elementi caratteristici del formato a tela sagomata per il quale Sánchez è nota. Trattando il tessuto come uno schermo e una pelle, l’artista lo tende su armature di legno che prima modella a mano. Lunar si gonfia in curve e fessure che ricordano labbra o seni, un biomorfismo astratto che codifica la sessualità femminile nel volto rotondo della luna. — Lucia Neirotti

STRANIERI OVUNQUE

In Lunar (1980), la rappresentazione è ridotta all’essenziale astratto. Giocando con l’intersezione tra profondità reale e pittorica, Sánchez dipinge dei cerchi concentrici in gradazione di grigi, che imitano il sorgere e il tramontare della luna mentre chi osserva cammina intorno all’opera. I toni freddi della tavolozza minimale dell’artista sono amplificati dall’ombra reale nella spaccatura assiale tra i due emisferi quasi simmetrici. La precisa finitura


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Fanny Sanín

Nata a Bogotá e residente a New York, Fanny Sanín lavora con il linguaggio pittorico dell’astrazione sin dalla fine degli anni Sessanta, facendosi notare per la dedizione alle geometrie spigolose. Magistrale nell’abilità compositiva e nella sperimentazione con il colore, è erede dei pittori geometrici astratti statunitensi incontrati – durante la sua permanenza in Europa alla fine degli anni Sessanta – in occasione della mostra L’art du réel tenutasi al Grand Palais di Parigi nel 1968. Deve inoltre molto a una notevole tradizione di astrazione geometrica nella nativa Colombia, di cui alcuni mettono tuttavia in dubbio la funzione nel rappresentare la violenza. Eduardo Ramírez Villamizar ed Édgar Negret sono solo due fra gli artisti che le sono stati particolarmente vicini. Sanín svolge un ruolo chiave nell’ampio panorama dell’astrazione latinoamericana e internazionale e solo ora si inizia a riconoscerne l’apporto su una più ampia scala.

BIENNALE ARTE 2024

Sanín realizza Oil No. 7 (1969) in un momento cruciale per la sua carriera: è l’epoca in cui i suoi lavori passano dall’astrazione gestuale – con cui esordisce alla fine degli anni Cinquanta, dopo la laurea all’Universidad de los Andes di Bogotá – alla cesellata sofisticatezza delle costruzioni geometriche successive al 1969. Nel quadro, le campiture nette di colori caldi e scuri indicano l’appiattimento dello spazio pittorico. Questo segna le fasi iniziali del processo di geometrizzazione, cambiamento che darà poi origine alle rigorose composizioni simmetriche per le quali è oggi maggiormente nota. Il dipinto accenna anche

BOGOTÁ, COLOMBIA, 1938 VIVE A NEW YORK, USA

al suo caratteristico uso stratificato del colore, nonché alle linee e alle aree verticali che strutturano la maggior parte delle opere mature. Oil No. 7 racconta la ricerca di un linguaggio personale, rivelando l’innata inclinazione e capacità nell’uso del colore dell’artista in un momento in cui non è ancora compiuto il suo definitivo approccio compositivo, che determinerà la sua lunga carriera. L’opera di Fanny Sanín è esposta per la prima volta alla Biennale Arte. —Emiliano Valdes

Oil No. 7, 1969 Olio su tela, 165 × 175 cm. Collezione Steven e Olga Immel, New York. Courtesy the Fanny Sanín Legacy Project. © Fanny Sanín, 2024.


Dinamika Keruangan IX [The Dynamic of Space IX], 1974 Olio su tela, 80 × 60 cm. Courtesy National Gallery of Indonesia.

Dinamika Keruangan IX (1974) è un esempio del suo caratteristico stile di pittura astratta, definito proprio Dinamika Keruangan. In questo dipinto, Sidik dispone forme semplici con colori contrastanti, creando una sorta di biomorfismo e cercando di negoziare lo spazio sulla tela. In questo periodo l’artista entra in una fase di maturità come pittore astratto, iniziata negli anni Sessanta. L’esperienza vissuta a Bali nel periodo 1957-1961 ha influenzato il suo approccio alla pittura astratta: se dapprima desidera dipingere solo “oggetti industriali”, avverte poi il bisogno di creare altre forme come pura

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espressione. Ne consegue una nuova proposta estetica nell’era dell’urbanizzazione e dell’industrializzazione, ed è allora che inizia a sviluppare la serie di dipinti astratti e a includere altre immagini, come astrazioni di forme animali e naturali, nonché composizioni decorative con colori contrastanti e ritmici che ricordano i batik disegnati a mano. L’opera di Fadjar Sidik è esposta per la prima volta alla Biennale Arte. —Asep Topan

NUCLEO STORICO • ASTRAZIONI

Fadjar Sidik nell’arco di quattro decenni ha sviluppato il corpus di opere Dinamika Keruangan (Dinamiche spaziali) raffiguranti semplici composizioni che evocano il vibrante pulsare e movimento della natura in continuo mutamento. Uno dei più importanti e celebrati pittori astratti indonesiani, con le sue immagini dà voce ai propri impulsi emotivi e pensieri interiori. Sidik ha studiato pittura alla Akademi Seni Rupa Indonesia (ASRI) nel 1954 e nel 1952 al Sanggar Pelukis Rakyat (Studio di pittori del popolo), sotto la guida di Hendra Gunawan e Sudarso; è stato inoltre docente presso la sua alma mater ASRI, dal 1966 al 1995. Nel corso della sua vita, fra il 1957 e il 1993 ha tenuto diverse mostre personali; ha partecipato alla mostra itinerante del KIAS (Indonesian Arts in America) negli Stati Uniti (1990-1991) e di recente l’Asia Art Center di Taipei ha ospitato la sua prima mostra personale all’estero dal titolo Fadjar Sidik: Space Dynamics (2020).

SURABAYA, INDONESIA, 1930 – 2004, YOGYAKARTA, INDONESIA

STRANIERI OVUNQUE

Fadjar Sidik


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Eduardo Terrazas

Prima di iniziare la carriera di artista visivo, Eduardo Terrazas ha studiato architettura presso l’Universidad Nacional Autónoma de México e ha lavorato a lungo nel campo del design. Fra i suoi primi contributi figura la partecipazione al gruppo responsabile dell’immagine grafica dei Giochi Olimpici del 1968, tenutisi in Messico. Qualche anno prima, tra il 1964 e il 1965, Terrazas era stato docente di Disegno Architettonico alla Columbia University, mentre tra il 1969 e il 1970 insegna all’UC Berkeley. Nel 1972 entra a far parte del team dell’Instituto de Acción Urbana e Integración Social del Messico e partecipa a progetti di architettura e pianificazione urbana nazionali e all’estero. L’attività di pittore inizia nei primi anni Settanta, con lo studio e l’ammirazione delle diverse tradizioni artigianali sviluppate dal popolo Wixarika (noto anche come Huichol) nel territorio che oggi chiamiamo Messico. Le varie articolazioni tra l’uso espressivo ed espansivo del colore e la sperimentazione geometrica, nonché quella con i materiali, caratterizzano le sue prime opere. Terrazas dipinge su una superficie di lana per poi applicare uno strato di cera comunemente chiamata cera di Campeche, che prende il nome da una regione del Messico orientale.

GUADALAJARA, MESSICO, 1936 VIVE A CITTÀ DEL MESSICO

Risalente agli inizi della sua carriera, 1.1.91 (1970-1972) costituisce un esempio della sperimentazione sui materiali e dei suoi primi lavori volti a ricodificare le tradizioni artigianali. Lavorando con il quadrato e la contrapposizione con l’aspetto curvilineo del cerchio, Terrazas propone forti contrasti cromatici che attraggono lo sguardo e fanno appello alla fisicità del corpo umano. L’artista fa riferimento non solo ai dibattiti modernisti ed europei sul ruolo dell’astrazione nella storia dell’arte, ma anche alle tradizioni indigene e a quelle associate alla classe operaia in America Latina e altrove. L’opera di Eduardo Terrazas è esposta per la prima volta alla Biennale Arte. — Raphael Fonseca

BIENNALE ARTE 2024

1.1.91, 1970-1972 Fili di lana su tavola di legno ricoperti di cera Campeche, 121 × 121 cm. Photo Eduard Fraipont. Courtesy Galeria Luisa Strina. © Eduard Fraipont.


Nil Yalter riceve la sua prima formazione artistica all’età di cinque anni, quando la nonna le insegna a inventare e disegnare favole in una sorta di fumetti. Da adolescente, grazie ai libri regalati dal padre, conosce il Modernismo europeo e si appassiona alle avanguardie russe. Nota per le sue astrazioni geometriche, per mantenersi disegna scenografie e costumi per il teatro. Spinta da uno spirito indomito, la diciottenne Yalter viaggia attraverso l’Asia prima di stabilirsi a Parigi. All’inizio degli anni Settanta, la sua attenzione artistica si sposta dalla pittura all’installazione, al cinema e alla fotografia. Torna allo storytelling documentando la vita dei migranti, segnata dall’espropriazione e dalle difficoltà, ma anche dalla resilienza e dalla capacità di adattamento. Immersa per l’intera sua giovinezza in un contromondo artistico fatto di attivisti e femministe, soprattutto dopo il 2000 Yalter è esposta e celebrata in importanti istituzioni di tutto il mondo.

Pink Tension (1969) è una tela che l’artista tiene presso di sé a Parigi. A prima vista, l’opera riflette l’iniziale passione per l’astrazione geometrica, influenzata dal Costruttivismo russo e dagli ideali di partecipazione sociale rappresentati da figure quali Kazimir Malevič, El Lissitzky e il pittore di Istanbul Serge Poliakoff. Tuttavia, la tela è stata creata nei sette anni successivi al suo trasferimento a Parigi, anni che nel ricordo dell’artista rappresentano un periodo di straordinari cambiamenti. Immersa nella scena artistica della città, e pronta ad accoglierne le tendenze avanguardistiche, la sua tavolozza si trasforma in risposta ai vibranti colori della

Pink Tension, 1969 Acrilico su tela, 120 × 180 cm. Courtesy l’Artista.

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IL CAIRO, EGITTO, 1938 VIVE A PARIGI, FRANCIA

Pop Art; anche se nel frattempo le sue composizioni rimandano al quotidiano, fonte primaria del Nouveau Réalisme. È un periodo contraddistinto dalle rivolte del maggio 1968, dal rafforzamento dei movimenti di liberazione delle donne e dal colpo di Stato turco, detto “del memorandum”, che spinge Yalter a riorientare la propria pratica sull’esperienza dell’oppressione politica e dell’emarginazione sociale. È stata insignita del Leone d’Oro alla carriera. L’opera di Nil Yalter è esposta per la prima volta alla Biennale Arte. —Sofia Gotti

STRANIERI OVUNQUE

Nil Yalter


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Fahrelnissa Zeid

BÜYÜKADA, TURCHIA, 1901 – 1991, AMMAN, GIORDANIA

Fahrelnissa Zeid – nata in una famiglia dell’élite ottomana – è stata una delle prime artiste della sua generazione a studiare all’İnas Sanayi-i Nefise Mektebi, l’accademia femminile di Belle Arti di Istanbul, nel periodo di declino dell’Impero e di nascita della nuova Repubblica turca. Figura di spicco nell’ambiente creativo dell’arte moderna a Istanbul e membro attivo del D Grubu di arte moderna, espone i suoi caratteristici dipinti astratti a Istanbul e viaggia per tutta Europa, esponendo a Londra, Parigi e Berlino, dove negli anni Trenta vive con il secondo marito, il principe Zeid Al-Hussein, ambasciatore iracheno in Germania. Dopo le turbolenze della Seconda guerra mondiale, la coppia si trasferisce a Baghdad per poi stabilirsi ad Amman, dove nel 1976 l’artista fonda l’Istituto Reale Nazionale Giordano di Belle Arti Fahrelnissa Zeid. I dipinti dell’artista riacquistano nuova attenzione dopo la sua morte, avvenuta nel 1991.

Sebbene Zeid abbia dipinto diverse opere figurative, abbandona questo stile a favore dell’astrazione. Traccia forme di varie dimensioni sulle tele, che poi dipinge meticolosamente a olio. In Untitled (1955), combina forme geometriche e astratte – quadrati, triangoli, cerchi, mezzelune e vortici – creando una composizione caleidoscopica. Dalle ricche tonalità e con una maestosa tavolozza di colori, l’opera assomiglia a un esempio alternativo della prima Land

BIENNALE ARTE 2024

Art concettuale – diffusa negli anni Sessanta e Settanta – che incorpora interventi, fotografia e mappatura. Il dipinto di Zeid ricorda un paesaggio aereo in cui i contorni di edifici, campi, colline, montagne e alberi sono definiti dagli spazi negativi in bianco e nero allo scopo di evidenziare la complessità dell’intera composizione. L’opera di Fahrelnissa Zeid è esposta per la prima volta alla Biennale Arte. —Sara Raza

Untitled, 1955 Olio su tela, 187 × 174 cm. Photo Justin Piperger. Courtesy Collezione Taimur Hassan.




ON ALTERNATIVE MODERNITIES, IN ALTERNATIVE MODERNITIES, A CURA DI DILIP PARAMESHWAR GAONKAR, DURHAM, DUKE UNIVERSITY PRESS, 2001.

La modernità è passata dall’Occidente al resto del mondo non solo in termini di forme culturali, pratiche sociali e assetti istituzionali, ma anche come forma di discorso che interroga il presente.

DILIP PARAMESHWAR GAONKAR



Adriano Pedrosa e Sofia Gotti

591 NUCLEO STORICO • ITALIANI OVUNQUE STRANIERI OVUNQUE

Questa sezione del Nucleo Storico riunisce opere di artisti italiani che hanno viaggiato e vissuto all’estero, sviluppando la propria carriera in Africa, Asia e America Latina, nonché negli Stati Uniti e in Europa. In un’edizione della Biennale Arte incentrata sul tema dello straniero, dell’immigrato, dell’espatriato e dell’esiliato, ha senso prendere in considerazione gli immigrati italiani di prima e seconda generazione che sono a loro volta diventati stranieri nel Sud del mondo e oltre nel corso del XX secolo. Molti di loro si sono del tutto inseriti nelle culture locali o ne hanno profondamente subito l’influenza, spesso contribuendo in modo significativo allo sviluppo di narrazioni moderniste locali. Se diaspora e migrazione sono intese come formazioni culturali inestricabili dalla modernità, l’emigrazione di massa degli italiani nel mondo rivela alcune delle inaspettate trame transnazionali della modernità stessa. Gli artisti qui presentati hanno lasciato l’Italia per diverse ragioni. A cavallo del XX secolo, gli orientalisti, che vivevano di committenze estere, avevano il privilegio di viaggiare in Nord Africa, Medio Oriente e Asia. Se da un lato abitualmente producevano visioni esotiche ed erotiche dei luoghi visitati, dall’altro il loro lavoro e le loro ricerche hanno avuto un ruolo importante nello sviluppo di tendenze artistiche in Italia, adottate anche da artisti che non avevano mai intrapreso viaggi di sorta. Altri facevano parte dei convogli inviati durante le brevi ma brutali imprese coloniali italiane in Africa, iniziate alla fine del XIX secolo e proseguite a intermittenza fino al 1941. La loro influenza è ancora visibile nell’architettura di alcune città africane e spesso nelle accademie d’arte che hanno contribuito a fondare o gestire. Altri ancora furono costretti a emigrare a causa delle disastrose condizioni economiche dell’Italia durante e dopo la Seconda guerra mondiale. Alcuni cercarono fortuna all’estero, mentre altri risposero alle richieste di manodopera specializzata e semi specializzata provenienti dalle Americhe. L’America del Sud è stata una delle principali destinazioni degli emigranti italiani nel XX secolo, in particolare il Brasile e l’Argentina, che oggi hanno rispettivamente una popolazione di circa 32 milioni e 25 milioni di persone con qualche grado di ascendenza italiana. Ciò si riflette in questa sezione, dove la metà degli artisti proviene da questi due Paesi. La priorità è data al lavoro degli artisti naturalizzati nel Sud del mondo, pur dando spazio anche a coloro che sono stati costretti a sfuggire al terrore del fascismo e alle leggi antisemite, trovando rifugio negli Stati Uniti o nel resto d’Europa. In particolare, le opere della sezione sono esposte con il sistema cavalete de cristal ideato da Lina Bo Bardi. La stessa Bo Bardi era un’italiana trasferitasi in Brasile, dove ha lavorato come architetta, designer e allestitrice. A lei è stato assegnato il Leone d’Oro speciale alla memoria della Biennale Architettura 2021. Il suo cavalete de cristal, o cavalletto di vetro, è un dispositivo leggendario nella storia degli allestimenti. Concepito appositamente per la collezione del Museu de Arte de São Paulo Assis Chateaubriand (MASP) e presentato nel 1968 in occasione dell’inaugurazione della nuova sede del museo a San Paolo, anch’essa progettata da Bo Bardi, il cavalete consiste in una spessa lastra di vetro inserita in un cubo di cemento a formare un pannello trasparente autoportante su cui viene appeso un quadro. L’etichetta del dipinto è apposta sul retro, in modo che il visitatore possa affrontare l’opera senza alcuna previa contestualizzazione storica. L’intento di Bo Bardi era quello di presentare le opere come prodotto del lavoro e, di conseguenza, desacralizzarle. Il cavalletto sfida la tradizionale visione frontale permettendo di osservare anche il retro delle opere, rivelando così la loro materialità e la loro provenienza internazionale attraverso i timbri e gli adesivi lasciati sulle cornici dalle mostre precedenti. Ispirandosi al brutalismo, Bo Bardi era attratta dalla crudezza del cemento, del vetro e del legno. Questi elementi contrastano e completano la ricca materialità e la qualità palinsestuale delle Corderie dell’Arsenale, caratterizzate da pareti e colonne in mattoni a vista, che riportano la stratificazione delle storie espositive di molte passate edizioni della Biennale Arte.


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Libero Badií

L’artista argentino di origine italiana Libero Badií è arrivato a Buenos Aires con la famiglia quando aveva undici anni. È proprio nel laboratorio di lavorazione del marmo della famiglia che Badií inizia a sperimentare con la pietra, portando avanti una tradizione iniziata con il nonno scultore. Le diverse scuole d’arte da lui frequentate gli hanno fornito una formazione rigorosa. Le sculture accademiche degli anni Quaranta rivelano un rapporto armonioso tra i volumi concavi e convessi scolpiti nella pietra e lo spazio circostante. Negli anni Cinquanta, percorre per la prima volta l’America del Sud, visitando il nord dell’Argentina, l’Ecuador, il Perù

e la Bolivia. Le culture indigene incontrate in quel viaggio hanno un grande impatto su di lui ed è allora che il colore esplode nel suo lavoro e che inizia a esplorare nuovi materiali come il legno, il metallo e il gesso. Il poliedrico Badií non è stato solo scultore, disegnatore, pittore, ceramista e stampatore, ma anche autore di oltre cinquanta libri d’artista. L’Arte Siniestro (arte del perturbante) è emersa a metà degli anni Sessanta come reazione alle avanguardie dell’epoca. Pur essendo stata sviluppata da Badií e dal pittore argentino Luis Centurión, è stato Badií a porre il perturbante al centro della propria produzione

AREZZO, ITALIA, 1916 – 2001, BUENOS AIRES, ARGENTINA

artistica dalla fine degli anni Sessanta fino agli anni Settanta. Per Badií, l’idea del perturbante nell’arte è legata a forme sconosciute – o, forse, prossime a essere conosciute – provenienti dalle culture indigene delle Americhe, a lui familiari e nel contempo sconosciute, in contrapposizione alla tradizione estetica classica europea. Come per altre sue opere di questo periodo, il processo di produzione del policromo Autorretrato Siniestro (1978) prevedeva l’assemblaggio di tavole e aste di legno e la collocazione di ritagli di legno sulla superficie dell’opera. La figura richiama alla mente le culture indigene che tanto avevano colpito l’artista durante il suo viaggio nell’Altipiano sudamericano. —Sonia Becce

Autorretrato Siniestro, 1978 Vernice su legno, 200 × 45 × 45 cm. Photo Pablo Messil. Collezione Arthaus Foundation, Argentina.


593 NUCLEO STORICO • ITALIANI OVUNQUE

Gianni Bertini è stato un artista anticonformista e un viaggiatore instancabile. Formatosi come matematico, negli anni Quaranta sviluppa un interesse per il Post Cubismo e l’Espressionismo. A Milano aderisce al Movimento Arte Concreta e si avvicina ai pittori dell’Arte Nucleare. Trasferitosi a Parigi nel 1952, si dedica alla pittura Informale, esplora il Nouveau Réalisme di Pierre Restany e negli anni Sessanta partecipa al movimento Mec Art (una sorta di Pop Art europea). I suoi lunghi viaggi in Europa, a New York, a Tangeri e in città del Senegal e dell’America Latina lo rendono molto consapevole delle dinamiche politiche e culturali internazionali del suo tempo. Ha esposto alla Biennale nel 1950, 1958 e 1968 con una sala personale ed è stato commissario di esposizione nel 1970. Con le sue azioni, le opere d’arte, le poesie e i numerosi scritti critici, ha costantemente sfidato l’establishment culturale.

PISA, ITALIA, 1922 – 2010, CAEN, FRANCIA

La Toile de Penelope (1959), un collage tessile realizzato in collaborazione con la moglie Licia Monesi, rappresenta un allontanamento, forse influenzato da Alberto Burri, dallo stile abituale di Bertini. L’opera fa parte di Espaces imaginaires, una serie di dipinti informali che va dal 1953 al 1960. Astratte e gestuali, queste opere presentano titoli significativi che fanno riferimento a personaggi mitologici quali Edipo, Didone, Artemide, Marte e altri. I miti antichi gli forniscono uno strumento per ricostruire un moderno e condiviso umanesimo dopo

La Toile de Penelope, 1959 Collage tessile, 146 × 165 cm. Courtesy Thierry Bertini e Frittelli Arte Contemporanea.

la guerra e per interpretare i propri sentimenti, le opinioni e la vita personale. Imitando l’immediatezza delle pennellate, vari ritagli di tessuto sono cuciti insieme con punti larghi e volutamente irregolari, in modo che l’opera, vista da lontano, abbia una qualità espressionista, contraddetta dal minuzioso assemblaggio di toppe e fili. La combinazione di tessuti e fili allude alla tela di Penelope, conferendo un ulteriore livello di significato all’opera. —Antonella Camarda

STRANIERI OVUNQUE

Gianni Bertini


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Lina Bo Bardi

Lina Bo Bardi studia architettura nella nativa Roma e nel 1946, dopo aver sposato il critico italiano Pietro Maria Bardi a trentadue anni, si trasferisce in Brasile dove trascorre il resto della sua vita, diventando cittadina brasiliana nel 1951. Bo Bardi non solo svolge la professione di architetta, ma lavora anche come redattrice di riviste, grafica, designer di mobili, scenografa, curatrice e scrittrice. In Brasile, vive soprattutto a San Paolo, ma trascorre anche un periodo a Salvador dove si immerge nella cultura locale, con uno spiccato interesse per la ricca cultura popolare del paese, dalle tradizioni popolari e vernacolari alle culture indigene e afrobrasiliane. In effetti, i suoi contributi più straordinari combinano in molteplici modi Modernismo europeo e cultura popolare brasiliana. Per molti anni Bo

BIENNALE ARTE 2024

Bardi si occupa di architettura, allestimenti museali e mostre presso il Museu de Arte de São Paulo Assis Chateaubriand (MASP), diretto per quarantacinque anni dal marito. Due dei suoi edifici più iconici si trovano a San Paolo e sono punti di riferimento del Modernismo latinoamericano: la sede del MASP in Avenida Paulista e il SESC Pompéia, un “centro ricreativo”. Nel 2021 vince il Leone d’Oro speciale alla memoria della Biennale Architettura. Il suo “cavalletto in vetro” è un dispositivo leggendario nella storia degli allestimenti. Concepito appositamente per la pinacoteca del MASP e presentato per la prima volta all’inaugurazione del museo nel 1968, è costituito da una spessa lastra di vetro inserita in un cubo di cemento, a formare un pannello trasparente

ROMA, ITALIA, 1914 – 1992, SAN PAOLO, BRASILE

autoportante sul quale viene appeso un quadro. La didascalia relativa è apposta sul retro, in modo che il visitatore possa all’inizio entrare in contatto con l’opera senza alcuna contestualizzazione storica. Bo Bardi vuole presentare le opere come frutto di un lavoro, togliendole da un’aura di sacralità. Per la creazione dell’edificio e dei cavalletti impiega materiali grezzi e industriali, in contrappunto alla raffinata collezione classica europea del museo, che oggi comprende anche l’arte contemporanea. In uno spazio di 2.000 metri quadrati, i cavalletti sono distribuiti in file come in una parata o come in una foresta di opere d’arte. Staccate dalle pareti, le opere diventano più accessibili permettendo così al visitatore di stabilire con esse un rapporto più stretto e diretto. Il sistema di Bo Bardi è stato

influenzato dagli allestimenti di Franco Albini alla Pinacoteca di Brera a Milano negli anni Quaranta e ha ispirato la Galerie du Temps del LouvreLens, progettata da SANAA e inaugurata nel 2012. L’opera di Lina Bo Bardi è esposta per la prima volta alla Biennale Arte. —Adriano Pedrosa

Vista della pinacoteca del MASP in Avenida Paulista con i cavalletti in vetro progettati da Lina Bo Bardi, anni Settanta. Photo Paolo Gasparini. Courtesy Museu de Arte de São Paulo Assis Chateaubriand.


Per approfondire la sua conoscenza della xilografia negli anni Sessanta e Settanta, Bonomi frequenta il Pratt Institute sotto la guida di Seong Moy. Viaggia inoltre in Giappone, nella Cina maoista e studia le tecniche praticate in Amazzonia. Pedra Robat (1974) fa parte di una serie realizzata nel periodo successivo a questi viaggi trasformativi. Partendo dai metodi convenzionali della xilografia, utilizza due matrici di legno insolitamente grandi e pesanti. Queste sono state incise utilizzando tecniche ispirate alle sculture in giada viste a Pechino, che erano il risultato di abilità affinate da generazioni di scalpellini. La stampa si ottiene stratificando l’impronta di ogni matrice. Il risultato non è tipicamente spigoloso. Al contrario, sembra vibrare di energia cinetica, una caratteristica distintiva dello stile xilografico dell’artista. Elementi cruciali dell’opera sono i blocchi di legno esposti alla base della stampa. La sua ricerca infinita sulla superficie incisa ha portato Bonomi a elaborare la visione di una “xilografia espansa”, trasformando le matrici in installazioni scultoree monumentali per commissioni pubbliche. —Sofia Gotti

Pedra Robat, 1974 Stampa xilografica, 132 × 95 cm. Courtesy l’Artista.

STRANIERI OVUNQUE

La matrice incisa della xilografia è la chiave di volta della pratica incisoria e scultorea di Maria Bonomi. L’artista lascia l’Italia nel 1944 e si stabilisce con la famiglia a San Paolo nel 1946. Inizia la sua formazione nell’ambito della pittura e del disegno in Brasile, ma grazie al prestigio intellettuale della famiglia d’origine, collabora con rinomati pittori dell’avanguardia europea, tra cui Emilio Vedova ed Enrico Prampolini. Il suo impegno nei confronti dell’incisione matura nel 1952 grazie al modernista Livio Abramo, con il quale fonda anche lo sperimentale Estúdio Gravura (studio di incisione), attivo dal 1960. Lo stile artistico di Bonomi passa dal figurativo alla geometria astratta, allineandosi alle tendenze dell’avanguardia brasiliana degli anni Cinquanta. Con il passare del tempo, sviluppa un approccio più corporeo e scultoreo all’incisione attraverso la sperimentazione tecnica, utilizzando matrici multiple (fino a un centinaio per una singola incisione) in varie scale e materiali. Oltre a essere un’artista e un’educatrice, Bonomi è anche una sindacalista e un’attivista.

MEINA, ITALIA, 1935 VIVE A SAN PAOLO, BRASILE

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Maria Bonomi


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Victor Brecheret

Victor Brecheret è il più celebre scultore della prima metà del XX secolo in Brasile. Nato in Italia, Brecheret emigrò a San Paolo con la famiglia quando era ancora bambino. A diciannove anni si trasferisce a Roma, dove lavora come assistente dello scultore Arturo Dazzi. Tornato in Brasile nel 1919, l’anno successivo incontra artisti e intellettuali entusiasti delle forme non accademiche dei suoi lavori, influenzati da scultori come Ivan Meštrović e Auguste Rodin. La semplificazione formale per cui la sua opera è maggiormente conosciuta avviene però durante gli anni

BIENNALE ARTE 2024

trascorsi a Parigi (1921–1936), sotto l’influenza di Constantin Brancusi e del movimento Art Déco. Alla fine degli anni Quaranta, i temi religiosi e le figure femminili lasciano il posto a motivi nazionali. Nel 1921, grazie a una borsa di studio, Brecheret si trasferisce a Parigi e ben presto la sua pratica subisce importanti cambiamenti. Le drammatiche torsioni delle figure eroiche appartenenti alla sua produzione precedente vengono sostituite da forme sintetiche e da superfici ben levigate che riflettono la luce, come si vede in Vierge à l’enfant

FARNESE, ITALIA, 1894 – 1955, SAN PAOLO, BRASILE

(1923–1924). Benché il tema religioso e il marmo rimandino al repertorio della scultura classica, la costruzione delle figure con cilindri e forme arrotondate, il ritmo stabilito dalle loro connessioni e i sottili rilievi e incisioni che definiscono la forma dei corpi sono tutti elementi che attestano l’impegno di Brecheret nei confronti dell’arte moderna. —Regina Barros

Vierge à l’enfant, 1923-1924 Marmo, 142 × 34 × 27 cm. Photo Fabrice Gousset. Courtesy Almeida & Dale Galeria de Arte.


Maternidad (1971) appartiene all’ampia serie di dipinti realizzati nel periodo della nascita del figlio, in cui Cerrato indaga la misteriosa figura dell’Essere Beta (1967–1973). È questa una creatura astratta che, dotata di molteplici qualità soprannaturali, utilizza l’erotismo come linguaggio per muoversi nella realtà. Attraverso l’uso suggestivo di cerchi e ovali, con cui Cerrato allude simbolicamente alla fertilità, Maternidad annuncia l’imminente atterraggio dell’Essere Beta e raffigura il suo spostamento da una geografia colorata alla turbolenta realtà argentina. Intorno all’arrivo di questa entità energetica, Cerrato crea un universo di astrazione geometrica, forme morbide e organismi inesistenti, influenzato dalla poesia surrealista, dalla conoscenza ancestrale, dalla fantascienza e dalla sua profonda curiosità nei confronti della vita proveniente dallo spazio. Contemporaneamente, utilizza i linguaggi dell’avanguardia per sintetizzare una critica spirituale della violenza politica in ascesa in America Latina. L’opera di Elda Cerrato è esposta per la prima volta alla Biennale Arte. —Nicolas Cuello

Maternidad, 1971 Acrilico su tela, 115,8 × 81,8 cm. Photo Diego Spivacow. Collezione Ama Amoedo. Courtesy Collezione Ama Amoedo.

STRANIERI OVUNQUE

Nata ad Asti, Elda Cerrato fu pittrice ed educatrice, emigrata in Argentina nel 1940. Il suo lavoro si è occupato del mistero dell’essere, dell’immensità dello spazio cosmico e dell’organizzazione umana. Per realizzare ciò, utilizza un linguaggio astratto in cui strutture geometriche, forme biologiche e sperimentazioni fenomenologiche coesistono con il colore; un insieme di interessi che approfondisce dopo il 1954, quando incontra il compositore Luis Zubillaga. Nel 1960, durante il suo primo viaggio in Venezuela, entra in contatto con artisti d’avanguardia legati al marxismo e inizia il suo percorso come educatrice. Di ritorno in Argentina nel 1964, la sua tendenza al misticismo si radicalizza dopo avere avvistato un disco volante e aver appreso delle pratiche magiche nelle città rurali. Si unisce alla militanza peronista negli anni Settanta e in seguito è costretta nuovamente all’esilio in Venezuela e in altri paesi europei. Una volta terminata la dittatura militare nel 1983, torna a Buenos Aires e la sua arte inizia a riflettere sulla memoria, sulla stabilità democratica e la violenza politica.

ASTI, ITALIA, 1930 – 2023, BUENOS AIRES, ARGENTINA

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Elda Cerrato


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Galileo Chini

Galileo Chini è contemporaneamente pittore, restauratore, ceramista e scenografo teatrale, e spazia tra Simbolismo, Divisionismo e stile Liberty. A Firenze nel 1896 è tra i fondatori della manifattura Arte della Ceramica. Nel 1909 decora la cupola del vestibolo ottagonale della Biennale, suscitando lo stupore del re del Siam, Chulalongkorn (Rama V), che gli commissiona la decorazione del Palazzo del Trono a Bangkok. Il soggiorno di Chini nel Siam (l’attuale Thailandia) tra il 1911 e il 1913 è documentato da resoconti fotografici, schizzi, studi e dipinti che rappresentano la vita nel Siam e le sue frequentazioni di templi, cerimonie e feste. Alla Biennale del 1914 decora la sala espositiva centrale ed espone le opere realizzate nel Siam, affermandosi come uno dei più importanti pittori

dell’Orientalismo italiano. La sua collezione di oggetti etnografici provenienti dal Siam, che compaiono spesso nei suoi dipinti, viene donata al Museo di Antropologia ed Etnologia di Firenze. Galileo Chini dipinge La notte al Watt Pha-Cheo nel 1912, durante il soggiorno a Bangkok. Conduce l’osservatore fuori dal tempio, permettendogli di scorgere una fila di monaci di spalle. In questa visione notturna, l’“impressione” di Chini prevale sulla narrazione figurativa, che è appena abbozzata. L’artista riesce a catturare l’opalescenza, le stelle, i colori iridescenti dei materiali e il bagliore delle luci sui tessuti. È il pittore stesso a dare un titolo all’opera, scrivendolo sul retro del quadro, insieme alla data. Così ricorda il Watt Pha-Cheo nel 1948:

FIRENZE, ITALIA 1873–1956

I monaci di questo tempio custodiscono il tempo Con salmi creano un percorso sempre lo stesso, ritmico, tanto che impiegano sempre lo stesso tempo, così ogni mezz’ora si trovano al punto indicato, dove c’è un GONG, che battono – ed è così segnato il tempo. —Carmen Belmonte

La notte al Watt Pha Cheo, 1912 Olio su compensato, 79,5 × 65,5 × 1,5 cm. Photo Marzio De Santis, Padova. Courtesy Galleria Gomiero.


ROMA, ITALIA, 1925 – 1973, SAN PAOLO, BRASILE

NUCLEO STORICO • ITALIANI OVUNQUE

Waldemar Cordeiro, emigrato in Brasile nel 1946, divenne ben presto l’esponente più in vista del movimento dell’Arte Concreta a San Paolo (1952– 1959). Nel 1952 curò il Manifesto Ruptura in cui si affermava che l’arte doveva essere autonoma (un oggetto a sé stante, senza riferimenti al mondo esterno) e concepita in base a principi matematici, dato che (in teoria) la matematica è un linguaggio universale e, quindi, dovrebbe essere accessibile a tutti. Con l’emergere della Pop Art, Cordeiro produsse una serie di Popcretos (Arte Pop + Concreta): si tratta di tele a parete su cui assemblava elementi di uso quotidiano, come ruote di bicicletta e bottiglie, un riferimento ai readymade di Marcel Duchamp (1887–1968). Dal 1968 in poi fu tra i primi a esplorare la Computer Art, oltre a creare più di 150 progetti paesaggistici per spazi pubblici e privati.

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Waldemar Cordeiro

Untitled, 1963 Olio su tela, 75 × 74,5 cm. Courtesy Waldemar Cordeiro’s Estate e Luciana Brito Galeria, San Paolo. Photo © Edouard Fraipont.

In questa composizione, l’artista non è più interessato a dimostrare la propria abilità nell’applicare la matematica per costruire illusioni ottiche, ma si gode semplicemente il piacere di dipingere. Sempre utilizzando simboli matematici, l’artista crea un motivo a mano libera, in cui segna la propria presenza e al tempo stesso raffigura un’immagine decorativa, entrambi approcci che un tempo avrebbe ritenuto inconcepibili. L’opera di Waldemar Cordeiro è esposta per la prima volta alla Biennale Arte. —Regina Barros STRANIERI OVUNQUE

Pur essendo principalmente noto per il radicalismo con cui propugnava un’astrazione geometrica priva di soggettività (ottenuta con vernici industriali al fine di eliminare qualsiasi traccia di pennellata), uno dei momenti più interessanti del suo percorso artistico è stato il periodo di transizione verso la fase successiva della sua arte, quando inizierà ad aggiungere ai suoi dipinti oggetti tridimensionali. Untitled (1963) appartiene a questa breve transizione. Qui, il segno più (+) e il segno di moltiplicazione (×), così come i cerchi, sono dipinti a mano su uno sfondo verde uniforme.


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Victor Juan Cúnsolo

Victor Cúnsolo, nato a Vittoria, in Italia, arriva in Argentina nel 1913 e diventa uno dei più importanti pittori di La Boca, un quartiere popolare ai margini di Buenos Aires abitato soprattutto da immigrati della classe operaia, artisti bohémien e prostitute. Cúnsolo aderisce ad associazioni culturali che lo aiutano ad adattarsi alla società argentina, come l’Academia de Pintura de la Unione e Benevolenza, El Ateneo Popular e l’Agrupación de Gente de Arte y Letras. Oltre alle mostre collettive condivise con i colleghi del suo gruppo, nel 1928 e nel 1931 tiene due grandi mostre personali presso la rinomata Asociación Amigos del Arte, dove espone una serie di dipinti che documentano il suo legame emotivo con il quartiere marginale di La Boca, la precarietà della sua

architettura e la vita difficile delle persone che vi abitavano. Esprime il suo sensibile apprezzamento attraverso un linguaggio nostalgico pregno dei nuovi realismi della pittura italiana. All’inizio degli anni Trenta, a causa di gravi complicazioni di salute, Cúnsolo è costretto a trasferirsi a La Rioja, una provincia del nord dell’Argentina, dove porta avanti il proprio stile fatto di forme raffinate, dettagli austeri e spazi geometrici, come nel ritratto di La Boca, in cui si leggono risonanze della pittura metafisica di Giorgio de Chirico e Carlo Carrà. In Paisaje de La Rioja (1937), uno dei suoi ultimi dipinti, Cúnsolo amplia questi paesaggi strutturati, caratterizzati dall’assenza di figure umane, in un ambiente rurale con porte chiuse, finestre

VITTORIA, ITALIA, 1898 – 1936 LANUS, ARGENTINA

oscurate e bar abbandonati, seguito da una sequenza colorata di edifici storici che contrastano con l’ombra delle montagne. In primo piano, i graffiti che promuovono un imminente circo creolo accentuano la capacità di Cúnsolo di lavorare con l’ambivalenza, tra la bellezza di uno scenario umile e la desolazione di un’atmosfera irreale in cui la cultura sembra fuori dal tempo. L’opera di Victor Cúnsolo è esposta per la prima volta alla Biennale Arte. —Nicolas Cuello

Paisaje de La Rioja, 1937 Olio su tavola, 69 × 58 cm. Collezione Neuman, Buenos Aires


soggiorno parigino – riflette le iniziali risonanze della sperimentazione non figurativa in cui si era avventurato in quel periodo. Inclusa in due mostre consecutive presso la Asociación Amigos del Arte nel 1933 e 1934, insieme a molti altri dipinti, collage e sculture, quest’opera abbraccia un vocabolario astratto che mescola dense campiture di pigmenti con materiali di scarto come carte colorate, corde, brandelli di tessuto, fili e oggetti metallici. L’opera documenta un momento chiave della pratica artistica di Del Prete che, come Yente, decide di abbandonare qualsiasi tipo di legame con la realtà e con la dimensione sociale per privilegiare un’astrazione imperfetta incentrata sul trattamento delle forme e sull’uso di colori insoliti, soprattutto il rosa.

601 NUCLEO STORICO • ITALIANI OVUNQUE

Juan Del Prete è stato un pittore, disegnatore e scultore autodidatta di origine italiana, emigrato con la famiglia in Argentina nel 1909. Dopo la sua prima mostra personale nel 1926, gli viene assegnata una borsa per studiare a Parigi dove entra in contatto con Hans Arp, Massimo Campigli, Raquel Forner, Joaquín Torres García, Jean Hélion e Georges Vantongerloo e si unisce al gruppo Abstraction-Création, Art Non-Figuratif. Tornato a Buenos Aires nel 1933, espone i dipinti astratti e i collage prodotti durante il suo soggiorno, proponendo la prima mostra di arte non figurativa mai allestita in Argentina. In seguito, con l’artista Eugenia Crenovich (nota come Yente), torna in Italia per esporre a Genova e a Milano. Il suo lavoro è caratterizzato da un’insaziabile sperimentazione con precari oggetti quotidiani, forme geometriche irregolari e colori insoliti, in un’ampia gamma di stili modernisti e con l’accento sulle potenzialità espressive di materiali popolari. Abstracción con material (1934) – una delle prime opere realizzate dopo il

VASTO, ITALIA, 1897 – 1987, BUENOS AIRES, ARGENTINA

—Nicolas Cuello

Abstracción con material, 1934 Olio, cemento, lastre di rame, bronzo e zinco su cartone, 69 × 49 cm. Courtesy Roldan Moderno Gallery. © Archivo Yente Del Prete.

STRANIERI OVUNQUE

Juan Del Prete


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Danilo Di Prete

Danilo Di Prete è stato un artista figurativo e un pubblicitario autodidatta emigrato dall’Italia al Brasile; lì aderisce all’Astrattismo e apre la strada all’Arte Cinetica nel periodo successivo alla Seconda guerra mondiale. Adotta le tecniche di propaganda del Futurismo italiano per promuovere la sua carriera in entrambi i paesi, ma quando viene ignorato dai critici, la sua eredità viene offuscata. Mentre si trova ancora nell’Italia fascista, durante gli anni della guerra, partecipa alla mostra Artisti italiani in armi (1942), un’esposizione di opere di soldati dell’esercito italiano che raccontano le esperienze sul campo di battaglia. A San Paolo dal 1946 si muove presto negli ambienti italo-brasiliani ed è vicino a Francisco “Ciccillo” Matarazzo Sobrinho, fondatore del Museu de Arte Moderna e della Bienal de São Paulo. In effetti, Di Prete si aggiudica due premi per la pittura brasiliana alla Bienal: il primo per le sue nature morte

BIENNALE ARTE 2024

cubiste all’edizione inaugurale del 1951 e il secondo nel 1965 per la sua serie di dipinti astratti, Paisagem Cósmica. Di Prete è attento ai movimenti artistici internazionali, studia il Cubismo e l’astrazione. A metà degli anni Settanta, adotta uno stile figurativo “metapsichico” che associa a dei viaggi cosmici attraverso l’interiorità dell’individuo. Il dipinto Untitled (1954) è rappresentativo della prima astrazione di Di Prete. La composizione provoca un conflitto tra la sezione più scura e ondulata alla base e i toni giallastri nella parte superiore del dipinto, dove si librano tre cerchi. Oltre alle piccole forme

ZAMBRA, ITALIA, 1911 – 1985, SAN PAOLO, BRASILE

geometriche disseminate tra le campiture di colore, spiccano altri tre elementi rettangolari. Il formato orizzontale, associato ai paesaggi, suggerisce una vista aerea lontana e sfocata. Questo dipinto annuncia l’interesse duraturo di Di Prete per le nuove tecnologie, che culminerà nella serie Paisagem Cósmica degli anni Sessanta, in cui l’artista esplora l’impatto dei viaggi nello spazio sull’arte e sulla vita. —Luiza Interlenghi

Untitled, 1954 Olio su tela, 59 × 72 cm. Photo Sergio Guerini. Collezione privata. Courtesy Almeida & Dale Galeria de Arte. © Sergio Guerini.


Me Chani Ballerina della Regina, 1925 Olio su tela, 95 × 73 cm. Collezione Giovanni Ferro Milone, Vicenza.

Il ritratto Me Ciani, Ballerina della Regina (1925) è legato al suo secondo soggiorno in Siam (1923–1924). Me Ciani, celebre danzatrice della corte siamese, è seduta a terra in posa aggraziata e sinuosa in un interno decorato con pitture murali. Milone, che aveva ritratto anche la regina Savang Vadhana, cattura lo sguardo fiero della danzatrice, rivolto direttamente allo spettatore. Il pittore si sofferma sulle preziose stoffe siamesi, mettendone in risalto la lavorazione e il luccichio

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dei metalli, e interrompe la figura in basso a destra con un taglio fotografico. L’opera, firmata e datata 1925, è stata probabilmente dipinta a Torino utilizzando schizzi, fotografie e ricordi raccolti durante il suo soggiorno, secondo una pratica comune agli artisti itineranti. Fortemente affascinato dalla danza e dal teatro siamesi, Milone si è anche ritratto allo specchio tra maschere teatrali siamesi e altri oggetti. —Carmen Belmonte

NUCLEO STORICO • ITALIANI OVUNQUE

Cesare Ferro Milone trascorre la sua vita tra Torino e Bangkok, dedicandosi alla ritrattistica e alla pittura murale. Dopo aver studiato all’Accademia Albertina di Belle Arti di Torino, nel 1904 parte per il Siam (l’attuale Thailandia), che nel 1870 aveva firmato un trattato di amicizia con l’Italia. Durante due diversi soggiorni (1904– 1907 e 1923–1924), realizza dipinti murali per il tempio di Wat Arun, per villa Ambara e villa Norasingh, sperimentando tecniche appropriate per la conservazione delle opere in ambienti umidi. Oltre a dipingere ritratti di dignitari siamesi, danzatori di corte, musicisti e bambini, si cimenta con la fotografia, immortalando la popolazione locale, la vita quotidiana e l’architettura. All’Esposizione di Torino del 1911, dedicata al Siam e alla sua produzione industriale (tessitura della seta, paraventi di madreperla, minerali e pietre preziose), novantasei opere di Milone hanno plasmato l’immagine del paese per il pubblico italiano ed europeo. È stato presidente dell’Accademia Albertina dal 1930 al 1933. Nel 1940 la Biennale riserva un’intera sala alle sue opere.

TORINO, ITALIA, 1880–1934

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Cesare Ferro Milone


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Simone Forti

Simone Forti, premiata con il prestigioso Leone d’Oro alla carriera alla Biennale Danza 2023, è pioniera nell’ambito della danza, della performance e dell’arte sperimentale. Forti cresce a Los Angeles, costretta a lasciare l’Italia per sfuggire alle leggi razziali annunciate da Mussolini nel 1938. All’inizio affina la propria comprensione della danza studiando con Anna Halprin nel nord della California. Nel 1959, si trasferisce a New York, dove frequenta le lezioni di Martha Graham e Merce Cunningham, trovandole però restrittive ed eccessivamente basate sulle competenze coreutiche. Debutta come coreografa nel 1960 con performance come See-Saw e Rollers, che vanno a costituire la rivoluzionaria serie Dance Constructions del 1961, eseguita per la prima volta nel loft di Yoko Ono. Rientra in Italia nel 1968 e trascorre circa un anno a Roma, dove collabora con Fabio Sargentini alla Galleria L’Attico, trampolino di lancio per la sua ricerca e per la sua influenza sulla danza in Italia.

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Huddle (1961), dalla serie Dance Constructions, coinvolge circa sette performer che si abbracciano in uno stretto accalcarsi di corpi. A turno, ogni danzatore si arrampica sugli altri per un attimo, creando una forma “simile a una piccola montagna”, nelle parole dell’artista. L’opera trasforma in scultura i corpi dei performer, giocando sui confini fra soggetto e oggetto. La metafora si riferisce ai legami interpersonali e alla collettività, nonché all’individuale ciclo di superamento delle sfide, fisicamente espresso dal reggere il peso e dal condividerlo. Oltre alle coreografie, Forti pratica ampiamente il disegno. Nel

FIRENZE, ITALIA, 1935 VIVE A LOS ANGELES, USA

1966, realizza la serie di acquerelli Red Hat, intitolata così per un cappello da lei posseduto, che diviene metonimia della stessa artista: “In qualche modo [il cappello rosso] è diventato il segno distintivo di questo personaggio, io, che corro sulle montagne, talvolta inseguita da cupe figure”. In assonanza con le performance, i disegni si muovono sul limite tra soggetto e oggetto, evidenziando una convergenza tra vita e arte. L’opera di Simone Forti è esposta per la prima volta alla Biennale Arte. —Sofia Gotti Adventure of Red Hat, Red Hat Pursued with Yellow, 1966 Acquerelli su carta, 45,5 × 38 cm. Courtesy Collezione Malagoli, Modena; Galleria Raffaella Cortese, Milano e Albisola; The Box, Los Angeles.


Miliciano, Trinidad, Cuba (1961/2014-2015) è una fotografia scattata a Cuba quando Gasparini vi soggiorna, tra il 1961 e il 1965. Come già a Caracas, a Cuba continua a lavorare con pubblicazioni comuniste come Lunes de Revolución e organizzazioni quali El Consejo Nacional de la Cultura Cubana per documentare la campagna di alfabetizzazione sostenuta dallo Stato, oltre a scene di vita quotidiana nei contesti rurali a seguito della rivoluzione cubana. Questa fotografia è il ritratto di un guerrigliero armato con indosso un’uniforme sporca. Il titolo della serie di cui fa parte questa immagine, Serie Cuba, de la utopia al desencanto (1961–1996), sottolinea le dure condizioni di vita sull’isola, che Gasparini cerca di rivelare, non edulcorate dall’ideologia. A partire da questa serie redige uno dei suoi primi libri di fotografia, La ciudad de las columnas (Havana, 1970), con prefazione a cura del famoso romanziere cubano Alejo Carpentier. —Sofia Gotti

Miliciano, Trinidad, Cuba, 1961/2014-2015 Stampa alla gelatina d’argento, 60 × 49 cm. Courtesy l’Artista.

STRANIERI OVUNQUE

Paolo Gasparini inizia la propria formazione fotografica nello studio di Aldo Mazucco a Gorizia. I suoi primi lavori condividono con il cinema neorealista italiano l’interesse nel ritrarre le difficili realtà sociali del dopoguerra. Nel 1954 si trasferisce a Caracas all’apice dello sviluppo e della modernizzazione promossi dalla dittatura di Marcos Pérez Jiménez (1952–1958). Gasparini fotografa il Modernismo del Venezuela attraverso gli edifici pubblici progettati da architetti quali Carlos Raúl Villanueva. Nel frattempo collabora con riviste e pubblicazioni di sinistra. Nel 1976, con María Teresa Boulton fonda La Fototeca (1976–1979), la prima galleria fotografica con libreria del Venezuela. Combinando impegno politico e impeto artistico, Gasparini attraversa tutta l’America Latina, documentando le strutture e le diseguaglianze sociali del continente, spesso lavorando fianco a fianco con figure autorevoli quali ad esempio il consulente artistico dell’UNESCO Damián Bayón, il celebre sociologo Néstor García Canclini e lo scrittore Edmundo Desnoes.

GORIZIA, ITALIA, 1934 VIVE A TRIESTE, ITALIA, CARACAS, VENEZUELA E CITTÀ DEL MESSICO

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Paolo Gasparini


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Umberto Giangrandi

Umberto Giangrandi, artista, attivista e insegnante di origine italiana, ha trascorso mezzo secolo a documentare la realtà sociale in Colombia, sua patria dal 1966, e a sperimentare con rappresentazioni multimediali del corpo. Cresciuto a Lucca durante le tumultuose ricostruzioni del dopoguerra, Giangrandi avverte una precoce affinità con la figurazione viscerale di Giorgio de Chirico, Francis Bacon e Pablo Picasso. Dopo essere stato nominato professore di arte presso l’Universidad Nacional de Colombia, Giangrandi intraprende una carriera che coniuga la pedagogia con il dibattito politico. Con il Laboratorio Giangrandi (fondato nel 1968), è stato un pioniere dello studio della stampa in Colombia. Come co-fondatore del Taller 4 Rojo (1972–1976), Giangrandi ha orientato il potenziale espressivo e la riproduzione seriale e meccanica della stampa verso urgenti lotte sociopolitiche. Nel corso della sua lunga carriera, Giangrandi è tornato ossessivamente sul tema del corpo emarginato, reso grottesco e libidinoso, senza censurare la violenza della sua repressione o la libertà del suo erotismo.

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In Bodegón Erótico (1989), Giangrandi rielabora e dipinge una stampa realizzata in precedenza. Attraverso la frutta monocromatica in primo piano e il tratteggio irregolare della parete che la incornicia, Giangrandi pone in evidenza lo sfondo di carta stampata dell’opera, riecheggiando i collage multimediali che ha prodotto per il radicale Taller 4 Rojo. Dipingendo sopra la ciotola di frutta che originariamente si trovava a destra della bottiglia di vetro, Giangrandi fa spazio nella composizione a una coppia che si abbraccia nel paesaggio verdeggiante che si estende sul fondo. Facendo riferimento

PONTEDERA, ITALIA, 1943 VIVE A BOGOTÁ, COLOMBIA

alla sua precedente serie di notturni sessualmente espliciti, Giangrandi giustappone la rappresentazione inequivocabile del sesso in uno spazio aperto e pubblico con una suggestiva natura morta. Il simbolismo codificato in questa composizione di frutta tagliata a metà con il decanter a collo lungo indica una repressione del desiderio a cui Giangrandi risponde con una scena di libertà disinibita. L’opera di Umberto Giangrandi è esposta per la prima volta alla Biennale Arte. —Lucia Neirotti

Bodegón Erotico, 1989 Acrilico e serigrafia su carta, 50,7 × 69,2 cm. Courtesy Proyecto Bachué, Colombia.


Indian and Girl with Ethnic Clothes from Cusco, 1917 ca. Gelatina d’argento e carta, 24 × 18 cm. Collezione Diran Sirinian, Buenos Aires.

A prima vista, Indian and Girl with Ethnic Clothes from Cusco (1917 circa) ricorda le precedenti rappresentazioni di “tipi” etnici. In questa fotografia di studio, Gismondi sceglie di ritrarre individui in abiti quechua tipici di Cusco, in Perù, invece di quelli delle locali comunità aymara di La Paz e dei dintorni della città. Lo sfondo è decisamente non andino, ed evoca invece un sentimentale paesaggio onirico di giardini europei e colline toscane. L’uomo seduto sui mattoni dello studio regge una tromba di conchiglia e un bastone di autorità politica. Lo storico dell’arte Pedro

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Querejazu ha identificato nella bambina, che tiene in mano una corda che imita la forma di un fuso e di un filo, il figlio del fotografo, Luis Antonio. A un esame più attento, l’assenza degli strumenti di filatura diventa evidente, così come la presenza centrale della piccola mano pallida del bambino che partecipa con paziente attenzione alla creazione di questa finzione. L’opera di Luigi Domenico Gismondi è esposta per la prima volta alla Biennale Arte. —Lisa Trever

NUCLEO STORICO • ITALIANI OVUNQUE

Luigi Domenico Gismondi, italiano di nascita, è stato il più importante fotografo boliviano del primo Novecento e uno dei tanti immigrati europei stabilitisi in Sud America alla fine del XIX secolo. Nel 1901, sposa a Mollendo, in Perù, Inés Morán Gandarillas e molti dei loro figli compaiono nelle sue fotografie, non solo in ritratti di famiglia ma anche in vedute monumentali delle antiche rovine di Tiwanaku e in vari altri ambienti. La pratica di Gismondi comprende il paesaggio, vedute urbane e il lavoro in studio. Tra le sue commissioni figurano progetti per compagnie ferroviarie e minerarie e ritratti ufficiali di membri dell’élite politica boliviana. Gismondi ha creato fotografie che rivelano un’eccezionale abilità tecnica e un fine occhio artistico, soprattutto nella realizzazione di sensibili ritratti di individui indigeni che respingono l’appiattimento delle caricature di matrice costumbrista o indigenista dell’epoca. A 114 anni dalla sua fondazione, lo studio di Gismondi a La Paz continua a essere gestito dai suoi discendenti.

SANREMO, ITALIA, 1872 – 1946, MOLLENDO, PERÙ

STRANIERI OVUNQUE

Luigi Domenico Gismondi


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Linda Kohen

MILANO, ITALIA, 1924 VIVE A MONTEVIDEO, URUGUAY

Linda Kohen – artista ebrea nata in Italia – fugge dal fascismo nel 1939, ancora adolescente, per iniziare una carriera che dura da sessant’anni a Montevideo, Uruguay. Sostenuta dalla famiglia, Kohen prima si avvicina alla pittura per vocazione negli atelier di Pierre Fossey e Horacio Butler, entrambi attivi nella Parigi fra le due guerre, poi come una delle poche donne del gruppo Taller Torres-García. Nel 1973, con l’avvento della dittatura militare in Uruguay, abbandona i paesaggi urbani e il Costruttivismo delle prime opere e passa a studi intimi, quasi monocromatici in quello che Augusto Torres – figlio di Joaquín Torres García e uno dei mentori di Kohen – definisce come il suo “periodo bianco”. Nell’esprimere ciò che l’artista definisce il bisogno di “aggiustare il mio mondo che sentivo sul punto di sparire”, continua a dipingere oggetti e spazi del quotidiano in uno stile riservato, confessionale, sia negli anni che trascorre in Brasile – il secondo esilio politico della sua vita – che al suo ritorno definitivo in Uruguay nel 1985. In El Sillón (1999), un’opera tratta da una serie di studi, Kohen costruisce una poltrona completamente bianca a partire da volumi curvi, scorciati ma inequivocabili. La tenue tavolozza di bianchi e ocra e l’abbozzata luminosità della pittura diluita riducono il soggetto alla sua essenzialità. Dipingendo a memoria, con un approccio minimalista alla rappresentazione Kohen comunica l’ordinarietà della vita di tutti i giorni e l’intimità della vita privata. Lo stile idiosincratico di Kohen, che nasce dall’ansia di registrare e ricordare, si sviluppa dopo decenni di spostamenti forzati e di lutto. Sedie, letti, tavole da BIENNALE ARTE 2024

pranzo: oggetti vuoti in interni disabitati sono ricorrenti nella sua opera come fossero ritratti di custodi assenti. Desolato e silenzioso, El Sillón viene dipinto appena pochi mesi dopo la morte della madre dell’artista, avvenuta nel 1998. Con una composizione dall’ingannevole semplicità, Kohen dipinge l’assenza, osservando come la memoria trasformi gli scenari domestici familiari in spazi carichi di solitudine e nostalgia. L’opera di Linda Kohen è esposta per la prima volta alla Biennale Arte. —Lucia Neirotti El Sillón, 1999 Olio su tela, 93 × 65 cm. Courtesy l’Artista.


Legong Dancer , 1939 Olio su tela, 113 × 95 cm. Courtesy Collezione Philippe Augier, Museum Pasifika.

Le pennellate luminose suggeriscono la musicalità della danza Legong, mentre la figura isolata è interrotta dal taglio fotografico dato al dipinto. Il Legong è un genere di danza secolare balinese del XIX secolo, originariamente associato al palazzo reale e successivamente eseguito nei villaggi e durante le cerimonie del tempio. Dagli anni Venti, le danze Legong sono state protagoniste di tournée all’estero, diventando un’immagine iconica della cultura balinese. Quando Locatelli assisteva agli spettacoli Legong, la

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danza era ancora eseguita solo da ragazze in età prepuberale, pratica che di solito abbandonavano dopo il matrimonio. Le danzatrici bambine e le giovani fanciulle sono soggetti ricorrenti nella produzione di Locatelli intorno al 1939 (Danzatrice Barong; Danzatrice giavanese; Giovane balinese). Sono raffigurate in scenari sospesi ed esotici che inevitabilmente evocano l’esperienza di Gauguin a Tahiti. —Carmen Belmonte STRANIERI OVUNQUE

Romualdo Locatelli inizia a dipingere nella bottega di famiglia a Bergamo, completando la sua formazione all’Accademia Carrara. Affascinato dalle tradizioni locali, viaggia in Sardegna, Abruzzo e Toscana. Dopo un viaggio in Tunisia nel 1927, inizia a dipingere soggetti orientalisti: paesaggi, scene di vita quotidiana e ritratti di popolazioni locali filtrati con lo sguardo coloniale europeo. Quando si trasferisce a Roma, è già un affermato pittore orientalista e uno stimato ritrattista: il re Umberto di Savoia lo incarica dell’esecuzione dei ritratti dei figli Vittorio Emanuele e Maria Pia. Nel 1939, si reca a Giava, dove le autorità locali gli commissionano svariati ritratti. Dopo alcuni mesi, si trasferisce a Giacarta e poi a Bali. Qui, la sua produzione artistica si focalizza principalmente sulle danze tradizionali locali e sulle giovani fanciulle raffigurate secondo i canoni dell’esotismo. I suoi dipinti furono esposti alla Doughitt Gallery di New York nel 1941. Allo scoppio della Seconda guerra mondiale, si trasferisce a Manila dove, nel 1943, scompare durante una battuta di caccia. Legong Dancer (1939) fu dipinto durante il soggiorno di Locatelli a Bali, in Indonesia. Raffigura il movimento sinuoso di una giovane ballerina che tiene in mano un ventaglio.

BERGAMO, ITALIA, 1905 – 1943, MANILA, FILIPPINE

NUCLEO STORICO • ITALIANI OVUNQUE

Romualdo Locatelli


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Amadeo Luciano Lorenzato

Amadeo Luciano Lorenzato nasce nel 1900 a Belo Horizonte, la prima città pianificata del Brasile: la sua famiglia, immigrata dall’Italia, lavora infatti alla costruzione della nuova capitale dello stato del Minas Gerais. L’adolescenza lo vede apprendista di pittori e decoratori, prima di trasferirsi in Italia per sfuggire alla pandemia di influenza spagnola che aveva raggiunto il Brasile dall’Europa (1918– 1919). Dopo la Prima guerra mondiale, è impiegato nella ricostruzione della cattedrale di Arsiero e frequenta la Reale Accademia delle Belle Arti di Vicenza. Tornato in Brasile nel 1948, lavora nell’edilizia civile prima di dedicarsi esclusivamente alla pittura da cavalletto a partire dai primi anni Sessanta fino alla morte, avvenuta nel 1995. Lorenzato

è noto per i suoi dipinti di paesaggio che documentano la trasformazione di Belo Horizonte e dei suoi dintorni naturali, nonché per la tecnica unica che prevede l’utilizzo di pettini per applicare la pittura, fondere i colori e creare texture. La natura gli offre spesso un’ispirazione formale che lo collega a molti pittori europei, da Giotto a Matisse; tuttavia, nella sua opera è spesso legata a contesti sociali più ampi. La composizione frontale di Araucárias (1973) mostra una linea di alberi rigidamente disposti che proiettano le loro ombre quasi astratte lungo un sentiero accidentato e terroso nella parte inferiore del dipinto. Le conifere sempreverdi appartengono a una specie indigena del Brasile meridionale, ampiamente

BELO HORIZONTE, BRASILE, 1900–1995

utilizzata nella costruzione delle case dei coloni durante il boom dell’immigrazione europea alla fine del XIX secolo; questi alberi, infatti, presenti nell’iconografia artigianale brasiliana del primo Novecento, erano ricercati dall’élite come simboli che richiamavano il gusto europeo. Se l’uso di questo motivo da parte di Lorenzato è evocativo delle storie di immigrazione e diaspora, esso fa anche parte di un più ampio corpus di opere in cui l’artista rappresenta altre piante brasiliane di importanza storica. —Rodrigo Moura

Araucárias, 1973 Olio su tavola, 61,5 × 45,5 cm. Photo Edouard Fraipont. Collezione privata. Courtesy Gomide & Co. © Edouard Fraipont.


SCALEA, ITALIA, 1942 VIVE A SAN PAOLO, BRASILE

La ricerca delle radici è una metafora toccante del lavoro di Maiolino. Ano 1942 (1973) fa parte della serie Mapas Mentais, iniziata nel 1971 – all’epoca del suo ritorno a Rio de Janeiro dopo avere vissuto tre anni a New York. Lì era entrata in contatto con alcuni artisti latinoamericani sfuggiti alle dittature militari del Cono Meridionale, inclusa quella brasiliana, e impegnati ad affrontare le loro storie travagliate tramite il linguaggio dell’arte concettuale. Pur utilizzando strumenti formali simili, come le griglie e il linguaggio, la serie Mapas Mentais stratifica la dimensione politica con quella personale.

Ano 1942 rimanda alla data di nascita dell’artista in Italia. Tra i molteplici pezzi della serie che ricostruiscono la mappa dell’Italia, questo è l’unico in cui la sagoma del Paese è bruciata nella sua interezza. Questo atto violento evoca il bombardamento senza precedenti perpetrato ai danni dell’Italia dalle forze alleate nel 1942 ed esprime anche l’astratto senso di alienazione dell’artista nei confronti del proprio paese d’origine. L’opera di Anna Maria Maiolino è esposta per la prima volta alla Biennale Arte. —Sofia Gotti

STRANIERI OVUNQUE

Anno 1942 - dalla serie Mapas Mentais, 1973-1999 Inchiostro, caratteri tipografici trasferibili e segni di bruciatura su carta in una scatola di legno, 50 × 42 cm. Courtesy l’Artista e Hauser & Wirth. © Anna Maria Maiolino.

NUCLEO STORICO • ITALIANI OVUNQUE

Nel corso dei suoi sei decenni di carriera, Anna Maria Maiolino ha esplorato diversi linguaggi, tra cui pittura, disegno, xilografia, fotografia, video performance e scultura. Il suo viaggio geografico ed emotivo ha una svolta trasformativa nel 1954, quando dalla nativa Italia emigra in Venezuela con i genitori e i fratelli. Nel 1960, Maiolino si stabilisce a Rio de Janeiro, dove entra rapidamente in contatto con una vivace comunità di giovani artisti. Durante la sua formazione con Ivan Serpa presso il Museo d’Arte Moderna, sperimenta la xilografia, una tecnica associata alle tradizioni popolari brasiliane, che segna l’inizio della sua esplorazione dell’identità. Nel ricordare questo periodo l’artista ha dichiarato: “per noi, avvicinarci al genere popolare significava cercare le nostre radici”.

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Anna Maria Maiolino


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Anita Malfatti

Anita Malfatti è considerata un’artista di punta del Modernismo brasiliano. Figlia di un insegnante di pittura, viene incoraggiata a seguire un’educazione artistica all’estero. Trascorre anni formativi a Berlino (1910-1914) e a New York (1914-1916), che sfociano in una serie di ritratti e paesaggi espressionisti, presentati a San Paolo nel 1917. La forza psicologica dei colori non naturalistici viene accolta con molte polemiche dalla stampa dell’epoca; il contraccolpo sconvolge Malfatti al punto che abbandona la pittura espressionista e gli intellettuali antiaccademici la elevano a martire della causa modernista. Negli anni Venti studia a Parigi, dove assimila le tendenze naturalistiche prevalenti dell’epoca. Nel corso del tempo, introduce nei propri dipinti nuove tecniche e nuovi soggetti, come le scene di feste popolari e di vita di campagna, intenzionalmente rappresentate come se fossero eseguite da una mano dilettante.

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Durante la sua prima formazione artistica a Berlino e a New York, Anita Malfatti realizza ritratti espressionisti in cui coglie le caratteristiche psicologiche dei suoi modelli. In A mulher de cabelos verdes (1915), l’artista costruisce la figura alternando macchie di rosso e di verde, creando così un vibrante contrasto. L’anatomia del volto è distorta da tratti allungati (fronte, mento, orecchio e naso) e da linee arrotondate (guance e doppio mento) che sottolineano l’età avanzata della donna ritratta ed entrano in risonanza con lo sfondo astratto del

SAN PAOLO, BRASILE 1889-1964

dipinto. Le sopracciglia inarcate, lo sguardo intrigante e il sorriso incerto contribuiscono all’espressione enigmatica, persino inquietante, della modella. Quest’opera figura fra quelle esposte alla mostra che Malfatti tenne a San Paolo nel 1917, esposizione considerata un punto di svolta nella storia dell’arte in Brasile. L’opera di Anita Malfatti è esposta per la prima volta alla Biennale Arte. —Regina Barros

A mulher de cabelos verdes, 1915 Olio su tela, 61 × 51 cm. Photo Sergio Guerini. Collezione Airton Queiroz, Fortaleza, Brasile. Courtesy Almeida & Dale Galeria de Arte. © Sergio Guerini.


Falce, pannocchia e cartucciera, 1928 Stampa alla gelatina d’argento, 17 × 13,5 cm. Photo Riccardo Toffoletti. Courtesy Maria Domini; Comitato Tina Modotti.

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Operaia, rivoluzionaria, migrante ed esule al tempo stesso, Tina Modotti ha scattato alcune delle fotografie più iconiche che caratterizzano il periodo successivo alla Rivoluzione messicana (1910-1917). Proveniente da un ambiente operaio, nel 1912 emigra con la sua famiglia dalla nativa Italia, trasferendosi dapprima in Austria e successivamente in California. Nella tarda adolescenza lavora come attrice e modella per artisti, prima di trasferirsi a Città del Messico nel 1923, dove sviluppa rapidamente una pratica fotografica indipendente e si immerge nei circoli intellettuali e militanti comunisti – frequentati da personalità come Frida Kahlo, David Alfaro Siqueiros, Diego Rivera, André Breton e Lev Trockij. Sovvertendo lo sguardo maschile puntato su di lei nel corso della sua carriera, l’opera di Modotti è alimentata dal desiderio di contrastare le condizioni di disuguaglianza che lei stessa aveva vissuto e sofferto. Le sue immagini denunciano fermamente lo sfruttamento, indipendentemente dal fatto che i suoi soggetti siano donne o braccianti incontrati per strada, compagni di riunioni politiche, oggetti o paesaggi urbani.

UDINE, ITALIA, 1896 – 1942, CITTÀ DEL MESSICO, MESSICO

La fotografia di Modotti Falce, pannocchia e cartuccera (1928) appartiene a una delle serie esposte nell’unica personale dell’artista tenutasi nel corso della sua vita, presso la Biblioteca Nacional dell’Universidad Nacional Autónoma de Mexico nel 1929. Capaci di coniugare la fotografia formalista con la politica rivoluzionaria, le immagini accostano oggetti evocativi di militanti comunisti e lavoratori: falci, cartuccere, chitarre e mais. La mostra fu ampiamente elogiata dalla stampa e da personaggi come il muralista Siqueiros, che la proclamò “la prima mostra

fotografica rivoluzionaria in Messico”. Tra le altre opere esposte, erano presenti foto che portavano il nome degli articoli della Costituzione messicana riguardanti i diritti dei lavoratori e la proprietà della terra. Poche settimane dopo la mostra, Modotti fu espulsa dal Messico per la sua attività di dissidente e per il presunto coinvolgimento nel tentato omicidio del presidente Pascual Ortiz Rubio. L’opera di Tina Modotti è esposta per la prima volta alla Biennale Arte. —Sofia Gotti

STRANIERI OVUNQUE

Tina Modotti


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Costantino Nivola

Costantino Nivola fugge dall’Italia nel 1937 e si trasferisce negli Stati Uniti, dove vive fino alla morte. Esplorando la funzione sociale dell’arte attraverso la scultura, crea monumentali bassorilievi e sculture in cemento, opere più intime in terracotta e, negli ultimi anni, iconici idoli in marmo e bronzo ispirati alle culture preistoriche del Mediterraneo. Nato a Orani, un piccolo paese della Sardegna, Nivola si forma come grafico a Monza e a Milano, sotto la guida di Marino Marini e degli architetti Giuseppe Pagano e Edoardo Persico, e viene presto assunto dall’ufficio pubblicità di Olivetti. Anarchico e antifascista, sposato con un’ebrea, Nivola diventa una figura centrale negli scambi culturali transatlantici del secondo dopoguerra. Un cruciale incontro con Le Corbusier, nel 1946, lo porta a dedicarsi alla scultura e a successive fruttuose collaborazioni con architetti moderni quali José Luís Sert, Eero Saarinen, Marcel Breuer, Joseph Allen Stein e altri, per progetti di edilizia pubblica e privata.

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ORANI, ITALIA, 1911 – 1988, EAST HAMPTON, USA

L’apertura dello showroom Olivetti sulla Fifth Avenue a New York, nel 1954, segna l’affermazione dello “stile italiano” negli Stati Uniti nonché il riconoscimento di Nivola come scultore. Il monumentale bassorilievo che domina lo spazio – realizzato con l’esclusiva tecnica di sand casting sviluppata dall’artista mentre giocava con i figli sulle spiagge di Long Island – trae ispirazione dalle figurine preistoriche sarde, dalle maschere tradizionali del carnevale isolano e dall’interpretazione della New York School delle culture totemiche dei nativi americani. Integrandosi perfettamente con gli elementi architettonici progettati dallo studio milanese BBPR, il bassorilievo, ora al Science Center dell’Università di Harvard, emana un’aura mediterranea senza tempo. Questa maquette, che Nivola ha esposto anche come opera d’arte autonoma, possiede una qualità inquietante: il petto appuntito e il volto mascherato di nero evocano simultaneamente umorismo e minaccia. —Antonella Camarda

Bozzetto per lo show-room Olivetti a New York, 1953 Gesso su sabbia con policromia, 123,5 × 76 × 7 cm. Courtesy Fondazione Nivola.


Immigrato italiano a San Paolo, Fulvio Pennacchi sviluppa uno stile pittorico figurativo rappresentativo della vita quotidiana e popolare, e distaccato dalle tendenze del primo Novecento orientate all’Astrattismo. Dopo essersi diplomato all’Accademia di Belle Arti di Lucca, nel 1929 approda in Brasile dove vivrà fino alla sua morte, avvenuta nel 1992. Lavora come insegnante, crea opuscoli pubblicitari e si distingue come pittore di affreschi. Grazie alla padronanza del disegno, all’armonizzazione cromatica e all’integrazione di elementi della cultura italiana e brasiliana, è stato l’unico artista con una formazione specifica a far parte del collettivo Grupo Santa Helena, come venne poi battezzato. Condividendo gli spazi del Palacete Santa Helena, nel centro di San Paolo, il gruppo partecipò ad alcune mostre sebbene, pur discostandosi dall’accademismo e dalle tendenze innovative dell’arte, non sviluppò mai un linguaggio artistico condiviso.

In O Circo (1942), Pennacchi utilizza toni ocra per affrontare il tema centrale degli spettacoli rurali tradizionali brasiliani. Una tenda occupa il centro del dipinto, comprendente una struttura circolare verde e marrone su cui campeggia la scritta “CIRCO”. Accanto alla porta d’ingresso, è presente un cartello che invita il pubblico ad attendere mentre, di fronte, due clown con il volto dipinto di bianco guardano l’osservatore. Altri personaggi appaiono di spalle o di profilo, per lo più persone di colore e alcuni animali. Un asino trasporta un contadino che attraversa la scena; il pavimento è fatto

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VILLA COLLEMANDINA, ITALIA, 1905 – 1992, SAN PAOLO, BRASILE

di “terra rossa”, nome con cui gli immigrati italiani che lavoravano nelle piantagioni di caffè chiamavano il terreno caratteristico di alcune regioni brasiliane. Sullo sfondo, al crepuscolo, appaiono le montagne, alcune case e una chiesa. Pennacchi assorbiva ciò che vedeva direttamente nell’ambiente circostante, dipingendo come fosse l’interprete di un Brasile bucolico e popolare. L’opera di Fulvio Pennacchi è esposta per la prima volta alla Biennale Arte. —Daniela Rodrigues

O Circo, 1942 Olio su legno, 50 × 70 cm. Photo Sergio Guerini. Collezione Maria Cecilia Capobianco. Courtesy Almeida & Dale Galeria de Arte. © Sergio Guerini.

STRANIERI OVUNQUE

Fulvio Pennacchi


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Claudio Perna

Artista concettuale e geografo, Claudio Perna nasce a Milano, in Italia, ed emigra nel 1955 in Venezuela, dove esplora pratiche concettuali basate su performance, film, fotocopie e fotografia. Dopo essere diventato professore di geografia presso l’Universidad Central di Caracas, nel 1963 intraprende il suo primo viaggio a New York; qui incontra il mondo del Minimalismo astratto e adotta il Concettualismo come mezzo per esplorare la coesistenza sociale, la geografia umana e la scienza in relazione alla conoscenza ancestrale, alla cultura popolare e alla comunicazione dei mass media. All’inizio degli anni Ottanta fonda RADAR, Centro per l’Arte e l’Ecologia, in cui amplia le sue esplorazioni intorno al ruolo degli archivi, della memoria e della pedagogia nelle complesse relazioni tra i soggetti e il loro ambiente, sia urbano che rurale, in particolare per quanto riguarda la determinazione dell’identità sociale.

BIENNALE ARTE 2024

Come annuncia il titolo, Venezuela—Map Series appartiene a una serie prolifica di opere (1970-1990) in cui Perna esprime, attraverso l’uso insistente di mappe, il desiderio di acquisire una conoscenza completa del territorio venezuelano. Questi sistemi di rappresentazione geografica vengono trasformati in collage che incorporano ritagli di riviste, giornali, disegni e oggetti come sigarette, carte d’identità e fotografie personali. In questo lavoro in particolare, l’artista assembla fotocopie di fili tradizionali utilizzati nei tessuti venezuelani, l’immagine di una mano che tiene un paio di forbici aperte e una

MILANO, ITALIA, 1938 – 1997, HOLGUÍN, CUBA

vertebra solitaria – elementi il cui significato è definito dalla loro funzionalità lineare. Questi ultimi sono messi a confronto con un’immagine ravvicinata delle linee create da una camicia che si apre scoprendo lentamente un petto villoso, proprio accanto alla rappresentazione della frontiera tra Colombia e Venezuela. Un caso esemplare di come l’artista abbia cercato una possibilità di conoscere se stesso attraverso lo studio del territorio, creando un legame tra quest’ultimo, l’arte e la soggettività. —Nicolas Cuello

Venezuela - Map Series, (1970-1990) Fotocopie, foto su mappa cartacea, 62,2 × 85,1 cm. Photo Arturo Sanchez. Courtesy Institute for Studies on Latin American Art (ISLAA).


Bona Pieyre de Mandiargues (nata Tibertelli) è nipote e allieva di Filippo de Pisis. Nel 1947 lo segue a Parigi, dove abbraccia il Surrealismo e si dedica alla magia, ai sogni, alla sessualità e all’occulto. Per l’intera sua vita sperimenta assemblaggi di tessuti e pittura astratta e figurativa. Sposa il critico d’arte e scrittore André Pieyre de Mandiargues. Alla fine degli anni Cinquanta, inizia a utilizzare dense miscele di terra e polvere per rappresentare il cosmo infuocato. Crea opere d’arte a partire da abiti maschili, carichi di simboli personali e riferimenti alchemici, ed è influenzata da viaggi in Messico, India e Afghanistan. Nel 1967, riunitasi con de Mandiargues, si cimenta in una serie di dipinti neometafisici e di assemblaggi a sfondo psicologico.

Allontanandosi dalla stereotipata rappresentazione surrealista della donna come musa o figura infantile, Bona Pieyre de Mandiargues si identifica con la lumaca, simbolo androgino volto a denotare la sua mente complessa e il vertiginoso universo. Il suo percorso artistico fu costellato da periodi di depressione clinica, dopo la nascita della figlia Sibylle, che ebbero come conseguenza fasi alterne di inerzia creativa e attività frenetica. In Toro Nuziale (1958), un suo primo cruciale assemblaggio tessile, l’artista integra brandelli di un abito da uomo con una tavolozza di rossi, grigi, marroni e bianchi. Crea una composizione simmetrica e tridimensionale che richiama il simbolo venerato dai surrealisti:

la testa di toro. Tuttavia, de Mandiargues sovverte l’immaginario virile tipicamente associato al toro – grazie al sottile suggerimento di uno smembramento dionisiaco del corpo maschile tramite una figura retorica metonimica (in cui l’abito sostituisce l’uomo), e attraverso il titolo che rimanda al sacrificio rituale del toro nei matrimoni spagnoli medioevali – e presenta invece una creatura addomesticata e sottomessa, che si piega alla volontà della donna-artista. Nel 1962, l’opera è apparsa sulla copertina del catalogo della mostra personale dell’artista presso Arturo Schwarz a Milano, rivelandone la duratura importanza. L’opera di Bona Pieyre de Mandiargues è esposta per la prima volta alla Biennale Arte. —Antonella Camarda

Toro Nuziale, 1958 Assemblage, 90 × 116 × 2,5 cm. Collezione privata. Courtesy Sibylle Pieyre de Mandiargues.

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ROMA, ITALIA, 1926 – 2000, PARIGI, FRANCIA

NUCLEO STORICO • ITALIANI OVUNQUE

Bona Pieyre de Mandiargues


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Ester Pilone

Dopo essere approdata in Argentina nel 1939, Ester Pilone sviluppa uno stile personale nell’ambito dell’Espressionismo astratto, caratterizzato da tendenze informali. Il suo lavoro punta a realizzare una matericità densa e non figurativa e una sobrietà cromatica. Anche se a partire dal 1954 partecipa a numerose edizioni del Salón Nacional, è solo negli anni Sessanta che la sua arte ottiene un più ampio riconoscimento. Nel 1963 intraprende un viaggio in Europa per visitare Francia, Italia e Spagna, con l’obiettivo di studiare e perfezionare il suo lavoro di artista. In quello stesso periodo tiene una serie di mostre personali nelle gallerie e nei musei più prestigiosi del circuito artistico d’avanguardia di Buenos Aires, tra i quali Lirolay (1961, 1962), Van Riel (1965, 1969), Museo Nacional de Bellas Artes di Buenos Aires (1979) e molti altri.

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Il dipinto Luz Amarilla (1970) di Ester Pilone è un chiaro esempio della combinazione unica di tecniche che l’artista utilizza nella sua pratica, grazie alle quali riesce a creare scenari astratti in cui coesistono diversi tipi di temperamenti emotivi. In particolare, in quest’opera possiamo notare come la purezza monocromatica del giallo crei una spazialità luminosa. All’interno di questo spazio, Pilone inserisce una misteriosa forma astratta i cui bordi tremuli creano un contrasto formale, amalgamando il diverso vocabolario della pittura non figurativa. In Luz Amarilla, l’ambivalenza simbolica risultante da questi atteggiamenti contrastanti è ulteriormente accentuata dalla difficile coesistenza di tecniche moderne opposte. Tra queste, la compresenza di una precisione geometrica ascetica e l’espressione straziante di

CUNEO, ITALIA, 1920 – [LUOGO E DATA IGNOTI]

pennellate cinetiche create utilizzando spatole cariche, che lei di solito distribuisce con le mani: un peculiare approccio alla pittura che definisce la forza espressiva della sua astrazione. L’opera di Ester Pilone è esposta per la prima volta alla Biennale Arte. —Nicolas Cuello

Luz Amarilla, 1970 Olio su tela, 50,1 × 112,1 cm. Collezione del Museo de Arte Moderno di Buenos Aires.


NUCLEO STORICO • ITALIANI OVUNQUE

Diplomata all’Istituto d’Arte di Venezia nel 1955, Maria Polo si stabilisce prima a Roma e poi, nel 1962, a Rio de Janeiro, in un periodo in cui l’astrazione e l’oggettualità sono i principali interessi dei locali gruppi d’avanguardia. I dipinti esposti alla fiera d’arte Cento Pittori di Via Margutta (Roma, 1958) attirano l’attenzione di Pietro Maria Bardi, il fondatore italobrasiliano del Museu de Arte de São Paulo, che la invita a tenere una mostra personale nel 1960. Le sue opere sono influenzate dalla tragica esperienza rappresentata dall’essere cresciuta durante la Seconda guerra mondiale; le sue serie di paesaggi di Venezia e San Paolo erano prevalentemente nere. La luce e i colori del Brasile ravvivano in seguito la tavolozza dell’artista, includendo maggiormente bianco, giallo, rosso e blu. Quando Polo si trasferisce a Rio, è già un’artista astratta che sperimenta i confini delle sue composizioni. Negli anni 1963 e 1965 partecipa alla Bienal de São Paulo.

Untitled (1962) appartiene alla serie presentata all’undicesimo Salone d’Arte Moderna di Rio de Janeiro. Il dipinto combina forme dense e frammentate che sembrano esplodere su uno sfondo grigio. Vuoti luminosi competono con geometrie irregolari in toni sanguigni e neri, a volte allineati con il bordo della tela, altre volte scagliati contro i suoi limiti. In seguito, Polo sviluppa astrazioni sempre più colorate, combinando cerchi con forme irregolari che ne sfidano la durezza (1970-1983). Il lavoro dell’artista evoca il movimento e la trasformazione vissuti da

Untitled, 1962 Olio su tela, 81 × 60 cm. Photo Sergio Guerini. Courtesy Almeida & Dale Galeria de Arte. © Sergio Guerini.

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VENEZIA, ITALIA, 1937 – 1983, RIO DE JANEIRO, BRASILE

migrante e la sua condizione di straniera in diverse città (Venezia, Roma, San Paolo, Rio de Janeiro). Il suo marchio di astrazione si distingue dalle tendenze geometriche che caratterizzano la produzione d’avanguardia a San Paolo e Rio: le sue pennellate evocano l’Espressionismo, mentre l’impasto ricorda la materialità dell’Informale. L’opera di Maria Polo è esposta per la prima volta alla Biennale Arte. —Luiza Interlenghi STRANIERI OVUNQUE

Maria Polo


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Lidy Prati

RESISTENCIA, ARGENTINA, 1921 – 2008, BUENOS AIRES, ARGENTINA

Lidy Prati (Lidia Elena Prati) è stata una pittrice, designer e critica d’arte nota per essere una delle poche donne a praticare l’Arte Concreta negli anni Quaranta. Completa gli studi nella provincia del Chaco, dove si era stabilita la sua famiglia di immigrati italiani e svizzero-tedeschi, ma è solo quando si trasferisce a Buenos Aires che si interessa all’arte. Insieme a Tomás Maldonado e a molti altri, Prati ricopre un ruolo di primo piano nell’edizione del 1944 della rivista d’avanguardia Arturo e il 1945 la vede membro fondatore dell’Asociación Arte Concreto-Invención. A seguito di un viaggio in Europa del 1952, dove entra in contatto con esponenti dell’Arte concreta come Max Bill e Georges Vantongerloo, il suo lavoro – noto per il vasto repertorio di forme geometriche e strisce di colore – inizia a includere forme decostruite e un senso sperimentale del ritmo e della vibrazione dei colori. A metà degli anni Cinquanta abbandona la pittura e si dedica al design grafico, tessile e di gioielli.

Composición serial (19461948) illustra il suo interesse a sperimentare la tensione tra forme geometriche – solitamente cerchi, rettangoli e quadrati – basata sull’esaltazione della superficie dello spazio pittorico. Tale tensione è prodotta dall’intermittenza di colori, dimensioni e ritmi con cui l’artista organizza percettivamente le forme geometriche sulla tela. Composición serial documenta non solo l’influenza della teoria della gestalt sul suo lavoro, ma anche un punto di svolta nell’Arte Concreta in

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Argentina: un nuovo periodo segnato dalla sospensione della formula teorica della cut-out frame a favore di un recupero del formato ortogonale. In questo formato Prati riconosce maggiori possibilità di ampliare la propria ricerca sulla forza espressiva della pittura, sull’autonomia delle forme e sui valori inventivi, in ultima analisi negando la funzione descrittiva del significato. L’opera di Lidy Prati è esposta per la prima volta alla Biennale Arte. —Nicolas Cuello

Composición serial, 1946-1948 Olio su tavola, 75,5 × 55,8 cm. Photo Nicolás Beraza. Collezione Malba. Courtesy Museo de Arte Latinoamericano di Buenos Aires.


Tekkà (1948) viene realizzato quando Sanguineti Poggi si stabilisce nuovamente in Eritrea dopo il Trattato di Parigi del 1947, in coincidenza con il periodo in cui la futura Federazione di Etiopia ed Eritrea (1952-1962) accoglie le imprese straniere per rilanciare la propria economia. L’opera raffigura Tekkà (o Tekké), che apparteneva al popolo BeniAmer proveniente dalle pianure occidentali verso il confine con il Sudan. Stilisticamente, il dipinto riecheggia l’Art déco e l’Espressionismo, e anche il suo rapporto con l’esotismo rappresenta una tematica importante. Una recensione di una mostra di pittura tenutasi ad Addis Abeba nel 1975 considera come la composizione dell’opera rifletta l’affetto che lega la pittrice al suo soggetto, salvandola da un “vuoto estetismo”. In effetti, nel corso della sua vita, Sanguineti Poggi si interrogò sul suo ruolo di donna italiana privilegiata attiva in territori precedentemente coloniali. Lei stessa ha precisato: “per me il problema era esprimere un grande amore per i poveri. Le parole ‘I poveri sono il popolo di Cristo’ hanno riecheggiato nelle mie orecchie per sempre”. L’opera di Nenne Sanguineti Poggi è esposta per la prima volta alla Biennale Arte. —Sofia Gotti

Tekkà, 1948 Olio su tela, 49 × 44 cm. Courtesy Estate of Nenne Sanguineti Poggi. © Estate of Nenne Sanguineti Poggi.

STRANIERI OVUNQUE

Nenne Sanguineti Poggi ha lasciato un segno indelebile nell’arte e nell’architettura etiope ed eritrea. Nata in un’aristocratica famiglia italiana di intellettuali, si è subito imposta come artista nella Liguria degli anni Trenta. Nel 1937, in seguito al matrimonio per procura con un ingegnere dipendente della società petrolifera Agip, si trasferisce in Eritrea, colonizzata dall’Italia nel XIX secolo. Dopo aver trascorso gli anni della Seconda guerra mondiale in Italia, Sanguineti Poggi sceglie di tornare in Eritrea e in Etiopia, dove vivrà fino alla metà degli anni Settanta. In questo periodo, l’artista sviluppa il suo caratteristico stile pittorico copto-bizantino, lasciandosi alle spalle le influenze dell’avanguardia europea. Sotto l’egida dell’imperatore d’Etiopia Hailé Selassié, e grazie a un eccezionale slancio nei confronti del lavoro, riesce ad assicurarsi numerosi incarichi pubblici. Realizza murales in mosaico, ceramica e cemento a rilievo, destinati a edifici governativi, scuole, banche, hotel e chiese.

SAVONA, ITALIA, 1909 2012, FINALE LIGURE, ITALIA

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Nenne Sanguineti Poggi


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Aligi Sassu

Aligi Sassu, pittore e scultore, trascorre la sua lunga vita tra Milano, la Sardegna e Maiorca, coniugando l’esplorazione artistica con l’attivismo politico. Nato in una famiglia di sinistra, Sassu sviluppa una passione precoce per l’arte e compie il suo debutto alla Biennale nel 1928, invitato da Filippo Tommaso Marinetti. Il suo stile migra dal Futurismo all’influenza dei Primitivi italiani e del giovane Pablo Picasso, come si può vedere nella decantata serie degli Uomini rossi (1930-1933). Nell’aprile del 1937, viene incarcerato per quattordici mesi a causa del suo impegno antifascista. Dopo la Seconda guerra mondiale, si affilia al gruppo di artisti Corrente, creando opere d’arte dalla forte impronta sociale. Ad Albissola si dedica alla ceramica, realizzando sculture magmatiche incentrate sugli amati cavalli selvatici, un tema che si intrecciava con i suoi ricordi della Sardegna rurale. Il trasferimento a Maiorca nel 1964 segna una nuova fase, ricca di riferimenti mitologici e mediterranei. Figura di spicco dell’arte italiana del dopoguerra, Sassu fa successive apparizioni alla Biennale nel 1948, 1952 e 1954.

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L’interpretazione di Sassu di una classica scena biblica rinascimentale – che raffigura il memorabile incontro tra il giovane pescatore Tobia e l’arcangelo Raffaele – riecheggia la scultura in bronzo di Arturo Martini del 1934 dedicata allo stesso tema. Eliminando qualsiasi dettaglio aneddotico, Sassu colloca i suoi soggetti davanti a una baia, concentrandosi su una rete da pesca, amplificando la relazione intensa ed eroticamente ambigua che lega l’angelo – una figura più anziana e fisicamente robusta – e Tobia, ritratto come se fosse intrappolato nella rete dell’angelo. Entrambe le

Tobiolo, 1965 Olio su tela, 81 × 96 × 1,5 cm. Courtesy Archivio Aligi Sassu, Monza. © Archivio Aligi Sassu.

MILANO, ITALIA, 1912 – 2000, POLLENÇA, SPAGNA

figure fissano lo spettatore con uno sguardo impassibile. Il dipinto trae ispirazione dalla precedente serie degli Uomini rossi, in cui Sassu evocava un regno mitico di nudi maschili – argonauti, centauri e dioscuri, ma anche figure pubescenti e indistinte – sospesi in un’atmosfera senza tempo, eterea, ma sensualmente carica. Allo stesso tempo, le tonalità intense e lo sfondo marittimo riecheggiano il ritrovato paesaggio mediterraneo al quale l’artista era approdato dopo il suo trasferimento a Maiorca l’anno precedente. —Antonella Carmada


Nel 1901 il diciottenne Gino Severini, al cospetto delle opere di Giacomo Balla, scopre e assimila i dettami della pittura divisionista. Nel 1906 si trasferisce a Parigi ed entra in contatto con gli esponenti dell’avanguardia artistica. Aderisce nel 1910 al Futurismo, la sua ricerca pittorica approda poi nel 1916 al Cubismo sintetico, per avvicinarsi successivamente ai principi espressi da Valori Plastici. In questo periodo una rinnovata classicità caratterizza la pittura di Severini, che introduce nelle sue opere soggetti tratti dalla Commedia dell’Arte. L’artista teorizza inoltre la nuova fase pittorica con la pubblicazione del saggio Dal cubismo al classicismo. Nel 1924 è in Svizzera per eseguire un ciclo di affreschi a tema sacro. Nell’ultimo decennio la sua pittura ritorna al periodo futurista. L’intensa attività artistica di Severini contempla anche importanti contributi teorici che l’artista pubblicò durante la sua carriera. La sua presenza ha rivestito inoltre un importante ruolo di connessione tra l’Italia e la Francia.

Natura Morta, 1918 Olio su tela, 60 × 73 × 2 cm. Collezione Roberto Casamonti.

Nel 1918 Severini dipinge l’opera Natura morta, che successivamente entra a fare parte della collezione Léonce Rosenberg, promotore del gruppo cubista. Il dipinto si colloca all’interno del dibattito teorico che avvicina l’arte di Severini agli esiti del Cubismo sintetico. La ricerca dell’artista è volta a indagare lo spazio pittorico come visione in grado di coniugare la dinamicità della linea con un rigoroso canone compositivo. La risposta è nella creazione di un assetto visivo che affida alla geometria il principio e la misura dell’organizzazione

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CORTONA, ITALIA, 1883 – 1966, PARIGI, FRANCIA

spaziale degli oggetti. Il dialogo che ne scaturisce descrive una pittura strutturata in un perfetto equilibrio tra l’espressività del colore, la sensibilità della percezione e il rigore della forma che raffigura per contrasto il profilo degli elementi pittorici. Il principio estetico adottato da Severini è interpretato come una sintesi degli oggetti nello spazio e nel tempo, capace di originare immagini che nell’opera si traducono in legge armonica. —Sonia Zampini

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Gino Severini


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Joseph Stella

Joseph Stella è stato un artista americano di origine italiana, noto soprattutto per le sue rappresentazioni della modernità americana all’inizio del XX secolo. Nato a Muro Lucano, Stella emigra a New York nel 1896 all’età di diciotto anni, ritrovandosi in mezzo alla crescente comunità italoamericana della città. Per un breve periodo si dedica alla medicina, prima di iscriversi all’Art Students League, dove studia con William Merritt Chase e Robert Henri. Un ritorno in Italia nel 1909 dà il via a decenni di vita a cavallo tra New York e il suo paese natale, con soggiorni formativi a Parigi trascorsi ad assorbire gli stili dell’epoca: Cubismo, Fauvismo, Futurismo e Surrealismo. Portando avanti queste influenze, Stella si fa apprezzare per le sue rappresentazioni dinamiche di New York. Sollecitato dai suoi viaggi ricorrenti e dai suoi aneliti nostalgici, l’artista si dedicò anche a esplorare la spiritualità della natura e la centralità della sua identità italiana, un contrappunto e un antidoto alle tensioni della modernità americana.

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Fountain (1929) è un esempio chiave dei dipinti esuberanti di Stella – fortemente stilizzati e costellati di uccelli, piante e fiori – che testimoniano la sua profonda connessione spirituale con la natura. Se i paesaggi urbani dell’artista riflettono un ambiente moderno, le sue rappresentazioni della natura sono radicate in origini più primordiali e pittoresche, influenzate in gran parte dalle visioni romantiche che Stella aveva della sua patria italiana. Questa composizione pone al centro una fontana, i cui ruscelli arcuati fanno eco a un albero

MURO LUCANO, ITALIA, 1877 – 1946, NEW YORK, USA

che cresce dalla tranquilla base di roccia e acqua, sovrastandola. I rami frondosi dell’albero scendono verso il basso e incorniciano questa scena edenica, popolata da una figura nuda sdraiata, un cigno e un fiore di loto. I motivi ricorrenti e le vedute romantiche di Stella offrono possibili letture allegoriche della natura come fuga e oasi, soprattutto contro le condizioni soffocanti della vita moderna, e come luogo di rigenerazione creativa. —CJ Salapare

Fountain, 1929 Olio su tela, 124,5 × 101,6 cm. Photo Dale M. Peterson. Collezione privata. Courtesy Schoelkopf Gallery.


NUCLEO STORICO • ITALIANI OVUNQUE

Clorindo Testa nasce in Italia e vive in Argentina, dove progetta edifici audaci dalla forte presenza visiva. Architetto e artista, partecipa attivamente alla scena culturale del XX secolo. A Buenos Aires, Testa realizza la Biblioteca Nacional (1962-1992, con Francisco Bullrich e Alicia Cazzaniga) e la sede del Banco de Londres y América del Sur (1959-1966, in collaborazione con lo studio SEPRA). L’edificio della banca è caratterizzato da un’imponente struttura in cemento armato, in cui Testa crea aperture o perforazioni geometriche che danno vita a un potente gioco visivo. Queste forme vivaci rivelano la libertà con cui Testa si accostava ai suoi progetti. “In lui, l’umorismo è un anticorpo”, scrive l’amico poeta Julio Llinás, proponendo l’umorismo come reazione alla rigidità imposta dall’adesione a qualsiasi sistema estetico. La libertà di Testa è evidente anche nei suoi dipinti degli anni Sessanta, in cui si allontana dall’esattezza e dalla razionalità tanto apprezzate dal movimento per l’Arte concreta. In Pintura o Circulo negro (1963), Testa dipinge una sfera nera su una tela quadrata. Piuttosto che una figura geometrica precisa, il cerchio è aperto e non risponde ai dogmi dell’Arte concreta. Due aloni resi in tonalità grigie circondano questo nucleo nero, conferendo un senso di leggerezza alla figura, come se stesse levitando sopra una superficie bianca. Due segmenti verticali, tuttavia, la fissano allo sfondo. Lo strato pittorico è denso nel

Pintura o Circulo negro , 1963 Olio su tela, 150,3 × 150,1 cm. Photo Gustavo Sosa Pinilla. Collezione Malba. Courtesy Museo de Arte Latinoamericano di Buenos Aires.

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BENEVENTO, ITALIA, 1923 – 2013, BUENOS AIRES, ARGENTINA

nucleo nero e Testa sfrutta questo spessore eseguendo incisioni, raschiando, muovendo rapidamente la mano. Questo grafismo gestuale mostra la sua caratteristica libertà o umorismo. Testa è stato insignito tre volte del prestigioso Premio Konex in Argentina. Pintura o Circulo negro è stato precedentemente esposto alla Biennale nel 1964. —Florencia Malbran

STRANIERI OVUNQUE

Clorindo Testa


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Horacio Torres

LIVORNO, ITALIA, 1924 – 1976, NEW YORK, USA

Horacio Torres, figlio del pittore uruguaiano Joaquín Torres García, nasce nel 1924 a Livorno, in Italia. Dopo anni di viaggi, nel 1934 la famiglia lascia l’Europa per stabilirsi a Montevideo, in Uruguay. Grazie all’influenza del padre, Torres diventa rapidamente membro della Asociación de Arte Constructivo e dell’organizzazione Taller Torres García. Nel 1942, si reca in Perù e in Bolivia per studiare l’arte precolombiana, accrescendo il proprio interesse per la rappresentazione monumentale. Dopo la morte del padre, avvenuta nel 1949, Torres esplora l’Europa, visitando celebri musei in cerca di ispirazione. Trasferitosi a New York nel 1969, abbandona i principi costruttivisti e inizia a dipingere oscuri ritratti figurativi dotati di reminiscenze classiche con i quali si impone all’attenzione internazionale.

All’inizio della propria carriera, Horacio Torres persegue in modo esemplare i principi della teoria artistica di Torres García (1944) attraverso l’uso di figure geometriche, colori primari e un immaginario culturalmente associato a un’innocenza infantile, che egli collega a complessi simboli regionali. Sebbene The White Ship (1950 circa) possa essere ritenuta parte della lenta transizione del suo interesse verso la figurazione, possiamo osservare che in questa rappresentazione narrativa di un soggetto in viaggio, facilmente associabile alla storia di migrazione della sua

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famiglia, le forme geometriche e le forti linee reticolari permangono come schema costruttivo di organizzazione all’interno del dipinto. In questo senso, l’opera non solo concretizza la teoria artistica del padre, ma segna anche un punto di partenza per il proprio studio delle connessioni tra repertori d’avanguardia e tradizioni simboliche latinoamericane. L’opera di Horacio Torres è esposta per la prima volta alla Biennale Arte. —Nicolas Cuello

The White Ship, 1950 ca. Olio su tela, 82 × 69 cm. Photo Arturo Sánchez. Courtesy Cecilia de Torres, Ltd.


NUCLEO STORICO • ITALIANI OVUNQUE

Portatrice di una moderna idea di classicità, la pittura di Mario Tozzi si sviluppa in un dialogo costante tra l’Italia e la Francia. Nel 1919 Tozzi si stabilisce a Parigi, dove ha inizio la sua carriera artistica, ottenendo da subito un grande successo. Nel 1926 partecipa a Milano alla prima mostra del gruppo Novecento. Aderisce alle istanze teoriche del movimento, incentrate sulla volontà di costruire una rinnovata identità artistica, basata sul recupero della componente figurativa e della tradizione pittorica italiana, da contrapporre alle sperimentazioni delle avanguardie. Nel 1928 fonda il Groupe des Sept, noto come Les Italiens de Paris; movimento eterogeneo che introduce un nuovo classicismo mediterraneo in dialogo con suggestioni metafisiche. La pittura degli anni Trenta vede un progressivo allontanamento dagli esiti novecentisti; il linguaggio di Tozzi presenta in seguito una maggiore stilizzazione, dipinge soggetti femminili come presenze assorte in una sospesa dimensione atemporale. Nel 1932, in occasione della XVII Biennale d’Arte di Venezia, viene esposta l’opera Il Pittore (1931) di Tozzi. Il dipinto – appartenuto alla collezione Margherita Sarfatti, teorica del movimento Novecento – si caratterizza per i rimandi simbolici, che descrivono un assetto visuale in cui la volumetria delle forme detiene in sé un ordine puramente intellettuale. L’intera composizione visiva presenta un marcato rigore strutturale, dettato da una netta scansione delle ombre e dei piani che limitano lo spazio fisico a favore di un’apertura esclusivamente mentale.

Il Pittore, 1931 Olio su tela, 116 × 89 × 4 cm. Collezione Roberto Casamonti.

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FOSSOMBRONE, ITALIA, 1895 – 1979, SAINT-JEAN-DU-GARD, FRANCIA

La presenza del triangolo enfatizza la geometrizzazione della scena, che sembra poter accogliere una prossima condizione di vita nascente. L’ombra del chiodo è l’attesa di un accadimento, come l’imminente azione pittorica a cui si accinge il pittore. A lui è affidato il compito di congiungere l’idealità con la prassi dell’arte, l’una come condizione dell’altra, eternamente e ciclicamente, come il bambino e l’adulto ritratti e come la sfera, senza inizio e senza fine. —Sonia Zampini STRANIERI OVUNQUE

Mario Tozzi


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Edoardo Daniele Villa

Il talento di Edoardo Daniele Villa per la scultura si manifesta precocemente nella città natale di Bergamo, dove gli vengono commissionati numerosi bassorilievi per case private ancor prima di compiere vent’anni. Incoraggiato dalla madre a diventare scultore, Villa frequenta la Scuola d’Arte Andrea Fantoni e in seguito si iscrive all’Accademia di Bergamo. Arruolato nella fanteria italiana al Cairo, viene catturato e rinchiuso in un campo di detenzione in Sudafrica come prigioniero di guerra. Alla fine del conflitto deciderà di stabilirsi a Johannesburg. In attesa di essere rilasciato, mentre è in isolamento, Villa scolpisce ininterrottamente, completando sessantacinque opere che saranno esposte nella capitale sudafricana dopo la sua scarcerazione, nel 1947. Nel 1963 l’artista si unisce agli Amadlozi (“gli antenati” nelle lingue nguni), un collettivo notevolmente influenzato dall’arte classica africana. La sua scultura astratta Atmosfera Africana viene esposta alla Biennale di Venezia del 1964.

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L’etica degli Amadlozi è quella di riflettere su ciò che li circonda creando opere chiaramente ispirate all’Africa. Le sculture di Villa evidenziano la verticalità della figura umana, come si nota nell’opera allegorica Mother and Child. Nella sua semplicità astratta e purista, la resa di Villa evoca una struttura compositiva stereometrica. Stiliforme nella sua posizione eretta, Mother and Child è un flusso continuo di linee geometriche che accentua marcatamente lo stile

BERGAMO, ITALIA, 1915 – 2011, JOHANNESBURG, SUDAFRICA

degli elementi formali africani a cui si ispira. Villa dà priorità a linee, forme e dimensioni sferiche anziché scegliere espressioni facciali distinguibili, sottintendendo un principio universalista. A Johannesburg, negli anni Sessanta, Villa può avere accesso a collezioni pubbliche e private di arte africana. In questo periodo si osservano somiglianze stilistiche tra la sua opera e l’arte dell’Africa centrale. —Zamansele Nsele

Mother and Child, 1963/2010 Bronzo, 201 × 66 × 51 cm. Collezione privata.


Autorretrato, 1902 Olio su tela, 64 × 48 cm. Photo Sergio Guerini. Collezione Visconti Hirth. Courtesy Almeida & Dale Galeria de Arte. © Sergio Guerini.

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Eliseu Visconti, immigrato italiano e artista tra due continenti, fuse l’accademismo brasiliano con il Modernismo parigino di fine secolo. Abile disegnatore, Visconti emigra in Brasile nel 1876 ed entra all’Academia Imperial de Belas Artes di Rio de Janeiro (1885). Subito dopo la caduta dell’Impero brasiliano nel 1889, si unisce agli studenti e agli insegnanti che, insorti contro l’accademismo, si rifugiano nell’Atelê Livre (Studio libero). Primo borsista della Repubblica brasiliana, si forma nelle scuole d’arte moderna di Parigi, l’Académie Julian e l’École Guérin. Quando Visconti presenta il suo lavoro europeo in Brasile, gli viene commissionata la creazione di dipinti monumentali per il Theatro Municipal do Rio de Janeiro. L’artista dipinge paesaggi che ritraggono la moglie e i figli in mezzo alla natura; realizza inoltre manifesti, vetrate colorate e lampade. Nell’esplorazione della Provenza, dei parchi parigini, delle spiagge e dei cortili di Rio, Eliseu Visconti ha saputo catturare un moderno senso della luce nella pittura.

GIFFONI VALLE PIANA, ITALIA, 1866 – 1944, RIO DE JANEIRO, BRASILE

In Autorretrato (1902), Visconti fronteggia lo spettatore con uno sguardo di sfida. Il dipinto viene realizzato poco tempo dopo il suo ritorno in Brasile al termine di sette anni di formazione a Parigi, dove le sue opere sono ignorate dal pubblico ma acclamate dalla critica. L’artista brandisce i pennelli come armi su uno sfondo vuoto, che fa eco alla tela grezza che sta trasformando. Il lato sinistro è realistico, mentre il destro è abbozzato e postimpressionista. Sullo sfondo il cielo e le nuvole delineano un orizzonte – posizionato tra gli occhi e la sommità

del capo – richiamando l’attenzione sulle forze che guidano l’artista fra tradizione e modernità: un occhio attento e la consapevolezza di sé. Almeno quaranta autoritratti realizzati nell’arco di cinque decenni testimoniano l’orgoglio di Visconti nei confronti del proprio lavoro. Come lettore di Goethe, rifletté sull’innovazione al di fuori della tradizione e costruì la propria immagine di artista. L’opera di Eliseu Visconti è esposta per la prima volta alla Biennale Arte. —Luiza Interlenghi

STRANIERI OVUNQUE

Eliseu Visconti


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Alfredo Volpi

Alfredo Volpi, figlio di immigrati italiani (la madre era di Lucca e il padre di Bologna), arriva in Brasile nel 1897, quando ha appena un anno. Nato da una famiglia proletaria, come la maggior parte degli stranieri che approdano in Brasile tra la fine del XIX e gli inizi del XX secolo, abbandona gli studi formali e inizia a lavorare come pittore e decoratore murale all’età di quindici anni. Ignorato dalla corrente modernista degli anni Venti, produce sia pannelli decorativi che dipinti da cavalletto, tenendo la sua prima mostra personale nel 1944, all’età di quarantasette anni, presso la Galeria Itá di San Paolo. Negli anni Cinquanta intraprende una sorprendente transizione verso l’Astrattismo geometrico, creando le opere che diventeranno il suo marchio di fabbrica: bandeirinhas (bandierine), facciate, case e pennoni dei festival del Giugno Brasiliano. Nonostante il suo stretto legame con lo stile popolare, Volpi fu un modernista celebrato dalle istituzioni in tarda età.

marrom (anni CinquantaSessanta) è rappresentativa di questo momento, in cui crea anche le sue prime opere utilizzando i motivi geometrici delle bandeirinhas, un elemento che stabilisce un dialogo con l’astrattismo geometrico degli artisti concretisti brasiliani. In questa fase del lavoro di Volpi osserviamo una notevole tensione: le bandierine sono collocate a ridosso delle facciate degli edifici, un altro elemento tratto dall’universo

LUCCA, ITALIA, 1896 – 1988, SAN PAOLO, BRASILE

popolare. Sospese tramite sottili linee orizzontali, come accade nelle feste popolari, le bandierine sembrano fluttuare davanti alle facciate solide e stabili. Fachada marrom è anche emblematica del modo in cui Volpi comincia a trattare lo spazio della tela da quel momento in poi, con campiture di colore segmentate, mantenendo contorni discreti ma irregolari. —Fernando Oliva

Negli anni Cinquanta, durante un viaggio in Italia, Volpi si imbatte negli affreschi di Giotto e inizia a interessarsi all’uso della tempera, una pittura a base di albume d’uovo. Fachada

BIENNALE ARTE 2024

Fachada marrom, anni Cinquanta-Sessanta Tempera su tela, 118 × 77,5 cm. Photo Sergio Guerini. Collezione privata. Courtesy Almeida & Dale Galeria de Arte. © Sergio Guerini.


A TERRA DÁ, A TERRA QUER, SAN PAOLO, UBU EDITORA/ PISEAGRAMA, 2023.

Un fiume non smette di essere tale perché confluisce in un altro fiume, anzi, diventa se stesso e gli altri fiumi, diventa più forte. Quando ci uniamo, non smettiamo di essere noi, ma diventiamo noi e altre persone, ci arrendiamo.

ANTÔNIO BISPO DOS SANTOS




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Beatriz Milhazes

Beatriz Milhazes è oggi la più significativa artista brasiliana a indagare il colore nel campo allargato della pittura, e nel suo lavoro infrange i confini tra astratto e figurativo, arte alta e bassa. Dopo avere studiato pittura presso la Escola de Artes Visuais do Parque Lage di Rio de Janeiro (1980-1982), vicino al suo attuale studio, a partire dagli anni Ottanta mette a punto un proprio lessico visivo e un metodo, una combinazione di pittura, monotipia, collage e monostampa, con cui sfida il piatto spazio modernista introdotto da artisti come Matisse, Sonia Delaunay e Mondrian. Milhazes manipola una collezione diversificata di motivi che includono elementi barocchi latino-americani e brasiliani, fiori, decorazioni di carnevale, pizzi, design di lusso, icone pop e motivi Op Art. Nel suo lavoro sono presenti riferimenti ad artiste brasiliane

come Tarsila do Amaral e Ione Saldanha, o a movimenti come il Neo-concretismo. Li combina, costruendo strati saturi e composizioni altamente dinamiche. A partire dal 2000, Milhazes ha esposto in Brasile, Colombia, Venezuela, Argentina, Stati Uniti, Giappone, Francia, Germania e Gran Bretagna. Ha anche realizzato murales in vinile e vetrate colorate all’interno di spazi pubblici. I cinque dipinti di grandi dimensioni di Milhazes, creati appositamente per il Padiglione Arti Applicate, fanno riferimento alla tavolozza e ai motivi di una varietà di tessuti tradizionali di diverse culture, molti dei quali sono esposti all’interno dello stesso museo. Per Milhazes, le loro strutture complesse creano “un’incredibile fonte di motivi” basati sull’osservazione umana della regolarità intrinseca della natura. In Memórias do Futuro I,

RIO DE JANEIRO, BRASILE, 1960 VIVE A RIO DE JANEIRO

il suo repertorio personale di bersagli, raggi, onde e motivi floreali si interseca con le tonalità e i pattern ricavati da questi tessuti. Le sue incisive pennellate su campiture di colore monostampa danno vita a spettacolari aggregati cromatici. Queste vibranti composizioni sono il risultato di una griglia sottostante e di decisioni calibrate, che rispecchiano la complessità dei nodi dell’arazzo monumentale presente nel padiglione. Il titolo dell’opera, Pindorama (20202022), è il termine utilizzato dal popolo tupi-guaraní per indicare il territorio brasiliano prima della colonizzazione.

PROMOTORI

La Biennale Di Venezia con il Victoria and Albert Museum, Londra CURATORE

Adriano Pedrosa ARTISTA

Beatriz Milhazes

Beatriz Milhazes ha rappresentato il Brasile alla Biennale Arte nel 2003. — Luiza Interlenghi

The Golden Egg, 2023 Acrilico su lino, 280 × 300 cm. Photo Pepe Schettino. Collezione privata. © Beatriz Milhazes.


PROGETTO SPECIALE

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Colorido Cósmico, 2023 Acrilico su lino, 280 × 320 cm. Photo Pepe Schettino. Collezione privata. © Beatriz Milhazes.

PADIGLIONE ARTI APPLICATE

Meia-noite, meio-dia, 2023 Acrilico su lino, 280 × 300 cm. Photo Pepe Schettino. Collezione privata. © Beatriz Milhazes.


636 BIENNALE ARTE 2024


637 PROGETTO SPECIALE PADIGLIONE ARTI APPLICATE

Pindorama, 2020-2022 Arazzo in lana e seta, 321 × 750 cm. Courtesy Art in Embassies, Dipartimento di Stato degli Stati Uniti.



STRANIERI A NOI STESSI, ROMA, DONZELLI EDITORE, 2014.

Straniero: rabbia strozzata in fondo alla gola, angelo nero che turba la trasparenza, traccia opaca, insondabile. Figura dell’odio e dell’altro, lo straniero non è né la vittima romantica della nostra pigrizia familiare né l’intruso responsabile di tutti i mali della città. Né la rivelazione attesa né l’avversario immediato da eliminare per pacificare il gruppo. Stranamente, lo straniero ci abita: è la faccia nascosta della nostra identità, lo spazio che rovina la nostra dimora, il tempo in cui sprofondano l’intesa e la simpatia. Riconoscendolo in noi ci risparmiamo di detestarlo in lui. Sintomo che rende appunto il “noi” problematico, forse impossibile, lo straniero comincia quando sorge la coscienza della mia differenza e finisce quando ci riconosciamo tutti stranieri, ribelli ai legami e alle comunità.

JULIA KRISTEVA


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Pacita Abad Haitians Waiting At Guantanamo Bay, 1994 Olio, stoffa dipinta, bottoni e perline su tela cucita e imbottita 238,8 x 175,3 cm Pacita Abad Art Estate Con il supporto aggiuntivo di Tina Kim Gallery Filipinas in Hong Kong, 1995 Acrilico su tela cucita e imbottita 270 x 300 cm Art Jameel Collection Con il supporto aggiuntivo di Silverlens Galleries You Have to Blend In, Before You Stand Out, 1995 Olio, stoffa dipinta, lustrini, bottoni su tela cucita e imbottita 294,6 x 297,2 cm Pacita Abad Art Estate Con il supporto aggiuntivo di Tina Kim Gallery

Mariam Abdel-Aleem Clinic, 1958 Olio su tavola 77 x 83 cm Collezione Barjeel Art Foundation, Sharja Con il supporto aggiuntivo di Barjeel Art Foundation

Etel Adnan Untitled, 1965 Olio su tela 50 x 43,1 cm Estate of the Artist Con il supporto aggiuntivo di SfeirSemler Gallery, Beirut / Amburgo

Sandy Adsett Waipuna, 1978 Acrilico su tavola 101,7 x 101,7 Auckland Art Gallery Toi o Tāmaki

Zubeida Agha Composition, 1988 Olio su tela 91,4 x 76,2 cm Collezione Taimur Hassan Con il supporto aggiuntivo di Taimur Hassan

Dia al-Azzawi A Wolf Howls: Memories of a Poet, 1968 Olio su tela 84 x 104 cm Collezione Barjeel Art Foundation, Sharja Con il supporto aggiuntivo di Barjeel Art Foundation

Claudia Alarcón Fwokachaj kiotey [Orecchie di armadillo], 2023 Fibra di chaguar filata a mano, tinture naturali della foresta nativa, tessuto, punto antico 133 x 122 cm Collezione Estrellita B. Brodsky Kates tsinhay [Donna stella], 2023 Fibra di chaguar filata a mano, tinture naturali della foresta nativa, tessuto, punto “yica” 175 x 181 cm Collezione Antonio Murzi & Diana Morgan

Claudia Alarcón & Silät Chelhchup [Autunno], 2023 Fibra di chaguar filata a mano, tinture naturali e anilina, tessuto, punto “yica” 160 x 142 cm Fwuyetil [Inverno], 2023 Fibra di chaguar filata a mano, tinture naturali e anilina, tessuto, punto “yica” 133 x 108 cm Ifwala [Il giorno], 2023 Fibra di chaguar filata a mano, tinture naturali e anilina, tessuto, punto “yica” 105 x 108 cm Honatsi [La notte], 2023 Fibra di chaguar filata a mano, tinture naturali e anilina, tessuto, punto “yica” 145 x 127 cm Collezione Paola Creixell

Inawop [Primavera], 2023 Fibra di chaguar filata a mano, tinture naturali e anilina, tessuto, punto “yica” 159 x 104 cm Collezione privata Yachup [Estate], 2023 Fibra di chaguar filata a mano, tinture naturali e anilina, tessuto, punto “yica” 136 x 122 cm

ESTRANJEROS EN TODAS PARTES

Self-Portrait, 1975 Olio su tela 130 x 100,5 cm Dono dell’Artista / Collezione della National Gallery Singapore Con il supporto aggiuntivo della National Gallery Singapore, Ministero della Cultura, Comunità e Gioventù di Singapore

Rafa al-Nasiri Untitled, 1971 Acrilico su tela 100 x 105,5 cm Mathaf: Arab Museum of Modern Art, Doha, Qatar Con il supporto aggiuntivo di Mathaf, Arab Museum of Modern Art, Doha, Qatar

Miguel Alandia Pantoja Imilla, 1960 Olio su cartone pressato 77,4 x 59,5 cm Museo Nacional de Arte - Fundación Cultural del Banco Central de Bolivia

Aloïse Cloisonné de théâtre, 1941-1951 Matite colorate parzialmente acquerellate e succo di geranio su dieci fogli di carta cuciti assieme 1404 x 99 cm L’Angleterre – Trône de Dehli, 1951-1960 Matite colorate su due fogli di carta cuciti insieme 70 x 98 cm Luxembourg bal Sylvestre, 1951-1960 Matite colorate su due fogli di carta cuciti insieme 156 x 91 cm Noël, 1951-1960 Tecnica mista su 4 fogli di carta cuciti insieme 82 x 117 cm Ben Hur à Parigi, 1960-1963 Pastelli a olio su carta 69,5 x 49,5 cm Cléopâtre Pape - was bitten gold, 1960-1963 Pastelli a olio su carta 61 x 47 cm Gloria in excelsis Deo Chanteuse Bornod, 1960-1963 Pastelli a olio su carta 101 x 72 cm

STRANIERI OVUNQUE

Tutte le opere sono per gentile concessione dell’artista, salvo diversa indicazione. Le dimensioni sono indicate in centimetri, altezza × larghezza x profondità. Se si tratta di copie da esposizione, sono indicate le dimensioni dell’originale. L’elenco è completo e definito al 19 febbraio 2024. Le didascalie e i credits delle immagini presenti in questa pubblicazione sono stati redatti con la massima cura. Eventuali errori o domissioni non sono intenzionali e saremo lieti di inserire didascalie e crediti appropriati nelle prossime edizioni se nuove informazioni dovessero giungere all’attenzione della Biennale.

Affandi

Liberté Patrie, 1960-1963 Pastelli a olio su carta 91 x 71 cm Tutte le opere Collezione Christine e Jean-David Mermod 643

Elenco delle opere presenti in Mostra


BIENNALE ARTE 2024

Giulia Andreani

Pretty Vacant (Diva Derelitta), 2014 Acrilico su tela 130 x 97 cm La scuola di taglio e cucito, 2023 Acquerello su carta 140 x 300 cm Conservative Ghost (Aetas Ferrea), 2024 Acrilico su tela 130 x 97 cm L’inconnu.e de la scène (aire mauve pâle, aire vert pâle), 2024 Vetro di Murano 30 x 30 x 50 cm (circa) In collaborazione con Fonderia Artistica Brollo and Nicola Moretti Murano Le Fanciulle Laboriose, 2024 Acrilico su tela 150,5 x 200 cm Pour elles toutes (Myrninerest), 2024 Acrilico su tela 190,5 x 400,5 cm Tutte le opere con il supporto aggiuntivo dell’Institut français

ELENCO DELLE OPERE PRESENTI IN MOSTRA

Claudia Andujar Catrimani, dalla serie A casa, 1974 Ingrandimento analogico alla gelatina e argento su carta opaca Ilford Multigrade Classic, con viraggio al selenio 40 x 60 cm Catrimani, dalla serie O reahu, 1974 Ingrandimento analogico alla gelatina di argento su carta opaca Ilford Multigrade Classic, con viraggio al selenio 40 x 60 cm Convidados enfeitados para festa com penugem de gavião, fotografado em múltipla exposição, Catrimani, dalla serie O reahu, 1974 Ingrandimento analogico alla gelatina di argento su carta opaca Ilford Multigrade Classic, con viraggio al selenio 40 x 60 cm Untitled, from A casa series, 1974 Ingrandimento analogico alla gelatina di argento su carta opaca Ilford Multigrade Classic, con viraggio al selenio 40 x 60 cm

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Xirixana Xaxanapi thëri mistura mingau de banana em cocho suspenso, capaz de armazenar até 200 litros de alimento para as festas, Catrimani, dalla serie A casa, 1974 Ingrandimento analogico alla gelatina di argento su carta opaca Ilford Multigrade Classic, con viraggio al selenio 40 x 60 cm

Yanomami, dalla serie A casa, 1974 Ingrandimento analogico alla gelatina di argento su carta opaca Ilford Multigrade Classic, con viraggio al selenio 40 x 60 cm Tutte le opere con il supporto aggiuntivo di Galeria Vermelho

María Aranís La negra, 1931 Olio su tela 64,8 x 54 cm Collezione Museo Nacional de Bellas Artes, Santiago del Cile Con il supporto aggiuntivo del Ministero della Cultura, Arti e Patrimonio e del Ministero degli Affari Esteri, Governo del Cile

Aravani Art Project Diaspore, 2024 Murale 2715 x 600 cm

Iván Argote Paseo, 2022 Video 4K 23’ 30” Descanso, 2024 Pietra arenaria scolpita, piante migranti e piante locali della regione in cui l’opera è presentata 180 x 3300 x 900 cm. Con il supporto di Albarrán Bourdais; Perrotin e Vermelho Tutte le opere con il supporto aggiuntivo dell’Institut français

Karimah Ashadu Machine Boys, 2024 Video digitale HD 16:9, colore, canale singolo, serround 5.1 8’ 50” Prodotto dalla Fondazione In Between Art Film Con il supporto addizionale di MOIN Filmförderung, Amburgo, Schleswig-Holstein Wreath (Machine Boys), 2024 Ottone 100 x 100 x 10 cm Tutte le opere con il supporto aggiuntivo di ifa — Institut für Auslandsbeziehungen

Dana Awartani Come, let me heal your wounds. Let me mend your broken bones, 2024 Rammendo su seta tinta con medicinali 520 x 1250 x 297 cm Con il supporto aggiuntivo di Diriyah Biennale Foundation

Aycoobo (Wilson Rodríguez) Amanecer, 2022 Acrilico su carta 70 x 100 cm

Bahia del amazonas, 2022 Acrilico su carta 70 x 100 cm Laguna misterioso, 2022 Acrilico su carta 70 x 100 cm Madre naturaleza, 2022 Acrilico su carta 70 x 100 cm Mandalas, 2022 Acrilico su carta 50 x 70 cm Naturaleza 2, 2022 Acrilico su carta 70 x 100 cm Vibración, 2022 Acrilico su carta 70 x 100 cm Calendario, 2023 Vernice acrilica su carta Fabriano 70 x 100 cm Tutte le opere con il supporto aggiuntivo di Instituto de Visión

Margarita Azurdia Untitled, dalla serie Geométricas, 1976 Acrilico su tela 218 x 162 cm Asociación Milagro de Amor / Collezione Margarita Azurdia

Leilah Babirye Rukirabasaija from the Kuchu Western Bunyoro Kingdom, 2023 Legno, teiere in metallo, metallo saldato e oggetti trovati 320 x 96,5 x 63,5 cm Inhebantu from the Kuchu Eastern Busoga Kingdom, 2023-2024 Ceramica smaltata, filo di ferro, camere d’aria di pneumatici di bicicletta e oggetti trovati 254 x 81,3 x 68,6 cm Oyo Nyimba Kabamba Iguru from the Kuchu Western Tooro Kingdom, 2023-2024 Legno, cera, alluminio, chiodi, bulloni, dadi e rondelle 249 x 68,6 x 61 cm Ssangalyambogo from the Kuchu Central Buganda Kingdom, 2023-2024 Legno, camere d’aria di pneumatici di bicicletta, chiodi, metallo saldato e oggetti trovati 320 x 81,3 x 68,6 cm


Autorretrato Siniestro, 1978 Vernice su legno 200 x 45 x 45 cm Andrés Buhar Con il supporto aggiuntivo di Arthaus Foundation Buenos Aires

Ezekiel Baroukh Baigneuse, 1952-54 ca. Olio su tela 82 x 142 cm Ramzi e Saeda Dalloul Art Foundation Con il supporto aggiuntivo di Ramzi e Saeda Dalloul Art Foundation

Aly Ben Salem Femme au Paon, n.d. Gouache su carta 122 x 89 cm Ramzi e Saeda Dalloul Art Foundation Con il supporto aggiuntivo di Ramzi e Saeda Dalloul Art Foundation

Semiha Berksoy My Mother The Painter Fatma Saime, 1965 Olio su masonite 93 x 65 cm Con il supporto aggiuntivo di Galerist, Istanbul

Gianni Bertini La Toile de Penelope, 1959 Collage di tessuti 146 x 165 cm Collezione Thierry Bertini Con il supporto aggiuntivo di Thierry Bertini e Frittelli Arte Contemporanea

Lina Bo Bardi Cavaletes de vidro, 1968/2024 Calcestruzzo, vetro, legno, neoprene e acciaio inossidabile 240 x 75 cm; 240 x 100 cm; 240 x 150 cm; 240 x 210 cm Basato sul progetto originale dell’architetto Lina Bo Bardi. Riproduzione autorizzata dall’Istituto Bardi

Pedra Robat, matriz, 1974 Matrice di un legno molto speciale (Pau D’Alho), utilizzato per la stampa in xilografia 97 x 86 x 11 cm Pedra Robat, matriz, 1974 Matrice di un legno molto speciale (Pau D’Alho), utilizzato per la stampa in xilografia 97 x 86 x 11 cm Tutte le opere con il supporto aggiuntivo di Maria Bonomi

Bordadoras de Isla Negra Untitled, 1972 Tela ricamata 230 x 774 cm Collezione Centro Cultural Gabriela Mistral Con il supporto aggiuntivo di Ministero della Cultura, delle Arti e del Patrimonio e del Ministero degli Affari Esteri, Governo del Cile

Victor Brecheret Vierge à l’enfant, 1923-24 Marmo 142 x 34 x 27 cm Collezione privata Con il supporto aggiuntivo di Almeida & Dale Galeria de Arte

Huguette Caland Suburb, 1969 Olio su tela 100,5 x 100,5 cm Mathaf: Arab Museum of Modern Art, Doha, Qatar Con il supporto aggiuntivo di Mathaf: Arab Museum of Modern Art, Doha, Qatar

Sol Calero Pabellón Criollo, 2024 Tecnica mista Dimensioni variabili Con il supporto aggiuntivo di The Bukhman Family Foundation; Fondazione Sandretto Re Rebaudengo; Cristalfarma; Museo Centro de Arte Dos de Mayo, Madrid; Collezione Silvia Fiorucci, Monaco; Mauvilac; Saikalis Bay Foundation; Charlotte Meynert e Henrik Persson; Gruppo Bardelli; Colorobbia; Terreal San Marco; Antonio Murzi & Diana Morgan; Tiqui Atencio Demirdjian; Rebiennale | R3B; Anna Guggenbuehl; Diego Grandi; Leslie Ramos; Francesca Minini, Milano; Crèvecœur, Parigi; ChertLüdde, Berlino

Elda Cerrato

Maternidad, 1971 Acrilico su tela 115 x 81 cm Collezione Ama Amoedo

‫פרעמדע אומעטום‬

Pedra Robat, 1974 Stampa xilografica 132 x 95 cm

Mohammed Chebaa Composition, 1974 Acrilico su tela 101 x 237 cm Ramzi e Saeda Dalloul Art Foundation Con il supporto aggiuntivo di Dalloul Art Foundation

Georgette Chen Self Portrait, 1946 ca Olio su tela 22,5 x 17,5 cm Dono di Lee Foundation / Collezione della National Gallery Singapore Con il supporto aggiuntivo della National Gallery Singapore e del Ministero della Cultura, Comunità e Gioventù di Singapore

Galileo Chini La notte al Watt Pha Cheo, 1912 Olio su compensato 79,5 x 65,5 cm Con il supporto aggiuntivo di Galleria Gomiero

Kudzanai Chiurai We Live in Silence, 2017 Film a canale singolo 41’ 40” What more can one ask for?, 2017 Teodolite, recinzione di sicurezza e terra rossa 200 x 200 x 200 cm Black Vanguard Comunique 1, 2024 Pittura a olio e pastelli a olio 180 x 220 cm Black Vanguard Comunique 2, 2024 Pittura a olio e pastelli a olio 180 x 220 cm Black Vanguard Comunique 3, 2024 Pittura a olio e pastelli a olio 180 x 220 cm Black Vanguard Comunique 4, 2024 Pittura a olio e pastelli a olio 180 x 220 cm Black Vanguard Comunique 5, 2024 Pittura a olio e pastelli a olio 180 x 220 cm

STRANIERI OVUNQUE

Libero Badii

Maria Bonomi

Black Vanguard Comunique 6, 2024 Pittura a olio e pastelli a olio 180 x 220 cm Tutte le opere con il supporto aggiuntivo di Goodman Gallery

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Ugangi from the Kuchu Acholi Region, 2024 Ceramica, filo di ferro, guaine elettriche, camere d’aria di pneumatici di bicicletta e oggetti trovati 273 x 84 x 84 cm Tutte le opere con il supporto aggiuntivo di Stephen Friedman Gallery, Londra e New York; Gordon Robichaux, New York


BIENNALE ARTE 2024

Isaac Chong Wai

Falling Reversely, 2021-24 Video-installazione Dimensioni variabili Falling Reversely, 2021-24 Performance Performer: Isaac Chong Wai, Ichi Go, Ryota Maeda, Vasundhara Srivastava e altri Sound: Nobutaka Shomura Tutte le opere con il supporto aggiuntivo di Hong Kong Arts Development Council; Burger Collection e la TOY family; Sunpride Foundation; Ammodo; Hong Kong Economic and Trade Office, Bruxelles; Blindspot Gallery, Hong Kong | Zilberman, Istanbul, Berlino e Miami; Berlino Senate Department for Culture and Social Cohesion; ifa – Institut für Auslandsbeziehungen

Saloua Raouda Choucair

ELENCO DELLE OPERE PRESENTI IN MOSTRA

Self-Portrait, 1943 Olio su tela 44 x 32 cm Saloua Raouda Choucair Foundation Rhythmical Composition with White Sphinx, 1951 Olio su tela 88 x 116 cm Mathaf: Arab Museum of Modern Art, Doha, Qatar Con il supporto aggiuntivo di Mathaf: Arab Museum of Modern Art, Doha, Qatar

Chaouki Choukini Paysage au clair de lune, 1979 Wenge 63,5 x 59,5 x 28 cm Collezione Sheikh Zayed bin Sultan bin Khalifa Al Nahyan Colonne, 1983 Wenge 82 x 33 x 13 cm Collezione Olivier Georges Mestelan Villages Lointanes, 1993 Wenge 55 x 79 x 24 cm Frontale, 1996 Iroko 84 x 50 x 15 cm Dame de coeur, 2007 Rovere e bubinga 42,5 x 43,5 x 19 cm Collezione Sharja Art Foundation Vol d’Oiseau, 2008 Iroko 84 x 39 x 7 cm

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Blessure de Gaza, 2009 Rovere 80 x 36 x 15 cm Collezione Fairouz e Jean-Paul Villain

Claire de lune, 2011-12 Iroko 97 x 19 x 19 cm Collezione Sharja Art Foundation Transcendance 2, 2013-14 Iroko 102 x 39 x 20 cm Obscure 2, 2014-15 Iroko 77 x 18 x 19 cm Collezione Yasmin Al Atassi Chardon, 2015 Mogano Sipo 160,5 x 57 x 23 cm Collezione Anurag Khanna Mirage, 2018 Iroko 96 x 40 x 14 cm Improvisation 3, 2020 Mogano Sipo 58,5 x 17 x 13 cm Tutte le opere con il supporto aggiuntivo di Green Art Gallery, Dubai; Institut français

Chua Mia Tee Road Construction Worker, 1955 Olio su tela 96 x 66 cm Collezione della National Gallery Singapore / adottato da Seah & Siak Con il supporto aggiuntivo della National Gallery Singapore e del Ministero della Cultura, Comunità e Gioventù di Singapore

Claire Fontaine Foreigners Everywhere / Stranieri Ovunque (60th International Art Exhibition / 60. Esposizione Internazionale d’Arte), 2004-2024 Sessanta neon sospesi, montati a parete o a finestra, struttura, trasformatori, cavi e accessori. Dimensioni e colori variabili Foreigners Everywhere (Selfportrait), Stranieri Ovunque (Autoritratto), 2024 Neon bifacciali, montati a parete o in finestra, struttura, trasformatori, cavi e accessori. Dimensioni e colori variabili Stranieri Ovunque (Autoritratto), Foreigners Everywhere (Self-portrait), 2024, Neon bifacciali, montati a parete o a finestra, struttura, trasformatori, cavi e accessori. Dimensioni e colori variabili Tutte le opere con il supporto di Dior, Parigi

Manauara Clandestina Building, 2021-2024 Video 5’ 37”

Manauara Clandestina in collaboration with Luiz Felipe Lucas Migranta, 2020-2023 Video 17’ Tutte le opere con il supporto aggiuntivo di Inclusartiz; Delfina Foundation; Pirámidon Centre d’Art Contemporani

River Claure Botas, dalla serie Warawar Wawa, 2019 Stampa a pigmenti su carta opaca di cotone 308 gsm 33 x 22 cm Capa, dalla serie Warawar Wawa, 2019 Stampa a pigmenti su carta opaca di cotone 308 gsm 33 x 22 cm Cordero, dalla serie Warawar Wawa, 2019 Stampa a pigmenti su carta opaca di cotone 308 gsm 108 x 72 cm Estrella, dalla serie Warawar Wawa, 2019 Stampa a pigmenti su carta opaca di cotone 308 gsm 63 x 42 cm San Cristobal, dalla serie Warawar Wawa, 2019 Stampa a pigmenti su carta opaca di cotone 308 gsm 63 x 42 cm Villa Adela, dalla serie Warawar Wawa, 2019 Stampa a pigmenti su carta opaca di cotone 308 gsm 162 x 108 cm Yatiri, dalla serie Warawar Wawa, 2019 Stampa a pigmenti su carta opaca di cotone 308 gsm 108 x 72 cm 800 bs, dalla serie Warawar Wawa, 2019 Stampa a pigmenti su carta opaca di cotone 308 gsm 75 x 50 cm Cerro 4, dalla serie Warawar Wawa, 2023 Stampa a pigmenti su carta opaca di cotone 308 gsm 88 x 70 cm Don Raymundo, dalla serie Mita, 2023 Stampa a pigmenti su carta opaca di cotone 308 gsm 113 x 90 cm Km 168, dalla serie Mita, 2023 Stampa a pigmenti su carta opaca di cotone 308 gsm 88 x 70 cm


Virgen cerro 3, dalla serie Mita, 2023 Stampa a pigmenti su carta opaca di cotone 308 gsm 175 x 140 cm 7 adultos y un niño en el paisaje, dalla serie Mita, 2023 Stampa a pigmenti su carta opaca di cotone 308 gsm 175 x 140 cm 26, dalla serie Mita, 2023 Stampa a pigmenti su carta opaca di cotone 308 gsm 135 x 108 cm Tutte le opere con il supporto aggiuntivo di Fundación Simon I. Patiño

Julia Codesido Vendedora Ayacuchana, 1927 ca. Olio su tela 95 x 110 cm Museo de Arte de Lima. Comité de Formación de Colecciones 2017

Liz Collins Rainbow Mountains: Moon, 2023 Tessuto 340 x 373 cm Rainbow Mountains: Weather, 2023 Tessuto 340 x 425 cm Tutte le opere con il supporto aggiuntivo di Candice Madey

Jaime Colson Japonesa, 1926 Olio su cartoncino 39,5 x 32 cm Collezione Museo Bellapart

Waldemar Cordeiro Untitled, 1963 Olio su tela 75 x 74,5 cm Con il supporto aggiuntivo di Luciana Brito Galeria, San Paolo

Monika Correa No Moon Tonight, 1974 Cotone grezzo, lana tinta a più colori, 180 x 93 cm Collezione Lorenzo Legarda Leviste e Fahad Mayet

Olga Costa Autorretrato, 1947 Olio su tela 90 x 75 cm Collezione Andrés Blaisten, Messico

Miguel Covarrubias El Hueso, 1940 Olio su tela 77,2 x 61,6 cm Museo Nacional de Arte / INBAL

Victor Juan Cúnsolo Paisaje de La Rioja, 1937 Olio su pannello 69 x 58 cm Collezione Neuman, Buenos Aires Con il supporto aggiuntivo di Collezione Neuman

Andrés Curruchich Procesión: patrón de San Juan está en su trono, 1966 Olio su tela 43,5 x 48,3 cm Collezione di El Museo del Barrio, New York. Dono di Gale Simmons, Craig Duncan e Lynn Tarbox in memoria di Barbara Duncan, 2007

Rosa Elena Curruchich Cada año le regala a la gente un su escapulario de hilo bendecido po el Cofrade Mayor, 1980 ca. Olio su tela 17,2 x 16,5 cm Campesinas van hacer una Fiesta. Las muchachas que cortan árboles, 1980 ca. Olio su tela 13,1 x 15,1 cm El muchacho le gusta hacer de madera las fotos de los pájaros, 1980 ca. Olio su tela 13,1 x 16,8 cm El señor Padrino del Imagen, 1980 ca. Olio su tela 11,5 x 16,4 cm Escuela mixta, 1980 ca. Olio su tela 13,3 x 19,2 cm

Estan esperando esposa de un alcalde de otro pueblo, 1980 ca. Olio su tela 14,2 x 16 cm Fueron a traer dinero enterrado, 1980 ca. Olio su tela 13,9 x 16 cm

ËY OMÃ JÊ AKÃTSTÊ

Stela XX (Absence), 2024 Acciaio saldato 246 x 102 x 60 cm (circa) Con il supporto aggiuntivo di Commonwealth and Council Gallery; College of Letters and Science, University of California, Davis; Jan Shrem e Maria Manetti Shrem Museum of Art, UC Davis; Mohn Family Trust

Iglesia San Marcos, 1980 ca. Olio su tela 15 x 16,4 cm La procesión de la resurrección, 1980 ca. Olio su tela 14,3 x 20,5 cm Las dos Mujeres Llevan su Semilla de Maiz a la Iglesia, 1980 ca. Olio su tela 14,3 x 12 cm Las Patojitas las tres en su cumpliaño hace una ceremonia de ellas, 1980 ca. Olio su tela 14,2 x 18,2 cm La señora presentando su imagen ante la gente, 1980 ca. Olio su tela 12,6 x 15,7 cm Mi tio Pablo. Pintando Rosa Elena, 1980 ca. Olio su tela 12 x 15,6 cm Procesión de los patojos visitando Bebes si no tienen Bebe solo adorna tu casa, 1980 ca. Olio su tela 17,8 x 18,7 cm Palo encebado, 1980 ca. Olio su tela 19,7 x 18,5 cm Rosa Elena carriando agua, 1980 ca. Olio su tela 14,2 x 14 cm Rosa Elena van a tejer río chiperen, 1980 ca. Olio su tela 15,3 x 16,4 cm Rosa Elena Curruchich vendiendo comidas. Mi hermanita, 1980 ca. Olio su tela 14,3 x 16,9 cm Un casamiento al monte, 1980 ca. Olio su tela 15,1 x 14,5 cm Un mi hermano muy travieso solo en la calle están varias veces se han perdido, 1980 ca. Olio su tela 14,2 x 17,8 cm

STRANIERI OVUNQUE

Untitled, dalla serie Mita, 2023 Stampa a pigmenti su carta opaca di cotone 308 gsm 100 x 75 cm

Beatriz Cortez

Van a escoger capitana del nuevo año, 1980 ca. Olio su tela 14,3 x 19 cm

647

Ruinas sin titulo, dalla serie Mita, 2023 Stampa a pigmenti su carta opaca di cotone 308 gsm 88 x 70 cm


BIENNALE ARTE 2024

Djanira da Motta e Silva Crianças Kanelas, 1960 Olio su tela 130 x 97 cm Collezione Max Perlingeiro

Olga de Amaral Muro tejido terruño 3, 1969 Lana 82 x 53 cm Con il supporto aggiuntivo di Lisson Gallery

Filippo de Pisis La bottiglia tragica, 1927 Olio su cartone 53,8 x 66 cm Collezione Gallerie d’Arte Moderna e Contemporanea “Filippo de Pisis” Nudo maschile, 1927 Olio su tela montato su masonite 36 x 45,6 cm Con il supporto aggiuntivo di P420 Gallery

ELENCO DELLE OPERE PRESENTI IN MOSTRA

Il nudino rosa, 1931 Olio su tela 45 x 26 cm Collezione Gallerie d’Arte Moderna e Contemporanea “Filippo de Pisis” Volto di ragazzo, 1931 Acquerello su carta montato su tela 40,9 x 25,9 cm Con il supporto aggiuntivo di P420 Art Gallery Ragazzo con cappello, metà anni Trenta Matita colorata su carta velina 42,4 x 25,5 cm Con il supporto aggiuntivo di P420 Art Gallery Pugile, 1940s Acquerello su carta 48,5 x 35 cm Con il supporto aggiuntivo di P420 Art Gallery Vaso di fiori con ventaglio, 1942 Olio su tela 80,5 x 59,5 cm Con il supporto aggiuntivo di P420 Art Gallery Vaso di fiori, 1952 Olio su tela 51 x 41 cm Con il supporto aggiuntivo di P420 Art Gallery

Juan Del Prete

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Abstracción con material, 1934 Olio, cemento, lastre di rame, bronzo e zinco su cartone 69 x 49 cm Archivo Yente Del Prete Con il supporto aggiuntivo di Galería Roldan Moderno

Pablo Delano

The Museum of the Old Colony, 2024 Installazione Dimensioni variabili Con il supporto aggiuntivo di Trinity College, Uffici della Presidenza e del Preside di Facoltà; Laura Roulet e Rafael Hernandez; Center for Caribbean Studies del Trinity College; Center for Urban and Global Studies del Trinity College

Emiliano Di Cavalcanti Três mulatas (moças do interior), 1922 Olio su tela 60 x 50 cm Collezione Igor Queiroz Barroso, Fortaleza

Danilo Di Prete Untitled, 1954 Olio su tela 59 x 72 cm Collezione privata, San Paolo, Brasile Con il supporto aggiuntivo di Almeida & Dale Galeria de Arte

Cícero Dias Negro, anni Trenta Olio su tela 79 x 52 cm Antonio Almeida e Carlos Dale Jr Collection, San Paolo, Brasile Con il supporto aggiuntivo di Almeida & Dale Galeria de Arte

Disobedience Archive (The Zoetrope) – Marco Scotini Con il supporto aggiuntivo di Open Care - Servizi per l’Arte, Milano e gli studenti del Corso di laurea magistrale in Arti visive e studi curatoriali del NABA, Nuova Accademia di Belle Arti, campus di Milano e Roma

Ursula Biemann Sahara Chronicle, 2006 – 2009 Antologia di 12 video 33’ 13”

Black Audio-Film Collective Handsworth Songs, 1986 Film a colori a 16mm, riversato in video 58’ 33”

Seba Calfuqueo Nunca serás un weye. You will never be a Weye, 2015 Documentazione video della performance 4’ 46”

Simone Cangelosi

Una nobile rivoluzione. Ritratto di Marcella Di Folco, 2014 Video 85’

Cinéastes pour les sans-papiers Les Sans-Papiers parlent: Madjiguène Cissé, 1997 Film a 35mm, riversato in video 3’ 3”

Critical Art Ensemble Gender-Crash, 1995 Video 2’ 48”

Snow Hnin Ei Hlaing Queens’ Palace, 2013 Video 10’ 46”

Marcelo Expósito with Nuria Vila Tactical Frivolity + Rhythms of Resistance, 2007 Video 39’

Maria Galindo & Mujeres Creando Revolución Puta, 2022 Video 52’

Barbara Hammer History of the World According to a Lesbian, 1988 Video 16’ Estate of Barbara Hammer ed Electronic Arts Intermix

mixrice 21st Century Light of the Factory, 2016 Video 10’

Khaled Jarrar Notes on Displacement, 2022 Video 74’

Sara Jordenö KIKI, 2017 Video 94’


Daniela Ortiz

Chi Yin Sim

Maria Kourkouta & Niki Giannari

Thunska Pansittivorakul

Hito Steyerl

Pedro Lemebel Desnudo bajando la escalera, 2014 Documentazione video della performance 2’ 10” Collezione Il Posto Documentos Pisagua, 2006 Documentazione video della performance 3’ 29” Collezione Il Posto Documentos

LIMINAL & Border Forensics (Lorenzo Pezzani, Jack Isles, Giovanna Reder, Stanislas Michel, Chiara Denaro, Alagie Jinkang, Charles Heller, Kiri Santer, Svitlana Lavrenchuk, Luca Obertüfer) Asymmetric Visions: Aerial Surveillance and border control in the Central Mediterranean, 2023 Video 10’ 54”

Angela Melitopoulos Passing Drama, 1999 Video 66’

Jota Mombaça The birth of Urana remix, 2020 Video 21’ 17”

Carlos Motta Corpo Fechado: The Devil’s Work, 2018 Video 24’ 47”

Zanele Muholi Difficult Love, 2010 Video 48’

Pınar Öğrenci Inventory 2021, 2021 Video 15’ 56”

Damnatio Memoriae, 2023 Video 108’ 11”

Anand Patwardhan Bombay, our city, 1985 Video 75’

Pilot TV Collective A Call and An Offering: Pilot TV: Experimental Media for Feminist Trespass, 2006 Documentario di Na Mira e Latham Zearfoss Video 24’

Queerocracy and Carlos Motta A New Discovery, Queer Immigration in Perspective, 2011 Video 9’ 58”

Oliver Ressler and Zanny Begg The Right of Passage, 2013 Video 19’

Carole Roussopoulos Le FHAR (Front homosexuel d’action révolutionnaire), 1971 Bianco e nero, nastro video da 1 pollice 26’ Centre audiovisuel Simone de Beauvoir

Güliz Sağlam 8 Mart 2018 - İstanbul / 8th of March 2018, 2018 Video 3’ 35”

Irwan Ahmett & Tita Salina B.A.T.A.M (Bila Anda Tiba Anda Menyesal) - When You Arrive You’ll Regret, 2020 Video 43’ 52”

Tejal Shah Between the waves, Channel 1, 2012 Video 26’ 14”

Requiem (Internationale, Goodbye Malaya), 2017 Video 12’ 34”

Universal Embassy, 2004 Video 6’ 36”

Sweatmother Transmissions Protest: Gender Inclusive Fashion, 2019 Video 3’ 15” Transmissions Protest: Witness the Real Angels (Anti-Victoria Secret Demo), 2019 Video 1’ 17” Pissed Off Trannies: Zap 1, 2022 Video 2’ 24” Pissed Off Trannies: Stigmata, 2022 Video 21’ 41” Pissed Off Trannies: Zap 3, 2023 Video 4’ 09”

Raphaël Grisey and Bouba Touré Xaraasi Xanne (Crossing Voices), 2022 Video 123’

Nguyễn Trinh Thi Everyday’s the Seventies, 2018 Video 15’

James Wentzy Fight Back, Fight AIDS: 15 Years of ACT UP!, 2002 Video 75’ Želimir Žilnik Inventur - Metzstrasse 11, 1975 Pellicola a colori 16mm, trasferita su video 8’ 57”

Juana Elena Diz

STRANIERI OVUNQUE

Spectres are haunting Europe, 2016 Video 99’

The Brightness of Greedy Europe, 2022 Video 27’ 48”

Lavandera, n.d. Olio su tela 126 x 96 cm Collezione Museo de Arte Moderno di Buenos Aires

649

Transit(s): our traces, our ruin, 2016 Video 40’

ÉTRANGERS PARTOUT

Bani Khoshnoudi


BIENNALE ARTE 2024

Tarsila do Amaral

Estudo (Academia no. 2), 1923 Olio su tela 61 x 50 cm Collezione privata Con il supporto aggiuntivo di Almeida & Dale Galeria de Arte

Saliba Douaihy Regeneration, 1974 Acrilico su tela 152 x 202,5 cm Collezione Taimur Hassan Con il supporto aggiuntivo di Taimur Hassan

Dullah Istriku, 1953 Olio su tela 102 x 83 cm National Gallery of Indonesia

Inji Efflatoun

650

ELENCO DELLE OPERE PRESENTI IN MOSTRA

Prisoner, 1963 Olio su legno 56,5 x 43,5 cm Ramzi and Saeda Dalloul Art Foundation Con il supporto aggiuntivo di Ramzi and Saeda Dalloul Art Foundation

Uzo Egonu Guinean Girl, 1962 Olio su tela 76 x 63,5 cm Estate of the Artist, Londra Con il supporto aggiuntivo di Grosvenor Gallery, Londra

Mohammad Ehsaei Untitled, 1974 Olio su tela 120 x 79 cm

Hatem El Mekki La Femme et le Coq, 1950s Olio su tela 64,7 x 50 cm Collezione Barjeel Art Foundation, Sharja Con il supporto aggiuntivo di Barjeel Art Foundation

Aref El Rayess

Toli’ al Bader Alaina (Moonrise), 1982 Olio su tela 60 x 91 cm Estate of the Artist Untitled, dalla serie Deserts, 1986 Olio su tela 92 x 122 cm Estate of the Artist Untitled, dalla serie Deserts, 1986 Olio su tela 61 x 91,5 cm Estate of the Artist Untitled, dalla serie Deserts, 1988 Olio su tela 75,5 x 121,5 cm Estate of the Artist Untitled, dalla serie Deserts, 1988 Olio su tela 76 x 121,5 cm Estate of the Artist Untitled, dalla serie Deserts, 1988 Olio su tela 75,5 x 122 cm Estate of the Artist Untitled, dalla serie Deserts, 1988 Olio su tela 76 x 121,5 cm Collezione Taimur Hassan Tutte le opere con il supporto aggiuntivo di Sfeir-Semler Gallery, Beirut / Amburgo

Ibrahim El-Salahi The Last Sound, 1964 Olio su tela 121,5 x 121,5 cm Collezione Barjeel Art Foundation, Sharja Con il supporto aggiuntivo di Barjeel Art Foundation

Elyla In collaborazione con Milton Guillén Torita-encuetada, 2021 Video 9’ 42”

Ben Enwonwu The Dancer (Agbogho Mmuo - Maiden Spirit Mask), 1962 Olio su tela 93 x 62 cm Ben Uri Gallery e Museum

Romany Eveleigh

Pages 9, 1973 Olio e inchiostro da stampante su carta, montata su tela di lino 37,5 x 35 cm Collezione Beth Rudin DeWoody, New York Tri-Part, 1974 Olio e inchiostro da stampante su carta, montata su tela di lino 78 x 70 cm ciascuno Collezione Liz Sterling, New York 1/2 Eight, 1974 Pittura e inchiostro da stampante su carta, montata su tela di lino 123 x 131,5 cm Collezione Tia, Santa Fe, New Mexico Tutte le opere con il supporto aggiuntivo di Richard Saltoun Gallery

Hamed Ewais Le Gardien de la vie, 1967-68 Olio su tela 132 x 100 cm Collezione Barjeel Art Foundation, Sharja Con il supporto aggiuntivo di Barjeel Art Foundation

Dumile Feni Head, 1981 ca. Bronzo 52 x 20 x 27 cm Norval Foundation Con il supporto aggiuntivo di Norval Foundation

Alessandra Ferrini Gaddafi in Rome: Anatomy of a Friendship, 2024 Installazione video Dimensioni variabili

Cesare Ferro Milone Me Chani Ballerina della Regina, 1925 Olio su tela 95 x 73 cm Collezione Giovanni Ferro Milone, Vicenza

Raquel Forner Autorretrato, 1941 Olio su tela 186 x 141 cm Museo Provincial de Bellas Artes Emilio Pettoruti / Forner-Bigatti Foundation of Buenos Aires


Huddle, dalla serie Dance Constructions, 1961 Performance 10’ The Museum of Modern Art, New York. Committee on Media and Performance Art Funds. © 2024 The Museum of Modern Art, New York. Tutte le opere con il supporto di Galleria Raffaella Cortese | Milano - Albisola; The Box, Los Angeles

Victor Fotso Nyie Malinconia, 2020 Ceramica smaltata e oro 37 × 25 × 30 cm Veglia, 2023 Ceramica smaltata e oro 22 × 60 × 42 cm Gioia, 2023 Ceramica smaltata e oro 45 × 35 × 40 cm Tutte le opere con il supporto aggiuntivo di P420 Gallery

Louis Fratino I keep my treasure in my ass, 2019 Olio su tela 217,8 x 165,1 cm Collezione privata Metropolitan, 2019 Olio su tela 152,4 x 240,7 cm Collezione Tom Keyes e Keith Fox My Meal, 2019 Olio su tela 109,2 x 119,4 cm Collezione privata Eggs, dishes, coreopsis, 2020 Olio su tela 106,7 x 106,7 cm Collezione privata An Argument, 2021 Olio su tela 177,8 x 165,3 cm Collezione David Bolger Kissing my foot, 2024 Olio su tela 144,8 x 198,1 cm Cosmos and miscanthus, 2024 Olio su tela 152,4 x 88,9 cm April (after Christopher Wood), 2024 Olio su tela 200,7 x 157,5 cm

Wine, 2024 Olio su tela 195,6 x 210,8 cm Tutte le opere con il supporto aggiuntivo di Sikkema Jenkins & Co.

Paolo Gasparini Miliciano,Trinidad, Cuba, 1961/2014-2015 Stampa alla gelatina d’argento 60 x 49 cm

Ṣàngódáre Gbádégẹsin Àjàlá Sacrifice for iroko, god and tree, 2012 Batik 180 x 248 cm Akíntúndé Ṣàngóṣakin Àjàlá Unknown title (Ògún, hunters), s.d. Batik 126 x 82 cm Augustine Merzeder-Taylor Unknown title (pidán dancing, dancer stepping on a nail), s.d. Batik 114 x 91 cm Edith Lukesch Unknown title (Ṣọ̀npọ̀nná, also known as Ọbalúayé), s.d. Batik 135 x 88 cm J. & W. Druml Unknown title (abstract batik motif around palm wine tapper scene), s.d. Batik 125 x 93 cm Lucia e Helmut Wienerroither, Austria Unknown title (Ọya pẹlu àṣẹ rẹ, Ọya with her symbols of sacred force, s.d. Batik 148 x 235 cm Lucia e Helmut Wienerroither, Austria Unknown title (a night scene under the moon), s.d. Batik 212 x 168 cm Martha Denk Unknown title (Ṣọ̀npọ̀nná, also known as Ọbalúayé), s.d. Batik 130 x 93 cm Wolfgang e Sieglinde Entmayr Tutte le opere con il supporto aggiuntivo di Susanne Wenger Foundation

Umberto Giangrandi

Bodegón Erotico, 1989 Acrilico e serigrafia su carta 50,7 x 69,2 cm Collezione Proyecto Bachué Con il supporto aggiuntivo di Proyecto Bachué

ΞΕΝΟΙ ΠΑΝΤΟΥ

Alessandro in a seersucker shirt, 2024 Olio su tela 55,9 x 43,2 cm

Madge Gill Crucifixion of the Soul, 1934 Inchiostro colorato su calicò 147,3 × 1061,7 cm London Borough of Newham Heritage and Archives

Marlene Gilson Building the Stockade at Eureka, 2021 Acrilico su lino 100 x 120 cm Collezione Martin Browne Happy Families – time when we all lived together, 2022 Acrilico su lino 76 x 100 cm Collezione Michael Kendall Market Day, 2022 Acrilico su lino 76 x 100 cm Collezione Wesfarmers Culture Learning, 2023 Acrilico su lino 76 x 100 cm Collezione privata Moorabool Falls, 2023 Acrilico su lino 100 x 76 cm Collezione Mark e Louise Nelson Wadawurrung Kurrung (Camp), 2023 Acrilico su lino 60 x 76 cm Collezione Cate Blanchett e Andrew Upton William Buckley Interpreter, 2023 Acrilico su lino 60 x 76 cm Collezione Amelia e Andrew Salter Tutte le opere con il supporto aggiuntivo di Martin Browne Contemporary and Creative Australia

Luigi Domenico Gismondi Indian and Girl with Ethnic Clothes from Cusco, 1917 ca. Gelatina d’argento e carta 24 x 18 cm Riproduzione Collezione Diran Sirinian, Buenos Aires

STRANIERI OVUNQUE

Adventure of Red Hat, Red Hat Pursued with Yellow, 1966 Acquerelli su carta 45,5 x 38 cm Collezione Malagoli, Modena

Domenico Gnoli Sous la Chaussure, 1967 Acrilico e sabbia su tela 185 x 140 cm Collezione Fondazione Prada 651

Simone Forti


BIENNALE ARTE 2024

Gabrielle Goliath

Personal Accounts, 2024 Installazione video e sonora Dimensioni variabili Con il supporto aggiuntivo di Goodman Gallery - Johannesburg, Città del Capo, Londra, New York; Galleria Raffaella Cortese | Milano - Albisola; Kamel Lazaar Foundation; Talbot Rice Gallery e Scott Collins Biennial Commission, in partnership con Outset Contemporary Art Fund.

Brett Graham Wastelands, 2024 Legno, vernice a polimeri sintetici 300 x 1600 x 360 cm Con il supporto aggiuntivo di Creative New Zealand

Fred Graham Whiti Te Rā, 1966 Oil stick su tavola 55 x 129 cm Auckland Art Gallery Toi o Tāmaki

ELENCO DELLE OPERE PRESENTI IN MOSTRA

Ngā Tamariki a Tangaroa (Children of the Sea God), 1970 Legno di mogano 76 x 245 x 12 cm Collezione Colleen Hill Maui Steals the Sun, 1971 Legno di mogano 33 x 105 x 2,5 cm Collezione Inder e Chris Lynch Tinirau and the Whale, 1971 Legno di mogano 33 x 105 x 2,5 cm Collezione Inder e Chris Lynch Tutte le opere con il supporto aggiuntivo di Creative New Zealand

Enrique Grau Hombre Dormido, 1945 Olio su tela 79 x 107 cm Collezione del Banco de la República de Colombia

Oswaldo Guayasamín Cabeza de Hombre Llorando, 1957 Olio su tela 105 x 70 cm Colección de Arte del Banco de la República de Colombia

Nedda Guidi

Scultura Oggetto V, 1965-66 Terracotta in smalto grigio scuro metallizzato e rosso scuro intenso 35,5 x 33 x 24,5 cm Collezione privata, Roma Scultura Oggetto II, 1966 Smalto granulare opaco su terracotta 48 x 46 x 24,5 cm Collezione Biffi, Roma Speculare, 1967 Ceramica smaltata in bianco demimat e blu sèvre 2 elementi Collezione Montaini, Arezzo Modulare III, 1967-68 Ceramica smaltata in rosso rubino e blu sèvre 4 elementi, 29 x 34,5 x 26,5 cm ciascuno Collezione Mingori, Parma Modulare I, 1968 Ceramica smaltata in blu sèvre e rosso rubino 4 elementi, in totale 168 x 28 x 28 cm Collezione privata, Roma Residui, 1971 Terracotta smaltata bianca, terracotta non smaltata 90 elementi, 10,5 x 19 x 15,5 cm ciascuno Collezione privata, Roma Ritmo Esagonale, 1971 Ceramica smaltata grigio-blu 16 elementi, in totale 36 x 46 x 220 cm ca. Collezione privata, Italia Dieci A ( 10A ), 1974 Terracotta In totale 50 x 240 cm – ciascun elemento 8 x 36 x 45 cm Archivio Nedda Guidi, Roma Otto B “Naturale-Artificiale”, 1974 Terracotta non smaltata e terracotta smaltata rosa 8 elementi, in tutto ø 90 cm ca. Museo Internazionale delle Ceramiche in Faenza Tavola di Campionatura n. 1, 1976 Terracotta e ossidi in custodia di legno 50 x 50 cm Collezione Boni, Roma De-posizione (o De-positione), 1977 Terracotta e ossidi 6 x 66 x 155 cm Collezione privata, Roma Raccolta di campionature, 1976 – 1991 Terracotta e ossidi in una scatola di legno 51 x 51 cm Archivio Nedda Guidi, Roma

652

Grande Arco, 1977 Terracotta e ossidi 39 elementi, altezza variabile, totale 342 x 82 cm ca. Archivio Nedda Guidi, Roma

Tavola di Campionatura n° 2, 1977 Terracotta e ossidi in una scatola di legno 50 x 50 cm Collezione Costantini, Todi Tavola di campionatura n. 8 (al cobalto), 1977 Terracotta e ossidi di cobalto in una scatola di legno 51 x 51 cm Archivio Nedda Guidi, Roma Tavola di Campionatura dei residui (o frammenti), 1976-1991 Terracotta e ossidi in una scatola di legno 50 x 50 cm Collezione Cusimano, Palermo Vasi rovesciati o Morandiana, 1988-1996 Terracotta e ossidi 27 elementi singoli Dimensioni variabili Collezioni multiple

Hendra Gunawan My Family, 1968 Olio su tela 197,5 x 145,5 cm Collection of the National Gallery Singapore Con il supporto aggiuntivo della National Gallery Singapore e del Ministero della Cultura, Comunità e Gioventù di Singapore

Antonio Jose Guzman & Iva Jankovic Orbital Mechanics, dalla serie Electric Dub Station, 2024 Tessuto Ajrakh stampato a blocchi tinto con indaco Installazione Site Specific Dimensioni variabili Con il supporto aggiuntivo di Sufiyan Khatri Ajrakh Workshop, Ajrakhpur, India Messengers of the Sun, dalla serie Electric Dub Station, 2024 Performance Performer: Antonio Jose Guzman & Puppets Family Dance Academy, Treviso Percussionisti: Elisa “Helly” Montin e Moulaye Niang Musica: Transillumination #1 / EDS Bass Mash Up Vol. 5 di Guzman & Jankovic Tutte le opere con il supporto aggiuntivo di Mondriaan Fund; Ammodo; The Daphne Oram Trust; The Daphne Oram Collection, Special Collections & Archives, Goldsmiths, Università di Londra

Marie Hadad Untitled, n.d. (1930s ca.) Olio su tela 40 x 60 cm Collezione Barjeel Art Foundation, Sharja Con il supporto aggiuntivo di Barjeel Art Foundation


Lauren Halsey keepers of the krown (antoinette grace halsey), 2024 Calcestruzzo rinforzato con fibre di vetro e materiali misti 125 x 125 x 665 cm keepers of the krown (susan burton), 2024 Calcestruzzo rinforzato con fibre di vetro e materiali misti 125 x 125 x 665 cm keepers of the krown (patrice rushen), 2024 Calcestruzzo rinforzato con fibre di vetro e materiali misti 125 x 125 x 665 cm keepers of the krown (dr. rachel eubanks), 2024 Calcestruzzo rinforzato con fibre di vetro e materiali misti 125 x 125 x 665 cm keepers of the krown (suzette johnson), 2024 Calcestruzzo rinforzato con fibre di vetro e materiali misti 125 x 125 x 665 cm keepers of the krown (robin daniels), 2024 Calcestruzzo rinforzato con fibre di vetro e materiali misti 125 x 125 x 665 cm Con il supporto di David Kordansky Gallery e Gagosian

Nazek Hamdi The Lotus Girl, 1955 Olio su tela 70 x 50 cm Collezione Barjeel Art Foundation, Sharja Con il supporto aggiuntivo di Barjeel Art Foundation

Mohamed Hamidi Harmonie, 1969 Acrilico su tela 162,5 x 103 cm Ramzi e Saeda Dalloul Art Foundation Con il supporto aggiuntivo di Ramzi e Saeda Dalloul Art Foundation

Kadhim Hayder

Elena Izcue Cobián

Thalathat Ashkhas Raqm 20 [Three People no. 20], 1970 Olio su tela 55,5 x 75 cm Collezione Taimur Hassan Con il supporto aggiuntivo di Taimur Hassan

Gilberto Hernández Ortega Marchanta, 1976 Olio su tela 117 x 88 cm Collezione Museo Bellapart

Carmen Herrera Untitled (Halloween), 1948 Acrilico su telo di iuta 96,5 x 123,2 cm Collezione privata

Evan Ifekoya The Central Sun, 2022 Installazione sonora a un canale (altoparlanti, legno, vetro acrilico, styrodur, motore, sughero, tappeto) Dimensioni variabili Sammlung Migros Museum für Gegenwartskunst. Commissionato da Migros Museum für Gegenwartskunst

Julia Isídrez Buo, 2017 Ceramica, 60 x ø 63 cm Collezione Jorge Enciso, Paraguay El mundo de Julia, 2017 Ceramica 87 x 46 cm Denver Art Museum El pez gordo de la buena suerte, 2023 Ceramica 125 x 43 x 40 cm Comma Foundation, Belgio Ginea (Diseño de Juana Marta), 2017 Ceramica 110 x ø 48 cm Grito de libertad, 2019 Ceramica 102 x ø 55 cm Vasija base tinója con tapa dos ranas, 2023 Ceramica 77 x 35 x 35 cm Tutte le opere con il supporto aggiuntivo di Gomide & Co.

Femme et Mur, 1977-1978 Olio su tela 162 x 130 cm Collezione Barjeel Art Foundation, Sharja Con il supporto aggiuntivo di Barjeel Art Foundation

Mujer de Perfil, 1924 Olio su tela 73,8 x 66 cm Museo de Arte de Lima. Donazione Marcela Vidal Layseca

ESTRANXEIROS EN TODAS PARTES

Three Nubians, n.d. Olio su tavola 101,5 x 93,5 cm Ramzi e Saeda Dalloul Art Foundation Con il supporto aggiuntivo di Ramzi e Saeda Dalloul Art Foundation

Mohammed Issiakhem

Bedouin Tent, 1950 Olio su legno 58 x 74 cm Collezione Barjeel Art Foundation, Sharja Con il supporto aggiuntivo di Barjeel Art Foundation

María Izquierdo Autorretrato, 1947 Olio su tela 55 x 45 Collezione Andrés Blaisten, Messico

Nour Jaouda Roots in the sky, 2023 Tessuto tinto a mano, acciaio 250 x 300 cm If the Olive trees knew…, 2023 Tessuto tinto a mano, acciaio 250 x 300 cm Silent Dust, 2023 Tessuto tinto a mano, acciaio 250 x 300 cm

Rindon Johnson For example, collect the water just to see it pool there above your head. Don’t be a Fucking Hero!, 2021 – in corso Pelle grezza, paracord, acqua piovana Coeval Proposition #1- Tear down so as to make flat with the Ground or The*Trans America Building DISMANTLE EVERYTHING, 2024 Sequoia 520 x 125 cm Commissionato da SculptureCenter, Valeria Napoleone (VNXXSC) e Chisenhale Gallery Con un ringraziamento a Rennie Collection, Vancouver, Canada. Tutte le opere con il supporto aggiuntivo di Max Goelitz, Monaco e Berlino; ifa — Institut für Auslandsbeziehungen

Joyce Joumaa

STRANIERI OVUNQUE

Tahia Halim

Faik Hassan

Memory Contours, 2024 Installazione multimediale Dimensioni variabili Biennale College Arte, La Biennale di Venezia

653

Samia Halaby

Black is Beautiful, 1969 Olio su tela 167,5 x 167,5 cm Estate of the Artist Con il supporto aggiuntivo di SfeirSemler Gallery, Beirut / Amburgo


BIENNALE ARTE 2024

Mohammed Kacimi

Nomadic Signs - Abstract composition, 1979 Olio su tela 116 x 75,5 cm Ramzi e Saeda Dalloul Art Foundation Con il supporto aggiuntivo di Dalloul Art Foundation

Frida Kahlo Diego y Yo, 1949 Olio su masonite 30 x 22 cm Collezione Eduardo F. Costantini

Nazira Karimi Hafta, 2024 Installazione audio e video Biennale College Arte, La Biennale di Venezia

George Keyt Nayika - Vasantha Raga, 1943 Olio su tela 89 x 59 cm Collezione Taimur Hassan Con il supporto aggiuntivo di Taimur Hassan

ELENCO DELLE OPERE PRESENTI IN MOSTRA

Bhupen Khakhar Fisherman in Goa, 1985 Olio su tela 168 x 168 cm Con il supporto aggiuntivo di Chemould Prescott Road

Bouchra Khalili The Constellations series, 2011 8 serigrafie su carta 60 x 40 cm ciascuna The Mapping Journey Project, 2008-2011 Installazione video, 8 proiezioni video a canale singolo, colore, suono Dimensioni variabili Sea-Drift, 2024 Ricamo su lino naturale tinto d’indaco 470 x 170 cm Tutte le opere con il supporto aggiuntivo di mor charpentier; Institut français

Kiluanji Kia Henda

A Espiral do Medo [La spirale della paura], 2022 Scultura in ferro. Dimensioni variabili 400 x 400 cm circa Collezione Jahmek Contemporary Art The Geometric Ballad of Fear, 2015 Stampa a getto d’inchiostro su carta di cotone 70 x 100 cm ciascuna Con il supporto aggiuntivo di Galeria Filomena Soares The Geometric Ballad of Fear (Sardegna), 2019 Stampa a getto d’inchiostro su carta fine art 100 x 120 cm ciascuna Con il supporto aggiuntivo di Galeria Filomena Soares

Linda Kohen El Sillón, 1999 Olio su tela 93 x 65 cm

Shalom Kufakwatenzi Mubatanidzwa (Adjoined), 2023 Tessuto di iuta, lana, spago per tabacco, pelle, tela per tappezzeria 240 x 186 cm Under the sea, 2023 Tessuto di iuta, lana, spago per tabacco, filo da pesca 96 x 216 cm

Ram Kumar Women, 1953 Olio su tavola 60,5 x 102 cm Collezione Taimur Hassan Con il supporto aggiuntivo di Taimur Hassan

Fred Kuwornu We Were here: The Untold History of Black Africans in Renaissance Europe, 2024 Video, 45’ Con il supporto aggiuntivo dell’Università del Minnesota, Africa No Filter, OSF

Grace Salome Kwami

654

Girl in Red (Portrait of Gladys Ankora), 1954 ca. Olio su tela di lino 76,2 x 55,8 cm Collezione Pamela Clarkson Kwami

Lai Foong Moi

Labourer (Lunch Break), 1965 Olio su tela 104 x 67 cm National Gallery Singapore Con il supporto aggiuntivo della National Gallery Singapore e del Ministero della Cultura, Comunità e Gioventù di Singapore

Wifredo Lam Untitled (Mujer Caballo), 1942-1946 Olio su tela 106 x 91 cm Collezione Paz Illobre-Orteu Con il supporto aggiuntivo di Silvia Paz Illobre de Orteu

Judith Lauand Acervo 290, concreto 18, 1954 Smalto su pannello 72 x 60 cm Collezione privata, San Paolo, Brasile Con il supporto aggiuntivo di Almeida & Dale Galeria de Arte

Maggie Laubser Meidjie (Young Girl), 1960 ca. Olio su tela 63 x 52,5 cm Norval Foundation Con il supporto aggiuntivo di Norval Foundation

Simon Lekgetho Self-Portrait, 1957 Olio su tavola 38,5 x 38 cm Norval Foundation Con il supporto aggiuntivo di Norval Foundation

Celia Leyton Vidal Millaküyén, 1950 ca. Olio su tela 84 x 71,8 cm Museo Nacional de Bellas Artes, Santiago del Cile Con il supporto aggiuntivo del Ministero delle Culture, Arti e Patrimonio e Ministero degli Affari Esteri, Governo del Cile

Lim Mu Hue Self-Expression, 1957-1963 ca. Olio su tavola 34,3 x 30 cm Dono di Koh Seow Chuan / Collezione di National Gallery Singapore Con il supporto aggiuntivo della National Gallery Singapore e del Ministero della Cultura, Comunità e Gioventù di Singapore


Os meninos de mafalala [The Mafalala Boys], 1963 Olio su tela 137 x 60 cm The Estate of Bertina Lopes The Last Supper Per omnia saecula saeculorum amen [For ever and ever, amen], 1964 Olio su tavola 50 x 180 cm The Estate of Bertina Lopes Totem, 1968 Olio su tela 150 x 130 cm The Estate of Bertina Lopes Collezione di Jeanne Greenberg Rohatyn Griddo grand [Big cry], 1970 Olio su tela 150 x 150 cm The Estate of Bertina Lopes Rais Antica 2 – Una historia verdadeira, 1972 Olio e collage su tela 150 x 130 cm The Estate of Bertina Lopes Tia Collection, Santa Fe, New Mexico Totem, 1983 Olio su tela 120 x 100 cm The Estate of Bertina Lopes Tutte le opere con il supporto aggiuntivo di Richard Saltoun Gallery

Amadeo Luciano Lorenzato Araucárias, 1973 Olio su tavola 61,5 x 45,5 cm Collezione privata Con il supporto aggiuntivo di Gomide & Co.

Anita Magsaysay-Ho Self-Portrait, 1944 Olio su cartoncino Bristol 61 x 48 cm Collezione privata Con il supporto aggiuntivo di National Museum of the Philippines

MAHKU (Movimento dos Artistas Huni Kuin) Kapewe Pukeni [Bridgealligator], 2024 Installazione site-specific 750 metri quadri Con il supporto di Bloomberg; Fundação Bienal de São Paulo; LUMA Foundation

Untitled, 1990 Acrilico su tela 123 x 190 cm The Jean Pigozzi African Art Collection Con il supporto aggiuntivo di Jean Pigozzi

Anna Maria Maiolino Anno 1942, dalla serie Mapas Mentais, 1973-1999 Gouache su inchiostro, trasferibili e segni di bruciature su carta 50,5 x 42,3 cm Con il supporto di Hauser & Wirth INDO & VINDO, 2024 Installazione site-specific consistente in: Ao finito [To infinity] dalla serie Terra Modelada (Modeled Earth), 1994/2024 Installazione di 10 tonellate di argilla modellata in-situ e vegetazione Adjacentes da intuição [Adjacent to intuition], paesaggio sonoro dalla serie Da boca e com a boca [From the Mouth and with the mouth], 2024 Uma estória [A story], 2010/2024 Video digitale 4’ 33” Con il supporto di Hauser & Wirth; Luisa Strina, San Paolo, Brasile; Galleria Raffaella Cortese | Milano - Albisola; Lisa e Tom Blumenthal; Eliane e Alvaro Novis; SIO-2 | Ceramica Collet

Anita Malfatti A mulher de cabelos verdes, 1915 Olio su tela 61 x 51 cm Collezione Airton Queiroz, Fortaleza, Brazil Con il supporto aggiuntivo di Almeida & Dale Galeria

Ernest Mancoba Composition, 1940 Olio su tela 59 x 50,5 cm Collezione privata

Edna Manley Negro Aroused, 1935 Olio su legno 63,5 x 43,1 x 21,5 cm The National Gallery of Jamaica

Josiah Manzi Mfiti Woman and Snake, 1990 Pietra, serpentino nero 182 x 60 x 53 cm National Gallery of Zimbabwe

Teresa Margolles

Tela Venezuelana, 2019 Impronta umana su tessuto 210 x 210 cm

Maria Martins

SVUGDJE STRANCI

Bertina Lopes

Esther Mahlangu

However, 1948 Bronzo 130 x 24 x 32,5 cm Collezione Dalal Achcar Bocayuva Cunha, Brasile Con il supporto aggiuntivo di Almeida & Dale Galeria de Arte

María Martorell Ekho Dos, 1968 Olio su tela 170 x 160 cm Museo de Artes Plásticas Eduardo Sívori de la Ciudad Autónoma de Buenos Aires, Argentina

Mataaho Collective Takapau, 2022 Installazione (fasce in poliestere ad alta visibilità, fibbie in acciaio inossidabile, j-hooks) Configurazione site specific Museum of New Zealand, Te Papa Tongarewa Con il supporto aggiuntivo di Creative New Zealand

Naminapu Maymuru-White Mayaŋura malaŋu miḻŋ’miḻŋ (Stars reflected in the River), 2023 Pittura su corteccia multipannello 300 x 1100 cm circa Con il supporto aggiuntivo di Creative Australia; Sullivan+Strumpf; Sydney e BukuLarrnggay Mulka Centre, Yirrkala

Mohamed Melehi Composition, 1968 Olio su tela 89,8 x 199,6 cm Mathaf: Arab Museum of Modern Art, Doha, Qatar Con il supporto aggiuntivo di Mathaf: Arab Museum of Modern Art, Doha, Qatar

Carlos Mérida Motivo Guatemalteco, 1919 Olio su tela 97,5 x 71,5 cm Collezione The Hugo Quinto e Juan Pablo Lojo

STRANIERI OVUNQUE

Legong Dance, 1939 Olio su tela 113 x 95 cm Collezione Philippe Augier, Museum Pasifika

Gladys Mgudlandlu Two Old Ladies Shopping on a Cold Day, n.d. Vernice in polvere su tavola 67 x 79 cm Collezione privata

655

Romualdo Locatelli


BIENNALE ARTE 2024

Omar Mismar

Ahmad and Akram Protecting Hercules, dalla serie Studies in Mosaics, 2019-2020 Mosaico 130 x 200 cm Hunting Scene (Still from a YouTube video of a barrel bomb falling on Daraya), dalla serie Studies in Mosaics, 2019-20 Mosaico 282,5 × 158 cm

ELENCO DELLE OPERE PRESENTI IN MOSTRA

Iduku, dalla serie Black Men in Dress, 2011 Stampa alla gelatina d’argento realizzata a mano 50 x 40 cm

Fantastical Scene [sic], dalla serie Studies in Mosaics, 2019-20 Mosaico 126 x 190 cm

“EXACT SCIENCE” Kigoma, Lubumbashi, DRC, dalla serie Lubumbashi, 2017 Stampa digitale ultrachrome d’archivio 60 x 50 cm

Parting Scene (with Ahmad, Firas, Mostafa, Yehya, Mosaab), dalla serie Studies in Mosaics, 2023 Mosaico 151 x 201 cm

Jenine, Kigoma, dalla serie Lubumbashi, 2017 Stampa digitale ultrachrome d’archivio 60 x 50 cm

Spring Cleaning, dalla serie Studies in Mosaics, 2022 Mosaico 200 x 220 cm

A roof top photoshoot with the dancers; Tonnex, (Ruby, Nonso and Oshodi), dalla serie The Royal House of Allure, 2019 Stampa digitale ultrachrome d’archivio 50 x 60 cm

Two unidentified lovers in a mirror, 2023 Mosaico 130 x 130 cm Con il supporto aggiuntivo di Adbel Moneim Barakat

Sabelo Mlangeni Faith and Sakhi Moruping Thembisa Township, dalla serie Isivumelwano, 2004 Stampa alla gelatina d’argento realizzata a mano 60 x 50 cm Contestants at Miss Queen of Queens, dalla serie Country Girls, 2008 Stampa alla gelatina d’argento realizzata a mano 60 x 50 cm Bigboy, dalla serie Country Girls, 2009 Stampa alla gelatina d’argento realizzata a mano 60 x 50 cm Oupa ‘Konke enginakho nengiyikho kuyintando KaJehova’, dalla serie Country Girls, 2009 Stampa alla gelatina d’argento realizzata a mano 60 x 50 cm Palisa, dalla serie Country Girls, 2009 Stampa alla gelatina d’argento realizzata a mano 60 x 50 cm Miss Black Pride, dalla serie Black Men in Dress, 2010 Stampa alla gelatina d’argento realizzata a mano 50 x 40 cm

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Identity, dalla serie Black Men in Dress, 2011 Stampa alla gelatina d’argento realizzata a mano 50 x 40 cm

Tumi the singer, Soweto, dalla serie Black Men in Dress, 2010 Stampa alla gelatina d’argento realizzata a mano 50 x 40 cm

James Brown, dalla serie The Royal House of Allure, 2019 Stampa digitale ultrachrome d’archivio 50 x 60 cm Olalere’s body painting shoot (make up artist Thom Smith and Daniel), dalla serie The Royal House of Allure, 2019 Stampa digitale ultrachrome d’archivio 50 x 60 cm Uche, all dressed up, dalla serie The Royal House of Allure, 2019 Stampa digitale ultrachrome d’archivio 50 x 60 cm Tutte le opere con il supporto aggiuntivo di blank projects

Tina Modotti Falce, Pannocchia e Cartucciera, 1928/1985-1995 ca. Stampa alla gelatina d’argento 17 x 13,5 cm Riproduzione stampata da Riccardo Toffoletti su concessione di Vittorio Vidali Collezione Maria Domini, Comitato Tina Modotti

Bahman Mohasses Untitled (Personages), 1966 Olio su cartoncino 70 x 50 cm Collezione Taimur Hassan Con il supporto aggiuntivo di Taimur Hassan

Roberto Montenegro

Pescador de Mallorca, 1915 Olio su tela 100 x 97 cm Museo Nacional de Arte / INBAL

Camilo Mori La viajera, 1928 Olio su tela 100,5 x 70 cm Collezione Museo Nacional de Bellas Artes, Santiago del Cile Con il supporto aggiuntivo di Ministero delle Culture, Arti e Patrimonio e Ministero degli Affari Esteri, Governo del Cile

Ahmed Morsi Portrait of the artist with a broken mirror, 1970 Olio su legno 124 x 81 cm Collezione Barjeel Art Foundation, Sharja Con il supporto aggiuntivo di Barjeel Art Foundation

Effat Naghi Untitled, 1960 Olio e inchiostro su pannello 138,5 x 99,5 cm Ramzi e Saeda Dalloul Art Foundation Con il supporto aggiuntivo di Ramzi e Saeda Dalloul Art Foundation

Ismael Nery Figura decomposta, 1927 Olio su tela 42 x 47,5 cm Collezione privata, San Paolo, Brasile Con il supporto aggiuntivo di Almeida & Dale Galeria de Arte

Malangatana Valente Ngwenya To the Clandestine Maternity Home, 1961 Olio su tela 157 x 180 cm Università di Bayreuth, Germania

Paula Nicho Camino a xejul, 2005 Olio su tela 102 x 122 cm Mi piel y sombrero, 2023 Olio su tela 64 x 84 cm Mi segunda piel chichicastenango, 2023 Olio su tela 64 x 84 cm Saludo al Sol, 2023 Olio su tela 64 x 84 cm


Taylor Nkomo Herdboy, 2022 Springstone 32 x 15 x 37 cm Singing blues, 2022 Cobalto 27 x 11 x 48 cm Wish I could fly, 2022 Verdite 32 x 28 x 19 cm Fashion Girl, 2023 Opale bianco 33 x 25 x 10 cm Shy Girl, 2023 Opale bianco 24 x 17 x 36 cm Thinker, 2023 Cobalto 27 x 23 x 46 cm

Marina Núñez del Prado Madona de Ternura, 1946-51 Granito Comanche 28,8 x 22,5 x 32,8 cm Collezione MAC USP (Museu de Arte Contemporânea da Universidade de São Paulo, Brasile)

Philomé Obin Fete de la Garde Place St Victor, 1945 Olio su pannello di masonite 61,6 x 51,4 cm Lawrence Kent Centenaire du Pont du Haut du Cap, 1947 Olio su pannello di masonite 48,25 x 56,51 cm Colección Chocolate Cortés Deux Deguisés du Carnaval, 1947 Olio su pannello di masonite 38,1 x 47 cm Collezione Chocolate Cortés Missionaire, 1951 Olio su tavola di legno 58,5 x 71 cm Collezione Josh Feldstein Habitiacion Bayuex, 1957 ca. Olio su masonite 40,7 x 50,8 cm Collezione John Branca

Sénèque Obin L’union fait la force, 1954 Olio su masonite 63,5 x 93,3 cm Collezione John Branca Marché Poissons, 1956 Olio su masonite 42 x 53,5 cm Collezione Josh Feldstein Marché Clugny, 1950s-1960s ca. Olio e/o gouache su masonite 69,2 x 87 cm Collezione El Museo del Barrio, New York. Dono di Roslyn e Lloyd Siegel, 2011 Eglise Sacré-Coeur, 1961 Olio su masonite 60 x 76 cm Collezione Josh Feldstein Reception Marriage Interieur, 1966 Olio su tela 43 x 94 cm Collezione Josh Feldstein Funerailles Maçonniques, 1968 ca. Tempera d’uovo su masonite 60,4 x 76,2 cm Collezione El Museo del Barrio, New York. Dono di Daniela Chappard Foundation, 2012

Alejandro Obregón Máscaras, 1952 Olio su tela 210 x 107 cm Collezione National Museum of Colombia

Tomie Ohtake Untitled, 1978 Acrilico su tela 124,8 x 134,8 cm Con il supporto aggiuntivo di National Center for Art Research, Giappone

Uche Okeke Male Model Standing, 1959 Olio su tavola 92,3 x 60,7 cm Collezione di G. Hathiramani

Marco Ospina Abstracto, n.d. Olio su tela 110 x 90 cm Collezione Proyecto Bachué Con il supporto aggiuntivo di Proyecto Bachué

Sunset, 1968 Olio su tela 117 x 77 cm Ramzi e Saeda Dalloul Art Foundation Con il supporto aggiuntivo di Ramzi e Saeda Dalloul Art Foundation

FREMMEDE OVERALT

Bozzetto per lo show-room Olivetti a New York, 1953 Gesso su sabbia con policromia 123,5 x 76 x 7 cm Collezione Museo Nivola, Orani, Nuoro

Samia Osseiran Junblatt

Daniel Otero Torres Aguacero, 2024 Tecnica mista 655 × 1100 × 1100 cm Con il supporto di Paprec; MDBMétiers du bois; Trampoline, Associazione a sostegno della scena artistica francese Parigi; Ministère de la Culture-DRAC Ile-de-France dans le cadre du déploiement des Résidences d’artistes en entreprise; mor charpentier, Bogotá and Paris, Institut français Donde llueve y se desborda, 2024 Ceramica Dimensioni variabili Con il supporto di mor charpentier, Bogotá e Paris

Lydia Ourahmane 21 Boulevard Mustapha Benboulaid (entrance), 1901–2021 Porta in metallo, porta in legno, 9 serrature, cemento, intonaco, mattoni, telaio in acciaio 220 x 200 x 16 cm Stedelijk Museum Amsterdam Lydia Ourahmane in collaboration with Daniel Blumberg sync, 2022-2024 Performance di 24 ore Commissionato da KW Institute for Contemporary Art, Berlino Con il supporto aggiuntivo di Ammodo

Pan Yuliang Back of Nude, 1946 Olio su tela 65 x 50,2 cm Collezione privata

Dalton Paula Chico Rei, 2024 Foglia d’oro e olio su tela 210 x 110 cm Nã Agotimé, 2024 Foglia d’oro e olio su tela 210 x 110 cm Ganga Zumba, 2024 Foglia d’oro e olio su tela 210 x 110 cm

STRANIERI OVUNQUE

Costantino Nivola

Carnaval, 1958 Olio su masonite 50 x 60 cm Collezione Josh Feldstein

Pacífico Licutan, 2024 Foglia d’oro e olio su tela 210 x 110 cm

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Tejiendo mi segunda piel, 2023 Olio su tela 64x 84 cm


BIENNALE ARTE 2024

Tereza de Benguela, 2024 Foglia d’oro e olio su tela 210 x 110 cm Tutte le opere con il supporto aggiuntivo di Sé Galeria, Cerrado Galeria e James Fuentes Gallery

Amelia Peláez Mujer con abanico, 1931 Olio su tela 69,4 x 58,5 cm Collezione Sandy e George Garfunkel, Palm Beach, USA

George Pemba Young Woman, 1947 Olio su tela 58 x 42,5 cm Norval Foundation Con il supporto aggiuntivo di Norval Foundation

Fulvio Pennacchi

ELENCO DELLE OPERE PRESENTI IN MOSTRA

O circo, 1942 Olio su legno 50 x 70 cm Collezione Maria Cecilia Capobianco Con il supporto aggiuntivo di Almeida & Dale Galeria de Arte

Claudio Perna Venezuela - Map Series, n.d. Fotocopie, foto su mappa cartacea 62,2 x 85,1 cm Institute for Studies on Latin American Art (ISLAA)

Emilio Pettoruti La del Abanico Verde o El abanico verde, 1919 Olio su tela 96 x 50 cm Collezione Eduardo F. Costantini

Lê Phô

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Jeune Fille en Blanc [Young Girl in White], 1931 Olio su tela 81 x 130 cm Collezione National Gallery Singapore Con il supporto aggiuntivo della National Gallery Singapore e del Ministero della Cultura, Comunità e Gioventù di Singapore

Bona Pieyre De Mandiargues Toro Nuziale, 1958 Assemblage 90 x 116 cm Collezione privata

Ester Pilone Luz Amarilla, 1970 Olio su tela 50,1 x 112,1 cm Collezione Museo de Arte Moderno de Buenos Aires

La Chola Poblete Il Martirio di Chola, 2014 Fotografia 170 x 100 cm Virgen Evita Madre Reconciliadora de todos los Pueblos y las Naciones, dalla serie Virgenes Cholas, 2023 Acquerello, acrilico e inchiostro su carta 200 x 152 cm María y el Cóndor, dalla serie Virgenes Cholas, 2023 Acquerello, acrilico e inchiostro su carta 200 x 152 cm Inmaculado corazón de Travo, dalla serie Virgenes Cholas, 2022 Acquerello, acrilico e inchiostro su carta 200 x 152 cm La Virgen Mulata, dalla serie Virgenes Cholas, 2022 Acquerello, acrilico e inchiostro su carta 200 x 152 cm Pachamama, dalla serie Virgenes Cholas, 2023 Acquerello, acrilico e inchiostro su carta 200 x 152 cm Virgen de la Misericordia, dalla serie Virgenes Cholas, 2023 Acquerello, acrilico e inchiostro su carta 200 x 152 cm Purple María, dalla serie Virgenes Cholas, 2023 Acquerello, acrilico e inchiostro su carta 200 x 152 cm Sin título, 2024 Tessuto 140 x 90 cm Tutte le opere con il supporto aggiuntivo di Barro, Buenos Aires e New York

Charmaine Poh Kin, 2021 Video 2’ 45”

What’s softest in the world rushes and runs over what’s hardest in the world., 2024 Video 14’ Con il supporto aggiuntivo di Vega Foundation

Maria Polo Untitled, 1962 Olio su tela 81 x 60 cm Collezione Antonio Almeida e Carlos Dale Jr, San Paolo Con il supporto aggiuntivo di Almeida & Dale Galeria de Arte

Candido Portinari Cabeça de Mulato, 1934 Olio su tela 73,5 x 60 cm Collezione Igor Queiroz Barroso, Fortaleza, Brasile

Sandra Poulson Onde o Asfalto Termina, e a Terra Batida Começa, 2024 Installazione di cartone scartato, amido di mais e compensato con videoproiezioni Dimensioni variabili Biennale College Arte, La Biennale di Venezia

B. Prabha Waiting, n.d. Olio su tela 91,44 x 66,04 cm Con il supporto aggiuntivo di Aicon Gallery, New York

Lidy Prati Composición serial, 1946-1948 Olio su tavola 75,5 x 55,8 cm Collezione Malba, Museo de Arte Latinoamericano de Buenos Aires


Electric Dress (Atsuko Tanaka), 2023 Abito a LED in tessuto e plastica, drappeggiato su manichino, 12 batterie agli ioni di litio in custodie in tasche di tessuto, scheda micro SD programmata con Madrix 81 x 66 x 63 cm Hartwig Art Foundation Con il supporto aggiuntivo di Galerie Francesca Pia; Ammodo My heart is beating as I lip sync to this song, 2024 Performance Hartwig Art Foundation Con il supporto aggiuntivo di Galerie Francesca Pia; Ammodo The Hommage to Ana Mendieta (“On Giving Life”) and Marina Abramovic (“Nude with skeleton”) transizione in Daily Make-up Application, 2024 Performance Con il supporto aggiuntivo di Galerie Balice Hertling; Galerie Barbara Weiss; Hannah Hoffman Gallery; Galerie Francesca Pia; Ammodo

Lee Qoede Self-portrait in a Long Blue Coat, 1948-49 Olio su tela 72 x 60 cm Collezione privata Con il supporto aggiuntivo di Samsung Foundation of Culture

ìVioleta Quispe El matrimonio de la chola, 2022 Policroma mista, pigmento naturale con applicazione di foglia d’oro su MDF 150 x 170 cm Apu Suyos, 2024 Policromia, terra, pigmento naturale su MDF 200 x 200 cm Collezione Jorge M. Perez, Miami

Alfredo Ramos Martínez Maancacoyota, 1930 Olio su cartone 38,4 x 38,3 cm Collezione Andrés Blaisten, Messico

Sayed Haider Raza Offrande, 1986 Acrilico su tela 100 x 100 cm Con il supporto aggiuntivo di Grosvenor Gallery, Londra

Armando Reverón Retrato de Alfredo Boulton, 1934 Olio e gouache su carta aderente a una tavola 120 x 85 cm Collezione Clarissa e Edgar Bronfman Jr.

Emma Reyes Untitled, 1955 Olio e oil stick su tela 75 x 93 cm Collezione Riccardo Boni, Roma

Diego Rivera Retrato de Ramón Gómez de la Serna, 1915 Olio su tela 110 x 90 cm Collezione Malba, Museo de Arte Latinoamericano di Buenos Aires

Juana Marta Rodas Untitled, 1993 ca. Ceramica modellata 18,5 x ø 55 cm Untitled, 1993 ca. Ceramica modellata e ingobbio rosso 11 x 19 cm Untitled, 1993 ca. Ceramica modellata e ingobbio rosso 18,5 x ø 55 cm

VREEMDELINGEN OVERAL

Cyber-Teratology Operation, 2024 Installazione Scultura in silicio, metallo e resina con schermo video 180 x 190 x 270 cm Biennale College Arte, La Biennale di Venezia

Untitled, 1993 ca. Ceramica modellata e ingobbio rosso 10 x ø 11 cm The Musicians (series), 1993 ca. Ceramica modellata e ingobbio rosso 12,5 x 8,5 x 14 cm The Musicians (series), 1993 ca. Ceramica modellata e ingobbio rosso 13 x 10 x 16 cm The Musicians (series), 1993 ca. Ceramica modellata e ingobbio rosso 13,5 x 9 cm The Musicians (series), 1993 ca. Ceramica modellata e ingobbio rosso 11,5 x ø 8,5 cm The Musicians (series), 1993 ca. Ceramica modellata e ingobbio rosso 11 cm x ø 9,5 cm Tutte le opere Collezione del Centro de Artes Visuales/ Museo del Barro

Laura Rodig Pizarro Retrato de Gabriela Mistral, 1914-16 Olio su tela 49 x 59,5 cm Gabriela Mistral Museum Collection Con il supporto aggiuntivo di Ministero delle Culture, Arti e Patrimonio e Ministero degli Affari Esteri, Governo del Cile STRANIERI OVUNQUE

Una scultura per le Donne Trans. Una scultura per le Donne Non-Binarie. Una scultura per le Persone a Due Spiriti. Io sono una donna. Non mi interessa quello che pensi. (La transfobia è ovunque e ognuno è suscettibile di metterla in atto in qualsiasi momento) (Disimparare la transfobia che cova dentro di noi) Sono una donna trans. Sono una persona con due spiriti. Sono una donna. Questo è per le mie sorelle di tutto il mondo. La storia ha cancellato molte di noi, ma siamo ancora qui. Lotterò per i nostri diritti fino al giorno della mia morte. Esiliatemi e continuerò a lottare, 2022 Fusione in bronzo su base di ottone inciso 190 x 60 x 60 cm Con il supporto aggiuntivo di Galerie Balice Hertling; Galerie Barbara Weiss; Hannah Hoffman Gallery; Galerie Francesca Pia

Agnes Questionmark

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Puppies Puppies (Jade Guanaro Kuriki-Olivo)


BIENNALE ARTE 2024

Abel Rodríguez

Centro el terreno que nunca se inunda, 2022 Inchiostro su carta 70 x 100 cm El arbol de la vida y la abundancia, 2022 Inchiostro su carta 151 x 150 cm La centro montaña, 2022 Inchiostro su carta 100 x 70 cm La montaña centro y sus animales nativos 5 especies, 2022 Inchiostro su carta 70 x 100 cm Sin título, 2023 Inchiostro su carta 30 x 20 cm ciscuna Chorro de araracuara, 2017 (con Aycoobo, Wilson Rodriguez) Acrilico e inchiostro su carta 63 x 83 cm La montaña alta y firme, 2022 (con Aycoobo, Wilson Rodriguez) Acrilico e inchiostro su carta 70 x 100 cm

ELENCO DELLE OPERE PRESENTI IN MOSTRA

Montaña firme de centro, 2022 (con Aycoobo, Wilson Rodriguez) Acrilico e inchiostro su carta 70 x 100 cm Terraza vajá, 2022 (con Aycoobo, Wilson Rodriguez) Acrilico e inchiostro su carta 70 x 100 cm Tutte le opere con il supporto aggiuntivo di Instituto de Visión, Bogotá

Aydeé Rodriguez Lopez El Negro Yanga, 2011 Olio su tela, montato su telaio in legno di pioppo tinto e intagliato a mano 117 x 135,5 cm Cazadores de hombres, 2013 Olio su tela, montato su telaio in legno di pioppo tinto e intagliato a mano 157 x 137 cm Ex Hacienda de Guadalupe Collantes, 2014 Olio su tela, montato su telaio in legno di pioppo tinto e intagliato a mano 171,5 x 221 cm

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Hacienda Trata Negra, 2017 Olio su tela, montato su telaio in legno di pioppo tinto e intagliato a mano 115 x 132,5 cm

Migración, 2018 Olio su tela, montato su telaio in legno di pioppo tinto e intagliato a mano 110 x 153,5 cm Tutte le opere con il supporto aggiuntivo di Proyectos Monclova

Freddy Rodriguez Mulato de tal, 1974 Acrilico su tela 203,2 x 101,6 cm Estate Freddy Rodríguez

Miguel Ángel Rojas El Imperador 1, 1973-1980 Stampa vintage alla gelatina d’argento 20,3 x 25,2 cm El Imperador 5, 1973 Stampa vintage alla gelatina d’argento 20,3 x 25,2 cm El Negro, 1979 4 stampe vintage alla gelatina d’argento 20,3 x 25,4 cm ciascuna Tutte le opere con il supporto aggiuntivo di Sicardi Ayers Bacino Gallery

Rosa Rolanda Tehuana, 1940 ca. Olio su tela 61,5 x 51 cm Collezione Eduardo F. Costantini

Jamini Roy Untitled - Krishna with Parrot, n.d. Tempera su tela 96,5 x 51 cm Collezione Sanjay Yaday, Londra Con il supporto aggiuntivo di Grosvenor Gallery, Londra

Rómulo Rozo Bachué, Diosa Generatriz de los Chibchas, 1925 Granito 177 x 44 x 40 cm Collezione Proyecto Bachué Con il supporto aggiuntivo di Proyecto Bachué

Erica Rutherford

Rubber Maids, 1970 Gouache su carta 71 x 56 cm The Estate of Erica Rutherford Self Portrait with Red Boots, 1974 Acrilico su tela 137,2 x 132,1 cm The Estate of Erica Rutherford Collezione Beth Rudin DeWoody The Coat (the mirror), 1970 Acrilico su tela 122 x 127,2 cm The Estate of Erica Rutherford The diver, 1968 Acrilico su tela 176 x 120 cm The Estate of Erica Rutherford Yellow Stockings, 1970 Gouache su carta 61 x 52,5 cm The Estate of Erica Rutherford Tutte le opere con il supporto aggiuntivo di Richard Saltoun Gallery

José Sabogal El Recluta, 1926 Olio su tela 60 x 60 cm Centro Cultural UNI, Lima

Mahmoud Sabri Water (Quantum Realism Series), 1970 ca. Olio su tela 87 x 87 cm Collezione Barjeel Art Foundation, Sharja Con il supporto aggiuntivo di Barjeel Art Foundation

Syed Sadequain Untitled (Lady with a Diya), anni Cinquanta-Sessanta Olio su tela 91,4 x 60,9 cm Collezione Taimur Hassan Con il supporto aggiuntivo di Taimur Hassan

Nena Saguil Untitled (Abstract), 1972 Olio su tela 126,9 x 127,5 cm National Fine Arts Collection del National Museum of the Philippines Con il supporto aggiuntivo di National Museum of the Philippines


Kazuya Sakai Pintura No.9, 1969 Acrilico su tela 130 x 130 cm Collezione Marina Pellegrini Con il supporto aggiuntivo di National Center for Art Research, Giappone

Ione Saldanha Untitled dalla serie Bambus, n.d Acrilico su bambù 170 x Ø 11 cm Collezione Antonio Almeida e Carlos Dale Jr, San Paolo Con il supporto aggiuntivo di Almeida & Dale Galeria de Arte Untitled dalla serie Bambus, n.d Acrilico su bambù 193 x Ø 14 cm Collezione Antonio Almeida e Carlos Dale Jr, San Paolo Con il supporto aggiuntivo di Almeida & Dale Galeria de Arte Untitled dalla serie Bambus, n.d Acrilico su bambù 173 x Ø 17 cm Collezione Antonio Almeida e Carlos Dale Jr, San Paolo Con il supporto aggiuntivo di Almeida & Dale Galeria de Arte Bambu, 1966 Acrilico su bambù 197 x Ø 18 cm Collezione Ronie e Conrado Mesquita, Rio de Janeiro Con il supporto aggiuntivo di Ronie e Conrado Mesquita Bambu, 1970 Acrilico su bambù 179 x Ø 13 cm Collezione Ronie e Conrado Mesquita, Rio de Janeiro Con il supporto aggiuntivo di Ronie e Conrado Mesquita Bamboo, anni Sessanta Tempera su bambù 178 x Ø 12 cm Collezione Heitor Martins e Fernanda Feitosa, San Paolo

Untitled, Bamboo, anni Sessanta Pittura acrilica su bambù 257,5 x Ø 4 cm Con il supporto aggiuntivo di Simões de Assis

Bamboo, anni Sessanta Tempera su bambù 153 x Ø 14 cm Collezione Heitor Martins e Fernanda Feitosa, San Paolo

Untitled, Bamboo, anni Sessanta Pittura acrilica su bambù 215 x Ø 6,5 cm Con il supporto aggiuntivo di Simões de Assis

Untitled, anni Sessanta Vernice su bambù 225 x Ø 5 cm Collezione Heitor Martins e Fernanda Feitosa, San Paolo

Untitled, Bamboo, 1969 Pittura acrilica su bambù 273 x Ø 8,5 cm Con il supporto aggiuntivo di Simões de Assis

Bambu, n.d. Acrilico su bambù 210,5 x Ø 9 cm Collezione Paula e Marcelo Medeiros

Untitled, Bamboo, anni Sessanta Acrilico su bambù 233 x Ø 14 cm Con il supporto aggiuntivo di Simões de Assis

Bambu, n.d. Acrilico su bambù 186,5 x Ø 17 cm Collezione Paula e Marcelo Medeiros Bambu, n.d. Acrilico su bambù 170 x Ø 9 cm Collezione Paula e Marcelo Medeiros Bambu, n.d. Acrilico su bambù 174 x Ø 14,5 cm Collezione Paula e Marcelo Medeiros Bambu, n.d. Acrilico su bambù 167 x Ø 14 cm Collezione Paula e Marcelo Medeiros Bamboo II, anni Sessanta Vernice su bambù 147,7 x Ø 16,8 cm Con il supporto aggiuntivo di Simões de Assis Bamboo, anni Sessanta Vernice su bambù 176,5 x Ø 16,5 cm Paulo Setúbal Collection Con il supporto aggiuntivo di Simões de Assis Untitled, Bamboo, anni Sessanta Tempera su bambù 265 x Ø 8,5 cm Con il supporto aggiuntivo di Simões de Assis

Bamboo, anni Sessanta Tempera su bambù 127 x Ø 14 cm Collezione Heitor Martins e Fernanda Feitosa, San Paolo

Bamboo, anni Settanta Tempera su bambù 161 x Ø 15 cm Collezione Leonardo Lopes Rocha Leite Con il supporto aggiuntivo di Simões de Assis

Bamboo, n.d. Tempera su bambù 216 x Ø 12 cm Collezione Heitor Martins e Fernanda Feitosa, San Paolo

Untitled, Bamboo, anni Sessanta Pittura acrilica su bambù 243,5 x Ø 4,5 cm Con il supporto aggiuntivo di Simões de Assis

FREMDULOJ ĈIE

Bamboo, n.d. Tempera su bambù 152 x Ø 17 cm Collezione Heitor Martins e Fernanda Feitosa, San Paolo

Dean Sameshima Anonymous Homosexual, 2020 Acrilico su tela 30 x 40 cm Anonymous Faggot, 2020 Acrilico su tela 31 x 40 cm being alone, 2022 10 stampe a getto d’inchiostro d’archivio su carta Hahnemühle Photo Rag 59,5 x 42 cm ciascuna Tutte le opere con il supporto aggiuntivo di Kristina Kite Gallery, Los Angeles; Soft Opening, London; ifa — Institut für Auslandsbeziehungen

Zilia Sánchez Lunar, 1980 Acrilico su tela tesa 118 x 121,9 x 29,9 cm The Mende Collection Con il supporto aggiuntivo di Galerie Lelong, New York

Bárbara Sánchez-Kane Prêt-à-Patria, 2021 Fibra di vetro, resina, struttura in acciaio e poliestere 560 x 63 x 170 cm Prêt-à-Patria, 2024 Performance Performers: Jhoav Stuart Molina Garcia; Kevin Adrian Beltran Villa Tutte le opere con il supporto aggiuntivo di kurimanzutto, Città del Messico / New York; Ammodo

STRANIERI OVUNQUE

Haguer, 1923 Olio su tela 81,2 x 64,7 cm Mathaf: Arab Museum of Modern Art, Doha, Qatar Con il supporto aggiuntivo di Mathaf: Arab Museum of Modern Art, Doha, Qatar

Nenne Sanguineti Poggi Tekkà, 1948 Olio su tela 49 x 44 cm Vincenzo Sanguineti/NSPART Con il supporto aggiuntivo di Estate of Nenne Sanguineti Poggi

661

Mahmoud Saïd


BIENNALE ARTE 2024

Fanny Sanín

Oil No. 7, 1969 Olio su tela 165 × 175 cm Collezione Steven e Olga Immel, New York Con il supporto aggiuntivo di Fanny Sanín Legacy Project

Aligi Sassu Tobiolo, 1965 Olio su tela 81 x 96 cm Archivio Aligi Sassu, Monza

Greta Schödl Untitled, 1980 Olio su tela, tela indiana e foglia d’oro 185 x 102 cm Quarzite, dalla serie Scritture, 2020 Tela indiana e foglia d’oro su quarzite 13,5 x Ø 8,2

ELENCO DELLE OPERE PRESENTI IN MOSTRA

Granito rosso Sierra Chica, dalla serie Scritture, 2020 Tela indiana e foglia d’oro su granito rosso 13 x 20,2 x 10 cm Piccolo marmo rosato, dalla serie Scritture, 2020 Tela indiana e foglia d’oro su marmo rosa 16 x 12 x 2 cm Schrift auf Seide, 2021 Tela indiana e foglia d’oro su seta di Dior 132 X 127 cm Marmo basso calcareo, dalla serie Scritture, 2023 Tela indiana e foglia d’oro su marmo 7,5 x 25 x 4 cm Marmo rosso, dalla serie Scritture, 2023 Tela indiana e foglia d’oro su marmo 9,5 x 12 x 8 cm Marmo rosso di Trani, dalla serie Scritture, 2023 Tela indiana e foglia d’oro su marmo rosso di Trani 13,5 x 12 x 9,6 cm Marmo rosso piatto, dalla serie Scritture, 2023 Tela indiana e foglia d’oro su marmo rosso 20 x 34 x 2 cm Marmo travertino, dalla serie Scritture, 2023 Tela indiana e foglia d’oro su marmo 10 x 20,5 x 5 cm

662

Marmo travertino piccolo, dalla serie Scritture, 2023 Tela indiana e foglia d’oro su marmo 8,5 x 14,5 x 3 cm

Untitled, dalla serie Scritture, 2023 Tela indiana e foglia d’oro su travertino 18 x 18 x 4 cm Tutte le opere con il supporto aggiuntivo di Phileas – The Austrian Office for Contemporary Art

Ana Segovia Vámonos con Pancho Villa!, 2020 Olio su tela 210 x 240 cm Collezione Mario e Begoña Pasquel Con il supporto aggiuntivo di kurimanzutto, Città del Messico / New York Pos’ se acabó este cantar, 2021 Installazione video 5’ 35” Con il supporto aggiuntivo di kurimanzutto, Città del Messico / New York Charro Azul, 2023 Olio su tela 185 x 130 cm Collezione Rocío e Boris Hirmas Con il supporto aggiuntivo di Boris Hirmas

Gerard Sekoto Self-Portrait, 1947 Olio su tela su tavola 45,7 x 35,6 cm The Kilbourn Collection Con il supporto aggiuntivo di The Kilbourn Collection

Jewad Selim Woman and a Jug, 1957 Olio su tela 50 x 70 cm Collezione privata

Lorna Selim Unknown, 1958 Olio su tela 83 x 70,5 cm Mathaf: Arab Museum of Modern Art, Doha, Qatar Con il supporto aggiuntivo di Mathaf: Arab Museum of Modern Art, Doha, Qatar

Joshua Serafin VOID, 2022 Video 9’ 14” VOID, 2023-2024 Performance Tutte le opere con il supporto aggiuntivo di Ammodo

Kang Seung Lee

Constellation (blood moon hands), 2023 Grafite e acquerello su pergamena di capra, Sambe, ceralacca, piuma, filo d’oro antico 24k, perle, filo d’argento, ciottolo, bottone di conchiglia, impiallacciatura di noce incisa al laser, cornice di noce 133 x 92 x 6 cm ca. Constellation (everything circulate), 2023 Grafite, acquerello, Sambe, ceralacca, baccello di jacaranda, piuma, filo d’argento, ago da traforo su pergamena di pelle di capra, filo d’oro antico 24k, perle, bottone di conchiglia, legno, impiallacciatura di noce incisa al laser, cornice di noce 133 x 92 x 17 cm ca. Constellation (my love has green lips), 2023 Grafite e acquerello su pergamena di capra, filo d’oro antico 24k, perle, foglia fossile, rame fossile, bottone di conchiglia, impiallacciatura di noce incisa al laser, cornice di noce 133 x 92 x 6 cm ca. Constellation (rain ocean sun), 2023 Grafite, acquerello, ago da traforo, Sambe, ceralacca, piuma, filo d’argento, pianta essiccata su pergamena di pelle di capra, filo d’oro antico 24k, perle, foglie fossilizzate, ciottolo, rame fossilizzato, impiallacciatura di noce incisa al laser, cornice di noce 133 x 92 x 7 cm ca. Constellation (the blind rose), 2023 Grafite e acquerello su pergamena di capra, filo d’oro antico 24k, perle, piuma, fossile, filo d’argento, ciottolo, bottone di conchiglia, ghianda, impiallacciatura di noce incisa al laser, cornice di noce 133 x 92 x 6 cm ca. Constellation (when the winds blow), 2023 Grafite e acquerello su pergamena di capra, bottone di conchiglia, legno, impiallacciatura di noce incisa al laser, cornice di noce 133 x 92 x 17 cm ca. Untitled (Constellation), 2023 Grafite, acquerello, filo d’oro antico a 24k, Sambe, Sambe tinto d’indaco, perle, foglia d’oro a 24k, chiodi d’ottone, pergamena di capra, cornice di noce, piante e semi essiccati provenienti da Elysian Park e Fort Road Beach a Singapore, perle, piume, filo d’argento, foglie fossilizzate dal Pennsylvaniano all’Eocene, meteorite, rame fossile, ciottoli, legno, carta, carta di gelso, carta di gelso laccata 15 x 300 x 750 cm ca.


Gino Severini Natura Morta, 1918 Olio su tela 60 x 73 cm Collezione Roberto Casamonti

Amrita Sher-Gil Head of a Girl, 1937 Olio su tela 29 x 33 cm Taimur Hassan Collection Con il supporto aggiuntivo di Taimur Hassan

Anwar Jalal Shemza Composition in Red, Green and Yellow, 1963 Olio su tela 91 x 71,5 cm Taimur Hassan Collection Con il supporto aggiuntivo di Taimur Hassan

Yinka Shonibare Refugee Astronaut VIII, 2024 Manichino in fibra di vetro, tessuto di cotone stampato a cera olandese, rete, oggetti, casco da astronauta, stivali lunari e base in acciaio 194,4 x 94 x 114 cm Con il supporto aggiuntivo di Goodman Gallery, Città del Capo, Johannesburg, Londra e New York, James Cohan Gallery, New York e Stephen Friedman Gallery, Londra e New York.

Doreen Sibanda Reclining Woman, 1978 Olio su tela 60 x 60 cm National Gallery of Zimbabwe

Fadjar Sidik Dinamika Keruangan IX [The Dynamic of Space IX], 1974 Olio su tela 80,5 x 60 cm National Gallery of Indonesia

Lucas Sithole The Guitarist, 1988 Legno ferro 136 x 49 x 24 cm Collezione privata

Francis Newton Souza Untitled, 1956 Olio su tavola 91 x 127 cm Jane e Kito de Boer Collection, Londra Con il supporto aggiuntivo di Grosvenor Gallery, Londra

Joseph Stella Fountain, 1929 Olio su tela 124,5 x 101,6 cm Collezione privata Con il supporto aggiuntivo di Schoelkopf Gallery, New York

Irma Stern Watussi Princess, 1942 Olio su tela 69 x 55 cm Collezione privata

Leopold Strobl Untitled, 2015 Matita, matite colorate, carta da giornale, carta 5,3 x 9,8 cm Untitled, 2015 Matita, matite colorate, carta da giornale, carta 6,7 x 12,9 cm Untitled, 2015 Matita, matite colorate, carta da giornale, carta 11,2 x 10,3 cm Untitled, 2015 Matita, matite colorate, carta da giornale, carta 6,2 x 10,6 cm Untitled, 2016 Matita, matite colorate, carta da giornale, carta 13,3 x 9,5 cm Untitled, 2021 Matita, matite colorate, carta da giornale, carta 20,1 x 10,2 cm Untitled, 2021 Matita, matite colorate, carta da giornale, carta 7,4 x 10,2 cm

Untitled, 2021 Matita, matite colorate, carta da giornale, carta 8,5 x 8,8 cm Untitled, 2021 Matita, matite colorate, carta da giornale, carta 6,8 x 9,6 cm

KANPOTARRAK NONAHI

Portrait of a Nubian Family, 1962 Olio su tela 72 x 53 cm Collezione Barjeel Art Foundation, Sharja Con il supporto aggiuntivo di Barjeel Art Foundation

Untitled, 2021 Matita, matite colorate, carta da giornale, carta 9,6 x 14,6 cm Untitled, 2021 Matita, matite colorate, carta da giornale, carta 5,4 x 9,6 cm Untitled, 2021 Matita, matite colorate, carta da giornale, carta 8,7 x 14,5 cm Untitled, 2021 Matita, matite colorate, carta da giornale, carta 5,9 x 9,6 cm Untitled, 2022 Matita, matite colorate, carta da giornale, carta 8,9 x 13,8 cm Untitled, 2022 Matita, matite colorate, carta da giornale, carta 9,3 x 11,6 cm Untitled, 2022 Matita, matite colorate, carta da giornale, carta 7 x 9,3 cm Tutte le opere con il supporto aggiuntivo di galerie gugging; Phileas – The Austrian Office for Contemporary Art

Emiria Sunassa Orang Irian dengan Burung Tjenderawasih [Uomo Irian con uccello del Paradiso], 1948 Olio su tela 67,2 x 54,5 cm Collezione National Gallery Singapore Con il supporto aggiuntivo della National Gallery Singapore e del Ministero della Cultura, Comunità e Gioventù di Singapore

Superflex Foreigners Please Don’t Leave Us Alone With The Danes!, 2002 Poster 70 x 50 cm Con il supporto aggiuntivo di Danish Arts Foundation

STRANIERI OVUNQUE

Tutte le opere con il supporto aggiuntivo di Arts Council Korea; Samsung Foundation of Culture

Gazbia Sirry

Armodio Tamayo Imilla, 1946 Olio su tela 54 x 43 cm Museo Nacional de ArteFundación Cultural del Banco Central de Bolivia

663

Lazarus, 2023 Video 4K a canale singolo, colore, suono 7’ 52”


BIENNALE ARTE 2024

Maria Taniguchi Untitled, 2023

Acrilico su tela 228,6 x 114,3 cm

A song to the world -1, 2024 Ricamo su tessuto 188 x 304 cm

Untitled, 2023 Acrilico su tela 274,32 x 487,6 cm

A song to the world -2, 2024 Ricamo su tessuto 198 x 321 cm

Untitled, 2023 Acrilico su tela 274,3 x 121,9 cm

Tutte le opere con il supporto aggiuntivo di SAHA Association; Ammodo; CO.GE.S Don Lorenzo Milani; Casa Punto Froce; Ferda Art Platform

Tutte le opere con il supporto aggiuntivo di Silverlens, Manila / New York; carlier | gebauer Berlino / Madrid; e Taka Ishii, Tokyo / Hong Kong

Evelyn Taocheng Wang Colored Cotton Candies and Imitation of Agnes Martin, 2023 Acrilico, gesso, matita su tela di lino 185 x 185 cm

ELENCO DELLE OPERE PRESENTI IN MOSTRA

Diamond, Gem and Imitation of Agnes Martin, 2023 Inchiostro per calligrafia, acrilico, gesso, matita su tela di lino 185 x 185 cm Makeup Remover Cotton Pads and Imitation of Agnes Martin, 2023 Inchiostro per calligrafia, acrilico, gesso, matita su tela di lino 185 x 185 cm Sugar Powder Bamboo and Imitation of Agnes Martin, 2023 Acrilico, gesso, matita su tela di lino 185 x 185 cm Tulip in Whisky and Imitation of Agnes Martin, 2023 Acrilico, gesso, matita su tela di lino 185 x 185 cm Tutte le opere con il supporto aggiuntivo di Antenna Space, Shanghai; Carlos/Ishikawa, Londra; Galerie Fons Welters, Amsterdam; Kayokoyuki, Tokyo e Mondriaan Fund

Lucy Tejada El Sembrador, 1958 Olio su tela 130 x 70,5 cm Collezione Arte del Banco de la República de Colombia

Mariana Telleria Dios es inmigrante (God Is an Immigrant), 2017/2023 10 alberi per barche a vela in alluminio, vernice epossidica nera, linee di controllo/cavi e tenditori in acciaio, targa in marmo e bronzo. 1500 x 390 x 925 cm Collezione Jorge M. Pérez, Miami Con il supporto aggiuntivo di Collezione Bienalsur, Muntref; Museo de la Inmigración, Buenos Aires 664

Güneş Terkol

Eduardo Terrazas 1.1.91, 1970-72 Fili di lana su tavola di legno ricoperta di cera Campeche 121 x 121 cm Luisa Strina

Clorindo Testa Pintura o Circulo negro, 1963 Olio su tela 150,3 x 150,1 cm Collezione Malba, Museo de Arte Latinoamericano de Buenos Aires

Salman Toor The Beating, 2019 Olio su tela 119,4 × 119,4 cm Collezione Ilan Cohen, New York The Lock, 2023 Olio su pannello 61 x 45,7 cm Backseat Boy, 2023 Olio su tavola 45,7 x 61 cm Chance Gathering, 2023 Olio su pannello 45,7 x 61 cm Boy with Shoe, 2023 Olio su pannello 121,9 x 91,4 cm Night Grove, 2024 Olio su pannello 195,6 x 267 cm The Ceremony, 2024 Olio su pannello 122 x 152,5 cm Tutte le opere con il supporto aggiuntivo di Luhring Augustine, New York

Frieda Toranzo Jaeger

Rage Is a Machine in Times of Senselessness, 2024 Olio e ricami su tela 1500 × 480 cm Con il supporto aggiuntivo di Galerie Barbara Weiss; Bortolami Gallery; Fundación Jumex Arte Contemporáneo; ifa — Institut für Auslandsbeziehungen

Horacio Torres The White Ship, 1950 ca. Olio su tela 82 x 69 cm

Joaquín Torres-García Retrato de VP, 1941 Olio su tela 77 x 66 cm

Mario Tozzi Il Pittore, 1931 Olio su tela 116 x 89 cm Collezione Roberto Casamonti

Twins Seven Seven The Architect, 1989 Inchiostro su compensato, incollato e intagliato 61 x 41 cm The Jean Pigozzi African Art Collection Con il supporto aggiuntivo di Jean Pigozzi

Ahmed Umar Talitin (The Third), 20232024 Performance Talitin 2024 Video 25’ 37”

(The Third), 2023-

(The Third), 2023Talitin 2024 Installazione con oggetti Dimensioni variabili Tutte le opere con il supporto aggiuntivo di Office for Contemporary Art Norway (OCA); Ammodo

Unidentified Chilean artists, Arpilleristas Arpillera, anni Ottanta Stoffa lavorata e applicata, uncinetto e tecniche miste 80 x 99,1 cm Arpillera, anni Ottanta Stoffa lavorata e applicata, uncinetto e tecniche miste 78,1 x 94 cm


Arpillera, anni Ottanta Stoffa lavorata e applicata, uncinetto e tecniche miste 76,8 x 94 cm Arpillera, anni Ottanta Stoffa lavorata e applicata, uncinetto e tecniche miste 80 x 97,8 cm Arpillera, anni Ottanta Stoffa lavorata e applicata, uncinetto e tecniche miste 80 x 100,3 cm Tutte le opera della Collezione El Museo del Barrio, New York. Dono di Arthur and Dorothy Hammer, 1994

Rubem Valentim Pintura 2, 1964 Tempera su tela 70 x 50 cm Collezione Ana Paula e José Luiz Vianna, San Paolo, Brasile Pintura 7, 1965 Tempera su tela 70 x 50,2 cm Collezione Roberto Bicca Pintura 15, 1965 Tempera su tela 100 x 73 cm Collezione privata Composição Bahia n. 1, 1966 Tempera su tela 101 x 73,5 cm Collezione Roberto Bicca Pintura 3, 1966 Olio su tela 100 x 73 cm Collezione privata Pintura 26, 1965-66 Olio su tela 100 x 73 cm Collezione Luiz Paulo Montenegro Tutte le opere con il supporto aggiuntivo di Almeida & Dale Galeria de Arte

Edoardo Daniele Villa Mother and Child, 1963-2010 Bronzo 201 x 66 x 51 cm Collezione privata

Alfredo Volpi Fachada marrom, 1950-60s Tempera su tela 118 x 77,5 cm Collezione privata, San Paolo, Brasile Con il supporto aggiuntivo di Almeida & Dale Galeria de Arte

Kay WalkingStick The Silence of Glacier, 2013 Olio su pannello diviso in due parti 91,4 x 182,9 x 5,1 cm South Rim, 2016 Olio su pannello diviso in due parti 91,4 x 182,9 x 6,3 cm Collezione Max e Pamela Berry Buffalo Spring, 2020 Olio su pannello diviso in due parti 40,6 x 101,6 x 5,1 cm Galena Pass, 2023 Olio su pannello diviso in due parti 101,6 x 203,2 x 3,8 cm Salmon River Valley, 2023 Olio su pannello diviso in due parti 101,6 x 203,2 x 5,1 cm The Shah Garg Collection Tutte le opere con il supporto aggiuntivo di Hales Gallery

WangShui Lipid Muse, 2024 Simulazione multicanale dal vivo Cathexis III, 2024 Olio su alluminio Cathexis II, 2024 Olio su alluminio Cathexis I, 2024 Olio su alluminio Tutte le opere con il supporto aggiuntivo di kurimanzutto, Città del Messico/ New York e The Island

Agnes Waruguru Incomprehensible Weather in The Head, 2024 Inchiostro acrilico, pittura acrilica, inchiostro indiano, pigmenti naturali, zafferano, pastello morbido e carboncino su cotone e perline di vetro 990 x 600 cm

Barrington Watson

Conversation, 1981 Olio su tela 127,5 x 91 cm The National Gallery of Jamaica

Osmond Watson

FREMDE ÜBERALL

Autorretrato, 1902 Olio su tela 64 x 48 cm Collezione Visconti Hirth Con il supporto aggiuntivo di Almeida & Dale Galeria de Arte

Johnny Cool, 1967 Olio su tela 85 x 71 cm The National Gallery of Jamaica

Susanne Wenger Das große Fest des Ajagemo, 1958 Àdìrẹ batik di amido di manioca 200 x 400 cm

Ọbàtálá fängt Ṣàngós Pferd, 1958 Àdìrẹ batik di amido di manioca 214 x 171 cm Leopard, die magische Erdendimension, 1959 Batik di amido di manioca 253 x 258 cm Die magische Frau, 1960 Àdìrẹ batik di amido di manioca 253 x 163 cm Mythos Odùduwà Schöpfungsgeschichte, 1963 Batik di amido di manioca 194 x 334 cm Tutte le opere Susanne Wenger Foundation Tutte le opere con il supporto aggiuntivo di Phileas – The Austrian Office for Contemporary Art

Emmi Whitehorse Typography of Standing Ruins #1, 2024 Tecnica mista olio, grafite, pastello, collage su carta affissa su tela 151,1 x 227,3 cm Typography of Standing Ruins #2, 2024 Tecnica mista olio, grafite, pastello, collage su carta affissa su tela 151,1 x 227,3 cm Typography of Standing Ruins #3, 2024 Tecnica mista olio, grafite, pastello, collage su carta affissa su tela 151,1 x 227,3 cm World Upside Down, 2024 Tecnica mista olio, grafite, pastello, collage su carta affissa su tela 151,1 x 227,3 cm Tutte le opere con il supporto aggiuntivo di Garth Greenan Gallery

STRANIERI OVUNQUE

Arpillera, anni Ottanta Stoffa lavorata e applicata, uncinetto e tecniche miste 76,2 x 99,1 cm

Eliseu Visconti

665

Arpillera, anni Ottanta Stoffa lavorata e applicata, uncinetto e tecniche miste 76,2 x 96,5 cm


BIENNALE ARTE 2024

Selwyn Wilson Study of a Head, 1948 Olio su tavola 52 x 52 cm Auckland Art Gallery Toi o Tāmaki

Chang Woosoung Atelier, 1943 Inchiostro e colore su carta 210,5 x 167,5 cm Collezione Leeum Museum of Art Con il supporto aggiuntivo di Samsung Foundation of Culture

Celeste Woss y Gil Desnudo, 1948 Olio su tela 59 x 46 cm Colección Museo Bellapart

Xiyadie

ELENCO DELLE OPERE PRESENTI IN MOSTRA

Wall, 2016 Carta intagliata con tintura all’acqua e pigmenti cinesi su carta Xuan 140 x 140 cm Sewn, 1999 Carta intagliata con tintura all’acqua e pigmenti cinesi su carta Xuan 140 x 140 cm Don’t Worry, mom is spinning thread in the next room (A love scene when high school student is at home writing homework), 2019 Carta intagliata con tintura all’acqua e pigmenti cinesi su carta Xuan 140 x 140 cm Kaiyang, 2021 Carta intagliata con tintura all’acqua e pigmenti cinesi su carta Xuan 140 x 300 cm Con il supporto aggiuntivo di Blindspot Gallery Tutte le opere con il supporto aggiuntivo di P21

Rember Yahuarcani Los Abuelos, 2021 Acrilico su tela 200 x 200 cm El territorio de los abuelos, 2023 Acrilico su tela 300 x 300 cm Aquellos otros mundos, 2023 Acrilico su tela 250 x 500 cm

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Las canoas tienen sueños feroces, 2023 Acrilico su tela 170 x 240,5 cm El río, 2023 Acrilico su tela 300 x 170 cm

Santiago Yahuarcani Aquì esta caliente, 2023 Tinture naturali e acriliche su Ilanchama 279 x 524 cm Shiminbro, el Hacedor del sonido, 2023 Tinture naturali e acriliche su Ilanchama 207 X 410 cm El Mundo del Agua, 2024 Tinture naturali e acriliche su Ilanchama 283 x 671 cm

Nil Yalter Pink Tension, 1969 Acrilico su tela 120 x 180 cm Topak Ev,1973 Struttura in metallo, feltro, pelle di pecora, testi e tecniche miste 250 x 300 cm Arter Collection Istanbul Exile is a hard job, 1983-2024 Installazione video, dimensioni variabili Tutte le opere con il supporto aggiuntivo di SAHA Association; Institut français

Joseca Mokahesi Yanomami Xapiri Parahorioma yani wahariomapë, roko ahikini pata hore riã reëri ehuhua kurarkiri, roko ahiki pata hore wakara praayaria kurakiri. Awei kami xapiri yamaki urihipë hõximaimi, yamakirihipë hore horepë siprërëhe xatiti totihi. Kuë yaro kami xapiriurihi a xamio pëha yamaki ithoimi, 2013 Grafite, matite colorate e inchiostro a pennarello su carta 30 x 42 cm Poriporiwë a, 2011 Grafite, matite colorate e inchiostro di pennarello su carta 30 x 42 cm Xapiri Parahorioma yani wahariomapë, roko ahikini pata hore riã reëri ehuhua kurarkiri, roko ahiki pata hore wakara praayaria kurakiri. Awei kami xapiri yamaki urihipë hõximaimi, yamakirihipë hore horepë siprërëhe xatiti totihi. Kuë yaro kami xapiriurihi a xamio pëha yamaki ithoimi, 2013 Grafite, matite colorate e inchiostro di pennarello su carta 30 x 42 cm

Mamuruna hapa mahi a pata pirioma, hwei Mamuruna a pirio pëha ethë urihi wawë oxe totihitaoma. Mamuruna a pirio pëha, ai yanomãe e thë pë pairionimi. Yami mahi Mamuruna a pirioma. Mamuruna a piriawi yano e preonimi wãisia yano waiha a pirioma. Mamuruna a pirio piha pata e uhuanimi, Wãisia wai uwaiha a pirioma. Kama yano e sipoha puu e hanapë kuoma, hanapë hoaiwi. Inaha thë kua, hwei thuë Mamuruna aka kiinë, hapa mahi nara xiki raramariiwi a yai. Ihi anë wakëmamotima thë raramarema. Puu hanamuuwi thë raramarema, ama akanamuuwi thë raromarema. Mamuruna anë thëpë raroa thamarepë maha thëpë thapuu hikia. Nara e xihi kua, ama ehi kua, puu e hanaki kua, xote ehekua. Mamuruna pata thuë a yai, wakëmamatima thë yaika raramareni, 2017 Grafite, matite colorate e inchiostro di pennarello su carta 30 x 42 cm Yaweresiri a, 2013 Grafite, matite colorate e inchiostro di pennarello su carta 30 x 42 cm Yãpimarinë ihurupë pë komi tei, pë komi ha tënë pë kae heri õsema awai miproiminë õhotaai thëpëka kuuwi tëhë, ihurupë kae heriihe Yãpimaripënë, ihurupë komi tearariihe, Yãpimari pë pata huu mahiopëha pë toai makurahiha ihuru a toarahita yamaki pihi kuimi!, 2011 Grafite, matite colorate e inchiostro di pennarello su carta 30 x 42 cm Kami xapiri yamaki hwãithaki yayoa nikere, inaha xapiriyamaki pihi kuënëhë maimi, ai yamaki hwãithaki rapenikere, ai xapiri yamakihe marokoxi. Kami xapiri yamakinë në wari yama a xëi maprario tëhë, yamaki tirei xoao tëhë, inaha yamaki imiki kuo, kuë yaro yamaki areremorayu, 2011 Grafite, matite colorate e inchiostro di pennarello su carta 30 x 42 cm Hwei thuë pëka kii, xapiri yãmanãyõma pë thëëpë. Yãmanãyõma inãha pë thëëpë kuë, pë hwãi thakisi utiti mahi, pë nãranã pë totihi. Kuë yaro përiã yai riëri mahi tohiti, inahã kuë yaro ai xapiri komi pë pihi irãa maihi pei përiãma kiini. Hwei yãmanãyôma pë thëëpë kakii, ahete kamë pë ithoimi, kihaamë puu tha urihi praaka kure hamë pë ithoa kukiyoma, 2013 Grafite, matite colorate e inchiostro di pennarello su carta 30 x 42 cm Yawarioma kupë, 2013 Grafite, matite colorate e inchiostro di pennarello su carta 30 x 42 cm


Untitled, 2011 Grafite, matite colorate e inchiostro di pennarello su carta 30 x 42 cm Yamanayomani thë urihi karukai xoao tëhë wamotima thëpë raruu totihio tëhëma thëã. Yamanayoma a, 2013 Grafite, matite colorate e inchiostro di pennarello su carta 30 x 42 cm Tutte le opere Museu de Arte de São Paulo Assis Chateaubriand. Doação [Dono] Clarice O. Tavares, 2021

André Taniki Yanomami Untitled 1, 1978-1981 ca. Pastello su carta 21 x 29 cm Untitled 2, 1978-1981 ca. Pastello su carta 21 x 29 cm Untitled 3, 1978-1981 ca. Pastello su carta 21 x 29 cm Untitled 4, 1978-1981 ca. Pastello su carta 21 x 29 cm Untitled 5, 1978-1981 ca. Pastello su carta 21 x 29 cm Untitled 6, 1978-1981 ca. Pastello su carta 21 x 29 cm Untitled 7, 1978-81 ca. Pastello su carta 21 x 29 cm Untitled 8, 1978-1981 ca. Pastello su carta 21 x 29 cm Untitled 9, 1978-1981 ca. Pastello su carta 21 x 29 cm

Untitled 12, 1978-1981 ca. Pastello su carta 21 x 29 cm Untitled 13, 1978-1981 ca. Pastello su carta 21 x 29 cm Untitled 14, 1978-1981 ca. Pastello su carta 21 x 29 cm Untitled 15, 1978-1981 ca. Pastello su carta 21 x 29 cm Untitled 16, 1978-1981 ca. Pastello su carta 21 x 29 cm Untitled 17, 1978-1981 ca. Pastello su carta 21 x 29 cm Untitled 18, 1978-1981 ca. Pastello su carta 21 x 29 cm Tutte le opere Collection Fondation Cartier pour l’art contemporain

Yêdamaria Proteção de Yemanjá, 1978 Olio su tela 91 x 80 cm Collezione Ayrson Heraclito

Ramses Younan Portrait, n.d. Olio su tela 50 x 35 cm Collezione Barjeel Art Foundation, Sharja Con il supporto aggiuntivo di Barjeel Art Foundation

Add Two Add One, Divide Two Divide One 1979, 1979 Legno di pino rosso coreano 130 x 30 x 25 cm Add Two Add One, Divide Two Divide One 1979, 1979 Legno di noce 45 x 22 x 18 cm

ชาวต่​่างชาต่ิอยู่​่​่ทุ​ุกสถานทุี

Untitled 11, 1978-1981 ca. Pastello su carta 21 x 29 cm

Kim Yun Shin

Add Two Add One, Divide Two Divide One 1984-84, 1984 Legno 145 x 38 x 35 cm Add Two Add One, Divide Two Divide One 1986, 1986 Legno 87 x 37 x 37 cm Add Two Add One, Divide Two Divide One 1989-209, 1989 Onice 47 x 40 x 27 cm Add Two Add One, Divide Two Divide One 1991-422, 1991 Onice 68 x 54 x 34 cm Add Two Add One, Divide Two Divide One 1991-418, 1991 Onice 38 x 58 x 43 cm Add Two Add One, Divide Two Divide One 2001-719, 2001 Diaspro 39 x 61 x 29 cm Tutte le opere collezione privata Tutte le opere con il supporto aggiuntivo di Arts Council Korea, Kukje Gallery and Lehmann Maupin.

Fahr El Nissa Zeid Untitled, 1995 Olio su tela 187 x 174 cm Collezione Taimur Hassan Con il supporto aggiuntivo di Taimur Hassan

Anna Zemánková Untitled, 1980 ca. Collage satinato, colore per tessuto e penna a sfera su carta 62,6 x 44,8 cm Untitled, 1980 ca. Collage satinato, colore per tessuto e penna a sfera su carta 62,6 x 44,8 cm Untitled, 1980 ca. Collage satinato, colore per tessuto e penna a sfera su carta 62,5 x 45 cm

STRANIERI OVUNQUE

Xapiri Hawarihiri omamari a ithuu tëhë anë yai kiriai mahi, kuë yaro yanomãe yamaki amuku haari keai. Hwei hawarihiri omamari aka kii ani xawara a waiha ani yai waro pata a kutaeni kuë yaro hwei xapiri pata yamapë yai pihipo, 2011 Grafite, matite colorate e inchiostro di pennarello su carta 30 x 42 cm

Untitled 10, 1978-1981 ca. Pastello su carta 21 x 29 cm

Untitled, 1980 ca. Collage satinato, colore per tessuto e penna a sfera su carta 67,7 x 51 cm

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Në wãri Yurikori apata nɨ ihiru Në wãri Yurikori apata ni ihiru a tei tëhë, xapiri Potiri pëni, Kãnari pëni, Ioari peni, Konari pëni, ai xapiri pë paixipë waiowi pëxë ihuru a kõrii he. ihi tëhë a haroa xoarayu. inaha xapiri pë kuai. Mau pata u hamë xapiri pë wai thiri huuwi kama kanoa e ahipë pree kua, kuë yaro xapiri ë horimaimi, 2013 Grafite, matite colorate e inchiostro di pennarello su carta 30 x 42 cm


BIENNALE ARTE 2024

Untitled, 1980 ca. Collage satinato, colore per tessuto e penna a sfera su carta 62,5 x 45 cm Untitled, 1980 ca. Collage satinato, colore per tessuto e penna a sfera su carta 62,5 x 45 cm Untitled, 1980 ca. Collage satinato, colore per tessuto e penna a sfera su carta 62,6 x 45 cm Untitled, 1975 ca. Matita colorata, penna a sfera, ricamo e perle su carta 62,5 x 45 cm Collezione Emmanuelle e Guy Delcourt Tutte le opere con il supporto aggiuntivo di christian berst art brut

Bibi Zogbé

ELENCO DELLE OPERE PRESENTI IN MOSTRA

Femme aux Fleurs, n.d. Olio su tavola 80,5 x 61 cm Ramzi e Saeda Dalloul Art Foundation Con il supporto aggiuntivo di Ramzi e Saeda Dalloul Art Foundation

PADIGLIONE ARTI APPLICATE Beatriz Milhazes

Chocolat Noir, 2013 Collage di carte varie e involucri di dolci su carta 70 x 50 cm Collezione privata Small Red Tree, 2014 Collage di carte varie e involucri di dolci su carta 89 x 58,5 cm Collezione privata Manga e Maracujá em lilás e violeta, 2016 Collage di varie carte su carta 55 x 50 cm Collezione privata Cumaru, 2018 Collage di varie carte su carta 43,2 x 38 cm Collezione privata Cor de pele, 2019 Collage di carte varie, sacchetti della spesa, involucri di dolciumi e ritagli di stampe d’artista su carta 96,5 x 88,5 cm Collezione privata Flor de Margarida em Vermelho, Pink e Lilás, 2019 Collage di varie carte su carta 33 x 29,4 cm Collezione privata Oxalá, 2021 Collage di carte varie e ritagli di stampe d’artista su carta 70 x 90 cm Collezione privata Pindorama, 2020-2022 Arazzo in lana e seta 321 x 750 cm Collection Art in Embassies, U.S. Department of State Memórias do Futuro I, 2022 Acrilico su tela di lino 180 x 200 cm Collezione privata Colorido Cósmico, 2023 Acrilico su tela di lino 281 x 320 cm Collezione privata Meia-noite, Meio-dia, 2023 Acrilico su tela di lino 280 x 302 cm Collezione privata O Céu, as Estrelas e o Bailado, 2023 Acrilico su tela di lino 281 x 280 cm Collezione privata

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The Golden Egg, 2023 Acrilico su tela di lino 279 x 302 cm Collezione privata

Alegria Celestial, 2023-2024 Acrilico su tela di lino 281 x 280 cm Collezione privata La Biennale di Venezia con il Victoria and Albert Museum, London


BONDING IN DIFFERENCE: INTERVIEW WITH ALFRED ARTEAGA (1993–1994), IN THE SPIVAK READER, A CURA DI DONNA LANDRY E GERALD MACLEAN, LONDRA E NEW YORK, ROUTLEDGE, 1996

Non sono in esilio. Non sono migrante. Sono una critica del neocolonialismo negli Stati Uniti con la carta verde. È una posizione difficile da negoziare, perché non mi auto-emarginerò negli Stati Uniti per ottenere la simpatia di chi è veramente emarginato.

GAYATRI CHAKRAVORTY SPIVAK



CURATORIAL ACTIVISM, LONDRA, THAMES & HUDSON, 2018

Non possiamo affermare di vivere in un mondo post-queer quando in alcuni Paesi essere queer, gay, bisessuali e transgender è punibile con la morte e in molti altri è un reato penale.

MAURA REILLY



Le quattro finaliste di Biennale College Arte 2024 sono:

Biennale College Arte

Biennale College è il progetto della Biennale di Venezia dedicato alla formazione e al supporto dei giovani in tutti i Settori artistici e nelle attività proprie della struttura organizzativa della Biennale. Attivo nei Settori di Arte, Architettura, Cinema, Danza, Musica, Teatro e nell’Archivio Storico delle Arti Contemporanee (ASAC), Biennale College è concepito con l’ambizione di promuovere giovani talenti, offrendo loro l’opportunità di lavorare a stretto contatto con mentori internazionali per sviluppare “creazioni” che diventano parte dei programmi dei Settori.

Joyce Joumaa

Beirut, Libano, 1998. Vive a Montreal, Canada

Nazira Karimi

Dushanbe, Tagikistan, 1996. Vive ad Almaty, Kazakistan e Vienna, Austria

Sandra Poulson

Angolana, nata a Lisbona, Portugallo, 1995. Vive a Luanda, Angola e Londra, Regno Unito

Agnes Questionmark

STRANIERI OVUNQUE

Roma, Italia, 1995. Vive a Roma e New York, USA

Amanda Carneiro, Fulvia Carnevale, Sofia Gotti, Candice Hopkins, Adriano Pedrosa, María Inés Rodríguez sono i tutor della Biennale College Arte 2024.

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Le quattro artiste hanno ricevuto una sovvenzione di 25.000 euro per la realizzazione dei loro progetti. Le opere sono presentate, fuori concorso, alla Biennale Arte 2024.


Progetti Speciali - Sostenitori

Iván Argote

Isaac Chong Wai

Descanso, 2024

Falling Reversely, 2021 / 2024

Con il supporto di: Albarrán Bourdais Perrotin Vermelho Institut français

Con il supporto aggiuntivo di: Hong Kong Arts Development Council Burger Collection and the TOY family Sunpride Foundation Ammodo Hong Kong Economic and Trade Office, Bruxelles Blindspot Gallery, Hong Kong | Zilberman, Istanbul, Berlino e Miami Berlin Senate Department for Culture and Social Cohesion ifa – Institut für Auslandsbeziehungen

Leilah Babirye Rukirabasaija from the Kuchu Western Bunyoro Kingdom, 2023 Inhebantu from the Kuchu Eastern Busoga Kingdom, 2023-2024 Oyo Nyimba Kabamba Iguru from the Kuchu Western Tooro Kingdom, 2023-2024 Ssangalyambogo from the Kuchu Central Buganda Kingdom, 2023-2024 Ugangi from the Kuchu Acholi Region, 2024 Con il supporto aggiuntivo di: Stephen Friedman Gallery, Londra e New York Gordon Robichaux, New York

Sol Calero Pabellón Criollo, 2024 Con il supporto aggiuntivo di: The Bukhman Family Foundation Fondazione Sandretto Re Rebaudengo Cristalfarma Museo Centro de Arte Dos de Mayo, Madrid Collection Silvia Fiorucci, Monaco Mauvilac Saikalis Bay Foundation Charlotte Meynert e Henrik Persson Gruppo Bardelli Colorobbia Terreal San Marco Antonio Murzi & Diana Morgan Tiqui Atencio Demirdjian Rebiennale | R3B Anna Guggenbuehl Diego Grandi Leslie Ramos Francesca Minini, Milano Crèvecœur, Parigi ChertLüdde, Berlino

Claire Fontaine Foreigners Everywhere / Stranieri Ovunque (60th International Art Exhibition / 60. Esposizione Internazionale d’Arte), 2004-2024 Foreigners Everywhere (Selfportrait), Stranieri Ovunque (Autoritratto), 2024 Stranieri Ovunque (Autoritratto), Foreigners Everywhere (Self-portrait), 2024 Con il supporto di: Dior, Parigi

Simone Forti Adventure of Red Hat, Red Hat Pursued with Yellow, 1966 Con il supporto di: Galleria Raffaella Cortese | Milano - Albisola The Box, Los Angeles Huddle, from the series Dance Constructions, 1961 Con il supporto di: Galleria Raffaella Cortese | Milano - Albisola The Box, Los Angeles

Lauren Halsey keepers of the krown (antoinette grace halsey), 2024 keepers of the krown (susan burton), 2024 keepers of the krown (patrice rushen), 2024 keepers of the krown (dr. rachel eubanks), 2024 keepers of the krown (suzette johnson), 2024 keepers of the krown (robin daniels), 2024

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Con il supporto di: David Kordansky Gallery Gagosian

MAHKU (Movimento dos Artistas Huni Kuin) Kapewe Pukeni [Bridge-alligator], 2024 Con il supporto di: Bloomberg Fundação Bienal de São Paulo LUMA Foundation

Anna Maria Maiolino Anno 1942, from Mapas Mentais series, 1973-99 INDO & VINDO, 2024 Con il supporto di: Hauser & Wirth, Luisa Strina, San Paolo Galleria Raffaella Cortese | Milano - Albisola Lisa and Tom Blumenthal Eliane and Alvaro Novis SIO-2 | Ceramica Collet

Daniel Otero Torres Aguacero, 2024 Donde llueve y se desborda, 2024 Con il supporto di: Paprec MDB-Métiers du bois Trampoline, Association in support of the French art scene, Paris Ministère de la Culture-DRAC Ile- de-France dans le cadre du déploiement des Résidences d’artistes en entreprise mor charpentier, Bogotá e Parigi Institut français


Kang Seung Lee Kim Yun Shin

Creative Australia Marlene Gilson Naminapu Maymuru-White

Creative New Zealand Brett Graham Fred Graham Mataaho Collective

Danish Arts Foundation Superflex

Diriyah Biennale Foundation Dana Awartani

Hong Kong Arts Development Council Isaac Chong Wai

ifa – Institut für Auslandsbeziehungen Karimah Ashadu Isaac Chong Wai Dean Sameshima Frieda Toranzo Jaeger Rindon Johnson

Mathaf: Arab Museum of Modern Art, Doha, Qatar Rafa al-Nasiri Huguette Caland Saloua Raouda Choucair Mohamed Melehi Mahmoud Saïd Lorna Selim

Ministry of Culture, Arts and Heritage and Ministry of Foreign Affairs, Government of Chile María Aranís Bordadoras de Isla Negra Celia Leyton Vidal Camilo Mori Laura Rodig Pizarro

Mondriaan Fund Antonio Jose Guzman & Iva Jankovic

National Center for Art Research, Japan Tomie Ohtake Kazuya Sakai

Anita Magsaysay-Ho Nena Saguil

Office for Contemporary Art Norway (OCA) Ahmed Umar

PHILEAS – The Austrian Office for Contemporary Art Greta Schödl Leopold Strobl Susanne Wenger

SAHA Association Güneş Terkol Nil Yalter

Istituzioni che supportano le Artiste e gli Artisti

Arts Council Korea

Giulia Andreani Chaouki Choukini Bouchra Khalili Nil Yalter Iván Argote Daniel Otero Torres

National Museum of the Philippines

National Gallery Singapore & Ministry of Culture, Community and Youth of Singapore Affandi Georgette Chen Chua Mia Tee Hendra Gunawan Lai Foong Moi Lê Phô Lim Mu Hue Emiria Sunassa

STRANIERI OVUNQUE

Isaac Chong Wai Antonio Jose Guzman & Iva Jankovic Lydia Ourahmane Puppies Puppies (Jade Guanaro Kuriki-Olivo) Bárbara Sánchez-Kane Joshua Serafin Güneş Terkol Ahmed Umar

Institut Français

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Ammodo






60. ESPOSIZIONE INTERNAZIONALE D’ARTE STRANIERI OVUNQUE – FOREIGNERS EVERYWHERE LA BIENNALE DI VENEZIA Attività Editoriali e Web Responsabile Flavia Fossa Margutti Vol. 1 Editor Adriano Pedrosa Managing Editors Amanda Carneiro Sofia Gotti Coordinamento Editoriale Maddalena Pietragnoli Redazione Francesca Dolzani Giulia Gasparato Ornella Mogno Caterina Moro Sofia Pellegrini

Testi Carla Acevedo Yates, Michela Alessandrini, Saira Ansari, Fadia Antar, Carolina Arévalo Karl, Nadine Atallah, Regina Barros, Sonia Becce, Carmen Belmonte, Vic Brook, Antonella Camarda, Raphael Chikukwa, Diego Chocano, Jessica Clark, Natasha Conland, Gloria Cortes Aliaga, Laura Cosendey, Joselina Cruz, Nicolas Cuello, Nancy Dantas, Matheus de Andrade, Glaucea Helena de Britto, Arthur Debsi, Luce deLire, Tandazani Dhlakama, Sebastián Eduardo, Julia Eilers Smith, Heba Elkayal, Ticio Escobar, José Esparza Chong Cuy, Media Farzin, Merve Fejzula, Tracy Fenix, Raphael Fonseca, Mariella Franzoni, María Amalia García, Jessica Gerschultz, Guilherme Giufrida, Lorenzo Giusti, Natalia Grabowska, Sybilla Griffin, Myrna Guerrero Villalona, Rosario Güiraldes, Latika Gupta, Laura Hakel, Sara Herman, Max Jorge Hinderer Cruz, Teo Hui Min, Marko Ilić, Luiza Interlenghi, Dana Iskakova, Jaya Jacobo, Elena Ketelsen González, Riad Kherdeen, Teresa Kittler, Lex Morgan Lancaster, Lim Shujuan, Joleen Loh, Miguel Lopez, William Hernandez Luege, Florencia Malbrán, Adeena May, André Mesquita, Virginia Moon, Rodrigo Moura, Leandro Muniz, Khushi Nansi, Lucia Neirotti, Nadine Nour el Din, Zamansele Nsele, Fernando Oliva, Ade J. Omotosho, Amanda Pinatih, Eva Posas, Anissa Rahadiningtyas, Ruth Ramsden-Karelse, Sara Raza, Sofía Shaula Reeser-del Rio, Daniel Rey, David Ribeiro, Isabella Rjeille, Xavier Robles Armas, Daniela Rodrigues,

C J Salapare, Rasha Salti, Marco Scotini, Phoebe Scott, Juan Manuel Silverio, Devika Singh, Britte Sloothaak, Kostas Stasinopoulos, Gisela Steinlechner, Suheyla Takesh, Adele Tan, Asep Topan, Lisa Trever, Deniz Turker, Emiliano Valdes, Xin Wang, Wong Binghao, Arzu Yayıntaş, Sonia Zampini Editorial Management per l’Inglese Karen Marta, Todd Bradway, KMEC Books Copyediting Inglese Flatpage Graphic Design e Layout Estudio Campo Paula Tinoco Roderico Souza Carolina Aboarrage Traduzioni e Layout Liberink srls, Padova Stefano Turon Coordinamento Livio Cassese Layout Copyediting Rosanna Alberti Caterina Vettore Traduzioni Salvatore Mele e Giuliana Schiavi per Alphaville Roberta Prandin Fotolito e Stampa Grafiche Antiga Spa via delle Industrie 1, Crocetta del Montello (Treviso) By SIAE 2024 Etel Adnan, Dia al-Azzawi, Rafa al-Nasiri, Giulia Andreani, Iván Argote, Gianni Bertini, Lina Bo Bardi, Victor Brecheret, Chaouki Choukini, Claire Fontaine, Liz Collins, Olga Costa, Filippo de Pisis, Emiliano Di Cavalcanti, Cícero Dias, Ibrahim El-Salahi, Evan Ifekoya, Mohammed Issiakhem,

María Izquierdo, Frida Kahlo, Bouchra Khalili, Wifredo Lam, Judith Lauand, Maggie Laubser, Mohamed Melehi, Carlos Mérida, Malangatana Valente Ngwenya, Daniel Otero Torres, George Pemba, Claudio Perna, Lê Phô, Candido Portinari, Sayed Haider Raza, Diego Rivera, Fanny Sanín, Aligi Sassu, Gerard Sekoto, Gino Severini, Anwar Jalal Shemza, Yinka Shonibare, Francis Newton Souza, Irma Stern, Twins Seven Seven, Ahmed Umar. © La Biennale di Venezia 2024 Tutti i diritti riservati in base alle convenzioni internazionali. Nessuna parte di questo libro può essere riprodotta o trasmessa in qualsiasi forma o con qualsiasi mezzo elettronico, meccanico o altro senza l’autorizzazione scritta dei proprietari dei diritti e dell’editore. Le didascalie e i crediti delle immagini in questa pubblicazione sono stati compilati con la massima cura. Eventuali errori o omissioni non sono intenzionali e saremo lieti di includere crediti appropriati e risolvere eventuali problemi relativi al copyright nelle edizioni future se nuove informazioni saranno portate all’attenzione de La Biennale di Venezia. ISBN 9788898727872 La Biennale di Venezia Prima edizione aprile 2024


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Mostra

2024 Foreigners Everywhere

Stranieri Ovunque

Biennale Arte


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La Biennale di Venezia Presidente

Pietrangelo Buttafuoco Consiglio di Amministrazione Vice Presidente

Luigi Brugnaro Tamara Gregoretti Luca Zaia

Collegio dei Revisori dei Conti Presidente

Pasqualino Castaldi Ines Gandini Angelo Napolitano Direttore Generale

Andrea Del Mercato Direttore Artistico del Settore Arti Visive

Adriano Pedrosa

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60. Esposizione Internazionale d’Arte Struttura Organizzativa

Servizi Centrali

Direttore Generale Andrea Del Mercato

Affari Legali e Istituzionali, Risorse Umane e Vicariato (Deputy)

Curatore della 60. Esposizione Internazionale d’Arte Adriano Pedrosa Organizzazione Artistica Amanda Carneiro Sofia Gotti Design di Mostra Juliana Ziebell De Oliveira Identità Grafica Paula Tinoco

Direttore Debora Rossi Affari Legali e Istituzionali Martina Ballarin Francesca Oddi Francesca Padovan Lucrezia Stocco Risorse Umane Graziano Carrer Luca Carta Giovanni Drudi Antonella Sfriso Alessia Viviani Rossella Zulian

Amministrazione, Finanza, Controllo di Gestione e Sponsorship, Promozione Pubblico Direttore Valentina Borsato Amministrazione, Finanza, Controllo di Gestione Bruna Gabbiato Elia Canal Marco Caruso Giada Doria Martina Fiori Francesca Gallo Elisa Meggiato Irene Scarpa Sefora Tarì Sara Vianello Sponsorship Caterina De Marco Paola Pavan

Promozione Pubblico Carlotta Carminati Caterina Castellani Serena Cutrone Lucia De Manincor Elisabetta Fiorese Stefania Guglielmo Laura Gravina Emanuela Padoan Marta Plevani Marianna Sartore

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Segreterie

Segreteria Generale Chiara Arisi Caterina Boniollo Maria Cristina Cinti Elisabetta Mistri Cerimoniale Francesca Boglietti Lara De Bellis Marta Isman

Segreteria Biennale College Claudia Capodiferro Giacinta Maria Dalla Pietà Servizio Acquisti, Appalti e Amministrazione Patrimonio Direttore Fabio Pacifico Ufficio Acquisti e Appalti Silvia Gatto Marta Artuso Silvia Bruni Angelica Ciabocchi Eleonora Cialini Ufficio Ospitalità Linda Baldan Jasna Zoranovic Donato Zotta

Amministrazione Maurizio Celoni Antonio Fantinelli Ufficio Stampa Istituzionale e Cinema Responsabile Paolo Lughi Cesare Bisantis Francesca Buccaro Michela Lazzarin

Ufficio Attività Editoriali e Web

S A

Responsabile Flavia Fossa Margutti

D O J

Giovanni Alberti Roberta Fontanin Ornella Mogno Nicola Monaco Maddalena Pietragnoli Cristiana Scavone

M E R S S F

Servizi Tecnico Logistici

L M I

Direttore Cristiano Frizzele Progettazione Mostre, Eventi e Spettacolo dal vivo Massimiliano Bigarello Cinzia Bernardi Maria Sol Buso Antonella Campisi Jessica Giassi Valentina Malossi Sandra Montagner

U A

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C p I A A V R G M F F A F G M C D F S M L V F E M L F M F A

Facility Management Giulio Cantagalli Alvise Dolcetta Piero Novello Maurizio Urso

Information Technology Andrea Bonaldo Michele Schiavon Leonardo Viale Jacopo Zanchi Progetti Speciali, Promozione Sedi Direttore Arianna Laurenzi Progetti Speciali Margherita Audisio Valentina Baldessari Francesco Carabba Davide Ferrante Carolina Fullin Anna Mason Elisabetta Parmesan Promozione Sedi Nicola Bon Cristina Graziussi Alessia Rosada

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Dirigente Responsabile Organizzativo Joern Rudolf Brandmeyer Marina Bertaggia Emilia Bonomi Raffaele Cinotti Stefania Fabris Stefania Guerra Francesca Aloisia Montorio Luigi Ricciari Micol Saleri Ilaria Zanella Uffcio Stampa Arti Visive / Architettura Responsabile Maria Cristiana Costanzo Claudia Gioia

Settore Cinema Direttore Generale Andrea Del Mercato Segreteria Mariachiara Manci Alessandro Mezzalira Programmazione della Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica Piera Benedetti Giulia Erica Hornbostel Silvia Menegazzi Daniela Persi

Settore Danza, Musica, Teatro Dirigente Responsabile Organizzativo Francesca Benvenuti Segreteria Veronica Mozzetti Monterumici

Programmazione e Produzione Michela Mason Federica Colella Maya Romanelli

Venice Production Bridge Chiara Marin

Ufficio Stampa Danza, Musica, Teatro

Accrediti Industry/Cinema Flavia Lo Mastro

Responsabile Emanuela Caldirola

Biennale College Cinema Valentina Bellomo

Ilaria Grando

Archivio Storico della Biennale di Venezia ASAC Dirigente Responsabile Organizzativo Debora Rossi Archivio Storico Maria Elena Cazzaro Giovanna Bottaro Michela Campagnolo Marianna Carpentieri Lia Durante Marica Gallina Helga Greggio Judith Kranitz Silvia Levorato Michele Mangione Manuela Momentè Adriana Rosaria Scalise Alice Scandiuzzi

La Biennale di Venezia

Settore Arti Visive / Architettura

Biblioteca Edoardo Armando Valentina Da Tos Valentina Greggio Elena Oselladore

Collaboratori per la 60. Esposizione Internazionale d’Arte Anna Albano Andrea Avezzù Valentina Campana Riccardo Cavallaro Gerardo Ernesto Cejas Marzia Cervellin Francesco di Cesare Francesca Dolzani Andrea Ferialdi Fabrizia Ferragina Giulia Gasparato Matteo Giannasi Caterina Moro Daniele Paolo Mulas Francesca Pavanel Sofia Pellegrini Maria Grazia Pontorno Luca Racchini Valeria Romagnini Solfato Federico Sanna Elisa Santoro Marco Tosato Lucia Toso Flavio Vido Marta Zannoner Francesco Zanon Alessandro Zorzetto

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Media Partner

Grazie a

Cleary Gottlieb Steen & Hamilton LLP

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M I N I S T É R I O DA S R E L AÇ Õ E S EXTERIORES

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Un ringraziamento a quante e quanti, in qualità di Donor, hanno generosamente contribuito alla realizzazione della nostra Mostra Main Donor Teiger Foundation Ford Foundation Ammodo LUMA Foundation

Christian Dior Couture Elisa Nuyten, Founder The Vega Foundation Bernardo Paz Fondazione Sandretto Re Rebaudengo Shah Garg Foundation Sunpride Foundation A&L Berg Foundation Fundación Ama Amoedo Elina e Eduardo Costantini Samsung Foundation of Culture Beatrice Bulgari, Founder Fondazione In Between Art Film

Catherine Petitgas Rennie Collection, Vancouver Erica Roberts Georgiana Rothier e Bernardo Faria Graham Steele e Ulysses de Santi Cristiane Sultani juancarlosverme & proyectoamil Mercedes Vilardell Paulo Albert Weyland Vieira A4 Arts Foundation

Trinity College

Isabel e Agustin Coppel

Alexandre Nobre e Tania Haddad Nobre

Charlotte Feng Ford

Anita Blanchard M.D. e Martin Nesbitt

Pamela J. Joyner e Alfred J. Giuffrida

Liv Barrett e Patrick Collins Estrellita e Daniel Brodsky Füsun Eczacıbaşı Ella Fontanals-Cisneros Cleusa Garfinkel Heitor Martins Luisa Malzoni Strina Michelangelo Foundation for Creativity and Craftsmanship Alexandra Mollof Cav. Simon Mordant AO e Catriona Mordant AM

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Andrea and José Olympio Pereira

Jana e Bernardo Hees

Vera Diniz Alessandra d’Aloia, Alexandre Gabriel e Marcia Fortes NABA, Nuova Accademia di Belle Arti Teresa e Edson Moura Mara e Marcio Fainziliber Juliana Sá e Manuelle Ferraz Friends of the California Institute of the Arts NESR Art Foundation Lista al 27 febbraio 2024

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Leone d’Oro alla carriera 60EIA_Vol1_001-039_03-13.indd 20

Anna Maria Maiolino

SCALEA, ITALIA, 1942 VIVE A SAN PAOLO, BRASILE

Anna Maria Maiolino con la sua straordinaria e poliedrica carriera sessantennale che abbraccia varie tecniche e poetiche sperimentali – tra cui pittura, disegno, stampa xilografica, fotografia, video, performance e scultura – è diventata un punto di riferimento per numerose generazioni di artisti. Nata a Scalea, in Calabria il 20 maggio 1942, nel 1954 emigra con la famiglia a Caracas, in Venezuela dove, tra il 1958 e il 1960, studia alla Escuela de Artes Visuales Cristóbal Rojas. Nel 1960 si trasferisce a Rio de Janeiro, in Brasile, dove frequenta la Escola Nacional de Belas Artes. Dopo la laurea, negli anni Sessanta entra a far parte del noto movimento artistico brasiliano Nova Figuração, una reazione all’astrazione infusa di influssi Pop che riflette anche il duro clima politico del Paese durante i primi anni della dittatura militare (1964-1985). In questo periodo, Maiolino continua a sviluppare il proprio linguaggio visivo frequentando i famosi corsi d’arte tenuti dall’artista Ivan Serpa al Museu de Arte Moderna do Rio de Janeiro. Nel 1964 tiene la sua prima mostra personale alla Galeria G di Caracas, e nel 1967 partecipa alla storica mostra Nova Objetividade Brasileira a Rio de Janeiro. Gli anni tra il 1968 e il 1971 la vedono a New York dove studia al Pratt Graphics Center, allargando i propri orizzonti artistici per includere varie tecniche e la poesia sperimentale. I dipinti degli anni Sessanta sono alquanto radicali, poiché combinano l’immaginario Pop con il tipico repertorio della Nova Figuração, concentrandosi su personaggi e narrazioni politiche, oltre che su riferimenti personali, corporei e familiari.

Alla fine degli anni Settanta, inizia a dedicarsi all’arte performativa e nel 1981 mette in scena le sorprendenti Entrevidas, in cui decine di uova sono disseminate sul pavimento, su cui lei cammina accogliendo la sfida di muoversi come in un “campo minato”, tenendo conto della fragilità e della precarietà dell’uovo, simbolo della vita stessa. Negli anni Ottanta, comincia a lavorare con l’argilla, rivelando così nelle sue sculture e nei suoi rilievi una nuova attenzione, tuttora presente, per l’espressione gestuale, la manualità e il rapporto con i materiali elementari. Per la Biennale Arte 2024 Maiolino presenta una nuova opera di grandi dimensioni che prosegue e sviluppa la serie di sculture e installazioni in argilla. Il Leone d’Oro alla carriera, premio ricevuto in occasione di questa sua prima partecipazione, ne riconosce l’importanza sia in Italia, suo Paese d’origine, sia a livello internazionale.

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IL CAIRO, EGITTO, 1938 VIVE A PARIGI, FRANCIA

Nil Yalter, artista turca nata al Cairo, nel 1965 si trasferisce a Parigi, trasferimento che comporta un enorme impatto tanto sulla sua vita quanto sulla scena artistica della città dove tuttora risiede. Universalmente considerata una pioniera del movimento artistico femminista globale, Yalter, pur non avendo mai ricevuto una istruzione formale nelle arti visive, da artista autodidatta opera una costante ricerca sulle proprie pratiche e aree di interesse, che vanno dalla pittura al disegno, dal video alla scultura, all’installazione. La sua carriera inizia nel 1957, anno della sua prima mostra all’Institut Français en Inde di Mumbai. Tuttavia, è durante gli anni Sessanta che approfondisce la propria pratica. Con l’arrivo a Parigi, l’opera di Yalter inaugura un capitolo davvero radicale e pionieristico, poiché inizia ad affrontare temi sociali, in particolare quelli legati all’immigrazione e all’esperienza femminile, in un’esplorazione e in uno sviluppo davvero unici delle pratiche artistiche concettuali. Nel 1973, crea l’innovativa installazione Topak Ev, esposta in una personale al Musée d’Art Moderne de la Ville de Paris e che è presentata in una nuova versione rivisitata alla Biennale Arte 2024. L’anno successivo realizza The Headless Woman or the Belly Dance, un’opera video fondamentale che affronta il tema della liberazione sessuale femminile e dell’oggettificazione orientalista delle donne mediorientali. Un’altra opera straordinaria di questo periodo è La Roquette, Prison de Femmes del 1974, che presenta la testimonianza di un’ex detenuta del famoso carcere femminile francese. Inoltre, la sua opera

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Temporary Dwellings, esposta per la prima volta nel 1977, analizza la vita dei lavoratori migranti, attraverso il racconto delle donne. Negli anni Ottanta, Yalter realizza diverse opere in collaborazione con Nicole Croiset, tra cui The Rituals (1980) e Women at Work, Women at Home (1981). Gli anni Novanta segnano per l’artista un periodo di esplorazione creativa e di riconoscimenti, durante il quale sperimenta i media digitali. In occasione della 60. Esposizione Internazionale d’Arte, Yalter presenta anche una nuova riconfigurazione della sua innovativa installazione Exile is a Hard Job, collocata nella sala di apertura del Padiglione Centrale. Questa è la prima partecipazione dell’artista alla Biennale Arte. Il Leone d’Oro alla carriera riconosce il suo significativo contributo all’intersezione tra arti visive e migrazione.

STRANIERI OVUNQUE

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Nil Yalter

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Premi

La Giuria Internazionale conferisce i premi: Leone d’Oro per la miglior Partecipazione Nazionale Leone d’Oro per il Miglior Partecipante della Mostra Internazionale Stranieri Ovunque - Foreigners Everywhere Leone d’Argento per un promettente giovane partecipante della Mostra Internazionale Stranieri Ovunque - Foreigners Everywhere

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La Giuria Internazionale

Julia Bryan-Wilson

è docente di arte contemporanea e studi LGBTQ+ alla Columbia University. Tra le sue curatele figurano Cecilia Vicuña: About to Happen (con Andrea Andersson) e Louise Nevelson: Persistence. È autrice di Art Workers: Radical Practice in the Vietnam War Era; Fray: Art and Textile Politics (vincitore dell’ASAP Book Prize, del Frank Jewett Mather Award e del Robert Motherwell Book Award); e Louise Nevelson’s Sculpture: Drag, Color, Join, Face. Nel 2019 ha ricevuto la Guggenheim Fellowship.

Elena Crippa

è una curatrice italiana che vive e lavora a Londra. Dal 2023 è Head of Exhibitions alla Whitechapel Gallery di Londra. In precedenza, è stata Senior Curator of Modern and Contemporary Art alla Tate Britain, dove le sue mostre hanno esplorato intersezioni transnazionali e transculturali e si sono confrontate con l’arte da una prospettiva globale. Le sue mostre alla Tate includono All Too Human: Bacon, Freud and a Century of Painting Life (2018), Frank Bowling (2019), Paula Rego (2021) e la commissione Hew Locke: The Procession del 2022.

Chika Okeke-Agulu

è direttore del Programma di studi africani, direttore dell’Africa World Initiative e Robert Schirmer Professor di arte & archeologia e studi afroamericani alla Princeton University. È direttore di Nka: Journal of Contemporary African Art, Slade Professor di belle arti dell’Università di Oxford (2023) e Fellow della British Academy. È autore di El Anatsui. The Reinvention of Sculpture (2022) e fa parte del comitato scientifico dello Hyundai Tate Research Centre, Tate Modern. è una curatrice franco-colombiana, attualmente direttrice della Walter Leblanc Foundation di Bruxelles e direttrice artistica di Tropical Papers. Profondamente impegnata nel promuovere il dialogo tra la produzione artistica e i contesti storici, politici e sociali a livello locale e globale, da sempre sostiene l’interconnessione fra l’arte e le sue più ampie implicazioni culturali. È stata direttrice del CAPC Musée d’art Contemporain di Bordeaux, curatrice del MASP di San Paolo, curatrice capo del MUAC di Città del Messico così come del MUSAC in Spagna e curatrice ospite del Jeu de Paume di Parigi.

Alia Swastika

è una curatrice e ricercatrice/scrittrice che negli ultimi dieci anni ha esteso le proprie pratiche professionali al tema e alle prospettive della decolonialità e del femminismo, prendendo parte a diversi progetti di decentralizzazione dell’arte, riscrivendo la storia dell’arte e incoraggiando l’attivismo locale. Attualmente è direttrice della Biennale Jogja Foundation a Yogyakarta, in Indonesia. Continua la propria ricerca sulle artiste indonesiane durante il Nuovo Ordine e su come le politiche di genere del regime abbiano influenzato le pratiche degli artisti di quel periodo. Attualmente fa parte del team curatoriale della 16. Biennale di Sharja nel 2025.

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STRANIERI OVUNQUE

María Inés Rodríguez

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Indice

Interviste

29 Introduzione Pietrangelo Buttafuoco

65 Adriano Pedrosa intervistato da Julieta González

35 Sulla 60. Esposizione Internazionale d’Arte Roberto Cicutto

81 Claire Fontaine intervistati da Adriano Pedrosa

47 Stranieri Ovunque – Foreigners Everywhere Adriano Pedrosa

95 Anna Maria Maiolino intervistata da Amanda Carneiro

57 Ringraziamenti

107 Nil Yalter intervistata da Sofia Gotti

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ESTRANGEIROS EM TODO LUGAR

Introduzioni

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Saggi

Mostra

119 Stranieri Ovunque Claire Fontaine

204 Nucleo Contemporaneo

125 Il tempo del migrante Ranajit Guha

Nucleo Storico 431 Ritratti 549 Astrazioni 591 Italiani ovunque

133 La storia dell’arte dopo la globalizzazione: le formazioni del moderno coloniale Kobena Mercer

634 Padiglione Arti Applicate Progetto Speciale

143 L’artigianato e il corpo sociale indigeno Naine Terena de Jesus 149 L’arte indigena contemporanea come trappola per trappole Jaider Esbell 157 Oltre la giustizia rappresentativa Luce deLire

STRANIERI OVUNQUE

165 Questioni nell’arte popolare Ticio Escobar 183 Colonialità: il lato oscuro della modernità Walter D. Mignolo

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643 Elenco delle opere 673 Biennale College Arte

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Artisti

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‫ألجانب في كل مكان‬

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Pacita Abad Mariam Abdel-Aleem Etel Adnan Sandy Adsett Affandi Zubeida Agha Dia al-Azzawi Claudia Alarcón & Silät Rafa al-Nasiri Miguel Alandia Pantoja Aloïse Giulia Andreani Claudia Andujar María Aranís Aravani Art Project Iván Argote Karimah Ashadu Dana Awartani Aycoobo (Wilson Rodríguez) Margarita Azurdia Leilah Babirye Libero Badíi Ezekiel Baroukh Baya Aly Ben Salem Semiha Berksoy Gianni Bertini Lina Bo Bardi Maria Bonomi Bordadoras de Isla Negra Victor Brecheret Huguette Caland Sol Calero Elda Cerrato Mohammed Chebaa Georgette Chen Galileo Chini Kudzanai Chiurai Isaac Chong Wai Saloua Raouda Choucair Chaouki Choukini Chua Mia Tee Claire Fontaine Manauara Clandestina River Claure Julia Codesido Liz Collins Jaime Colson Waldemar Cordeiro Monika Correa Beatriz Cortez Olga Costa Miguel Covarrubias Victor Juan Cúnsolo Andrés Curruchich Rosa Elena Curruchich Djanira da Motta e Silva Olga de Amaral Filippo de Pisis

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Juan Del Prete Pablo Delano Emiliano Di Cavalcanti Danilo Di Prete Cícero Dias

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Disobedience Archive – Marco Scotini con Ursula Biemann, Black Audio-Film Collective, Seba Calfuqueo, Simone Cangelosi, Cinéastes pour les sans-papiers, Critical Art Ensemble, Snow Hnin Ei Hlaing, Marcelo Expósito with Nuria Vila, Maria Galindo & Mujeres Creando, Barbara Hammer, mixrice, Khaled Jarrar, Sara Jordenö, Bani Khoshnoudi, Maria Kourkouta & Niki Giannari, Pedro Lemebel, LIMINAL & Border Forensics (Lorenzo Pezzani, Jack Isles, Giovanna Reder, Stanislas Michel, Chiara Denaro, Alagie Jinkang, Charles Heller, Kiri Santer, Svitlana Lavrenchuk, Luca Obertüfer), Angela Melitopoulos, Jota Mombaça, Carlos Motta, Zanele Muholi, Pınar Öğrenci, Daniela Ortiz, Thunska Pansittivorakul, Anand Patwardhan, Pilot TV Collective, Queerocracy, Oliver Ressler and Zanny Begg, Carole Roussopoulos, Güliz Sağlam, Irwan Ahmett & Tita Salina, Tejal Shah, Chi Yin Sim, Hito Steyerl, Sweatmother, Raphaël Grisey e Bouba Touré, Nguyễn Trinh Thi, James Wentzy, Želimir Žilnik

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Juana Elena Diz Tarsila do Amaral Saliba Douaihy Dullah Inji Efflatoun Uzo Egonu

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Mohammad Ehsaei Hatem El Mekki Aref El Rayess Ibrahim El-Salahi Elyla Ben Enwonwu Romany Eveleigh Hamed Ewais Dumile Feni Alessandra Ferrini Cesare Ferro Milone Raquel Forner Simone Forti Victor Fotso Nyie Louis Fratino Paolo Gasparini Ṣàngódáre Gbádégẹsin Àjàlá Umberto Giangrandi Madge Gill Marlene Gilson Luigi Domenico Gismondi Gabrielle Goliath Brett Graham Fred Graham Enrique Grau Araújo Oswaldo Guayasamín Nedda Guidi Hendra Gunawan Antonio Jose Guzman & Iva Jankovic Marie Hadad Samia Halaby Tahia Halim Lauren Halsey Nazek Hamdi Mohamed Hamidi Faik Hassan Kadhim Hayder Gilberto Hernández Ortega Carmen Herrera Evan Ifekoya Julia Isídrez Mohammed Issiakhem Elena Izcue María Izquierdo Nour Jaouda Rindon Johnson Joyce Joumaa Mohammed Kacimi Frida Kahlo Nazira Karimi George Keyt Bhupen Khakhar Bouchra Khalili Kiluanji Kia Henda Linda Kohen Shalom Kufakwatenzi Ram Kumar Fred Kuwornu

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568 312/611 612 569 487 488 314 489 570 316 318 571 490 491 320 322 613 492 493 494 495 496 497 498 324 614 326 499 328 330 500 572 501 573 574 332 334 502 336 503 504 615 616 505 481

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Bona Pieyre de Mandiargues Ester Pilone La Chola Poblete Charmaine Poh Maria Polo Candido Portinari Sandra Poulson B. Prabha Lidy Prati Puppies Puppies (Jade Guanaro Kuriki-Olivo) Lee Qoede Agnes Questionmark Violeta Quispe Alfredo Ramos Martínez Sayed Haider Raza Armando Reverón Emma Reyes Diego Rivera Juana Marta Rodas Laura Rodig Abel Rodríguez Aydeé Rodríguez López Freddy Rodríguez Miguel Ángel Rojas Rosa Rolanda Jamini Roy Rómulo Rozo Erica Rutherford José Sabogal Mahmoud Sabri Syed Sadequain Nena Saguil Mahmoud Saïd Kazuya Sakai Ione Saldanha Dean Sameshima Zilia Sánchez Bárbara Sánchez-Kane Nenne Sanguineti Poggi Fanny Sanín Aligi Sassu Greta Schödl Ana Segovia Gerard Sekoto Jewad Selim Lorna Selim Joshua Serafin Kang Seung Lee Gino Severini Amrita Sher-Gil Anwar Jalal Shemza Yinka Shonibare Doreen Sibanda Fadjar Sidik Gazbia Sirry Lucas Sithole Francis Newton Souza Joseph Stella Irma Stern Leopold Strobl

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Emiria Sunassa Superflex Armodio Tamayo Maria Taniguchi Evelyn Taocheng Wang Lucy Tejada Mariana Telleria Güneş Terkol Eduardo Terrazas Clorindo Testa Salman Toor Frieda Toranzo Jaeger Horacio Torres Joaquín Torres-García Mario Tozzi Twins Seven-Seven Ahmed Umar Artiste cilene ignote, Arpilleristas Rubem Valentim Edoardo Daniele Villa Eliseu Visconti Alfredo Volpi Kay WalkingStick WangShui Agnes Waruguru Barrington Watson Osmond Watson Susanne Wenger Emmi Whitehorse Selwyn Wilson Chang Woosoung Celeste Woss y Gil Xiyadie Rember Yahuarcani Santiago Yahuarcani Nil Yalter Joseca Mokahesi Yanomami André Taniki Yanomami Yêdamaria Ramsès Younan Kim Yun Shin Fahrelnissa Zeid Anna Zemánková Bibi Zogbé Beatriz Milhazes

STRANIERI OVUNQUE

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Grace Salome Kwami Lai Foong Moi Wifredo Lam Judith Lauand Maggie Laubser Simon Lekgetho Celia Leyton Vidal Lim Mu Hue Romualdo Locatelli Bertina Lopes Amadeo Luciano Lorenzato Anita Magsaysay-Ho MAHKU (Movimento dos Artistas Huni Kuin) Esther Mahlangu Anna Maria Maiolino Anita Malfatti Ernest Mancoba Edna Manley Josiah Manzi Teresa Margolles Maria Martins María Martorell Mataaho Collective Naminapu MaymuruWhite Mohamed Melehi Carlos Mérida Gladys Mgudlandlu Omar Mismar Sabelo Mlangeni Tina Modotti Bahman Mohasses Roberto Montenegro Camilo Mori Ahmed Morsi Effat Naghi Ismael Nery Malangatana Valente Ngwenya Paula Nicho Costantino Nivola Taylor Nkomo Marina Núñez del Prado Philomé Obin Sénèque Obin Alejandro Obregón Tomie Ohtake Uche Okeke Marco Ospina Samia Osseiran Junblatt Daniel Otero Torres Lydia Ourahmane Pan Yuliang Dalton Paula Amelia Peláez George Pemba Fulvio Pennacchi Claudio Perna Emilio Pettoruti Lê Phô

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477 478 479 567 480 483 484 485 609 308 610

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Introduzione 28 60EIA_Vol1_001-039_03-13.indd 28

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Proprio la bussola è importante per comprendere questo cambio di paradigma. Pedrosa è il primo curatore della Biennale Arte proveniente dal Sud America, e quindi sa bene che gli stessi punti cardinali sono forme simboliche antropizzate, col Nord in testa – con tanto di comodo cappello – e il Sud ai piedi, tenuti scalzi manco a dirlo. 60EIA_Vol1_001-039_03-13.indd 29

STRANIERI OVUNQUE 29

Adriano Pedrosa firma per La Biennale una Esposizione che riflette la sua personale attitudine di studio e ricerca su cui non pesa il pregiudizio del già conosciuto. Dove la vertigine dell’ignoto è parte integrante del processo fruitivo, e lo sperdimento si fa leva efficace per individuare nuovi punti cardinali.

FOREIGNERS EVERYWHERE

PIETRANGELO BUTTAFUOCO PRESIDENTE LA BIENNALE DI VENEZIA

La 60esima edizione della Biennale Arte è già tutta nel suo titolo Stranieri Ovunque – Foreigners Everywhere. Due parole potenti e “scandalose” che spalancano scenari attuali e universi possibili, al cui orizzonte si compone la linea di pensiero curatoriale, nitida nel colpo d’occhio della distanza, vibrante di contrasti complessi se osservata più da vicino.

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INTRODUZIONE PIETRANGELO BUTTAFUOCO 30

Straniero tra gli stranieri è – a piedi scalzi – il viandante in cammino tra i tratturi più impervi, il mendico nei cui stracci sovente si nasconde un Dio, quel nume sconosciuto a se stesso da cui gemma il rinnovarsi delle stirpi. È Enea che si lascia alle spalle il fuoco di Ilio per fondare – da straniero – una civiltà dell’universale dove nessuno più è un barbaro ma un cittadino. Ed è pertanto che il principio guida della selezione degli artisti privilegia chi non ha mai partecipato alla Esposizione. Illuminando il percorso dei Modernismi al di fuori dell’anglosfera. Presentando geografie dimenticate e ai confini del dettato vigente, seppure ben chiare sul planisfero. Dando consistenza a vuoti che di fatto non lo erano - un po’ come accade nelle sculture di Rachel Whiteread - e restituirsi, infine, al pensiero aurorale, quella nostalgia delle cose – accade nel linguaggio, nell’inverarsi del flatus vocis – che non ebbero mai un cominciamento. Con un esplicito riferimento al Manifesto antropofago di Oswald de Andrade, il curatore spiega come i Modernismi del Sud Globale abbiano dovuto cannibalizzare le culture post coloniali egemoni per affermarsi. Una forma di resistenza artistica che – nel caso brasiliano – richiama il rituale cannibalico pre-invasione del popolo Tupinambá. Il dipinto di Tarsila do Amaral che spinse de Andrade a scrivere il suo Manifesto era intitolato appunto Abaporu, che in lingua Tupi significa “uomo che mangia la gente”. E del mangiare – del nutrirsi – se ne fa radice sacrissima, non certo antropologia, come nel codice mediterraneo a noi familiare dei due conturbanti virgulti, ovvero Dioniso e poi Gesù, il Nazareno. Due rappresentazioni della resurrezione del “Dio ucciso”, due distinti banchetti cui partecipa gente che mangia altra gente, come Dioniso – il figlio che Zeus partorisce dal proprio polpaccio, ridotto in lacerti, masticato e inghiottito dalle Menadi – e come Gesù, il figlio di Maria, la Prescelta, eucaristicamente fatto ostia nella liturgia, presenza nel rito e dunque promessa propria dell’Eterno per tramite del suo stesso corpo, cibo per tutti. In questa edizione la Biennale Arte presenta un nucleo contemporaneo e uno storico, con un’ampia presenza

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La città che ben 129 anni fa ideò la prima Biennale Internazionale d’Arte, rinnova le sue promesse di curiosità e amore di conoscenza. Le stesse che spinsero Marco Polo - di cui proprio nel 2024 si celebrano i settecento anni dalla scomparsa - a visitare e incontrare culture percepite come lontane e minacciose. Integrandosi, lui straniero in quelle terre, in virtù di uno scambio sinceramente umano e alla pari. Erano i tempi in cui il mercato di Rialto risuonava di lingue, etnie, fogge e vitalità. E tanti paesi avevano a Venezia i Fondeghi - dei Turchi, dei Siriani, dei Tedeschi - depositi della loro manifattura e del loro 60EIA_Vol1_001-039_03-13.indd 31

STRANIERI OVUNQUE

Questa edizione della Mostra ospita frammenti di bellezza marginalizzata, esclusa, punita, cancellata da schemi di geo-pensiero dominante. Così i temi cogenti della Mostra di Pedrosa, il diverso, lo straniero, il viaggio, l’integrazione, riverberano nelle acque sempre calme e sempre nuove della città lagunare. Ancora una volta Venezia - nei secoli culla dolce di conoscenza e comunicazione tra popoli, etnie, religioni - è la piazza naturale da cui smistare nuovi punti di vista e Fare Mondi - per dirla con un lessico qui di casa.

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E sempre due sono i fili che percorrono la selezione del curatore: la volontà esplicita di focalizzarsi su opere che usano il linguaggio del tessile; e sul legame di sangue che collega diversi degli artisti in rassegna. Un ritorno dunque ai tempi dilatati della res extensa e dei rapporti umani viscerali, intesi come scrigno di tradizione e trasmissione di conoscenze, in un’epoca dominata dall’immateriale e dalla spersonalizzazione di contenuti e forme.

どこでも外国人

di artisti italiani della diaspora del XX secolo, i cui lavori sono esposti su i glass easels progettati da Lina Bo Bardi, per il MASP di San Paolo del Brasile. Per la prima volta un collettivo artistico indigeno dell’Amazzonia – MAHKU (Movimento dos Artistas Huni Kuin) – si prende la scena, con un intervento monumentale sulla facciata del Padiglione Centrale. Settecento metri quadri di visioni sacre mediate dal rituale dell’ayahuasca, un’esperienza questa – altrettanto sacrale – che il Vecchio Continente ha esperito per tramite di scrittura e di vissuto con gli Annäherungen di Jünger.

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INTRODUZIONE

ingegno. La Biennale - con i suoi Padiglioni Nazionali, le opere, i visitatori e gli artisti da ogni parte del mondo - era già lì, nel destino della città. Di fatto, per Venezia la diversità si è posta sin dall’inizio come condizione imprescindibile di normalità. In un processo specchiante e di confronto con l’altro da sé, mai percepito in termini di negazione. Un viaggio mentale e fisico di undici mesi quello di Pedrosa, fra Cile, Messico, Argentina, Colombia, Porto Rico, Guatemala, Kenya, Zimbabwe, Angola, Sudafrica, Singapore, Indonesia, Medio Oriente. Poi, infine, il ritorno in laguna per ricostruire qui la sua personale Favola di Venezia. Ovvero la sua Sirat al Bunduqiyyah. Unica Venezia - tra le città europee ad avere sin dall’anno mille un suo nome arabo. La cui costellazione di significati fa da prodigioso controcanto alla 60. Esposizione Internazionale d’Arte. Bunduqiyyah: diverso, meticcio, mescolanza di genti, straniero.

PIETRANGELO BUTTAFUOCO

Stranieri, Ovunque.

Il mio grazie al Presidente Roberto Cicutto della cui semina – nel gemmare di tutto – faccio raccolta, senza nulla disperdere.

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E grazie all’intera squadra della Fondazione La Biennale di Venezia, cattedra di spirito critico, immaginazione e potenza di vivo segno.

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KUMAACHI-U ‘AGA-VA-TU-SAPA-NUM

ROBERTO CICUTTO SULLA 60. ESPOSIZIONE INTERNAZIONALE D’ARTE

Nel 2023 la 18. Mostra Internazionale di Architettura dal titolo The Laboratory of the Future è stata affidata alla curatela di Lesley Lokko, architetta e scrittrice nata in Ghana da madre scozzese e padre ghanese.

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Entrambi vengono da due grandi Paesi e continenti del Sud del mondo. Tuttavia le ragioni per cui li ho scelti sono diverse. Ho scelto Lesley Lokko perché parte dall’Africa, il più giovane continente in termini anagrafici e ne fa un “laboratorio del futuro” per il modo in cui ha affrontato le più importanti sfide contemporanee mettendo al centro i temi della decolonizzazione e della decarbonizzazione. Questa impostazione ha permesso a molti di noi di ascoltare voci mai udite finora sorprendendoci per quanto poco conosciamo di quel continente.

STRANIERI OVUNQUE

Adriano Pedrosa, curatore della 60. Esposizione Internazionale d’Arte, è nato, vive e lavora in Brasile dove dirige il MASP (Museu de Arte de São Paulo) ed è il primo curatore della Biennale Arte proveniente dall’America Latina.

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SULLA 60. ESPOSIZIONE INTERNAZIONALE D’ARTE

Ho scelto Adriano Pedrosa perché porti il suo punto di vista sull’arte contemporanea, guardando e rileggendo culture diverse, come in un controcampo cinematografico. Già con il titolo che ha scelto, Stranieri Ovunque - Foreigners Everywhere, ci fa capire che la sua Esposizione dà voce non solo ad artisti emarginati o legati a culture remote e ancora poco conosciute, ma soprattutto a tutti coloro che condividono l’appartenenza a uno stato d’animo comune a molti maestri dell’arte in ogni epoca e in ogni latitudine, che hanno sviluppato la propria creatività nelle molte diaspore imposte dalla storia, nel sentirsi estranei perfino in casa propria o appartenenti alle mille diversità rispetto a quanto tradizionalmente considerato ”normale”. E soprattutto ci porta la visione di un curatore che dichiara di essere fortemente partecipe di questo stato d’animo per esperienza personale e per cultura.

ROBERTO CICUTTO

Sarà anche un viaggio nella bellezza dell’arte (parole del curatore) che sa parlare a tutti affrontando anche temi etici e sociali con la forza della creazione artistica. Scegliere un curatore da proporre al Consiglio di Amministrazione per la sua nomina è la responsabilità più impegnativa per il Presidente della Biennale di Venezia, non priva di rischi. Per questo bisogna farsi guidare - oltre che dalla ovvia necessità di cercare fra personalità competenti e di rilevanza internazionale - da un indispensabile rapporto di fiducia con chi viene investito di questa responsabilità, che va costruita in fase istruttoria e rinsaldata nella preparazione della Mostra, per lasciare infine alla curatrice o al curatore totale autonomia nelle proprie scelte.

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Quel che conta è che chi è chiamato a rappresentare il mondo nel quadro della Mostra Internazionale sia sensibile ai temi della contemporaneità e capace, al tempo stesso, di coinvolgere i Paesi partecipanti in un dialogo con il tema proposto.

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Molti dei Paesi partecipanti a questa edizione traggono ispirazione dal tema del curatore, segno che Pedrosa ha toccato una corda molto sensibile e condivisa. Nei tempi difficili che il mondo sta attraversando, questa partecipazione così ampia (88) conferma la natura della Biennale, che resta non solo un osservatorio unico sullo stato del mondo dal punto di vista delle arti, ma continua anche a rivelarsi un luogo necessario che, oltre la politica e la diplomazia, offre numerose e preziose occasioni di dialogo e confronto. 60EIA_Vol1_001-039_03-13.indd 37

STRANIERI OVUNQUE

Adriano Pedrosa, così come alcuni suoi predecessori, è molto attento ai temi della sostenibilità, tenuti in gran conto nel programmare e allestire la sua Mostra. La Biennale ha investito molto in questo obiettivo, mettendo in atto pratiche che hanno portato negli ultimi due anni al riconoscimento della certificazione della “neutralità carbonica” per tutte le sue manifestazioni. Che questo sia avvenuto grazie a una istituzione culturale di rilevanza mondiale e nella città di Venezia, simbolo di molte vulnerabilità, è un risultato di cui siamo orgogliosi.

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Diverse volte in questi anni è stato posto l’accento su come le manifestazioni della Biennale non debbano nascere e morire nel perimetro delle loro date di inizio e fine. Tutti i contenuti devono trovare posto in uno spazio a disposizione di chi (addetti ai lavori o meno) li vuole approfondire. Lo strumento perché questo avvenga è lo sviluppo dell’Archivio Storico nel nuovo Centro Internazionale della Ricerca sulle Arti Contemporanee, progetto appoggiato e sostenuto nel quadriennio che si conclude quest’anno dai governi che si sono succeduti con uguale impegno e condivisione. È un risultato importante per La Biennale di Venezia, che in questo modo trasforma un progetto culturale in un grande disegno che coinvolge, a partire da Venezia, l’intero mondo delle attività artistiche, portando benefici per i residenti in città e nei territori limitrofi, per il mondo della formazione e per il recupero e restauro di luoghi ed edifici di grande importanza storica e culturale.

DOXANDÉEM FÉPP

Più il tema è condiviso, più interessante sarà l’esito della Mostra e più forte l’impatto delle riflessioni che genererà.

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SULLA 60. ESPOSIZIONE INTERNAZIONALE D’ARTE

Che questo accada è l’augurio più sincero che faccio a Adriano Pedrosa, al Presidente Pietrangelo Buttafuoco, agli artisti, ai Paesi partecipanti e a tutti coloro che hanno lavorato alla realizzazione della 60esima edizione della Biennale Arte. Ringraziamo il Ministero della Cultura, le Istituzioni del territorio che in vario modo sostengono La Biennale, la Città di Venezia, la Regione del Veneto, la Soprintendenza Archeologia, belle arti e paesaggio per il Comune di Venezia e Laguna, la Marina Militare. Un ringraziamento va al Partner Swatch, al Main Sponsor illycaffè e agli Sponsor American Express, Bloomberg Philantropies e Vela-Venezia Unica e alla Rai, Media Partner della Biennale Arte 2024. Si ringraziano i Donor, gli Enti e Istituzioni internazionali importanti nella realizzazione della Mostra.

Grazie, infine, a tutte le grandi professionalità della Biennale applicate con grande dedizione alla realizzazione e alla gestione della Mostra.

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ROBERTO CICUTTO

In particolare, i ringraziamenti vanno a Adriano Pedrosa e a tutto il suo team.

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LANGUAGE IS A MIGRANT, IN AND IF I DEVOTED MY LIFE TO ONE OF ITS FEATHERS? AESTHETIC RESPONSES TO EXTRACTION, ACCUMULATION, AND DISPOSSESSION, A CURA DI MIGUEL A. LÓPEZ, LONDRA, STERNBERG PRESS, 2023.

La lingua è migrante. Le parole si spostano di lingua in lingua, di cultura in cultura, di bocca in bocca. I nostri corpi sono migranti, le cellule e i batteri sono anch’essi migranti. Anche le galassie migrano.

CECILIA VICUÑA


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CH’IXINAKAX UTXIWA: A REFLECTION ON THE PRACTICES AND DISCOURSES OF DECOLONIZATION, IN “THE SOUTH ATLANTIC QUARTERLY”, 111, 1 (INVERNO 2012).

Il mondo indigeno non concepisce la storia come lineare; il passato-futuro è contenuto nel presente. La regressione o la progressione, la ripetizione o il superamento del passato entrano in gioco in ogni circostanza e dipendono più dalle nostre azioni che dalle nostre parole. Il progetto di modernità indigena può emergere dal presente in una spirale il cui movimento è un continuo feedback fornito dal passato al futuro – un “principio di speranza” o “coscienza anticipatrice” – che riconosce e allo stesso tempo realizza la decolonizzazione.

SILVIA RIVERA CUSICANQUI


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LINA BO BARDI, DOCUMENTO SENZA TITOLO/NON DATATO, IN MARCELO FERRAZ, LINA BO BARDI, SAN PAOLO, INSTITUTO LINA BO BARDI, MILANO, CHARTA, 1993.

Il tempo lineare è un’invenzione dell’Occidente; il tempo non è lineare, è un meraviglioso reticolo, dove in ogni momento si possono scegliere punti e inventare soluzioni senza inizio né fine.

LINA BO BARDI


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STRANIERI OVUNQUE

Il contesto in cui si colloca l’opera è un mondo brulicante di crisi multiformi che riguardano il movimento e l’esistenza delle persone all’interno di Paesi, nazioni, territori e confini; crisi che riflettono i pericoli e le insidie legate a questioni di lingua, traduzione e nazionalità, che a loro volta mettono in luce differenze e disparità condizionate da identità, cittadinanza, razza, genere,

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Il titolo della 60. Esposizione Internazionale d’Arte è tratto da una serie di lavori realizzati a partire dal 2004 dal collettivo Claire Fontaine, nato a Parigi e con sede a Palermo. Le opere consistono in sculture al neon di diversi colori che riportano in un numero crescente di lingue le parole “Stranieri Ovunque”. L’espressione è stata a sua volta ripresa dal nome di un omonimo collettivo torinese che nei primi anni 2000 combatteva il razzismo e la xenofobia in Italia. La serie di sculture al neon di Claire Fontaine - esposte in una nuova installazione in grande scala alle Gaggiandre, in Arsenale - comprende al momento più di cinquanta lingue – occidentali e no, tra cui diversi idiomi indigeni, alcuni dei quali di fatto estinti.

處處都是外人

ADRIANO PEDROSA CURATORE DELLA 60. MOSTRA INTERNAZIONALE D’ARTE

Stranieri Ovunque — Foreigners Everywhere

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STRANIERI OVUNQUE — FOREIGNERS EVERYWHERE ADRIANO PEDROSA

sessualità, libertà e ricchezza. In questo panorama, l’espressione “Stranieri Ovunque” assume più di un significato. Innanzitutto, significa che ovunque si vada e ovunque ci si trovi si incontreranno sempre degli stranieri: sono/siamo ovunque. In secondo luogo, significa che a prescindere dalla propria ubicazione, nel profondo e di fatto si è sempre stranieri. Inoltre, l’espressione assume un significato molto particolare e specifico a Venezia: una città la cui popolazione originaria era costituita da profughi provenienti dai centri urbani romani, una città che in passato ha rappresentato il più importante fulcro di scambio e commercio internazionale del Mediterraneo, una città che è stata capitale della Repubblica di Venezia, dominata da Napoleone Bonaparte e conquistata dall’Austria, e la cui popolazione è oggi costituita da circa 50.000 residenti, ma che nei periodi di alta stagione può raggiungere picchi di 165.000 persone in un solo giorno a causa dell’enorme numero di turisti e viaggiatori (stranieri di tipo privilegiato) che la visitano. A Venezia gli stranieri sono ovunque. Ma si può anche pensare a questa espressione come a un motto, a uno slogan, a un invito all’azione, a un grido di eccitazione, di gioia o di paura: Stranieri Ovunque! E, soprattutto, oggi assume un significato cruciale in Europa, nel Mediterraneo e nel mondo, dal momento che nel 2022 il numero di “migranti forzati” ha toccato l’apice (con 108,4 milioni secondo l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati) e si presume che nel 2023 sia ulteriormente aumentato.

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Nelle più disparate circostanze, gli artisti da sempre viaggiano e si spostano tra città, Paesi e continenti; un fenomeno addirittura in accelerazione dalla fine del XX secolo che, ironicamente parlando, è stato un periodo contrassegnato da crescenti restrizioni rispetto alla dislocazione o allo spostamento degli individui. Biennale Arte 2024 punta dunque i riflettori su artisti che sono essi stessi stranieri, immigrati, espatriati, diasporici, emigrati, esiliati o rifugiati, in particolare quelli che si muovono tra il Sud e il Nord del mondo. E qui i temi chiave sono migrazione e decolonizzazione.

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Agli artisti indigeni è garantita una forte presenza e le loro opere accolgono il pubblico nel Padiglione Centrale, con un monumentale murale realizzato dal collettivo brasiliano MAHKU (Movimentos dos Artistas Huni Kuin) sulla facciata dell’edificio, e nelle Corderie, dove il collettivo Mataaho di Aotearoa/Nuova Zelanda presenta nella prima sala una grande installazione, due ambienti espositivi di impatto simbolico. Gli artisti queer figurano in ogni spazio e costituiscono il fulcro di un’ampia sezione alle Corderie (con opere di autori provenienti da Canada, Cina, India, Messico, Pakistan, Filippine, Sudafrica e Stati Uniti), nonché di un’area dedicata all’astrazione queer nel Padiglione Centrale (con lavori di artisti provenienti da Cina, Italia e Filippine). Sono inoltre presentate tre delle artiste outsider europee più straordinarie: Madge Gill dal Regno Unito, Anna Zemánková dalla Repubblica Ceca e Aloïse dalla Svizzera.

STRANIERI OVUNQUE

Il termine italiano straniero, il portoghese estrangeiro, il francese étranger e lo spagnolo extranjero sono tutti collegati sul piano etimologico rispettivamente a strano, estranho, étrange ed extraño, ovvero all’idea di estraneo. Viene in mente il concetto freudiano di Unheimliche, Il perturbante nell’edizione italiana, che in portoghese è stato tradotto con O estranho, a indicare lo strano che, nel profondo, è anche familiare. Secondo l’American Heritage e l’Oxford English Dictionary, il primo significato della parola “queer” è proprio “strange” (“strano”), pertanto la Mostra si sviluppa e si concentra sulla produzione di altri soggetti collegati: l’artista queer, che si muove all’interno di diverse sessualità e generi ed è spesso perseguitato o messo al bando; l’artista outsider, che si trova ai margini del mondo dell’arte, proprio come l’autodidatta, l’artista folk o artista popular; l’artista indigeno, spesso trattato come straniero nella propria terra. La produzione di questi quattro soggetti è il fulcro di questa edizione e costituisce il Nucleo Contemporaneo della Mostra. Benché la loro opera spesso si basi sull’esperienza personale, sulla propria vita, le proprie osservazioni e la propria storia, ci sono anche artisti che si addentrano in questioni più formali, con il proprio accento strano, straniero o indigeno.

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La Mostra presenta anche un Nucleo Storico, composto da opere del XX secolo provenienti dall’America Latina, dall’Africa, dal Medio Oriente e dall’Asia. Si è scritto molto sui modernismi globali e su quelli del Sud del mondo, e tre sezioni sono dedicate a lavori provenienti da tali territori, quasi a costituire una sorta di saggio, una bozza, un esercizio curatoriale speculativo volto a mettere in discussione i confini e le definizioni del Modernismo. Conosciamo fin troppo bene la storia del Modernismo in Euro-America, ma i modernismi del Sud del mondo rimangono in gran parte sconosciuti. La loro conoscenza è limitata agli specialisti di ogni singolo Paese o regione; pertanto, collegare ed esporre insieme queste opere sarà illuminante. Ecco perché queste storie assumono una rilevanza davvero contemporanea: abbiamo urgente bisogno di imparare di più su e da quei contesti. Inoltre, lo stesso Modernismo europeo nel corso del Novecento si è mosso ben oltre l’Europa, spesso intrecciandosi con il colonialismo, così come molti artisti del Sud del mondo si sono recati in Europa per esserne influenzati. In questo processo, nel Sud del mondo il Modernismo è stato integrato e divorato. Il riferimento qui è al concetto di antropofagia di Oswald de Andrade, proposto all’intellettuale moderno ai margini dell’Europa come strumento per impadronirsi della cultura metropolitana, cannibalizzandola e producendo qualcosa di proprio, con ciò evocando la pratica cannibalica degli indigeni tupinambá nel Brasile pre-invasione. I tipi unici e distinti di Modernismo nel Sud del mondo assumono figure e

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ADRIANO PEDROSA

Il Nucleo Contemporaneo ospita nelle Corderie una sezione speciale dedicata al Disobedience Archive, un progetto di Marco Scotini che dal 2005 sviluppa un archivio video incentrato sulle relazioni tra pratiche artistiche e attivismo. Alla Biennale Arte 2024, la presentazione di Disobedience Archive è progettata da Juliana Ziebell, che ha lavorato anche all’allestimento dell’intera Mostra. Questa sezione è suddivisa in due parti appositamente concepite per il tema-contenitore – attivismo della diaspora e disobbedienza di genere – e include le opere di 39 artisti e collettivi realizzate tra il 1975 e il 2023.

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forme radicalmente nuove in dialogo con le narrazioni e i riferimenti locali e indigeni.

La sezione intitolata Astrazioni include opere di una quarantina di artisti provenienti da Argentina, Aotearoa/ Nuova Zelanda, Brasile, Cile, Colombia, Cuba, Egitto, 60EIA_Vol1_040-199_03-13.indd 51

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La sezione Ritratti comprende le opere di più di cento artisti provenienti da Algeria, Aotearoa/Nuova Zelanda, Argentina, Bolivia, Brasile, Cile, Cina, Colombia, Corea, Cuba, Ecuador, Egitto, Filippine, Ghana, Guatemala, India, Indonesia, Iran, Iraq, Giamaica, Libano, Malesia, Messico, Mozambico, Nigeria, Pakistan, Perù, Porto Rico, Repubblica Dominicana, Singapore, Sudafrica, Sri Lanka, Sudan, Tunisia, Turchia, Uruguay, Venezuela, Vietnam e Zimbabwe. La selezione testimonia come la figura umana sia stata esplorata in innumerevoli modi diversi dagli artisti del Sud globale, e riflette sulla crisi della rappresentazione dell’umano che ha caratterizzato gran parte dell’arte del XX secolo, ponendosi ulteriori domande: chi può essere rappresentato, da chi, e come? Nel Sud del mondo, numerosi artisti sono entrati in contatto con il Modernismo europeo, attraverso viaggi, studi o libri. Tuttavia, apportano alle proprie opere riflessioni potenti e contributi personali, raffigurando figure riprese da propri repertori visivi, da proprie storie e vite, se stessi inclusi. La maggior parte dei lavori ritrae personaggi non bianchi, il che a Venezia, cuore della Biennale, diventa un tratto eloquente di questo gruppo così ampio ed eterogeneo e della Mostra stessa: Stranieri Ovunque – Foreigners Everywhere.

ИНОСТРАНЦЫ ВЕЗДЕ

Il Nucleo Storico comprende tre sale con un’opera per ogni artista, per lo più dipinti, ma anche lavori su carta e sculture, coprendo un arco di tempo compreso tra il 1915 e il 1990. È difficile stabilire una cronologia generale rigorosa, poiché i processi possono essere alquanto specifici di ogni Paese o regione, e spesso seguono percorsi del tutto propri. Per questo motivo, l’arco cronologico è molto più ampio del tipico arco temporale modernista. Nel Padiglione Centrale una sezione è dedicata ai ritratti e alle rappresentazioni della figura umana e un’altra alle astrazioni.

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Filippine, Guatemala, India, Indonesia, Iraq, Giordania, Libano, Messico, Marocco, Pakistan, Palestina, Porto Rico, Repubblica Dominicana, Sudafrica e Turchia. Il riferimento centrale qui è costituito dai pittori della straordinaria Scuola di Casablanca esposti per la prima volta alla Biennale Arte. Ciò che interessa è un certo tipo di astrazione che si distacca dalla tradizione geometrica costruttivista europea, con la sua tavolozza di colori primari e la rigida griglia ortogonale di verticali e orizzontali, per privilegiare forme e sagome più sinuose e curvilinee, colori brillanti e vivaci, in composizioni di grande impatto. La maggior parte degli artisti del Nucleo Storico partecipa per la prima volta all’Esposizione Internazionale d’Arte, viene così riconosciuto un debito storico nei loro confronti. Ma soprattutto, riunirli a Venezia in un’unica sezione è un evento che non ha precedenti, e impareremo da questi imprevisti accostamenti dal vivo, che si spera possano indicare nuove connessioni, associazioni e parallelismi al di là delle categorie alquanto semplici da me proposte. Pur tecnicamente non più parte del Sud del mondo, nelle stesse sezioni sono inseriti anche artisti di Singapore e della Corea, poiché all’epoca della creazione delle loro opere, facevano parte del cosiddetto Terzo Mondo. Analogamente, Selwyn Wilson e Sandy Adsett, provenienti da Aotearoa/Nuova Zelanda, sono inclusi in questo Nucleo Storico trattandosi di artisti storici māori in linea con l’attenzione della Mostra rivolta agli artisti indigeni. Una terza sezione del Nucleo Storico, intitolata Italiani Ovunque è dedicata alla diaspora artistica italiana nel mondo nel XX secolo: artisti italiani che hanno viaggiato e si sono trasferiti all’estero, costruendo la propria carriera in Africa, Asia, America Latina, nonché nel resto d’Europa e negli Stati Uniti. Italiani all’estero, spesso immersi nelle culture locali, che hanno svolto a volte un ruolo significativo nello sviluppo delle narrazioni del Modernismo al di fuori della propria terra d’origine. La sezione presenta le opere di una quarantina di autori italiani di prima o seconda generazione, esposte con il sistema a cavalletti di vetro ideato da Lina Bo Bardi,

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Un secondo elemento è rappresentato dagli artisti – molti dei quali indigeni, legati da vincoli di sangue o da matrimonio – come Andres Curruchich e la nipote Rosa Elena Curruchich del Guatemala; Abel Rodríguez e il figlio Aycoboo della Colombia; Fred Graham e il figlio Brett, artisti māori di Aotearoa/Nuova Zelanda; Juana Marta Rodas e la figlia Julia Isídrez del Paraguay; il MAHKU (Movimento dos Artistas Huni Kuin) ovvero il collettivo Huni Kuin della parte occidentale della regione amazzonica brasiliana; Joseca Mokahesi e André Taniki della tribù yanomami, della parte settentrionale della stessa zona; Santiago Yahuarcani e il figlio Rember del Perù; Susanne Wenger e il figlio adottivo Sangódáre Gbádégesin Ajàla della Nigeria; i fratelli Philomé e Senèque Obin di Haiti; Jewad Lorna Selim, marito e moglie di Iraq e Gran Bretagna, e infine Frida Kahlo e Diego Rivera

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Nel corso della ricerca sono emersi in modo piuttosto organico due elementi diversi, ma correlati, che sono stati sviluppati fino a imporsi come leitmotiv di tutta la Mostra. Il primo è il tessile, esplorato in varie forme da molti artisti coinvolti, a partire da storiche figure chiave come Bona Pieyre de Mandiargues e Gianni Bertini in Italiani Ovunque e Olga de Amaral, Eduardo Terrazas e Monika Correa in Astrazioni nel Nucleo Storico, fino a molti autori presenti nel Nucleo Contemporaneo – tra cui Agnès Waruguru, Ahmed Umar, Anna Zemánková, Antonio Guzman e Iva Jankovic, le Bordadoras de Isla Negra, Bouchra Khalili, Claudia Alarcón & Silät, Dana Awartani, Frieda Toranzo-Jaeger, Güneş Terkol, Kang Seung Lee, Liz Collins, Mataaho Collective, Nour Jaouda, Pacita Abad, Paula Nicho, Sangódáre Gbádégesin Ajàla, Shalom Kufakwatenzi, Susanne Wenger, Yinka Shonibare – nonché dalle arpilleras cilene. Tali opere rivelano un interesse per l’artigianato, la tradizione e il fatto a mano, nonché per le tecniche che, nel campo delle belle arti, sono state a volte considerate altre o straniere, estranee o strane.

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essa stessa italiana trasferitasi in Brasile a cui è stato riconosciuto il Leone d’Oro speciale alla memoria in occasione della Biennale Architettura 2021.

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del Messico. Anche in questo caso la tradizione gioca un ruolo importante nella trasmissione di conoscenze e pratiche da padre o madre a figlio o figlia oppure tra fratelli, parenti e partner. Come principio guida, la Biennale Arte 2024 ha privilegiato artisti che non erano mai stati presenti in precedenza, anche se alcuni di loro possono avere già esposto in un Padiglione Nazionale, in un Evento Collaterale o in un’edizione del XX secolo. Un’attenzione particolare è riservata ai progetti all’aperto, sia all’Arsenale (con lavori di Anna Maria Maiolino, Beatriz Cortez, Claire Fontaine, Lauren Halsey, Leilah Babirye e Taylor Nkomo) sia ai Giardini (con i lavori di Iván Argote, Mariana Tellería, Rindon Johnson e Sol Calero).

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Il programma di performance prevede eventi durante i giorni di apertura di chiusura dell’Esposizione e comprende lavori di alcuni artisti che hanno anche opere esposte: Ahmed Umar, Bárbara Sánchez-Kane, Isaac Chong Wai, Güneş Terkol, Antonio Jose Guzman e Iva Jankovic, Joshua Serafin, Lydia Ourahmane, Puppies Puppies (Jade Guanaro Kuriki-Olivo), e Simone Forti. Al Forte Marghera di Mestre presentiamo l’opera della pionieristica ceramista italiana Nedda Guidi, che è anche presente nel Padiglione Centrale nella sala dedicata alle astrazioni queer, nell’ambito dell’Esposizione Internazionale d’Arte. Per contro, al di fuori di questa cornice ma sempre a mia cura, l’opera di Beatriz Milhazes – dato il suo stretto legame e interesse per le arti applicate – è presente all’interno del Padiglione Arti Applicate situato all’Arsenale e sviluppato in collaborazione con il Victoria and Albert Museum. Una selezione di tessuti provenienti da diverse parti del mondo che hanno ispirato Milhazes è esposta nel Padiglione insieme ai suoi dipinti, collage e un’opera tessile. Il Catalogo e la Guida Breve sono stati progettati da Paula Tinoco, Roderico Souza e Carolina Aboarrage dell’Estúdio Campo di San Paolo e curati da me con la collaborazione delle nostre due organizzatrici artistiche, Amanda

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A livello personale, mi sento coinvolto in molti dei temi, dei concetti, dei motivi della Mostra nonché nella sua struttura complessiva. Nel corso della mia vita ho vissuto all’estero e ho avuto la fortuna di viaggiare molto. Tuttavia, ho spesso sperimentato il trattamento riservato a uno straniero del Terzo Mondo, anche se non sono mai stato un rifugiato e, anzi, secondo l’Henley Passport Index, sono in possesso di uno dei passaporti più prestigiosi del Sud del mondo. Mi identifico anche come queer, il primo curatore dichiaratamente queer nella storia della Biennale Arte. Inoltre, provengo da un contesto brasiliano e latinoamericano in cui l’artista indigeno e l’artista popular svolgono ruoli importanti; benché marginalizzati nella storia dell’arte, di recente stanno iniziando a ricevere maggiore attenzione. Il Brasile è anche patria di molte diaspore; è una terra di stranieri per così dire: oltre ai portoghesi che lo hanno invaso e colonizzato, il Paese

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Carneiro e Sofia Gotti. Il bellissimo progetto di Campo fa riferimento al neon, evocando le sculture di Claire Fontaine presenti, nonché ai confini, alle demarcazioni, alle transizioni e agli spazi intermedi, attraverso l’uso di geometrie e colori sfumati. Per il Catalogo e la Guida Breve abbiamo invitato oltre cento autori provenienti da diverse parti del mondo a redigere le oltre trecento schede degli artisti, privilegiando un approccio polifonico alla pubblicazione. Il Catalogo contiene le interviste con le due artiste che hanno vinto il Leone d’Oro alla carriera, Anna Maria Maiolino e Nil Yalter, una con Claire Fontaine e una con me, condotta da Julieta González. Nel volume compaiono inoltre saggi di Jaider Esbell, Kobena Mercer, Luce deLire, Naine Terena, Ranajit Guha, Ticio Escobar e Walter Mignolo. Disseminati lungo tutto il Catalogo, a creare un ulteriore livello nella narrazione, figurano molteplici frammenti di natura critica, letteraria, poetica o teorica che ci hanno in qualche modo ispirato o hanno catturato la nostra attenzione durante il lavoro di ricerca. Si tratta di frammenti – selezionati con l’aiuto di Carneiro, Gotti e Claire Fontaine – che abbracciano autori e periodi diversi, tutti in qualche modo collegati ai nostri temi, argomenti e narrazioni.

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La Biennale Arte, evento internazionale con innumerevoli Partecipazioni Nazionali ufficiali, è da sempre una piattaforma per l’esposizione di opere di stranieri provenienti da tutto il mondo. Nel solco di questa lunga e ricca tradizione la 60. Esposizione Internazionale d’Arte è la celebrazione dello straniero, del lontano, dell’outsider, del queer e dell’indigeno. Per concludere, desidero esprimere la mia gratitudine più profonda al board della Biennale di Venezia e all’ex Presidente Roberto Cicutto che nel dicembre 2022 mi hanno nominato Direttore Artistico del Settore Arti Visive, con il compito di curare la Biennale Arte 2024. L’unica richiesta che ho ricevuto è stata di costruire una Mostra piena di bellezza. Credo che quella che stiamo offrendo sia una bellezza straniera, strana, inquietante e queer.

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STRANIERI OVUNQUE — FOREIGNERS EVERYWHERE

ospita le più grandi diaspore africane, italiane, giapponesi e libanesi del mondo.

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COIGRICH ANNS GACH ÀITE

Devika Singh Diego Amal Ceballos Don Handa Edgar Calel Eduardo Costantini Elisabeth Whitelaw Emilia Bonomi Emiliano Valdés Engel Leonardo Erica Roberts Erica Schmatz Eugene Tan Eungie Joo Fabiola Ceni Fadia Antar Fernanda Arruda Flavia Fossa Margutti Florencia Lowenthal Florencia Malbran Francesca Boglietti Francesca Montorio Frank Kilbourn Fulvia Carnevale Fusun Eczacibasi Garth Greenan Giacinta Dalla Pietà Gloria Cortés Aliaga Grace O’Malley Graham Steele Guilherme Assis Haco de Ridder Hala Choucair Hannah O’Leary Hans Ulrich Obrist Heba Elkayal Héctor Palhares Meza Henrique Faria Humberto Moro Ignez Simões Ilaria Zanella Inti Guerrero Isa Lorenzo Ivan Castellon Quiroga Jackeline Rojas Heredia Jacopo Galimberti James Thornhill Jan Fjeld Janaina Hees Jane and Kito de Boer Jasper Sharp Jean Pigozzi Jemma Read

STRANIERI OVUNQUE

Abraham Cruzvillegas Adriana La Lime Adriana Paez Agnes Vilén Agustín Pérez Rubio Akram Zaatari Alessandro Pasotti Alessandro Rabottini Alex Logsdail Alex Mor Alexander Hertling Allan Schwartzman Amanda Carneiro Amanda Hereaka Andras Szanto Andrea Del Mercato Andree Sfeir-Semler Angela María Pérez Mejía Anna Sokoloff Antonio Almeida Antonio Lessa Arystela Paz Azu Nwagbogu Barbara Corti Basel Dallouol Beatriz Lopez Boris Hirmas Camila Siqueira Carlos Dale Carlos Uzcanga Gaona Carolina Aboarrage Catalina Casas Cecilia Alemani Cecilia Brunson Cecilia Vicuña Çelenk Bafra Charles Pocock Christian Berst Chus Martínez Claudia Gioia Claudia Saldanha Cleusa Garfinkel Conor Macklin Conrado Mesquita Cristiana Constanzo Cristiano Frizzele Daniele Balice David Kordansky Debora Ferreira Debora Rossi Deborah e Vincenzo Sanguineti

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Ringraziamenti 60EIA_Vol1_040-199_03-13.indd 57

La ricerca e i preparativi per la Biennale Arte sono stati un viaggio straordinario e indimenticabile, e ho avuto la fortuna di poter contare sul sostegno e sui consigli generosi ed entusiasti di centinaia di colleghi e amici, vecchi e nuovi. Un ringraziamento molto speciale va a tutta La Biennale e ai miei team curatoriali. Vorrei inoltre esprimere la mia gratitudine a tutti gli artisti, gli autori, i donor, gli sponsor, i finanziatori della mostra, nonché alle seguenti persone che mi hanno aiutato in vario modo in questo processo ambizioso e impegnativo:

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JeongJin Lee Jeremy Barns Joern Brandmeyer Jonathan Garnham José Darío Gutiérrez José Esparza Chong Cuy José Kuri Joselina Cruz Josh Ginsburg Juan Carlos Cordero Julia Bryan-Wilson Juliana Ziebell Julieta González Jussi Koitela Karen Marta Karoline Trollvik Kiki Mazzuchelli Koyo Kouoh Latika Gupta Laura Hakel Lena Malm Lia Colombino Lisa Horikawa Lívia Benevides Liza Essers Lorenzo Giusti Luciana Brito Luigi Ricciari Luisa Duarte Luisa Strina Maddalena Pietragnoli Magnolia de la Garza Maja Hoffmann Mami Kataoka Manuel Santos Marco Antonio Nakata Maria Grazia Chiuri María Inés Rodríguez Maria Montero Mariana Luvizutti Marina Bertaggia Marina Buendia Marina Moura Marita Garcia Mary Sabatino Massimiliano Bigarello Max Jorge Hinderer Cruz Max Perlingeiro Michela Alessandrini Miguel Lopez Mikala Tai Mónica Manzutto

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Naine Terena Nara Roesler Natasha Conland Niamh Coghlan Nicholas Logsdail Nigel Borell Nontobeko Ntombela O’Neil Lawrence Olivier Bialobos Orly Benzacar Patrick Charpenel Paula Coelho Paula Nascimento Paula Tinoco Paula Zoppello Paulo A.W. Vieira Paulo Herkenhoff Paulo Soares Pedro Wollny Pilar Ríos Prajit Dutta Priya Jhaveri Raffaele Cinotti Raffaella Cortese Raphael Chikukwa Raphael Fonseca Regina Teixeira de Barros Rein Wolfs Riccardo Boni Richard Saltoun Roderico Souza Rodrigo Moura Ryan Inouye Sandra Gamarra Sandra Montagner Sara Hermann Sarah Wilson Sergio Fontanella Shabbir Hussain Mustafa Sharon Lerner Sherine Morsi Sherith Arasakula Suriya Shireen Gandhy Silvana Palma Silvia Paz Illobre de Orteu Simon Mordant Sofia Gotti Sofia Pellegrini Sonia Becce Stefan Benchoam Stefania Fabris Stuart Morrison

Suheyla Takesh Sultan Sooud Al-Qassemi Taimur Hassan Tandanzani Dhlakama Teofilo Cohen Thiago Gomide Thúlio Righeti Ticio Escobar Tina Kim Todd Bradway Tomás Toledo Vanessa Carlos Varinia Brodsky Zimmermann Victoria Noorthoorn Vilma Coutinho Vincent van Velsen Wenny Teo Zeina Arida

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PRIMI ANNI SETTANTA

Sono la tua peggiore paura. Sono la tua migliore fantasia.

SLOGAN DEL MOVIMENTO GAY LIBERATION


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A DIALOGUE WITH MODERNISM, IN DIA-AZZAWI: A RETROSPECTIVE FROM 1963 UNTIL TOMORROW, A CURA DI CATHERINE DAVID, DOHA, QATAR: ARAB MUSEUM OF MODERN ART, 2017.

Sostengo che il Modernismo comporta innanzitutto una crisi globale della rappresentazione, le cui circostanze, le forme specifiche che assume e le soluzioni artistiche escogitate per rispondervi variano da un capo all’altro del mondo. Pur non essendo la prima o l’ultima crisi di questo tipo, questa è direttamente provocata dalla modernità e riguarda la rappresentazione, come mezzo per raffigurare o ritrarre un soggetto, con il suo legame con la realtà e l’originalità, in quanto specificamente distinta dalla presentazione premoderna. Questa interpretazione del Modernismo ci permette di riconoscere ogni singolo e specifico esperimento nel mondo all’interno del proprio contesto e significato, senza dover tener conto della linearità o eterocronicità della storia dell’arte. L’arte moderna verrebbe quindi compresa all’interno di un’ampia narrazione non lineare e non cronologica di intersezioni e sovrapposizioni dialettiche e discorsive, in grado di accogliere le influenze globali e di rendere conto della continuità di altre tradizioni artistiche e della loro rottura.

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Julieta González ESTRANJEROS EN TODAS PARTES

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intervistato da

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INTERVISTATO DA JULIETA GONZÁLEZ

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In qualità di curatore della Biennale Arte 2024 – e, soprattutto, in quanto primo proveniente dall’America Latina e secondo dal Sud del mondo – come percepisci il tuo ruolo e le tue responsabilità, sia all’interno che al di là della 60. Esposizione Internazionale d’Arte? Quali sono le responsabilità specifiche derivanti dall’essere un curatore proveniente dalle periferie quando si dirige un evento internazionale così importante? Lavorare alla Biennale Arte 2024 è un grande onore e rappresenta un riconoscimento del lavoro svolto nel corso degli anni, ma in quanto primo latinoamericano e primo curatore che vive e lavora nel Sud del mondo, questo comporta anche un’enorme responsabilità, almeno per quanto mi riguarda. È un senso di responsabilità che forse sento in maniera ancora più forte che non se fossi l’ennesimo curatore europeo che organizza una Biennale Arte1. Perciò non lo vedo come progetto personale o come progetto in cui attuare e realizzare una mia visione curatoriale. Penso invece ai tanti straordinari artisti del Sud del mondo che non hanno mai partecipato all’Esposizione Internazionale d’Arte, alle tante città e scene artistiche che non sono state esplorate dai precedenti curatori durante le loro ricerche2. Conosciamo bene l’enorme visibilità che la Biennale Arte porta a un artista e a un’opera d’arte, soprattutto in questi ultimi decenni, data l’ampia attenzione del pubblico e dei media e il ruolo centrale che l’evento svolge nel circuito globale dell’arte contemporanea. Si sente spesso parlare, o si legge, di un artista o di un’opera d’arte che sono stati esposti a Venezia – una pietra miliare che, all’interno della propria storia espositiva, rappresenta un imprimatur del mondo dell’arte – e questo ovviamente riflette la matrice eurocentrica del potere nel mondo dell’arte. Ho tenuto presente questo aspetto durante la mia ricerca per organizzare sia il Nucleo Contemporaneo che il Nucleo Storico che è il cuore storico della Biennale Arte 2024. È incentrato sul Modernismo del Sud del mondo, su artisti che hanno lavorato in Africa, Asia, Medio Oriente e America Latina nel XX secolo, periodo che di fatto rappresenta gran parte dell’arco storico della Biennale stessa, iniziata nel 1895. Ho quindi privilegiato artisti che non avevano mai partecipato all’Esposizione, o almeno che non vi avevano partecipato in questo secolo, e ho sviluppato un focus generale sul Sud del mondo nel quadro più ampio di Stranieri Ovunque – Foreigners Everywhere. Forse questo aspetto è più rilevante nel caso del Nucleo Storico, perché oggi per un artista che vive nel Sud del mondo è molto più attuabile partecipare al circuito internazionale di quanto non lo fosse durante gran parte del XX secolo. Anche i curatori europei e nordamericani sanno che al giorno d’oggi devono sviluppare una visione più globale e includere nei loro progetti artisti provenienti dalla nostra parte del mondo. Sebbene questa sia diventata una pratica comune a partire dalla fine degli anni Novanta e dall’inizio degli anni Duemila, non lo era nel XX secolo, per cui ci sono molti grandi artisti che devono ancora essere esposti ed esplorati più a fondo, artisti che magari sono figure importanti nel proprio Paese o nella propria regione, ma che non sono conosciuti a livello internazionale. Ecco perché, a mio avviso, il Nucleo Storico diventa così importante e davvero contemporaneo. Naturalmente il Nucleo Contempo­ raneo riveste un ruolo centrale nella Biennale Arte 2024 – occupando la maggior parte degli spazi delle Corderie dell’Arsenale e del Padiglione

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Centrale ai Giardini, oltre che delle aree aperte – con l’attenzione posta su quattro temi: lo straniero, il queer, l’outsider e l’artista indigeno. Io stesso nel corso della mia vita ho vissuto per molti anni come straniero. Sono ovviamente queer, il primo curatore apertamente queer nella storia della Biennale Arte. E provengo da un contesto in Brasile e in America Latina in cui gli artisti indigeni e gli artisti outsider o autodidatti – gli artista popular – sono estremamente importanti, anche se in passato sono stati spesso trascurati. Nel 2009 hai organizzato un’edizione di Panorama da Arte Brasileira, una mostra tradizionalmente incentrata sull’arte brasiliana, ma che, aspetto senza precedenti, includeva una rosa di artisti per lo più stranieri la cui pratica era legata al Brasile perché ci vivevano o perché i loro lavori si concentravano su questo Paese. Intitolata Mamõyguara Opá Mamõ Pupé (che in tupi antico significa proprio “Stranieri ovunque”, con riferimento all’opera di Claire Fontaine) questa mostra, come anche The Traveling Show a Città del Messico, da te curata l’anno successivo, sembrava mettere in risalto idee di mobilità, identità mutevoli e dissoluzione dei confini. Ora, dopo quasi quindici anni, nel rivisitare questi temi alla Biennale Arte con un titolo simile, qual è la tua visione dell’estraneità e del ruolo dello straniero nella tua pratica curatoriale? Circa dieci anni fa ero in visita alla Biennale. Avevo da poco co-curato (con Jens Hoffmann) la 12. Biennale di Istanbul del 2011 e continuavo a pensare a quanto fosse impegnativo sviluppare un tema e un concetto che si prestassero a una cornice interessante per una esposizione biennale. Mi sono anche ricordato le nostre difficoltà nel trovare un titolo per Istanbul. Ed è in questo contesto che è nata l’idea di Stranieri Ovunque – Foreigners Everywhere, ispirata al lavoro di Claire Fontaine, con cui avevo già lavorato a San Paolo, come hai ricordato, oltre che a The Traveling Show della Fundación Jumex nel 2010, e anche a Istanbul3. Ho quindi tenuto a mente il titolo per un possibile progetto italiano in futuro. Non mi aspettavo né avevo in programma di curare la Biennale Arte; era più che altro un esercizio curatoriale che avevo in mente in quel momento: “E se...”? A San Paolo, il contesto era molto diverso e ho affrontato alcune delle preoccupazioni che avevo riguardanti lo scenario locale, la crescente importanza della storia dell’arte brasiliana a livello internazionale (soprattutto in America Latina) e il modello stesso della mostra Panorama da Arte Brasileira un’importante, seppur locale, biennale dedicata all’arte contemporanea brasiliana organizzata dal Museu de Arte Moderna de São Paulo. In quell’occasione ho selezionato solo artisti non brasiliani la cui opera in qualche modo contenesse riferimenti brasiliani, con l’eccezione di Tamar Guimarães, un’artista brasiliana già attiva da tempo che però aveva sviluppato la propria carriera fuori dal Paese e che con noi esponeva per la prima volta in Brasile. La mia argomentazione era che molti artisti stranieri portavano nelle loro opere riferimenti brasiliani – come il neoconcretismo o l’architettura modernista brasiliana – che a loro volta parlavano dell’internazionalizzazione dell’arte brasiliana, nel senso che queste opere realizzate da stranieri potevano in qualche modo essere considerate “brasiliane”. Dopotutto, Panorama era dedicato all’ arte brasiliana e non agli artisti brasiliani, quindi ho cercato di

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mettere in discussione questi concetti e i confini di territorio e di nazionalità in modo provocatorio e speculativo. Inutile dire che la mostra è stata alquanto polemica. Per un’ipotetica Biennale Arte, una decina di anni fa pensavo che il principio guida potesse essere quello di includere solo artisti “stranieri”, il che di fatto poteva estendersi anche ai Padiglioni Nazionali4. Era piuttosto interessante che Claire Fontaine, un collettivo che è per metà italiano di nascita e ora ha sede a Palermo, non avesse mai partecipato alla Biennale. Il quadro complessivo, nonché il titolo Stranieri Ovunque, sono rimasti in fondo ai miei pensieri per tutti questi anni e sento che rimangono attuali e, anzi, sono diventati sempre più urgente, non solo in Italia e in Europa, ma in tutto il mondo. Il Nucleo Contemporaneo, che costituisce il cuore della Biennale Arte 2024, è costruito in modo affascinante attraverso “conversazioni” tra “stranieri” di varia natura, consentendo un’interpretazione fluida dell’idea stessa di straniero. Potrebbe spiegare meglio questi abbinamenti dinamici e indicare i momenti o le opere che costituiscono il cardine narrativo della Mostra? Ho visto tutte le edizioni della Biennale Arte a partire dal 1997, quando il curatore era Germano Celant, (avevo visitato anche l’edizione del 1990) e ho la sensazione che sia spesso “cacofonica”. C’è una gran moltitudine di artisti nelle Partecipazioni Nazionali e nell’Esposizione Internazionale, per non parlare degli Eventi Collaterali. Mi trovo spesso a riscontrare che i titoli e i contesti della Mostra non offrono molte indicazioni e appaiono poeticamente vaghi o onnicomprensivi, al punto da perdere la loro specificità e diventare piuttosto privi di significato o annacquati. Oppure trovo temi e concetti alquanto complessi e criptici che, pur essendo teoricamente fondati, non sono molto accoglienti nei confronti del pubblico. Naturalmente ci sono molti modi di condurre una curatela, come è giusto che sia, ma io ho adottato un approccio diverso. Sono più interessato a comunicare con un pubblico più vasto, soprattutto in un contesto come l’Esposizione Internazionale d’Arte, con centinaia di migliaia di visitatori, proprio come facciamo al Museu de Arte de São Paulo Assis Chateaubriand (MASP), di cui sono direttore artistico. Quindi, se si osservano i temi e i concetti del museo, che da anni esploriamo nella nostra serie di Histórias, si vedrà che sono piuttosto riconoscibili, pur essendo complessi e stratificati5. Mi sembra che questo sia anche il caso del titolo di questa edizione, Stranieri Ovunque – Foreigners Everywhere. Fin dall’inizio sono stato in contatto con Claire Fontaine per il progetto e ho deciso di avere un titolo bilingue, due lingue in dialogo tra loro. Pur essendo entrambe indoeuropee, l’italiano è una lingua romanza e l’inglese è una lingua germanica occidentale. In questo modo si riconoscono le sfumature associate alla traduzione e le specificità di ciascuna lingua si pongono una contrapposta all’altra. In questo quadro, il primo soggetto di interesse è, ovviamente, lo straniero: l’immigrato, l’emigrato, l’espatriato, il diasporico, l’esiliato e il rifugiato. Anche con questo obiettivo, però, era importante dare spazio agli artisti stranieri che lavoravano in modo più formale – ad esempio con l’astrazione o il linguaggio – al di là del tema della migrazione. Questo vale anche per gli altri temi di interesse della Mostra: gli indigeni, i queer e gli artisti outsider.

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Per molti anni, secondo quest’ottica, ho pensato che sarebbe stato sufficiente sviluppare un’intera mostra sul tema dello straniero. Tuttavia, nell’ottobre del 2022, quando ho iniziato il dialogo con l’allora Presidente della Biennale, Roberto Cicutto, ho cominciato a riflettere più seriamente sull’intero quadro e sullo stato attuale dell’arte contemporanea. Il tema della migrazione rimaneva molto attuale e, anzi, era diventato più pressante, soprattutto nella regione. Ho però anche pensato che sarebbe stato eccessivo, forse addirittura ridondante, incentrare una mostra di tale portata interamente sul tema dello straniero. Una biennale è cosa diversa da una mostra collettiva presso un’istituzione. Ha esigenze e peculiarità tutte proprie, almeno secondo me, e soprattutto a Venezia. Come ho detto, per me era importante evitare artisti che avevano già partecipato alla Biennale Arte, perché sono tanti i grandi artisti nel mondo che meritano questa visibilità. Volevo offrire questa opportunità ad artisti che non erano mai stati a Venezia, o che non avevano mai partecipato all’Esposizione Internazionale, o perlomeno non in questo secolo6. All’inizio dello sviluppo del progetto – sembra passato molto tempo, ma si tratta solo di poco più di un anno fa – mentre ne esaminavo la dimensione linguistica, continuavo a pensare a come avrei potuto allargare il tema dello straniero ad altri soggetti correlati. L’italiano straniero, il portoghese estrangeiro, il francese étranger e lo spagnolo extranjero sono tutti etimologicamente collegati rispettivamente allo strano, all’estranho, all’étrange, all’extraño, che è appunto lo straniero, l’estraneo. Viene in mente l’unheimliche di Freud, il perturbante in italiano, che in portoghese è stato tradotto come estranho, lo strano che è anche familiare7. Secondo i dizionari American Heritage e Oxford English, il primo significato della parola “queer” è proprio “strano”. È così che sono arrivato al secondo e più specifico argomento di interesse della Mostra: il soggetto queer. Si lega non solo alla mia esperienza di vita, ma anche a un interesse più ampio per coloro che sono stati esclusi, messi in secondo piano o emarginati dalle principali narrazioni dell’arte e della cultura moderna e contemporanea. L’artista outsider è un tema simile, strettamente legato all’artista autodidatta e alla figura del cosiddetto artista popular in Brasile e in America Latina. Infine, il quarto soggetto è l’indigeno, ancora una volta un soggetto importante nel mio Paese, spesso trattato come straniero nella propria terra. L’arte indigena ha un ruolo centrale nella Biennale Arte 2024: la prima opera che vedrete avvicinandovi al Padiglione Centrale ai Giardini è il grande murale dipinto dal collettivo MAHKU (Movimento dos Artistas Huni Kuin) che vive e lavora nella parte occidentale della regione amazzonica brasiliana e con cui collaboro ormai da dieci anni. Allo stesso modo nelle Corderie dell’Arsenale – nella grande, suggestiva sala che funge da preludio a quella parte della Mostra – la prima opera che si incontra è una potente installazione del collettivo māori Mataaho, intitolata Takapau. È un’opera che ho visto all’interno della retrospettiva del collettivo presso il Te Papa Museum di Wellington quando l’ho visitata a marzo. È per me molto significativo che due collettivi indigeni, provenienti da Aotearoa/Nuova Zelanda e dal Brasile, siano gli atti di apertura di Stranieri Ovunque – Foreigners Everywhere. In tutto il Padiglione Centrale, grazie allo straordinario allestimento in spazi distinti di diverse dimensioni, ho

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potuto instaurare dialoghi più stretti tra gli artisti e le loro opere. Così, per esempio, oltre a molte sale che raccolgono artisti legati da vincoli di sangue, c’è una sala incentrata sull’astrazione queer (con opere di Evelyn Taocheng Wang, Maria Taniguchi e Nedda Guidi) e un’altra dedicata ai paesaggi (con Aref El Rayess, Kay WalkingStick, Kim Yun Shin e Leopold Strobl). C’è una sala con due artisti che hanno fotografato sale cinematografiche gay in diversi contesti (Miguel Ángel Rojas a Bogotá negli anni Settanta e Dean Sameshima a Berlino negli anni Duemila) e un’altra che presenta artisti afrodiasporici di varie generazioni che hanno vissuto in Italia in vari momenti tra gli anni Sessanta e oggi (il compianto Rubem Valentim dal Brasile e Bertina Lopes dal Mozambico, oltre al giovane Victor Fotso Nyie dal Camerun, che vive a Faenza). Nelle Corderie dell’Arsenale lo spazio è più fluido, così come le sezioni. Anche in questo caso abbiamo gallerie dedicate ad artisti legati da vincoli di sangue, un’ampia sezione dedicata ai tessuti e un’altra grande sezione che riunisce artisti queer provenienti da svariate parti del mondo (Isaac Chong Wai, Bárbara Sánchez-Kane, Sabelo Mlangeni, Xiyadie, Ana Segovia, Erica Rutherford, Violeta Quispe, La Chola Poblete, Salman Toor, Puppies Puppies, Aravani Art Project, Joshua Serafin e ancora Dean Sameshima). Particolare attenzione è stata data agli spazi esterni, non solo all’Arsenale (dove si trovano opere di Lauren Halsey, Claire Fontaine, Beatriz Cortez, Anna Maria Maiolino, Taylor Nkomo e Leilah Babirye), ma anche ai Giardini (con opere di grandi dimensioni di Sol Calero, Iván Argote, Mariana Telleria e Rindon Johnson). Osservando il tuo percorso, compreso il tuo lavoro con Paulo Herkenhoff alla XXIV Bienal de São Paulo nel 1998 e con Ivo Mesquita nella mostra F[r]icciones al Museo Nacional Centro de Arte Reina Sofía (2000–2001), il tuo approccio curatoriale mette spesso in discussione il concetto di storia come qualcosa di univoco e lineare. Queste mostre presentavano opere di epoche e luoghi geografici diversi poste in dialogo tra loro per generare attriti che sostanzialmente hanno contribuito a smantellare l’idea unica di storia. Dal 2016, prosegui su questa linea al Museu de Arte de São Paulo Assis Chateaubriand (MASP), concentrandoti sulle “histórias” piuttosto che su un’unica “storia”. Puoi parlarci di come questo concetto si è sviluppato nella tua pratica curatoriale, soprattutto in preparazione della Biennale Arte 2024? Il mio sviluppo del concetto di “histórias” è iniziato nel 1996, quando ho realizzato un libro su Valeska Soares, in collaborazione con l’artista stessa, intitolato histórias in portoghese. Si trattava di un libro bilingue e il titolo aveva una traduzione volutamente lunga che appariva tra parentesi: “[A differenza del più limitato “histories” inglese, le “histórias” portoghesi, come le “histoires” francesi e le “historias” spagnole, possono identificare sia testi di finzione sia testi non di finzione, segnando così allo stesso tempo lo storico, l’aneddotico e il letterario.]”8. All’epoca ero molto interessato a modalità più sperimentali di scrittura d’arte, alle sovrapposizioni e agli attriti tra scrittura critica e scrittura creativa. C’era l’idea di scrivere non tanto direttamente sull’artista o sull’opera d’arte, quanto accanto a loro. Mi interessava anche il frammento, perché alla scuola d’arte avevo letto molto Roland Barthes, che per me

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rimane una figura importante. Nel libro di Valeska Soares ci sono molti frammenti e brevi testi: uno sotto forma di lettera, un altro come bibliografia. Nel 1997–1998 ho lavorato con Herkenhoff alla leggendaria XXIV Bienal de São Paulo, considerata l’edizione più importante della Bienal, come curatore aggiunto e direttore delle pubblicazioni9. È stato il mio primo vero incarico curatoriale (avevo organizzato un paio di altre mostre minori, scrivevo per Artforum, Frieze e altre riviste e all’epoca lavoravo come artista). Anche quella Bienal aveva un Núcleo Histórico, intitolato Antropofagia e Histórias de Canibalismos e in questo senso il mio progetto ora a Venezia si rifà a quell’edizione speciale della Bienal, con il Nucleo Storico che adesso, ventisei anni dopo, in qualche modo sviluppa diversamente quel Núcleo Histórico10. Quando ho iniziato a lavorare con Herkenhoff, il suo Núcleo Histórico era già completamente progettato e il mio unico, umile, contributo è stato quello di aggiungere la “s” a Histórias. “Antropofagia” è un termine chiave del Modernismo brasiliano e mondiale, sviluppato dallo scrittore Oswald de Andrade negli anni Venti. Offre una strategia o un quadro di riferimento attraverso cui osservare le relazioni tra Modernismo europeo e gli artisti e gli intellettuali che lavorano ai margini, o alla periferia, dell’Europa. L’antropofagia di de Andrade fa riferimento alla pratica cannibalistica degli indigeni tupinambá, i padri proto-brasiliani dell’appropriazione che mangiavano la carne dei loro nemici per acquisirne la forze e virtù11. Per l’intellettuale brasiliano moderno e contemporaneo, l’antropofagia può diventare uno strumento epistemologico produttivo e liberatorio, fedele alle nostre origini indigene. Molti artisti dell’America Latina, dell’Africa e dell’Asia si recarono a Londra, Parigi, Roma e in altre capitali europee nel XX secolo e si appropriarono o “divorarono” diversi elementi del Modernismo o degli stili e dei generi europei, spesso fondendoli con i propri riferimenti indigeni o nativi e quindi reinventando e rinvigorendo le fonti originali. In questo senso, l’antropofagia, a mio avviso, è ancora un quadro interessante (anche se ovviamente non l’unico) per esaminare le produzioni artistiche del XX secolo nel Sud del mondo. F[r]icciones è effettivamente una mostra importante nel mio percorso e in essa ho potuto sviluppare ulteriormente l’idea di fondere diverse histórias: storia e letteratura, arte visiva e testo. Il titolo della mostra fa riferimento al testo fondamentale di Jorge Luis Borges, Ficciones, pubblicato per la prima volta in spagnolo nel 1944, che di per sé cancella i confini tra narrativa e saggistica. In modo piuttosto borgesiano, c’era un sottile gioco di parole nella descrizione del progetto stampata sulla copertina e sul frontespizio del catalogo, in cui si affermava che era la mostra ad accompagnare il volume, e non il contrario12. Ci sono alcuni elementi già presenti in F[r]icciones che ricompaiono in altri miei progetti, compreso questo stesso catalogo. Per esempio, l’idea di una conversazione tra i curatori della mostra, al posto di un saggio curatoriale, è nata prima in F[r]icciones con Mesquita e poi nel catalogo della Biennale di Istanbul con Hoffmann13. L’uso di frammenti sparsi per il libro è cosa alquanto barthesiana, uno strumento che ho usato per la prima volta nel catalogo del Núcleo Histórico della XXIV Bienal de São Paulo nel 1998 e di nuovo nel catalogo della mostra Histórias Mestiças (storie meticce), che ho co-organizzato con Lilia Moritz Schwarcz nel 201414. E sono presenti anche in questo volume.

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La sala dedicata ai ritratti era presente anche in F[r]icciones, con personaggi latinoamericani di etnie, generi, provenienze, geografie ed epoche diverse, provenienti da Argentina, Brasile, Bolivia, Cile, Messico e Caraibi. La sezione dei ritratti ritorna in Histórias Mestiças e al MASP in Histórias afro­atlânticas e in Histórias brasileiras. Guardando indietro, mi accorgo di come io impieghi costantemente determinati modelli e strategie che diventano poi un segno del mio lavoro. Modelli e strategie che allo stesso tempo cerco anche di riconfigurare, sperando di dare loro un nuovo senso e significato in contesti e progetti diversi nel corso degli anni. Vorrei anche citare la mostra che ho organizzato al Museu de Arte Moderna de São Paulo nel 2012 sull’opera di Adriana Varejão, intitolata Histórias às margens (storie ai margini). Con questo progetto, l’idea di histórias è apparsa per la prima volta nel titolo della mostra. Eppure, ciò che sta veramente dietro le histórias è la comprensione del fatto che non possiamo mai essere davvero certi, definitivi, autorevoli, onnicomprensivi, che le interpretazioni e i significati sono molteplici, diversi, sovrapposti e talvolta contraddittori e che si muovono nel tempo e nello spazio, da un punto di vista a un altro. È ampiamente accettato che dobbiamo abbandonare la narrazione prevalente – che è stata, ovviamente, dominata dagli europei e dagli statunitensi, sia come protagonisti (gli artisti e le opere d’arte che hanno creato), sia come autori – in cui tutto si incastra in modo ordinato, per tempi e luoghi. Quando ora esaminiamo il Sud del mondo, il panorama è molto più variegato. Ci sono molte geografie e cronologie diverse. È tutto molto eterogeneo, plurale, polifonico, con una “qualità asimmetrica e disordinata”, per usare le parole dello storico dell’arte indiano Partha Mitter, ma anche molto vitale e stimolante15. Il tema della cronologia è centrale, poiché bisogna essere aperti a cornici temporali più flessibili nel Sud del mondo del XX secolo, in quanto esistono contesti e processi molto diversi che non possono essere unificati né sincronizzati. Per questo motivo il Nucleo Storico comprende opere che vanno dagli anni Dieci del Novecento (di artisti latinoamericani come Diego Rivera, Roberto Montenegro, Emilio Pettoruti, Carlos Mérida e Anita Malfatti) agli anni Ottanta (di artisti africani, come Dumile Feni, Lucas Sithole e Twins Seven Seven, e di un artista giamaicano, Barrington Watson) e persino un’opera del 1990 (di Josiah Manzi dello Zimbabwe). Non c’è più un solo Modernismo, come non c’è più una sola storia dell’arte, ma molteplici versioni, ognuna con le proprie inflessioni locali, narrazioni, testimonianze e specificità del luogo16. In una delle nostre conversazioni, hai descritto il Nucleo Storico come spazio transnazionale, dove l’idea di “Modernismo” è plurale, dinamica e mobile come gli artisti rappresentati. Questo sembra particolarmente rilevante per la sezione dedicata alla diaspora italiana all’Arsenale. Può spiegarci come questa sezione rifletta il movimento e l’influenza degli artisti italiani e come il concetto di straniero si manifesti nella loro produzione artistica? La terza sezione del Nucleo Storico è dedicata alla diaspora italiana, soprattutto nel Sud del mondo, ma non solo. Con questa sezione in particolare ho voluto mostrare come gli italiani

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si siano recati all’estero e abbiano partecipato alle storie artistiche locali al di là dei propri confini, soprattutto nel Sud del mondo. Dopotutto, sono un curatore di quell’area geografica con un’attenzione particolare a questa vasta regione; tuttavia, visto che sto sviluppando un progetto in Italia, ho sentito il bisogno di proporre un approccio che tenesse in considerazione la scena artistica locale e le storie dell’arte, ma da una prospettiva differente. In quanto straniero, osserverò il tutto con sguardo diverso, che è anche fedele alla mia storia personale e al mio contesto. Anche se non ho origini italiane, vivo a San Paolo, in Brasile, una città e un Paese che ospitano la più grande diaspora italiana del mondo. Inoltre, lavoro al MASP, un museo con una forte impronta italiana: il nostro direttore fondatore, l’italiano Pietro Maria Bardi, ha guidato il museo per quarantacinque anni, acquisendo molti capolavori italiani per la collezione, da Raffaello e Tiziano a Modigliani (e durante il mio mandato abbiamo acquisito un’opera di Giulia Andreani, artista presente a questa Biennale Arte). Pietro era sposato con Lina Bo Bardi, la straordinaria architetta romana che ha progettato l’edificio del MASP, nonché molti dei primi allestimenti, e ha lavorato come curatrice in alcune delle mostre più importanti del museo. Bo Bardi – alla quale nel 2021 è stato assegnato il Leone d’Oro speciale alla memoria e che è una delle figure più iconiche della diaspora italiana nel mondo – è presente anche in questa sezione, che ho intitolato Italiani Ovunque – Italians Everywhere poiché le opere sono installate sui suoi iconici cavalletti di vetro, un dispositivo ben noto nella storia degli allestimenti museali. Vorrei precisare che hanno collaborato alla Biennale Arte 2024, affiancandomi nell’organizzazione artistica: Amanda Carneiro, brasiliana, che ha lavorato con me al Nucleo Contemporaneo, e Sofia Gotti, italiana, con la quale mi sono occupato del Nucleo Storico e che è stata particolarmente impegnata nella ricerca sulla diaspora italiana di questa sezione. Nel Padiglione Centrale sono state collocate due sezioni del Nucleo Storico, che sembrano fornire una base per le opere contemporanee esposte sia nel Padiglione Centrale che all’Arsenale. Puoi spiegarci in che modo queste sezioni storiche si relazionano con le opere contemporanee? Nel Nucleo Contemporaneo ci sono certamente artisti che lavorano con l’astrazione e con la figura umana e, naturalmente, ci sono anche molti artisti del Sud del mondo. Ma il Nucleo Storico non vuole essere la base strutturale del Nucleo Contemporaneo. Ciò che li accomuna è proprio il concetto di straniero, di strano, di altro, nonché l’attenzione al Sud del mondo. Una mostra non dovrebbe essere tradotta in numeri, ma questa è già l’Esposizione Internazionale d’Arte con il maggior numero di artisti provenienti dall’Asia, dall’Africa, dal mondo arabo e dall’America Latina, oltre ad artisti queer e indigeni. Insieme agli ovvi leitmotiv dello straniero, del queer, dell’outsider e dell’indigeno, il Nucleo Contemporaneo porta con sé una serie di altri temi che non facevano parte delle premesse curatoriali, ma che in modo sorprendente sono emersi organicamente nel corso della ricerca. Uno di questi è l’uso dei tessuti che troviamo nelle opere di Agnès Waruguru, Ahmed Umar, Anna Zemánková, Antonio Jose Guzman e Iva Jankovic, le Bordadoras de Isla Negra, Bouchra Khalili, Claudia Alarcón, Dana Awartani, Frieda Toranzo Jaeger, Güneş Terkol, Kang Seung Lee, Liz Collins, Mataaho Collective, Nour Jaouda,

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Pacita Abad, Paula Nicho, Ṣàngódáre Gbádégẹsin Àjàlá, Shalom Kufakwatenzi, Susanne Wenger, Yinka Shonibare, nonché delle arpilleristas cilene. I tessuti sono presenti anche nelle opere di alcuni artisti del Nucleo Storico: Bona Pieyre de Mandiargues e Gianni Bertini in Italiani Ovunque – Italians Everywhere, e Olga de Amaral, Eduardo Terrazas e Monika Correa in Astrazioni. Queste opere rivelano un interesse per l’artigianato, la tradizione, il fatto a mano e per le tecniche a volte considerate altre o estranee, outsider o strane, nel campo e nella pratica delle belle arti. Un secondo motivo è la famiglia di artisti, molti dei quali indigeni, come Andrés Curruchich e la nipote, Rosa Elena, dal Guatemala; Abel Rodríguez e il figlio Aycoobo dalla Colombia; Fred Graham e il figlio Brett, artisti māori di Aotearoa/Nuova Zelanda; Juana Marta Rodas e la figlia Julia Isídrez dal Paraguay; MAHKU, il collettivo Huni Kuin i cui componenti fanno parte della stessa famiglia brasiliana; Santiago Yahuarcani e il figlio Rember dal Perù; Susanne Wenger e il figlio adottivo Ṣàngódáre Gbádégẹsin Àjàlá dalla Nigeria; Joseca Mokahesi e André Taniki del popolo yanomami, della stessa famiglia di artisti brasiliani; i fratelli Philomé e Sénèque Obin da Haiti; e Jewad e Lorna Selim, marito e moglie dall’Iraq e dal Regno Unito. Anche in questo caso, la tradizione gioca un ruolo importante nella trasmissione delle pratiche di conoscenza da padre o madre a figlio o figlia, così come tra fratelli e parenti. In che modo la Biennale Arte contribuisce a reimmaginare o ricontestualizzare la storia dell’arte del XX secolo, soprattutto per quanto riguarda gli artisti provenienti da regioni storicamente emarginate? Potresti parlarci del contrasto in termini di visibilità tra gli artisti contemporanei del Sud del mondo e le loro controparti del XX secolo? Inoltre, in che modo la Biennale Arte agisce come piattaforma per riesaminare e potenzialmente riscrivere le narrazioni riguardanti il contributo di questi artisti alla storia dell’arte moderna? Direi che è più facile per un osservatore europeo o statunitense riconoscere gli artisti del Sud del mondo contemporanei che una figura del XX secolo proveniente da quella stessa area. Questo perché, a partire dalla fine degli anni Novanta e dall’inizio degli anni Duemila, gli artisti contemporanei della nostra parte del mondo hanno acquisito una maggiore visibilità: se non tutti, almeno alcuni di loro viaggiano ed espongono in musei, gallerie e biennali. Tuttavia, anche diversi musei stanno lentamente cercando di correggere queste lacune del Novecento. Ricordo le recenti mostre monografiche dedicate a Raza al Centre Pompidou di Parigi; o a Ibrahim El-Salahi, Fahrelnissa Zeid, Bhupen Khakhar e Saloua Raouda Choucair alla Tate di Londra; a Margarita Azurdia al Museo Nacional Centro de Arte Reina Sofía di Madrid; a Tarsila do Amaral al Museum of Modern Art di New York e all’Art Institute di Chicago, e altre ancora. Anche alcuni artisti brasiliani del dopoguerra hanno goduto di notevole visibilità, e figure chiave del XX secolo come Lygia Clark, Hélio Oiticica e Lygia Pape sono state oggetto di innumerevoli mostre personali in Europa e negli Stati Uniti negli ultimi decenni, motivo per cui non sono state incluse nel Nucleo Storico. Da questo punto di vista, stiamo vivendo tempi molto stimolanti nel campo della storia dell’arte del XX secolo, mettendo in discussione e riscrivendo le narrazioni relative all’arte del passato per includere opere e territori che sono stati a lungo

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emarginati. Ci sono molti seminari, conferenze e pubblicazioni sui modernismi globali, sui modernismi multipli, sui modernismi alternativi e sul Modernismo nel Sud del mondo, nonché su arte e globalizzazione e su arte e decolonizzazione, ma non così tante mostre come sarebbe auspicabile17. In questo contesto, volevo in qualche modo offrire una correzione speculativa a questa situazione, ma anche una provocazione, e questa è la motivazione principale alla base del Nucleo Storico. Vi partecipano circa duecento artisti – molti dei quali figure chiave nei propri contesti locali – che sono stati ignorati dalla Biennale per molti anni. Conosciamo bene la storia del Modernismo in Europa e negli Stati Uniti. Quelli di noi che provengono dal Sud del mondo magari conoscono la storia dei modernismi nei nostri Paesi, e forse nelle nostre regioni o continenti. Tuttavia, abbiamo meno familiarità con quelli di altre zone del Sud del mondo. C’è ancora molto lavoro da fare, tanti meravigliosi artisti del XX secolo di questa area geografica che hanno bisogno di essere conosciuti, studiati ed esposti. Concretamente, avrei bisogno di un team di dieci curatori e di un periodo di ricerca di cinque anni per mettere insieme una mostra completa che copra questo vasto territorio e periodo di tempo. Tuttavia, esploro questo materiale da oltre un decennio attraverso i miei viaggi e le mie ricerche, e la Biennale Arte offre questa incredibile opportunità di presentare un saggio, una bozza, una proposta speculativa su un tema così ampio. Quest’anno ho viaggiato molto, spesso tornando in luoghi che già conoscevo. È più facile per me tornare a Buenos Aires, Beirut, Singapore, Bogotá, Istanbul, Santiago, Johannesburg o Città del Messico e ampliare la mia ricerca per selezionare artisti e opere per questa sezione. Devo riconoscere che ho avuto la fortuna di poter contare sul generosissimo aiuto di tanti colleghi in diverse parti del mondo per questa ricerca. Naturalmente ci saranno delle lacune e dei vuoti, ma spero che questo apra la possibilità ad altri di raccogliere nuove informazioni e magari di ampliarle e portarle altrove. In una nostra precedente conversazione, hai parlato di “ritratti” e “astrazioni” come principi organizzativi del Nucleo Storico. In che modo questi raggruppamenti tematici contribuiscono al dialogo su identità e modernità? Inoltre, in che modo sfidano il tradizionale canone estetico occidentale e portano alla luce storie e identità represse, soprattutto considerando che questi generi sono pietre miliari della storia dell’arte occidentale e moderna? Sta pensando a una storia che forse deve ancora essere scritta? In che modo questa Biennale Arte scrive questa storia? Come già accennato, la mia premessa era che le storie dei modernismi del Sud del mondo sono in gran parte sconosciute, eppure sono di rilevanza contemporanea. È come se stessimo scoprendo tanti nuovi artisti e territori straordinari che dobbiamo mappare e integrare in nuove narrazioni del XX secolo, più aperte, pluraliste e diverse. Anche se questo potrebbe essere un compito impossibile, sicuramente lungo il cammino impareremo e porteremo alla luce qualcosa. In questo processo, non posso aspirare a offrire una cronologia e un quadro interamente articolati, completi di antecedenti e predecessori, rotture e continuità. In effetti, dubito che riusciremo mai a raggiungere questo obiettivo in senso veramente globale.

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D’altro canto, molte storie locali sono già oggetto di studio all’interno dei propri contesti. Molti di questi artisti sono figure canoniche nei loro Paesi e sono al centro di importanti ricerche in patria. Tuttavia, salvo poche eccezioni, rimangono relativamente sconosciuti a livello internazionale. E soprattutto, questi artisti non sono adeguatamente messi a confronto, giustapposti o messi in dialogo con i loro pari in carne e ossa del Sud del mondo. È questo che può fare una mostra – più di studi accademici, articoli, libri e seminari – ed è questo ciò che avevo in mente. Vorrei citare due mostre a titolo di esempio. La prima è Modernités plurielles, 1905­1970 di Catherine Grenier, un riallestimento della collezione del Centre Pompidou di Parigi inaugurato nel 2015. È stata un’impresa imponente che ha attinto dalle collezioni statali francesi ed è stata molto stimolante, ma se dovessi proporre una critica, riguarderebbe la scarsa presenza del Modernismo africano. La seconda è la straordinaria mostra di Okwui Enwezor Postwar: Art between the Pacific and the Atlantic, 1945­1965 alla Haus der Kunst di Monaco nel 2017, che aveva aspirazioni globali sia dal Nord che dal Sud. È riuscita a riunire, in un modo senza precedenti, artisti provenienti da sessantacinque Paesi, molti dei quali sono presenti di nuovo qui a Venezia. Enwezor ha avuto molto più tempo di me e ha offerto molte costellazioni intorno a temi e concetti diversi. Concentrandosi su due soli decenni, ha potuto ottenere una maggiore concentrazione e profondità. Io stesso ho proposto due criteri piuttosto semplici e diretti che mi hanno permesso di riunire tante opere disparate provenienti da diverse parti del mondo. È così che sono arrivato all’astrazione e alla figura umana, le due sezioni del Nucleo Storico ai Giardini. Queste sezioni ovviamente sfidano il canone occidentale, è la loro ragion d’essere. Tuttavia, non sto cercando di proporre nuovi formati o modelli. Anzi, in realtà mi interessa vedere come questi generi tradizionali del ritratto e dell’astrazione – che, come dici, sono pietre miliari della storia dell’arte occidentale e moderna – siano stati cannibalizzati, appropriati e sovvertiti nel Sud del mondo. Direi che nei ritratti o nelle rappresentazioni della figura umana la questione dell’identità emerge con forza, soprattutto perché la maggior parte dei ritratti sono di personaggi non bianchi e non europei: esprimono in qualche modo la propria identità, o l’identità che l’artista ha ricreato per loro. Proprio a Venezia, sarete circondati da più di cento di queste opere, molte delle quali vi fisseranno, e credo che sarà un’esperienza molto forte. Vedremo. D’altronde, è importante tenere presente che il Nucleo Storico è un saggio, una bozza, una provocazione, un esercizio curatoriale speculativo che cerca di mettere in discussione i confini e le definizioni del Modernismo. Formalmente, in termini di struttura della mostra, mi ispiro al Nucleo Histórico della Bienal de São Paulo del 1998, e questo è uno dei motivi per cui ho deciso di mantenere i nomi italiani delle sezioni, in quanto evocano il mio portoghese. Ma mi rifaccio anche alla serie di mostre collettive che abbiamo ideato nella Biennale di Istanbul del 2011, così come alle meravigliose capsule temporali di Cecilia Alemani del 2022. Il Nucleo Storico non è una proposta definitiva, ma un punto di partenza. Speriamo di imparare guardando le opere dal vivo, tutte sotto lo stesso tetto, in dialogo tra loro. Poi, forse, altri potranno proporre nuovi formati, modelli, generi e cornici.

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Io non ho una istruzione formale in storia dell’arte, il che forse mi permette di muovermi più liberamente sul campo. Ho studiato legge ed economia a Rio de Janeiro e poi mi sono laureato al California Institute of the Arts, dove ho conseguito un MFA nel programma artistico e nel programma di scrittura critica. Mi ritengo un outsider della storia dell’arte: un curatore autodidatta, per così dire, e un allestitore che ha un background da artista. In questo senso, ho un rapporto piuttosto diverso con l’arte e gli artisti, ed è da qui che nasce il mio profondo legame con gli oggetti, le mostre e i libri. È per questo motivo che spesso adotto un approccio più speculativo – che è anche una dimensione chiave del programma Histórias al MASP – e richiamo l’attenzione sull’importanza cruciale di vedere, sperimentare e imparare dagli artisti, dalle opere e dalle mostre nella vita reale. C’è una questione che vorrei affrontare. Ho parlato dei modernismi del Sud del mondo, ma questo potrebbe non essere sempre l’approccio migliore. A un esame più attento, potremmo trovare alcuni problemi e critiche riguardanti l’uso del termine e la sua applicazione che sono inestricabilmente coloniali. Vi faccio un esempio. Secondo lo storico dell’arte James Elkins, che si è occupato di molti di questi dibattiti, un artista eccezionale come l’indiano Jamini Roy non è “necessario al Modernismo”, mentre la brasiliana Tarsila do Amaral è “in definitiva [un’] artista marginale, opzionale del Modernismo”18 (sono entrambi artisti presenti nel Nucleo Storico). Se si pensa al Modernismo nella sua configurazione originale euro-americana, ovviamente gli artisti indiani e brasiliani non vi rientrano. Saranno percepiti come versioni pallide, locali, opzionali, non necessarie e marginali del modello principale. Ma non sono d’accordo con Elkins; anzi, sono più interessato a imparare da Roy e do Amaral in che modo si sono appropriati e hanno rielaborato gli idiomi modernisti, infondendoli di elementi indigeni locali provenienti dai propri contesti e dal proprio immaginario. Anche se non sono artisti “necessari” all’interno di un concetto tradizionale di Modernismo, lo sono e molto per la storia dell’arte. Bisogna quindi essere aperti ad accettare una visione più pluralista, eterogenea, conflittuale e diversa dei modernismi. Ciò che mi turba è leggere qualcuno come Elkins rifiutare do Amaral e Roy, come se stessimo cercando di entrare nel club dei modernisti in cerca di un determinato riconoscimento. Sono convinto che una delle aree più interessanti di questo ambito di ricerca siano le diverse versioni e i differenti sviluppi del Modernismo nel Sud del mondo, che spesso apportano caratteristiche, storie e contesti locali unici, non riscontrabili nelle versioni originali euro-americane. L’arte è spesso legata al contesto in cui viene prodotta e, anche se non riflette esattamente quel contesto, in qualche modo lo media e lo elabora. Credo che oggi ci sia un forte desiderio di imparare di più da questi contesti presenti nel Sud del mondo, forse anche di più che da Parigi, Londra, Roma e New York, che già conosciamo bene. Ed è forse per questo che sono stato scelto per organizzare l’Esposizione Internazionale d’Arte di quest’anno.

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NOTE

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Il compianto, grande Okwui Enwezor (1963–2019) è stato il curatore dell’edizione 2015. Pur essendo nato nel Sud del mondo, in Nigeria, ha vissuto a New York e a Monaco, dove è stato direttore della Haus der Kunst.

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Mi hanno detto che sono stato il primo curatore della Biennale a visitare città come Harare, Nairobi, Luanda, Asunción, La Paz, Santo Domingo, Città del Guatemala, Giacarta, Manila e altre.

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Si veda A. Pedrosa, The Traveling Book, Ciudad de Mexico, Fundación Jumex, 2010.

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In qualità di Direttore Artistico della Biennale Arte 2024, non ho alcuna voce in capitolo sulle scelte dei Padiglioni Nazionali, che sono fatte autonomamente dai rispettivi Paesi; essi possono decidere di seguire o meno il tema dato. Tuttavia, è interessante notare che molti Paesi hanno scelto artisti in qualche modo allineati con il tema della Biennale. Gli artisti indigeni sono presenti nei padiglioni australiano (Archie Moore), brasiliano (Renata Tupinambá), statunitense (Jeffrey Gibson) e canadese (Kapwani Kiwanga). Altri Padiglioni ospitano artisti stranieri o provenienti da ex colonie europee, come Anna Jermolaewa per l’Austria, Guerreiro do Divino Amor per la Svizzera, John Akomfrah per la Gran Bretagna, Julien Creuzet per la Francia, Sandra Gamarra per la Spagna e Yael Bartana per la Germania.

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Il programma Histórias del MASP – un intero anno di mostre, seminari, conferenze, libri e workshop – include Storie dell’infanzia (2016), Storie della sessualità (2017), Storie afro-atlantiche (2018), Storie di donne, Storie femministe (2019), Storie della danza (2020), Storie brasiliane (2022), Storie indigene (2023) e Storie queer (2024). Sono infatti solo quattro gli artisti del Nucleo Contemporaneo che hanno partecipato all’Esposizione Internazionale nel XXI secolo – Anna Zemánková, Bouchra Khalili, Superflex e Teresa Margolles – e tutti sono sembrati piuttosto essenziali per la Mostra. Filippo de Pisis, Greta Schödl e Rubem Valentim hanno partecipato alla Biennale nel XX secolo. Beatriz Milhazes e Mariana Telleria hanno partecipato ai Padiglioni Nazionali e Iván Argote, Kiluanji Kia Henda e Yinka Shonibare hanno partecipato agli Eventi Collaterali.

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Sigmund Freud, Il perturbante, in Opere Complete, vol. 9, a cura di Cesare Musatti, Torino, Bollati Boringhieri, 1966–1980.

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V. Soares, A. Pedrosa, histórias: Valeska Soares, São Paulo, Galeria Camargo Vilaça, 1996.

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È spesso inclusa nei libri e nelle serie dedicate alle mostre più importanti del XX secolo. Si veda ad esempio Biennials and Beyond: Exhibitions that Made Art History, 1962­2002, a cura di B. Altshuler, London, Phaidon Press, 2013; Cultural Anthropophagy: The 24th Bienal de São Paulo, 1998, a cura di L. Lagnado, P. Lafuente, London, Afterall Books, 2015.

10 La XXIV Bienal de São Paulo (1998), a cui ho lavorato come curatore aggiunto con il curatore capo Paulo Herkenhoff, ha introdotto l’antropofagia nel dibattito internazionale, proponendola come strumento con cui osservare l’arte contemporanea e la storia dell’arte attraverso la mostra e le sue pubblicazioni. Cfr., XXIV Bienal de São Paulo, catalogo della mostra, a cura di P. Herkenhoff, A. Pedrosa, 4 voll., São Paulo, Fundação Bienal de São Paulo, 1998.

17 Si veda ad esempio Alternative Modernities, a cura di D. Parameshwar Gaonkar, Durham, Duke University Press, 2001; Cosmopolitan Modernisms, a cura di K. Mercer, Cambridge (MA), MIT Press, 2005; Elaine O’Brien et al., Modern Art in Africa, Asia, and Latin America: An Introduction to Global Modernisms, Chichester, West Sussex, Wiley-Blackwell, 2013; Art and Its Global Histories: A Reader, a cura di D. Newall, Manchester, Manchester University Press, 2017; Mapping Modernisms: Art, Indigeneity, Colonialism, a cura di E. Harney, R. Phillips, Durham, Duke University Press, 2018. 18 Art and Globalization, a cura di J. Elkins, Z. Valiavicharska, A. Kim, University Park, Pennsylvania University Press, 2010, pp. 120, 122.

11 O. de Andrade, Anthropophagite Manifesto, pubblicato originariamente nella “Revista de Antropofagia”, 1, n. 1 (maggio 1928). Tradotto da Adriano Pedrosa e Veronica Cordeiro in XXIV Bienal de São Paulo: Núcleo Histórico: Antropofagia e histórias de canibalismo, catalogo della mostra, a cura di P. Herkenhoff, A. Pedrosa, São Paulo, Fundação Bienal de São Paulo, 1998. In italiano, in La cultura cannibale. Oswald de Andrade: da Pau­Brasil al Manifesto antropofago, a cura di E. Finazzi Agrò, M.C. Pincherle, Milano, Meltemi, 1999. 12 F[r]icciones, catalogo della mostra, a cura di A. Pedrosa, I. Mesquita, Madrid, Museo Nacional Centro de Arte Reina Sofía, 2000. 13 A. Pedrosa, I. Mesquita, Plática, in F[r]icciones, cit., pp. 213-217; A. Pedrosa, J. Hoffmann, Critical Aesthetics—A Conversation between Adriano Pedrosa and Jens Hoffmann, in Untitled (12th Istanbul Biennial): The Catalogue, catalogo della mostra, a cura di A. Pedrosa, J. Hoffmann, Istanbul, Istanbul Kültür Sanat Vakfi, 2011, pp. 82-101. 14 XXIV Bienal de São Paulo: Núcleo Histórico: antropofagia e histórias de canibalismos, cit.; Histórias mestiças: Catálogo, catalogo della mostra, a cura di A. Pedrosa, L. Moritz Schwarcz, Rio de Janeiro, Cobogó, 2015. 15 P. Mitter, Decentering Modernism: Art History and Avant­Garde Art from the Periphery, in “The Art Bulletin”, 90, n. 4, 2008, p. 540. 16 Si veda il mio History, “Histórias”, spesso pubblicato in versione rivista o aggiornata nei nostri cataloghi Histórias al MASP. Ad esempio, in Afro­Atlantic Histories, a cura di A. Pedrosa, T. Toledo, São Paulo, Museu de Arte de São Paulo Assis Chateaubriand, 2021, pp. 21-25.

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LA TORTURA È LA RAGIONE, IN BIOPOLITICA E LIBERALISMO. DETTI E SCRITTI SU POTERE ED ETICA 1975-1984, A CURA DI OTTAVIO MARZOCCA, MILANO, MEDUSA, 2001, PP. 95-96.

È un bel sogno che molti condividono: dare la parola a chi non ha potuto finora parlare, a chi è stato costretto al silenzio dalla storia, la cui bocca è stata chiusa dalla violenza della storia e da tutti i sistemi di violenza e sfruttamento. Sì. Ma [...] quelli che sono stati sconfitti [...] sono per definizione quelli a cui è stata tolta la parola! Eppure, se parlassero, non parlerebbero la loro lingua. È stata imposta loro una lingua straniera, non sono silenziosi.

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FREMMEDE OVERALT

Adriano Pedrosa

intervistati da

Claire Fontaine

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CLAIRE FONTAINE

INTERVISTATI DA ADRIANO PEDROSA

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Vorrei iniziare dalle origini: come è nato il vostro interesse per l’arte, come vi siete incontrati, come avete iniziato a lavorare insieme, e come è nata Claire Fontaine, qual è il suo significato e come la definite? Quando ci siamo conosciuti nel 2003, eravamo già professionalmente impegnati nel mondo dell’arte. Insegnavamo anche in una scuola d’arte nel nord della Francia. Il nostro interesse per l’arte ha origini molto diverse: per James risale all’infanzia, lui ha sempre voluto essere un artista. Ha frequentato prima la Free International University creata da Joseph Beuys ad Amburgo e poi la Glasgow School of Art per la laurea e l’MFA; ha iniziato a esporre le sue opere nel 1993. Fulvia ha studiato filosofia all’Université Paris 8 e ha cofondato la rivista Tiqqun a Parigi nel 19981. Ha rifiutato il più a lungo possibile qualsiasi identificazione professionale, ma alla fine degli anni Novanta ha iniziato a lavorare con amici artisti, fino a quando la collaborazione con Claire Fontaine non è diventata totalizzante. Claire Fontaine è nata da un bisogno di libertà: prima di tutto la libertà dal dover fare ciò che ci si aspettava da noi. Uno degli insegnamenti più stimolanti del movimento femminista italiano degli anni Settanta è l’idea di rifiutare l’immagine che gli altri proiettano su di noi; una bellissima citazione tratta da Sexual Difference, a Socio­ Symbolic Practice che utilizziamo spesso è: “Non credevamo in quello che dicevano di noi”2. Le persone sono costantemente private della possibilità di sperimentare perché temono la reazione dei loro cari o di quelli da cui dipendono. Il rifiuto di questo ricatto distruttivo è quello che chiamiamo “sciopero umano”, di cui abbiamo ampiamente scritto3. Il lavoro di Claire Fontaine è un tentativo di presentare a chi osserva pensieri ed emozioni che spesso vengono espulsi dalla vita quotidiana; vogliamo proteggere dall’estinzione i sentimenti e le forme che ci permettono di abitare un certo livello di realtà. Ci auguriamo che, quando le persone si trovano di fronte al nostro lavoro, sentano di poter estendere la portata della loro creatività a nuovi spazi, alla loro vita, alle loro relazioni. Come scrive Gilles Deleuze in Proust e i segni “chi può sapere come uno scolaro diventa improvvisamente ‘bravo in latino’, quali segni (eventualmente quelli dell’amore o anche quelli inammissibili) hanno fatto il suo apprendistato? Non impariamo mai dai dizionari che ci prestano i nostri insegnanti o i nostri genitori”4. Sappiamo che le opere di Claire Fontaine contengono germi di qualcosa, germi che ci mantengono vivi e speranzosi, che stanno salvando qualcuno o qualcosa. Con chi sto parlando? Con Fulvia Carnevale, James Thornhill, entrambi, o sto parlando con Claire Fontaine? Se Fulvia e James sono gli assistenti di Claire Fontaine, quest’ultima può essere considerata in qualche modo un’invenzione? D’altra parte, il vostro lavoro ha, ovviamente, motivazioni e messaggi politici molto forti, anche se spesso duplici, poetici o con numerosi significati. Voi ovviamente avete scelto queste strategie in modo molto attento e deliberato, e di certo avete riflettuto sulla domanda che spesso mi pongo: se la qualità ambigua e poetica di un lavoro con un forte contenuto politico ne comprometta la precisione e l’efficacia, o addirittura lasci spazio a interpretazioni errate. In passato ci sono stati fraintendimenti o appropriazioni del vostro lavoro che vi hanno turbato?

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Sicuramente sta parlando a entrambi. Quando parliamo con le persone o rilasciamo interviste, non stiamo giocando, siamo di una sincerità disarmante. Non c’è alcun segreto su di noi o sulla nostra prassi creativa. Diciamo spesso che chiamarci Claire Fontaine è più corretto che usare entrambi i nostri nomi, perché Claire Fontaine è un terzo spazio, uno spazio di desoggettivazione, dove possiamo espandere la nostra coscienza e affrontare senza paura le complessità. Questa distanza tra noi come persone e le opere d’arte che realizziamo non è disonestà o irresponsabilità, è lo spazio in cui si è insediata la modernità. Fin dalla nascita delle avanguardie, l’autore come “funzione” è sempre in crisi (l’Intelligenza Artificiale ha recentemente accelerato il processo). Chi era un autore fino a poco tempo fa? Un uomo bianco proveniente da una posizione sociale dominante. La finzione liberista dell’“unicità dell’individuo”, indipendentemente dal genere, dalla classe sociale, dal colore della pelle o dalla nazionalità, produce confusione, solitudine, suicidi e app di incontri; sembriamo non renderci conto di come le nostre soggettività siano formate dalla società, abbiamo difficoltà ad associarci e a sostenerci a vicenda. Essere un autore, un artista, oggi, significa essere il ricettacolo, l’amplificatore di questi fenomeni che coinvolgono noi e il pubblico. Qualsiasi cosa diversa sarebbe una strategia disonesta che tratta l’autorialità come un marchio. L’arte contemporanea non è solo una delle tante forme che abbiamo scelto per il nostro lavoro, è il contesto in cui ci esprimiamo. Ci appassiona la sua storia, continuiamo a studiarla e a scoprirla, la citiamo, la mettiamo in discussione. L’arte contemporanea è anche uno dei rari campi in cui parole e immagini non intrattengono un rapporto gerarchico, in cui è ancora possibile l’esplorazione emotiva e visiva di molti aspetti della realtà (che tendiamo a respingere quando li incontriamo nelle notizie o nella vita quotidiana). La nostra arte non è più politica di quanto non lo sia la vita di chiunque, tranne che per il fatto che ci rifiutiamo di essere vaghi o opportunisti riguardo al luogo da cui pensiamo; crediamo che sia essenziale per ognuno sapere dove ci troviamo nei meccanismi della società, a che cosa partecipiamo e da che cosa siamo esclusi, quanto siamo danneggiati o colpiti nella nostra “microscala” da quanto accade nel mondo in generale. La poesia e l’ambiguità sono elementi essenziali in tutte le opere d’arte: se non ci sono, siamo di fronte a merci o a propaganda. Se avessimo semplicemente un messaggio da trasmettere, delle certezze da instillare nelle persone, non faremmo arte e soprattutto non faremmo l’arte che facciamo noi; il nostro lavoro non contiene un’agenda politica, stiamo conducendo una ricerca continua sul significato di essere vivi nel nostro tempo e le nostre opere ne sono il risultato. Sì, ci sono stati sia fraintendimenti sia appropriazioni; non che ci importi molto di queste ultime, ma è esasperante quando la natura dell’opera d’arte viene cancellata per trasformarla in una pubblicità o in una decorazione. Preferiamo non fare i nomi dei responsabili, perché non siamo in un tribunale. È interessante per me che gli artisti spesso sfuggano alle definizioni e alle categorie, ma Claire Fontaine si definisce molto chiaramente artista concettuale femminista del readymade. Fulvia e James si sono anche definiti assistenti di

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Claire Fontaine e hanno usato l’espressione “gestione di un centro vuoto”. Potete spiegare e approfondire tutto questo? Non abbiamo la sensazione di “dirigere” o controllare il processo creativo in Claire Fontaine. Accompagniamo le idee che diventano possibili al suo interno. È più un lavoro di cura che un lavoro di decisione. Non si tratta di imporre la propria volontà, ma di contribuire alla nascita delle opere d’arte, di accompagnarle nel mondo dove poi vivranno la loro vita senza di noi; in questo senso ne siamo senz’altro gli assistenti. È un processo cooperativo che è decisamente femminista perché non è governato da valori patriarcali; è concettuale e fortemente legato alla storia del readymade perché non è un’operazione retinica. Anche se gli aspetti formali e visivi del nostro lavoro sono ovviamente inseparabili dal soggetto, e importanti quanto il soggetto stesso, il nostro obiettivo finale non è quello di compiere azioni ornamentali all’interno di spazi espositivi, ma di provocare pensieri, emozioni, sentimenti da noi ritenuti essenziali. È anche per questo che reinvestiamo forme esistenti, ne citiamo altre: ispirarsi ai nostri predecessori e ai nostri contemporanei è un atto di umiltà e di amore. Potreste parlare del vostro processo di lavoro, del vostro processo creativo? Come nasce un’opera? È interessante il modo in cui un’opera o una serie possa svilupparsi e progredire nel corso degli anni; penso non solo a Stranieri Ovunque (dal 2004 in poi), ma anche alla straordinaria serie Burnt/Unburnt, che mi sembra inizi con France (Burnt/Unburnt) (2011), la cui più recente iterazione è Mediterranean Sea (Burnt/Unburnt) (2023), ora in esposizione a Berlino5. Le opere si formano come intuizioni visivo-concettuali che si trasformano continuamente durante il processo. Una volta realizzata, l’opera si dispiega in altre potenzialità che ancora non erano percepibili nel processo di pensiero da cui era partita. Un’opera non è la stazione finale di un’indagine, ma il nuovo inizio per un nuovo viaggio. Facciamo l’esempio dei Brickbats, una serie iniziata nel 2007. Agli inizi della pratica di Claire Fontaine ci aveva molto colpiti un’opera di Robert Fillou del 1977, Je meurs trop, un mattone che sembra un libro, ma non ci era mai venuto in mente di citarlo in qualche modo. Nella scuola d’arte nel nord della Francia dove abbiamo insegnato per molti anni la maggior parte degli studenti proveniva da contesti svantaggiati con esperienze di apprendimento traumatizzanti; mettere loro in mano un libro della biblioteca era come consegnare un oggetto impenetrabile e senza vita. Non si sentivano liberi di guardarci dentro, di cominciare dal centro, di saltare delle parti, di esplorare l’indice e le note a piè di pagina; si comportavano come stranieri in una terra sconosciuta, con la paura di perdersi o di agire nel modo sbagliato. Da qui è nata l’intuizione di trasformare il libro in un oggetto illeggibile: in italiano un libro noioso viene descritto come un “mattone”, in francese come un “pavé”. Il titolo di questa serie di opere, Brickbats, deriva dal termine inglese che descrive un messaggio, una minaccia, avvolto in un mattone che viene lanciato attraverso una finestra. I “brickbat” di Claire Fontaine sono avvolti da scansioni stampate di copertine di libri il cui dorso è stato allungato fino a raggiungere lo spessore dei mattoni. Ci siamo resi conto che questi libri pietrificati erano diventati “equivalenti”: il numero originale di pagine non contava più, lo spessore dei dorsi era identico e così il loro peso. In questo processo, abbiamo compreso in modo diverso l’idea di

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Carl Andre degli Equivalent. Dal singolare Brickbats è nata poi l’intuizione di trasformare alcuni libri pubblicati nella collana “Folio” di Gallimard in elementi per ricreare le sculture di Andre. Identici per peso e dimensioni, i mattoni dei nostri equivalenti avevano l’aspetto di libri “Folio”, ognuno dei quali riportava il titolo, il nome dello scrittore e la riproduzione di un’opera d’arte. Ogni scultura era composta dagli stessi 120 libri “fantasma” disposti in ordine variabile; se le opere di Andre erano visivamente omogenee e mute, le nostre erano colorate e dense di parole. Con la serie Lever (2007–2011), abbiamo ragionato sempre nella stessa direzione in cui veniva ribaltato il minimalismo di Andre, ma ci siamo concentrati sull’aspetto seriale della scultura: abbiamo utilizzato solo la copertina di Differenza e ripetizione (1968) di Gilles Deleuze, uno dei nostri libri preferiti che decostruisce magistralmente il concetto di unicità. In questa serie di lavori, abbiamo coniugato l’idea di differenza e ripetizione anche attraverso la traduzione. La ripetizione non si limitava ai 137 mattoni con la stessa copertina modificata del libro stampata 137 volte e disposta in linea retta, ma si estendeva alle sue diverse traduzioni. Abbiamo realizzato versioni di Lever in inglese, tedesco, italiano e francese; sono gli stessi libri, ma la loro vita in lingue diverse li rende fondamentalmente unici. Le opere Burnt/Unburnt (dal 2008 in poi) sono nate da una riflessione sulla storia politica del fuoco. Ci siamo interessati al modo in cui le persone reagiscono nelle manifestazioni quando scoppia un incendio, o al modo in cui si guarda qualcosa che è stato bruciato, in casa o per strada. C’è un sentimento specifico che le cose bruciate risvegliano nelle persone: la combustione distrugge l’utilità ed evoca la morte. I nostri segni di fumo che citano la pratica vandalica di scrivere con il fuoco in spazi pubblici chiusi (come bagni, ascensori, scale) racchiudono la tristezza e la violenza che accompagnano la combustione; pur essendo solo ombre, tracce lasciate da una fiamma tremula, sono in qualche modo pesanti. Ci siamo anche resi conto che la loro esecuzione è influenzata dal respiro e dalle vibrazioni emotive di una stanza: quando si scrive con la fiamma questa si muove inspiegabilmente, anche in spazi ermetici. L’idea di bruciare un territorio o un testo all’interno di uno spazio espositivo ci è sembrata interessante perché il fuoco non lascia solo l’oscurità delle bruciature, ma anche un odore che altera la neutralità sensoriale del white cube. Abbiamo iniziato bruciando testi e poi la Francia (France (Burnt/ Unburnt)) è stato il primo Paese ad andare in fiamme. Lo stesso anno, con María Inés Rodríguez, abbiamo bruciato P.I.G.S. (2011) al MUSAC (Museo de Arte Contemporáneo de Castilla y León) di León. Il titolo citava l’acronimo offensivo usato dai giornalisti per raggruppare Portogallo, Italia, Grecia e Spagna, i Paesi che per primi sono andati in default nella zona euro. La loro sagoma è stata riprodotta con centinaia di migliaia di fiammiferi piantati in un muro e dati alle fiamme. Immolare un territorio può ovviamente assumere molti significati diversi e ci sono sia eccitazione che paura quando le fiamme iniziano a divampare. Il rogo avviene di solito in privato ed è visibile nella documentazione video e fotografica; quando le persone visitano la mostra, vedono una scultura, un disegno murale fatto dal fuoco. Nella mostra Pier Paolo Pasolini. Tutto è santo. Il corpo politico al MAXXI (Museo nazionale delle arti del XXI secolo) di Roma tra novembre 2022 e maggio 2023, è stata installata e lasciata incombusta un’opera a forma di fiammifero lunga 25 metri con la scritta “Ci odiano per la nostra libertà”. La stessa opera era stata esposta bruciata da Anthony Huberman al Contemporary Art Museum di St. Louis

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nel 2008 e da Thierry Ollat al mac (Musée d’art contemporain) di Marsiglia nel 2013 – due esperienze incomparabili. Se le versioni incombuste di queste opere non trasformano così radicalmente lo spazio, esse rappresentano un pericolo incombente perché potenzialmente chiunque può incendiarle. Il MAXXI ha scelto di sottoporre l’installazione a sorveglianza permanente, il che ha naturalmente influenzato il modo in cui il pubblico l’ha vissuta. “Ci odiano per la nostra libertà” è una citazione dal discorso che George Bush tenne il 20 settembre 2001, quando gettò le basi ideologiche per le guerre a venire definendo come irreparabile l’ostilità culturale e antropologica tra l’America e i suoi nemici. Al di fuori del suo contesto originario, questa frase può essere letta in molti modi: potrebbe, ad esempio, rappresentare una dichiarazione dei curatori del MAXXI sulla fragilità della loro libertà di espressione a causa dei cambiamenti attuati dall’attuale governo italiano. Nella nostra recente mostra Become a Sea (2023) alla Galerie Neu di Berlino, abbiamo riprodotto per la prima volta uno spazio liquido che abbiamo bruciato prima della fine della mostra. Il Mediterraneo è un mare chiuso, pieno di confini e conflitti invisibili, una tomba per i rifugiati che non raggiungono la riva, eppure è circondato dalle coste più densamente turistiche del mondo. Con Mediterranean Sea (Burnt/ Unburnt) abbiamo voluto fare un’operazione alchemica, fondendo acqua e fuoco, turisti e rifugiati, pace e guerra. Questo lavoro, secondo noi, deriva veramente dall’osservazione delle forme dei Paesi, riconoscendone gli iconici confini che li definiscono visivamente. Nessuno conosce la forma dell’acqua, ed è stato incredibile vedere la terra apparire come uno spazio vuoto negativo e senza confini. È così che le mappe la rappresentano per le persone che navigano in mare. Come vi collocate nel contesto più ampio della storia dell’arte? Si può sicuramente pensare all’arte (post-) concettuale, alla critica (post-)istituzionale, al (post-)minimalismo e persino al (post-)pop. Warhol compare con le immagini di Marilyn Monroe e Mao, Carl Andre è un riferimento o un contro-riferimento nel vostro uso dei mattoni: penso al vostro uso di Differenza e ripetizione di Deleuze nel grande Lever (Version Americaine) del 2007; Dan Flavin è un predecessore per K font signs (dal 2006 in poi) e, naturalmente, c’è Marcel Duchamp e il readymade, e Félix González-Torres in tanti modi. Inoltre, si può forse pensare a Bruce Nauman e Jenny Holzer. Tuttavia, in quanto artista femminista, Claire Fontaine avrà sicuramente altri riferimenti femminili? Siamo fortemente influenzati da molte donne artiste: Cady Noland, Mierle Laderman Ukeles, Barbara Kruger, Lee Lozano, Martha Rosler, Adrian Piper, Renée Green, Andrea Fraser, Elaine Sturtevant, solo per citarne alcune. E c’è sicuramente un’abitudine femminista nell’arte di citare, scrivere, studiare e non fidarsi solo del proprio istinto o della propria invenzione, con cui Claire Fontaine è solidale. La storia dell’arte è un racconto tragicomico che può essere letto in molti modi: gli esclusi, gli outsider (tra cui le donne) sviluppano un certo distacco ironico da essa che è funzionale al mantenimento di una prospettiva critica. Il rapporto patriarcale con il proprio lavoro, che consiste nell’usare l’opera d’arte per guadagnare denaro e potere, opprimere gli altri e scalare il successo, è quello dominante tra le icone dell’arte del nostro tempo, nonostante la mitologia romantica degli artisti visti come sensibili e vulnerabili. Nella storia dell’arte

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devono emergere ed emergeranno altre narrazioni, quindi è importante continuare a chiedersi come siano cambiati nell’ultimo secolo i criteri che organizzano la leggibilità e la desiderabilità delle opere d’arte, l’ammirazione nei confronti dei loro autori. La critica istituzionale, ad esempio, è una delle nostre maggiori ispirazioni, ma ora l’istituzione che dobbiamo criticare è il capitalismo, quella che contiene tutte le altre e che non ha un fuori. Questo significa che un gesto come Shapolsky et al. Manhattan Real Estate Holdings, a Real­Time Social System, as of May 1, 1971 (1971) di Hans Haacke è oggi ancora possibile ma non più sensazionale. Nan Goldin, nel ritenere la famiglia Sackler responsabile del ruolo avuto nella crisi degli oppioidi, ha di recente dimostrato che la voce di un artista può contribuire a sensibilizzare l’opinione pubblica sui cambiamenti di cui la nostra società ha bisogno. C’è un valore d’uso esistenziale nelle opere d’arte contemporanea e questo è ciò che cerchiamo di attivare quando usiamo la storia dell’arte come banca dati: le forme esistenti possono assumere nuovi significati. Il nostro lavoro non è esteticamente dirompente, potrebbe assomigliare a qualcosa di già noto, perché il cambiamento a cui aspiriamo potrebbe non avvenire nello spazio espositivo o nel museo, ma all’interno degli spettatori e nel modo in cui essi influenzano il mondo con le loro azioni quotidiane. L’opera d’arte può essere un oggetto di transizione tra se stessi e la propria vita, può rendere le cose possibili in modi inimmaginabili. Questo fa parte di ciò che chiamiamo materialismo magico6. Quali sono state le origini della serie di opere Stranieri Ovunque, e come la vedete spostarsi da una lingua all’altra, da un contesto all’altro, e nel corso degli anni? Come si trasforma l’opera quando diventa il titolo della 60. Esposizione Internazionale d’Arte? Era già stato in lingua tupi antica (Mamõyguara Opá Mamõ Pupé) il titolo di Panorama da Arte Brasileira al Museu de Arte Moderna de São Paulo (che ho curato nel 2009 e a cui avete partecipato) ma si trattava di un contesto molto diverso e pochissime persone erano in grado di capire il significato del titolo in quella lingua indigena brasiliana estinta. Ma soprattutto, come vedete Stranieri Ovunque riverberarsi nell’attuale contesto italiano e mondiale? L’origine di questo lavoro affonda le radici in una storia di appropriazione. Alcuni amici, nel 2002, hanno regalato a Fulvia una fanzine fronte-retro, un volantino A3 che avevano trovato a Torino. Utilizzava lo stesso linguaggio grafico e una delle fotografie che erano state stampate in Tiqqun. Il documento era scritto in un inglese stentato, ma riportava una posizione interessante in difesa dei migranti nel mondo. Era firmato Stranieri Ovunque. Abbiamo visto nell’accoppiamento di queste due parole un’eccitante ambiguità e un contenuto universale (siamo sempre lo straniero di qualcun altro e possiamo sentirci stranieri ovunque andiamo), così abbiamo subito deciso di trasformarlo in un’insegna al neon che fungesse da sottotitolo all’ambiente, e di tradurlo in diverse lingue per cambiare la prospettiva su chi sia straniero. La prima opera della serie era in italiano ed è stata presentata nel 2005, a pochi metri dai Giardini della Biennale, nel Mars Pavilion curato da Marco Baravalle e Andrea Morucchio. La seconda, in arabo, è stata esposta nella vetrina di Reena Spaulings Fine Art a New York, in occasione della nostra prima personale in quello stesso anno; è stata accolta con tale ostilità dai vicini e dal padrone di casa che la galleria è stata costretta a esporre accanto una traduzione in inglese su un

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foglio di carta. La lingua araba era percepita come minacciosa all’epoca: la guerra in Iraq imperversava e il campo di detenzione di Guantanamo era considerato scandaloso da molti media. Poco dopo questo incidente, il contratto di locazione della galleria non fu rinnovato e questa si trasferì nella sede attuale sulla East Broadway. Quest’opera suscita ogni tipo di reazione a seconda del contesto geopolitico, attiva una diversa percezione delle persone che si muovono nello spazio, è un commento sulla nostra condizione comunitaria e sui meccanismi di aggregazione ed esclusione a cui tutti partecipiamo. Viviamo in un momento storico xenofobo, con governi di destra in Italia e altrove che criminalizzano i migranti senza cercare di affrontare le ragioni del loro afflusso. Le difficoltà di vivere nella nostra società sono amplificate dall’essere rifugiati, clandestini o semplicemente estranei alle logiche del luogo in cui si è approdati. Il tema dell’estraneità come esperienza esistenziale decisiva del nostro tempo è un’ossessione ricorrente per Claire Fontaine. Nel 2012 abbiamo esposto The Isle of Tears al Jewish Museum di New York, un’installazione che ora fa parte della loro collezione. “L’isola delle lacrime” è il nome che gli immigrati negli Stati Uniti davano a Ellis Island perché era il luogo in cui potevano essere separati gli uni dagli altri e rispediti a casa se non erano ritenuti idonei a diventare cittadini americani. Composta da otto insegne al neon sospese che recitano le parole “isle of tears” in diverse lingue, l’opera cita il libro e il documentario di Georges Perec e Robert Bober del 1979 intitolato Ellis Island 7. Bober e Perec hanno raccolto le storie degli ultimi sopravvissuti che sono passati da Ellis Island. Quasi sedici milioni di immigrati sono approdati all’isola delle lacrime tra il 1892 e il 1914, un luogo che era il luogo in cui iniziava una nuova vita e al contempo la sepoltura della precedente identità dei nuovi arrivati, che a volte abbandonavano persino il proprio nome per sembrare più americani. Secondo Perec, questa ricerca era inseparabile dall’identità ebraica sua e di Bober. Scrive Perec: Non so esattamente cosa sia essere ebreo, o quale effetto abbia su di me l’essere ebreo c’è qualcosa di ovvio, [...] come un silenzio, una carenza, una domanda, un interrogativo, un dubbio, un disagio: una certezza inquieta, e dietro di essa, un’altra certezza, astratta, opprimente e intollerabile: quella di essere stato etichettato come ebreo, ebreo quindi vittima, e quindi obbligato, per il fatto di essere vivo, all’esilio e alla fortuna...8 Abbiamo esplorato le differenze tra il destino del readymade, un oggetto comune privato del suo contesto e del suo valore d’uso tradizionale che viene trasformato in un’opera d’arte, e quello degli sfollati che hanno anch’essi perso il proprio contesto originario e il proprio scopo nella vita, ma che non traggono alcun valore da questo processo, anzi perdono tutto. Ci chiediamo se riusciamo a trovare

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l’“infrasottile”9 degli stranieri, se riusciamo a mostrare quanto queste persone possano essere magiche e miracolose se si danno loro il valore e l’attenzione che meritano. Il 2023 ha visto un numero record di sfollati e apolidi: secondo l’UNHCR (Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati), si tratta di 117,2 milioni di vite. Se la situazione era disperata prima della tragica guerra in Palestina, ora è terrificante. Oltre alla nostra felicità nel vedere le parole “stranieri ovunque” vivere una nuova vita come titolo della Biennale Arte 2024, grazie a voi, speriamo che questo porti più persone a guardare alla migrazione come uno dei fenomeni più essenziali e vitali di tutti i tempi, e non come un fattore di instabilità o qualcosa da criminalizzare e prevenire. Avete parlato di voi stessi come rifugiati politici nel campo dell’arte, e del rifugiato come una figura tragica, un sopravvissuto, oltre che uno straniero. Potete spiegarci meglio questo concetto? Quando, nel 2004, abbiamo fondato Claire Fontaine, avevamo entrambi lavorato in precedenza come artisti ed eravamo consapevoli della piega reazionaria che stava prendendo la storia. Le guerre che hanno seguito l’11 settembre sono il vero antecedente dell’attuale conflitto israelo-palestinese: le rappresaglie sproporzionate dopo un attacco terroristico che comportava l’aggressione di ampia parte della popolazione civile sono state considerate accettabili dalla comunità internazionale. In Iraq e in Afghanistan, insieme a un’immensa quantità di civili innocenti, è morto anche un certo modo di dire la verità politica. Julian Assange e Chelsea Manning sono diventati i simboli della criminalizzazione del dissenso, un fenomeno che è diventato comune nelle democrazie occidentali e che ha ormai cambiato completamente il contesto e il significato di ogni attività culturale o simbolica. Il G8 di Genova – che si è svolto pochi mesi prima dell’attacco alle Torri Gemelle – è stato, ad esempio, un esperimento senza precedenti di utilizzo di tattiche di guerra in tempo di pace10. La protesta in Europa non è più stata la stessa dopo quei giorni di sangue: gruppi di giovani, disabili, anziani, malati, fragili non potevano più partecipare alle manifestazioni. Anche il drastico cambiamento di politica del governo francese nei confronti delle espressioni di dissenso e dei conflitti razziali dopo la presidenza Sarkozy è esemplare di questa svolta violenta11. La libertà di espressione può diventare una parola vuota quando non possiamo vivere la vita in armonia con le nostre convinzioni12. Potremmo pagare il prezzo anche adesso per aver messo per iscritto qualcosa di così banale, e probabilmente accadrà. Il politicamente corretto è diventato anche un modo per impedire che avvengano cambiamenti reali. Dobbiamo esplorare il nostro disagio, comprenderlo, e solo allora potremo cambiare radicalmente e porre fine alla sofferenza che stiamo causando. Il modo migliore per non ferire i sentimenti delle persone è capire quello che facciamo loro ogni giorno con il nostro modo di vivere e non solo con quello che diciamo. L’arte è ancora uno spazio che ci permette di accedere ai nostri sentimenti più profondi, alle nostre paure, e di trasformare noi stessi e gli altri senza voler controllare o catturare questo processo. L’arte contemporanea è davvero uno degli ultimi laboratori per lavorare sulle nostre forme di vita, su ciò che

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comprendiamo cognitivamente ed emotivamente della realtà. Il suo scopo è quello di mantenere aperto uno spazio per mettere in discussione tutto, dentro e fuori di noi, in ognuno di noi. La vita perderà il suo sapore quando non saremo in grado di parlare di ciò che ci accade. Per questo crediamo che il silenzio confuso dell’arte contemporanea sia ancora il luogo migliore per trovare le parole giuste. Vorrei dedicare un momento per chiedervi delle sfide di esistere, operare e sopravvivere all’interno del mondo dell’arte contemporanea, del sistema delle gallerie, così segnato dalla cultura capitalistica delle merci, e di fatto attraversato dalla cultura della celebrità, del glamour e del lusso. È davvero un mondo selvaggio quello là fuori! Come avete visto cambiare ed evolvere tutto questo negli ultimi vent’anni, da quando avete iniziato nel 2004? Assistere a questi cambiamenti in peggio è stato – ed è tuttora – un viaggio davvero sconvolgente. Abbiamo lavorato con molti partner diversi e abbiamo sperimentato in prima persona i limiti del sistema delle gallerie: le persone che lavorano in queste strutture sono sfruttate e spesso sottopagate; la concorrenza può anche essere distruttiva per la qualità del programma di una galleria, quando far quadrare i conti diventa un esercizio acrobatico, la tentazione di cercare soluzioni più facili può diventare forte e a volte ineluttabile per un’operazione finanziariamente fragile. Abbiamo visto all’opera i meccanismi monopolistici accanto all’aumento dell’economia speculativa nell’arte, la biodiversità che dovrebbe creare tutto il fascino e l’eccitazione sta lentamente diventando insostenibile e comincia a estinguersi. Le soggettività che potrebbero resistere a questa tempesta finanziaria ed emotiva sono di un tipo specifico e, come tutti sanno, i sopravvissuti non formano buone comunità perché non c’è solidarietà tra oppressori. Sarebbe un’interessante operazione archeologica cercare tutti gli artisti e le opere d’arte che sono stati eclissati dalle difficoltà di questi ultimi vent’anni, una controstoria di ciò che ci è stato detto essere l’arte contemporanea che dovremmo guardare. Poiché le istituzioni europee si affidano sempre più all’aiuto finanziario delle gallerie o degli sponsor, questo ha ridotto l’indipendenza dei curatori e le possibilità di esporre, anche in spazi non commerciali, il lavoro di quel tipo di artisti che, per un numero inimmaginabile di ragioni, non hanno questo sostegno. Siamo in un tragico punto cieco nella nostra civiltà, in cui il valore è misurato esclusivamente in termini economici, sebbene tutti sappiano che il valore monetario non si genera senza un altro tipo di lavoro invisibile, un prezioso lavoro non retribuito di cura, amore, intelligenza e dedizione. Potremmo ancora pensare, come eredi di un subconscio coloniale, che la natura e i migranti siano lì per il nostro profitto materiale, ma ora sappiamo che tale profitto materiale impoverisce la sua stessa fonte e trasforma la ricchezza in scarsità. L’arte ha bisogno di un ecosistema in cui la gentrificazione e la speculazione siano tenute sotto controllo: solo quando questo accadrà, i collezionisti potranno possedere opere d’arte veramente preziose, perché create in libertà. La parte più scioccante dell’esperienza di questo cambiamento che tu descrivi è stata la testimonianza della normalizzazione della censura negli ultimi cinque anni, il restringimento dello spazio di ciò che è possibile in una mostra e di ciò che è accettato come “zona pensabile”. Questo ci danneggia tutti: gli esempi più recenti di

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censura e di punizione delle voci di artisti e lavoratori dell’arte a sostegno della Palestina hanno dimostrato quanto siano scadenti i nostri standard di libertà di espressione, quanto facilmente possiamo decidere di essere ricattati e messi a tacere, come possiamo distruggere la nostra credibilità e il nostro amor proprio come rivista, istituzione, persona. L’accusa sistematica di antisemitismo contro chiunque osi sollevare obiezioni contro la politica di Israele è solo un esempio, ma il suo impatto su un’istituzione come documenta a Kassel è a dir poco devastante. Abbiamo assistito ad alcuni episodi del genere e sappiamo che la generale mancanza di coraggio deve aver giocato un ruolo importante nel modo in cui il lavoro e la ricerca di Claire Fontaine sono stati accolti o ignorati negli ultimi vent’anni. Non dobbiamo permettere che lo spazio dell’arte contemporanea venga impoverito, terrorizzato o rovinato per nessuna ragione al mondo, invitiamo tutti a coltivarlo e a difenderlo. Voi siete un osservatore critico del momento politico e vorrei chiedervi se volete esprimervi sul momento attuale, soprattutto per quanto riguarda la crisi migratoria che stiamo vivendo in diverse parti del mondo. C’è un vostro lavoro in particolare che mi viene in mente a questo proposito, forse potete parlare di Untitled (same war time zone) (2016–2018)? Condividiamo con te un’acuta sensibilità rispetto al presente e questa convergenza che hai creato con il titolo della Biennale Arte 2024 – Stranieri Ovunque – è, a posteriori, terribilmente profetica. Siamo sconvolti da ciò che sta accadendo nella guerra in Palestina a cui ci sentiamo molto vicini, non ci sentiamo al di sopra di essa, abbiamo paura per il futuro dopo aver visto tutto questo dolore e andiamo avanti con le nostre giornate in lacrime e impotenti. Ciò che è stato trasmesso e postato sui social media durante questa guerra cambierà tutto, ma non possiamo dire come. Abbiamo realizzato Untitled (same war time zone) come un dirottamento e un omaggio a “Untitled” (Perfect Lovers) (1991) di Félix González-Torres, un’opera davvero commovente che parla di amare una persona dello stesso sesso e di provare esattamente lo stesso desiderio nello stesso momento. È anche un lavoro sulla paura, sentiamo che gli orologi possono fermarsi in momenti diversi, che sono come cuori che possono smettere di battere, andare fuori sincrono e poi separarsi; è anche un lavoro sulla solitudine, sulla ripetitività e sulla morte. Nel nostro lavoro, volevamo parlare di una separazione specifica, per mostrare appunto

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che le persone possono soffrire di dolori simili, vivere sulla stessa terra, eppure essere la causa della disgrazia gli uni degli altri. È un lavoro che è diventato tristemente sempre più contemporaneo e speriamo che questo momento storico ci insegni la lezione che avremmo dovuto imparare più di settantotto anni fa.

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CLAIRE FONTAINE

INTERVISTATI DA ADRIANO PEDROSA

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Tiqqun era una rivista parigina creata da un gruppo di persone vicine ai situazionisti e all’area politica dell’autonomia. Sono stati autopubblicati in forma anonima e scritti collettivamente due numeri: il secondo, e ultimo, è apparso nel 2001; poi il gruppo si è sciolto. Alcuni testi sono stati successivamente pubblicati separatamente in inglese, italiano e francese da diversi editori, con o senza il consenso degli autori. A Beautiful Hell è stato pubblicato dopo lo scioglimento, non è stato scritto da Tiqqun ed è erroneamente attribuito al collettivo. La rivista è stata estremamente influente perché ha generato un linguaggio poetico capace di affrontare le contraddizioni del nostro tempo insieme a una costellazione di riferimenti che vanno dalla Cabala a Foucault, dal femminismo italiano all’operaismo e alla cibernetica; ha permesso un approccio non ideologico ed esistenziale alla politica radicale.

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Milan Women’s Bookstore Collective, Sexual Difference, a Theory of Socio­Symbolic Practice, Bloomington-Indianapolis, Indiana University Press, 1990.

3

Claire Fontaine, Human Strike and the Art of Creating Freedom, Los Angeles, Semiotext(e), 2020.

4

Gilles Deleuze, Marcel Proust e i segni, trad. it. Clara Lusignoli, Torino, Einaudi, 1967 (ed. originale: Proust and Signs, Minneapolis, University of Minnesota Press, 2000, p. 22).

5

Claire Fontaine, Become a Sea, Berlino, Galerie Neu, 15 dicembre 2023 – 17 febbraio 2024.

6

Si veda Claire Fontaine, Human Strike, Reproduction and Magic Materialism, in Dispositif. A Cartography, a cura di Giovanbattista Tusa e Greg Bird, Boston, The MIT Press, 2023, 37.

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Il documentario si intitola Ellis Island Revisited. Tales of Vagrancy and Hope ed è stato diretto da Robert Bober nel 1979. Perec ebbe un ruolo fondamentale nell’elaborazione della sceneggiatura, come si evince dal suo articolo E come Emigrazione: Ellis Island, incluso nel suo libro postumo Sono nato, Torino, Bollati Boringhieri, 1992 (ed. originale Je suis né, Paris, Éditions du Seuil, 1990). Nel 1980, Perec ha pubblicato per INA­Magazine un testo legato a questo film, con il contributo di Robert Bober. Il testo è stato pubblicato a nome di entrambi lo stesso anno dalle Éditions du Sorbier e successivamente pubblicato in inglese come Ellis Island (Georges Perec con Robert Bober, trad. Henry Mathews, New York, New York City Press, 1995).

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Georges Perec, Of Wandering and Hope: George Perec’s Ode to Ellis Island. On Immigration, Place, and the Jewish Diaspora, in lithub.com, 10 febbraio 2021, a cura di New Directions Publishing Organization, https://lithub.com/ of-wandering-and-hope-georgeperecs-ode-to-ellis-island/.

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Il termine “infrasottile” (inframince in francese) è un’invenzione di Marcel Duchamp. Usato come aggettivo o come sostantivo, definisce una sensazione, un fenomeno quasi impercettibile. Descrive anche il potenziale che un oggetto comune possiede per passare al regno dell’arte, diventando un readymade.

10 Il G8 che si è svolto a Genova nel luglio 2001 è stato un forum politico intergovernativo che ha riunito i rappresentanti di Francia, Germania, Italia, Giappone, Regno Unito, Stati Uniti, Canada e Russia. Poiché era stato lanciato un appello alla protesta e si prevedeva che migliaia di persone sarebbero arrivate a Genova per manifestare, lo Stato italiano decise di istituire un nuovo protocollo per prevenire i disordini. Una parte della città di Genova – definita zona rossa – fu resa inaccessibile per giorni, attraverso confini militarizzati, a chiunque non potesse esibire un documento di residenza in quel perimetro. In una città di 600.000 abitanti, furono inviati 13.000 militari e 600 agenti di polizia. Le grandi manifestazioni internazionali sono state represse con una violenza inaudita, 560 persone sono rimaste ferite e un manifestante disarmato, Carlo Giuliani, è stato ucciso e investito da una jeep dei Carabinieri. Nella notte del 21 luglio, un gran numero di poliziotti e carabinieri (il numero non è mai stato confermato da nessuna fonte ufficiale) fece irruzione nella scuola Diaz, dove il Comune aveva allestito un centro di accoglienza per i manifestanti e il centro media. Le novantatré persone presenti sul posto, tra cui alcuni giornalisti, sono state arrestate e brutalmente picchiate; sessantatré persone sono rimaste gravemente ferite, di cui tre in condizioni critiche e una in coma. Le vittime hanno avviato diverse azioni legali contro la polizia e i carabinieri. Il 7 aprile 2015, la Corte europea dei diritti dell’uomo ha dichiarato all’unanimità che l’articolo 3 della Convenzione contro la tortura e altre pene o torture crudeli, inumane o degradanti è stato violato durante l’irruzione nella scuola Diaz. Il 6 aprile 2017, presso la stessa Corte, lo Stato italiano ha ammesso la propria responsabilità e ha raggiunto un accordo amichevole con sei delle sessantacinque vittime che si appellavano agli atti di tortura subiti nel commissariato di Bolzaneto.

11 Dal 2001, la polizia francese è stata dotata di nuove armi, come le flash-ball, i taser, le granate GLI F4 che causano la perdita temporanea o permanente dell’udito (165 dB a una distanza di 5 metri), le granate a dispersione (che hanno causato diverse amputazioni e occasionalmente morti) e le granate offensive (che sono state vietate dopo aver causato la morte di Remi Fraisse nel 2014). Le flash-ball, che dovrebbero essere dirette solo alla parte inferiore del corpo, hanno causato la perdita di un occhio in diverse persone, che affermano di essere state prese di mira dalla polizia. L’Assemblée des Blessés (l’Assemblea dei feriti) riunisce un numero crescente di vittime della violenza della polizia in tutta la Francia e cerca, con l’aiuto di esperti medici, di imporre un uso più responsabile di queste armi da parte della polizia francese. 12 Paesaggio/Unpacking my History, curata da Daphne Vitali per una sezione della Quadriennale di Roma del 2023, presenta due opere di Claire Fontaine che ruotano attorno agli eventi del G8 di Genova come punto di svolta nella storia politica recente.

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Per sopravvivere alle Terre di Confine / bisogna vivere sin Fronteras / essere un crocevia.

TERRE DI CONFINE/LA FRONTERA: LA NUOVA MESTIZA, TRADUZIONE E POSTFAZIONE DI PAOLA ZACCARIA, FIRENZE, BLACK COFFEE, 2022.

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GLORIA ANZALDÚA

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BITHEMESKO SA EKHE THANESTE

intervistata da

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INTERVISTATA DA AMANDA CARNEIRO

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I processi di spostamento sono una parte significativa del suo lavoro, che si adatta perfettamente al tema della 60. Esposizione Internazionale d’Arte, Stranieri Ovunque – Foreigners Everywhere. Il concetto di Stranieri Ovunque non corrisponde esclusivamente allo straniero che si sposta da un Paese all’altro o da un’identità all’altra, ma si estende anche allo straniero/estraneo dentro se stessi. Il suo lavoro indaga in maniera costante – o almeno questa è la mia interpretazione – la dimensione di auto-alienazione e del senso di appartenenza. Mi ricollego innanzitutto a questa dimensione del percorso dello spostamento che coinvolge sia il dislocamento fisico e soggettivo sia quello che appare nel suo lavoro, proprio perché risulta connessa alla Biennale Arte 2024. Due delle sue opere, Anna del 1967 e My Family del 1966 – parte della collezione della metà degli anni Sessanta – affrontano questa associazione. Pur apparendo altamente soggettive, parlano anche di processi che collegano l’osservatore con l’esperienza, la memoria di ciò che è il concetto di soggettività in un contesto comunitario. La famiglia non sembra essere solo il gruppo a cui si appartiene, ma una comunità molto estesa. Ci parli quindi del suo percorso di spostamento basato su questo gruppo di opere. Quando ha iniziato a parlare, ho subito pensato che siamo già immigrati quando lasciamo il grembo materno ed entriamo nel mondo. Mano a mano che si cresce come individui, ci si confronta con la realtà dell’ambiente circostante e questa realtà modella il nostro carattere, i nostri desideri, le nostre gioie e ciò che diventeremo, ciò che richiediamo dalla vita. Nel mio caso, credo che il fatto di essermi allontanata dalla mia terra d’origine – mi sono trasferita più volte in Italia, dalla Calabria alla Puglia, poi in Venezuela, poi a Rio de Janeiro, poi a San Paolo... ho vissuto a New York, in Argentina, e così via – mi porti a vedere ogni distacco, ogni momento della vita, come una morte e una rinascita, una nuova sorpresa. Si ha a che fare con situazioni molto diverse. Quindi, noto che la memoria oggettiva, la memoria soggettiva, la memoria psicologica, sensoriale, affettiva – la memoria di ciò che ti ha segnato nella vita – vengono elaborate nel mio lavoro. Diciamo che la memoria gioca un ruolo importante e talvolta credo di non essermi nemmeno resa conto di quanto fosse presente. Riflettendo sul mio lavoro nel tempo ho scoperto alcune cose. Penso di essere stata fortunata ad aver vissuto così a lungo, perché non ho mai immaginato di creare un’opera intensa o su larga scala o di essere un artista in grado di suscitare emozioni profonde negli altri. Il mio lavoro si è sviluppato insieme a piccole modalità poetiche alquanto soggettive nel corso degli anni. Anche quello che ho letto è stato importante, perché sono da sempre una lettrice avida e appassionata. Inoltre, l’esperienza di vivere con altri artisti e critici ha avuto un ruolo fondamentale. Lei ha esplorato molti materiali diversi per esprimere questi “linguaggi soggettivi”. A differenza della sua produzione artistica degli anni Sessanta, cui accennavo all’inizio, lei ha realizzato per la Biennale Arte 2024 delle opere in argilla, un materiale che compare nel suo lavoro negli anni Ottanta, diventato prevalente negli anni Novanta e con il quale continua a lavorare.

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Ora celebro sessantaquattro anni di attività artistica. Le installazioni della serie Modelled Earth, che prevedono la manipolazione di una grande quantità di argilla nel luogo dell’esposizione, sono iniziate nel 1994. In esse, il fulcro dell’opera è composto dall’accumulo di frammenti di argilla, forme e segmenti compattati attraverso l’azione delle mani. Tutti i segmenti, uguali e diversi, vengono ripetuti e incorporati nel corpo dell’installazione. La domanda sorge allora spontanea: può esserci una ricerca del “tutto” in queste opere? Ho sempre saputo che puntare al “tutto” era un compito irraggiungibile, ma l’aspirazione non mi ha mai abbandonato, la volontà di creare un lavoro di grande impatto che potesse esprimere questa ricerca incessante. Sono convinta che siamo noi a costituire il tutto e, con questa installazione, posso solo presentare il dispendio di energia, l’entropia, coinvolta nell’esecuzione dell’opera realizzata da me e dai miei collaboratori. Quando ho letto la dichiarazione di Adriano Pedrosa sul tema dell’immigrazione, mi sono sentita toccata nel profondo perché è chiaro che stiamo vivendo un momento in cui la storia si ripete. Osservando attentamente, le ragioni per cui i migranti si spostano oggi nel mondo sono, come sempre, le stesse: guerra, fame, scarsità, dominazione. Siamo soliti dire: “La schiavitù è finita”. Non è vero, altrimenti non ci sarebbero così tanti sfollati in cerca di luoghi liberi, di luoghi meno perseguitati. Perché la schiavitù non è solo colpire una persona sulle gambe per farla avanzare, come avveniva in passato. Ci sono molte forme di schiavitù. Colgo l’ironia del momento, anch’io ho lasciato l’Italia a causa di una guerra, e oggi pare che nel mondo si possano contare una quarantina di situazioni di guerra non dichiarate, per non parlare della minaccia delle bombe atomiche. E in quanto esseri umani siamo tutti uguali, condividiamo conflitti; per questo un’opera d’arte, quando è onesta e sincera, permette agli altri di conoscere te e anche se stessi. Perché quando ci si esprime onestamente nel proprio lavoro, si parla anche degli altri. In questo modo, si esprimono emozioni che appartengono a tutti. La sua è una produzione molto ampia e variegata che abbraccia diversi temi. In una parte consistente del suo lavoro, la sua stessa figura assume un ruolo centrale. Il porsi come protagonista si collega in qualche modo a quanto ha appena detto? Sì, certamente. Perché non credo che gli artisti del passato siano diversi da quelli contemporanei. Anche se le modalità di produzione possono variare, dai nostri antenati in poi i sentimenti rimangono gli stessi: rabbia, odio, amore. Infatti, ritengo che quando un artista crea un’opera, è prima di tutto il supporto stesso dell’opera che sta esprimendo con il proprio corpo. E questo rende ancora più viva la presenza dell’artista nell’opera d’arte contemporanea. Nelle mie performance e installazioni sono l’interprete del mio lavoro, da sola o in compagnia di altre persone. Naturalmente, un pubblico abituato a una produzione convenzionale e classica potrebbe sentirsi disturbato dalla presenza dell’artista, perché questa presenza è lo specchio in cui l’osservatore vede la propria immagine, che lo spinge a riflettere su se stesso. Qual è il suo punto di vista sul processo di trasferirsi più volte, risiedere in numerosi luoghi e alla fine scegliere – dopo tutto, è una scelta – di rimanere in Brasile?

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Torniamo un attimo indietro, non ho risposto alla domanda precedente su Anna (1967) e My Family (1966). Queste opere maggiormente figurative risalgono agli anni Sessanta, quando ero in una fase di scoperta. Un’opera d’arte è sempre un modo per guardarsi e conoscersi. Nell’arte è difficile mentire o, se si mente, l’osservatore capisce che è un bluff, che non c’è sincerità, che non c’è verità. Così, ho creato Anna con due figure che rappresentano i miei genitori che dicono “Anna”, con il mio nome ripetuto sotto, inciso su una lapide. Questo perché la nascita e la morte faranno sempre parte della mia esistenza e, di conseguenza, della mia opera, in quanto momenti della vita. È la vita, non la morte, a fare paura. Per allontanare l’istintiva paura della morte, bisogna avere una capacità di rinnovamento, di resurrezione, di rifacimento, di resistenza. Pensi a quello che abbiamo sopportato durante la dittatura militare1. Credo che gli individui siano costretti da sempre a compiere delle scelte. Nel lontano passato, i nostri antenati condividevano sia il lavoro sia il raccolto. La vita si è inasprita quando l’umanità ha diviso le terre e stabilito che “tu prendi questa parte e io prendo quella”. Con la suddivisione territoriale, abbiamo perso le manifestazioni rituali che legavano possesso e piacere. Con la divisione della terra, il lavoro di altri esseri umani si trasforma in qualcosa di sfruttabile. Ora, la velocità delle notizie, l’impatto delle nuove piattaforme e dei nuovi mezzi di comunicazione, ci colpiscono e ci fanno interpretare i problemi del mondo dentro di noi, in carne e ossa. Come si fa a non preoccuparsi del fatto che l’umanità stia distruggendo se stessa e Madre Natura? Così, ci si rende conto che ci sono inondazioni ovunque sulla Terra, nel sud del Brasile, in Italia, in Cina... Con un maledetto virus che ci minaccia di morte. Sono sempre molto cauta nel nominare la parola “capitalismo” perché, con il denaro, si possono fare cose meravigliose per il benessere generale. Ma in che modo ci si vuole arricchire e a quale costo? Non si tratta solo di denaro; è anche una questione di valore e spesso confondiamo questi due aspetti. Sì. E spesso mi sento inadeguata a discutere di questioni legate al denaro, alla ricchezza e alla povertà di questi tempi. Mi sento più a mio agio nell’esprimere metaforicamente i miei dubbi e le mie preoccupazioni attraverso la mia pratica artistica. Quando dice “di questi tempi”, a quale periodo si riferisce? Non posso che essere autoreferenziale quando si tratta di questioni come queste, perché ho attraversato alcune tempeste nella mia vita. Sono nata nel 1942, in Italia, durante la guerra. Se si osservano con attenzione le poche fotografie rimaste dei primi anni della mia vita, si vede una bambina dal viso corrucciato e triste. La mia famiglia non possedeva una macchina fotografica perché le foto erano un lusso che non tutti potevano permettersi in un periodo in cui il cibo era la priorità principale. Seduta al tavolo da pranzo, vedevo la preoccupazione impressa sui volti di quelle tredici persone, durante i pasti del mattino, del pomeriggio e della sera. Tredici! A tavola, ascoltavo le conversazioni degli adulti e mi chiedevo: “Perché sono stata messa al mondo?”. Siamo sempre di fronte a una porta e dobbiamo decidere se varcarla o meno. Dobbiamo fare delle scelte. Anche questo nostro incontro è frutto di una scelta. L’empatia è importante, capire che cosa l’altro si aspetta da te. Ma torniamo a quell’espressione accigliata che

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avevo sempre da bambina: l’ho mantenuta per molti anni perché essere un’immigrata non è una cosa facile. Non appartieni al nuovo territorio e sai che l’essere straniero è una condizione che prevede di lottare per essere accettati. Ho dovuto affrontare l’esperienza dell’immigrazione anche come artista donna che lavora in un ambiente governato da artisti e critici maschi egemoni. Il termine “immigrato” non si limita a definire chi cambia territorio, ma comprende anche chi subisce trasformazioni in termini di identità di genere, così come chi subisce dislocazioni e oppressioni massicce dovute a questioni etnico-razziali e di minoranza. La proposta di Adriano Pedrosa mi ha toccato profondamente perché la sua portata supera di gran lunga la figura dell’immigrato che viaggia con la sua valigia, o la figura del nostro retirante che si spostava a piedi dal nord o dal nordest fino a Rio de Janeiro e San Paolo per lavorare nell’edilizia civile ed era trattato in maniera brutale. Vorrei tornare su un aspetto interessante che lei ha menzionato: l’esperienza di sentirsi un’immigrata in quanto donna artista. Il suo lavoro sembra sopportare questa provocazione, soprattutto all’epoca in cui è stato concepito, mentre oggi è un tema che circola più diffusamente. Mi corregga se sbaglio, ma non l’ho mai vista presentare esplicitamente questa tematica come una causa politica, come facevano, per esempio, le femministe negli anni Sessanta e Settanta. Sebbene questo aspetto sia un tema centrale nel suo lavoro, non è stato né esplicitamente negato né affermato, sembrando invece una parte intrinseca del suo processo poetico. Mi sono comportata come immigrata e come donna. Non credo che avrei strappato i reggiseni come le donne dei movimenti femministi americani degli anni Sessanta e Settanta, che lottavano per la liberazione della donna, anche se ero d’accordo con loro. In altre parole, penso che in ogni minoranza ci sia qualcuno che si sacrifica. Io non avrei fatto questo sacrificio perché sono diventata madre molto presto, a ventidue anni. E la maternità non si limita al rapporto con i miei figli; la maternità si vive con l’ambiente circostante, compreso il lavoro. Cioè, percepisco l’essere donna come accettazione, attenzione alla vita. Nel mondo ci sono bambini abbandonati che vengono accolti da famiglie, anzi da donne che li crescono come figli propri. In Venezuela, mi stupiva che ogni mio amico o amica avesse un fratello o una sorella in affido perché una donna li aveva accolti. Quindi, non ho mai voluto trasformare il mio essere donna in un problema perché, tra le varie ragioni, confidavo che le cose sarebbero cambiate. Non è che l’azione non sia importante, ma ci sono modi di agire estremamente rilevanti in certe situazioni che non includono l’imbracciare un’arma. Quindi, questo si basa sulla convinzione che ci sia spazio per tutte le cose? Sì, non sarei in grado, né avrei l’indole di agire in altro modo; né ho mai avuto intenzione di creare opere d’arte dal contenuto propagandistico. Ho affrontato questo argomento proprio perché penso che il suo lavoro, nell’ambito della cerchia in cui ha vissuto, in particolare a Rio de Janeiro, appartenga a una generazione in cui diverse donne forti hanno fatto irruzione nel sistema dell’arte e operato in modi molto diversi. Il suo lavoro

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non mi ha mai dato l’impressione di essere esplicitamente femminista, ma affronta da sempre una poetica associata al senso della famiglia, in cui la donna gioca evidentemente un ruolo di fronte all’oppressione di genere... Sì, e anche al senso della politica. Non ci si sottrae all’aspetto politico. Eppure, spesso questo si trasforma in una sorta di nebbia per chi non ha la sensibilità di capire che ciò che è personale è anche profondamente politico, e il suo lavoro comprende molti aspetti della sfera interpersonale. Alcuni uomini della scena artistica degli anni Sessanta avevano classificato il mio lavoro come scontato. Evidentemente, sarei stata meglio accettata se avessi aderito a un modello di produzione maschile. Sembra che ciò che gli uomini consideravano scontato nel mio lavoro fosse la mia espressione di un modo femminile di sentire l’arte. Credo che ogni artista sia dotata di una certa androginia, di un non-binarismo, poiché porta in sé sia il femminile sia il maschile. C’è stato un periodo in cui questo mi turbava perché alcuni uomini che ammiravano il mio lavoro mi dicevano: “È così bello che sembra fatto da un uomo”. Ne ho parlato con Lygia Clark, che mi ha detto: “Anna, lascia perdere. Tutta l’arte è femminile e tutta l’azione è maschile”. Il che è vero, ma allo stesso tempo è un paradosso. Recentemente, uno di questi critici ha pubblicato un testo sulle donne artiste degli anni Sessanta e non ha fatto il mio nome. Forse perché per lui continuo a essere troppo scontata. In generale, non mi sento offesa e cerco di capire le motivazioni e le ragioni degli altri, riconoscendo il fatto che tutti dobbiamo gestire la nostra complessità di esseri umani. È una qualità notevole, quella di riuscire a trasformarsi attraverso il dialogo con gli altri. Ritengo che l’esperienza dello spostamento produca questo effetto, in quanto ci si confronta con realtà diverse. Per esempio, lei ha sperimentato contesti molto diversi, si è confrontata con numerose lingue e si è immersa in varie culture. È un’esperienza trasformativa accessibile a chi si apre a essa. Si possono scoprire nuovi mondi all’interno dello stesso mondo. Dico questo perché non credo che sia sempre necessario trasferirsi fisicamente per sentirsi outsider. Tuttavia, diventare estranei in un nuovo territorio, in una nuova cultura e in una nuova lingua rappresenta senza dubbio un’altra sfida. Ho lasciato l’Italia a dodici anni, e sono stata pesantemente colpita dai cambiamenti. Di solito associamo la malattia a qualcosa di fisico, ma anche la tristezza profonda è una malattia. Un testo di Catherine de Zegher2 e anche un film di Charlie Chaplin, L’emigrante (1917), hanno avuto un forte impatto su di me, rivelandosi utili per comprendere il mio percorso. Sono arrivata a Caracas con la mia famiglia in un periodo in cui il Venezuela cercava immigrati per rilanciare la propria economia, offrendo di pagare il biglietto per il viaggio via mare a chiunque fosse interessato. Quindi, il governo venezuelano ha di fatto sostenuto i costi del mio viaggio. Durante la traversata, eravamo obbligati a portare sul petto un’etichetta con la scritta “immigrato”. Io non l’ho mai messa e ho scritto un racconto, un piccolo memoriale, in cui descrivo come, una volta arrivata a Caracas, mi portassi quell’etichetta in tasca

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ovunque, come un talismano e un pegno. Quando nel 1958, a sedici anni, mi sono iscritta alla Scuola di Belle Arti Cristóbal Rojas di Caracas avvenne in me un cambiamento cruciale. Posso affermare che l’arte mi ha guarita dalla tristezza. Questa mia esperienza è simile al lavoro svolto dai nostri movimenti sociali e dalle ONG qui in Brasile che lottano per l’accesso dei bambini svantaggiati alle pratiche artistiche, restituendo loro la dignità. L’arte può essere una medicina potente, anche durante la guerra e a fronte di tutte le persecuzioni del mondo, perché restituisce alla persona la capacità di essere un individuo. Rendermi conto della potenza che emana l’arte mi commuove. Al liceo artistico ho frequentato solo due anni di belle arti. Essendo una brava studentessa, mi è stato concesso il privilegio di utilizzare tutti gli studi e i materiali che volevo. A quel tempo il Venezuela era una terra ricca, favorita dall’estrazione del petrolio. A diciotto anni ho presentato uno dei miei primi dipinti al XXI Salone nazionale d’arte venezuelana, segnando così la mia prima partecipazione a un evento ufficiale. Per molti giovani artisti, partecipare ai saloni d’arte era il modo più semplice di esporre le proprie opere. Si trattava di un’opera figurativa, raffigurante pentole da cucina. Curiosamente, in questo primo lavoro è già presente l’interesse per il rapporto tra esterno e interno, questioni che avrebbero fornito le basi per lo sviluppo di tante altre opere successive, come i buchi della serie Desenhos Objetos, degli anni Settanta e le mie sculture modellate, iniziate negli anni Ottanta e continuate fino a oggi. L’arte mi ha reso felice e credo che i miei genitori ne fossero consapevoli, visto che non hanno mai messo in discussione la mia vocazione. Quando eravamo a Rio de Janeiro, e io iniziavo a cimentarmi con l’incisione, mio padre tornava sempre a casa dal lavoro portando in dono alcuni attrezzi, dicendo: “Questo paio di pinze potrebbe esserti utile?”. Era un gesto bellissimo, simbolicamente, visto che tutti gli attrezzi sono comunemente associati all’universo maschile, e lui, mio padre, li forniva a me, sua figlia, una donna, per realizzare opere d’arte. Suo padre sembra essere stato un uomo molto sensibile. Sì. Gli sarò sempre grata per questo significativo e liberatorio gesto d’affetto. Nel suo lavoro, l’idea di confine e di incontro mette in luce anche i conflitti; non sembrano rafforzare la pacatezza, pur offrendo un certo conforto poetico. La gente è molto legata a queste opere; mi vengono in mente, ad esempio, quelle che derivano da Fotopoemação (1981), una serie che, per quanto bella, svela i conflitti. La poesia può trasformare qualsiasi dolore e qualsiasi dramma in qualcosa di sopportabile e bello. Fortunatamente, l’arte possiede questa capacità! È in grado di trasformare le cose peggiori che si possano immaginare in qualcosa a cui si possa assistere e da cui si possa comunque uscire nutriti. Il cinema ci riesce benissimo; anche la scrittura, alcuni libri lasciano senza fiato. Un libro che mi viene sempre in mente è Cent’anni di solitudine (1967) dello scrittore colombiano Gabriel García Márquez. È stato uno dei primi libri che ho letto quando ero molto giovane. Nonostante sia una tragedia, se ne esce arricchiti per l’impatto emotivo che ha sul lettore. Sì, lo ripeto, la poesia offre conforto. Direi che la serie Fotopoemação è la mia opera più esplicitamente sociale, oltre che poetica, nel suo tentativo di esorcizzare

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situazioni politiche arbitrarie. Il mio film In­Out (Antropofagia) (1973–1974) è stato il primo film in 8 mm girato durante la dittatura militare. In esso, la realtà del contenuto è mascherata dalla poesia espressa tra il simbolismo e le metafore che vengono mobilitate, poiché spesso superano inosservate il sistema di censura e repressione. Tuttavia, credo che il pubblico colga il messaggio del film. Fortunatamente, queste opere resistono alla prova del tempo. Per esempio, la mia performance Entrevidas (1981), che ho presentato quest’anno a Berlino, alla Neue Nationalgalerie, conserva ancora una vitalità e un significato che rimangono attuali in quanto interrogano la violenza. Parlando dell’invecchiamento, lei ha detto che il suo corpo non risponde più come prima. Tuttavia, questo processo coincide con una produzione che ha una durata molto ampia e, come può accadere con le opere d’arte, ti sopravvive. Il suo lavoro, che ha una presenza così duratura nella mia vita e in quella del pubblico brasiliano, plasma il nostro immaginario artistico in continua evoluzione, perché comprende opere aperte a nuove letture e comprensioni. La sua produzione attuale rimane molto dinamica; tutte le sue ultime mostre presentano lavori recenti. Sono una nomade all’interno di me stessa, cioè vado e vengo tra le mie emozioni e i miei desideri. Con questi movimenti, torno a fare opere d’arte. È per questo che considero il mio lavoro sempreverde; sono una mutante che con gioia permette a se stessa di sostenere l’opera. Tutto può servire da motivazione per la creazione di un’opera d’arte. La lettura dei giornali è stata uno stimolo per i disegni a sfondo politico sui femminicidi che dilagano nelle società odierne, che ho messo in sequenza in una serie che ho poi intitolato Andazzo iniziata nel 2020. Il mio lavoro artistico è sfaccettato perché risponde alle contaminazioni del mondo reale, di ciò che mi circonda, e di tanti altri miei interessi, sia sensoriali sia concettuali, nei confronti della vita. E accolgo questa contaminazione dalla vita, dalla vita così com’è. Ora vorrei parlare brevemente del suo progetto per la Biennale Arte 2024. Che ne dice del titolo, le è piaciuto? Mi è piaciuto, soprattutto perché rafforza la sensazione di transito nella sua pratica artistica. Ho pensato che il titolo Going Back and Forth, con i suoi molteplici significati, fosse sufficiente per denominare e indicare l’intenzione del lavoro, ma senza soffermarsi eccessivamente sulle definizioni. Una serie che lei crea con l’argilla si intitola Modelled Earth. Mi piace molto questo titolo. Trovo che sia più che indicativo: ha una qualità multidimensionale. Si possono fare analogie con altre forme scultoree... Compresi i processi della terra, in una lettura più territoriale, come indica la modellazione dell’argilla, un atto di trasformazione della natura attraverso le mani dell’uomo. Il modellare la materia prima porta con sé anche l’immagine della costruzione di una forma attraverso il lavoro.

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Sì. Il mio contributo a questa Biennale Arte occuperà uno spazio chiamato Casetta Scaffali all’Arsenale, con alcuni elementi multimediali esposti in monitor e un pezzo realizzato con la vegetazione, oltre a una scultura in argilla intitolata Ao Infinito, della serie Modelled Earth, una delle componenti principali dell’installazione Going Back and Forth3. Il lavoro di modellazione permette di ripetere ogni forma all’infinito, sfruttando la ripetizione della spinta energetica delle azioni delle mani che compattano la terra/argilla. Questa materia organica primordiale è elastica, piacevole e sensuale al tatto. In questo modo, le forme diventano segmenti ripetuti – uguali ma anche diversi – che si sommano e si accumulano nel corpo della scultura-installazione. Sappiamo che le azioni della mano sono sempre uniche e molteplici nella loro ripetizione. In questo lavoro di modellazione dell’argilla, ero mossa dal desiderio di raggiungere il “tutto” con la ripetizione dei gesti. Sono riuscita ad accumulare frammenti e a rivelare l’entropia, l’energia spesa nella realizzazione di quest’opera. Che cosa viene prima: la mano o il cervello? Sicuramente, quando i nostri antenati hanno smesso di afferrare il cibo con la bocca e hanno iniziato a usare le mani, queste ultime sono diventate i primi strumenti in assoluto. Con loro, nel tempo, è nata l’elaborazione di vasi, di recipienti, che ci collegano sempre al cibo, dando origine alle nostre culture. Come la manipolazione della terra, anche l’argilla può essere un gioco per i bambini; il modellare può essere un mezzo di terapia. Simbolicamente, maneggiare la terra è importante perché l’umanità ha raggiunto veramente l’aspetto tecnico e la sua cultura produttiva solo quando ha capito come trattare la terra, arare il terreno, coltivare i semi e mietere. Anche in questo caso ci troviamo di fronte alla necessità di fare delle scelte, non è vero? Ma quando scorgo questa capacità che abbiamo avuto, e continuiamo ad avere, di sviluppare diverse tecniche di lavoro, anche se non sono un’esperta di tecnologie digitali, rimango sempre affascinata. In questo senso, senza il sostegno degli altri sarei persa, e sono sempre entusiasta della capacità dell’umanità di rinnovarsi. Mi piace la dialettica con un po’ di negatività perché alimenta la mente. Quando visito delle mostre e mi imbatto in opere che non mi piacciono, queste stimolano la mia immaginazione più di quelle che mi piacciono, perché mi danno la possibilità di dialogare con me stessa sui temi e sui problemi presentati dall’artista. D’altra parte, non credo che ci possa essere perfezione nell’arte, ma si può trovare bellezza in ciò che è imperfetto. E ho avuto molte persone incredibili vicino a me, relazioni che mi hanno aiutato a scolpire la mia identità. Devo ancora molto ai pochi amici che hanno condiviso con me conoscenze e affetti, oltre che ai libri, che sono grandi amici. Sono anch’io un’appassionata lettrice di narrativa e credo che ogni lettore possa costruire il pensiero in un modo in cui la contemplazione diventa altamente poetica e si posiziona come parte presente dei processi del mondo. Vivere (e invecchiare) con la letteratura è sempre un’ottima scelta. Parlando di Cent’anni di solitudine, lei sottolinea il processo di incontro con un’opera, sia essa di letteratura o di arte visiva, e come questo possa cambiare la vita, con la creazione di nuovi significati quando si entra in contatto ripetutamente con la stessa opera, cosa che sento anch’io nel mio impegno ripetuto con il suo lavoro.

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Questa intervista si è svolta a San Paolo, Brasile, il 21 settembre 2023.

NOTE

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Anna Maria Maiolino si riferisce qui alla dittatura civile-militare in Brasile, un regime autoritario istituito nel 1961 attraverso un colpo di Stato politico che ha soggiogato il Paese sotto i successivi governi militari. Durante questo periodo, il regime ha commesso numerose violazioni dei diritti umani, tra cui la censura della stampa, la restrizione dei diritti politici e la persecuzione degli oppositori del regime da parte della polizia. Questo periodo di oppressione è durato fino al 1985, quando è stata formata un’assemblea costituente che ha portato all’approvazione della Costituzione nel 1988, segnando il ritorno del Brasile alla normalità democratica istituzionale.

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Catherine de Zegher et al., The Inside Is the Outside: The Relational as the (Feminine) Space of the Radical Women Artist at the Millennium, in Women Artists at the Millennium, Cambridge, MIT Press, 2001.

3

La Biennale Arte 2024 è suddivisa in due sezioni principali: il Nucleo Contemporaneo e il Nucleo Storico. Anna Maria Maiolino è una dei pochi artisti presenti in entrambi i segmenti della mostra. Nel Nucleo Contemporaneo presenta l’installazione di nuova creazione Going Back and Forth, come detto. Nel Nucleo Storico è presentata in uno spazio dedicato agli artisti italiani emigrati nel Sud del mondo, sotto il titolo Italiani ovunque, con l’opera Anno 1942 della serie Mappe mentali (1973), esposta sui cavalletti di vetro di Lina Bo Bardi.

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ANNA MARIA MAIOLINO

INTERVISTATA DA AMANDA CARNEIRO

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Rileggo un libro due o tre volte, e mi sembra sempre nuovo. Tuttavia, negli ultimi tempi, il mio carico di lavoro mi ha impedito di leggere. Il rapporto che emerge quando il lavoro raggiunge una maggiore visibilità è intrigante perché, se non si presta attenzione, può finire per dirottarti... Come percepisce questa sorta di “prigionia”? La visibilità di un’opera comporta dei compromessi che possono togliere il senso di gratuità, libertà e spontaneità con cui si vorrebbe vivere il processo. Tuttavia, se mi trovo a rilasciare un’intervista, credo che faccia parte del raccolto, di stare raccogliendo ciò che ho seminato nel corso della mia carriera di artista. Per me, più che il denaro, il raccolto vero e proprio si riduce a tutto ciò che di buono deriva dal mio lavoro artistico. La ringrazio perché considero questa nostra conversazione un bellissimo raccolto. Grazie mille, Anna. Grazie a lei per la sua dedizione.

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NEL SEGNO DELL’ESILIO. RIFLESSIONI, LETTURE E ALTRI SAGGI, TRADUZIONE DI MASSIMILIANO GUARESCHI E FEDERICO RAHOLA, MILANO, FELTRINELLI, 2008.

Vedere “l’intero mondo come una terra straniera” rende possibile un’originalità di prospettiva. La stragrande maggioranza delle persone si trova a vivere nella consapevolezza di una cultura, di un ambiente, di una casa; gli esuli invece sono consapevoli dell’esistenza di almeno due di queste condizioni, e tale pluralità produce a sua volta una consapevolezza dell’esistenza di dimensioni simultanee, una consapevolezza, cioè, che prendendo a prestito un termine musicale, è contrappuntistica. Agli occhi di un esule, una forma di vita, una determinata espressione o anche una semplice attività che si svolgano in un ambiente nuovo, accadranno sempre sullo sfondo della memoria, del loro ricordo in un ambiente diverso. Per questo, nuovo e vecchio finiscono per essere entrambi analogamente vividi, ugualmente attuali, per ricorrere insieme contrappuntisticamente.

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Sofia Gotti 외국인은 어디에나 있다

intervistata da

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Negli anni Settanta, molti giudicavano la pratica di Nil Yalter folkloristica o documentaristica: opere che non appartenevano ai musei d’arte contemporanea, ma piuttosto ai musei antropologici o alle sedi sindacali. Interessata agli strati di subalternità e disuguaglianza sulla base di classe, razza e genere, l’artista mette in primo piano l’intersezionalità ante litteram. La sua missione è quella di dare voce a coloro che sono stati relegati ai margini della società, anticipando molte delle ricerche su quello che oggi viene definito femminismo decoloniale. Yalter ha ricevuto una formazione informale a Istanbul grazie alla famiglia, agli amici e ai coetanei che l’hanno introdotta al canone dell’arte moderna europea. Rimane particolarmente colpita dal Costruttivismo russo e l’astrazione geometrica diventa il suo linguaggio pittorico. Solo quando si trasferisce a Parigi, nel 1965, il suo lavoro subisce una radicale trasformazione e diventa una figura attiva tra i vari gruppi femministi riunitisi all’indomani del Maggio 1968. Nel 1973, Yalter abbandona la tela e adotta come campi di sperimentazione la fotografia, il video, il testo e le installazioni. Quando Yalter mi accoglie nel suo studio parigino, entro in uno spazio pieno di libri ammassati in tutto il piccolo appartamento vicino agli Champs-Élysées. “Ne sto donando la metà!”, mi dice, elencando musei e biblioteche interessati ad acquisire ciò che per una vita ha raccolto attraverso le sue collaborazioni e ricerche con colleghi, antropologi e registi in luoghi iconici quali l’Institute of Contemporary Arts (ICA) di Londra o la A.I.R. Gallery di New York.

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Ho scoperto di recente che in gioventù era un’attrice e che ha percorso a piedi la strada dalla Turchia all’India insieme a un ragazzo. Sì, è vero. Era un drammaturgo e anche un mimo. L’ho conosciuto a Istanbul, dove abbiamo rappresentato i primi mimodrammi sui palcoscenici della città. Lui e Marcel Marceau erano entrambi allievi di Étienne Decroux, che aveva inventato il mimo moderno, dopo quello già esistente nella commedia dell’arte e in Shakespeare. In India, il teatro tradizionale kathakali è una sorta di pantomima, simile al teatro nō giapponese: in entrambi i casi non c’è parlato, ma solo musica e danza. Ci siamo esibiti in tutta l’India per circa un anno e mezzo, guadagnandoci da vivere con i nostri spettacoli perché con il mimo non c’è barriera linguistica. Per noi l’arte era la pantomima. Ho trovato alcune recensioni dei nostri spettacoli sul Bombay Times e su altre riviste. Per loro era una novità assoluta. Ci esibivamo all’Alliance Française e in luoghi molto tradizionali e vivevamo come i primi hippy. Ho alcune immagini di tutta questa esperienza e mi piacerebbe fare un lavoro su questo viaggio. Quando ho iniziato a sentirmi debole sono tornata a Istanbul, mentre il ragazzo ha proseguito il viaggio ed è andato in Giappone. Devo chiederglielo. Come ci è riuscita? Come ha reagito la sua famiglia al suo attraversare l’India da sola con un ragazzo? Nessuno riusciva a tenermi testa, mia cara. Nemmeno adesso! Quando ho deciso di partire, sia mio padre che mia

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madre, che erano separati, sapevano che non avrebbero potuto fermarmi. A meno che non mi avessero legato a una sedia, non avrebbero potuto fermarmi. Sono sempre stata così. Mi sono sposata a diciotto anni per avere un passaporto francese che mi consentisse di viaggiare, poiché in quanto cittadina turca non potevo averne uno. È difficile immaginarla debole. Ho letto che ha detto che è stato durante questo viaggio che è diventata “un’estranea”. All’interno di questa Biennale Arte abbiamo giocato con lo slittamento tra i concetti di straniero, estraneo e strano. Che cosa significa, per lei, essere un’estranea? Durante quel viaggio ho scoperto per la prima volta che cosa significasse essere estranea a una cultura e ne sono rimasta affascinata. La cultura indiana è così ricca: la povertà, il sistema delle caste, i colori, questa religione straordinaria. L’induismo ha così tante divinità – e ognuna ha un evento artistico dedicato. Krishna e Shiva sono arte, e io ci ho vissuto in mezzo. È stato sorprendente. Era la mia università. È stata la prima volta in cui mi sono sentita un’estranea. Gli indiani considerano impuri i non indù. Mi riferisco a coloro che vivevano nei piccoli villaggi che attraversavamo: anche se ci mostravano grande ospitalità, per loro eravamo comunque impuri. Quando arrivavamo in un villaggio, ci davano una stanza per gli ospiti: si trattava di spazi molto umili, dove usavamo i nostri sacchi a pelo. Pur essendo amichevoli, non mangiavano con noi: ci davano il cibo in vasellame molto semplice e lo rompevano una volta finito. È la loro tradizione. Sono gentili con te e si prendono cura di te, ma tu non sei uno di loro. Sei l’Altro. Sono stata a casa di Ravi Shankar, che si comportava diversamente perché aveva viaggiato in Europa. I Beatles dissero che li aveva ispirati. Era a metà tra tradizione e modernità, quindi non rompeva i piatti, ma sono sicura che suo padre lo faceva. Forse tutto il mio lavoro attuale sull’immigrazione deriva da questo grande viaggio di quando ero giovane. Tuttavia, l’immigrazione di cui mi occupo nel mio lavoro è soprattutto di tipo economico. Le persone con cui collaboro sono venute qui in Francia per lavorare. Quando ha iniziato a dipingere e disegnare? A dieci o dodici anni. Le bambine erano interessate alle bambole, ma io giocavo con colori e matite e mio padre mi comprava piccole pubblicazioni su tutti gli artisti moderni. Ho iniziato a disegnare da bambina con la madre di mio padre, che era una circassa proveniente dalla Russia. Era arrivata nell’Impero ottomano a cavallo, con il padre. La ricordo da quando avevo cinque anni, appena tornata a Istanbul dal Cairo, dove sono nata. Viveva con noi, era molto devota e pregava cinque volte al giorno su una stuoia. Io le toglievo la stuoia da sotto i piedi e lei cadeva a terra. Mi hanno lasciata con lei e lei si è presa cura di me. Era molto moderna. Mi raccontava le storie, come si fa con i bambini. A un certo punto si è stancata di raccontarmi storie e ha detto: “Adesso cominciamo a disegnare”. Così ha iniziato a disegnare storie su fogli di carta divisi in piccoli riquadri come un fumetto. Disegnava le storie – era bravissima a disegnare – e quando era a metà, si girava verso di me e diceva: “Ora disegna tu il resto”. È così che ho iniziato a disegnare e non ho più smesso. E quando ha iniziato a interessarsi all’astrazione? Solo dopo che è uscito Dictionnaire de la peinture abstraite. Précédé d’une histoire de la peinture abstraite di Michel Seuphor (Fernand Hazan, 1957). Prima di allora, in Turchia non c’era nulla – né gallerie, né musei, né libri – sull’astrazione. Girava una sola copia di questo

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dizionario che ci scambiavano. Un mio amico me l’ha prestato per un po’, poi ne ho comprato uno mio, ma è stato molto più tardi. Tra i quattordici e i diciotto anni ho iniziato a fare amicizia con quelli che chiamano artisti astratti. La maggior parte di loro si era formata a Parigi ed era poi tornata a Istanbul. È stato uno di loro – uno scultore che aveva studiato a Parigi e che dopo essere rientrato a Istanbul, si è poi stabilito in Danimarca – a spiegarmi che cosa fosse il Costruttivismo. Da quel momento in poi, l’arte della Rivoluzione russa è stata il movimento più importante per me. Lei fa spesso riferimento agli scritti di Malevič sull’arte bizantina. Anch’io sono interessata alle storie dell’arte diacroniche scritte da artisti che si collegano a contesti estranei, naturalmente estranei solo in superficie. Lei è tra i pochissimi partecipanti di questa Mostra ad avere una doppia presenza, nel Nucleo Storico e nel Nucleo Contemporaneo. Il dipinto del Nucleo Storico, Pink Tension, del 1969, è un’astrazione geometrica, uno stile che lei ha sperimentato quando si è trasferita a Parigi. Come è cambiato il suo approccio all’astrazione geometrica quando è emigrata? In Turchia facevo astrazioni come Serge Poliakoff, ma a Parigi la pittura hard­edge mi ha influenzato molto. A Istanbul ero diventata una pittrice abbastanza nota, ma l’unico posto dove potevamo esporre era il Goethe-Institut; per guadagnarmi da vivere ho iniziato a realizzare costumi e scenografie per il teatro e ho venduto molti dei miei dipinti. Ma sapevo che al di fuori di Istanbul stava succedendo qualcosa e che conoscere Cézanne e Picasso non era abbastanza. Volevo scoprire il mondo dell’arte contemporanea che negli anni Sessanta esisteva già: volevo conoscere la Pop Art, l’arte concettuale e così via. Arrivata a Parigi ho avuto la fortuna di conoscere la galleria di Ileana Sonnabend, che era stata sposata con il gallerista newyorkese Leo Castelli. Erano stati loro a scoprire la Pop Art. Ileana, dopo il divorzio da Castelli, aveva sposato Michael Sonnabend e aperto la sua galleria, che all’inizio era lungo la Senna. La prima cosa che ho fatto quando sono arrivata nel 1965 è stato andare alla sua galleria a vedere la mostra di Andy Warhol, che aveva realizzato dei dipinti murali a fiori in tutta la galleria e sopra vi aveva appeso piccole stampe e dipinti. Una cosa per me strabiliante. Ho pensato: “Questa è arte, ma non riesco a capirla. Devo elaborarla e capire come riuscire a farne parte”. A quel tempo, il mondo dell’arte non era come oggi. Era molto semplice. Ad esempio, a Rauschenberg piaceva il cibo giapponese, quindi Ileana ordinava il sushi nell’unico posto dove trovarlo a Parigi. Tutti venivano alla galleria e mangiavamo sushi insieme. Lì ho conosciuto anche Robert Morris. Ho iniziato a imparare in quell’atmosfera. E nessuno era una star. Tuttavia, questo non è stato il mio primo contatto con Parigi. Ci ero già stata nel 1956, per un mese, ed è allora che ho scoperto per la prima volta Yves Klein. Anche questo mi ha sconvolta. Ho anche scoperto i drammaturghi Arthur Adamov e Eugène Ionesco. Nel decennio tra il 1956 e il 1965 avevo tante domande per la testa. Sono venuta a Parigi per stabilirmi e per imparare. Le sue prime astrazioni fungono quasi da ponte. Prima, un ponte tra la Turchia, dove non succedeva “nulla” sul piano culturale, e il resto d’Europa, dove l’avanguardismo dilagava. E poi tra Parigi e la Turchia, dove le turbolenze politiche definivano la vita quotidiana. Sembra che la serie di disegni Deniz Gezmiş (1972) unisca la sperimentazione formalista che ha definito

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la sua prima pratica e l’impegno politico che ha guidato il suo lavoro successivo. È il primo lavoro in cui ha riunito materiali trovati, testi e performance, ed è anche il primo in cui affronta direttamente un tema politico. Deniz Gezmiş è il nome di uno dei tre giovani rivoluzionari che fondarono l’Esercito Popolare di Liberazione della Turchia e che furono giustiziati a Istanbul nel 1972. Sono tornata a Istanbul nel 1971, quindi ero lì quando si sono svolti gli eventi che hanno portato all’esecuzione. Ogni giorno seguivo ciò che accadeva e annotavo i fatti. Pink Tension, invece, sembra riflettere le influenze a cui è stata esposta a Parigi: la Pop Art e l’hard­edge Nouveau réalisme. Si percepisce una rottura tra l’astrazione geometrica e installazioni come Topak Ev (1973), l’altra opera proposta a Venezia, nel Padiglione Centrale dei Giardini. Si tratta dell’elaborazione di una tenda per nomadi fatta di feltro e pelli animali. Come ha avuto l’impulso di creare un’installazione immersiva dopo aver lavorato per anni con la pittura su tela? L’idea di Topak Ev è nata dalla mia ricerca sulle società nomadi in Turchia. Sono andata a trovare i nomadi a Niğde, la capitale della regione centrale dell’Anatolia. Un etnografo del Musée de l’Homme, Bernard Dupaigne, mi ha fornito tutte le informazioni su di loro: quando una donna di una tribù nomade compie tredici anni, inizia a costruire la propria tenda, che diventa la sua casa. La tenda è come un grembo materno. È rotonda. Quando si vuole sposare è lei a invitare un potenziale marito nella sua tenda, se non invitato da lei, nessun uomo può entrare. Allo stesso tempo, il suo mondo è all’interno e non può uscire molto. Lì ho fatto dei collage. Tutte le donne mi hanno raccontato di avere un fratello, uno zio, un figlio, un padre partiti per la grande città dove hanno iniziato a costruire delle favelas: in un giorno tiravano su quattro mura anche se non c’era alcuna proprietà privata. Da lì sono andati in Germania come lavoratori immigrati. Quindi è stata quasi una progressione naturale o biologica dal nomadismo all’immigrazione. Nomadismo e migrazione sono entrambi punti nevralgici del suo lavoro. Naturalmente il nomadismo è un concetto su cui si sono basati pensatori come Gilles Deleuze o Félix Guattari per tracciare una forma di conoscenza deterritorializzata e per ripensare la politica di relazione tra sé e l’Altro. Anche se gran parte del mio lavoro è incentrato sull’immigrazione, non mi considero un’immigrata. All’inizio ho compiuto un’azione di nomadismo, cambiando Paese per motivi culturali. Ero politicamente coinvolta con gli intellettuali fuorilegge del Partito Comunista Turco. Ho co-fondato con Joël Boutteville il gruppo Amicale France-Turquie e alla fine degli anni Settanta abbiamo distribuito informazioni in tutta Europa. Sono stata informata di quanto stava accadendo dopo il putsch militare del 1980 a Istanbul, e poi per tredici anni consecutivi non sono potuta tornare in Turchia. La gente pensa che sia stato a causa del mio lavoro: invece è stato grazie al mio lavoro che sono stata coinvolta politicamente, ed era perché ero coinvolta politicamente che facevo questo lavoro. Il suo lavoro con le comunità di lavoratori immigrati mostra l’importanza del lavoro quando si affrontano le questioni legate alla migrazione. Il lavoro qui è visibile nella sua pratica, nel modo in cui era politicamente coinvolta e nel

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modo in cui nei suoi progetti si è avvicinata ai partecipanti, la cui vita quotidiana e le cui condizioni sociali erano definite dal loro rapporto con il lavoro. Io non credo che si possa andare a casa delle persone e chiedere loro di filmarle. Per poterlo fare ho lavorato con studenti turchi nelle università, con le comunità di immigrati e con gli assistenti sociali dei comuni fuori Parigi. I consigli comunali hanno chiesto alle persone se volessero incontrarmi, ho spiegato loro che cosa volevo fare e loro hanno deciso se accettare o rifiutare. Questo è il modo in cui si lavora in questi contesti. Ma per riuscirci, ho dovuto essere coinvolta politicamente e viceversa. A un certo punto tutti i miei amici facevano parte di questi gruppi; non li definirei attivisti, perché in realtà lavoravano come assistenti sociali. Quelli che sono tornati in Turchia dopo il 1980 sono stati tutti imprigionati. Molti di coloro che facevano parte del Partito Comunista Turco fuorilegge sono stati torturati. La storia turca ha visto i militari prendere il potere più volte. La storia repubblicana, intendo. Il titolo della raccolta di poesie di Nâzım Hikmet, Il duro mestiere dell’esilio (1957) – che è anche il titolo della sua installazione nel Padiglione Centrale – non riguarda solo le difficoltà dell’esilio, ma anche le condizioni di lavoro che definiscono la vita di un immigrato. L’installazione, composta da fotografie e video, è stata realizzata successivamente, ma è anche esposta insieme a Topak Ev. Può dirmi qualcosa di più sulla genesi di questi due progetti? Nel 1973 Suzanne Pagé mi ha chiesto di realizzare la tenda come mostra personale al Musée d’Art Moderne di Parigi. Vivevo e lavoravo in uno spazio di 18 metri quadrati. Tutto quello che avevo era un progetto per la tenda e qualche schizzo, ma lei ha detto: “Fallo e ti organizzo una mostra a novembre”. Così ho fatto la mostra, ed era pieno di gente. Ho un breve video delle persone che entrano nella tenda, era la prima volta che usavo un portapak ed ero insicura con la telecamera. Dentro la tenda c’era del formaggio secco regalatomi da dei nomadi. Alcune persone erano stupefatte, perché probabilmente si trattava di una delle prime installazioni realizzate in Francia, anche se all’epoca non le chiamavamo installazioni, bensì opere ambientali. Suzanne era molto contenta, ma allo stesso tempo coloro che venivano – soprattutto i ricchi collezionisti snob del mondo dell’arte – dicevano che si sarebbe dovuto trovare al Musée de l’Homme. E naturalmente l’ho realizzata con la consulenza di un etnografo di quello stesso museo. Dieci anni dopo, nel 1983, Suzanne mi ha chiesto di fare un’altra mostra personale ed è stato allora che ho realizzato Exile is a Hard Job. Che è l’installazione che si può vedere al Padiglione Centrale. Nei video, uomini e donne che lavorano nei laboratori segreti del Faubourg-Saint-Denis raccontano le loro condizioni di vita. Le differenze tra le testimonianze di uomini e donne offrono ulteriori motivi di riflessione. A volte gli uomini si soffermano sulle forme sistemiche di sfruttamento economico da parte del governo francese, mentre le donne riflettono sul doppio carico della famiglia e della casa. La studiosa Fabienne Dumont analizza questo aspetto del suo lavoro fin dagli anni Settanta e in questo senso il suo lavoro è fondamentalmente intersezionale. Insiste sui diversi strati di genere, classe e geografia nel trattare l’oppressione e la disuguaglianza verso quello che potrebbe

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diventare un terreno d’incontro tra le esperienze degli immigrati svantaggiati. I partecipanti come hanno accolto i progetti? Quando mostravo loro quello che avevano detto nel filmato, lo controllavano e, se non erano soddisfatti, lo giravamo di nuovo. Le persone – immigrati, richiedenti asilo in attesa di documenti, lavoratori clandestini e non – sono state molto aperte e sono venute tutte ai diversi eventi in cui ho presentato il lavoro. Il primo è stato alla Biennale di Parigi nel 1977, quando ho presentato La communauté des travailleurs turcs à Paris (La comunità dei lavoratori turchi a Parigi), un progetto di video, disegni e fotografie realizzato con gli immigrati insediati nella periferia parigina. Ho un’immagine che è molto interessante perché si vedono le stesse donne e gli stessi uomini delle foto alle pareti, mentre visitano lo spazio espositivo e si osservano. La mise en abyme nel suo lavoro ricorre ancora una volta. All’inizio, il direttore era contrario all’invito di queste comunità alla mostra perché temeva che tutti i bambini toccassero le opere. Gli ho detto che se non li avesse fatti entrare, avrei preso tutte le mie opere e me ne sarei andata. Ha dovuto accettare, ma dopo è stato molto contento. Avendo io maggiore familiarità con il contesto britannico degli anni Ottanta e con le politiche multiculturali del thatcherismo, criticate da figure come Stuart Hall o Rasheed Araeen, mi chiedo quali siano state le relazioni di questi discorsi nel contesto della Francia di quel periodo. C’è stata una mostra molto importante curata da Lucy Lippard, intitolata Issue, all’ICA nel 1980. È stata una mostra fantastica. Anche a Londra non c’era nulla di simile ed è incredibile come si sia sviluppata in seguito. Il mio lavoro era un video con opere a parete. Lucy era venuta a tenere una conferenza stampa a Parigi quattro anni prima, io ero andata alla conferenza e lei non mi aveva vista. Ero tra il pubblico e lei aveva parlato del mio Topak Ev. Non l’aveva visto, ma ne aveva già scritto perché era molto interessata a quell’opera. Così più tardi sono andata dietro le quinte per ringraziarla di aver parlato della tenda. È in questo modo che ci siamo incontrate per la prima volta e poi mi ha invitato a partecipare a Issue. Con Lucy siamo diventate abbastanza amiche. La mostra proveniva dagli Stati Uniti, quindi molti artisti presenti erano americani. Quando la mostra stava per concludersi, ho trascorso una settimana a Londra e Lucy mi ha chiesto di andare a trovare un curatore che allora lavorava al Musée National d’Art Moderne di Parigi. Poiché la mostra era in Inghilterra ed erano state pagate tutte le spese di spedizione dagli Stati Uniti, aveva senso che si svolgesse anche a Parigi. Quando sono andata dal curatore, mi ha riso in faccia. Ecco che cosa erano le donne artiste. Ha detto che l’unica cosa positiva della mia pagina nel catalogo era che non era stata tradotta ed era rimasta in francese. È sconvolgente che lei si sia trovata di fronte a una politica istituzionale così escludente. Nonostante quello che mi sta raccontando e la triste realtà dell’essere donna nel mondo dell’arte dell’epoca, lei è riuscita a esporre costantemente in spazi artistici alternativi come l’ICA, l’A.I.R. Gallery o la fabbrica Renault di Le Havre. Qual è il suo rapporto con l’istituzionalizzazione e le strutture delle istituzioni?

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INTERVISTATA DA SOFIA GOTTI

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Non ho lavorato molto nelle istituzioni. Quando il popolo dell’arte è passato per la Decima Biennale di Parigi, ad esempio, ha visto le mie opere e ha detto: “Questa non è arte, è politica! Chi mai si appenderebbe questi pezzi alle pareti?”. Questa è stata la reazione generale al mio lavoro. Ho sempre lavorato perché niente può fermarmi: nessuna galleria, nessun museo. E c’erano spazi d’arte e centri comunitari nelle periferie parigine dove spesso tenevo mostre. Mi pagavano un onorario decente e mi lasciavano le opere. Sono contesti straordinari in città con case popolari. La collaborazione sembra essere una caratteristica centrale della sua pratica. Oltre a collaborare con altri artisti come Judy Blum, che è stata incredibile, sono stata coinvolta con diversi gruppi femministi. Avevamo due gruppi – Femmes en lutte con Esther e Mathilde Ferrer, Dorothée Selz e Isabelle Champion-Métadier, e Femmes/ Art, di cui facevo parte – e ci incontravamo ogni quindici giorni. C’erano giornaliste, scrittrici, pittrici, artiste. Era aperto a tutti. Abbiamo tenuto una manifestazione al Salon d’Automne nel 1978. Prima di allora, tra il 1976 e il 1977, avevamo realizzato collettivamente delle opere sulla situazione delle donne nella sfera pubblica e nel privato. C’era un altro gruppo di donne che si occupava più di psichiatria, ma eravamo tutte militanti attive. Ad esempio, nel 1975 abbiamo organizzato una manifestazione contro l’Anno Internazionale della Donna dell’UNESCO. Eravamo molto contrarie: non capivamo perché le donne dovessero avere un solo anno, mentre tutti gli altri erano anni dell’uomo. Tornando quasi al punto di partenza, è innegabile che il privilegio sia un aspetto vitale di gran parte del lavoro che tutti noi svolgiamo nel sistema dell’arte. Per me privilegio significa la capacità di parlare, di immaginare, di essere visti, un privilegio che non molti sono in grado di ottenere. Sono rimasta particolarmente colpita da una frase che lei ha usato in precedenti interviste, ovvero “prestare la voce”. Può dirmi di più su che cosa significa per lei prestare la sua voce? Tutti hanno il diritto di essere istruiti. Il problema di oggi nel mondo, soprattutto nei Paesi islamici e in Turchia, è la mancanza di istruzione. È importante che le persone abbiano il diritto di parlare e di raccontare quello che succede. Nel mio lavoro faccio una domanda e poi non interferisco mai. Di solito faccio solo una domanda del tipo: “Come ti senti nella tua situazione?”. Non faccio molte domande, non interferisco e lascio che siano le persone a parlare. Si esprimono autonomamente. Consento alle persone con cui lavoro di parlare con la propria voce. Non faccio interviste. I miei lavori sono molto documentaristici, ma non sono documentari. Dico solo: “Ti filmerò e poi ti mostrerò il video, e se non ti piace, possiamo ricominciare”. Cosa pensa della sua situazione attuale? In questo momento, sono preoccupata. Questa intervista è stata condotta a Parigi, in Francia, il 17 ottobre 2023.

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UN APPARTAMENTO SU URANO: CRONACHE DEL TRANSITO, ROMA, FANDANGO, 2020.

Il cambio di sesso e la migrazione sono due pratiche che, mettendo in discussione l’architettura politica e legale del colonialismo patriarcale, della differenza sessuale e della gerarchia razziale, della famiglia e dello Stato-nazione, pongono un corpo umano vivente entro i limiti della cittadinanza, persino di quella che intendiamo per “umanità”.

PAUL B. PRECIADO


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Claire Fontaine, 2005

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Claire Fontaine

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Lontano, lontano da te si svolge la storia mondiale, la storia mondiale della tua anima. — Franz Kafka

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“Harki” è il nome arabo dato ai mercenari algerini assunti senza statuto militare dall’esercito francese tra il 1952 e il 1962. Dopo l’indipendenza algerina furono oggetto di torture e vilipendio da parte della popolazione. François Hollande nel 2016 ha riconosciuto, dopo una prima timida ammissione di responsabilità del governo fatta da Sarkozy nel 2012, “le responsabilità del governo francese nell’abbandono degli harkis, i massacri di coloro i quali rimasero in Algeria e le condizioni di accoglienza inumane di quelli che furono trasferiti in Francia”. Pieds-noirs è il nome familiare usato per definire i francesi che vissero in Algeria fino all’ottenimento dell’indipendenza.

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Si comincia sempre col chiedersi chi sono quelli che non desideriamo, per poi iscriverli sulla lista degli indesiderabili. Si chiede loro di dire il proprio nome a chiare lettere perché si tratta sempre di nomi stranieri, nomi sconosciuti. Si chiede loro di mettersi in fila, di restar calmi, di non fare domande, in ogni caso non ci sono interpreti. Si scheda, si fanno delle lunghe liste, le si conserva nella memoria elettronica, le si lascia dormire nel ventre dei computer, poi un bel giorno le si sveglia: è lui, è lei, sono loro che non vogliamo più. Quest’uomo, questi bambini e questa donna, non li vogliamo più, grazie. È successo in passato, succede ancora, lo stesso protocollo, le stesse sensazioni dal lato degli esecutori d’ordini e dei deportati. Perché non possiamo “avere un paese ridotto come uno scolapasta” (Dominique de Villepin, 12 maggio 2005), possiamo invece avere un paese fortezza, un paese con codice d’accesso, un paese sordo, un paese boia in doppiopetto, un paese cortesemente xenofobo, un paese campo. Un paese che espelle, estrada e tortura (ma discretamente); il paese degli abusi polizieschi e del colonialismo mal digerito, che ha annegato nella Senna degli stranieri un giorno, che ha imprigionato i sostenitori dell’indipendenza algerina, che ha nascosto sotto la sua bandiera-sottana gli harkis e i pieds-noirs1devastati dalla vergogna di essere nati. Questo paese continueremo ad averlo, e per altro ci stiamo lavorando. Spenderemo cento milioni di euro per allontanare gli indesiderabili l’anno prossimo. Che è un prezzo giusto da pagare. D’altronde perché sono venute qui queste persone, lontano dalla loro famiglia, dalla loro lingua, dal loro luogo di appartenenza? Ma non si chiede loro né quale sia la loro lingua, né come sia la loro famiglia, né che posto vorrebbero per sé. Dove vanno gli indesiderabili quando spariscono dalla nostra vista? La terminologia impiegata la dice lunga: sono “trattenuti” in campi, subiscono un’“espulsione”, terminologia fecale che non inganna; non solo il Capitalismo non ha risolto il problema dei suoi rifiuti, ma sempre più rapidamente lo statuto di rifiuto si applica a ciò cui fino a ieri non s’addiceva, questo vale sia per le cose che per le

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Cartelli che apparvero nei quartieri di Parigi durante le opere di rinnovo urbano dell’epoca.

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L’espressione parafrasa la “polizia di prossimità” creata dal governo Jospin nel 1998 e soppressa da Sarkozy nel 2002 con l’argomento che la polizia aveva assunto un ruolo di assistente sociale. Il progetto era stato quello di trasformare l’immagine della polizia attraverso una sua diffusione capillare nei quartieri delle città e favorirne i rapporti con la popolazione.

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persone. Uno degli aspetti dello stato d’eccezione che è per noi la regola è che la nostra compatibilità col sistema è un oggetto di negoziazione permanente cui dobbiamo senza sosta lavorare, che la nostra utilità sul mercato del lavoro è una nozione a orologeria. Si dice “tornatevene a casa” a gente che ha perduto ogni appartenenza al punto che accetta di venire a cercarne di nuove in capo al mondo. Si dice “non abbiamo più bisogno di voi” a delle persone bisognose di un lavoro che le rifiuta. Straniero non è chi viene da altrove, chi appartiene a un’altra “razza”. La razza degli indesiderabili è semplicemente quella degli sfruttati, di chi è relegato allo spazio del bisogno e confonde le frontiere dei desideri con quelle dei miraggi pubblicitari. Si pretende che questi esseri spariranno in quanto tali, che sono il risultato di una contingenza sfavorevole, di una democrazia incompiuta, che sono i sintomi di una malattia infantile del capitalismo globale. Ma non è vero. Sono loro il motore della nostra economia, i portatori sani di ricchezza. In ogni caso – vi dite – in ogni caso questa storia è triste e nota, ma queste cose succedono agli Altri, non a noi, agli Altri; questi Altri di cui non sappiamo domandarci chi siano o dove vivano. Il nostro esilio interiore li mette nella prima cella, chiusa a chiave tutti i giorni alla stessa ora dalla mancanza generale di tempo e di curiosità. Eppure sono qui gli altri, hanno lavato questa mattina la vetrina della macelleria qui di fronte, erano seduti su questo sedile del metrò prima di noi, vivevano nel nostro appartamento prima di essere sfrattati. La loro sofferenza impesta l’aria che respiriamo, la loro forza lavoro pagata quattro soldi mantiene bassi i nostri salari, la loro solitudine impedisce loro di organizzarsi, la loro reclusione materializza silenziosamente intorno a noi un’aura di prigione. Il ripiego identitario occidentale, la paura di prossimità2, il comunitarismo europeo e le opinioni prese in affitto dai giornali e dal piccolo schermo, li pagheremo molto cari. Conosceremo una povertà che risveglierà i peggiori ricordi, una povertà che non è legata alla crisi economica e che è ben più distruttrice, una povertà del possibile che erode già ogni bordo della politica. Lo stato delle strade influisce sullo stato dei nostri interni. Da quando i nostri appartamenti sono diventati dei rifugi in cui non si deve poter osare ospitare gli esseri dimenticati dalla memoria poliziesca, alla nostra proprietà privata è stata strappata la maschera dell’apparente innocenza e si è rivelata infine come un atto di guerra. Non si vedono rifugiati qui perché i veri rifugiati siamo noi, colonizzati dal nostro stesso paese che è per noi una terra di prima accoglienza: un territorio sorvegliato dal capitale globale di cui dobbiamo accettare le leggi ostili o andarcene nei non-luoghi delle prigioni. Ci chiedono da qualche anno di avere paura varie volte al giorno e talvolta di essere terrorizzati, ed osano parlare di sicurezza. Ma la sicurezza non è mai stata un affare di milizie, la sicurezza si misura attraverso la possibilità di essere protetti quando se ne ha bisogno, è il potenziale di amicizia che si nasconde in ogni essere umano. Da quando questo è stato distrutto, ogni spazio è a rischio. Gli stranieri sono ovunque, è vero, ma noi stessi siamo stranieri per le strade e nei corridoi del metrò attraversati dagli uomini in uniforme. Queste leggi che respingono gli sconosciuti venuti da altrove gettano una nuova luce sulla Parigi terreno di gioco del Capitale, sulla “pulizia” dei quartieri popolari e l’organizzazione del turismo interno allo spazio urbano. Vedrete cosa vogliono dire quando installano uno “spazio civilizzato” o scrivono su un cartello “il vostro quartiere si trasforma”3. Vogliono dire che il colonialismo è la guerra e che i colonizzati siamo noi tutti, noialtri. … questo testo deve finire, potrebbe continuare ma è inutile. Lo sappiamo. Per esistere usa la libertà più povera che ci rimane, la libertà d’espressione, che è un’ironia. Il linguaggio è già un naviglio che affonda sotto il peso della sua inoffensività. Non ci offre riparo, è sempre lo straniero di qualcuno. Appena possibile dobbiamo partire per un altro viaggio che ci metta dal lato degli indesiderabili, che metta in discussione le nostre frontiere personali, che ci sbarazzi della paura.

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“Noi […] la gente di qui con le nostre tristi esperienze e i nostri continui timori, la paura ci trova senza resistenza; ci spaventiamo al minimo scricchiolio del legno, e quando uno di noi ha paura immediatamente anche l’altro si spaventa, senza neppure sapere esattamente perché.” — Franz Kafka, Il castello

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CONFINI E FRONTIERE: LA MOLTIPLICAZIONE DEL LAVORO NEL MONDO GLOBALE, BOLOGNA, IL MULINO, 2014.

I confini simbolici, linguistici, culturali e urbani non sono più articolati in modo fisso dal confine geopolitico. Anzi, si sovrappongono, si connettono e si disconnettono in modi spesso imprevedibili, contribuendo a plasmare nuove forme di dominio e sfruttamento. [...] confini, lungi dal servire semplicemente a bloccare o ostacolare i passaggi globali di persone, denaro o oggetti, sono diventati dispositivi centrali per la loro articolazione. I confini giocano un ruolo chiave nella produzione dell’eterogeneo tempo e spazio del capitalismo globale e postcoloniale contemporaneo.

SANDRO MEZZADRA E BRETT NEILSON


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BIYANÎ LI HER DERÊ STRANIERI OVUNQUE

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Il tempo del migrante Ranajit Guha Articolo pubblicato in “The Journal Postcolonial Studies: Culture, Politics, Economy”, vol. 1, n. 2, 1998, pp. 155-160.

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Appartenere a una diaspora... Ho scritto queste parole e mi sono fermato. Perché non ero sicuro che si potesse appartenere a una diaspora. L’appartenenza si basa su qualcosa di già costituito. Il primo migrante rimarrebbe allora per sempre escluso da una diaspora? In ogni caso, chi costituisce una diaspora? E che cos’è, dopotutto? È un luogo o semplicemente una regione della mente, una condensazione mnesica usata per formare figure di nostalgia da una vasta dispersione? O non è altro che lo stratagemma di un nazionalismo assediato per chiamare in aiuto le risorse di espatriati da tempo dimenticati in nome del patriottismo? Beh, non lo so, o perlomeno: non ancora. Perciò, per cominciare, vorrei rimanere vicino alla connotazione essenziale del termine come separazione e dispersione e dire che essere in una diaspora è già essere marchiati dal segno della distanza. Un po’ come essere un immigrato, ma con una differenza. Quest’ultimo è in posizione di distanziamento dalla comunità – il popolo o la Nazione o il Paese o comunque si voglia chiamare una comunità – in cui si trova il più delle volte come ospite indesiderato. Dal momento in cui bussa alla porta di chi lo ospita, è qualcuno entrato dall’esterno. Il diasporico come migrante, per contro, è qualcuno che si è allontanato da ciò che un tempo era casa, da una patria. In questo caso, a differenza dell’altro, la funzione della distanza non è quella di farne un alieno, bensì un apostata. Un apostata perché, lasciando la patria, le è stato infedele. Poiché non esiste cultura, certamente non nell’Asia meridionale, che non consideri la casa come custode e propagatrice dei valori legati alla genitorialità, al punto da investire quest’ultima di una sacralità affine alla religiosità; l’abbandono equivale a trasgressione. Il migrante, anche se involontario e trascinato al largo da circostanze indipendenti dalla sua volontà, ha quindi tradito la fede ed è sottoposto a giudizi normalmente riservati all’apostasia. Parlo di apostasia per evidenziare l’intensità delle critiche morali imposte dai loro connazionali a coloro che se ne sono

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andati. La disapprovazione può esprimersi con una retorica nazionalistica o familiare e il disertore viene condannato per essersi indebolito in quella fedeltà che rivela buona cittadinanza e parentela. Qualunque sia la lingua di espressione, il suo oggetto non è altro che la violazione di alcuni codici inviolabili, ovvero quelli della solidarietà e dello scambio, dell’alleanza e dell’ostilità, dell’amore per i vicini e della paura degli estranei, del rispetto per la tradizione e della resistenza al cambiamento; codici che nel loro insieme aiutano una popolazione a costruire comunità attraverso la reciproca comprensione. Presupposti in ogni transazione tra i suoi membri, sono di fatto codici di appartenenza con cui si identificano e si riconoscono. Violarli andandosene, sciogliendo i legami del mondo d’origine, significa essere rinnegati e subire la dura condanna: “Non appartieni più a questo mondo, non sei più uno di noi”. La voce con cui viene pronunciata questa frase è quella della prima persona plurale che parla a nome di un’intera comunità, da una posizione radicata al suo interno. Un interno che è qui, un luogo che il migrante non avrà il diritto di chiamare proprio. Lo spostamento è reso ancora più drammatico dal paradosso che esso non corrisponde affatto a una distanziazione nel tempo: è infatti saldamente legato a un presente accentuato e immediato, tagliato fuori da un passato condiviso dalla forza avverbiale del “non più”. Un taglio netto e pulito, che non lascia alla sua vittima nulla su cui ripiegare, nessun background in cui indignarsi, nessun legame comunitario effettivo a cui fare riferimento. Questi ultimi si formano infatti nei rapporti quotidiani tra le persone di qualsiasi società, in un presente che di continuo assimila in sé il passato come esperienza e al tempo stesso spera in un futuro sicuro per tutti. La perdita di questo presente equivale quindi alla perdita del mondo in cui il migrante ha forgiato la propria identità. Estromesso temporalmente non meno che spazialmente, sarà d’ora in poi alla deriva fino a quando non approderà in un secondo mondo dove il suo posto cercherà e, si spera, troverà di nuovo le coordinate corrispondenti in un tempo che lui, come altri, dovrebbe poter rivendicare come “il nostro tempo”. Il passato di una diaspora non è quindi una questione meramente o primariamente storiologica. Si tratta, in primo luogo, della perdita della propria identità comunitaria da parte di un individuo e della sua lotta per trovarne un’altra. Le condizioni in cui si è formata la prima identità non sono più disponibili per lui. La nascita e la parentela, che conferivano al suo posto nella prima comunità una parvenza di naturalezza così completa da nasconderne il carattere antropico, gli sono ormai di scarso aiuto in quanto alieno isolato per etnia e cultura. Segni di un legame originario, sono proprio questi a rendergli difficile trovare un appiglio in quel presente vivente in cui un’identità comunitaria si rinnova incessantemente nelle transazioni quotidiane tra le persone e ne viene prontamente rafforzata da un codice comune di appartenenza. Tutto ciò che riguarda tale codice è inquadrato nel tempo. L’appartenenza in questo senso comunitario, infatti, non è altro che una temporalità agita e pensata – e in generale vissuta – come essere con gli altri nel tempo condiviso, dove per condivisione, in questo contesto, si intende ciò che la comunità rivela ai suoi componenti come temporale. Basta ascoltare il discorso dell’appartenenza per rendersi conto di quanto questa temporalizzazione pervada tutto ciò che le persone si dicono, o in altro modo indicano, riguardo ai momenti belli e brutti, al lavoro e al tempo libero, a come è stato e a come potrebbe essere, all’essere giovani e all’invecchiare, e più di ogni altra cosa alla finitudine della vita nel nascere e nel morire. Non si tratta solo di una costrizione linguistica che impone alla grammatica di una lingua di insistere sulla categoria aspettuale delle frasi verbali in un enunciato. Si tratta, più fondamentalmente, di una questione esistenziale che riguarda l’essere nel tempo. Non c’è modo per coloro che vivono in una comunità di rendersi reciprocamente intelligibili se non temporalizzando la loro esperienza dello stare insieme. Una temporalizzazione di questo tipo ovviamente contiene in sé, inestricabilmente intrecciati, tutti i fili del passato, del

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M. Heidegger, Essere e tempo, a cura di P. Chiodi, Torino, Utet, 1978, p. 531.

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presente e del futuro. Tuttavia, il migrante appena arrivato si pone di fronte alla comunità ospitante solo nell’immediatezza del presente. Questo perché, dal punto di vista di quest’ultimo, tutto ciò che (se c’è) si sa del suo passato e si presume del suo futuro, è talmente assorbito dal puro fatto del suo arrivo che, come evento nel tempo, è colto come una pura esteriorità, non mediata né da ciò che era né da ciò che sarà. Eppure non c’è nulla di astratto in questo. Sembra piuttosto il contrario. Infatti, ha la concretezza di un’improvvisa rottura della continuità, o più propriamente, seppure in senso figurato, quella di un clinamen che disturba il flusso laminare del tempo per creare un vortice affinché la stranezza dell’arrivo continui a girare come momento di assoluta incertezza, un presente senza un prima né un dopo, quindi incomprensibile. Naturalmente non passerà molto tempo prima che quest’ultimo si riprenda dallo shock della subitaneità e si impadronisca dell’evento attraverso l’interpretazione, cioè tramite codici che possano assegnargli un significato in termini di una o più alterità, che vanno dalla razza alla religione. Il tutto, ancora una volta, sarà formulato come l’ultima frase di rifiuto rivolta al migrante al momento della partenza dalla sua terra natale: “tu non appartieni a questo posto”. Espressione che, essendo priva della locuzione avverbiale “non più”, interdice più che respingere. Tuttavia, come l’altra frase, anche questa sarà inequivocabilmente pronunciata all’interno di un “qui e ora”. Come mai l’adesso sta di guardia anche alla porta della comunità ospitante? Lo fa perché, citando Heidegger, “l’in-appartenenza (Hingehörigkeit) ha un rapporto essenziale con l’appagatività “1. L’appartenenza a una comunità non fa eccezione, perché implica l’essere con gli altri nella vita quotidiana di un mondo ordinario. Poiché l’adesso è la modalità in cui la quotidianità si articola prevalentemente e principalmente, esso funge da nodo che lega insieme gli altri fili del legame temporale di una comunità. Il passato viene raccolto in questo nodo e da lì si proietta anche il futuro. L’adesso è quindi la base da cui si dispiegano tutte le strategie di distanziazione contro l’estraneo come colui che sta fuori dal tempo della comunità, dal suo passato di miserie e splendori, dal suo futuro gravido di possibilità e di rischi, ma soprattutto dal suo presente carico degli aspetti di un’autentica appartenenza. Non c’è situazione più insostenibile per il migrante che incarna la prima generazione di ogni diaspora. La partecipazione all’adesso della comunità ospitante, cioè a un momento della temporalità reso presente come oggi, è una condizione indispensabile per la sua ammissione a essa. Tuttavia, in quanto appena arrivato dall’esterno, egli non può, per definizione, essere ammesso. Non ha, infatti, nulla da mostrare per il suo presente se non quel momento di assoluta discontinuità – il tempo scorciato di un arrivo – che risalta proprio per la sua esclusione dall’oggi della comunità alla cui soglia è approdato. Non poco della complessità e della tristezza della condizione diasporica si riferisce proprio a questa impasse. A questo punto ci converrebbe forse semplicemente aggirare questo momento difficile e imbarazzante e concedere alla nostra narrazione un piccolo, quasi impercettibile salto ed entrare in quella terra ferma in cui il migrante, lavato e nutrito e già ammesso nella sua nuova comunità, attende di essere assimilato come imitatore o disadattato, a seconda del grado di resistenza che oppone a questo processo sempre doloroso e spesso umiliante. Ma non lasciamoci tentare da questa opzione. Continuiamo ancora un po’ a occuparci dell’impasse in cui, letteralmente, si trova: bloccato tra un mondo lasciato alle spalle e un altro le cui porte sono sbarrate, non ha un posto dove andare. Senza casa e con poche speranze se non quella di un’ultima possibilità, l’ansia si impadronisce di ogni suo orientamento e comportamento. È uno stato d’animo notorio per il suo effetto angosciante. Strappa il migrante dal solco di un presente immediato e insopportabile e lo rende pronto a fare appello all’esperienza di ciò che è stato per andare incontro all’indeterminatezza di quanto lo attende. In altre parole è l’angoscia che lo mette in grado di osservare le proprie

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possibilità, che lo aiuta a mobilitare il passato come fondo di energie e risorse da utilizzare nel suo progetto di spianare per sé un cammino che ha come orizzonte il futuro con tutte le sue potenzialità. Un sentiero arduo, aperto dalla tragica disgiunzione del suo passato e del suo presente, che si colloca al di là di quell’adesso da cui è stato finora escluso e che lo pone lì in virtù della logica di quello stesso attraversamento. E così, il migrante si è finalmente collocato. Ma è ancora lungi dall’essere assimilato. Infatti, la quotidianità della sua nuova situazione e quella della comunità ospitante si intersecano, ma non coincidono. C’è un disallineamento che d’ora in poi servirà a creare un campo di alienazione con differenze lette lungo gli assi etnici, politici, culturali e di altro tipo. Questa non coincidenza pone in una nuova angolazione il problema del tempo del migrante. Perché il suo “adesso” resiste all’assorbimento in quello della sua comunità di adozione? È perché è costituito in modo diverso da quello di quest’ultima; l’adesso di qualsiasi tempo nasce dalla connessione del presente con il passato e il futuro. Eredita e proietta e, in questa duplice funzione, integra a sé tutto ciò che è specifico di una cultura come si è formata finora e tutto ciò che ne determinerà la qualità e il carattere nel tempo a venire. L’adesso di una comunità, quindi, non è solo uno di una serie di momenti identici disposti in una successione costante. Regolato dai legami di connessione e colorato dalle specificità delle sue sovradeterminazioni, il momento del suo tempo che una comunità vive come l’adesso è necessariamente diverso da quello di qualsiasi altro. Per questo motivo, cambiare comunità diventa in ogni caso occasione di un disadattamento temporale che, tuttavia, viene colto dal senso comune non per quello che è, ma come incapacità di una cultura di inserirsi senza problemi in un’altra. Non c’è nulla di particolarmente sbagliato in questa interpretazione, se non il fatto che una parte sostituisce il tutto. Infatti, ciò che di culturale c’è in questo fenomeno è già implicito nel temporale e ne deriva direttamente. Così, per citare un esempio fin troppo familiare, la differenza di atteggiamento nei confronti del tempo dell’orologio, spesso attribuita così facilmente a distinzioni religiose, è forse molto meglio spiegata in termini di diverse temporalità che collegano l’interpretazione che una comunità dà del proprio passato, presente e futuro in modo diverso da quella di un’altra. Anche il migrante è soggetto a questo fraintendimento nella comunità ospitante, una volta che vi è stato ammesso. Infatti, la connessione del tempo che costituisce il tessuto della sua vita non è né può essere la stessa di quella che ha lasciato. Come immigrato – con il prefisso im a registrare il cambiamento del suo status in qualcuno non è più tenuto fuori in attesa – il senso del tempo che porta con sé è figlio di un’altra temporalità. La miriade di relazioni che essa ha come referente – le relazioni con il proprio popolo, con le tradizioni e i costumi, la lingua, persino l’ambiente della propria terra d’origine – la distinguono nettamente da quelle che informano tali relazioni nella comunità in cui si trova. Il suo tentativo di entrare in contatto con quest’ultima e di coinvolgersi nella quotidianità dello stare con gli altri è, quindi, inevitabilmente irto di tutte le difficoltà di traduzione tra accenti, inflessioni, sintassi e lessici... tra paradigmi, insomma. Tutto ciò che è creolo in una cultura non è altro che la prova del superamento creativo di queste difficoltà. Non è raro che la necessaria inadeguatezza di tale traduzione venga erroneamente diagnosticata come nostalgia. L’errore non sta solo nella contenuta implicazione patologica, ma soprattutto nell’incapacità di comprendere o anche solo prendere in considerazione il modo in cui il migrante si rapporta al proprio tempo in questo momento. Spinto dall’ansia, ha come orizzonte solo il futuro. “Che cosa mi succederà? Che cosa devo fare ora? Come posso stare con gli altri in questo mondo sconosciuto?” sono tutte riflessioni orientate verso ciò che verrà, piuttosto che ruminazioni su ciò che è stato finora. Privo di quel sostegno e di quella comprensione trovati nella comunità di origine, è completamente solo, senza un retroterra

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IL TEMPO DEL MIGRANTE 130

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Testo di un intervento al workshop presso l’Humanities Research Centre dell’Australian National University il 7 agosto 1995.

in cui rifugiarsi, ma solo con una prospettiva che gli si para davanti con la propria scoraggiante vastità e una nebulosità tanto promettente quanto allarmante. Tutto ciò che è in lui, e che lo rende ciò che è, è intrappolato ora – in questo momento – in una deriva inesorabilmente proiettata in avanti. Anche ciò che è stato finora è intrappolato in questa deriva, ma non come un peso morto trainato da una forza non sua: al contrario, è esso stesso costitutivo di quel movimento impetuoso che lo porta avanti. In quel movimento, il passato non galleggia passivamente come un pezzo di tempo congelato, ma funziona come esperienza attivata e investita dalla forza di una precipitazione. Non c’è in esso nulla dello sforzo disperato per ritrovare ciò che è andato perduto, ma solo una corrente continua in cui il passato è parte integrante del presente. L’allineamento del passato del migrante con la propria situazione nel flusso del suo essere verso un futuro avviene, quindi, non come processo di recupero ma di ripetizione. Lungi dall’essere morto, quel passato è rimasto incastonato nel suo tempo, pienamente vivo come un seme nel terreno, in attesa che la stagione del calore e della crescita lo porti a germogliare. In quanto tale, ciò che è stato non è altro che una potenzialità pronta a essere fertilizzata e reimpiegata. Anticipa il futuro e si offre all’uso e, attraverso questo, al rinnovamento come la materia stessa di ciò che verrà. Ecco perché il presente del migrante, il momento di quella marea in cui il suo passato orientato al futuro viene trasportato, attira invariabilmente l’attenzione su di sé in quanto figura di un’ambiguità. In qualsiasi momento, infatti, egli sembra ancora parlare con la voce della comunità in cui è nato nella sua prima lingua, anche se sta ovviamente acquisendo la lingua dell’altra comunità in cui sta per trovare una seconda casa. Anche in tutti gli altri aspetti del suo comportamento – il modo in cui si veste, lavora, mangia, parla e in generale si comporta nei rapporti quotidiani con gli altri – egli mescola idiomi e accenti e viene inquadrato come uno che sfida la traduzione, quindi la comprensione. Il nostro primo migrante vive perciò un dilemma temporale. Deve farsi riconoscere dai suoi simili nella comunità ospitante partecipando all’adesso della loro vita quotidiana. Ma tale partecipazione è resa difficile dal fatto che quanto è in essa anticipatorio e futuribile rischia di farlo apparire come un alieno, mentre tutto ciò che è passato sarà forse scambiato per nostalgia. Deve imparare a convivere con questo doppio legame finché la generazione successiva non arriverà sulla scena con il proprio tempo, sovradeterminando e quindi rivalutando la propria temporalità in un nuovo ciclo di conflitti e convergenze.2

RANAJIT GUHA

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POTENTIAL HISTORY: UNLEARNING IMPERIALISM, NEW YORK, VERSO, 2019.

È questo il senso del disimparare l’imperialismo. Significa disimparare la dissociazione che ha scatenato un movimento inarrestabile di migrazione (forzata) di oggetti e persone in diversi circuiti e la distruzione dei mondi di cui facevano parte.

ARIELLA AZOULAY


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STRĂINI DE PRETUTINDENI 133 STRANIERI OVUNQUE

le formazioni del moderno coloniale

La storia dell’arte dopo la globalizzazione:

Kobena Mercer Saggio pubblicato in K. Mercer, Travel and See: Black Diaspora Art Practices since the 1980s, Durham, Duke University Press, 2016, pp. 248-261.

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Stuart Hall, intervento Globalization, durante l’evento Cartographies of Power, 1 ottobre 2003, al Centre for Cultural Studies (CSS, Goldsmiths, London University), p. 194.

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Ivi, p. 193.

KOBENA MERCER

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L’espressione “moderno coloniale” è alquanto promettente perché suggerisce un nuovo approccio alla comprensione delle interrelazioni tra Modernismo e colonialismo. Nel tentativo di scoprire quali potrebbero essere le implicazioni per la storia dell’arte, con questo mio contributo vorrei esortare la riflessione sui tre termini affini al centro del dibattito – “modernismo”, “modernità” e “modernizzazione” – alla luce di quella che nella sociologia della cultura è nota come la tesi delle modernità multiple. Basandomi su esempi tratti dai testi di Annotating Art’s Histories, di recente completati in qualità di curatore di collana, il mio obiettivo è suggerire come potrebbero essere gli studi transculturali di storia dell’arte quando si conducono ricerche d’archivio “dopo” la globalizzazione. Se da un lato si ritiene che la globalizzazione sia un fenomeno intrinsecamente “nuovo”, riferito a un crescente senso di connessione mondiale determinato dalle nuove tecnologie, dall’altro la prospettiva alternativa della longue dureé ci offre il vantaggio di una tela molto più ampia su cui teorizzare le interazioni transculturali come variabile nella produzione sociale dell’arte. Nel descrivere le caratteristiche della globalizzazione contemporanea che sono effettivamente nuove – le imprese transnazionali, le economie neoliberiste, l’accresciuto ruolo delle tecnologie dell’informazione e delle industrie culturali – Stuart Hall sottolinea tuttavia che questa è solo la fase più recente di un processo a lungo termine. Nel suo schema di periodizzazione, “la quarta fase, poi, è quella attuale, che passa sotto il titolo di ‘Globalizzazione’ tout court (ma che, a mio avviso, va vista come una fase epocale in una durée storica più lunga)”1. Nel contesto della discussione sulla creolizzazione come modalità specifica di interculturalità derivante dalla colonizzazione e dalle migrazioni forzate, Hall afferma: “faccio risalire la globalizzazione al momento in cui l’Europa occidentale esce dal suo isolamento, alla fine del XV secolo, e inizia l’era dell’esplorazione e della conquista del mondo extraeuropeo”. Aggiungendo che “intorno al 1492 cominciamo a vedere questo progetto come dotato di carattere globale piuttosto che nazionale o continentale” e, nella sua interpretazione, questa prima fase della globalizzazione “coincide con l’inizio di quel processo che Karl Marx identifica come tentativo di costruire un mercato mondiale, il cui risultato è stato quello di porre il resto del mondo in un rapporto subordinato all’Europa e alla civiltà occidentale”2. Affermare che la globalizzazione non è una novità, e che è semplicemente la nostra comprensione intellettuale a essere cambiata negli ultimi anni, significa assumere una posizione critica nei confronti delle consuete ortodossie dell’attuale pensiero sulla differenza culturale nelle arti. Scegliendo di iniziare con idee volutamente di ampia portata, voglio trasmettere la mia percezione di ciò che è in gioco nel cambiamento di paradigma attualmente in corso nella storia dell’arte, a cui la serie Annotating Art’s Histories ha contribuito con alcuni piccoli passi. Ma l’ampia portata è utile anche a mettere in prospettiva quegli ostacoli al pensiero storico sulle dinamiche transculturali che devono essere affrontati a livello metateorico prima di poter modificare la nostra posizione rispetto all’archivio della modernità coloniale. Due di questi ostacoli possono essere rappresentati dai seguenti termini: “inclusionismo” e “presentismo”. Nella misura in cui la differenza è oggi ampiamente affrontata attraverso un’ideologia di inclusionismo multiculturale, c’è una forte tendenza a costruire un asse orizzontale che raccolga un numero sempre più ampio di identità al di sopra e al di là di un asse verticale che tenterebbe una spiegazione storica del loro reciproco intreccio. Nelle mostre di rassegna e nei libri di testo antologici, l’enfasi pervasiva sull’ampiezza orizzontale della copertura tende a de-storicizzare e appiattire le relazioni contraddittorie tra i diversi elementi riuniti in nome dell’inclusione. Ne risulta un’illusione di pienezza pluralista che presuppone che ciascuna delle parti coesista in una relazione fianco a fianco, con scarsa interazione o dinamismo.

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Ivi, pp. 293, 295.

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Is Art History Global?, a cura di J. Elkins, London, Routledge, 2007.

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Sugli approcci alla “world art”, si veda Compression vs. Expression. Containing and Explaining the World’s Art, a cura di J. Onians, New Haven (CT), Yale University Press, 2006.

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Cosmopolitan Modernisms, a cura di K. Mercer, Cambridge (MA), MIT Press, 2005.

8

V. Burgin, The Absence of Presence. Conceptualism and Postmodernisms, in The End of Art Theory. Criticism and Postmodernity, Londra, Macmillan, 1986, pp. 29-50.

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EACHTRANNAIGH I NGACH ÁIT

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N. Ratnam, Art and Globalisation, in Themes in Contemporary Art, a cura di G. Perry e P. Wood, New Haven (CT), Yale University Press, 2004.

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Laddove il linguaggio del multiculturalismo viene evocato per compensare le esclusioni del passato (come una sorta di soluzione a una crisi di legittimazione da parte delle istituzioni del mondo dell’arte), non solo troviamo l’idea secondo cui la diversità culturale è vista come una mera “novità” appartenente solo all’arte contemporanea, ma scopriamo anche che tale presentismo opera in modo insidioso per preservare i precedenti canoni dell’arte moderna, la cui autorità monoculturale rimane quindi intatta. Le conseguenze del presentismo astorico possono essere viste in un approccio conservatore all’ekphrasis descrittiva con cui i critici cercano di far coincidere la teorizzazione contemporanea della globalizzazione con le pratiche artistiche che presumibilmente incarnano tali concetti. Il capitolo di Niru Ratnam intitolato Art and Globalisation in Themes in Contemporary Art3, dedicato alle opere esposte a documenta11 nel 2002, inizia stimando la novità della teoria della globalizzazione, sottolineando che “rivela continuità con le pratiche e le teorie precedenti che esplorano l’eredità del colonialismo europeo”, ma poi liquida il rapporto tra globalizzazione e postcolonialismo sulla base della posizione di Negri e Hardt secondo cui, poiché “la prospettiva postcolonialista rimane principalmente interessata alla sovranità coloniale. [...] Può essere adatta per analizzare la storia, [ma] non è in grado di teorizzare le strutture globali contemporanee”4. Nei casi in cui la teoria prevale sulla realtà concreta dell’opera d’arte come oggetto di studio a sé stante, notiamo che l’arte viene ridotta all’illustrazione passiva di un concetto a cui il teorico è già arrivato, negandole così l’autonomia della propria intelligenza estetica. Inoltre, la storiografia tradizionale rimane integra e inalterata dall’incontro con altre discipline. Nella raccolta da lui curata Is Art History Global?5, James Elkins riunisce un gruppo internazionale di autori per discutere i cambiamenti epistemologici degli ultimi trent’anni, in cui la canonica ricerca di Erwin Panofsky, Arnold Hauser, Meyer Schapiro e altri viene soppiantata dal post strutturalismo, dal femminismo, dalla cultura visiva e dagli studi postcoloniali. Nell’affrontare il dibattito in termini così astratti, tuttavia, scopriamo che Elkins non discute affatto di opere d’arte vere e proprie. Inoltre, fondendo il tema della globalizzazione con la categoria di “world art”, il modello di studi d’area stabilito negli orientamenti antropologici e archeologici nei confronti dell’arte non occidentale conserva un’idea essenzialista di culture autonome come totalità discrete e delimitate, senza dare alcun conto delle loro interazioni. Quando il non occidentale viene confinato all’antichità premoderna, ci troviamo di fronte a un altro paradosso, ovvero che l’arte moderna, occidentale o meno, non trova posto all’interno della categoria di “world art”6. Come sostengo nell’introduzione a Cosmopolitan Modernisms7, la teoria postcoloniale (originata nell’ambito della ricerca letteraria) è essa stessa altamente colpevole della tendenza al teoreticismo. Avendo rivelato il ruolo costitutivo piuttosto che riflessivo della rappresentazione nelle costruzioni della realtà coloniale, l’enfasi sul posizionamento del Sé e dell’Altro ha portato a uno squilibrio per cui gli studi sull’alterità visiva nell’arte occidentale fanno costantemente riferimento all’Io imperiale, per così dire, in modo tale da mettere in ombra l’agency degli artisti coloniali e diasporici come creatori a pieno titolo di rappresentazioni. Facendo per un momento un passo indietro, si potrebbe osservare che la cosiddetta narrazione dominante dell’arte moderna è sotto attacco da quando l’arte concettuale ha messo in discussione il modello ottico della visualità, provocando una crisi del Modernismo in quanto tale8. Ma una cosa è smantellare un modo di vedere dominante, un’altra è proporre un’alternativa sostenibile. Più che suggerire un vero e proprio modello per lo studio delle relazioni transculturali nell’arte, la mia serie ha richiamato l’attenzione sui passi graduali e progressivi necessari per decostruire il dominio dell’universalismo formalista e nel contempo esplorare metodi che rifiutino le opposte tendenze del riduzionismo sociologico o contestuale. A titolo di esempio, possiamo osservare come la relazione Modernismo/colonialismo sia per lo più

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S. Gikandi, Picasso, Africa and the Schemata of Difference, in Modernism/Modernity, 10, 3, 2003, pp. 455-480.

10 In the Desert of Modernity, Berlino, HKW – Haus der Kulturen der Welt, 29 agosto - 26 ottobre 2008. 11 M. Crinson, Modern Architecture and the End of Empire, Farnham, Ashgate, 2003.

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affrontata all’interno dell’episteme della storia dell’arte a sua volta all’interno dell’ambito estremamente limitato del Primitivismo. Considerata la quantità di inchiostro versato sul tema delle Demoiselles d’Avignon (1907) di Picasso negli anni Ottanta e in seguito, si potrebbe affermare che il disconoscimento dei contesti coloniali del Primitivismo all’interno della narrazione formalista dei “prestiti” morfologici sia rimasto intoccato per ottant’anni buoni. L’idea di “forma significativa” proposta negli anni Venti dai critici di Bloomsbury Clive Bell e Roger Fry è stata scalzata dal privilegio epistemologico solo dal concetto psicoanalitico di feticismo che ha informato le letture di Picasso di Hal Foster (1985) e Simon Gikandi9, e dal concetto di James Clifford (1988) di circolazione di artefatti tribali nelle collezioni museali e in altri luoghi istituzionali di scambio all’interno del sistema artistico e culturale. Nei venticinque anni trascorsi da questo momento di svolta, è stato soprattutto il concetto di appropriazione a svolgere un ruolo trasformativo nella nostra interpretazione dell’agency e dell’autorialità subalterne; ma poiché tali concetti sono stati impiegati soprattutto in relazione all’arte contemporanea, è solo negli ultimi dieci anni circa che il suo potenziale di cambio di paradigma è stato attivato nella ricerca archivistica e storica. Forse più della pittura e della scultura, trovo che sia l’architettura a contribuire ulteriormente a rompere il monopolio interpretativo del Primitivismo sulla nostra comprensione del Modernismo e del colonialismo, dato che la mostra del 2008 In the Desert of Modernity10, come la serie da me curata, condivide una linea temporale di ricerca che comprende anche lavori come Modern Architecture and the End of Empire di Mark Crinson11. Da parte mia, partendo dalla premessa che la modernità definisce uno stato d’essere o una condizione di vita in cui elementi materiali e attori sociali disparati sono costantemente sradicati dalle loro origini e messi in contatto da proliferanti reti di commercio, viaggi e scambi di mercato, la serie Annotating Art’s History si proponeva di dimostrare che, lungi dall’essere limitato al Primitivismo, il dialogo transculturale gioca un ruolo significativo e onnipresente nella storia del Modernismo nel suo complesso. Da movimenti come il Surrealismo, attraverso i principali processi sottostanti come l’astrazione o il montaggio, fino alle fusioni “alto/basso” della Pop Art che hanno inaugurato la problematica del Postmodernismo, la differenza culturale non è aberrante, accidentale o “speciale”, bensì una variabile strutturale e persino una caratteristica normativa della produzione artistica nelle condizioni della modernità divenuta globale alla fine del XIX secolo. Il Modernismo, si potrebbe sostenere, è sempre stato multiculturale: è semplicemente cambiata la nostra consapevolezza. Ognuna delle rotture inaugurate dal Modernismo europeo intorno al 1910 è entrata in contatto con un sistema globale di flussi e scambi transnazionali: dalla concezione della pittura monocromatica di Malevič, plasmata dalla sua lettura della filosofia vedica e del misticismo indiano, ai readymade di Duchamp, che rispecchiavano la mobilità decontestualizzata degli artefatti tribali. Il Primitivismo modernista è forse il paradigma generico in cui questi scambi (ineguali) sono più visibili, ma una interpretazione più ampia della transculturalità come conseguenza della globalizzazione moderna comporta anche la necessità di mettere in discussione il modello ottico della visualità che determina il modo in cui le differenze culturali sono rese decifrabili come oggetti di studio “leggibili”. Poiché il pensiero attuale sulla globalizzazione sconvolge l’iniziale equivalenza tra modernizzazione e occidentalizzazione, esso interrompe la geometria classica di centro e periferia indispensabile ai precedenti approcci all’interno della sociologia dello sviluppo e della teoria marxista del sistema-mondo. L’assunto che diventare moderni significasse in qualsiasi momento diventare occidentali (e quindi rinunciare alla propria identità) è stato completamente minato dalla consapevolezza dell’azione di appropriazione selettiva da parte di attori sociali che erano sì subordinati all’egemonia del centro occidentale dal punto di vista economico e

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13 D. Morley, EurAm, Modernity, Reason and Alterity, in Stuart Hall. Critical Dialogues in Cultural Studies, a cura di D. Morley e K.H. Chen, Abingdon (OX), Routledge, 1996, p. 349. 14 H.J. Booth, N. Rigby, Modernism and Empire, Manchester, Manchester University Press, 2000, p. 28.

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12 Global Modernities, a cura di M. Featherstone, S. Lash, R. Robertson, New York, SAGE, 1995.

politico, ma che tuttavia esercitavano scelte su ciò che adattavano e ciò che rifiutavano nello spazio dell’incontro transculturale. Mentre le teorie precedenti vedevano nella globalizzazione imperialista un rullo compressore che eliminava in toto le differenze locali, tribali e indigene, l’agency di adattamento da parte dei colonizzati rendeva l’esperienza vissuta del colonialismo un fenomeno contraddittorio su tutti i fronti, creando così molteplici terreni di resistenza, antagonismo e negoziazione. Questa enfasi sul reciproco intreccio di forze contraddittorie è ciò che distingue la tesi delle modernità multiple. Con la maggiore attenzione data ai processi spaziali della globalizzazione nel lavoro dell’urbanista Anthony King (2011), insieme agli studi di Arjun Appadurai (1996) sugli adattamenti localizzati di beni materiali e simbolici nella circolazione globale e al resoconto di Ulf Hannerz (1996) sui flussi transnazionali, la gamma di prospettive analitiche riunite in Global Modernities da Featherstone, Lash e Robertson (1995)12 ha segnato un punto di svolta nella sociologia della cultura, ulteriormente sviluppato da Jan Nederveen Pieterse (2004). Lungi dal tradursi in una bagarre pluralista in cui ci sono tutti i modernismi che si vogliono, l’attenzione che la tesi delle modernità multiple presta alle complesse dinamiche di struttura e agentività dimostra che il processo di modernizzazione come occidentalizzazione raramente si è tradotto in uno stato pienamente raggiunto o finalizzato di soggettivazione coloniale, perché costantemente reso ambivalente dall’agonismo generativo del potere e della resistenza. Quando vengono raccontati come una narrazione che si propaga da un centro unitario, i processi materiali della modernizzazione – l’applicazione della conoscenza scientifica alle tecnologie di infrastruttura sociale e di creazione di ricchezza che agiscono come motori del “progresso” – sono spesso confusi con la condizione filosofica della modernità. Si tratta dell’esperienza vissuta o della soggettività dell’individuo atomizzato che si ritiene caratterizzi l’autocoscienza razionalista associata alla secolarizzazione. Tuttavia, disaccoppiando l’equazione tra modernità e Occidente, la teoria contemporanea della globalizzazione richiede un’indagine storica sulle formazioni combinatorie in base alle quali alcuni aspetti del processo oggettivo di modernizzazione sono stati accettati mentre alcune caratteristiche soggettive della modernità sono state deselezionate. Sebbene non sia mai stato colonizzato, il Giappone imperiale ha accettato la modernizzazione nella scienza e nella tecnologia, ma non la democrazia in politica; le nazioni arabe del Medio Oriente hanno analogamente adottato l’infrastruttura capitalista, pur mantenendo le tradizioni religiose invece dell’individualismo. Mentre l’ideologia eurocentrica raccontava la storia come una sequenza lineare dal Rinascimento e dalla Riforma all’Illuminismo e alla Rivoluzione industriale, l’alternativa è quella di disaggregare concettualmente i processi costitutivi, come spiega David Morley nel contesto della metodologia degli studi culturali: “L’associazione tra Occidente e modernità deve essere vista come radicalmente contingente in termini storici. Se non c’è una relazione necessaria tra questi termini, allora ne consegue che opporsi a uno dei due non significa necessariamente opporsi all’altro”13. Riprendendo nella loro storia letteraria il rapporto Modernismo/colonialismo, Booth e Rigby aggiungono: “Questo significherebbe, ad esempio, che la modernità potrebbe essere […] accolta con favore nel mondo non occidentale, anche se la forma precisa che assume in Occidente, o il modo in cui l’Occidente la promuove o la esporta, potrebbe essere veementemente contrastata”. È quindi altrettanto importante tenere a mente le disgiunzioni per cui, “invece di pensare l’impero come attivamente coinvolto nell’esportazione o nella diffusione del Modernismo (che agli occhi degli imperialisti. […] potrebbe essere ideologicamente o politicamente sospetto), potremmo vederlo come esportatore di modernità”14. Inteso come risposta della cultura alle difficoltà e ai dilemmi sollevati dall’esperienza vissuta della modernizzazione,

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15 P. Mitter, Reflections on Modern Art and National Identity in Colonial India. An Interview, in Cosmopolitan Modernisms, cit., p. 42.

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16 I. McLean, Aboriginal Modernism in Central Australia, in Annotating Art’s Histories. Exiles, Diasporas, and Strangers, a cura di K. Mercer, Cambridge (MA), 2008, p. 92.

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il Modernismo non è stato solo un fenomeno a più voci all’interno dell’Occidente – a volte celebrando l’età delle macchine, a volte articolando una critica dell’alienazione capitalistica –, ma si è ulteriormente frammentato nell’involucro della modernità coloniale, dove la realtà esportata dello Stato–nazione ha costituito una frontiera decisiva dell’agonismo culturale e politico. Nel contesto delle lotte anticoloniali in India, Partha Mitter osserva che la circolazione delle idee moderniste in seguito alla mostra del 1922 degli artisti del Bauhaus a Calcutta (tra cui Vasilij Kandinskij e Paul Klee) ha svolto un ruolo catalizzatore per la sperimentazione pittorica di Gaganendranath Tagore, Amrita Sher–Gil e Jamini Roy, che a suo avviso hanno espresso una variante del Primitivismo che ha agito come controdiscorso della modernità. Mentre gli artisti nazionalisti degli anni Novanta del XIX secolo, come Raja Ravi Varma e la Scuola del Bengala, abbracciavano il naturalismo accademico e inserivano contenuti indigeni, la rottura formale con la verosimiglianza da parte dei modernisti indiani combinava elementi locali e globali per forgiare un cosmopolitismo in cui veniva rimossa la logica binarista dell’imperialismo e del nazionalismo. Poiché “le stesse ambiguità del primitivismo fornivano un potente strumento per sfidare i valori e i presupposti della moderna civiltà industriale, cioè dell’Occidente”, per Mitter la sua presenza nel primo Modernismo indiano costituisce una “tendenza contro-moderna piuttosto che anti-moderna, perché è davvero la sorella gemella della modernità, il suo alter ego; è al suo interno e tuttavia la mette continuamente in discussione”. Laddove le tradizioni indigene dell’intellighenzia bengalese hanno creato condizioni favorevoli alla ricezione del Modernismo, l’azione di appropriazione ha prodotto trasformazioni semiotiche del “primitivo”. Come aggiunge Mitter, “penso al Mahatma Gandhi, in questo senso, come al più profondo critico primitivista del capitalismo occidentale. Ha plasmato la filosofia della resistenza non violenta e l’autosufficienza della vita di villaggio in India, simboleggiata dall’umile arcolaio, a partire da elementi associati al discorso del primitivismo”15. All’interno della stessa linea temporale che va dagli anni Novanta del XIX secolo agli anni Venti del XX secolo, Ian McLean esamina le formazioni del Modernismo coloniale e del Modernismo anticoloniale nell’Australia aborigena. Rompendo con la visione standard secondo cui l’arte moderna degli artisti aborigeni sarebbe iniziata con l’uso della tela e dei colori acrilici solo negli anni Settanta, McLean sostiene che la risposta artistica alla modernità occidentale sia iniziata al momento del primo contatto con le remote comunità del deserto alla fine del XIX secolo. Le danze cerimoniali accoglievano i visitatori europei con atti di mimica performativa. Le sculture sacre venivano riadattate a scopi secolari nei loro “motivi esterni” in maniera volta a educare gli stranieri bianchi pur contenendo “segreti interni” noti solo agli iniziati. Negli anni Trenta, Albert Namitjira produceva paesaggi ad acquerello; sebbene la sua maestria tecnica lo rendessero inautentico agli occhi degli eurocentrici, McLean rivela come le sue scelte “rivendichino la propria eredità aborigena, in particolare i siti sacri arrernte”. McLean accetta che la modernizzazione esportata abbia stabilito una condizione universale o mondiale, ma insiste sul fatto che “lungi dall’essere una costruzione puramente occidentale o europea, la modernità è un modo di vivere che ha messo radici in molte tradizioni, comprese quelle spesso considerate antitetiche ad essa”16. Rifiutando quindi l’idea che le popolazioni e le culture indigene siano state passivamente “vittime” della modernità come “invasore alieno”, McLean pone l’accento sulle logiche combinatorie dell’ibridazione nella risposta dell’arte: Gli effetti apocalittici della modernità su tutte le società tradizionali, comprese quelle aborigene, sono innegabili. Tuttavia, questo ragionamento scivola facilmente in una logica binaria che appiattisce le ambiguità dell’incontro coloniale e mette a tacere gli adattamenti storici dei colonizzati, colonizzandoli di nuovo. Questa logica binaria è la ragione principale per cui i critici occidentali hanno

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20 P. Gilroy, The Black Atlantic. Modernity and Double­ Consciousness, Cambridge (MA), Harvard University Press, 1993.

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Come terzo esempio di moderno coloniale citerei la Adinembo House, costruita nel delta del Niger tra il 1919 e il 1924 dall’architetto nigeriano James Onwudinjo, che è al centro del contributo di Ikem Stanley Okoye nel quarto volume della mia serie, Exiles, Diasporas & Strangers. Osservando come il tetto piatto dell’edificio crei un duplice contrasto con i materiali di argilla e paglia delle abitazioni indigene e con i mattoni dell’architettura coloniale britannica, Okoye dedica attenzione all’uso del cemento armato come tecnologia “straniera” che trovò un ambiente ricettivo nell’élite locale, compreso il ricco commerciante Igbo che aveva commissionato la casa. Se Okoye evidenzia gli elementi decorativi e ornamentali delle pareti esterne in contrapposizione ad Adolf Loos, il punto chiave è la sovrapposizione temporale in cui gli architetti modernisti in Austria e in Africa occidentale esploravano temi simili18. I miei personali contributi alla serie si sono concentrati sulla moderna diaspora nera, dai pittori astratti caraibici dell’epoca del New Commonwealth, come Aubrey Williams e Frank Bowling, ai collage di Romare Bearden nella scena afroamericana degli anni Sessanta. In un certo senso, in quanto prodotti di migrazioni forzate, le diaspore sono molto diverse dalle colonie: in queste ultime la terra ti è stata portata via, mentre nelle prime sei tu ad essere stato portato via dalla tua terra. Ma con i metodi aperti dal concetto di Paul Gilroy di Black Atlantic come spazio circolatorio dei flussi migratori, lo studio della modernità diasporica fornisce un nuovo punto di accesso all’archivio, con risultati a volte sorprendenti. Le indagini di Richard Powell (2001) e Sharon Patton (1999) riconoscono le dimensioni globali con cui la blackness tende a travalicare i confini territoriali della nazionalità, ampliando così la portata dei precedenti lavori di Samella Lewis e David Driskell, e dell’enciclopedia scritta da Romare Bearden insieme a Harry Henderson, con cui si inaugurava la storia dell’arte afroamericana come campo di studio distinto19. Ed è qui che si tende a considerare il Rinascimento di Harlem come momento di origine del Modernismo nero, ma con questo concetto più ampio di modernità non solo vediamo i mezzi visivi come la fotografia un luogo chiave in cui la rappresentazione dell’individualità autonoma è stata messa in scena dopo l’abolizione della schiavitù, ma cominciamo a notare che fu anche nei primi anni Novanta dell’Ottocento che tra gli intellettuali afroamericani come W.E.B. Du Bois si generò un particolare discorso filosofico di autoindagine. Du Bois partecipò all’Esposizione Universale di Parigi nel 1900, dove si recò per supervisionare l’installazione dell’American Negro Exhibit, una collezione di fotografie, mappe, libri, diari e grafici scientifici che documentavano le sue ricerche all’Università di Atlanta. Le fiere mondiali e le esposizioni internazionali sono ampiamente studiate come spettacoli del potere imperiale – e nel Dahomey Village, all’interno del padiglione francese, gli africani furono messi in mostra nel 1900 come esemplari viventi dell’alterità –, ma quanto più ricca sarebbe la nostra comprensione di questi contestati siti della globalità se includessimo nel calcolo la simultanea presenza di soggetti afroamericani della diaspora? Ciò che Du Bois esponeva, a dire il vero, non era arte ma informazione; tuttavia, i documenti di auto-miglioramento presentati nell’American Negro Exhibit erano da lui stesso intesi come manifestazione dell’auto-modernizzazione nera. Le reti di viaggio del XIX secolo che aprirono la strada al Congresso panafricano (la cui prima riunione, con la presenza dello stesso Du Bois, si tenne a Londra nel 1900) ci spingono a concettualizzare il Black Atlantic come “controcultura della modernità”20 non solo nella musica e nella letteratura, ma anche nelle arti visive.

FRÄMLINGAR ÖVERALLT

19 S. Lewis, Art: African American, New York, Harcourt Brace Jovanovich, 1978; D. Driskell, Two Centuries of Black American Art, catalogo della mostra (Los Angeles, Los Angeles County Museum of Art, 1976), New York, Random House, 1976; R. Bearden, H. Henderson, A History of African­American Artists, from 1792 to the Present, New York, Pantheon, 1993.

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18 I.S. Okoye, Unmapped Trajectories. Early Sculpture and Architecture of a “Nigerian” Modernity, in Annotating Art’s Histories. Exiles, Diasporas, & Strangers, cit., pp. 28-44.

avuto difficoltà ad accettare il Modernismo dell’arte non occidentale e soprattutto tribale. In realtà, gli agenti della tradizione hanno fatto quello che hanno sempre fatto: si sono adattati e adeguati al nuovo, appropriandosi persino di alcune delle sue idee. Certo, l’adattamento è stato spesso accidentato e a volte contraddittorio, ma la storia del Modernismo aborigeno è la storia di questo adattamento17.

STRANIERI OVUNQUE

17 I. McLean, Aboriginal Modernism, cit. p. 76.

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LA STORIA DELL’ARTE DOPO LA GLOBALIZZAZIONE 140

21 Stuart Hall, Globalization, cit., p. 194.

KOBENA MERCER

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I discorsi dominanti dell’internazionalismo, concepiti per stabilire le condizioni di competizione capitalistica tra Stati-nazione rivali (che, secondo Hall, definisce la seconda fase della globalizzazione fino alla catastrofe imperialista della Prima guerra mondiale) erano essi stessi messi in ombra e antagonizzati da un internazionalismo dal basso, di cui gli spazi del Black Atlantic costituiscono un modello esemplare. I viaggi transatlantici degli artisti afroamericani a Parigi negli anni Trenta erano stati prefigurati nel XIX secolo dalla scultrice Mary Edmonia Lewis e dal pittore Henry Ossawa Tanner, la cui opera non era di per sé modernista, pur essendo impegnata in una riflessione consapevole sui dilemmi della vita in condizioni di modernità diasporica. Rivisitare il periodo formativo che va dagli anni Novanta del XIX secolo agli anni Venti del XX secolo attraverso la lente delle molteplici formazioni del Modernismo su scala globale ci offre ora l’opportunità di esaminare come ognuna di queste varianti interculturali sia stata strutturata in termini di dominanza e subordinazione. In altre parole, possiamo pensare alla genealogia del Modernismo non come a una storia “internalista” o autogenerata che inizia e finisce solo in Occidente, ma come alla narrazione di un momento decisivo in cui le contraddizioni trainanti della congiuntura globale moderna hanno dato origine a molte forme diverse di produzione artistica. Dopo avere accennato alle appropriazioni anticoloniali che hanno generato un Modernismo cosmopolita che ha rifiutato il neotradizionalismo e il nazionalismo, e a una modernità diasporica percorsa dai viaggi transnazionali di artisti neri che hanno agito come cittadini del mondo, va sottolineato che la storia dell’arte sta iniziando solo ora – con estremo ritardo – a giungere a una vera comprensione universalistica della logica della transculturazione nelle arti visive. Nel periodizzare la globalizzazione, Hall caratterizza “la terza fase, culminante nel secondo dopoguerra”, come contraddistinta dal “declino dei vecchi imperi basati sull’Europa, dall’era dei movimenti di indipendenza nazionale e della decolonizzazione”, che “coincide con la rottura di un intero quadro epistemologico visivo e concettuale che chiamiamo ‘Modernismo’. Il Modernismo segue l’indice più ampio spostandosi dalle sue origini nell’Europa di fine secolo agli Stati Uniti”21. Nella temporalità traumatica della nachträglichkeit – cioè dell’azione differita, o della posteriorità – l’embricatura interdipendente o co-costitutiva di Modernismo e colonialismo è diventata visibile solo con la rottura del consenso egemonico, provocata dal “post” nel Postmodernismo e nel postcolonialismo. Sebbene i concetti di ibridità siano presto usciti dal ciclo della moda metropolitana, la tesi della modernità multipla ci spinge a riesaminare l’intera gamma dei termini a essa correlati – creolizzazione, sincretismo, traduzione, dialogismo – come risorse concettuali per mappare la logica della transculturazione nelle arti visive. Chiarendo le diverse combinazioni di modernizzazione e modernità in specifiche congiunture del globale, possiamo avvicinarci a una visione più completa del Modernismo come pratica artistica di creazione del mondo che è sempre stata guidata dalla transculturalità.

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NEL CORSO DI UN’INTERVISTA ALLA TV-KULTURAFDELINGEN DANMARKS RADIO, 1987.

Da quando vi abbiamo incontrato, gente, cinquecento anni fa, guardateci. Noi abbiamo dato tutto, voi state ancora prendendo. Voglio dire, dove sarebbe l’intero mondo occidentale senza noi africani? Il nostro cacao, il legname, l’oro, i diamanti, il platino, eccetera. Tutto quello che avete è nostro. Non lo dico io, è un dato di fatto, e in cambio di tutto questo che cosa abbiamo? Niente.

AMA ATA AIDOO


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STRANIERI IN OGNI LOCU 143 STRANIERI OVUNQUE

Naine Terena de Jesus

L’artigianato e il corpo sociale indigeno

Questo saggio è stato originariamente pubblicato come N. Terena de Jesus, Artesanato e o corpo social dos indígenas, in Arte indígena no Brasil midiatização, apagamentos e ritos de passagem, Cuiabá, Oráculo Comunica, 2022.

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L’ARTIGIANATO E IL CORPO SOCIALE INDIGENO

“Ma questa non è arte contemporanea. Assomiglia a quelle cose che gli indigeni vendono ai semafori delle città”. (Un giorno guardando i social media, novembre 2022)

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Ma che cos’è l’arte indigena? Artigianato, manufatti, arte indigena contemporanea. Il processo di ibridazione fra artigianato indigeno ed elementi non indigeni deve essere preso in considerazione se vogliamo pensare all’esistenza di una definizione di arte, ammesso che si riesca a trovare un termine comune. Questa analisi può essere condotta da diverse prospettive, dal punto di vista dell’economia, dei media e delle discipline artistiche. In poche parole, potremmo semplificare come arte quei prodotti riconosciuti da persone non indigene specializzate in materia che li validano, e che quindi possono essere presenti nei luoghi in cui si muove l’arte contemporanea. Oppure potremmo dedurre che sono quei prodotti che si possono accostare ai linguaggi e ai mezzi artistici conosciuti dal sistema dell’arte non indigeno, che quindi vengono assorbiti più rapidamente. Per quanto riguarda gli aspetti comunitari e sociali, tuttavia, dobbiamo preoccuparci un po’ di più del significato di questa iniziale affermazione. Un giorno ho chiesto a una parente indigena se nella sua comunità ci fossero donne che dipingevano. Mi disse che molte, se non tutte, lo facevano. Ma alcune erano all’università e studiavano arti visive. Questa preziosa informazione mi ha immediatamente fatta riflettere. Mi sembrava di adottare i modelli di differenziazione fra l’artigiana e l’artista – dal cortile del villaggio all’accademia – in cui tecnica e aspetti accademici vengono enfatizzati rispetto alla tecnica originale. Mi sono resa conto di aver commesso un errore e ho riformulato la mia richiesta: “Chiedi alle donne del tuo territorio, quelle che si considerano artiste, di mettersi in contatto con me”. In questo modo, delegavo la comprensione dell’arte e dell’artista alle relazioni vissute nel territorio e da ciascuna di queste donne, tenendo conto del contesto delle persone, degli incroci e del loro personale percorso. Per questo motivo, in questo testo mi riferisco come artiste-artigiane a coloro che sono considerate artigiane, per fare alcune considerazioni sullo spazio sociale assegnato a queste artiste indigene.

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DAPERTÜTU STRANGEI

Tutte queste riflessioni per dire che non voglio che il contenuto delle nostre produzioni indigene venga frammentato e inserito in dispute su narrazioni costruite su che cosa è l’arte che nasce dalla creatività e dal pensiero intellettuale – bianco1 – ed è avallata da registi, critici e spazi specializzati nelle arti. Tanto meno che si moltiplichi il discorso secondo cui le nostre produzioni artistiche sono quelle cose “vendute ai semafori delle strade cittadine”. Per noi indigeni, va ribadito, le nostre percezioni devono essere più solide rispetto a ciò che facciamo, anche se significa comprendere i linguaggi in cui le nostre produzioni finiscono per essere inquadrate nel sistema non indigeno. Che cos’è l’arte indigena, a me familiare? Le risposte sono talmente tante che non riuscirei a raccogliere tutte quelle sentite in questi anni investiti a seguire processi e attività. L’artigiano e l’artigianato, o forse i manufatti, restano associati alla ripetizione che non lascia spazio alla creatività, all’intelligenza e alle idee. Da un punto di vista economico, è noto che quanto considerato arte e ciò che è ritenuto artigianato abbiano un mercato che genera reddito per le famiglie. Si tratta di un importante dato, da non trascurare quando si pensa ai percorsi di queste produzioni. Va sottolineato che, proprio come per gli artisti non indigeni, anche “guadagnarsi da vivere con le arti” è una sfida. Ma per le popolazioni indigene questa sfida può essere molto più grande, perché implica la totale mancanza di conoscenza dei gruppi etnici e della loro diversità, il che porta a un restringimento dei pensieri e a un’omogeneizzazione dei modi di vedere e fare arte. In questo modo, solo ciò che un artista-pensatore propone viene assunto a verità. Nel dire questo, dobbiamo tenere presente che non tutti gli artisti indigeni saranno in grado di salire sulla scena artistica contemporanea in termini di visibilità e di mercato. Ricordiamo che gli artisti-artigiani indigeni hanno trascorso decenni a vendere la propria arte, che costituisce la base finanziaria delle loro famiglie, spesso senza alcun tipo di rispetto per la loro capacità e la loro identità. E dove sta l’inconveniente in questo discorso? Sicuramente nella costruzione politica e nell’immaginario riguardante le potenzialità e i luoghi degli artigiani e degli artisti. Esiste una responsabilità educativa e sociale del mercato dell’arte nei confronti delle popolazioni indigene? In questo gioco delle sedie, la posizione sociale dell’artista e dell’artigiano indigeno compone una scena in cui la gerarchia o la categorizzazione definisce gli spazi per ciascuno secondo un sistema di valori non indigeno. Questa posizione sociale dell’artista-artigiano viene continuamente banalizzata e marginalizzata tra i non indigeni, minando le capacità e favorendo la scomparsa del corpo sociale degli indigeni, i quali sono indubbiamente agenti che producono e mantengono tecniche, memorie, etno-conoscenze, sapere artistico ed esperienze. Ribadendo l’opposizione fra tradizione e innovazione, viene loro negato anche il luogo dell’innovazione. Ciò che possiamo vedere con sguardo più attento è che, nel contesto indigeno, innovare significa mantenere quanto è conosciuto come tradizione, di fronte alla pressione e al restringimento delle pratiche culturali, di fronte all’avanzata delle mega-imprese, delle metropoli e del consumismo. Innovare significa continuare a essere ciò che si è. Promuovere una creazione più vicina al linguaggio non indigeno o, al contrario, concentrarsi sulle manifestazioni che si perpetuano di generazione in generazione, non squalifica il lavoro degli indigeni di oggi. Di nessuno di loro. Queste dovrebbero essere una preoccupazione e una pratica tra chi crea e il pubblico che riceve, perché entrambi sono mediatori culturali. Intendo dire che i parenti indigeni dovrebbero riflettere in modo molto coerente sul fatto che adattano le proprie produzioni per ottenere visibilità mediatica o per ottenere una maggiore copertura finanziaria e che ciò potrebbe diventare un peso collettivo per le generazioni future. Se l’installazione contemporanea realizzata dall’artista indigeno racconta una storia, o molte storie, l’ancestrale

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Uso il termine “bianco” per riferirmi al modo in cui molti di noi indigeni si riferiscono ai non indigeni.

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ceramica in argilla – prodotta secondo i codici di produzione stabiliti da un determinato popolo – contiene in sé anche processi, piaceri, dialoghi e rimandi, assumendo molteplici funzioni che vanno dall’aspetto utilitaristico allo status di oggetto d’arte, a seconda della nicchia in cui viene presentata. Infine, si potrebbe immaginare un discorso più approfondito sull’incrocio di queste produzioni in campi come il design, la moda e altre categorie che ne aumenterebbero il valore sia simbolico che commerciale. In una certa misura, questo sta già accadendo. L’adozione di alcune categorie come moda, arredamento o gioielleria ecosostenibile riposiziona queste produzioni come arte, derivante dalla dedizione di chi le produce e dal rigore della loro creazione estetica. In questi campi si assiste anche a un riconoscimento delle produzioni, soprattutto grazie alla moltiplicazione dei modelli che si stanno diffondendo tra gli artisti indigeni, come appunto la gioielleria ecosostenibile. Si tratta forse di un argomento di discussione plausibile: l’appartenenza dei pezzi prodotti e quanto questo incida sul pubblico dei consumatori. Un giorno qualcuno ha commentato su un social network il fatto che un gioiello esposto non appartenesse alle persone a cui era collegato nel negozio. Il problema in questo caso era più ampio, trattandosi di un negozio che vendeva prodotti di diversi popoli, ma con il nome commerciale di una sola persona, il che riflette le narrazioni virtuali, le distorsioni dell’immagine postata e la mancanza di identificazione del contesto in cui i pezzi sono stati prodotti. L’identificazione è necessaria per spiegare che, in senso più pratico, assieme ai pezzi viene venduto il loro valore simbolico: la storia di un popolo, il suo stile, la sua origine, ecc. Anche se vengono prodotti diversi pezzi simili, essi saranno sempre portatori di storie. Anche se l’artista-artigiano sa dove andranno a finire i suoi pezzi una volta completati, si tratta di un viaggio irto di temporalità e competenze artistiche che rendono il processo sempre diverso pur dando luogo a pezzi identici. A partire dalle diverse produzioni e dal loro riconoscimento pubblico, si esercita la dignità umana e il posto sociale di tutti i popoli indigeni, come umanità dotata di conoscenza, tecnologia e memoria.

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LA CADUTA DEL CIELO: PAROLE DI UNO SCIAMANO YANOMAMI. TRADUZIONE DI ALESSANDRO PALMIERI E ALESSANDRO LUCERA, MILANO, NOTTETEMPO, 2018.

La foresta è viva. Può morire solo se i bianchi si ostinano a distruggerla. Se ci riusciranno, i fiumi scompariranno nel sottosuolo, il suolo si sgretolerà, gli alberi si raggrinziranno e le pietre si spaccheranno per il calore. La terra inaridita diventerà vuota e silenziosa. Gli spiriti xapiri che scendono dalle montagne per giocare sui loro specchi nella foresta fuggiranno lontano. I loro padri sciamani non potranno più chiamarli e farli danzare per proteggerci. Non potranno più respingere i fumi epidemici che ci divorano. Non saranno più in grado di trattenere gli esseri malvagi che trasformeranno la foresta in caos. Moriremo uno dopo l’altro, sia i bianchi che noi. Alla fine tutti gli sciamani periranno. Poi, se nessuno di loro sopravviverà per reggerlo, il cielo cadrà.

DAVI KOPENAWA


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外国人无处不在 149 STRANIERI OVUNQUE

L’arte indigena contemporanea come trappola per trappole

Jaider Esbell Questo saggio è stato pubblicato per la prima volta online da Galeria Jaider Esbell il 9 settembre 2020.

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L’ARTE INDIGENA CONTEMPORANEA COME TRAPPOLA PER TRAPPOLE 150 JAIDER ESBELL

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Prima di ogni altra questione, voglio sottolineare la legittimità di questo saggio. Ritengo, anzi spero, che debba essere considerato importante da tutti coloro che si interrogano sul termine, sulla sua negazione o addirittura sulla sua esaltazione. Scrivere sull’argomento è un’attività legittima proprio da questa prospettiva: io vivente, artista, indigeno e autonomo. Per un intero decennio mi sono completamente dedicato a pensare alla mia arte come parte di un ampio sistema politico e strategico. I suoi limiti sono volutamente sfumati, affinché un giorno possano essere collocati in un contesto di equivalenza, per dare luogo a reali possibilità di dialogo con i movimenti già diffusi. Da dove mi trovo, non posso né affermare né negare nulla. Né l’intenzione della mia scrittura va oltre i confini del proprio lavoro. Non ricopro una cattedra all’interno di un’influente accademia, ma nel corso degli anni mi sono reso conto che questi spazi esistono già e che costruiscono teorie per poi diffonderle secondo le proprie strutture e motivazioni. Sono nato in un ambiente ricco di creatività, o di inanizione se avessi ceduto agli inviti dell’auto-annientamento. Sono venuto al mondo già distorto. Uso la parola “distorto” con riserve e licenze, perché a questo primo livello non posso fare a meno di riferirmi all’arrivo e all’azione degli invasori europei sulle dinamiche specifiche delle popolazioni indigene di queste terre oggi rivendicate. Riflettiamo allora per un momento sull’argomento di questo testo. Trappola per trappole. Sistemi di potere. Concetti coloniali. Pratiche mescolate a valori e riferimenti. Identità e autocoscienza. Funzione, forma e contenuto. La questione del territorio e della territorialità da questo punto di vista, ripeto: io, artista vivente di discendenza makuxi, un popolo con un ampio movimento politico ed estetico socio-interattivo ed espansionistico che è stato un punto di riferimento ben prima dell’arrivo degli invasori “bianchi”, un punto che anch’io ho voluto segnare. Quando nasci dove e come sono nato io, non hai molta scelta se non quella di cercare di diventare te stesso, e questo presuppone negare non esattamente chi sei, ma ciò che volevano che tu fossi. La prima resistenza viene dall’interno della casa. Il modo in cui sono stato cresciuto non era affatto vicino alla prima violenza, è solo che il mio corpo non mi appartiene se non lo vedo come un’estensione di accumuli storici. La violenza è un’energia propagata di portata quasi irrintracciabile, ma è così. A un certo punto, dobbiamo ampliare la nostra lettura del mondo per essere minimamente corretti nei confronti di ciò che stiamo studiando. Immaginate gli effetti di cinquecento anni su una popolazione che assimila e de-assimila in continuazione. Non riuscivo a impedirmi di mettere in discussione i modi in cui mi veniva imposta l’idea di educazione. La rivolta, che ora comprendo meglio, non è stata una questione di pochi anni, bensì di secoli e, su un altro piano, di millenni di disturbi emotivi non curati che si accumulano e si proiettano sempre più efficacemente sui modelli generali ufficiali e su altre forze dei propri tempi. Sono nato alla fine del regime dittatoriale. In un certo senso, ho avuto il privilegio di nascere nella culla della violenza e di poterne vedere, come primo paesaggio, il volto. Come secondo paesaggio, sono stato in grado di formare dentro di me dei mondi a partire da frammenti. In un simile momento mi è stata presentata una narrazione apparentemente rigida, arrotondata e limitata, in cui tutti i fattori confluiscono per dare corso ad altri codici genetici, per così dire. Sentir parlare del grande albero mi ha portato in mondi lontani. Era una notte d’estate, il cielo era senza luna e potevo sentire la Via Lattea. Ho iniziato a guardare tutti i tipi di alberi e osservare ogni tipo di traccia, a rivoltare le rocce, entrare nelle fessure, a scavare ed estrarre tutto. Sicuramente non sarebbe successo nulla di particolare

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E IAI TAGATA MAI FAFO I SOO SE MEA 151 STRANIERI OVUNQUE

nella mia vita se la storia mi fosse stata presentata in un altro modo, da qualcun altro e in un altro momento. Ma era dove oggi si trova la nostra terra, la terra indigena Raposa Serra do Sol. A parlarmene è stato mio nonno, un eccellente narratore di storie giocose e fantastiche. Ma era uno schiavo nelle fattorie degli stranieri che usurpavano il nostro mondo con le migliori intenzioni: le loro e per loro. Non potevo immaginare che questo fosse uno scenario possibile. Che le pelli di vacca su cui eravamo sdraiati fossero le impronte della colonizzazione e della guerra per le terre che già ci erano estranee, perché per ordine nazionale non ci appartenevano, come è ancora e come credo per sempre sarà. Molto tempo fa qui c’era un grande albero. Aveva tutti i tipi di frutta... Come potevo trovare normale dover andare a scuola e non poter accompagnare i miei parenti nel loro lavoro comunitario e godere così del vero sapere costituito dalla nostra lingua e dalle nostre tradizioni? Con chi potevo parlare dei grandi problemi che mi affliggevano se i miei docenti sapevano solo insegnare l’alfabetizzazione e non avevano tempo per i miei pensieri in aria, perché i loro erano fissi sulla dichiarazione dei redditi? Ognuno nel proprio mondo e io in un altro ancora, più lontano, a scarabocchiare pensieri immaginari mentre la classe versava lacrime per imparare a scrivere il proprio nome. Oggi posso dire che è stata l’arte a raggiungermi. Ed è questo il ritmo che ho tenuto in tutti questi anni: un movimento costante di attraversamento dei sensi percorrendo un margine molto stretto, quei luoghi invisibili percorsi solo dagli esploratori più astuti. Sono diventato esploratore in un luogo dove tutto veniva esplorato. Ho dovuto affrontare la paura, la timidezza, la tristezza, la solitudine e l’apatia. Lì la terra non era più sfruttata per l’agricoltura familiare comunitaria, ma per le grandi aziende. Agricoltura monoculturale. Esploravano la terra per estrarre minerali, legname, terreni per grandi allevamenti di bestiame che non si vedeva dove andassero. Esploravano la terra a caccia di manodopera. Esploravano la terra per diffondere la miscegenazione in modi perversi, da inganni e promesse a stupri violenti nelle campagne lontane, che immaginavano nessuno sarebbe stato in grado di rivelare. E così furono stabiliti i sistemi, i trucchi, le strategie, le politiche pubbliche – ufficiali e non – del genocidio. Ho potuto seguire l’intero processo da dove mi trovavo, come ho detto, avendo il privilegio di essere nato dove sono nato e, si badi bene, di poter approfittare del sistema cristiano in cui erano nati i miei genitori. La Chiesa non aveva ancora dichiarato guerra allo Stato. Il loro rapporto era ancora complementare. Da ragazzo che frequentava la scuola di catechismo, ho potuto esplorare la Chiesa, camminare con le madri attraverso gran parte della mia terra, vedere e sentire come la Chiesa trattava i suoi abitanti e come si rapportava con lo Stato, con il potere. Oggi posso dire con maggior sicurezza che quello che stavo facendo era una ricerca approfondita sulle mie origini. Soprattutto, si trattava di una ricerca sul mio destino, perché ero curioso di ogni aspetto della società, a prescindere dalla mia età e dalla mia realtà. Allora perché dico che usare il termine “Arte Indigena Contemporanea” è prima di tutto una strategia? Forse perché non posso dire, fare, mostrare e vivere tutto ciò che ho accumulato in immaginazione e visione attraverso altri mezzi. Non sarei così se fossi diventato uno scienziato, un prete, un soldato, un cercatore d’oro magari illegale, un contadino, un domestico o un insegnante. Forse non sarei stato capace di esternare, di dare sfogo al mio e all’altrui essere se fossi diventato un padre di famiglia, un normale lavoratore dipendente. Di certo non sarebbe stato così se non avessi rinunciato a tutte queste possibilità per essere solo un artista.

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E anche il termine “artista”, considerato ciò che ci si aspetta da un professionista in questo campo, non potrebbe arrivare a tanto. Affermo di essere un artista, ma che cosa sono in realtà? Ho deciso di assumere questo ruolo, di dedicarmi a esso completamente e, nonostante ciò, per arrivare qui ho dovuto, come strategia, seguire percorsi convenzionali, come avere un lavoro formale. Ho ottenuto, tramite un concorso pubblico, un impiego come assistente tecnico in un’azienda elettrica statale. Anche lì ho continuato la mia ricerca su sistemi, politiche e strategie. In quel periodo ho anche potuto studiare all’università; mi sono laureato e ho cercato di continuare, ma non me l’hanno permesso. Ho comunque potuto avere un’introduzione alle metodologie scientifiche e capire un po’ i meccanismi con cui la scienza fa valere le proprie ragioni. Tornando al tema più ampio, l’arte indigena contemporanea, posso dire che è un altro termine nel mondo dei termini. Ma quando si lavora su questo versante, al soggetto sé, artista, indigeno e autore, viene data una legittimità indiscutibile. È una trappola per catturare trappole per vari motivi, soprattutto nel campo dell’autocritica, dell’autoanalisi e dell’autosviluppo. Forse dovremmo discutere se gli indigeni facciano arte, artigianato o manufatti. Mettere in discussione usi e appropriazioni da entrambe le parti. Discutere le questioni dell’autorialità collettiva, dell’autonomia dell’artista o anche ottenere parametri che dicano chi può essere considerato un artista o no tra i soggetti indigeni. Magari spingendosi a superare confini e frontiere che in molti punti sono labili, come la legittimazione di una rivendicazione di autoidentità, la miscegenazione o la doppia identità etnica quando i nativi si fondono con le persone di origine africana. Forse si potrebbe andare oltre, come ad esempio avere un campo più definito per evidenziare le ingiustizie che non possono essere ignorate, come lo svantaggio che abbiamo come popolazioni indigene rispetto a tutti gli altri gruppi etnici, anche in relazione ai movimenti della popolazione nera in questo Paese e nelle Americhe, ad esempio. Naturalmente, sto aprendo questo saggio al mondo intero e vorrei che questo materiale fosse incluso nei contenuti dei corsi di istruzione superiore. Vorrei che fosse letto nei corsi post-laurea, nei corsi di formazione per insegnanti e simili. Oggi possiamo constatare, attraverso decine di soggetti indigeni che si esprimono apertamente al grande pubblico, che si tratta in realtà di un sistema estremamente complesso di visibilità delle pluralità. Abbiamo artisti di entrambi i sessi che puntano a una strategia non ancora evidente. Forse quello con cui abbiamo a che fare è un cambiamento transgenerazionale fenomenale e non modale. Non solo per l’età dei soggetti, ma per il contenuto, il tenore delle loro performance, le loro voci e la crescente rivolta di artisti indigeni non binari, senza genere. Le questioni del genere, della radicalizzazione, della vita di paese o della sua mancanza, della padronanza della lingua madre del popolo d’origine, sono tematiche latenti che possono e devono sempre essere affrontate in una prospettiva costruttiva. Non posso non sottolineare la questione della paternità, dell’autonomia dell’intento artistico come voce dissenziente dall’ambiente comune senza smettere di esserlo. Dalla pratica artistica come composito di atti superiori. Come insieme ritualistico più che mitico, arrivando al pajelança. Come pratica sciamanica, curativa e psicomedica. Come connettore di fatti storici e come innesco di sinapsi per mondi che esistono, ma non sono come quelli a cui abbiamo accesso. Un artista non si sviluppa con le imposizioni. Le imposizioni violente possono essere molto pericolose per le menti sensibili degli artisti. Infine, vorrei ricordare che ci sono trappole in ogni cosa e che noi, popoli indigeni, abbiamo bisogno di una trappola per individuare le trappole e chissà, forse questa non è esattamente AIC - Arte Indigena Contemporanea, realizzata e contestualizzata dai suoi stessi autori.

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I LUOGHI DELLA CULTURA, TRADUZIONE DI ANTONIO PERRI, ROMA, MELTEMI, 2001.

Se l’ibridazione è eresia, allora la bestemmia è sogno.

HOMI K. BHABHA


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NOTE

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Per cominciare, si veda: A.Z. Aizura et al., Introduction. Decolonizing the Transgender Imaginary, in “TSQ. Transgender Studies Quarterly”, 1, 3, agosto 2014, pp. 308-319; F. Saleh, Transgender as a Humanitarian Category. The Case of Syrian Queer and Gender­Variant Refugees in Turkey, in “TSQ. Transgender Studies Quarterly”, 7, 1, febbraio 2020, pp. 37-55; L. deLire, Can the Transsexual Speak?, in “philoSOPHIA. Journal of Transcontinental Feminism”, 13, 2023, pp. 50-83; S. Sinai, On Returning Things to Their Proper Places, in “Hypocrite Reader”, 99, gennaio 2022: https://hypocritereader. com/99/proper-places.

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Si veda, ad esempio: C.R. Snorton, Black on Both Sides. A Racial History of Trans Identity, Minneapolis, University of Minnesota Press, 2017 e J. Gill-Peterson, Histories of the Transgender Child, Minneapolis, University of Minnesota Press, 2018.

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Si veda: E.S. Corredor, Unpacking “Gender Ideology” and the Global Right’s Antigender Countermovement, in “Sign:. Journal of Women in Culture and Society”, 44, 3, 2019, pp. 613-638; Trans­ Exclusionary Feminisms and the Global New Right, numero speciale a cura di S. Bassi, G. LaFleur Greta, in “TSQ. Transgender Studies Quarterly”, 9, 3, agosto 2022.

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Non esistono molte ricerche di qualità in inglese, ma è possibile seguire il profilo Instagram @buendnis.selbstbestimmung per rimanere aggiornati. E per chi conosce il tedesco, si consiglia la conversazione tra Pajam Masoumi, Juliana Franke, Mine Pleasure Bouvar e Luce deLire, Das Selbstbestimmungsgesetz ist ein Angstgesetz, in ak. analyse & kritik, 1 febbraio 2024: https://www. akweb.de/politik/das-selbstbestimmungsgesetz-der-ampelkoalition-ist-ein-angstgesetz/.

AJNABI MELKASTA JOGA

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Andando a scalfire una società neoliberale in qualunque punto, si troverà l’intensificarsi di un’attitudine violenta. Per la 60. Esposizione Internazionale d’Arte Stranieri Ovunque – Foreigners Everywhere, questo aspetto assume particolare importanza. Le persone queer e trans di colore, i migranti e i rifugiati sono soggetti a particolari forme di violenza e disciplina, a stento affrontate nel testo qui generosamente ripubblicato . In realtà, le categorie “trans” e “gender” sono collegate con l’“essere bianchi” e il colonialismo . Nel frattempo, l’opposizione alle cosiddette “ideologie di genere” sopravvive ancora come collante, mantenendo allineate le destre europee (e globali) . Per esempio, nell’anno successivo alla pubblicazione del mio testo, il governo tedesco, all’insaputa dell’attenzione internazionale, ha promulgato la cosiddetta “Legge sull’autodeterminazione”, piegandosi alla retorica TERF (Trans Exclusionary Radical Feminist) con un connubio particolarmente infelice tra eloquenza permissiva e forza giuridica disciplinare . Poiché la situazione si sta rapidamente evolvendo, posso solo raccomandarvi di ascoltare le persone queer e trans intorno a voi – e quelle dentro di voi.

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MGA DAYUHAN SA LAHAT NG DAKO

Oltre la giustizia rappresentativa

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Articolo pubblicato in “Texte Zur Kunst”, 129, marzo 2023, Trans Perspectives, pp. 48-63.

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Anselm Franke ha usato questo termine in maniera piuttosto casuale durante la discussione finale della conferenza Freedom in the Bush of Ghosts, tenutasi il 16 dicembre 2017, nell’ambito della programmazione della mostra Parapolitics, alla Haus der Kulturen der Welt, Berlino.

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Si veda anche D. Ballantyne-Way, The Secret History of Cross Dressing with Sebastian Lifshitz, in Exberliner, 12 settembre 2022, https://www.exberliner. com/art/the-secret-history-of-crossdressing-sebastian-lifshitz-co-berlin/.

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Per i case study, si veda Trap Door. Trans Cultural Production and the Politics of Visibility, a cura di R. Gossett, E.A. Stanley, J. Burton, Cambridge (MA), MIT Press, 2017.

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Che cos’è la giustizia rappresentativa?1 Se ne può trovare un esempio nella mostra Under Cover. A Secret History of Cross­Dressers al C|O di Berlino. L’imponente collezione, accumulata da Sébastien Lifshitz nel corso di decenni di minuzioso lavoro, è composta in gran parte di cartoline e istantanee di persone gender-nonconforming. Una vera miniera per la ricerca storica2. Ma la mostra, curata da Lifshitz e Kathrin Schönegg, la trasforma in una scuola in cui si impara a capire che il genere delle persone rappresentate è diverso da quello mostrato. Si incontra una tipologia di persone gendernonconforming, con un’attenzione particolare alla femminilità transgender incentrata su Marie-Pierre Pruvot (nota come Bambi), che si è esibita come artista di burlesque in Francia dagli anni Cinquanta agli anni Settanta, poi ha studiato, ha fatto la transizione e in seguito ha lavorato come insegnante di scuola elementare nella periferia di Parigi. Oltre al ruolo centrale occupato nella mostra, troviamo un documentario di quasi 90 minuti sulla sua vita. La sua storia merita sicuramente di essere raccontata. Tuttavia, vorrei concentrarmi su un altro aspetto: la mostra trasforma i visitatori in agenti investigativi. Immagine dopo immagine, lo sguardo viene addestrato a individuare gli indizi più o meno sottili che indicano quale sesso è stato assegnato alla nascita alla persona raffigurata. La mostra sembra ignorare le conseguenze reali della visibilità. E qui abbiamo il nostro primo esempio: la giustizia rappresentativa tratta la rappresentanza come strumento di uguaglianza. Tuttavia, ignora che il problema non è la (mancata o errata) rappresentanza in sé, ma la violenza che essa perpetua. Da un lato, infatti, le persone transgender traggono beneficio dalla rappresentanza mediatica, nella misura in cui essa presenta l’identità transgender come una valida alternativa. Inoltre, tale rappresentanza genera anche un discorso sociale che può servire da base per cambiamenti legislativi. La visibilità, tuttavia, ha anche una componente tossica3. Alcune persone transgender – e per molti anni tra

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micha cárdenas, Poetic Operations. Trans of Color Art in Digital Media, Durham (NC), Duke University Press, 2022, p. 15.

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J. Butler, Questioni di genere, trad. S. Adamo, Bari, Laterza, 2013 (ed. orig. Gender Trouble, New York, Routledge, 1999).

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J. Butler, Gender Trouble, cit., pp. XX, XXIII.

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G. Deleuze, Postscript on the Societies of Control, in October, 59, 1992, pp. 3-7; P.B. Preciado, Testo Junkie. Sex, Drugs, and Biopolitics in The Pharmacopornographic Era, trad. B. Benderson, New York, Feminist Press, 2013. Si veda anche L. deLire, Can the Transsexual Speak?, in Intersectionality Today, numero speciale, “philoSOPHIA: Journal of Transcontinental Feminism”, 13 (in pubblicazione).

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Citazione di Hailee Bland Walsh, proprietario di City Gym, Kansas City, Missouri, in Google Small Business, The Story of Jacob and City Gym, YouTube video, 16 giugno 2015, 2’30’’.

10 J.K. Puar, The Right to Maim. Debility, Capacity, Disability, Durham (NC), Duke University Press, 2017, p. 1; M. Wark, Capital Is Dead. Is This Something Worse?, London, Verso, 2021; L. deLire, Can the Transsexual Speak?, cit. 11 C. Keegan, Transgender Studies, or How to Do Things with Trans*, in The Cambridge Companion to Queer Studies, a cura di S.B. Somerville, Cambridge, Cambridge University Press, 2020, pp. 66-78, in part. 72. 12 Per più informazioni, si veda “Texte Zur Kunst”, 129, marzo 2023, Trans Perspectives, pp. 48-63.. 13 Si veda Trans­Exclusionary Feminisms and the Global New Right, a cura di S. Bassi e G. LaFleur, in “TSQ: Transgender Studies Quarterly”, numero speciale, 9, 3, agosto 2022; Anti­Genderismus­Sexualität und Geschlecht als Schauplätze aktueller politischer Auseinandersetzungen, a cura di S. Hark e P.-I. Villa, Berlin, Transcript, 2015.

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どこでも外国人

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queste figurava anche Pruvot – preferiscono semplicemente non essere riconosciute come tali4. Un altro fattore è la sicurezza. Dopo che nel 2014 negli Stati Uniti è aumentata la visibilità delle persone transgender di colore, il tasso di violenza è sembrato drasticamente peggiorare. Nel 2015, il numero di omicidi di persone transgender è cresciuto del 50%. [...] Le donne transgender e le persone di colore sono ancora le vittime più colpite. [...] Il continuo aumento degli omicidi di donne transgender di colore sottolinea la profonda necessità di strategie politiche che vadano al di là della semplice visibilità o invisibilità [...]5. Ma la visibilità sovversiva non è forse un credo della teoria queer? Nel suo Questione di genere, Judith Butler sostiene che il genere è costantemente costruito attraverso la reiterazione performativa delle norme di genere6. Di conseguenza, queste norme possono essere gradualmente sovvertite attraverso la ripetuta messa in atto di modi alternativi e dissenzienti. Negli spazi così creati è possibile accogliere un più ampio spettro di persone di genere diverso. Questi effetti emancipatori della visibilità costituiscono il fondamento teorico della giustizia rappresentativa. Tuttavia, questo quadro è vero solo in parte. Dopo tutto, l’erosione delle norme è emancipatoria solo quando l’oppressione è attuata tramite l’applicazione violenta di norme prescrittive7. Ma che cosa accade quando la trasgressione stessa si fa meccanismo di controllo? Se distinguiamo le società disciplinari da quelle neoliberistiche, notiamo due modelli di normatività fondamentalmente diversi8. Le società disciplinari impongono l’obbedienza con la violenza; la devianza viene patologizzata, punita, minacciata, picchiata, esclusa, uccisa. Nelle società neoliberistiche, la trasgressione genera plusvalore; qui la devianza viene resa oggetto di consumo e produzione. L’“essere transgender” si trova attualmente sul confine tra disciplina normativa e controllo neoliberistico, cioè tra patologizzazione, criminalizzazione e violenza disciplinare, da un lato, e diversificazione del consumo e della produzione, dall’altro. Che cosa succederà? Questo è attualmente oggetto di un’intensa lotta. Nel 2015, ad esempio, Google Business ha approfittato della transizione di Jacob Wanderling per pubblicizzare l’azienda: “Quando le persone cercano online un tipo diverso di palestra, un posto sicuro e inclusivo, voglio che trovino noi”9. La devianza è molto richiesta come impulso creativo. Dopo tutto, le prospettive alternative offrono una risorsa ideale per il perpetuo rinnovamento dei meccanismi di produzione neoliberisti10. Di conseguenza, le persone transgender hanno contribuito in maniera significativa a ogni tipo di disciplina venendone sempre più spesso ricompensate11. Eppure, entusiasmo e paura nei confronti delle persone transgender possono coesistere, come di fatto succede12. Le persone transgender vengono da ogni parte schierate contro lo spettro della società disciplinare: mentre l’ostilità verso le persone transgender è servita come elemento unificante della politica autoritaria di destra nella sua lotta contro una presunta “ideologia di genere” autoritaria, le cosiddette forze progressiste si stanno formando in opposizione a ciò che vedono come un insieme oppressivo e restrittivo di norme, stereotipi e pregiudizi13. Tuttavia, la tolleranza progressista è mantenuta entro confini ristretti: alle persone transgender verrà garantita protezione e riconoscimento solo nella misura in cui parteciperanno ai regimi neoliberisti di sfruttamento come individui virilmente orientati verso il mercato libero, che pagano le tasse e che rispettano la legge. Visibilità e sovversione sono quindi diventate oggetto di sfruttamento ideologico di fronte ai meccanismi neoliberisti di controllo sociale. Questo vale sia per la politica del potere sia per la politica dello sfruttamento, e con una agency limitata per i soggetti transgender (perlomeno bianchi, borghesi, orientati al mercato). Qui il pinkwashing, là i valori conservatori, ma sempre in opposizione allo spettro di una società disciplinare. È solo in questo contesto di resistenza a presunte forze disciplinari che la visibilità e la sovversione acquistano senso come mezzo di emancipazione dalle norme. Ma la visibilità e la sovversione generano anche problemi diversi dallo sfruttamento ideologico.

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J. Halberstam, In a Queer Time and Place. Transgender Bodies, Subcultural Lives, New York, New York University Press, 2005.

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14 P. Greenhalgh, Ephemeral Vistas. The Expositions Universelles, Great Exhibitions and World’s Fairs, 1851­1939, Manchester, Manchester University Press, 1988, p. 21.

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15 D.J. Getsy, How to Teach Manet’s Olympia after Transgender Studies, in “Art History”, 45, 2, aprile 2022, pp. 342-369, in part. 347. Altrove, definisco questo approccio “gender abolitionism”; si veda L. deLire, Catchy Title [1] – Gender Abolitionism, Trans Materialism, and Beyond, in “Year of the Women Magazine”, 2022, https://yearofthewomen.net/en/ magazin/catchy-title-1-gender-abolitionism-trans-materialism-and-beyond. 16 L’autoriconoscimento può essere una ragione alternativa, ma per molti è fondamentale anche l’intelligibilità sociale. Sulla comprensibilità sociale si veda L. deLire, Catchy Title [1], cit.

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INDETERMINATEZZA Benché la trasgressione sistematica delle norme possa contribuire a trasformarle, può anche provocarne l’intensificazione: quando di recente, a una festa di Halloween, sono stata minacciata di morte, non sono stata percepita come emblema della sovversione queer. Anzi, la mia trasgressione è diventata occasione per esibire la mascolinità etero patriarcale cis in un modo del tutto privo di ironia. Niente può garantire l’effetto sovversivo dell’“essere transgender”. Lo stesso si può dire della mostra della collezione Lifshitz al C|O: nulla impedisce ai visitatori egemonicamente identificati di leggerla come un fenomeno da baraccone, di riaffermare la propria identità di genere una foto dopo l’altra, o di attingere a questa tipologia di trasgressioni per identificare le persone transgender al di fuori dello spazio espositivo, dove diventano soggette alle proiezioni e alle insicurezze degli altri. La sovversione senza ri­soggettivazione rischia di rimanere una mera riscrittura. L’obiettivo della sovversione non può essere la mera rappresentanza. Ci si deve rivolgere in un modo particolare a ogni pubblico. La modalità standard di soggettivazione in una mostra fotografica come Under Cover è ancora quella dell’arbitro incorporeo che decide tra buono e cattivo, interessante e non interessante, bello e noioso, emozionante e deprimente14. Questa è la soggettività patriarcale cis-bianca con cui spazio espositivo e relativa storia culturale sono inscritti e, di fatto, modellati. Pertanto, la sovversione non può semplicemente significare affrontare i soggetti patriarcali con alcune immagini e sperare per il meglio. La sovversione deve rendere attivamente impossibile la soggettivazione patriarcale bianca e cis, creando al contempo spazi alternativi. Pertanto, la sovversione è più una questione di cura e meno di rappresentanza. STANCHEZZA E NORMALIZZAZIONE L’idea di sovversione performativa può portare a concepire (implicitamente) l’“essere transgender” come trasgressione momentanea o come l’orizzonte di un processo di emancipazione della società in generale: il genere cis viene quindi tacitamente normalizzato come l’opposto scontato della trasgressione. Tuttavia, alcuni di noi devono vivere all’interno di metafore con cui altri abbelliscono le proprie teorie e opere d’arte. La giustizia rappresentativa, la politica della visibilità e la sovversione come strategia politica sono strumenti alla moda per l’analisi accademica. Sono concetti ottimi se vogliamo presentarci come soggetti rivoluzionari nei gruppi politici di sinistra, però sono difficili da vivere. Quali sono gli effetti quando l’aggressione socialmente sanzionata, la costante distanza nelle interazioni quotidiane, il ripetuto rifiuto della solidarietà e il privilegio verso il genere cis si trascinano per anni? Non sono forse stanchezza e sfiducia? La rivoluzione è attesa da tempo e i nostri alleati non devono – o devono a malapena – portarne il peso. L’esistenza di identità transgender possibili viene lasciata fuori dall’equazione. Perché? Chi ha paura delle transizioni irreversibili e degli interventi chirurgici, se non coloro che (implicitamente) normalizzano i corpi e le identità cis come intrinsecamente degni di protezione? Non è forse questa, in ultima analisi, la riscrittura del genere biologico a livello di realtà politica? SFRUTTAMENTO Nelle società neoliberiste, la trasgressione delle norme diventa essa stessa fonte di sfruttamento. Gli “assiomi” di David Getsy per gli studi transgender nella storia dell’arte possono servire da caso esemplare: “Prendiamo come assioma che vedere il corpo di qualcuno – anche in uno stato di esposizione e di controllo – non ci dice chi è o a quale genere sa di appartenere”15. Ma perché sottoporsi a un intervento di femminilizzazione del viso se non per motivi di intelligibilità sociale?16 Se, in nome degli studi transgender, i maschi bianchi cis possono dichiarare che le donne transgender non dovrebbero essere lette come donne, non si ottiene niente. Getsy, naturalmente, può trarre

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19 Per una posizione contraria, confrontare J. Pelta Feldman, On Loss – or Feelings Thereof, in Texte zur Kunst, 128, dicembre 2022, pp. 72-82. 20 Ho cancellato “rimedio” perché questa scala di violenza non consente una vera e propria azione di questo genere. Si veda anche L. deLire, How Ideal is Ideal Theory actually? Rawls, Mills, Reverse Racism and Justice as Failure, in “Philosophy Today”, 67, 2 (in pubblicazione). 21 Oltre Texte zur Kunst, numeri speciali analoghi sono pubblicati da “Sinister Wisdom” (in pubblicazione) e da “Journal of Visual Culture”, 19, 2, agosto 2020. Resta da vedere quanto saranno sostenibili questi interventi. 22 Sono state, ad esempio, le prime a perdere la vita nel corso della colonizzazione (uso qui il termine “transgender” in modo catacrestico). Si veda ad esempio, J. Hinchy, Governing Gender and Sexuality In Colonial India. The Hijra, c. 1850­1900, Cambridge, Cambridge University Press, 2019; O. Oyěwùmí, The Invention of Women. Making an African Sense of Western Gender Discourses, Minneapolis, University of Minnesota Press, 1997.

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18 C.W. Mills, The Racial Contract, Ithaca (NY), Cornell University Press, 1997, p. 75.

vantaggio dal crescente interesse per i soggetti transgender conferendo agli artisti cis la consacrazione della correttezza politica. Tuttavia, né lui né i suoi soggetti devono subire le conseguenze dell’elogiata trasgressione delle norme di genere17. Il punto è questo: le persone transgender vengono sfruttate. Getsy poggia la propria carriera accademica sulle spalle di coloro che vivono nelle sue teorie e, nel peggiore dei casi, addirittura li ostacola. La giustizia rappresentativa dimentica che il problema non è la rappresentanza in sé, ma la violenza che ne deriva. La giustizia rappresentativa non è che un’emancipazione nominale, non materiale. In relazione alla razza, Charles Mills descrive uno stato di riconoscimento nominale accompagnato dalla negazione delle conseguenze materiali del razzismo: Mentre prima si negava che i non bianchi fossero persone con gli stessi diritti, ora si finge che i non bianchi siano persone astratte con gli stessi diritti, che possono essere pienamente incluse nella politica semplicemente estendendo la portata dell’operatore morale [accesso ai diritti], senza alcun cambiamento fondamentale negli assetti risultati dal precedente sistema di esplicito privilegio razziale de iure [come la distribuzione della ricchezza]18. Nelle società disciplinari, alle persone minoritarie viene negato lo status di soggetti giuridici. Sono soggette a violenza, ignoranza e isolamento sociale. Le società neoliberiste, invece, le riconoscono come soggetti giuridici. Hanno ora il diritto di essere sfruttate senza rischiare la vita, proprio come tutti gli altri. Detto questo, l’ordine materiale esistente è, fra le altre cose, il risultato dell’imposizione disciplinare delle norme di genere cis. E gli effetti dell’ingiustizia storica del passato? Che cosa succede alle fortune accumulate con furti, espropri e omicidi? E che cosa succede alle carriere delle persone transgender che sono state rovinate, alle reti sociali che in parte traggono il loro potere vincolante da stereotipi transfobici (alleanze maschili, confraternite, socializzazione femminile patriarcale)? Che cosa succede alla canonizzazione artistica, agli ideali di bellezza, alle tradizioni pittoriche e agli archivi consolidati da secoli? Qui la violenza continua a vivere, giorno dopo giorno. Eppure i musei sono pieni di opere di artisti cis. Vendetele! Generate un nuovo canone! Svalutate il genere cis dal punto di vista estetico! Lasciate che le persone transgender scrivano della vostra arte! Affidate le vostre gallerie, i vostri studi, le vostre collezioni d’arte ai collettivi transgender!19 Fornite alle persone transgender denaro, alloggi, risorse, eccetera! Sarebbero misure adeguate per rispondere a come, storicamente, le identità transgender, le carriere e la rappresentanza delle persone transgender sono state rese impossibili. Scioccati? Provocati? La giustizia rappresentativa maschera l’entità dell’ingiustizia e offusca la natura radicale dei passi necessari per porvi rimedio20. Distorce il problema trasformandolo in una questione di minoranze. Ma l’omicidio, lo sfruttamento e il disciplinamento di tutte le minoranze significa sempre l’instaurazione di un ordine egemonico. Non si nasce cis, si viene resi tali. E in che modo? Attraverso la transfobia e soprattutto la transmisoginia. Incoraggiando il comportamento maschile cis e scoraggiando quello non maschile, cioè la femminilità transgender. Non c’è patriarcato senza transmisoginia. Essere cis significa pertanto trarre vantaggio dall’ostilità verso le persone transgender. Tuttavia, in questo contesto, aiuto e risarcimento significano molto di più di qualche posto di lavoro per qualche persona transgender, di un numero speciale e una qualche prospettiva transgender di tanto in tanto, dell’occasionale copertina su una rivista o della condivisione dei loro post sui social media21. La politica transgender deve significare la trasformazione fondamentale di ogni condizione sociale. Le persone transgender vengono sistematicamente uccise, intimidite e tenute in povertà22. La politica transgender non è

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17 Un altro esempio è S. Crasnow, Beyond Binaries: Trans Studies and the Global Contemporary, in “Art Journal”, 80, 4, 2021, pp. 82-90, in part. 84.

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23 Non è ancora stata scritta una lettera aperta alle istituzioni artistiche sul risarcimento delle persone trans. Per un esempio riguardante la psicoanalisi, si veda M. Wark, Dear Cis Analysts. A Call for Reparations, in “P&RAPRAXIS”, autunno 2022, https://www. parapraxismagazine.com/articles/ dear-cis-analysts.

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semplicemente la politica dell’uguaglianza giuridica. È anche la politica del miglioramento delle condizioni materiali di vita di tutte le persone attraverso lo sradicamento dello sfruttamento e della violenza nei confronti delle persone transgender. Pertanto, una valida politica transgender deve portare alla fine del patriarcato etero bianco cis. Politica transgender significa quindi anche confisca delle grandi società immobiliari, perché la stragrande maggioranza delle persone transgender paga l’affitto. Politica transgender significa anche depenalizzazione del lavoro sessuale, perché molte persone transgender operano in questo campo. Una politica transgender riguarda altresì contrattazione collettiva e contenimento dell’inflazione e dell’aumento del costo della vita, perché le persone transgender hanno maggiori probabilità di essere colpite dalla povertà e quindi, in proporzione, da queste tendenze. Politica transgender significa anche assegnare opportunità di assistenza terapeutica e programmi di gruppi di sostegno per aiutare ad affrontare la violenza quotidiana. Significa divieto di eredità, perché molte persone transgender sono disconosciute dalla propria famiglia. Per quanto riguarda la retribuzione delle persone transgender, significa anche tenere in debita considerazione il lavoro aggiuntivo che devono inevitabilmente svolgere nelle strutture cis, cosa che nemmeno Texte zur Kunst è riuscita a fare in maniera ottimale. Ufficialmente, non ho ricevuto una retribuzione inferiore a quella usuale per un co-direttore indipendente. Dal punto di vista materiale, però, mi è stato richiesto un lavoro supplementare per compensare le disuguaglianze esistenti. Mills lo riassume così: “Una lunga storia di discriminazione strutturale nei confronti delle persone transgender impedisce una cooperazione a livello materiale che distribuisca equamente il carico di lavoro”. La politica della visibilità, che mira alla giustizia rappresentativa, ignora queste dimensioni politiche concrete. In quanto tale, avvantaggia coloro che vogliono darsi una pacca sulla spalla per aver fatto tutto bene, senza cambiare effettivamente le condizioni reali delle persone transgender, degli artisti transgender o un canone intrinsecamente ostile alle persone transgender. La giustizia rappresentativa avvantaggia sistematicamente coloro che godono di maggiori privilegi. Rende i soggetti transgender sicuri... per le persone cis. Che cosa può fare l’arte? Le istituzioni artistiche possono smettere di orbitare ossessivamente intorno alla rappresentazione dell’identità e di considerare l’arte delle persone transgender come forma paradigmatica di arte transgender. Le istituzioni artistiche possono commissionare e acquistare opere di artisti transgender e farle discutere da critici transgender. Possono rimuovere dalle collezioni l’arte cis, per cambiare, o non parlarne così tanto; e che ne dite di non assumere persone cis per un po’?23 I testi e le opere presenti in questo numero di Texte zur Kunst possono forse fungere da gesti in questa direzione, auspicando che la cosa non si chiuda qui. Le istituzioni artistiche possono coltivare l’ospitalità verso le persone transgender? A tal fine, le persone transgender dovranno essere consultate. In questo spirito, questo numero di Texte zur Kunst vuole essere anche un invito alle persone trans: facciamo più arte! Facciamo più scrittura critica, al di là dei discorsi sui diritti, sul riconoscimento e sulla rappresentazione! spaccare tutto.

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A VOSTRO RISCHIO E PERICOLO: TESTAMENTO DI UN SANTO, TRADUZIONE DI MANLIO BENIGNI E GIULIO LUPIERI, MILANO, UBULIBRI, 1994.

Questi nomi: gay, queer, omosessuale sono limitanti. Mi piacerebbe chiudere con loro ogni rapporto. [...] Per me usare la parola “queer” è una liberazione; era una parola che mi spaventava, ma ora non più.

DEREK JARMAN


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COIGRICH ANNS GACH ÀITE

Questioni nell’arte popolare

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Ticio Escobar

Testo pubblicato in Beyond the Fantastic: Contemporary Art Criticism from Latin America, a cura di G. Mosquera, Cambridge (MA) e Londra, MIT Press e Institute of International Visual Arts (Iniva), 1996.

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M. Chauí, Conformismo e resistência. Aspectos da cultura popular no Brasil, São Paulo, Brasiliense, 1986, p. 120.

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M. Lauer, Crítica de la artesanía. Plástica y sociedad en los Andes peruanos, Lima, Centro de Estudios y Promoción de Desarrollo, 1982, p. 111.

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QUESTIONI NELL’ARTE POPOLARE

LA QUESTIONE DEL CAMBIAMENTO

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Uno dei miti più esemplari del mondo occidentale è che l’elemento popolare, soprattutto se autoctono, debba rimanere immutato, imprigionato nel passato. Pietrificata nelle sue manifestazioni più pittoresche, l’arte popolare diventa così la reliquia superstite di un mondo arcaico, un legame miracoloso con passati nostalgici e luoghi lontani. È uno dei miti preferiti dai romantici e dalle ideologie nazionaliste che sentono la necessità di porre sul piedistallo il concetto di essenza nazionale e di certo non sfuggono le derive che tale subdola versione della storia può generare. L’arte alta può cambiare, si nutre di una varietà di innovazioni e fonti, il suo compito è quello di aggiornarsi, espandersi e guardare avanti verso un futuro ottimistico. Nel frattempo, l’arte popolare è condannata a rimanere genuina e pura: il cambiamento equivale a perversione e la novità al tradimento della sua essenza, alla distorsione dei suoi veri valori e alla corruzione della sua autenticità primaria. Marilena Chauí ha scritto che per il populismo nazionalista: “Il passato conservato dalla cultura popolare è il futuro garantito dalla cultura colta”1. Naturalmente, se la cultura è un processo vivo di risposte simboliche a circostanze particolari, le sue forme inevitabilmente muteranno di fronte alle esigenze di nuove situazioni, ma alcuni miti interferiscono con questo processo isolando momenti particolari e trattandoli come fenomeni separati. È così che tradizione e futuro, o universale e locale, appaiono come concetti opposti in un discorso instabile e fratturato, costringendo a scegliere come fossero alternative astratte. Quando si fa della realtà un’essenza (un’entità nazionale o latinoamericana, priva di conflitti), le opposizioni concrete che rendono dinamica la storia vengono trattate più come rotture della logica (gli aut aut inconciliabili della metafisica) che come forze storiche dialettiche. In base a questa visione paralizzante si creano posizioni fisse: l’arte popolare appartiene al passato e l’arte alta al futuro. La prima deve fare i conti con le radici e occuparsi dello spirito indigeno o mestizo e dell’identità nazionale; la seconda deve essere freneticamente lanciata verso un vago obiettivo moderno lineare che, senza dubbio, dovrebbe provenire da venerabili radici precoloniali. Come ha scritto Mirko Lauer: “L’indigenismo è il punto fermo su cui si misura la modernità”2. Un fenomeno analogo si verifica con la netta divisione locale/universale e la conseguente violenta contrapposizione fra arte locale, originale e genuina, e forme straniere. Anche in questo caso si può notare la manipolazione in atto: il modo in cui la cultura popolare viene privata del contatto con le forme e le tecniche contemporanee rivela un atteggiamento paternalista e reazionario. Applicato alle teorie sull’arte latinoamericana, questo sistema è da sempre fonte di innumerevoli e inutili dicotomie e semplificazioni. La giovane arte latinoamericana si è dibattuta con grande dolore e senso di colpa di fronte alla drammatica scelta tra fedeltà alle proprie radici e accesso al mondo contemporaneo: tra arretratezza e parodia mimetica. Questa scelta tra isolamento e alienazione è falsa: la quarantena autoimposta è negativa quanto l’adozione automatica di forme imposte. Attraverso l’isolamento, l’arte non può affrontare la dipendenza: la sua unica opzione è fronteggiarla e cercare di riformularne e trasgredirne le condizioni. La questione non è se il cambiamento sia possibile, né che cosa debba essere conservato e che cosa modificato, ma piuttosto se abbiamo o meno il controllo su questo cambiamento. Non ha alcun senso pontificare paternalisticamente dall’esterno su ciò che dovrebbe o potrebbe essere cambiato. La creatività popolare è perfettamente in grado di accogliere nuove sfide e di formulare risposte e soluzioni in base alle proprie esigenze e alla propria velocità. Secondo gli stessi creatori, l’arte popolare può conservare elementi secolari o incorporarne di nuovi. L’unica vera condizione di autenticità è che le scelte tradizionali o innovative siano fatte in risposta a esigenze culturali interne e siano generate dalle

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Criollo: latinoamericano di origine spagnola che nell’era postcoloniale costituiva la classe dominante.

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dinamiche di questa cultura. Per questo motivo, qualsiasi innovazione e appropriazione di elementi estranei o qualsiasi uso di immagini o tecniche create altrove sono validi solo nella misura in cui vengono adottati da una comunità in base alle sue esigenze; è sufficiente la minima incorporazione di sistemi estranei per disturbare un processo culturale, distorcerne le forme e confonderne il significato. Osservato dall’esterno, un corpo culturale appare fragilissimo, basta una piccola pressione per danneggiarlo. Visto dall’interno, invece, è vigoroso e resistente, capace di sopportare grandi pesi e di far fronte a forti resistenze senza cambiare il proprio corso. Una cultura subordinata può rispondere all’invasione di forme estranee integrandole nei propri processi, anche se ciò richiede un enorme sforzo assimilativo. Fin dalla colonizzazione, gli indios hanno dimostrato una capacità pressoché illimitata di digerire il processo che una cultura deve sopportare quando costretta a sopravvivere e adattarsi a nuove condizioni, ad assumere un ruolo di guida e dirigere il proprio sviluppo. Quando è la comunità stessa a scegliere gli elementi da preservare, incorporare o superare, per quanto sconvolgente possa apparire il processo di acculturazione, esso si risolverà in modo naturale e positivo. In generale, i gruppi etnici conservano una riserva formale di base legata ai propri nuclei simbolici; tendono a non cambiare i sistemi espressivi legati alle funzioni socioculturali più profonde, per esempio cerimonie e rituali, in particolare la lavorazione delle piume, i cesti e le ceramiche cerimoniali (indios Guaraní), la pittura del corpo, i tatuaggi e i tessuti caraguatá (indios del Chaco). Per contro, cambiano spesso le usanze legate alle faccende domestiche, al gioco, alle feste intertribali, al commercio, ecc. Quando, nel XV secolo, i Chiriguano Guaraní si recarono nella regione centrale, conservarono le tecniche e i motivi decorativi dei loro japepó (grandi recipienti rituali), ma ben presto adottarono le ricche forme e i motivi decorativi della ceramica subandina e, successivamente, dell’iconografia coloniale mestizo. Da qui, svilupparono schemi decorativi di indubbio valore basati su fonti stilistiche estremamente ampie. Quando, alla fine del XVIII secolo, i Caduveo Guaykurú attaccarono la missione gesuitica di Belén rimasero talmente colpiti dagli ornamenti delle vesti cerimoniali, dai ricami, dagli arazzi e dalle illustrazioni dei libri, da incorporarli nelle loro ceramiche, che si ricoprirono così di sorprendenti arabeschi rinascimentali e barocchi. Un fenomeno simile avvenne con i Payaguá che, vivendo alla periferia di Asunción durante il primo periodo coloniale, non ci pensarono due volte a decorare i loro mates (recipienti per bere il tè) con vivaci disegni basati su modelli europei per facilitarne la vendita, oppure a ornare le pipe sciamaniche con scene bibliche (anche se in questo caso si trattava probabilmente di aumentare il potere dello sciamano utilizzando il potente immaginario del conquistador cristiano). In fondo, tutti i fenomeni culturali sono essenzialmente ibridi. Il sogno delle culture pure è un mito romantico con implicazioni fasciste e di matrice antica; un mito che oscura il fatto che ogni assimilazione è nutrimento e che il cambiamento è indispensabile per garantire il flusso delle forme culturali, per sfidare l’immaginazione ed evitare la ripetizione automatica. Molti degli elementi considerati tipici di certe comunità oggi sono in realtà adozioni improvvise e recenti: le decorazioni sulle perle di vetro, caratteristiche di alcuni gruppi etnici, sono nate dal contatto con il vetro veneziano portato dai missionari; tutte le ceramiche e i tessuti di lana degli indios del Chaco, come i tipici cesti Chamacoco, sono il risultato di influenze tardo-coloniali e interetniche; la lavorazione del legno, diventata nel tempo un potente mezzo di comunicazione, è stata introdotta dagli insediamenti civili o missionari e non ha alcun precursore nella pratica indiana precoloniale. Inoltre, lo stesso fenomeno del mestizaje – riconosciuto e celebrato come l’origine mista dell’autentica paraguayidad – è sempre consapevole del suo doppio carattere. Molte delle tradizioni artigianali criollo3 più rappresentative prendono origine direttamente

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O. Salerno, Artesanía y arte popular, Asunción, Museo Paraguayo de Arte Contemporáneo, 1983, p. 20.

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dall’Europa: il ñandutí, evoluzione del merletto di Tenerife; le immagini religiose, di origine cattolica spagnola, italiana, tedesca o austriaca; l’artigianato del cuoio, dell’argento e dell’ebano, di orgogliosa origine occidentale e cristiana. Questi fattori sono sufficienti a dimostrare l’inevitabile mescolanza dei processi culturali e la natura mutevole e complessa dei loro simboli, e fino a qui la cosa è indubbia. Tuttavia, giunti a questo punto i meccanismi del mito tendono una trappola; da una parte accettano che gli indios, in qualche lontano momento della loro storia, abbiano incorporato sistemi stranieri e approvano il fatto che anche l’artigianato popolare derivi dalla stessa doppia radice che sostiene il nostro passato criollo (in fin dei conti questa caratteristica ibrida della cultura serve a illustrare una versione edulcorata della storia basata sull’incontro idilliaco tra indios e conquistadores e a giustificare i numerosi dualismi del discorso ufficiale), dall’altra ritengono che la storia appartenga sempre al passato e che oggi la cultura popolare sia compiuta così com’è e se cambia, perde valore, e così via. Si tratta di un mito più diffuso di quanto si possa immaginare: molti antropologi, storici, giornalisti e intermediari culturali ritengono, più o meno esplicitamente, che il valore del popolare risieda nella tradizione e che sia impermeabile al cambiamento. Questa linea di pensiero si basa in gran parte sui danni provocati dall’acculturazione urbano-industriale delle forme popolari, dall’invasione delle immagini di massa, dalla perdita di tecniche e forme uniche e fortemente espressive, dall’allarmante proliferazione del kitsch incoraggiata dal turismo, ecc. Di fronte a queste circostanze, il problema è stato mal posto; la sua soluzione, come abbiamo visto, non è quella di nascondere la testa sotto la sabbia, ma di trovare un modo per controllarne l’impatto. Molti cambiamenti ora in atto nella cultura popolare sono rassicuranti in quanto dimostrano la capacità di superare le difficoltà e di affrontare le sfide utilizzando immaginazione, risorse e memoria. Attraverso le sue azioni, la cultura popolare quotidiana risolve i conflitti che sorgono tra tradizione e nuove tecniche. La ceramica, ad esempio, ha assorbito facilmente i soggetti urbani senza compromettere la sua ricca eredità stilistica. Alcuni pezzi prodotti a Tobatí si basano su antiche forme antropomorfe, ma ora incorporano soggetti audaci e soluzioni non autoctone: donne formose che indossano minuscoli bikini o allegre minigonne. Il loro successo formale e la loro potente energia rendono le figure femminili di Tobatí valide quanto le migliori espressioni di un ambiente rurale chiuso. Altre situazioni hanno creato forme cariche di un temperamento unico; alcune delle recenti ceramiche di Areguá (figure realizzate al tornio o tramite stampi e dipinte con smalto industriale) riescono a manifestare nuovi aspetti della cultura suburbana e suggeriscono una nuova originalità4. Abbiamo di recente assistito a espressioni popolari che utilizzano scarti industriali (come candelieri e lampade di latta), immagini della cultura di massa ed elementi prefabbricati. In tutti questi casi l’espressività non è stata compromessa: la novità è stata assorbita e ricreata dalla comunità. Persino i riti includono nuovi sistemi. Oggi è comune vedere straordinari allestimenti della kurusu jegua con luci al neon; pesebres tradizionali che utilizzano fiori artificiali, carta stagnola, fotografie e ornamenti di plastica; feste locali che comprendono messe in scena di eventi nazionali e internazionali attuali (come nell’antica festa di San Pedro y San Pablo ad Altos dove, accanto all’arcaico rituale del fuoco e della cattura delle donne da parte dei Guaykurú, un’ossessione fin dall’epoca coloniale, persone che indossano maschere e vestono elaborati costumi di foglie recitano eventi recenti: concorsi di bellezza, dispute politiche, sfilate di moda, satira sulle celebrità internazionali, ecc.). La tradizionale festa agricola dei Chiriguanos, l’Areté guasú, si è unita al carnevale criollo, mantenendo una propria coesione sociale e i propri riti esclusivi. Le maschere utilizzate per la cerimonia sono di origine chané arawak, i cappelli a cilindro sono un retaggio coloniale, l’abbigliamento rivela un’influenza andina sugli abiti mestizo, gli ornamenti sono di

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A partire dagli anni Cinquanta, alcune compagnie petrolifere iniziarono a effettuare escursioni esplorative nella regione del Cerro León (Chacho paraguaiano). L’ingresso nel territorio ayoreode causò violente persecuzioni che provocarono la morte di alcuni paraguaiani e di diversi indios. Questo caso degli ayoi mi è stato raccontato da Luke Holland di Survival International, che, diversi anni dopo l’evento, acquistò il copricapo per un prezzo ridicolo presso la missione Nuevas Tribus (dove furono poi imprigionati i Totobeigosoode) e lo donò al Museo Etnográfico de Asunción.

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matrice chiriguana, criollo, andina, nivaklé, lengua, forse mennonita. Alcuni travestimenti, oltre a pelli di giaguaro, piume di airone e tessuti di caraguatá, utilizzano guanti da motociclista, parrucche finte e occhiali scuri. Le maschere di legno samuhú sono decorate con ali di falco e portano, come un collage, un volto ritagliato da una rivista. Maschere realizzate con la pelliccia di gatti selvatici, pecari o cervi convivono con altre fatte di cartone e plastica; rappresentazioni di antenati o bestie mitologiche condividono la festa con Batman ed ET. Ma la festa nel suo insieme è perfettamente coerente al di là della sua apparente eterogeneità e del suo disordine; è un rito vivo e sano, capace di assorbire e assimilare qualsiasi cosa, in grado di digerire le immagini più lontane e di trovare in esse un proprio valore. Talvolta certi modelli ritenuti immutabili vengono improvvisamente ridefiniti dalla novità, dalla curiosità, dalla fantasia e dal gusto personale di individui che, reintroducendo i significati alterati in un nuovo ordine, stimolano l’ambito socioculturale. In una cerimonia Tomároho (Chamacoco) a San Carlos, Alto Paraguay, nel 1986, uno dei konsáha (sciamani), incuriosito dal colore di una scatola di plastica per medicine che avevamo portato, la tagliò in lunghe strisce sottili e le intrecciò con cura a formarne una corona che poi inserì nel suo copricapo di piume. In casi come questo, la sostituzione delle forme si basa sul meccanismo retorico caratteristico di ogni discorso estetico: i significanti si muovono liberamente in base ad associazioni formali o semantiche. Attraverso la metafora o la metonimia, si modificano i vecchi codici e si stabiliscono nuove verità. Gli asuté (capi guerrieri ayoreode) indossano un cappello conico di pelliccia di giaguaro, chiamato ayoi, come segno del loro dominio su un nemico pericoloso. Negli anni Sessanta un gruppo di Ayoreode, i Totobeigosode, che fino a quel momento vivevano isolati nella giungla, si sentirono sotto crescente attacco da parte di proprietari terrieri e missionari fanatici. Molti persero la libertà o addirittura la vita in campi di concentramento evangelici (come quelli di Nuevas Tribus), furono decimati da malattie sconosciute e perseguitati da una civilizzazione imposta come una punizione. A metà del 1965, nella regione del Cerro León, un asuté, sentendo minacciata la propria terra e la propria vita, uccise un uomo d’affari di una compagnia petrolifera e si fece un nuovo ayoi con la “pelle” della vittima. Il cappello dell’invasore rimpiazzò, in senso figurato, quello del giaguaro5. Una comunità può resistere agli impatti culturali e cambiare o adattare il proprio repertorio formale solo se ha la garanzia di uno spazio per la creazione e il controllo simbolico per rispondere ai nuovi elementi con le proprie risorse. Per questo motivo non si tratta di isolare le comunità minacciate di acculturazione (ogni forma di apartheid è discriminatoria), quanto di riconoscere la necessità di rafforzare la loro capacità di organizzazione interna. Mentre alcune comunità sono state culturalmente svuotate in maniera brutale (come gli Ayoreode, che a causa dei missionari hanno perso il loro intero universo rituale in soli quattro decenni), altre, culturalmente integrate, sono riuscite a mantenere la loro forza interna e quindi a sopravvivere anche nelle circostanze più avverse. È sorprendente vedere ancora oggi nella città di Asunción estacioneros e pasioneros in abiti coloniali, che reggono candele, lampade e stendardi mentre intonano canti struggenti in alcune celebrazioni (kurusu jegua, Pasqua). Si possono ancora vedere i kambá ra’anga nel cuore della modernità e del progresso. San Bernardino è una piccola città termale a quaranta chilometri dalla capitale, affacciata sul lago Ypacaraí. Vanta un lussuoso Hotel Casinò in stile internazionale, con spazi puliti e privi di riferimenti storici e personale formato secondo i più alti standard internazionali. Tuttavia, in alcune serate di giugno, alcuni camerieri e croupier abbandonano le giacche da smoking, i tavoli verdi e le cordiali frasi in inglese per tornare alla vicina Compañía Yvyhanguy (da cui proviene la maggior parte di loro) e coprirsi il volto con lucide maschere nere per mettere in atto un oscuro rituale antico.

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LA QUESTIONE DEL DESTINO NELL’ARTE POPOLARE

Questo processo di commercializzazione di un’economia naturale è avvenuto fondamentalmente come risultato della riforma agraria e anche a causa dell’imposizione egemonica del capitale finanziario. È stato particolarmente importante durante la Seconda guerra mondiale e da allora il capitale ha continuato ad avanzare costantemente nelle campagne. Da questo momento l’agricoltore inizia a produrre un prodotto universale destinato all’esportazione (cotone, soia, tabacco ecc.) e diventa una parte vitale delle attività economiche della nazione; non produce più per la sua comunità ma per Asunción, le multinazionali e il resto del mondo.

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L’ effettiva urbanizzazione in Paraguay iniziò solo alla fine degli anni Sessanta. Morínigo ha sottolineato: “Un altro fattore nella configurazione delle culture paraguaiane è la mancanza di un processo urbano dinamico. Il Paraguay era un paese rurale fino agli anni Settanta. Se è vero che Asunción era senza dubbio al comando, l’economia rurale-agricola e la sua demografia impedivano una forte presenza culturale urbana nelle campagne. Al contrario, Asunción come città di migrazione contadina, senza un’industrializzazione sufficiente per assorbire questa migrazione, si definì in parte attraverso l’influsso della cultura rurale”, J.N. Morínigo, El Impacto de la cultura urbano­industrial, in El hombre paraguayo y su cultura, Semana Social Paraguaya, Cuadernos de Pastoral Social 7, Conferencia Episcopal Paraguaya, Equipo Nacional de Pastoral Social, Asunción, 1986, p. 53.

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A) STERMINIO E SOPRAVVIVENZA Una volta accettato che l’arte popolare ha la necessità e il diritto di cambiare, in quale direzione dovrebbe avvenire questo cambiamento? Qual è il futuro dell’arte popolare e quali possibilità ha di reagire a condizioni socioeconomiche diverse da quelle che l’hanno creata? L’arte popolare in Paraguay risponde a forme rurali di sussistenza e baratto, sistemi culturali in cui il valore pratico è più importante del commercio. Tuttavia, le comunità producono sempre più spesso i loro oggetti per venderli e non per uso personale. L’ingresso del capitale nelle campagne, insieme alla crescente urbanizzazione e al graduale aumento dei modelli di consumo industriali, ha portato all’abbandono della cultura tradizionale6,7. La migrazione, le reti di comunicazione (costruzione di strade e miglioramento dei trasporti) e l’espansione dei mass media hanno creato nuovi modelli, gusti e valori e il graduale abbandono delle funzioni tradizionali. A partire da questo punto, gran parte della nostra definizione di arte popolare inizia a sgretolarsi. Se la intendiamo ancora come un insieme di pratiche i cui prodotti sono consumati dal gruppo che li realizza (un’arte di e per il popolo), allora questa alterazione del circuito produttivo (produzione-distribuzione-consumo) si traduce nella separazione della comunità dai suoi stessi prodotti e nella rottura dell’unità di forma e funzione caratteristica dell’arte popolare. Se, ad esempio, andiamo alla festa popolare di San Blás-í (piccola San Blás) nella Compañía Caaguazú de Itá l’ultima domenica di febbraio, possiamo ancora vedere la processione del santo patrono, le danze e gli scherzi dei kambá ra’anga, le tradizionali sfilate a cavallo, le bandiere, le brocche d’acqua decorate con fiori per dissetare i pellegrini, la musica triste della banda Peteke-Peteke, gli ornamenti di carta velina, frasche e rose. Tuttavia, ciò che si vede in vendita nella fiera di fronte alla cappella non sono le ceramiche di Itá – le brocche, i recipienti e i giocattoli di argilla che hanno reso famoso il villaggio fin dall’epoca coloniale – bensì secchi di plastica, vari tipi di stoviglie argentine, coreane o brasiliane e giocattoli e decorazioni industriali. A parte le brocche rosse per l’acqua, ancora molto diffuse nelle zone rurali (e anche ad Asunción fino a venti o trent’anni fa), è più probabile vedere la ceramica di Itá nei negozi della capitale che nelle case dei contadini. Lo stesso accade per il ñandutí, gli oggetti in argento, l’iconografia, ecc. Sembra quindi che l’incessante abbandono delle forme tradizionali conduca l’arte popolare in un vicolo cieco: può scomparire o rinnegare se stessa diventando una pittoresca appendice dell’arte “alta”. Tralasciando quelle posizioni che vedono nell’arte popolare un ostacolo da eliminare, elencherò alcune proposte per far fronte a questa situazione: a) La conservazione, la tutela e il salvataggio degli oggetti sopravvissuti al crollo generale delle culture autosufficienti. Se uno stile di vita, e quindi anche un mezzo di espressione, stanno scomparendo per sempre sotto i nostri occhi, il minimo che possiamo fare è raccogliere e catalogare ciò che resta e proteggerlo e salvarlo per le generazioni future. Pubblicazioni, musei, registrazioni, fotografie e film sono il rifugio della memoria minacciata, un magazzino di simboli e frammenti di sogni. Naturalmente, il recupero di queste ultime forme è importante in quanto dimostra il riconoscimento delle culture popolari e l’appoggio al loro diritto di essere alternative, oltre a portare a una migliore comprensione dei loro valori. Spesso questo salvataggio può diventare un elemento importante per il riconoscimento e il rispetto delle specificità espressive. Ma di per sé non è sufficiente se avulso da una comprensione più complessa dei processi all’origine di queste forme, e può sfociare nella feticizzazione, producendo segni mummificati

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Baudrillard ha analizzato l’autenticità dal punto di vista dominante in quegli oggetti che definisce marginali (oggetti insoliti, barocchi, popolari, esotici, antichi). Secondo lui, questi oggetti hanno una funzione molto specifica all’interno di questo sistema: significano il tempo, non il tempo reale ma “segni o indicatori del tempo”. Il sistema, seppure con difficoltà, cerca di controllarlo visto che “la natura e il tempo, tutto si consuma in questi segni”. Per questo motivo, per quanto autentici possano sembrare questi oggetti, sono sempre in qualche modo falsi; per questo motivo non possono sottrarsi alle esigenze di un “sé definito e consumato”. L’oggetto mitologico esiste nel tempo verbale perfetto: “È ciò che ha il suo posto nel presente come se avesse avuto un posto nel passato, e per questo è autentico...”. Questa esigenza si esprime attraverso due aspetti che mitizzano l’oggetto: “nostalgia delle origini e ossessione per l’autenticità”. J. Baudrillard, ll sistema degli oggetti, trad. S. Esposito, Milano, Bompiani, 1972 (ed. orig. Le système des objets, Paris, Gallimard, 1968).

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b) Con un analogo obiettivo di conservazione, altre proposte suggeriscono la conservazione non degli oggetti in sé, ma di tecniche e motivi in via di sparizione e considerati distintivi della cultura popolare. Sono in molti a proporre di salvare l’autenticità dell’arte popolare conservando a tutti i costi le tecniche e i motivi tradizionali, o addirittura facendoli rivivere laddove sono scomparsi, nel tentativo di percorrere a ritroso la storia per individuare un punto prescelto che possa fungere da paradigma di autenticità: alcuni indios sono incoraggiati – per ragioni estetiche o commerciali – a utilizzare tinture vegetali arcaiche (il pezzo acquista valore in modo direttamente proporzionale alla scarsità della tecnica), colori naturali, tecniche ancestrali e motivi antichi. Non interessa sapere se queste comunità rispondono a questi colori, se queste tecniche permettono loro di esprimersi più liberamente o se questi motivi hanno un significato simbolico attuale. Il punto è far apparire gli oggetti più autentici e naturali, corrispondendo il più possibile a una visione archetipica di quella che dovrebbe essere un’immagine popolare (bucolica, arcaica, spontanea e con un pizzico di selvaggio)8. Naturalmente è importante sostenere per quanto possibile le tecniche tradizionali, ma solo qualora le comunità ne abbiano la necessità. A volte, a causa del rifiuto della cultura popolare, dell’impossibilità di ottenere determinate forniture o dell’imposizione coercitiva di modelli stranieri, una comunità può perdere l’uso di una tecnica o di un’immagine ancora valida. In questi casi non si può dubitare dell’utilità di rimuovere gli ostacoli e recuperare i mezzi espressivi autoctoni. Ciò che è inaccettabile è costringere un gruppo a curarsi fingendo emozioni che non prova più. C’è chi ha cercato di salvare tecniche o motivi tipici applicandoli a pratiche estranee. Un esempio è l’uso di motivi indigeni o rurali applicati al design industriale, oppure l’uso manieristico di immagini o simboli stereotipati senza comprenderne il significato. Finzione e falsità nell’arte hanno effetti disastrosi: quando le scene rurali vengono ricreate dall’esterno, il risultato è un realismo maldestro che tradisce sempre la realtà attraverso caricature tipiche. Quando si cerca di riprodurre i presunti segni della cultura guaraní (il paradigma dell’indigenismo paraguaiano), le immagini che ne risultano sono indistinguibili da qualsiasi immagine indigena standard dei mass media (motivi a zig-zag, fasce apache, colori vivaci, ecc.).

‫זרים בכל מקום‬

privi di contesto e significato. Pensare che la mera conservazione sia un’alternativa, significa accettare un atteggiamento fatalista e proporre una cultura archivistica passiva.

1) L’estetismo, di fronte all’estinzione dell’arte popolare, cerca di salvare almeno le forme, anche se le funzioni devono essere (a volte volutamente) sacrificate. Dal momento in cui manca la continuità tra creazione artistica e condizioni sociali di produzione (e quindi una crescente autonomia della forma rispetto alla funzione), il più delle volte per effetto dell’inerzia culturale, i modelli formali continuano a essere utilizzati anche dopo che i loro significati originari si sono esauriti. Questa continuità delle forme nel vuoto può essere spiegata nei termini della particolare forza di certe espressioni che sono così radicate da poter sopravvivere alla loro stessa perdita di validità funzionale. Questo fenomeno, caratteristico di ogni attività creativa, è in qualche modo più evidente nell’arte popolare, in cui le forme hanno una maggiore dimensione sociale. Secondo Gilberto Giménez: “Nella misura in cui creano un sistema duraturo, le abitudini o l’ethos di classe possono anche spiegare la sopravvivenza di forme e pratiche culturali anche dopo la scomparsa o il deterioramento delle loro basi materiali. In altre

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c) La rottura dell’unità tra forma e funzione è stata affrontata in due modi:

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G. Giménez, Cultura popular y religión en el Anáhuac, Ciudad de Mexico, Centro de Etudios Ecuménicos, 1978, p. 229.

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10 Mi riferisco a questo punto a quelle proposte che tentano di riscattare l’arte popolare dall’esterno. Non sto in alcun modo negando il diritto di qualsiasi comunità a sviluppare processi artistici che privilegino gli aspetti formali e le funzioni tradizionali.

2) Il funzionalismo tecnico opta per un sacrificio dei fattori estetici, sperando di migliorare la qualità tecnica del prodotto, garantendone così la sopravvivenza e aprendolo a un mercato più esigente. Questa posizione è tipica delle teorie dello sviluppo: enfatizza gli aspetti commerciali e la frattura tecnica, ma ignora le implicazioni simboliche e il contesto storico. In Paraguay il Banco Interamericano de Desarrollo (Consejo Nacional de Entidades Benéficas) promuove un programma che è una chiara illustrazione di questo pensiero tecnocratico. I progetti di “promozione dell’artigianato” vengono sviluppati con l’aiuto di tecnici e istituzioni straniere, ignorando totalmente i fattori creativi. I risultati sono risibili e oscillano infelicemente tra lo stereotipo totale e l’“artigianato urbano applicato” che, come tutti i tentativi di distorsione, finisce per diventare un insipido kitsch. Tutte le posizioni finora discusse affrontano la questione dal punto di vista della cultura dominante e cercano di salvare l’arte popolare isolandola dal suo contesto, frammentandone le pratiche, privilegiandone arbitrariamente alcuni aspetti (estetici, commerciali, utilitaristici, simbolici) e banalizzandone i significati più profondi. In sintesi: nonostante alcune buone intenzioni, la cultura dominante cerca di appropriarsi delle espressioni popolari, trasformandole in trofei, oggetti per la ricerca scientifica, beni commerciali o souvenir. Salva l’arte popolare a condizione di controllarne la distribuzione (attraverso musei, boutique, negozi turistici, gallerie), di modificarla per adattarla alle aspettative e soddisfare desideri particolari (nostalgia primitiva, autenticità, riferimenti alla tradizione coloniale, ecc.) Da questo punto di vista, è chiaro che l’unica opzione per l’arte popolare, se vuole sopravvivere, è cercare di mettersi al passo con una modernità estranea o chiudersi nel passato e rinunciare al destino storico. Queste proposte sono quindi paternalistiche; dall’esterno cercano di scrivere le regole per l’arte popolare, se può o meno firmare i propri prodotti, innovare o vendere. Le sue fortune (o la sua morte) sono decise dall’esterno: si teme il cambiamento e si formulano progetti che dovrebbero essere di competenza della comunità.

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parole, possono spiegare la discrepanza spesso riscontrata tra la base economica e la sovrastruttura ideologico-culturale”9. L’arte popolare tradizionale (mestizo e indios) ha un ritmo proprio, una scala temporale diversa da quella di altri sistemi culturali e un approccio più conservativo nei confronti della ripetizione dei modelli comunitari; è così che, anche di fronte a nuove circostanze, può continuare a produrre soluzioni formali relative a esigenze precedenti. A questo punto le forme appaiono scollegate dalla loro funzione. È una proposta che mantiene l’arte popolare in questo limbo e suggerisce di continuare a produrre in termini di forme pure, rendendola così paragonabile all’“inutilità” dell’arte “alta”. Si tratta di un atteggiamento presente in un approccio comune all’arte popolare che, promuovendone le caratteristiche estetiche, ne dimentica i ruoli utilitari o simbolici. Sebbene questa promozione sia uno stimolo alla creatività e un riconoscimento delle possibilità artistiche dell’arte popolare, incoraggia anche un dualismo tra forma e funzione che ne altera i meccanismi produttivi comuni e ne distorce il significato10.

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4) i sistemi sociali non condizionano al punto da determinare totalmente il destino di una cultura. Anche se abbiamo già discusso molti di questi punti, è opportuno ripercorrerli rapidamente per strutturare questa sezione.

11 N. García Canclini, Las culturas populares en el capitalismo, Ciudad de Mexico, Nueva Imagen, 1986, p. 104. 12 M.A. Bartolomé, S.S. Robinson, Indigenismo, dialéctica y conciencia étnica, in Journal de la Societé des Americanistes, 60, 1971, pp. 291-298, in part. p. 296. 13 A. Colombres, Liberación y desarrollo del arte popular, Asunción, Museo del Barro, 1986, p. 26.

1) Di fatto, in Paraguay, come in altri paesi latinoamericani, sono solo le comunità rurali ed etniche (che rientrano nella categoria precapitalistica) a creare opere artistiche; ma da questo non dobbiamo dedurre che non esista un potenziale espressivo negli altri settori (urbano e suburbano), che potrebbero sviluppare spazi creativi man mano che maturano le loro pratiche e i loro discorsi. Inoltre, la coesistenza in America Latina di diverse scale temporali ha creato una rete così complessa che molte forme culturali possono facilmente passare da un estremo storico all’altro o prosperare nello spazio incerto tra ciascuno di essi. Non è facile isolare il precapitalismo. Néstor García Canclini ha affermato che: “L’artigianato è, e al tempo stesso non è, un prodotto precapitalistico. […] Il suo doppio carattere – storico (in un processo iniziato nelle società precolombiane) e strutturale (nell’attuale logica del capitalismo dipendente) – è ciò che crea i suoi aspetti ibridi”11. Infine, il termine “precapitalistico”, che assume come paradigma la società occidentale moderna, è discutibile quando viene semplicemente applicato a processi storici diversi e presuppone un obiettivo che non è necessariamente lo stesso. Bartolomé e Robinson hanno sostenuto che il modo in cui le società indios sono considerate precapitalistiche (cioè parte della storia e dello sviluppo economico dell’Occidente) le pone “indietro” rispetto a questa storia, mentre in realtà: “Le società indios relativamente non influenzate dal colonialismo sono ‘acapitalistiche’ e non ‘precapitalistiche’. Presentano quindi di per sé un modello sociale e politico diverso da quello creato dalla storia economica e politica della nostra società”12. Per questo Adolfo Colombres sceglie di usare il termine “acapitalistico” piuttosto che “precapitalistico”, in quanto quest’ultimo presuppone un destino unico e inevitabile13.

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3) i settori popolari non sono passivi e incapaci di rispondere o resistere;

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2) nemmeno la cultura dominante può (o vuole) dissolvere tutte le altre forme creative e sociali;

ETRANJE TOUPATOU

B) IL MITO DEL DOMINIO DIVINO Le previsioni apocalittiche sull’estinzione dell’arte popolare si basano su un verdetto mitico indiscutibile: poiché le forme popolari sono un prodotto precapitalistico e non possono cambiare al di fuori di questo modello, saranno costrette a entrare in una modernità che le distruggerà insieme a tutte le altre forme tradizionali. Tuttavia, la constatazione di alcuni fatti ci costringe ad ammettere che: 1) popolare non sempre significa precapitalistico;

2) L’uso del concetto di egemonia può mettere in discussione l’assunto che il dominante sia una forza onnipotente, in grado di coprire ogni area e divorare tutto ciò che incontra sul suo cammino. Canclini ha parlato di un “concetto teologico” relativo all’onnipotenza di un capitalismo che controlla tutto; in società complesse come quelle del capitalismo periferico, i processi socioculturali sono il risultato di forze contrastanti. “Una di queste è la continuazione (o i resti) di organizzazioni economiche e culturali comunitarie che interagiscono con la cultura

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14 N. García Canclini, Las culturas populares, cit., p. 105. 15 Ivi, p. 192.

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16 Ivi, p. 104.

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17 J.J. Brunner, Los debates sobre la modernidad y el futuro de América Latina, Santiago de Chile, FLACSO 293, 1986, pp. 30-31.

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dominante in modo molto più dinamico di quanto si supponga da parte di chi parla solo di penetrazione e distruzione delle culture autoctone”14. Per questo motivo: “Lo sviluppo capitalistico sovraurbano, la sua necessità di produzione e consumo standardizzati sono limitati dalle caratteristiche specifiche di ogni particolare cultura e dall’interesse che il sistema stesso può avere nel preservare antiche forme di organizzazione e rappresentazione sociale; la cultura dominante conserva alcuni arcaismi da riconfigurare e ricontestualizzare”15. Quindi, anche se non possono essere considerati come un concetto di onnipotenza di un capitalismo che controlla tutto, i processi socioculturali sono il risultato di forze in conflitto. Pertanto, anche se non contribuiscono direttamente allo sviluppo di nuove forme di produzione, alcune forme precapitalistiche sono necessarie per una riproduzione equilibrata del sistema, in quanto possono tenere insieme ampi settori della società, essere una fonte di reddito aggiuntiva per le campagne, rinnovare i consumi e stimolare il turismo16. 3) Il prezzo pagato dalle “forme tradizionali” per ottenere l’accettazione è che si adattino al meccanismo generale del sistema e non siano d’intralcio. Per questo motivo, la cultura egemone cerca di ripulire e modificare le forme che non si adattano al suo sistema; il folklore pittoresco, l’invasione, la distorsione del significato e l’indebolimento della base simbolica sono strategie caratteristiche di questo processo. Il dominante frammenta la cultura del subordinato e ne isola gli elementi per manipolarli e ricondizionarli a proprio piacimento. Tuttavia, come abbiamo notato in precedenza, la cultura popolare non è un contenitore debole e informe che accetta passivamente l’invasione e si arrende alle sue richieste. Inoltre, la cultura popolare non solo è sedotta, ma si lascia sedurre, indietreggia e si arrende; i suoi obiettivi non sono sempre molto chiari, né i confini tra essa e l’avversario sono così stabili. Per questo motivo incorpora e si appropria di molti elementi nocivi e riceve con gratitudine diversi falsi regali. Abbiamo anche sottolineato come le stesse contraddizioni del sistema dominante creino al suo interno piccole sacche di dissenso in cui viene difeso il diritto alla differenza culturale. Da queste sacche è possibile incoraggiare questo diritto e disattivare molti meccanismi volti a svuotare i discorsi popolari. L’idea che l’arte popolare sia irrimediabilmente condannata a scomparire di fronte ai progressi dell’industria culturale, con il presupposto che quest’ultima sia responsabile di tutti i problemi dell’espressione tradizionale, si basa in parte su un’applicazione meccanica delle teorie critiche della Scuola di Francoforte alle culture dipendenti. Questa scuola ritiene che l’avanzata incontrollabile di una nuova cultura distrugga tutte le precedenti, riducendone le differenze e le particolarità. Ma questi critici parlavano da contesti diversi; per questo Brunner insiste sul fatto che prima di applicare le teorie critiche dovremmo analizzare il significato dell’industria culturale dell’America Latina, ovviamente diverso da quello che potrebbe avere in un contesto storico totalmente differente. “Per cominciare […] la critica europea all’industria culturale non è mai stata legata a un discorso sulla sopravvivenza delle culture popolari. […] Al contrario: la denuncia era che l’industria culturale distrugga la cultura ‘alta’, sottomettendola a una nuova forma di cultura di massa. Al contrario, nei paesi periferici e in via di sviluppo, le industrie culturali agiscono su enormi aree di cultura popolare...”. La sua conclusione è che il rifiuto di tutto ciò che proviene dall’industria culturale e che entra nella cultura popolare “si basa sul presupposto che le coscienze siano manipolate, che i destinatari siano vulnerabili e che il consumo culturale sia totalmente passivo”17. Abbiamo già notato come l’applicazione meccanica di un concetto a realtà culturali diverse generi semplificazioni. In questo caso lo spostamento crea una grande spaccatura tra la cultura popolare (originariamente innocente e buona) e l’industria culturale (alienante e fatalmente corruttrice). La prima è considerata passiva e malleabile,

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4) Il tentativo di definire l’arte popolare in termini di un particolare sistema socioeconomico (in questo caso, la produzione precapitalistica) potrebbe condurre a una semplificazione meccanicistica dei processi di significazione, intendendoli come bloccati nelle condizioni che esprimono. La condizione dei popoli paleolitici illustra bene questo punto. Esaminiamo gli Zamuco (Ayoreo e Chamacoco), cacciatoriraccoglitori che vivono nel Chaco paraguaiano. Che ci piaccia o no nel mondo di oggi non c’è posto per i cacciatori; l’espansione della società nazionale sta progressivamente restringendo le foreste e sterminando intere specie animali, al punto che, inseguendo un tapiro o un pecari, un cacciatore si scontrerà inevitabilmente con la recinzione di una fattoria dell’immensa Compañía Carlos Casado, con una pubblicità mennonita o missionaria, con una strada o una pista aerea. Così un’intera civiltà viene a poco a poco distrutta per sempre. Il problema è che la struttura simbolica di ognuna di queste comunità è organizzata attorno a un insieme specifico di condizioni che ne determinano i miti, le cerimonie, le forme artistiche e sociali. La cerimonia del debylyby dei Tomároho (Chamacoco), ad esempio, è in parte un rito di riappacificazione. La misteriosa festa degli Anábser, esseri soprannaturali, invoca buone catture e frutti abbondanti attraverso lo scuotimento delle piume; attraverso il grande segreto cerimoniale che richiede l’uso di maschere vegetali; attraverso l’improvvisa apparizione di spiriti con corpi dipinti di rosso, bianco e nero; e infine attraverso il profondo coro di grida che riecheggia in tutto il villaggio e si diffonde nella giungla dall’hárra (cerchio cerimoniale), provocando un’allarmante esplosione di canti di uccelli e grida di animali che, come il rumore degli spiriti, spaventa bambini e aironi. Gli ultimi sopravvissuti dei Tomároho, in fuga dallo sfruttamento, si lasciarono alle spalle le loro montagne devastate e si trasferirono a Péixota, dove decisero (senza molta scelta) di diventare, in una certa misura, agricoltori. Si tratta di un cambiamento brusco e drastico, che presuppone un repentino cambiamento di stile di vita e di tempo storico. Per il momento, conservano la cerimonia del debylyby quasi intatta; è troppo presto perché il rituale assorba queste nuove condizioni. Che cosa accadrà poi a questa cerimonia di caccia? L’approccio che sto criticando risponderebbe che non succederà nulla, che questa cerimonia è costruita con forme condannate e strutture anacronistiche che presto scompariranno come è già accaduto al loro (paleolitico) sistema. Questo sarebbe vero in quei casi in cui il cambiamento viene imposto in modo compulsivo, senza lasciare alla comunità alcun margine di reinterpretazione. La storia recente degli Ebytoso (un altro gruppo chamacoco) illustra la rapida morte dei rituali quando il gruppo viene attaccato dai missionari o sfruttato. A Puerto Esperanza una comunità è stata lacerata da sette fanatiche, lasciandola priva di immagini comunitarie e del desiderio di sognarle. A Puerto Diana c’è un altro gruppo ebytoso minato dai profitti e dalle credenze straniere; ora non è altro che un’ombra imbarazzata della sua storia, un bacino di manodopera a basso costo e fonte di approvvigionamento per i bordelli. Queste comunità, come molte altre, hanno perso la propria vitalità simbolica, la forza con cui reinterpretare le nuove condizioni.

‫ألجانب في كل مكان‬

mentre la seconda sarebbe una valanga distruttiva e inarrestabile. Abbiamo visto come la complessa ambiguità dell’arte popolare e la sua natura conflittuale agiscano come forze di tensione, minacciando costantemente una perdita di coerenza e di comprensione. Tuttavia, queste stesse forze ne garantiscono paradossalmente la sopravvivenza: creano un paesaggio mentale parallelo pieno di nascondigli, un mondo residuale senza frontiere o porte in cui i simboli popolari possono svilupparsi protetti da ombre e immagini ibride; si nascondono e crescono al di là del controllo, dell’interesse o della portata della cultura dominante.

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18 Questa citazione è tratta da un’intervista, tuttora inedita, che ho avuto con Miguel Bartolomé nell’aprile 1987 sulla situazione attuale degli ayoreo, costretti all’interno delle missioni Nuevas Tribus.

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Ma quando un gruppo conserva uno spazio produttivo significativo, può ricostruire un repertorio sociale per incorporare le nuove condizioni. È allora che il culto può essere riorganizzato, i miti di origine adattati e nuove figure create per spiegare gli eventi recenti. L’ipotesi che i sistemi culturali di significato siano totalmente definiti dalle condizioni sociali originarie si basa sull’illusione che i miti non siano storici. In realtà, le odierne storie dei Tomároho spiegano l’arrivo degli uomini bianchi, dei cavalli, degli aerei e delle armi da fuoco; parlano anche dei mitici eroi della guerra del Chaco (1932-1935). Molti vecchi ebytoso conservano gli Anábser come clandestini di questa nuova religione: collegano Axnuwerta alla Vergine Maria e Nemur a Gesù Cristo, e spiegano l’estinzione della loro cultura come il compimento della maledizione dell’ultimo Anábsoro. Riferendosi a questo tema e richiamando l’ipotesi di Claude Lévi-Strauss (che Clamstres applicò alla cultura guaraní), Miguel Bartolomé afferma che è possibile ipotizzare che gli Zamuco fossero gruppi arcaici, antichi agricoltori costretti a diventare cacciatori da altre circostanze storiche. Così, il loro modello mitico-culturale neolitico originario si sarebbe adattato alle nuove esigenze culturali e avrebbe iniziato a concepire forme tipiche delle condizioni paleolitiche. Cita il caso dei contadini araucani che, sfuggendo alle battaglie di frontiera sul loro territorio, nel XVIII secolo si trasferirono in Argentina; qui divennero cacciatori a cavallo, prima di struzzi, poi di bovini fino a diventare pastori stanziali. Per questo motivo i rituali araucani contemporanei mostrano la commistione di più mondi: sono essenzialmente cerimonie agricole che includono offerte di frutta e sacrifici animali (originariamente provenienti dalla loro esperienza di cacciatori-raccoglitori) ed elementi dell’attuale status di pastori. Bartolomé aggiunge che è difficile immaginare un ebreo o un cristiano a New York che si ricordi che la sua religione è nata tra i pastori ed è stata poi riadattata e modificata in base a nuove condizioni18. In fin dei conti, che cos’è la materia dell’arte occidentale se non un accumulo di residui, di substrati diversi e di forme originariamente appartenenti ad altre storie, a sistemi scomparsi e a situazioni dimenticate? Sebbene le condizioni siano cambiate e sebbene possa trascinarsi dietro forme e tecniche notevolmente superate, l’arte contemporanea si è sviluppata secondo linee sostanzialmente rinascimentali. Anche se può essere difficile da accettare, la pittura di Picasso è essenzialmente pittura da cavalletto. Inoltre, le forme rinascimentali non sono nate dal nulla nel XV secolo, ma sono state costruite a partire da forme precedenti sfuggite al proprio destino trasformandosi o adattandosi alle esigenze di una nuova epoca, dove potevano riaffermarsi e riprodursi. Quanti resti di sistemi dimenticati si nascondono sotto l’iconografia, i codici visivi e le tecniche contemporanee? Quanti simboli paleolitici, pastorali o feudali possiamo ritrovare nel ricco patrimonio che l’arte occidentale rivendica per sé? Se questa comunità chamacoco dimenticata riesce a mantenere aperta la possibilità di generare significati, può trovare soluzioni per le sfide che deve affrontare, rielaborando forme consolidate o creandone di nuove in cui i residui del vecchio saranno sempre presenti.

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20 Lauer sostiene che: “È quando la produzione viene effettuata in anticipo per soddisfare una domanda esterna al villaggio o alla regione (e ai settori dominati) che iniziamo a vedere i produttori precapitalisti spostarsi da un sistema di mercato a un altro” (M. Lauer, Crítica de la artesanía, cit., p. 187). Nel Paraguay coloniale, e ancor più repubblicano, la produzione artigianale è anticipata in quasi tutte le zone elencate. Ad esempio, gli argentieri di colore che vivevano vicino ad Asunción, i fabbricanti di immagini, i fabbricanti di mobili di Itá, i fabbricanti di ñandutí accumulavano prodotti da vendere fuori dalla comunità.

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19 Campesino: letteralmente “abitante della campagna”, più neutro di “contadino” [n.d.T.].

C) PROPRIETARI DI SIMBOLI Per questo motivo la questione non è se si debba conservare, proteggere, superare o integrare l’arte popolare. Se la questione viene posta in questi termini, dall’esterno, le soluzioni saranno inevitabilmente populiste o protezionistiche. Il dibattito sull’arte popolare dovrebbe sempre tenere conto del suo processo costitutivo. Un’opera non è popolare per qualità intrinseche, ma per l’utilizzo da parte di settori popolari. Finché questi settori mantengono il controllo, l’oggetto sarà sempre un’opera d’arte popolare, anche se le sue qualità, le sue funzioni e i suoi elementi stilistici cambiano. Finché le persone si impegneranno nella propria produzione estetica, ci sarà sempre arte popolare, sia essa tradizionale o meno. Il destino di una particolare forma d’arte popolare dipenderà dal fatto che sia sostenuta o meno da un immaginario collettivo, e che una comunità si riconosca o meno in essa, che la veda rispondere a momenti della propria identità ed esperienza, della propria sensibilità e della propria storia. Le nuove condizioni che separano il campesino19 e l’indio dai loro prodotti creano seri problemi. Tuttavia, anche in questo caso, la separazione non deve essere considerata come la trasgressione di una norma, ma piuttosto come un conflitto con molte soluzioni possibili. A partire dal primo periodo coloniale, vennero realizzati molti pezzi che sfuggivano al sistema del consumo da parte dei fabbricanti e del baratto: immagini religiose create per gli altari di famiglia e per le cappelle locali, e altri articoli così costosi e lussuosi che tendevano a essere utilizzati più dai criollo ricchi che dai campesinos, ad esempio ñandutí (pizzi pregiati per altari e abiti eleganti), pezzi d’argento e d’oro (mates, finimenti e gioielli), mobili e porte di pregio. La domanda di questi prodotti crebbe alla fine del XVIII secolo per soddisfare una nuova borghesia commerciale più raffinata di quella precedente. Tuttavia, sono espressioni segnate dal gusto solenne e semplice dell’arte rurale paraguaiana; sono forme popolari, anche se il loro consumo non coincide esattamente con la comunità che le ha realizzate20. Quando una comunità rurale mantiene il controllo sulla propria produzione simbolica, creando simboli in cui si riconosce, in cui si condensano le sue esperienze e i suoi desideri, allora questi simboli sono popolari anche se le nuove condizioni economiche li hanno allontanati da molte delle loro funzioni. Un campesino non diventa meno campesino o meno “popolare” perché i suoi prodotti sono passati da un’economia di sussistenza a un’economia di mercato. La sua produzione artistica deve mostrare questo cambiamento; ciò che fa è adattarsi e riadattarsi. I mercati capitalistici creano spazi molto particolari. Ogni oggetto artistico che vi entra si scompone e una parte diventa merce, feticcio, evasione. Nella misura in cui le sue condizioni sono imposte, il campesino si separa parzialmente dai propri prodotti. Il modo in cui creerà nuove forme per risolvere questo problema è una domanda a cui non possiamo rispondere dall’esterno. Per il momento, molte forme precedenti (quelle legate alla logica dell’uso) continueranno a essere prodotte e generate da un impulso genuino che tuttavia non può sostenerle nel vuoto per sempre. L’immaginazione popolare ha però elaborato modi efficaci per affrontare sfide almeno altrettanto difficili. Nel frattempo occorre conservare una riserva simbolica con cui resistere al trauma di nuovi impatti violenti e con cui alimentare la capacità di creare nuove forme. È importante non perdere il senso e la direzione poetica e non abbandonare il filo che ha creato tante figure e dato forma a tante memorie. È più facile esplorare nuove strade se si ha una storia solida alle spalle. A volte il simbolo scompare quando l’oggetto diventa qualcos’altro. A volte si arrende a una pressione schiacciante. Alcuni ceramisti di Itá, ad esempio, non sono stati in grado di rispondere alle nuove condizioni create dal mercato e hanno iniziato a produrre compulsivamente centinaia di pezzi identici. Questi pezzi erano inespressivi

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21 Soprattutto nel caso delle culture etniche, il sostegno per uno spazio creativo dedicato è importante quanto la lotta per uno spazio vitale. La creatività garantisce l’identità di un gruppo ed è una forza di resistenza. Quando esposte alle forze etnocide, le comunità si disgregano e si alienano.

non perché fossero uguali, ma perché erano indefiniti. Erano oggetti muti, senza memoria e senza desiderio. Non contenevano passioni né segreti. Ecco perché è essenziale che di fronte a nuove situazioni, spesso avverse, i settori popolari trovino una base solida da cui affrontarle. Non ha senso approvare o condannare le alternative dall’esterno: se riescono a generare un cambiamento e a trovare le forme per farlo, saranno valide. In questo senso la cultura popolare ha il diritto di utilizzare tutti i canali e le istituzioni (con cui la cultura dominante interrompe e interferisce) e di usarli come rifugi, trincee o addirittura come piste per potenziali voli. Da questo punto di vista non si può criticare la decisione di ricorrere al mercato e di lottare per ottenere prezzi più equi e un maggiore riconoscimento della creatività popolare. Si può anche comprendere il desiderio di occupare tutti gli spazi disponibili, anche provvisoriamente, per resistere o creare nuove forme21. Lo spazio, tuttavia, non è sufficiente. Se in definitiva l’energia delle forme e il segreto del loro successo risiedono nella coesione interna della comunità, per preservarne il destino dovremmo anche lottare per rafforzare la loro identità sociale e sostenere le comunità stesse. Se accettiamo che la subordinazione (in una situazione di un conflitto) e l’autoaffermazione comunitaria siano caratteristiche fondamentali della cultura popolare, allora la conquista del territorio e il rafforzamento interno sono tappe essenziali nel processo di resistenza e sviluppo della cultura popolare e unici garanti della sua continuità. Per i settori emarginati e oppressi, l’organizzazione interna, l’affermazione della differenza e la costituzione di un corpo comunitario sono fondamentali affinché il gruppo possa affrontare la società civile, confrontarsi con altre forze e settori e articolare le proprie lotte e richieste in termini di sogni e aspirazioni comuni. Una comunità internamente equilibrata, capace di mobilitarsi per conquistare posizioni e lottare per il proprio spazio, può svolgere un ruolo di primo piano nello sviluppo immaginario delle proprie realtà, indipendentemente dall’intensità delle forze storiche che la condizionano.

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Queste forze storiche esistono e sono potenti; ma il destino dell’arte popolare dipende anche da altre forze. Se accettiamo che l’arte popolare possa cambiare e modernizzarsi, a quale modernità ci riferiamo? Si tratta di una domanda particolarmente pertinente ora che è in discussione il significato stesso di modernità. L’arte popolare può accedere alla modernità cavalcandola, o ha invece il diritto non solo di accedervi, ma anche di avere una modernità propria? Ci troviamo nuovamente di fronte al consueto problema di cercare di inserire la produzione culturale latinoamericana all’interno di categorie e progetti a essa estranei. Il fatto che l’arte popolare, essenzialmente precapitalistica, sia oggi considerata da un punto di vista che potremmo vagamente definire postmoderno è un sintomo del rischio che corriamo entrando in uno spazio illusorio definito tra un “pre” e un “post” che segnano il prima e il dopo di esperienze e desideri estranei. Per questo motivo, una critica della modernità in America Latina dovrebbe considerarla come il risultato di un’esperienza adulterata e incompleta piuttosto che come un momento esaurito. La modernità periferica non è il risultato di processi locali, ma la conseguenza di imposizioni e seduzioni, il risultato della dipendenza e del consumo. È una modernità contraddittoria, un progetto semi-mistificato ispirato tanto da una ragione incompresa quanto dai desideri alieni di un mercato globale. È una modernità di second’ordine, programmata per totalità monumentali in cui sarà sempre periferica, ispirata da solenni concetti di progresso, civiltà e libertà, i cui benefici sono pochi e lontani da questa parte dell’oceano, da questo lato oscuro della storia. Ora ci troviamo di fronte a una situazione strana e confusa in cui la coscienza moderna ha diagnosticato la propria crisi e ha annunciato di aver superato i propri limiti, diventando “post” (in un modo che preserva l’onnipotenza e il narcisismo del sistema che in teoria doveva sostituire). Per la prima volta nella storia siamo contemporanei a uno “stato di post” (postmodernità), che normalmente veniva deciso a posteriori. Di fronte al crollo di tante utopie razionaliste, al discredito dei paradigmi tecnologici e al cliché del progresso indefinito, la cultura tardo-moderna è in preda a un profondo disagio e oggetto di dolorose domande. Da un lato, questa crisi rivela sintomi che oscillano tra scetticismo e nichilismo, delusione e nostalgia, ironia cinica e vera e propria disillusione. Dall’altro lato, le posizioni critiche variano da radicali attacchi ai miti fondamentali della modernità a diversi tentativi di soluzione. Il Postmodernismo, come promosso da alcuni centri metropolitani, attacca le conseguenze del Modernismo senza riuscire a liberarsi dai suoi vizi. In qualche modo si rifà alle vecchie forme, non per trovarvi nutrimento o una base da cui lanciarsi verso il futuro, bensì un rifugio, un alibi in cui nascondersi dai nuovi conflitti. Così il Postmodernismo diventa più un movimento epigonale che di rottura; mette in discussione le avanguardie ma finisce per essere un’altra avanguardia, seppure priva della forza innovatrice originaria. Lamenta la morte delle utopie ma è incapace di proporre alternative. Si oppone all’uniformità culturale dell’imperialismo tecnologico mentre impone e diffonde nuovamente forme standard e modelli astratti, sempre dipendenti dalle potenze tecnologiche. Nel suo cammino verso una modernità confusa, non c’è motivo per cui la cultura latinoamericana debba subire le conseguenze di un processo in cui, in generale, ha svolto il ruolo passivo dello spettatore o è stata considerata un’eterna perdente. Il culto del progresso illimitato, dipendente dalla produzione industrializzata, o la glorificazione della ragione tecnologica e la schiacciante espansione del funzionalismo internazionale hanno invaso le nostre storie e lasciato dietro di sé figli bastardi, territori uniformi (o sterili) e scarsi benefici. In realtà, le nostre società non hanno mai creduto del tutto in un progresso ininterrotto, né si sono fidate di una ragione che non hanno mai compreso appieno. Le

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LA QUESTIONE DELLA MODERNITÀ NELL’ARTE POPOLARE

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22 J.J. Brunner, Los debates sobre la modernidad, cit., p. 58.

23 In quest’ultimo punto non mi riferisco più a quei segni che sanno riadattarsi alle nuove circostanze e crescere nonostante esse, ma a quelli che appaiono immutabili.

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nostre prime avanguardie non potevano promettere molto: isolate dalla società, represse o ignorate, erano parodie senza importanza o non avevano la forza di catturare ed esprimere i sogni collettivi. Per questo motivo dovremmo stare in guardia per evitare di pagare per beni che non abbiamo avuto il tempo o l’opportunità di esplorare. “Siamo condannati a vivere in un mondo in cui tutte le immagini della modernità provengono dall’esterno e diventano obsolete prima ancora di poterle usare”22. I Paesi periferici possono resistere e non entrare nel vicolo cieco in cui si ritrovano ora le culture esauste e ciniche. Bloccate in questo processo, queste ultime non sono in grado di evadere immaginando un altro tempo o trovando una via di fuga in pratiche artistiche capaci di ribaltare la storia e metterla in discussione. Gli esperimenti artistici in America Latina non hanno ancora esaurito molte possibilità né si sono addentrati in percorsi che ora sembrano chiusi; non hanno condiviso presupposti, storie e valori che hanno creato molte frustrazioni e delusioni. Molti di questi esperimenti sono stati realizzati da settori popolari emarginati che hanno memorie e desideri diversi. Perciò hanno ancora la possibilità di proporre progetti attraverso miti antichi o simboli di nuova acquisizione; hanno ancora il diritto all’utopia. Allo stesso tempo, si può ancora imparare dalla critica della modernità nella misura in cui ha messo in discussione l’omogeneizzazione culturale creata dal terribile peso delle forze tecnologiche; è stata data nuova attenzione a voci particolari e alternative e a piccoli frammenti, a sforzi specifici che possono creare nuovi significati e fondare altri progetti senza toni messianici o apocalittici. Qual è il destino ultimo dell’arte popolare in questa macchina universale? Che posto hanno le sue forme in una storia che guarda sempre avanti? Come si inseriscono queste forme “primitive” nelle forze interne del progresso? Oggi queste domande sembrano in qualche modo ingenue. Ma forse il prestigio della Ragione si riprenderà e tenterà ancora una volta di organizzare il tutto in totalità (così necessarie per riempire il vuoto), di fondere le immagini in un’unica memoria e tutti i simboli nello stesso stampo. Nel frattempo possiamo godere di questo momento di respiro, forse di tregua, per esaminare quei molti eventi che non rientrano nei progetti universalistici e che non sono benedetti dalla Ragione; alcuni brandelli di culture condannate che sopravvivono ostinatamente a dispetto dei decreti e dei piani23. È inutile interrogarsi sul destino ultimo di molte forme scartate da una storia esclusiva. Il fatto è che esistono ora. Sono qui, nascoste o minacciate, sostenute dai loro ricordi o nel loro puro presente, sono ancora vive, ognuna riflettendo una particolare porzione di tempo. Quando i capi ayoreode vengono sconfitti e portati nelle missioni, lasciano dietro di sé le pellicce e le piume; hanno perso il diritto e l’orgoglio di indossarle. Quando gli sciamani Chamacoco si avvicinano alle fattorie per offrire il loro lavoro e i loro poteri di guarigione, non indossano né ghirlande né corone. Ma gli ultimi capi e sciamani liberi cercano con zelo gli uccelli prescelti e compiono pazientemente complicati rituali che i loro figli non useranno, ma che in questo momento possono evocare la verità effimera del momento, evocare tempi alieni e catturare un momento intenso e fugace nella sua insostenibile leggerezza, bello e reale come un fulmine.

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EMPIRE TWENTY YEARS ON, IN “NEW LEFT REVIEW”, N. 120, NOVEMBRE-DICEMBRE 2019.

Bisogna fare un passo indietro per distinguere il disegno del mosaico, per apprezzare il significato politico delle migrazioni globali come un’insurrezione in corso. State certi che le autorità al potere riconoscono la minaccia: il potere dell’insurrezione è confermato dalle crudeli e costose strategie di contro insurrezione lanciate contro i migranti, dai campi di concentramento sostenuti dall’UE in Libia alle barbare politiche al confine con gli Stati Uniti. L’insurrezione dei migranti, semplicemente attraversandoli, minaccia di far crollare e sgretolare i vari muri che segmentano il sistema globale.

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Colonialità: il lato oscuro della modernità

Walter D. Mignolo

Precedentemente pubblicato in Modernologies: Contemporary Artists Researching Modernity and Modernism, a cura di Sabine Breitwieser et. al., Barcellona, MACBA, 2009, pp. 39-49.

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COLONIALITÀ: IL LATO OSCURO DELLA MODERNITÀ

L’articolo è disponibile in inglese: Coloniality and Modernity/ Rationality, in Cultural Studies, 21, 2-3, 2007, pp. 155-167.

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La prima pubblicazione in inglese del lavoro svolto dal collettivo dal 1998 è stata pubblicata in Cultural Studies, 21, 1-2, 2007. Un numero speciale su Globalizzazione e opzione decoloniale.

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Il punto è stato più volte dibattuto nell’ultimo decennio. Si veda, ad esempio, A. Escobar, Beyond the Third World. Imperial Globality, Global Coloniality, and Anti­ globalization Social Movements, in Third World Quarterly, 25, 1, 2004, pp. 207-230.

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I. Molti anni fa (intorno al 1991), nell’“edicola” di una libreria, il titolo dell’ultimo libro di Stephen Toulmin – Cosmopolis, The Hidden Agenda of Modernity (1990) – suscitò la mia curiosità. Andai in una caffetteria di fronte alla libreria Borders di Ann Arbor e divorai il libro davanti a una tazza di caffè; la domanda intrigante era: “Qual è l’agenda nascosta della modernità?”. Poco tempo dopo, ero a Bogotà dove mi imbattei in un libro appena pubblicato, Los conquistados: 1492 y la población indígena de América (1992), il cui ultimo capitolo attirò la mia attenzione. Era scritto da Anibal Quijano, di cui avevo sentito parlare ma che non conoscevo, e si intitolava Coloniality and Modernity/Rationality1. Comprai il libro e trovai un’altra caffetteria nelle vicinanze. Divorai il capitolo e la lettura fu una sorta di epifania. In quel periodo stavo completando il manoscritto di The Darker Side of the Renaissance (1995), ma decisi di non includere quanto scritto da Quijano. C’era molto a cui dovevo pensare e il manoscritto era già impostato. Dopo averlo consegnato alla stampa, mi concentrai sulla “colonialità”, che divenne poi un concetto centrale in Local Histories / Global Designs. Coloniality, Subaltern Knowledge and Border Thinking (2000). Dopo l’uscita del libro, scrissi un lungo articolo teorico, The Geopolitics of Knowledge and the Colonial Difference, pubblicato in South Atlantic Quarterly (2002). Per Toulmin l’agenda nascosta della modernità era il fiume umanistico che scorreva dietro la ragione strumentale. Per me l’agenda nascosta (e il lato oscuro) della modernità era la colonialità. Quel che segue è una ricapitolazione del lavoro svolto da allora in collaborazione con membri dell’intera modernità/colonialità2. La tesi di base è la seguente: la “modernità” è una narrazione europea che nasconde il suo lato più oscuro, la “colonialità”, che, in altre parole, è parte integrante della modernità: non c’è modernità senza colonialità3. Quindi, oggi, l’espressione comune “modernità globali” implica “colonialità globali” nel senso preciso che la matrice coloniale del potere (in breve, la colonialità) viene contestata da molti contendenti: se non ci può essere modernità senza colonialità, non ci possono nemmeno essere modernità globali senza colonialità globali. È la logica dell’odierno mondo capitalista policentrico. Di conseguenza, a partire dal XVI secolo, il pensiero e l’azione decoloniali sono emersi in risposta alla tendenza oppressiva e imperiale dei moderni ideali europei proiettati e attuati nel mondo extraeuropeo.

II. Inizierò con due scenari: uno del XVI secolo e l’altro della fine del XX e del primo decennio del XXI secolo. Immaginiamo il mondo intorno al 1500. Si trattava, in sintesi, di un mondo policentrico e non capitalista. Coesistevano diverse civiltà, alcune di lunga data, altre in via di formazione in quel periodo. In Cina, la dinastia Ming regnò dal 1368 al 1644. Era un centro di commercio e una civiltà dalla lunga storia. Intorno al 200 a.C., l’impero di Qin Shi Huangdi (spesso erroneamente chiamato “Impero Cinese”) coesisteva con l’Impero Romano; quando questo, all’inizio del XVI secolo, divenne il Sacro Romano Impero delle nazioni germaniche, coesisteva ancora con l’impero di Huangdi governato dalla dinastia Ming. Dallo smembramento del Califfato Islamico (costituito nel VI secolo e governato dagli Omayyadi nel VII e VIII secolo e dagli Abbasidi dall’VIII al XIII secolo), nel XIV secolo emersero tre sultanati: il sultanato ottomano in Anatolia con centro a Costantinopoli; il sultanato safavide con centro a Baku, in Azerbaigian, e il sultanato moghul formatosi dalle rovine del sultanato di Delhi, che durò dal 1206 al 1526. I Moghul (il cui primo sultano fu Babur, discendente di Gengis

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W.D. Mignolo, Cosmopolitanism and the De­Colonial Option, in Cosmopolitanism in the Making, numero speciale di Philosophy and Education. An International Journal, a cura di T. Strand, di prossima pubblicazione.

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All’inizio del XXI secolo il mondo è interconnesso da un unico tipo di economia (il capitalismo)4 e caratterizzato da una molteplicità di teorie e pratiche politiche. La teoria della dipendenza dovrebbe essere rivista alla luce di questi cambiamenti. Mi limiterò però a distinguere due orientamenti generali. Da un lato è in atto la globalizzazione dell’economia capitalista e la diversificazione della politica globale. Dall’altro, stiamo assistendo alla moltiplicazione e alla diversificazione della globalizzazione anti-neoliberista (ad esempio, del capitalismo anti-globale). Per quanto riguarda il primo orientamento, Cina, India, Russia, Iran, Venezuela e l’emergente Unione delle nazioni sudamericane hanno già chiarito di non essere più disposte a seguire gli ordini unidirezionali provenienti dal Fondo Monetario Internazionale, dalla Banca Mondiale o dalla Casa Bianca. Alle spalle dell’Iran c’è la storia della Persia e del sultanato safavide; alle spalle dell’Iraq la storia del sultanato ottomano. Questi ultimi sessant’anni di ingresso dell’Occidente in Cina (marxismo e capitalismo) non hanno sostituito la storia cinese con quella dell’Europa e degli Stati Uniti dal 1500 in poi; e lo stesso vale per l’India. Al contrario, hanno rafforzato l’obiettivo di sovranità della Cina. In Africa, la spartizione imperiale dei Paesi occidentali tra la fine del XIX e l’inizio del XX secolo (che ha provocato la Prima guerra mondiale) non ha sostituito il passato dell’Africa con quello dell’Europa occidentale. E così in Sudamerica, cinquecento anni di dominio coloniale da parte di ufficiali peninsulari e, dall’inizio del 1900, di élite creole e meticce, non hanno cancellato l’energia, la forza e le memorie del passato indigeno (si vedano le questioni attuali in Bolivia, Ecuador, Colombia, Messico meridionale e Guatemala); né hanno cancellato le storie e le memorie delle comunità di origine africana in Brasile, Colombia, Ecuador, Venezuela e nei Caraibi insulari. In direzione opposta si è mossa la nascita dello Stato di Israele nel 1948, esplosa verso la fine del primo decennio del XXI secolo. Per quanto riguarda il secondo orientamento, stiamo osservando molte organizzazioni transnazionali non ufficiali (più che non governative) che non solo si dichiarano “contro” il capitalismo, la globalizzazione e mettono in discussione la modernità, ma aprono anche orizzonti globali non capitalistici e si svincolano dall’idea che esista una modernità unica e principale circondata da altre periferiche o alternative. Non necessariamente rifiutando la modernità, ma chiarendo che la modernità va di pari passo con la colonizzazione e, pertanto, la modernità deve essere accettata con le sue glorie e i suoi crimini. Questo dominio globale definiamolo “cosmopolitismo decoloniale”5. Non vi è dubbio che gli artisti e i musei abbiano e giochino un ruolo importante nelle formazioni globali di soggettività transmoderne e decoloniali.

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Ogni volta che parlo di “capitalismo” lo intendo nel senso di Max Weber: “Lo spirito del capitalismo è qui usato in questo senso specifico, è lo spirito del capitalismo moderno [...] il capitalismo dell’Europa occidentale e americano”. L’etica protestante e lo spirito del capitalismo, trad. di P. Burresi, Firenze, Sansoni, 1989, (ed. orig. The Protestant Ethics and the Spirit of Capitalism [1904-1905], London, Routledge, 1992, pp. 51-52).

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Khan e Timur) regnarono dal 1526 al 1707. Nel 1520, i Moscoviti avevano espulso l’Orda d’Oro e dichiarato Mosca la “Terza Roma”: iniziò così la storia dello zarato russo. In Africa, il regno di Oyo (attorno all’odierna Nigeria), formato dalla nazione Yoruba, era il più vasto regno dell’Africa Occidentale incontrato dagli esploratori europei. Il regno del Benin, il secondo più esteso dopo quello di Oyo, durò dal 1440 al 1897. E infine, gli Inca di Tawantinsuyu e gli Aztechi di Anáhuac erano due sofisticate civiltà all’epoca dell’arrivo degli spagnoli. Che cosa accadde dunque nel XVI secolo che avrebbe cambiato l’ordine mondiale trasformandolo in quello in cui viviamo oggi? Una risposta semplice e generale potrebbe essere: l’avvento della “modernità”, ma... quando, come, perché, dove?

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K. Armstrong, L’Islam, trad. di A.M. Cossiga, Milano, Rizzoli, 2001 (ed. orig. Islam. A Short Story, New York, The Modern Library, 2000, p. 142), corsivo aggiunto.

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Ivi, p. 142.

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E. Williams, Capitalismo e schiavitù, trad. di L. Trevisani, Bari, Laterza, 1971, (ed. orig. Capitalism and Slavery, Chapel Hill, The University of North Carolina Press, 1944, p. 32).

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J. Dagenais, The Postcolonial Laura, in MLQ: Modern Language Quarterly, 65, 3, settembre 2004, pp. 365-389.

10 Si veda ad esempio il simposio sulle modernità globali, un dibattito concettuale su Altermodern, Tate Triennal 2009 (http:// www.tate.org.uk).

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III. Che cosa è successo tra i due scenari sopra delineati, tra il XVI e il XXI secolo? La storica Karen Armstrong – osservando la storia dell’Occidente dalla prospettiva di una storica dell’Islam – ha sottolineato due aspetti cruciali. Armstrong evidenzia la singolarità delle conquiste occidentali rispetto alla storia conosciuta fino al XVI secolo. Rileva due ambiti salienti: l’economia e l’epistemologia. Per quanto riguarda l’economia, fa notare che “la nuova società dell’Europa e delle sue colonie americane aveva una base economica diversa” che consisteva nel reinvestire il surplus per aumentare la produzione. La prima trasformazione radicale nel campo dell’economia, che ha permesso all’Occidente di riprodurre le proprie risorse all’infinito, è generalmente associata al colonialismo6. La seconda trasformazione, di tipo epistemologico, è generalmente associata al Rinascimento europeo. L’aggettivo “epistemologico” viene qui esteso a comprendere sia scienza/conoscenza sia arti/significato. Armstrong situa la trasformazione nella sfera della conoscenza nel XVI secolo, quando gli europei “realizzarono una rivoluzione scientifica che diede loro un controllo sull’ambiente maggiore di quanto chiunque avesse mai ottenuto in precedenza”7. Senza dubbio, la storica ha ragione nel mettere in luce l’importanza di un nuovo tipo di economia (il capitalismo) e della rivoluzione scientifica. Entrambi si conformano e corrispondono alla retorica celebrativa della modernità, ovvero alla retorica della salvezza e della novità, basata sulle conquiste europee del Rinascimento. C’è tuttavia una dimensione nascosta negli eventi che si stavano contemporaneamente svolgendo sia nella sfera dell’economia sia in quella della conoscenza: la spendibilità della vita umana (ad esempio, gli africani ridotti in schiavitù) e della vita in generale dalla Rivoluzione industriale al XXI secolo. Il politico e intellettuale afrotrinidadiano Eric Williams ha sinteticamente descritto questa situazione osservando che “una delle conseguenze più importanti della Gloriosa Rivoluzione del 1688 [...] fu l’impulso dato al principio del libero commercio. Solo in un particolare la libertà accordata nel commercio degli schiavi differiva da quella accordata in altri commerci: la merce coinvolta era l’uomo”8. E così, nascoste dietro la retorica della modernità, le vite umane diventavano sacrificabili a favore di una ricchezza crescente e tale sacrificabilità veniva giustificata dalla naturalizzazione della classificazione razziale degli esseri umani. Tra i due scenari sopra descritti, entrava in scena l’idea di “modernità”. È dapprima comparsa come una doppia colonizzazione, del tempo e dello spazio; quella del tempo creata dall’invenzione simultanea del Medioevo nel processo di concettualizzazione del Rinascimento9; quella dello spazio dalla colonizzazione e dalla conquista del Nuovo Mondo. Nella colonizzazione dello spazio, la modernità incontra il suo lato oscuro, la colonialità. Nell’arco di tempo che va dal 1500 al 2000 si possono distinguere tre volti cumulativi (e non successivi) della modernità: il primo è il volto iberico e cattolico guidato da Spagna e Portogallo (1500–1750, circa); il secondo, il volto del “cuore dell’Europa” (Hegel) guidato da Inghilterra, Francia e Germania (1750–1945); e infine il volto americano guidato dagli Stati Uniti (1945–2000). Da allora, ha cominciato a delinearsi un nuovo ordine globale: un mondo policentrico interconnesso dallo stesso tipo di economia. Nell’ultimo quarto del XX secolo, la “modernità” è stata messa in discussione nella sua stessa cronologia e nei suoi ideali, in Europa e negli Stati Uniti: il termine postmodernità si riferisce a tali argomenti critici. Più recentemente, l’altermodernità sta emergendo come nuovo termine e periodo, in Europa10. Sul piano spaziale, per spiegare la modernità sono state introdotte espressioni quali modernità alternative, modernità subalterne e modernità periferiche, per tradurre prospettive non europee. Queste narrazioni hanno però tutte un problema comune:

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13 K. Shaman, Islam and the Orientalist World­System, London, Paradigm Publishers, 2008. 14 W.D. Mignolo, The Darker Side of the Enlightenment. A Decolonial Reading of Kant’s Geography, in Kant’s Geography, a cura di S. Elden, E. Mendieta, Stony Brook, Stony Brook Press, di prossima pubblicazione. 15 Si veda E. Dussel, Modernity, Eurocentrism and Transmodernity: in dialogue with Charles Taylor, Atlantic Highlands, New Jersey, Humanities Press, 1996. Per una disamina analitica di “transmodernità” e “colonialità”, si veda R. Grosfóguel, Trans­modernity, Border Thinking and Global Coloniality. Decolonizing Political Economy and Postcolonial Studies, in Eurozine, 2007, (http:// www.eurozine.com).

16 On the Colonization of Amerindian Languages and Memories. Renaissance Theories of Writing and the Discontinuity of the Classical Tradition, in Comparative Studies in Society and History, 34, 2, 1992, pp. 301-330 (http://www.jstor.org).

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IV. Le esplorazioni precedenti si basano sull’ipotesi che modernità e colonialità siano due facce della stessa medaglia. “Colonialità” è l’abbreviazione di “matrice (o ordine) di potere coloniale”; descrive e spiega la colonialità come il lato nascosto e più oscuro della modernità. L’ipotesi è la seguente: 1. Come ho già detto, il Rinascimento europeo è stato concepito come tale, stabilendo le basi per l’idea di modernità, attraverso la doppia colonizzazione del tempo e dello spazio. La doppia colonizzazione equivaleva all’invenzione delle tradizioni europee. Una era la tradizione propria dell’Europa (colonizzazione del tempo). L’altra era l’invenzione di tradizioni non europee: il mondo non europeo che coesisteva prima del 1500 (colonizzazione dello spazio). L’invenzione dell’America è stata infatti il primo passo verso l’invenzione delle tradizioni extraeuropee che la modernità si è incaricata di soppiantare con la conversione, la civilizzazione e in seguito con lo sviluppo16. 2. “Modernità” divenne – in relazione al mondo extraeuropeo – sinonimo di salvezza e novità. Dal Rinascimento all’Illuminismo venne guidata dalla teologia cristiana e dall’umanesimo laico rinascimentale (ancora legato alla teologia). La retorica della salvezza attraverso la conversione al cristianesimo si tradusse nella retorica della salvezza attraverso la missione civilizzatrice quando, a partire dal XVIII secolo, l’Inghilterra e la Francia rimpiazzarono la Spagna

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12 Si veda l’intervista di Suzy Hansen a Kishore Mahbubani in http://dir.salon.com.

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11 K. Mahbubani, The New Asian Hemisphere. The Irresistible Shift of Global Power to the East, New York, Public Affairs, 2008. Mahbubani è preside della Lee Kwan Yee School of Public Policy di Singapore e collaboratore del Financial Times. Si veda un’illuminante intervista su YouTube.

mantengono la centralità della modernità euro-americana o, se si vuole, presumono una “modernità di riferimento” e si pongono in posizioni subordinate. Inoltre, tutte presumono che “il mondo sia piatto” nella sua marcia trionfale verso il futuro, nascondendo la colonialità. Infine, tutte hanno trascurato la realtà possibile che gli attori locali del mondo extraeuropeo rivendichino la “nostra modernità” svincolandosi dagli imperativi occidentali, che si tratti del campo imprenditoriale rivendicando la “nostra modernità capitalista”, o del campo decoloniale, con la “nostra modernità non capitalista e decoloniale”. La rivendicazione imprenditoriale (de-occidentalizzazione) è stata sostenuta con forza, tra gli altri, dal singaporiano Kishore Mahbubani. Mahbubani ha sostenuto l’ascesa del “nuovo emisfero asiatico e lo spostamento del potere globale”11. La “modernità” non viene rifiutata ma fatta propria nell’attuale spostamento guidato dall’Asia orientale e meridionale. La domanda provocatoria di Mahbubani: “Can Asians Think?” – gli asiatici possono pensare? – è, da un lato, un aperto confronto con il razzismo epistemico occidentale e, dall’altro, un’appropriazione ribelle e insubordinata della “modernità” occidentale: perché l’Occidente dovrebbe sentirsi minacciato dall’appropriazione asiatica del capitalismo e della modernità se tale appropriazione andrà a beneficio del mondo e dell’umanità in generale12? Nel campo decoloniale (cioè non in quello postmoderno e altermoderno), il concetto parallelo sarebbe la transmodernità. Questo tipo di argomentazione è già presente tra gli intellettuali islamici. Essendo parte del sistema del mondo moderno e pienamente radicato nella modernità europea, il futuro globale risiede nel lavorare per il rifiuto della modernità e della ragione genocida e nell’appropriazione dei suoi ideali emancipatori13. Allo stesso modo, vengono avanzate rivendicazioni nei confronti dei sempre più frequenti riferimenti al “cosmopolitismo decoloniale”. Mentre il cosmopolitismo di Kant era eurocentrico e imperiale, il cosmopolitismo decoloniale diventa critico nei confronti sia dell’eredità imperiale di Kant sia del capitalismo policentrico, in nome della de-occidentalizzazione14. Per queste ragioni, la transmodernità sarebbe una descrizione più appropriata dei futuri immaginati da prospettive decoloniali15.

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17 Si veda F. Jameson, A Singular Modernity. Essays on the Ontology of the Present, London, Verso, 2002. 18 Per esempio, in Africa, K. Gyekye: Tradition and Modernity. Philosophical Reflections on the African Experience, New York: Oxford University Press, 1997; in Iran, Iran: Between Modernity and Tradition, a cura di R. Jahanbegloo, Laham (MD), Lexigton Books, 2004; in India, A. Nandy, Talking India. Ashis Nandy in Conversation with Ramin Jahangegloo, New York, Oxford University Press, 2006. In Sudamerica, dove l’intellighenzia è fondamentalmente di origine europea (contrariamente all’Africa, all’Iran o all’India, dove l’intellighenzia è fondamentalmente “nativa”, cioè non di origine europea), la tendenza è più per la modernità che per la tradizione, poiché la “tradizione” per questa etno-classe è fondamentalmente la tradizione europea. Cosa che non avviene per gli africani, gli iraniani o gli indiani.

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19 Si veda M. Tlostanova, The Janus­Faced Empire Distorting Orientalist Discourses. Gender, Race and Religion in the Russian/(post) Soviet Construction of the Orient, in WKO, primavera 2008; L. Heretz, Russia on the Eve of Modernity. Popular Religion and Traditional Culture under the Last Tsars, Cambridge, Cambridge University Press, 2007; E. Ivakhnenko, A Threshold­Dominant Model of the Imperial and Colonial Discourses of Russia, in South Atlantic Quarterly, 105, 3, 2006, pp. 595-616. 20 S. Baruah, India and Cina: Debating Modernity, in World Policy Journal, 23, 4, 2006-2007, p. 62.

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portando all’espansione imperiale/coloniale occidentale. La retorica della novità fu accompagnata dall’idea di “progresso”. Salvezza, novità e progresso assunsero una nuova piega – e un nuovo vocabolario – nel secondo dopoguerra, quando gli Stati Uniti presero il posto della precedente leadership di Inghilterra e Francia, sostennero la lotta per la decolonizzazione in Africa e Asia e avviarono un progetto economico globale sotto il nome di “sviluppo e modernizzazione”. Oggi conosciamo le conseguenze della salvezza attraverso lo sviluppo. La nuova versione di questa retorica, “globalizzazione e libero scambio”, è controversa. Da una prospettiva decoloniale, quindi, queste quattro fasi e versioni della salvezza e della novità coesistono oggi in accumulo diacronico, anche se dalla prospettiva (post)moderna e dalla narrazione autocostruita della modernità, basata sulla celebrazione della salvezza e della novità, ogni fase sostituisce e rende obsoleta la precedente: si basa sulla novità e sulla tradizione della modernità stessa. 3. La retorica della modernità (salvezza, novità, progresso, sviluppo) è andata di pari passo con la logica della colonialità. In alcuni casi, attraverso la colonizzazione, in altri casi, come in Cina, attraverso manipolazioni diplomatiche e commerciali, dalla guerra dell’oppio a Mao Zedong. Il periodo della globalizzazione neoliberista (da Ronald Reagan e Margaret Thatcher al crollo dell’amministrazione di George W. Bush con il fallimento in Iraq e a Wall Street) esemplifica la logica della colonizzazione portata all’estremo: all’estremo di rivelarsi nel suo stesso spettacolare fallimento. Il fallimento economico di Wall Street, unito al fallimento in Iraq, ha aperto le porte all’ordine mondiale policentrico. In sintesi, modernità/colonialità sono due facce della stessa medaglia. La colonialità è parte integrante della modernità; non c’è, né può esserci, modernità senza colonialità. La postmodernità e l’altermodernità non se ne liberano. Presentano solo una nuova maschera che, intenzionalmente o meno, continua a nasconderla.

V. Poiché l’idea di modernità è stata costruita come esclusivamente europea e, in base a tale argomentazione, non c’è stata, e non c’è, che una “singola” modernità17, ciò ha generato una serie di ultimi arrivati e aspiranti (ad esempio, modernità alternative, periferiche, subalterne, altermoderne). Tutto ciò riproduce la tormentata questione di “modernità e tradizione”, sulla quale non si riscontra un gran dibattito tra gli intellettuali euro-americani. Proprio per questo motivo, gli scambi su “modernità e tradizione” hanno occupato, e occupano tuttora, soprattutto gli intellettuali del mondo extraeuropeo (e statunitense)18. Fondamentalmente, i problemi e le preoccupazioni riguardanti la modernità e la tradizione sono enunciati da, o in relazione a, l’ex Terzo Mondo e dalla storia dei Paesi extraeuropei, come ad esempio il Giappone, dove la modernità è stata ed è un tema ampiamente esplorato e dibattuto. Harry Harootunian l’ha trattato in dettaglio nel suo libro Overcome by Modernity. History, Culture and Community in Interwar Japan (2000); in Russia, la modernità ha rappresentato un problema fin dai tempi di Pietro e Caterina la Grande, che vollero salire sul carro della modernità europea, ma era troppo tardi e finirono per riprodurre, in Russia, una sorta di modernità di seconda classe19. Cina e India non ne sono esenti. Ho citato gli argomenti di de-occidentalizzazione avanzati in Asia orientale e sudorientale. Sanjib Baruah ha recentemente riassunto il dibattito sulla modernità in “India e Cina”. In una sezione dal titolo rivelatore, “impegnare il moderno”, Baruah osserva che l’India, nonostante il suo recente volto imprenditoriale, è – seguendo l’insegnamento del Mahatma Gandhi – patria di una forte opposizione intellettuale alle idee di sviluppo e modernizzazione20. La sua analisi indica scenari conflittuali

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24 P. Chatterjee, Talking About Modernity in Two Languages, in A Possible India. Essays in Political Criticism, New Delhi, Oxford India, 1998, pp. 263-285.

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In Inghilterra, Anthony Giddens conclude la propria argomentazione nel suo celebre libro The Consequences of Modernity (1990) chiedendosi: “La modernità è un progetto occidentale?”. Egli vede lo Stato-nazione e la produzione capitalistica sistematica come l’ancora europea della modernità. Vale a dire, il controllo dell’autorità e il controllo dell’economia fondati sulla base storica dell’Europa imperiale. In questo senso, la risposta alla sua domanda è “un chiaro sì”23. Quello che dice Giddens è vero. Allora, qual è il problema? Il problema è che è vero a metà: è vero nella storia raccontata da chi abita, comodamente si dovrebbe pensare, nella casa della “modernità”. Se accettiamo che la “modernità” è un progetto occidentale, allora prendiamoci la responsabilità della “colonialità” (il lato oscuro e costitutivo della modernità): i crimini e la violenza giustificati in nome della modernità. La “colonialità”, in altre parole, è una delle più tragiche “conseguenze della modernità” e allo stesso tempo la più promettente, in quanto ha generato la marcia globale verso la decolonizzazione.

VI. Se si abita nella storia dell’India britannica, più che in quella della Gran Bretagna, il mondo non appare lo stesso. In Gran Bretagna si può vedere attraverso le lenti di Giddens; in India probabilmente attraverso quelle di Gandhi. Fareste una scelta o operereste con l’innegabile coesistenza conflittuale di entrambi? Lo storico e teorico politico indiano Partha Chatterjee ha affrontato il problema della “modernità in due lingue”. Il saggio, incluso nel suo libro A Possible India (1998), è la versione inglese di una conferenza tenuta in bengalese e presentata a Calcutta24. La versione inglese non è solo una traduzione, ma anche una riflessione teorica sulla geopolitica della conoscenza e sul delinking epistemologico e politico. In modo deciso e senza riserve, Chatterjee ha impostato il suo intervento sulla distinzione tra la “nostra modernità” e la “loro modernità”. Piuttosto che un’unica modernità difesa dagli intellettuali postmoderni del “Primo Mondo”, Chatterjee posa un solido pilastro per costruire il futuro della “nostra” modernità – non indipendente dalla “loro modernità” (perché l’espansione occidentale è un dato di fatto), ma caparbiamente e audacemente “nostra”. È uno dei punti di forza del ragionamento di Chatterjee. Ma ricordiamo, innanzitutto, che gli inglesi sono penetrati in India, commercialmente, verso la fine del Settecento e, politicamente, nella prima metà dell’Ottocento, quando Inghilterra e Francia, dopo Napoleone, hanno allungato i loro tentacoli in Asia e in Africa. Quindi per Chatterjee, in contraddizione con gli intellettuali sudamericani e caraibici, “modernità” significa Illuminismo e non Rinascimento. Non

ИНОСТРАНЦЫ ВЕЗДЕ

23 A. Giddens, Le conseguenze della modernità, trad. di M. Guani, Bologna, Il Mulino, 1994, (ed. orig. The Consequences of Modernity, California, Stanford University Press, 1990, p. 174).

I critici della modernità godono di un certo prestigio intellettuale in India (anche se ciò non va confuso con un’effettiva adesione alle loro idee). L’India è la patria di una sofisticata opposizione intellettuale e attivista alle idee mainstream sullo sviluppo e la modernizzazione. Come sottolinea lo storico della Cina Prasenjit Duara, in India le narrazioni contro la modernità hanno ‘pressoché la stessa visibilità della narrazione del progresso’. In un’ottica comparativa, la ‘generale accettabilità e il prestigio’ delle idee antimoderne di Gandhi in India sono notevoli, anche se nella pratica i politici ignorano le sue idee22.

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22 S. Baruah, India and Cina, cit., p. 63.

che mettono a confronto le argomentazioni in difesa della “volontà di diventare moderni e di svilupparsi” con quelle che si impegnano in critiche radicali della modernità e dello sviluppo21. Lo scenario è comune in Africa e in Sud America. Ma in questo scenario generale, la vera posta in gioco della modernizzazione è lo sviluppo economico. Scrive Baruah:

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21 La “modernizzazione” dal 1945 si traduce in “sviluppo”, fondendo cioè lo spirito di un periodo storico con i disegni economici imperiali. L’argomentazione è stata avanzata più volte. Ad esempio, A. Escobar, Encountering Development. The Making and Unmaking of the Third World, Princeton, Princeton University Press, 1994; per l’area mediterranea, si veda E.H. Shohat, The Narrative of the Nation and the Discourse of Modernization. The Case of Arab­Jews in Israel, 1998 (http://www.worldbank.org).

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25 Ivi, pp. 273-274. 26 Ivi, p. 275.

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27 Ibidem.

a caso Chatterjee prende il “Che cos’è l’Illuminismo” di Immanuel Kant come pilastro della fondazione dell’idea europea di modernità. Per Kant, l’Illuminismo significava che l’uomo (nel senso di essere umano) stava diventando adulto, abbandonando la sua immaturità, raggiungendo la sua libertà. Chatterjee fa notare il silenzio di Kant (intenzionale o meno) e la miopia di Michel Foucault nel leggere i saggi di Kant. Nella celebrazione della libertà e della maturità di Kant e in quella di Foucault manca il fatto che il concetto di uomo e di umanità di Kant si basa sull’idea europea di umanità dal Rinascimento all’Illuminismo e non sui “minori” che popolavano il mondo oltre il cuore dell’Europa. Quindi, l’“illuminismo” non era per tutti, a meno che non diventassero “moderni” secondo l’idea europea di modernità. Un punto della perspicace interpretazione che Chatterjee fa di Kant-Foucault è rilevante per l’aspetto che intendo qui sviluppare. Seguendo l’argomentazione di Chatterjee, suppongo che a Kant e a Foucault mancasse l’esperienza coloniale e il relativo interesse politico stimolato dalla ferita coloniale. Non che dovessero averla. Però, stando così le cose, la loro visione non può essere universalizzata. Se si è nati, si è stati educati e la propria soggettività si è formata in Germania e in Francia, la concezione del mondo e dei sentimenti sarà diversa da quella di chi è nato e cresciuto nell’India britannica. Così Chatterjee può affermare che “noi – in India – abbiamo costruito un’intricata struttura differenziata di autorità che specifica chi ha il diritto di dire cosa su quali argomenti”25. In Talking About Modernity in Two Languages Chatterjee ci ricorda che il “Terzo Mondo” è stato principalmente “consumatore” di studi e conoscenze del Primo Mondo: In qualche modo, fin dall’inizio, avevamo intuito che, data la stretta complicità tra la conoscenza moderna e i moderni regimi di potere, saremmo rimasti per sempre consumatori della modernità universale; non saremmo mai stati presi come seri produttori26. Chatterjee conclude che è per questo motivo che “abbiamo cercato, per oltre cento anni, di distogliere lo sguardo da questa chimera della modernità universale e di liberare uno spazio in cui potessimo diventare i creatori della nostra modernità”27. Immagino si sia compreso il punto. L’altro (l’anthropos) ha deciso di disobbedire: una disobbedienza epistemica e politica che consiste nell’appropriazione della modernità europea pur abitando nella casa della colonizzazione.

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28 Non sorprende quindi trovare oggi una crescente preoccupazione e un certo numero di studiosi che lavorano sulla decolonizzazione del diritto internazionale: Decolonizing International Relations, a cura di B. Gruffydd Jones, Boulder/ New York, Lanham, MD, Roman & Littlefield, 2006. 29 Per la differenza ontologica ed epistemica, si veda N. MaldonadoTorres, On the Coloniality of Being: Contributions to the Development of a Concept, in Cultural Studies, 21, 2-3, 2007, pp. 240-270.

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VII. Non è comune pensare al diritto internazionale come legato alla costruzione della “modernità”. In questa sezione sosterrò che il diritto internazionale (più esattamente la teologia giuridica) ha contribuito nel XVI secolo alla creazione – creazione pretesa dalla “scoperta” dell’America – delle differenze razziali così come le percepiamo oggi. Che cosa fare, si chiesero i teologi legali spagnoli, con gli “indiani” (nell’immaginario spagnolo) e, più concretamente, con la loro terra? Il diritto internazionale era fondato su presupposti razziali: gli “indiani” dovevano essere concepiti, se umani, come non del tutto razionali, sebbene pronti alla conversione28. La “modernità” rivelava il suo volto nei presupposti epistemici e nelle argomentazioni della teologia giuridica per decidere e determinare chi fosse che cosa. Allo stesso tempo, il volto della “colonialità” era mascherato sotto lo status di inferiorità dell’inferiore inventato. Ecco un chiaro caso di colonialità come lato oscuro necessario e costitutivo della modernità. La modernità/colonialità si articola qui sulle differenze ontologiche ed epistemiche: gli indiani sono, ontologicamente, esseri umani inferiori e, di conseguenza, non pienamente razionali29.

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33 Un esempio in tal senso si trova in I. Kant, Osservazioni sul sentimento del bello e del sublime, trad. di L. Novati, Milano, Rizzoli, 1989 (in particolare la sezione IV). 34 A. Anghie, Francisco de Vitoria and the Colonial Origins of International Law, in Laws of the Post­colonial, a cura di E. Darian-Smith, P. Fitzpatrick, Ann Arbor, University of Michigan Press, 1999, pp. 89-108. 35 Una storia decoloniale del diritto internazionale si trova in S. N’Zatioula Grovogui, Sovereigns, Quasi Sovereigns, and Africans, Minneapolis, University of Minnesota Press, 1996.

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VII.1. Francisco de Vitoria è giustamente celebrato, soprattutto tra gli studiosi spagnoli ed europei, per essere uno dei padri del diritto internazionale. Il suo trattato, Relectio de Indis, è ritenuto un caposaldo nella storia della disciplina. Al centro dell’argomentazione di Vitoria vi era la questione dello ius gentium (diritti delle genti o diritti delle nazioni). Lo ius gentium permetteva a Vitoria di mettere sullo stesso piano di umanità sia gli spagnoli sia gli indiani. Non si accorse che, raggruppando Quechua, Aymara, Nahuatl, Maya, ecc. sotto l’etichetta “indiani”, stava già entrando in una classificazione razziale. Non gli fu quindi difficile procedere agevolmente al passo successivo della sua argomentazione: pur essendo uguali agli spagnoli nell’ambito dello ius gentium, Vitoria concludeva (oppure già lo sapeva e poi lo ha argomentato) che gli indiani erano come bambini e necessitavano della guida e della protezione degli spagnoli. In quel momento Vitoria inseriva la differenza coloniale (ontologica ed epistemica) nel diritto internazionale. La differenza coloniale opera convertendo le differenze in valori e stabilendo una gerarchia ontologica ed epistemica degli esseri umani. Ontologicamente, si presume che esistano esseri umani inferiori. Dal punto di vista epistemico, si presume che gli esseri umani inferiori siano razionali ed esteticamente carenti33. Lo studioso di diritto Anthony Anghie ha fornito un’acuta analisi del momento storico fondante della differenza coloniale34. In poche parole, il ragionamento è il seguente: indiani e spagnoli sono uguali di fronte al diritto naturale poiché entrambi, per legge naturale, sono dotati di ius gentium. Con questa mossa, Vitoria impedì al papa e alla legge divina di legiferare su questioni umane. Tuttavia, una volta stabilita la distinzione tra i “principes Christianos” (e i castigliani in generale) e “los bárbaros” (ad esempio, l’anthropos), e dopo aver fatto del suo meglio per bilanciare le sue argomentazioni sulla base dell’uguaglianza attribuita a entrambi i popoli dalla legge naturale e dallo ius gentium, Vitoria passa a giustificare i diritti e i limiti che gli spagnoli avevano, o meno, nei confronti dei “barbari” di espropriare, dichiarare guerra e governare. La comunicazione e l’interazione tra cristiani e barbari sono unilaterali: i barbari non hanno voce in capitolo è quanto affermato da Vitoria, perché i barbari sono stati privati della sovranità anche quando riconosciuti uguali per diritto naturale e ius gentium. La mossa è fondamentale per la costituzione giuridica e filosofica della modernità/colonialità e il principio del

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Al contrario, i musei sono stati considerati parte integrante nella costruzione della modernità30. Tuttavia, non sono state poste domande sui musei (come istituzioni) e sulla colonialità (come logica nascosta della modernità). Si dà per scontato che i musei siano “naturalmente” parte dell’immaginario e della creatività europea. Nel paragrafo VII.1 cerco di portare alla luce la colonialità del diritto internazionale che regola le relazioni internazionali e nel paragrafo VII.2 affronto la questione dei musei e della colonialità. I musei, come li conosciamo oggi, non esistevano prima del 1500. Sono stati costruiti e trasformati da un lato per essere le istituzioni in cui la memoria occidentale viene onorata ed esposta, in cui la modernità europea conserva la sua tradizione (la colonizzazione del tempo) e, dall’altro, per essere le istituzioni in cui viene riconosciuta la differenza delle tradizioni non europee31. La questione aperta è quindi come decolonizzare i musei e come usare i musei per decolonizzare la riproduzione della colonizzazione occidentale del tempo e dello spazio32.

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30 Penso certamente a T. Bennett, The Birth of the Museum. History, Theory, Politics, London, Routledge, 1995, pp. 60 e sgg., ma anche a studi più specifici come N. Prior, Museums and Modernity, Art Galleries and the Making of Modern Culture, Oxford, Berg Publisher, 2002, e G. Weiss, Sinnstiftung in der Provinz: Westfälische Museen im Kaiserreich, Paderborn, Ferdinand Schöning Verlag, 2005; e la recensione di E. Giloi per H­German, giugno 2007 (https:// www.h-net.org). 31 W.D. Mignolo, Museums in the Colonial Horizon of Modernity, in CIMAM Annual Conference, São Paulo, novembre 2005, pp. 66-77, (http://www.cimam.org). 32 Due esempi di uso decoloniale delle installazioni museali sono Mining the Museum di Fred Wilson (http:// www.citypaper.com) e Pedro Lasch, Black Mirror/Espejo Negro (http:// www.ambriente.com).

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36 A. Anghie, Francisco de Vitoria, cit., p. 102 (corsivo aggiunto). 37 L’analisi di Franz Hinkelammert sull’inversione dei diritti umani di Locke è molto utile per comprendere la doppia faccia/ doppia densità di “modernità/ colonialità” e come la retorica della modernità continui a cancellare la colonialità. Si veda il suo The Hidden Logic of Modernity. Locke’s Inversion of Human Rights, in Worlds and Knowledges Otherwise, 1, 1, 2004, pp. 1-27. 38 È certamente molto significativo che uno studioso giapponese, Nishitan Osanu, abbia sostenuto in modo convincente che “anthropos” e “humanitas” sono due concetti occidentali. Infatti, essi producono l’effetto di realtà in cui gli ideali moderni di “humanitas” non possono esistere senza l’invenzione moderna/coloniale di “anthropos”. Si pensi, ad esempio, al dibattito sull’immigrazione in Europa. Ecco la modernità/colonialità al suo meglio. Si veda N. Osamu, Anthropos and Humanitas. Two Western Concepts, in Translation, Biopolitics, Colonial Difference, a cura di N. Sakai, J. Solomon, Hong Kong, Hong Kong University Press, 2006, pp. 259-274. 39 A. Anghie, Francisco de Vitoria, cit., p. 103 (corsivo aggiunto).

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40 Si veda la convincente argomentazione, su questo tema, di D. Preziosi, Brain of the Earth’s Body: Museums and the Framing of Modernity, in Museum Studies. An Anthology of Contexts, a cura di B. Messias Carbonell, London, Blackwell, 2004, pp. 71-84.

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ragionamento si manterrà nei secoli, modificato nel vocabolario, da barbari a primitivi, da primitivi a comunisti, da comunisti a terroristi35. Così orbis christianius, cosmopolitismo laico e globalismo economico sono nomi che corrispondono a diversi momenti dell’ordine di potere coloniale e a distinte leadership imperiali (dalla Spagna all’Inghilterra, agli Stati Uniti). Anghie ha espresso tre punti importanti su Vitoria e sulle origini storiche del diritto internazionale che chiariscono il legame tra modernità e colonialità e il modo in cui la salvezza giustifica l’oppressione e la violenza. Il primo è che “Vitoria si occupa non tanto del problema dell’ordine tra Stati sovrani, quanto del problema dell’ordine tra società appartenenti a due sistemi culturali diversi”36. Il secondo è che il quadro esiste per regolarne la violazione. E quando la violazione si verifica, i suoi creatori ed esecutori erano giustificati nell’invadere e usare la forza per punire ed espropriare il violatore. È una logica magnificamente riproposta da John Locke nel suo Secondo trattato sul governo (1681). Si può dire che la “colonialità”, in Vitoria, ha posto le basi non solo per il diritto internazionale, ma anche per le concezioni “moderne ed europee” della governabilità. Appare evidente che Locke non attinse tanto da Machiavelli quanto dalla nascita del diritto internazionale nel XVI secolo, e dal modo in cui Vitoria e i suoi seguaci stabilirono di discutere sia la questione della “proprietà” sia quella della “governance” nell’interazione tra cristiani e barbari37. Il terzo è che il “quadro” non è dettato dalla legge divina o naturale, ma dagli interessi umani e, in questo caso, dagli interessi dei maschi cristiani castigliani. Pertanto, il “quadro” presuppone un luogo di enunciazione molto ben localizzato e singolare che, tutelato dalla legge divina e naturale, si presume universale. E d’altro canto, il quadro universale e unilaterale “include” i barbari o gli indiani (principio valido per tutte le politiche di inclusione di cui oggi sentiamo parlare) nella loro differenza, giustificando così qualsiasi azione intrapresa dai cristiani per domarli. La costruzione della differenza coloniale va di pari passo con l’istituzione dell’esteriorità: l’esteriorità è il luogo in cui si inventa l’esterno (l’anthropos) nel processo di creazione dell’interno (l’humanitas) per garantire lo spazio sicuro in cui l’enunciatore dimora38. È chiaro, quindi, che il lavoro di Vitoria suggerisce che la visione convenzionale secondo cui la dottrina della sovranità è stata sviluppata in Occidente e poi trasferita al mondo extraeuropeo è, sotto importanti aspetti, fuorviante. La dottrina della sovranità ha acquisito il suo carattere attraverso l’incontro coloniale. Questa è la storia più oscura della sovranità, che non può essere compresa da nessuna interpretazione della dottrina che presupponga l’esistenza di Stati sovrani. In breve, se la modernità è un’invenzione occidentale (come afferma Giddens), lo è anche la colonialità. Sembra pertanto molto difficile superare la colonialità da una prospettiva moderna occidentale. Le argomentazioni decoloniali premono su questo punto cieco sia nelle argomentazioni orientate a destra sia in quelle orientate a sinistra39.

VII.2. Nel contesto attuale, i “musei” come li conosciamo oggi (e le loro forme precedenti: Wunderkammer, Kunstkammer) sono stati strumentali nel plasmare le soggettività moderne/coloniali, dividendo le Kunstkammer in “musei delle arti” e “musei di storia naturale”40. Inizialmente, la Kunstkammer di Pietro il Grande fu istituita verso il 1720, mentre il British Museum (fondato come Cabinet of Curiosity) fu creato più tardi (verso il 1750). Tuttavia, l’istituzione della Kunstkammer in Occidente divenne il luogo di raccolta delle curiosità portate dalle colonie europee, il più

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VIII. CONCLUSIONI Spero di aver contribuito alla comprensione di come si sia strutturata la logica della colonialità nel corso del XVI e del XVII secolo; a comprendere come essa sia passata di mano, si sia trasformata e adattata alle nuove circostanze, pur mantenendo le sfere (e le interrelazioni) in cui si è giocata la gestione e il controllo dell’autorità, dell’economia, delle persone (soggettività, genere, sessualità) e del sapere nella costruzione dell’ordine mondiale monocentrico dal 1500 al 2000; e come tale ordine si stia trasformando in uno policentrico. Che cos’è dunque esattamente la matrice coloniale del potere/colonialità? Immaginiamola a due livelli semiotici: il livello dell’enunciato e il livello dell’enunciazione. A livello dell’enunciato, la matrice coloniale opera su quattro domini interrelati: interrelati nel senso specifico che un singolo dominio non può essere correttamente compreso indipendentemente dagli altri tre. Si tratta della giunzione tra le concettualizzazioni del capitalismo (liberista o marxista) e la concettualizzazione della matrice coloniale, che implica una concettualizzazione decoloniale. I quattro domini in questione, brevemente descritti, sono (e ricordiamo che ognuno di questi domini è mascherato da una costante e mutevole retorica della modernità (cioè quella della salvezza, del progresso, dello sviluppo, della felicità):

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delle volte tramite saccheggi. La storia dell’edificio del Louvre risale al Medioevo, ma il museo è nato dopo la Rivoluzione francese. O g g i è g i à i n i z i ato u n p ro c e s s o d i de-occidentalizzazione. Processo di cui fanno parte le centinaia di musei che si stanno costruendo in Cina. La de-occidentalizzazione è un processo parallelo alla decolonialità a livello di stato e di economia. Kishore Mahbubani, citato in precedenza, è una delle voci più coerenti della de-occidentalizzazione e dello spostamento politico, economico ed epistemico verso l’Asia41. Ci si può chiedere, quindi, data questa mostra intitolata Modernologies, qual è il posto dei musei e dell’arte, in generale, nella retorica della modernità e nella matrice coloniale del potere? Come possono i musei diventare luoghi di decolonizzazione della conoscenza e dell’essere o, al contrario, come possono rimanere istituzioni e strumenti di controllo, regolamentazione e riproduzione della colonizzazione?42 Ponendo queste domande, entriamo nel territorio puro e semplice della conoscenza, del significato e della soggettività. Se il diritto internazionale ha legalizzato l’appropriazione economica di terre, risorse naturali e manodopera non europea (di cui l’“esternalizzazione” oggi dimostra l’indipendenza del settore economico dalle argomentazioni patriottiche o nazionaliste degli Stati “sviluppati”) e ha garantito l’accumulazione di denaro, le università e i musei (e ultimamente i media mainstream) hanno garantito l’accumulazione di significato. La complementarità tra accumulazione di denaro e accumulazione di significato (quindi la retorica della modernità come salvezza e progresso) sostiene le narrazioni della modernità. Mentre la colonialità è la conseguenza inevitabile del “progetto incompiuto della modernità” (come direbbe Jürgen Habermas) – poiché la colonialità è costitutiva della modernità – la decolonialità (nel senso di progetti decoloniali globali) diventa l’opzione globale e l’orizzonte della liberazione. L’orizzonte di tale liberazione è un mondo transmoderno, non capitalista, non più mappato dalla “pensée unique”, adattando l’espressione di Ignacio Ramonet, né da destra né da sinistra: la colonialità ha generato la decolonialità.

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41 Si veda K. Mahbubani, The New Asian Hemisphere, cit., nota 9, e anche le sue provocatorie argomentazioni dal titolo Can Asians Think? (http://dir.salon.com). 42 Ad esempio, Modernity in Central Europe, 1918­1945 (Washington D.C., National Gallery of Art, 10 giugno – 10 settembre 2007) è una di quelle mostre che “valorizza” l’Europa occidentale abbracciando la modernità.

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I quattro domini (gli enunciati) sono tutti e costantemente interconnessi e tenuti insieme dalle due ancore dell’enunciazione. Chi sono stati e chi sono gli agenti e le istituzioni che hanno generato e continuano a riprodurre la retorica della modernità e la logica della colonialità? Si dà il caso che, in generale, gli agenti (e le istituzioni) che hanno creato e gestito la logica della colonialità fossero europei occidentali, per lo più uomini che, se non tutti eterosessuali, perlomeno davano per scontata l’eterosessualità come norma di condotta sessuale. Ed erano – in generale – per lo più bianchi e cristiani (cattolici o protestanti). L’enunciazione della matrice coloniale si fondava quindi su due pilastri incarnati e geo-storicamente collocati: il seme della successiva classificazione razziale della popolazione del pianeta e la superiorità degli uomini bianchi sugli uomini di colore, ma anche sulle donne bianche. L’organizzazione razziale e patriarcale di fondo del processo di creazione della conoscenza (l’enunciazione) mette insieme e mantiene la matrice coloniale del potere, che ogni giorno diventa meno visibile a causa della perdita della visione olistica promossa dall’enfasi moderna sulla competenza e sulla divisione e suddivisione del lavoro e della conoscenza scientifica. I futuri globali devono essere immaginati e costruiti attraverso opzioni decoloniali, cioè lavorando globalmente e collettivamente per decolonizzare la matrice coloniale del potere, per fermare i castelli di sabbia costruiti dalla modernità e dai suoi derivati. I musei possono davvero svolgere un ruolo cruciale nella costruzione di futuri decoloniali.

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1) gestione e controllo delle soggettività (per esempio, l’educazione cristiana e laica, ieri e oggi, i musei e le università, i media e la pubblicità oggi, ecc.); 2) gestione e controllo dell’autorità (per esempio, i vicereami nelle Americhe, l’autorità britannica in India, l’esercito statunitense, il Politbureau in Unione Sovietica, ecc.); 3) gestione e controllo dell’economia (ad esempio, attraverso il reinvestimento del surplus generato dall’appropriazione massiccia di terre in America e in Africa, lo sfruttamento massiccio della manodopera a partire dalla tratta degli schiavi, l’indebitamento estero attraverso la creazione di istituzioni economiche come la Banca Mondiale e il Fondo Monetario Internazionale, ecc.); 4) gestione e controllo del sapere (ad esempio, la teologia e l’invenzione del diritto internazionale che ha istituito un ordine geopolitico del sapere fondato su principi epistemici ed estetici europei che hanno legittimato la squalifica nel corso dei secoli dei saperi e degli standard estetici extraeuropei, dal Rinascimento all’Illuminismo e dall’Illuminismo alla globalizzazione neoliberista, la filosofia).

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COURTS VOYAGES AU PAYS DU PEUPLE, PARIGI, LE SEUIL, 1990.

Lo straniero... persiste nella curiosità del proprio sguardo, sposta l’angolazione, rielabora l’originale montaggio di parole e immagini e, scardinando le certezze del luogo, risveglia il potere presente in ognuno di diventare straniero nella mappa dei luoghi e dei percorsi generalmente conosciuti come realtà.

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QUEER, IN “TSQ. TRANSGENDER STUDIES QUARTERLY”, 1, NN. 1-2, MAGGIO 2014.

La parola “queer”, con le sue valenze di strano, bizzarro e sconcertante, doveva anche indicare una serie di pratiche sessuali non normate e di identificazioni di genere oltre a quella gay e lesbica. Proponendo un modello di coalizione tra gli emarginati e gli esclusi, il queer, nella sua forma più ampia, era immaginato come un grido d’allarme contro “i regimi del normale” (Michael Warner), pronto ad affrontare “le complessità frattali del linguaggio, della pelle, della migrazione, dello Stato” (Eve Kosofsky Sedgwick).

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ON BEING A REFUGEE, AN AMERICAN—AND A HUMAN BEING, IN FINANCIAL TIMES, 3 FEBBRAIO 2017.

I rifugiati sono l’incarnazione vivente di un’inquietante possibilità: che i privilegi umani siano piuttosto fragili, che la propria casa, la propria famiglia e la propria nazione possano essere distrutte dalla prossima catastrofe.

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Haitians Waiting At Guantanamo Bay, 1994 Olio, stoffa dipinta, bottoni e perline su tela cucita e imbottita, 231,1 × 177,8 cm. Courtesy Pacita Abad Art Estate.

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BASCO, FILIPPINE, 1946 – 2004, SINGAPORE

L’opera di Pacita Abad si caratterizza per l’uso esuberante del colore e per l’ampia gamma di tecniche e materiali, influenzata e ispirata dai contatti avuti con persone e culture nel corso dei suoi viaggi. Nata in una famiglia molto impegnata politicamente, Abad lascia le Filippine per trasferirsi in Spagna nel 1970, dove studia diritto dell’immigrazione. Una tappa a San Francisco si trasforma in un soggiorno permanente, quando entra in contatto con la cultura alternativa della città e con la crescente popolazione di immigrati. Gli eventi di questo periodo, tra cui il suo avvicinamento all’arte e l’incontro con il marito, finiscono per dare il via all’inevitabile carriera artistica di Abad. Intraprende una prolifica attività che, secondo il critico Tausif Noor, “aggira le gerarchie tra artigianato e cultura artistica di alto profilo e scardina le nozioni ricevute in materia di dimensione locale, nazionale e globale, perseguendo [...] un vibrante eclettismo che spesso è in contrasto con i movimenti artistici dominanti del suo tempo”.

Insieme al marito, un economista per lo sviluppo il cui lavoro richiede frequenti spostamenti, Abad vive in undici paesi e ha al suo attivo viaggi in sessantadue nazioni. Il suo interesse per l’esperienza degli immigrati ispira una serie che utilizza la tecnica pittorica del trapunto. Haitians Waiting At Guantanamo Bay (1994) raffigura l’attesa speranzosa dietro il filo spinato di migranti che si lasciano alle spalle gli scafi vuoti e una città caratterizzata da cieli soleggiati e palme. In questo periodo, Abad realizza anche Contemplating Flor (1995) e Filipinas in Hong Kong (1995). You Have to Blend In Before You Stand Out (1995) è una grande opera a trapunto raffigurante una donna abbigliata con un sarong, abbinato a un cappellino da baseball degli Yankees e a una maglia da basket dei Bulls, intesa a descrivere la lotta interiore degli immigrati e delle loro famiglie per integrarsi in una nuova società. La stessa Abad è diventata cittadina statunitense ventiquattro anni dopo il suo arrivo negli Stati Uniti. L’opera di Pacita Abad è esposta per la prima volta alla Biennale Arte. —Joselina Cruz

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You Have to Blend In Before You Stand Out, 1995 Olio, stoffa dipinta, lustrini, bottoni su tela cucita e imbottita, 294,6 × 297,2 cm. Courtesy Pacita Abad Art Estate.

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Filipinas in Hong Kong, 1995 Acrilico su tela cucita e imbottita, 270 × 300 cm. Collezione Art Jameel. Courtesy Pacita Abad Art Estate.

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Claudia Alarcón & Silät

Claudia Alarcón è un’artista tessile della comunità del popolo wichí di La Puntana, a nord di Salta, in Argentina. Lavora sia a livello individuale, sia in collaborazione con Silät, un collettivo che comprende un centinaio di tessitrici di diverse generazioni delle comunità wichí di Alto la Sierra e La Puntana. Il nome Silät viene dalla lingua lhämtes dei Wichí e significa “messaggio” o “avvertimento”, e riflette così il valore attribuito dai Wichí alla comunicazione non verbale e all’intuizione subcosciente, oltre al ruolo dei manufatti tessili nel trasmettere messaggi e un sentimento culturale condiviso. Il collettivo nasce nel 2015 dall’organizzazione Thañí/Viene del monte, un progetto pubblico finalizzato a far rivivere e progredire le tradizioni tessili ancestrali.

Alarcón offre a donne di varie generazioni un modo di tramandare una cultura indigena contemporanea negli intrecci dei dialoghi artistici internazionali. La sua pratica, sostenuta da nuove prospettive curatoriali, segna un punto di svolta nel sistema artistico contemporaneo, in senso più ricettivo verso le pratiche collettive e di comunità. Alarcón lavora con altri membri di Silät (Anabel Luna, Graciela López, Ana López, Mariela Pérez, Fermina Pérez, Francisca Pérez, Marta Pacheco, Rosilda López, Margarita López, Melania Pereyra, Nelba Mendoza, Tomasa Alonso ed Edith Cruz) per elaborare, filare e tingere le fibre provenienti dalla pianta nativa del chaguar e tesserle nei manufatti esposti

COMUNIDAD LA PUNTANA, SANTA VICTORIA ESTE, ARGENTINA, 1989 VIVE A COMUNIDAD LA PUNTANA

alla Biennale. A partire dalle pratiche tessili ereditate, i tradizionali motivi geometrici si piegano in forme fluide di colore che si riversano nelle opere, animandole. Nel marcare uno stretto legame con l’acqua e con la terra, esse evocano i cicli della natura. Queste opere hanno origine dalle storie sognate e raccontate dagli anziani della comunità, che mettono in guardia sulle relazioni che gli umani creano e rompono con tutti gli esseri viventi. L’opera di Claudia Alarcón, e quelle realizzate in collaborazione con Silät, sono esposte per la prima volta alla Biennale Arte. —María Amalia García

Kates tsinhay [Donna stella], 2023 Fibra di chaguar filata a mano, tinture naturali della foresta nativa, tessuto, punto “yica”, 192 × 203 cm. Photo Eva Herzog. Antonio Murzi & Diana Morgan Collection. Courtesy Cecilia Brunson Projects.

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Claudia Alarcón & Silät Chelhchup [Autunno], 2023 Fibra di chaguar filata a mano, tinture naturali e anilina, tessuto, punto “yica”, 187 × 176 cm. Photo Eva Herzog. Courtesy Cecilia Brunson Projects.

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NUCLEO CONTEMPORANEO

Fwokachaj kiotey [Orecchie di armadillo], 2023 Fibra di chaguar filata a mano, tinture naturali della foresta nativa, tessuto, punto antico, 152,5 × 139 cm. Photo Eva Herzog. Courtesy collezione Estrellita B. Brodsky.

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Aloïse

Aloïse Corbaz nasce a Losanna in una famiglia della classe media e sogna di diventare una cantante d’opera; viene però mandata in Germania, dove trova impiego come governante alla corte dell’imperatore Guglielmo II. In base a quanto si dice, nutriva sentimenti appassionati per l’imperatore, che appare come una delle figure maschili archetipiche nel novero dei personaggi che occupano le sue caleidoscopiche immagini intrise di romanticismo e teatralità. Dopo il ritorno in Svizzera all’inizio della Prima guerra mondiale, Aloïse inizia a manifestare un comportamento ritenuto bizzarro dai membri della famiglia. Nel 1918, viene ricoverata in ospedale; due anni dopo è internata nel manicomio di La Rosière, dove rimarrà fino alla morte. Durante il periodo di internamento, inizia a scrivere e a disegnare di nascosto, utilizzando materiali rudimentali come dentifricio, filo ed estratti vegetali, oltre a matite colorate e pastelli a olio. In una lettera inviata al padre all’inizio del suo ricovero, Aloïse scrive: “Avverto un lento e costante decadimento fisico, fanatismo dell’amore folle che ha strappato tutto dal mio corpo”. In risonanza con la concezione surrealista di André Breton della natura infinitamente rivelatrice della passione romantica, il senso di “amore folle” proprio di Aloïse può essere visto come la forza generativa che sottende la sua visione delle dame di corte, degli affascinanti uomini in uniforme e delle figure mitiche, tra cui Cleopatra e Ben-Hur.

LOSANNA, SVIZZERA, 1886 – 1964, GIMEL, SVIZZERA

Cloisonné de théâtre (1941– 1951), un’epopea a più pannelli che raffigura una serie di ardenti abbracci in un contesto sfarzoso, è strutturato in “atti”. Come in molte delle sue opere, le figure femminili ammantate di splendore o di una voluttuosa nudità hanno il ruolo di protagoniste. Nel 1936, la sua attività pittorica è portata all’attenzione del suo medico, che a sua volta la segnala a Jean Dubuffet; il lavoro di Aloïse diventa quindi una presenza chiave nella collezione di Dubuffet e della sua teorizzazione dell’Art Brut, ammirata da Breton e da altri esponenti chiave del Surrealismo e del Modernismo del XX secolo.

L’Angleterre – Trône de Dehli, 1960-1963 Disegno con matite colorate, 101 × 72 cm. Photo Atelier de numérisation de la Ville de Lausanne. Collezione Christine et Jean-David Mermod. Courtesy SIK-ISEA, Zurigo.

L’opera di Aloïse Corbaz è esposta per la prima volta alla Biennale Arte. —Sybilla Griffin

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209 NUCLEO CONTEMPORANEO Cloisonné de théâtre, 1941-1951 Disegno con matite colorate, 14 m. Photo LAM (Lille métropole, musée d’art moderne, d’art contemporain et d’art brut). Collezione Christine e Jean-David Mermod. Courtesy SIK-ISEA, Zurigo.

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STRANIERI OVUNQUE

Gloria in excelsis Deo Chanteuse Bornod, 1951-1960 Disegno con matite colorate, 70 × 98 cm. Photo Jean-David Mermod. Collezione Christine et Jean-David Mermod. Courtesy SIK-ISEA, Zurigo.

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Giulia Andreani

Giulia Andreani vive a Parigi da dieci anni. Il suo lavoro rivela e sovverte la storia affrontando questioni legate all’amnesia e generando nuovi strati di significato, interrogando le narrazioni veicolate dagli archivi fotografici, setacciando le pieghe della storia ufficiale per liberarle. Andreani si confronta con i fantasmi di un passato che deve ancora essere narrato, spesso rivelando un approccio femminista che offre una riflessione pregnante sulla posizione della donna nella società, sulla maternità, sul trauma e sulle figure dimenticate della storia politica e artistica. Dipinti principalmente con il grigio di Payne, un colore simile al vecchio inchiostro delle foto dei giornali, e con la tecnica dell’acquerello, spesso associata alle arti minori e raramente utilizzata su tele di grandi dimensioni come quelle di Andreani,

i suoi quadri tentano di resuscitare e rievocare storie intrappolate sotto una coltre commemorativa. Il lavoro di Andreani prende le mosse da un dialogo con l’artista autodidatta Madge Gill. Lavorando sotto l’influenza di Myrninerest, il suo spirito guida, il lavoro di Gill è il risultato delle sue traumatiche esperienze di vita e della sua capacità di essere medianicamente connessa ad altri mondi. Tracciando un collegamento tra la sua storia e la storia dell’accesso delle donne alla pratica artistica, i cinque dipinti e la scultura in vetro di Andreani mettono in risalto il movimento per il suffragio femminile in Gran Bretagna agli inizi del XX secolo. In dialogo con il capolavoro di Gill, Crucifixion of the Soul (1936), l’opera di Andreani trae ispirazione in parte dagli archivi che documentano le donne pioniere dell’epoca e dalla posizione di Gill come donna e artista in quel periodo. Esplorando i

VENEZIA, ITALIA, 1985 VIVE A PARIGI, FRANCIA

possibili legami tra femminismo e spiritualismo come forma di emancipazione e resistenza, Andreani si occupa delle invisibili affinità emotive tra i corpi femminili creativi. L’opera di Giulia Andreani è esposta per la prima volta alla Biennale Arte. —Michela Alessandrini

Genitæ Manæ, 2022 Acrilico su tela, 150 × 200 cm. Photo Charles Duprat. Courtesy l’Artista; Galerie Max Hetzler Berlino, Parigi, Londra. © Giulia Andreani.

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211 La mariée, 2019 Vetro di Murano e base in legno di pero, 37 × 30 × 30 cm. Photo Marc Domage. Courtesy l’Artista; Galerie Max Hetzler Berlino, Parigi, Londra. © Giulia Andreani.

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La scuola di taglio e cucito, 2023 Acquerello su carta, 140 × 300 cm. Photo Charles Duprat e Dario Lasagni. Courtesy l’Artista; Galerie Max Hetzler Berlino, Parigi, Londra. © Giulia Andreani.

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Claudia Andujar

Claudia Andujar è sopravvissuta al genocidio grazie all’esilio e la sua vita è segnata da un passato di guerra e sterminio. Nata Claudine Hess, si trasferisce con la famiglia in Transilvania fino al ritorno in Svizzera nel 1944 con la madre. Nello stesso anno, il padre e i parenti di origine ebraica sono sterminati nei campi di concentramento. Nel 1955, a ventiquattro anni, emigra in Brasile e si stabilisce a San Paolo, ricongiungendosi con la madre che si era trasferita in precedenza. Non conoscendo il portoghese, l’artista trova il modo di confrontarsi con le abitudini locali e le popolazioni indigene attraverso la fotografia. Il suo primo incontro con gli Yanomami avviene a Catrimani, nello Stato di Roraima, nel 1971. Da quel momento inizia a raccontare la vita nell’urihi a (foresta-terra) e le esperienze rituali dello sciamano con gli xapiri (spiriti). È stata una delle

fondatrici della Commissione Pro-Yanomami, che si batte per la demarcazione delle terre indigene. Il lavoro di Andujar racchiude un repertorio di immagini che vanno ben oltre la fotografia puramente documentaria, evocando, dal punto di vista della cosmovisione indigena, quanto a noi risulta invisibile. Nella serie intitolata A casa (1974), l’artista riprende la vita quotidiana degli Yanomami occupati in faccende domestiche. In una delle fotografie della serie, un bambino appare illuminato dalla luce che, attraverso delle fessure, filtra nell’ambiente buio di uno yano (casa collettiva), trasformandolo in una manifestazione visiva dell’assenza di separazione tra la vita nella foresta e l’incorporeo mondo spirituale degli xapiri. Nella serie O reahu (1974), l’artista documenta un’importante cerimonia funebre. In queste fotografie

NEUCHÂTEL, SVIZZERA, 1931 VIVE A SAN PAOLO, BRASILE

in bianco e nero, i partecipanti appaiono ornati da piumaggi di uccelli, mentre la luce che filtra dalle fessure illumina nuovamente l’ambiente circostante. I punti di luminosità che penetrano negli spazi collettivi di abitazione, lavoro e rituali registrati da Andujar contribuiscono a comporre un ambiente onirico.

C s In a a Il c 4 G ©

L’opera di Claudia Andujar è esposta per la prima volta alla Biennale Arte. —André Mesquita

Xirixana Xaxanapi thëri mistura mingau de banana em cocho suspenso, capaz de armazenar até 200 litros de alimento para as festas, Catrimani - da série A casa, 1974 Ingrandimento analogico alla gelatina e argento su carta opaca Ilford Multigrade Classic, con viraggio al selenio, 40 × 60 cm. Courtesy Galeria Vermelho. © Claudia Andujar.

Y s In a s M c 4 G ©

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213 Catrimani - da série O reahu, 1974 Ingrandimento analogico alla gelatina e argento su carta opaca Ilford Multigrade Classic, con viraggio al selenio, 40 × 60 cm. Courtesy Galeria Vermelho. © Claudia Andujar.

Yanomami da série Casa, 1974 Ingrandimento analogico alla gelatina e argento su carta opaca Ilford Multigrade Classic, con viraggio al selenio, 40 × 60 cm. Courtesy Galeria Vermelho. © Claudia Andujar.

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Aravani Art Project

Aravani Art Project è un collettivo formato da donne cis e transgender con l’obiettivo di diffondere positività e speranza nelle loro comunità attraverso dipinti murali realizzati su commissione. Il progetto, che riunisce una quarantina di partecipanti fissi, è nato a Bangalore, in India, ma ora ha membri in varie parti del paese. Prende il nome dall’annuale Aravani Festival, in cui esponenti della comunità transgender eseguono rituali religiosi. L’Aravani Art Project inizia ogni progetto con dei disegni per dare corpo alle narrazioni che si intendono creare; questi vengono poi digitalizzati, prima di essere impiegati nei dipinti murali. Di recente il collettivo ha lavorato anche con i tessuti, trasponendo i colori vivaci dei materiali nel linguaggio patchwork che gli è proprio. BIENNALE ARTE 2024

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Il dipinto murale commissionato per la Biennale di Venezia mette in relazione le rappresentazioni dei corpi trans e la natura, con un cenno ai processi di transizione, disforia e accettazione che le persone trans sperimentano nel riconoscere la propria identità. Rifiutando le costruzioni di genere, il lavoro mette in discussione le norme dominanti e si sofferma sulla disforia di genere, una sensazione di estraneità all’interno del proprio corpo, e sul modo in cui questo ostacolo viene superato. Utilizzando colori vivaci e immagini sfaccettate, la narrazione mostra le diverse possibilità che le persone trans dovrebbero avere, al di là dei ristretti stereotipi imposti dalla società. In questo senso, il colore diventa elemento cruciale del loro lavoro, sia come eco del loro background

BANGALORE, INDIA, 2016 CON BASE A BANGALORE

indiano – in cui i colori vivaci compaiono nei vestiti, nelle spezie e nell’architettura – sia come amplificazione dei colori delle bandiere LGBTQ+ e trans che spesso figurano nel loro lavoro e che rimandano alla diversità tra le persone. L’opera di Aravani Art Project è esposta per la prima volta alla Biennale Arte. —Leandro Muniz

Forever Womanhood, 2020 Murale. Courtesy gli Artisti.

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Trans Lives Matter Lodhi Art District, 2019 Murale. Courtesy gli Artisti. Mural experience in Asia’s largest Red light district, 2018 Murale. Courtesy gli Artisti.

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Iván Argote

L’arte di Iván Argote è fortemente influenzata dalla resistenza, dalla disobbedienza civile e dalla sua emigrazione dalla Colombia alla Francia. I suoi progetti attraversano diversi paesi e supporti, come sculture, installazioni, interventi e immagini in movimento. La sua opera si basa su una rielaborazione delle narrazioni egemoniche e approfondisce le complessità di emozioni condivise e individuali, prendendo in esame gli intrecci del potere e la produzione della storia. In una stratificazione ciclica di tempo, significato e interpretazione, l’approccio multidisciplinare di Argote ribalta le convenzioni e va a scovare nuovi immaginari politici emergenti. Argote opera di frequente in spazi pubblici, intervenendo sui monumenti e creando sculture su larga scala in ambienti esterni. L’artista suggerisce nuove interpretazioni simboliche e innesca una critica ecologica che pretende la massima attenzione.

Descanso (2024) presenta il corpo di Cristoforo Colombo, figura emblematica della colonizzazione latinoamericana, invaso da specie vegetali locali e migranti. Ai Giardini della Biennale, dove l’opera è esposta, le connotazioni politiche della statua si tramutano in contenitori per la vita naturale. Oltre all’installazione, all’Arsenale è presente anche il video di Argote, Paseo. Quest’ultimo è una fiction decoloniale in cui la statua equestre di Colombo di Plaza de Colón a Madrid vaga esiliata per la capitale. Le decostruzioni di Argote sottolineano il suo impegno contro le ingiustizie storiche e sulle tematiche ecologiche. Il disfacimento di Colombo genera una splendida trasformazione che fa sbocciare una nuova vita e scrivere una nuova storia.

BOGOTÁ, COLOMBIA, 1983 VIVE A PARIGI, FRANCIA

Descanso (particolare), 2022-2024 Scultura, pietra arenaria scolpita, piante selvatiche migranti e piante locali coltivate nella regione, 1250 × 280 × 140 cm. Courtesy l’Artista; Albarrán Bourdais, Perrotin & Vermelho.

—Amanda Carneiro

Paseo (still), 2022 Video, 23’ 30”. Courtesy l’Artista; Albarrán Bourdais, Perrotin & Vermelho.

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NUCLEO CONTEMPORANEO

Descanso, 2022-2024 Scultura, pietra arenaria scolpita, piante selvatiche migranti e piante locali coltivate nella regione, 1250 × 280 × 140 cm. Courtesy l’Artista; Albarrán Bourdais, Perrotin & Vermelho.

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Karimah Ashadu

Cresciuta in Nigeria, Karimah Ashadu studia pittura presso l’Università di Reading. Il suo interesse per la corporeità e la spazialità la spinge tuttavia a passare alla performance e infine al video, con una laurea in Spatial Design presso il Chelsea College of Art. Nei suoi filmati, Ashadu esplora storie legate alla Nigeria e all’Africa occidentale. Si concentra sulle pratiche di autodeterminazione e resilienza, in particolare all’interno delle economie alternative o clandestine dei lavoratori irregolari in Nigeria e in Europa, contesti chiaramente legati al neoliberismo e alle eredità del potere coloniale. I suoi video, molto apprezzati nei circuiti cinematografici e nelle gallerie internazionali, sono il prodotto di progetti di ricerca condotti in stretta collaborazione con gli stessi protagonisti, a loro volta anche voci narranti, con i quali l’artista stabilisce intensi contatti per lunghi periodi di tempo.

BIENNALE ARTE 2024

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Machine Boys (2024) ritrae i mototaxi, colloquialmente noti come okada, nella megalopoli di Lagos. Nel 2022, a causa di numerosi incidenti che avevano coinvolto questi mezzi di trasporto e dell’impossibilità di regolamentarne l’economia informale, è stato imposto un divieto che ha reso passeggeri e conducenti passibili di reclusione. In Machine Boys, Ashadu si sofferma sulle conseguenze di questo divieto, ritraendo al contempo le abitudini e le sfide quotidiane affrontate dai guidatori di okada, persone che incarnano un particolare tipo di mascolinità grazie al loro abbigliamento elegante e al loro comportamento sicuro e autorevole. Attraverso questa esplorazione degli ideali patriarcali nigeriani, l’artista mette in relazione la rappresentazione della mascolinità con la vulnerabilità di una classe di lavoratori precari. Il filmato è proiettato all’interno di una stanza viola, colore che trae ispirazione dai fari sfavillanti di uno dei motociclisti. La scultura in ottone Wreath (2024), un rilievo intrecciato di pneumatici, che evoca un medaglione, suggerisce concetti di commemorazione e legittimità.

LONDRA, REGNO UNITO, 1985 VIVE AD AMBURGO, GERMANIA, E LAGOS, NIGERIA

L’opera di Karimah Ashadu è esposta per la prima volta alla Biennale Arte. —Sofia Gotti

Machine Boys (stills), 2024 Video. Courtesy l’Artista; Fondazione In Between Art Film.

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Dana Awartani

Dana Awartani è un’artista palestinese-saudita che ha cercato affinità tra le conoscenze delle comunità indigene nel mondo arabo, in India e in altri paesi, dove ha sviluppato il proprio lavoro in dialogo con gli artigiani. Attraverso la loro saggezza generazionale, l’artista ha inglobato nella propria arte gli atti simbolici della guarigione, utilizzando tecniche sostenibili e rispettose della natura, facendo rivivere i motivi vernacolari e impiegando materiali naturali nelle installazioni, nei video, nelle performance e nei dipinti. Awartani ha ricevuto una formazione in arti contemporanee e tradizionali, come testimoniano la laurea alla Central Saint Martins e un Master of Arts alla Prince’s School of Traditional Arts di Londra. Sta inoltre lavorando

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per ottenere la prestigiosa certificazione Ijazah. Questo orientamento diversificato permette alla pratica di Awartani di intrecciare forme contemporanee e tradizionali, come dimostra il modo meditativo di lavorare con movimenti misurati, in cui ogni gesto e segno hanno un significato preciso. L’installazione Come, let me heal your wounds. Let me mend your broken bones (2024) è un requiem dedicato ai siti storici e culturali distrutti nel mondo arabo a causa di guerre e atti di terrorismo. In maniera terrificante, l’installazione si espande a ogni iterazione per fare spazio a una nuova documentazione. Questa edizione aggiunge una testimonianza della devastazione di Gaza e dei siti che sono stati

PALESTINESE, NATA A JEDDAH, ARABIA SAUDITA, 1987 VIVE A JEDDAH E NEW YORK, USA

indiscriminatamente rasi al suolo dai bombardamenti e dai bulldozer. L’artista crea dei buchi su metri di tessuto di seta, dove ogni strappo segna un sito. Poi rammenda ogni squarcio – una pratica in via di estinzione, più intima ma sottovalutata rispetto al patchwork – con tenerezza, come gesto di guarigione; le cicatrici risultanti simboleggiano quelle fisiche ed emotive lasciate nel mondo reale. Il tessuto viene immerso in tinture naturali a base di erbe e spezie che hanno valore medicinale, sfruttando le sacre proprietà curative incorporate nelle pratiche tradizionali di tintura tessile del Kerala che Awartani ha appreso nel tempo. L’opera di Dana Awartani è esposta per la prima volta alla Biennale Arte. —Saira Ansari

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Come, let me heal your wounds. Let me mend your broken bones, as we stand here mourning, 2019 Rammendo su seta tinta con medicinali, 630 × 720 × 300 cm. Photo Anna Shtraus. Courtesy l’Artista; Athr Gallery.

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Aycoobo (Wilson Rodríguez)

Aycoobo ha imparato la sua arte in modo empirico e attraverso il padre, il rinomato pittore ed esperto di piante Abel Rodríguez, la cui vasta conoscenza del paesaggio amazzonico ha posto le basi per riflettere sulla visione del mondo del popolo nonuya. In disegni meticolosi e intricati, Aycoobo narra aspetti della storia del suo popolo e del rapporto che questo ha con il mondo fisico, nonché le esperienze nell’accedere a più elevate forme di coscienza mediante piante rituali e medicinali come l’ayahuasca e il tabacco. Aycoobo intende la propria pratica, caratterizzata da colori vivaci, come manifestazione del sapere ereditato dal padre e da altri anziani della comunità, oltre che come canale per condividere miti, storie ed esperienze dei Nonuya.

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Le opere presentate alla Biennale affrontano alcune fra le tematiche più urgenti per Aycoobo: Calendario (2023) rappresenta un calendario mensile che associa il trascorrere del tempo alle condizioni delle foreste amazzoniche in ogni mese dell’anno. Riproduce inoltre i processi agricoli della chagra (una parte di foresta coltivata con i principi dell’agricoltura biologica) così come i mondi sottomarini e il centro della Terra. In Laguna misterioso (2022) un saggio emerge da un lago sacro, suggerendo l’interconnessione fra tutte le specie nella cosmogonia nonuya, strutturata in base alla legge delle origini e guidata dal sapere ancestrale. Vibración (2022), invece, raffigura una donna anziana in uno stato di coscienza espansa, indotto dall’uso di piante medicinali. Insieme,

C A A l’

LA CHORRERA, COLOMBIA, 1967 VIVE A BOGOTÁ, COLOMBIA

queste opere parlano di ciò che Aycoobo intende come il suo compito: tramandare la conoscenza e creare immagini che scaturiscono da una consapevolezza superiore. L’opera di Aycoobo è esposta per la prima volta alla Biennale Arte. —Emiliano Valdés

Laguna misterioso, 2022 Acrilico su carta, 70 × 100 cm. Photo Nicole López. Courtesy l’Artista; Instituto de Visión.

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Vibración, 2022 Acrilico su carta, 70 × 100 cm. Photo Nicole López. Courtesy l’Artista; Instituto de Visión.

NUCLEO CONTEMPORANEO

Calendario, 2023 Acrilico su carta, 70 × 100 cm. Photo Ana María Balaguera. Courtesy l’Artista; Instituto de Visión.

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Leilah Babirye

La pratica artistica di Leilah Babirye abbraccia molteplici discipline e si addentra nelle complesse intersezioni tra identità, sessualità e diritti umani. Il suo repertorio artistico comprende ritratti di membri della comunità LGBTQ+, che offrono un commento poetico e metaforico sulla svalutazione e il rifiuto che questi gruppi subiscono. Le sculture sono realizzate con materiali di scarto raccolti per strada, inestricabilmente combinati attraverso processi quali bruciatura, taglio, saldatura e brunitura. Il percorso di Babirye, che ha fatto pubblicamente outing, affronta la dura realtà dell’essere queer in Uganda: la recente approvazione della legge contro l’omosessualità l’ha portata a chiedere asilo a New York. Il paesaggio cosmopolita della città, che

spesso funge da scenario per la raccolta dei materiali che l’artista incorpora nelle proprie opere, diventa anche palcoscenico per sottolineare sottilmente le sfide dell’esilio politico. Le sculture presentate mettono in luce un aspetto fondamentale della sua pratica artistica: il popolamento degli spazi esterni con figure scultoree che incorporano i tratti visivi delle maschere africane, fondendo tradizione e contemporaneità. Realizzate in metallo, ceramica e legno intagliato a mano, con l’aggiunta di gomma, chiodi, teiere e altri oggetti recuperati, l’artista stabilisce un deliberato contrasto tra i materiali, conferendo ai pezzi una composizione intrigante. Namasole Wannyana, Mother of King Kimera from the Kuchu

KAMPALA, UGANDA, 1985 VIVE A NEW YORK, USA

Royal Family of Buganda (2021), trae ispirazione dal regno bantu ugandese di Buganda, noto per la sua importanza storica. Pur essendo radicata nei regni tradizionali dell’Uganda attuale, l’opera va oltre la rappresentazione storica e diventa espressione dell’immaginazione politica dell’artista, che intreccia la storia personale e la resilienza al concetto di discendenza queer tra i clan Buganda. Queste opere immaginano un’utopia in cui le persone queer ugandesi sono liberate dall’oppressiva omofobia prevalente nel paese d’origine dell’artista. L’opera di Leilah Babirye è esposta per la prima volta alla Biennale Arte. —Amanda Carneiro

Namasole Wannyana, Mother of King Kimera from the Kuchu Royal Family of Buganda, 2021 Ceramica, filo di ferro, guaine elettriche, camere d’aria di pneumatici di bicicletta e oggetti trovati, 273 × 84 × 84 cm. Photo Mark Blower. Courtesy l’Artista; Stephen Friedman Gallery, Londra e New York; Gordon Robichaux, New York.

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Namasole Namaganda, Mother of King Mutesa II from the Kuchu Royal Family of Buganda, 2021 Legno, cera, chiodi, colla, bulloni, dadi, rondelle e oggetti trovati, 281,9 × 61 × 48,3 cm. Photo Mark Blower. Courtesy l’Artista; Stephen Friedman Gallery, Londra e New York; Gordon Robichaux, New York.

Agali Awamu (Togetherness), 2022 Legno, cera, acciaio, alluminio, chiodi, bulloni, dadi, rondelle, filo di ferro, parti di biciclette, oggetti trovati e modificati, 264,2 × 365,8 × 182,9 cm. Photo Nicholas Knight. Courtesy l’Artista; Stephen Friedman Gallery, Londra e New York; Gordon Robichaux, New York; Public Art Fund, NY.

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Bordadoras de Isla Negra

Bordadoras de Isla Negra era un gruppo costituito da donne autodidatte che, tra il 1967 e il 1980, ricamavano tessuti in lana dai colori vivaci e dalle prospettive poliedriche per raccontare la vita quotidiana di questo villaggio costiero del Cile. Leonor Sobrino, un’aristocratica in visita culturale, rimase estasiata di fronte al patrimonio tessile rurale del gruppo di sedici donne e alla loro capacità di comporre forme sensibili che valorizzavano il significato della loro esperienza. Le forme oniriche e la spontaneità dei colori, così come la libertà radicale della composizione, impregnavano le loro trame di dinamismo e le collocavano al centro dell’arte popolare.

La creazione di Bordadoras de Isla Negra fu curata da Eduardo Martinez Bonati, consulente artistico della Terza Sessione della Conferenza delle Nazioni Unite sul Commercio e lo Sviluppo (UNCTAD III). Allestita in un tempo record di 275 giorni, grazie al lavoro di migliaia di operai, architetti, artigiani e artisti, fu inaugurata il 3 aprile 1972. Il progetto prevedeva la creazione di un tessuto che entrasse in dialogo estetico con l’edificio costruito per ospitare la sede dell’UNCTAD III e che fosse riconosciuto come opera del popolo. La composizione intima, frammentaria e discontinua di questi tessuti, ricamati con lane dai colori vivaci, è fondamentale per comprendere la loro forza e la loro libertà espressiva nel contesto di un lavoro artigianale tramandato a livello locale. I personaggi sono abitanti reali

ISLA NEGRA, CILE, 1967–1980

e riconoscibili di Isla Negra, tra cui Pablo Neruda a caccia di farfalle. Questo gigantesco manufatto tessile venne ricamato partendo da singole stoffe raffiguranti ambienti diversi, successivamente unite per realizzare uno spaccato del Cile, dal mare fino alle Ande. Il ricamo fu rubato e scomparve nel settembre del 1973, dopo che la dittatura di Pinochet si era insediata nell’edificio facendone il proprio centro operativo. È riapparso nell’agosto 2019 e oggi è stato nuovamente reintegrato nell’edificio. L’opera di Bordadoras de Isla Negra è esposta per la prima volta alla Biennale Arte. —Carolina Arévalo Karl

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STRANIERI OVUNQUE

Untitled, 1972 Tela ricamata, 230 × 774 cm. Photo Nicolas Aguayo. Collezione Centro Cultural Gabriela Mistral. © Nicolas Aguayo e Collezione Centro Cultural Gabriela Mistral.

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Sol Calero

Sol Calero crea opere che esplorano i temi della rappresentazione e dell’identità, spesso attraverso ambienti immersivi carichi di motivi e tessuti colorati. Sebbene viva in Europa da diversi anni, Calero ha trascorso infanzia e adolescenza in Venezuela ed è particolarmente interessata ad analizzare gli stereotipi della cultura e dell’identità latinoamericana. Gran parte del suo lavoro è inoltre impregnato di una forte denuncia sociale. Tra i progetti realizzati figurano ricostruzioni di spazi quali un autobus, un salone di bellezza, un internet café, una casa in stile caraibico eretta in un parcheggio e un ufficio di cambio valuta, tutti resi con colori vivaci e pieni di oggetti giocosi. Vincitrice di

numerosi premi internazionali, Calero gestisce il project space berlinese Kinderhook & Caracas insieme al marito e collega Christopher Kline. Utilizzando un’ampia gamma di tecniche – tra cui pittura, scultura, oggetti trovati, tessuti, video, suono e installazioni site-specific – l’approccio concettuale di Calero è sottolineato da quesiti fondamentali che riguardano l’ospitalità e l’appartenenza. In occasione della 60. Esposizione Internazionale d’Arte, l’artista ha affrontato l’invito a progettare un’installazione site-specific nei Giardini della Biennale con la sensibilità che la contraddistingue. Qui, il concetto di padiglione nazionale viene allegramente

CARACAS, VENEZUELA, 1982 VIVE A BERLINO, GERMANIA

reinventato e proposto come ambiente formato da un caleidoscopio di forme e colori, con pareti dipinte a disegni geometrici, tetti spioventi, colonne e recinzioni monocromatiche, e terrazze curvilinee. Il progetto di Calero riflette il suo continuo interesse per il modo in cui gli oggetti, le forme architettoniche e gli interni comunicano preconcetti culturali ed esprimono forme di auto-esotizzazione, come spesso accade nei siti legati al turismo. L’opera di Sol Calero è esposta per la prima volta alla Biennale Arte. —Marko Ilić

Casa Isadora, 2018-2020 Tecnica mista, dimensioni variabili. Photo Anika Büssemeier. Courtesy l’Artista. © Brücke-Museum, Berlino.

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Casa Anacaona, 2017 Veduta dell’installazione a Folkestone, UK . Photo Thierry Bal. Courtesy l’Artista.

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Casa Anacaona (particolare), 2017 Veduta dell’installazione a Folkestone, UK. Photo Thierry Bal. Courtesy l’Artista.

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Kudzanai Chiurai

Kudzanai Chiurai utilizza cinema, fotografia, pittura, stampa, installazioni e interventi sonori per esplorare le problematiche sociopolitiche successive all’indipendenza. Nato nel 1981, un anno dopo l’indipendenza del suo paese d’origine, lo Zimbabwe, consegue una laurea in Belle Arti presso l’Univeristà di Pretoria, in Sudafrica, nel 2006, al culmine degli anni dell’iperinflazione dello Zimbabwe. La sua opera spesso riflette la politica dei contesti locali a lui più vicini, in Sudafrica e Zimbabwe, ma è ispirata anche da temi più ampi legati al continente africano. Attingendo largamente agli archivi e alla letteratura sudafricani, il suo

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lavoro affronta questioni legate alle contestazioni sui terreni, alla postcolonialità, all’abuso di potere e alle narrazioni di liberazione sottorappresentate. Nel 2021 Chiurai ha dato vita a The Library of Things We Forgot to Remember, una mostra interattiva con sede a Johannesburg. Promossa e curata da vari bibliotecari o protagonisti invitati, la biblioteca è composta da vinili, stampe, dipinti e simili, provenienti da archivi e collezioni chiave del continente africano.

HARARE, ZIMBABWE, 1981 VIVE A HARARE

B-Diamond è una figura ricorrente nella pratica di Chiurai, che incarna una politica corrotta ed è spesso addobbata con lussuosi cappotti leopardati, catena cerimoniale e decorazioni varie. B-Diamond ha ereditato gli strumenti di ingiustizia di origine coloniale dai regimi precedenti. Il fogliame scuro che circonda la figura rinvia al Neoclassicismo e ai suoi legami con la nobiltà, mentre le stratificazioni di texture, pittura e testo rimandano ai complessi intrecci coloniali che caratterizzano l’attuale politica di post-liberazione. I testi dorati che ricoprono il volto includono iscrizioni derivate dai registri contabili del commercio

degli schiavi ritrovati a Città del Capo, in Sudafrica. Questi dipinti fanno spesso parte di installazioni che includono elementi scultorei e d’archivio, come What More Can One Ask For? (2017). Collettivamente, elementi come la recinzione di filo spinato, la mappa coloniale e lo strumento di rilevamento del territorio evidenziano storie di estrazione e spostamento. Ci spingono a chiederci: chi o che cosa viene protetto, e da chi. L’opera di Kudzanai Chiurai è esposta per la prima volta alla Biennale Arte. —Tandazani Dhlakama

The Fear of Magic, 2020 Olio su tela, 150 × 120 cm. Courtesy Goodman Gallery.

S O G

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To Walk Barefoot, 2020 Olio su tela, 150 × 120 cm. Courtesy Goodman Gallery.

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Sorcery, 2020 Olio su tela, 150 × 120 cm. Courtesy Goodman Gallery.

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Isaac Chong Wai

Isaac Chong Wai si dedica alla ricerca su performance, danza, video e alla creazione di oggetti con svariate tecniche. Ha studiato arti visive alla Hong Kong Baptist University e ha proseguito gli studi alla Bauhaus-Universität di Weimar, in Germania, dove ha conseguito un master in Arte pubblica e Nuove strategie artistiche. Da allora, Chong Wai vive a Berlino. La sua ricerca si basa generalmente sul concetto di narrazione, invitando lo spettatore a stabilire relazioni tra serie di immagini che tendono a trattare aspetti quali la fragilità, la ripetizione e l’assurdità.

HONG KONG, REPUBBLICA POPOLARE CINESE, 1990 VIVE A BERLINO, GERMANIA, E HONG KONG

In Falling Reversely (2021-2024) Chong Wai approfondisce la sua ricerca sugli atti di violenza commessi non solo contro le numerose comunità di migranti asiatici – in particolare di origine cinese – in Europa e all’estero, ma anche sulle aggressioni subite da individui queer. Prendendo spunto da un’aggressione subita da Chong Wai nei pressi di un’impalcatura, l’installazione ha un carattere scultoreo che rimanda all’edilizia civile. Alla sua struttura è collegata una serie di video che mostrano l’artista e un gruppo di ballerini che reagiscono all’atto di un corpo che cade di fronte a una comunità. Come reagire a questa caduta? Sarebbe possibile evitarla o almeno cercare di interrompere la caduta per ridurre il dolore fisico? Tra coreografia e atto spontaneo, Chong Wai suggerisce che l’individuo e la collettività si mescolano in un unico movimento. Anche noi, come spettatori, siamo agenti in grado di evitare cadute future e di desiderare la cura e l’attenzione dei nostri amici. L’opera di Isaac Chong Wai è esposta per la prima volta alla Biennale Arte. —Raphael Fonseca

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Falling Reversely (stills), 2021-2024 Video. Photo Isaac Chong Wai, Julia Geiß e Lana Immelman. Courtesy l’Artista; Blindspot Gallery e Zilberman. © Isaac Chong Wai.

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Chaouki Choukini

CHOUKINE, LIBANO, 1946 VIVE A LA VERRIÈRE, FRANCIA

Chaouki Choukini ha trascorso più di sessant’anni a reagire materialmente al modo in cui i paesaggi evolvono e le società si trasformano nel corso della storia. Il suo cognome significa “da Choukine”, il villaggio del Libano meridionale dove da bambino costruiva giocattoli di legno. Nel 1967, Choukini lascia Beirut per Parigi e studia all’École nationale supérieure des Beaux-Arts. In Francia, la sua pratica fiorisce negli anni Settanta e Ottanta con la serie di sculture orizzontali Lieux e Paysages. Trascorre cinque anni a fianco dello scultore giapponese Fumio Otani, zio della moglie e ancor oggi sua principale influenza. Nel 1984, trascorre un anno cruciale in Giappone in cui la sua pratica assume un aspetto più minimalista. Poco dopo torna nel Levante, dove insegna scultura a Tripoli, in Libano, e a Irbid, in Giordania. All’inizio degli anni Novanta, Choukini si stabilisce a Parigi dove tuttora prosegue con la propria opera realizzando sculture prevalentemente verticali.

Pur avendo lavorato anche con il bronzo, la pietra e altri materiali, questa selezione di opere illustra la sua maestria nella scultura lignea a forma libera. La fascinazione esercitata su di lui dal legno di wenge, originario dell’Africa centrale, va di pari passo con l’uso nella sua pratica di altri legni africani. Oltre al wenge, fra i pezzi selezionati figurano anche sculture in legno di iroko, mogano sipo e bubinga, con occasionale utilizzo di quercia. Per l’artista, il legno è un materiale profondamente legato a quella stessa terra che esamina nel suo lavoro. L’intaglio e la raschiatura seguono la direzione naturale delle fibre del legno. Che si tratti di orizzonti, concetti astratti, figure umane, vedute aeree della terra, voli di uccelli, figure celesti o tragedie, l’artista tratta questi temi con geometrie curve e originali. Le sue opere tridimensionali, che oscillano tra il ruvido e il levigato, la presenza e l’assenza, potrebbero essere la “seconda vita” degli schizzi ad acquerello da cui in genere prendono corpo i suoi lavori. L’opera di Chaouki Choukini è esposta per la prima volta alla Biennale Arte. —Daniel Rey

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Claire de Lune, 2011-2012 Iroko, 97 × 19 × 19 cm. Courtesy collezione Sharjah Art Foundation, Emirati Arabi Uniti.

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Blessure de Gaza, 2009 Rovere, 80 × 36 × 15 cm. Photo Anna Shtraus. Collezione Fairouz e JeanPaul Villain, Abu Dhabi.

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Dame de Coeur, 2007 Rovere e bubinga, 42,50 × 43,50 × 19 cm. Courtesy collezione Sharjah Art Foundation, Emirati Arabi Uniti.

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Claire Fontaine

Claire Fontaine, collettivo con sede a Palermo e fondato a Parigi nel 2004 dal duo italo-britannico di artisti Fulvia Carnevale e James Thornhill, si confronta con l’impotenza politica e con la crisi della singolarità all’interno dell’arte e della società di oggi. Ricorrendo a un’ampia gamma di supporti, fra cui il neon, il video, la scultura, la pittura e il testo, Claire Fontaine rifiuta la mercificazione degli artisti. Piuttosto, mette in atto una pratica collettiva di resistenza all’automercificazione attraverso gli approcci sperimentali della condivisione di creatività e saperi. La scrittura svolge un ruolo cruciale, decostruendo la consolidata gerarchia fra espressione visiva e verbale. Il nome, mutuato da un marchio francese di prodotti di cancelleria, evidenzia la natura ready-made del collettivo, impiegando questo concetto per criticare le barriere all’uso

e alla divulgazione di idee ed esplorando gli effetti del feticismo della merce sulla produzione e sulla ricezione dell’arte contemporanea. Claire Fontaine si integra pienamente nei principali circuiti dell’arte, instaurandovi alleanze e spronando al cambiamento, impegnandosi proattivamente nei meccanismi e nei temi dell’industria artistica. Stranieri Ovunque - Foreigners Everywhere (60. Esposizione Internazionale d’Arte) (2004– 2024) comprende una serie di sculture al neon in più lingue, che catturano le molteplici sfumature di ambivalenza intrinseche nel titolo dell’opera. I lavori traggono ispirazione dal nome di un collettivo anarchico che si batteva contro la xenofobia nella Torino dei primi anni 2000. Esposte in vari contesti e spazi pubblici, queste sculture fungono sia da dichiarazione fattuale contro potenziali minacce razziste,

FONDATO A PARIGI, FRANCIA, 2004 CON BASE A PALERMO, ITALIA

sia come antidoto rispetto a queste. Evocano il palpabile senso di straniamento avvertito dagli individui che cercano di rimanere a galla in una società globalizzata – un sentimento che si può riferire a migranti e ad altri gruppi emarginati e include problematiche di razza, genere e classe. Quest’opera riconosce che l’atto del trasferimento può alterare o confondere i significati. Nel ricercare una “lingua straniera all’interno del linguaggio”, i due artisti approfondiscono nuovi significati e nuove esperienze per dimostrare che ciascuno di noi può essere, o è stato, straniero rispetto a qualcosa o a qualcuno in qualche momento della propria vita.

Foreigners Everywhere (Romany), 2010 Vista dell’installazione, neon a sospensione, a parete o a finestra, struttura, trasformatore elettronico e cavi, 98 × 2,28 × 45 cm. Photo Studio Claire Fontaine. Courtesy gli Artisti e Mennour, Parigi. © Studio Claire Fontaine.

L’opera di Claire Fontaine è esposta per la prima volta alla Biennale Arte. —Amanda Carneiro

Foreigners Everywhere (Spanish), 2007 Vista dell’installazione, neon a sospensione, a parete o a finestra, struttura, trasformatore elettronico e cavi, 98 × 2,16 × 45 cm. Photo Studio Claire Fontaine. Courtesy gli Artisti e Mennour, Parigi. © Studio Claire Fontaine.

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Foreigners Everywhere (Tibetan), 2010 Vista dell’installazione, neon a sospensione, a parete o a finestra, tubo Tecnolux n. 44s 8/10mm, struttura, trasformatore elettronico e cavi, 48 × 3,25 × 45 cm. Photo Florian Kleinefenn. Courtesy gli Artisti e Mennour, Parigi. © Studio Claire Fontaine.

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Manauara Clandestina

La pratica di Manauara Clandestina comprende fotografia, video, performance, tessuti e moda; collabora di frequente con altri artisti e ha come soggetto principale la comunità dei travesti. In questo senso, alterna ricordi personali e critica sociale, facendo cenno alle relazioni tra queste sfere. Il nome si riferisce alle proprie origini a Manaus, capitale dello stato di Amazonas, in Brasile. Il nome Manaus deriva da quello del popolo indigeno Manaós. Con “Clandestina” allude anche al proprio costante spostamento nel mondo e alla propria condizione sociale di persona afro-indigena trans. Per la Biennale di Venezia, l’artista presenta la seconda versione del video Migranta (2020-2023), incorporando nuovi elementi come recenti registrazioni del padre. In

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questo senso, si dovrebbe intendere il titolo come segno del processo di costruzione in corso dell’opera, nonché dell’identità e delle relazioni dell’artista. Il video alterna schermate del suo cellulare, spezzoni di telecamere di sicurezza, materiale d’archivio e filmati storici, utilizzando un’ampia gamma di tecnologie, dalle immagini ad alta risoluzione a quelle low-tech, che danno vita a diverse texture e qualità di rappresentazione. Per Clandestina, l’uso di immagini già pronte traspone nella sua pratica video il concetto di “upcycling” – in cui si utilizza materiale di scarto per creare nuovi abiti – mutuato dal mondo della moda. In termini narrativi, Building (2021-2024) raccoglie scene

MANAUS, BRASILE, 1992 VIVE A MANAUS

che ritraggono l’esplorazione della luna, edifici in crollo e l’artista stessa, oltre a racconti sul travestitismo, l’ecologia, le disuguaglianze economiche, il lavoro, la religione, la violenza, l’intimità e l’affetto, proponendo interconnessioni tra tutti questi temi. L’opera di Manauara Clandestina è esposta per la prima volta alla Biennale Arte. —Leandro Muniz

Building, 2021-2024 Video, 5’ 37”

Migranta, 2020 Video, 17’

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River Claure

River Claure è un fotografo e artista visivo noto soprattutto per i ritratti meticolosamente costruiti, i paesaggi magici e le serie di docufiction fotografiche. Nel suo lavoro si interroga sul ruolo dell’identità culturale e sulla centralità delle immagini fotografiche nella nostra percezione della realtà. Figlio di una famiglia di immigrati provenienti da una piccola comunità dell’altopiano andino, Claure cresce vivendo le tensioni tra le proprie radici indigene e le realtà urbane dell’inizio del XXI secolo. Formatosi dapprima nella sua città natale, Cochabamba, in seguito studia fotografia contemporanea a Madrid, diventando presto uno degli artisti boliviani più in vista della

sua generazione. La sua opera ha ricevuto il premio nazionale d’arte della Bolivia, il Premio Nacional Eduardo Abaroa, ed è acclamata dalle principali piattaforme internazionali, quali il National Geographic, il New York Times e la World Press Photo Foundation. Le serie fotografiche Warawar Wawa (2019-2020), un adattamento del Piccolo principe di Antoine de Saint Exupéry ambientato nella Bolivia contemporanea, e Mita (2022-in corso), un sensibile ritratto della vita nelle comunità minerarie andine che rimanda a cinquecento anni di estrattivismo coloniale, rivelano un approccio alla fotografia sostanzialmente performativo. Più che

COCHABAMBA, BOLIVIA, 1997 VIVE A COCHABAMBA E LA PAZ, BOLIVIA

rappresentazioni meccaniche di una realtà data, appaiono interventi giocosi su ciò che diamo per scontato. Una persona ritratta può diventare un attore o una fotografia documentaria può diventare un set cinematografico. Le sue fotografie sono veri e propri ritratti di volti, paesaggi e identità reali e si basano sul suo lungo lavoro all’interno delle comunità. Inoltre, riorganizzano gioiosamente i codici e la disposizione degli elementi per rappresentare una realtà data: sono tableaux vivants in cui le persone e le cose ritratte possono esprimere l’indescrivibile a modo loro, in base a principi di autodeterminazione e dignità e a un pizzico di magia.

L’opera di River Claure è esposta per la prima volta alla Biennale Arte. —Max Jorge Hinderer Cruz

V W S o C

Yatiri - from the series Warawar Wawa, 2019 Stampa a pigmenti su carta opaca di cotone, 127 × 85 cm. Courtesy l’Artista.

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Cerro 3 - from the series Mita, 2023 Stampa a pigmenti su carta opaca di cotone, 112 × 84 cm. Courtesy l’Artista.

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Villa Adela - from the series Warawar Wawa, 2019 Stampa a pigmenti su carta opaca di cotone, 190 × 127 cm. Courtesy l’Artista.

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Liz Collins

Liz Collins si muove in maniera fluida tra arte e design per produrre un’ampia gamma di opere percorse da una vibrante energia ottica e da una sensibilità femminista queer. Incorporando Fiber Art, pittura, disegno, video, performance e forme di design, il suo lavoro comprende molteplici processi e associazioni: fatto a mano e meccanico, familiare e astratto, giocoso e politico. Specializzata in tessuti e fibre, nel 1999 Collins ha lanciato il suo innovativo marchio di maglieria e continua a sperimentare molteplici tecniche di produzione, sviluppate operando a livello internazionale. Nel primo decennio del XXI secolo, si allontana dalla moda e amplia la portata delle sue opere

ALEXANDRIA, USA, 1968 VIVE A NEW YORK, USA

per interagire con ambienti e pubblici più ampi. Esposte negli Stati Uniti e all’estero, le sue opere tessili attuali variano da piccoli oggetti ricamati a pezzi industriali collaborativi e installazioni architettoniche che creano spazi sociali immersivi. L’attivismo costituisce un elemento centrale della sua pratica: i suoi ampi progetti affrontano le politiche globali del lavoro, le crisi ecologiche e le comunità queer. Spinta da forze affettive ed elementari, l’opera di Collins evoca fenomeni naturali e genera sensuali incontri tattili. Gli enormi arazzi creano un orizzonte immersivo: gli arcobaleni sgorgano dalle cime delle montagne contro un cielo scuro, evocando ciò che l’artista descrive come

“fantasia di un’utopia queer che è appena fuori portata”. Un sogno modulato anche dal pericolo ambientale: una cascata di fulmini si abbatte come un vortice. Un globo lunare rende omaggio alle astrazioni geometriche della visionaria artista e designer Sonia Delaunay. Questa visione simbolica lascia trasparire la sua stessa costruzione: da vicino, la trama dell’arazzo è un disegno fratturato e linee di filo colorato scorrono dietro un vasto cielo nero. Evocando una molteplicità di significati possibili, l’opera di Collins riconosce la nostra condizione di precarietà collettiva e al tempo stesso ci permette di percepire i mondi queer che possono manifestarsi solo se riusciamo a immaginarli e a materializzarli.

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L’opera di Liz Collins è esposta per la prima volta alla Biennale Arte. —Lex Morgan Lancaster

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Rainbow Mountains Weather, 2024 Lino, mohair, monofilamento, nylon, poliestere, lana, 340 × 425 cm. Photo Joe Kramm. Courtesy l’Artista. © Liz Collins 2024.

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Rainbow Mountains Moon, 2024 Lino, mohair, monofilamento, nylon, poliestere, lana, 340 × 373 cm. Photo Joe Kramm. Courtesy l’Artista. © Liz Collins 2024.

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Beatriz Cortez

Beatriz Cortez è un’artista e studiosa cresciuta durante la guerra civile in El Salvador (1979-1992) e successivamente emigrata a Los Angeles. Profondamente impegnata a rendere visibili molteplici temporalità all’interno del nostro spazio condiviso del presente, le sue opere spesso seguono le tracce materiali delle culture mesoamericane premoderne e la loro relazione con i processi geologici e le cosmologie che oggi continuano attraverso le pratiche indigene. L’artista costruisce sculture immaginifiche in acciaio saldato e battuto a mano, che articolano un’esperienza diasporica di simultaneità e molteplicità. Come una doppia esposizione che cattura più luoghi e momenti in un unico fotogramma, le sue opere sono macchine del tempo o portali speculativi

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verso altre dimensioni. I temi della migrazione e delle sue dinamiche di ricorsività e connessione sono presenti in tutte le sue opere. In particolare, Cortez li indaga attraverso molteplici registri, da quello sociale a quello geologico, poiché anche un paesaggio è in perpetuo movimento tettonico attraverso territori e confini. Stela XX (Absence) (2024), una scultura monolitica in acciaio, segue la migrazione di particelle della colossale eruzione Tierra Blanca Joven del Ilopango, avvenuta a metà del V secolo d.C. La roccia e il magma esplosi nella stratosfera oscurarono il sole e trasportati dalle correnti atmosferiche precipitarono su tutto il mondo, provocando un inverno prolungato che colpì l’antica civiltà maya e altri continenti. Le tracce del vulcano sono presenti sia vicino che lontano: la caldera,

S ( A P C e a

SAN SALVADOR, EL SALVADOR, 1970 VIVE A LOS ANGELES E DAVIS, USA

o profonda depressione terrestre, lasciata dal vulcano si è successivamente riempita d’acqua fino a diventare il lago Ilopango, mentre le particelle delle sue ceneri si trovano ancora nelle profondità del ghiaccio artico. Le linee sagomate di Stela XX si ispirano a fotografie e disegni di monoliti maya premoderni oggi conservati in collezioni museali, che furono deliberatamente infranti per estrarli dai loro siti sacri. La sua superficie ondulata in acciaio è saldata con glifi che tracciano questa perdita e rimarcano l’assenza. L’opera di Beatriz Cortez è esposta per la prima volta alla Biennale Arte. —Vic Brook

Glacial Erratic, 2020 Acciaio, 289,5 × 274 × 160 cm. Photo Beatriz Cortez Studio. Courtesy l’Artista e Commonwealth and Council.

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Stela Z, after Quiriguá (Contrary Warrior), 2023 Acciaio, 252 × 101 × 60 cm. Photo Jeffrey Jenkins. Courtesy l’Artista e Commonwealth and Council.

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Ilopango, the Volcano that Left, 2023 Acciaio, 366 × 595 × 305 cm. Photo Jeffrey Jenkins. Courtesy l’Artista e Commonwealth and Council.

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Andrés Curruchich

Andrés Curruchich Cúmez, un importante pittore autodidatta del popolo kaqchikel, è ampiamente considerato l’artista più autorevole del Guatemala. Il suo percorso artistico inizia negli anni Venti, quando entra in contatto con i materiali della pittura, ed è successivamente segnato dalla presentazione delle sue opere in numerosi festival guatemaltechi. Ha guadagnato consensi per le sue narrazioni dettagliate che ritraggono la vita quotidiana delle comunità maya, riflettendo anche il profondo impatto della colonizzazione spagnola e della religione cristiana sulle tradizioni indigene. I suoi dipinti raffigurano scene di incontri, mercati, devozione spirituale, feste e comunione. Spesso caratterizzati da narrazioni scritte a mano e da intricati trajes ornati da disegni e motivi caratteristici che si trovano nei tessuti realizzati a mano dai Maya, l’eredità imperitura di Curruchich riecheggia attraverso il lavoro di un gruppo di pittori kaqchikel a Comalapa, un centro per l’arte autodidatta. Artisti come Rosa Elena Curruchich, Paula Nicho e María Elena Curruchich continuano a portare avanti il suo lascito.

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COMALAPA, GUATEMALA, 1891–1969

Procesión: patrón de San Juan está en su trono (1966) cattura la vibrante celebrazione di giugno di san Giovanni, il venerato patrono di San Juan Comalapa, da cui la città kaqchikel prese il nome dopo la colonizzazione spagnola. Il dipinto presenta altari colorati, abbelliti da piume e bandierine, dedicati al santo. I devoti, nella loro venerazione, portano gli altari tenendo i cappelli in mano lungo il corpo e camminando a piedi nudi. La firma distintiva di Curruchich si trova alla base della tela. L’adozione del cristianesimo da parte delle popolazioni indigene nelle Americhe è stato un processo complesso e spesso conflittuale, caratterizzato da metodi di conversione coercitivi come la confisca delle terre e la distruzione della cultura e delle tradizioni indigene. Oggi, molte popolazioni indigene nelle Americhe praticano forme sincretistiche di cristianesimo, che incorporano elementi del credo e delle pratiche religiose tradizionali. L’opera di Andrés Curruchich è esposta per la prima volta alla Biennale Arte. —Amanda Carneiro

Procesión patron de San Juan esta en su trono, 1966 Olio su tela, 44 × 48,3 cm. Photo Martin Seck. Collezione El Museo del Barrio, New York. Dono di Gale Simmons, Craig Duncan e Lynn Tarbox in memoria di Barbara Duncan, 2007.

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Rosa Elena Curruchich

Rosa Elena Curruchich – artista maya kaqchikel – è considerata la prima donna pittrice di Comalapa, nel dipartimento di Chimaltenango, in Guatemala. Nipote di Andrés Curruchich – uno dei più importanti pittori di Comalapa, rinomato a livello internazionale negli anni Cinquanta – ha imparato a dipingere da sola a metà degli anni Settanta. La sua prima mostra risale al 1979, presso l’Istituto Francese di Città del Guatemala, ma il suo lavoro non riceve accoglienza positiva a causa della diffidenza e dei pregiudizi che circondano una donna operante in quella che, all’interno della sua comunità, era considerata una forte tradizione. Gli stessi membri della sua famiglia hanno opposto grande resistenza alla sua dedizione al mestiere, facendola a volte sentire rifiutata e isolata.

Le opere di Curruchich rivelano il desiderio di documentare, attraverso dipinti meticolosamente dettagliati, la vita quotidiana, le usanze tradizionali, le feste religiose e il lavoro artigianale della sua comunità indigena, come la produzione di candele, pane, aquiloni e perrajes (coperte). Il formato in miniatura delle opere è in gran parte dovuto al fatto che lavorava in segreto e al tempo stesso le permetteva di trasportarle con discrezione durante il periodo della violenta guerra civile in Guatemala (1960-1996). Invece di offrire immagini esotiche prodotte per il consumo turistico, i suoi dipinti prestano attenzione al ruolo delle donne all’interno dell’organizzazione sociale indigena locale e riconoscono il valore del lavoro di cura. In ciascun dipinto inserisce un piccolo testo che descrive i personaggi e le loro azioni. Le sue immagini raccontano la sua storia personale e al contempo rivendicano il potere di trasformazione del lavoro comune. L’opera di Rosa Elena Curruchich è esposta per la prima volta alla Biennale Arte.

COMALAPA, GUATEMALA, 1958–2005

Rosa Curruchich vendiendo comidas. Mi hermanita, 1980 ca. Olio su tela, 14,3 × 16,9 × 1,3 cm. Photo Margo Porres. Courtesy La Galería, Panajachel e Proyectos Ultravioleta, Guatemala City. Van a escoger capitana del nuevo año, 1980 ca. Olio su tela, 14,30 × 19 × 1,20 cm. Photo Margo Porres. Courtesy La Galería, Panajachel e Proyectos Ultravioleta, Guatemala City.

—Miguel Lopez

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Mi tío Pablo pintando Rosa Elena, 1980 ca. Olio su tela, 12 × 15,60 × 1,40 cm. Photo Margo Porres. Courtesy La Galería, Panajachel e Proyectos Ultravioleta, Guatemala City.

Iglesia San Marcos, 1980 ca. Olio su tela, 15 × 16,40 × 1,60 cm. Photo Margo Porres. Courtesy La Galería, Panajachel e Proyectos Ultravioleta, Guatemala City.

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STRANIERI OVUNQUE

NUCLEO CONTEMPORANEO

Campesinas van a hacer una Fiesta. Las Muchachas que cortan árboles, 1980 ca. Olio su tela, 13,10 × 15,10 × 1,40 cm. Photo Margo Porres. Courtesy La Galería, Panajachel e Proyectos Ultravioleta, Guatemala City.

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Filippo de Pisis

Filippo de Pisis – dandy, aristocratico, scrittore e pittore – trascorre i suoi anni tra Roma, Milano, Venezia e Parigi, alla ricerca di ispirazione artistica ed esperienze di vita. A Roma, de Pisis viene influenzato dal Futurismo e dalla pittura metafisica. Trasferitosi a Parigi nel 1925, dipinge en plein air, creando paesaggi, nature morte e ritratti dalle tonalità delicate, con tratti vibranti e suggestioni oniriche. Nel 1928, fonda il gruppo Les Italiens de Paris con Giorgio de Chirico, Alberto Savinio, Gino Severini, Massimo Campigli, Mario Tozzi e René Paresce; affermatosi come artista di successo, espone alla Biennale nel 1926, 1930 e 1942. Rientrato in Italia nel 1939, la sua omosessualità lo rende persona non grata. Nel dopoguerra torna a Parigi con la giovane nipote e protégée Bona Pieyre de Mandiargues (nata Tibertelli), la cui opera è inclusa nel Nucleo Storico. A causa di una malattia di origine nervosa, trascorre la maggior parte dei suoi ultimi anni in ospedali psichiatrici italiani.

FERRARA, ITALIA 1896 – 1956, MILANO, ITALIA

Famoso per i paesaggi e le nature morte pervase di malinconia – come Vaso di fiori (1942) e Vaso di fiori con ventaglio (1952) –, de Pisis si dedica anche al nudo maschile, soprattutto a Parigi dove può vivere più apertamente la propria omosessualità. Invita spesso giovani prostituti nel suo studio di rue Servandoni 7 dove li ritrae in pose languide dal vago sapore rinascimentale, dando origine a una sospesa atmosfera erotica. I delicati Volto di ragazzo (1931) e Ragazzo con cappello (metà anni Trenta) esemplificano la sua abilità nel cogliere la personalità dei soggetti. La bottiglia tragica (1927) allude a un drammatico episodio della vita del pittore: durante una conversazione, due ragazzi che aveva invitato nel suo studio all’improvviso lo aggrediscono e tentano di rapinarlo. Dopo essere riuscito a respingerli, de Pisis osserva il suo tavolo, ornato da una tovaglia colorata e sovraccarico di vari oggetti, tra cui la sua tavolozza. L’immagine gli rimane impressa nella mente, ispirando una simbolica natura morta. —Antonella Camarda

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Il nudino rosa, 1931 Olio su tela, 65,2 × 46 cm. Photo Carlo Favero. Courtesy P420, Bologna.

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Ragazzo con cappello, metà anni Trenta Matita colorata su carta velina, 42,4 × 25,5 cm. Photo Carlo Favero. Courtesy P420, Bologna.

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Pablo Delano

Pablo Delano è un artista visivo e fotografo con uno spiccato interesse per gli archivi e per la vita, le storie e le lotte delle comunità latinoamericane e caraibiche. Nato e cresciuto nel territorio statunitense non incorporato di Porto Rico e inizialmente formatosi come pittore, si è poi trasferito negli Stati Uniti dove ha iniziato a lavorare con la fotografia sotto l’influenza del padre, il noto fotografo immigrato ucraino Jack Delano. Utilizzando la sua vasta raccolta di materiale storico, fotografie d’archivio, manufatti e filmati relativi alla storia di Porto Rico, Pablo Delano costruisce intricate installazioni che approfondiscono la complessa storia del colonialismo statunitense nella sua terra d’origine. Con queste opere, l’artista sfida le narrazioni ufficiali e richiama l’attenzione su elementi costanti che, a uno sguardo più attento, rivelano sintomi e sistemi di razzismo, oppressione e dominio. The Museum of the Old Colony (2024), un’installazione concettuale basata su materiali di archivio, esamina le persistenti strutture coloniali attraverso la lente dell’esperienza di Porto Rico. L’isola caraibica – a partire dall’arrivo di Cristoforo Colombo nel 1493, che ha portato alla dominazione spagnola – ha vissuto oltre cinquecento anni di dominio coloniale. Dopo la guerra ispano-americana del 1898, Porto Rico è diventato un territorio non incorporato dagli Stati Uniti e ha dovuto affrontare diversi effetti politici ed economici negativi, tra cui

l’espropriazione capitalistica, la gerarchia razziale e un’idea di cittadinanza senza diritto di voto alle elezioni presidenziali statunitensi. Il titolo dell’installazione fa ironicamente riferimento alla complicità dei musei e alla marca di una bibita statunitense molto popolare a Porto Rico, evidenziando come il potere e la presenza degli Stati Uniti siano fondati sullo sfruttamento coloniale, sull’igienismo e sulla gerarchia razziale in molteplici modi: dalla circolazione di beni, popoli e valori al reclutamento di antropologi, missionari, fotografi e politici a sostegno della matrice coloniale. The Museum of the Old Colony comprende una miriade di oggetti, fotografie, giornali, film e riviste di varia provenienza che raccontano molteplici storie legate alla dominazione spagnola e statunitense sulle comunità indigene e native, nonché sulle persone di origine africana, producendo un arazzo intricato delle travagliate vicende di Porto Rico.

SAN JUAN, PORTO RICO, 1954 VIVE A WEST HARTFORD, USA

School for Maids in Puerto Rico from The Museum of the Old Colony: Foreigners Everywhere, 1948 Stampa ai pigmenti su carta straccia, 91,5 × 72 cm. Courtesy l’Artista; Wide World Photo.

The Museum of the Old Colony from The Museum of the Old Colony: Foreigners Everywhere, 2022 Photo Pablo Delano. Courtesy Duke Hall Gallery of Fine Art, James Madison University, Harrisonburg, USA.

War Bird and Banana Man - from The Museum of the Old Colony, 1940 Stampa ai pigmenti su carta straccia, 91,5 × 72 cm. Courtesy l’Artista; International News Photo. Statue of Liberty with Puerto Rican flag - from The Museum of the Old Colony, 1991 Stampa ai pigmenti su carta straccia, 91,5 × 71 cm. Courtesy l’Artista; UPI; Bettman Archive.

L’opera di Pablo Delano è esposta per la prima volta alla Biennale Arte. —Amanda Carneiro e Adriano Pedrosa

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Disobedience Archive

Disobedience Archive è un archivio video multifase, mobile e in continua evoluzione incentrato sul rapporto tra pratiche artistiche e azione politica. Sviluppato dal curatore e teorico dell’arte Marco Scotini nel 2005, il progetto genera un atlante delle tattiche di resistenza contemporanea, dall’azione diretta alla controinformazione, dalle pratiche costituenti alla bioresistenza. Funge anche da “guida all’uso” della disobbedienza sociale, poiché contiene centinaia di materiali documentari che coprono decenni. Disobedience Archive esplora l’attivismo artistico emerso dopo la fine del Modernismo e comprende centinaia di immagini video e cinematografiche che rivelano la natura mediatizzata della storia. Da un lato, mira a mostrare esattamente ciò che le industrie mediatiche, in quanto agenti centrali dell’autoritarismo politico, tentano di nascondere o rimuovere dalla vista. Dall’altro, mira a riprendere il controllo dell’espropriazione violenta dell’esperienza e, a sua volta, finisce per produrre storia e renderla visibile.

Presentato quindici volte in diversi paesi, Disobedience Archive si trasforma ogni volta senza mai assumere una configurazione definitiva. Che si tratti di un parlamento, di una scuola o di un giardino pubblico, il progetto trasforma l’archivio, per sua natura statico e tassonomico, in un dispositivo dinamico e generativo. Per la Biennale, Disobedience Archive rappresenta The Zoetrope, la macchina pre-cinematografica che animava le immagini. Indaga la rappresentazione del movimento, dando vita a uno spazio centrifugo. In questa occasione presenta due nuove macrosezioni che comprendono quaranta filmati: Diaspora Activism affronta i processi migratori transnazionali nel contesto del neoliberismo egemonico, come lotta che spinge a nuovi modi di abitare il mondo e mette in discussione il significato stesso di cittadinanza. Gender Disobedience è, in continuità con la sezione precedente, dedicato alle soggettività nomadi, concepite come rottura del binarismo eterosessuale. Questa sezione riunisce le alleanze tra l’attivismo che critica il capitalismo e i movimenti LGBTQ+ emersi a livello globale.

MARCO SCOTINI CON: URSULA BIEMANN, BLACK AUDIO-FILM COLLECTIVE, SEBA CALFUQUEO, SIMONE CANGELOSI, CINÉASTES POUR LES SANSPAPIERS, CRITICAL ART ENSEMBLE, SNOW HNIN EI HLAING, MARCELO EXPÓSITO WITH NURIA VILA, MARIA GALINDO & MUJERES CREANDO, BARBARA HAMMER, MIXRICE, KHALED JARRAR, SARA JORDENÖ, BANI KHOSHNOUDI, MARIA KOURKOUTA & NIKI GIANNARI, PEDRO LEMEBEL, LIMINAL & BORDER FORENSICS (LORENZO PEZZANI, JACK ISLES, GIOVANNA REDER, STANISLAS MICHEL, CHIARA DENARO, ALAGIE JINKANG, CHARLES HELLER, KIRI

SANTER, SVITLANA LAVRENCHUK, LUCA OBERTÜFER), ANGELA MELITOPOULOS, JOTA MOMBAÇA, CARLOS MOTTA, ZANELE MUHOLI, PINAR ÖĞRENCI, DANIELA ORTIZ, THUNSKA PANSITTIVORAKUL, ANAND PATWARDHAN, PILOT TV COLLECTIVE, QUEEROCRACY, OLIVER RESSLER AND ZANNY BEGG, CAROLE ROUSSOPOULOS, GÜLIZ SAĞLAM, IRWAN AHMETT & TITA SALINA, TEJAL SHAH, CHI YIN SIM, HITO STEYERL, SWEATMOTHER, RAPHAËL GRISEY AND BOUBA TOURÉ, NGUYỄ ỄN TRINH THI, JAMES WENTZY, ŽELIMIR ŽILNIK

Disobedience Archive è esposto per la prima volta alla Biennale Arte. —Marco Scotini

Disobedience Archive, 2010 Veduta dell’installazione a Raven Row, Londra. Photo Marcus J. Leith. Allestimento dell’esposizione Xabier Salaberria.

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Disobedience Archive (Ders Bitti), 2022 Veduta dell’installazione alla 17. Bienniale di Istanbul, Central Greek School for Girls, Istanbul. Photo Sahir Ugur Eren. Allestimento dell’esposizione Can Altay.

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Aref el Rayess

Aref el Rayess – scultore, pittore e designer – è stato un prolifico ed eclettico modernista arabo la cui opera abbraccia i periodi coloniale, decoloniale e postcoloniale. Nato da una famiglia drusa (una minoranza etnica e religiosa), inizia a dipingere con la madre, Latifeh Abi Rafeh, e i suoi studi lo portano lontano. In Senegal, duratura influenza, dipinge paesaggi e delicati ritratti. A Parigi, dopo incursioni in varie discipline, torna a dipingere all’École des Beaux-Arts, insieme ad altri artisti libanesi: Shafic Abboud, Etel Adnan, Farid Aouad e Said Akl, per citarne alcuni. Ovunque si rechi – Algeria, Messico, Italia per borse di studio, Stati Uniti su commissione –, el Rayess è al centro dei dibattiti intellettuali, politici e filosofici del periodo della decolonizzazione del dopoguerra. Persona nomade e profondamente spirituale, si immerge nel cristianesimo in Libano; a Londra esplora il buddismo e a Jeddah, in Arabia Saudita, si interessa all’Islam.

Toli’ al Bader Alaina (1982) raffigura la maquette di una delle tante sculture che el Rayess e altri artisti sono incaricati di realizzare nell’ambito del progetto di abbellimento di Jeddah. Una di queste opere è la Colonne de Lumière (1980), un monumento in alluminio alto 28 metri che rappresenta la parola Allah, installato in Palestine Square. Facendo riferimento a un nasheed, un canto per il profeta Maometto ad alMadīna, il dipinto fa parte di Desert, importante serie in cui il paesaggio del deserto, le dune e le strutture emergono da colori sfumati e al tempo stesso vibranti. Con la moglie e la figlia lascia il Libano per l’Arabia Saudita negli anni Ottanta, durante la guerra civile.

ALEY, LIBANO, 1928–2005

L’opera di Aref el Rayess è esposta per la prima volta alla Biennale Arte. —Khushi Nansi

Toli’ al Bader Alaina (Moonrise), 1982 Olio su tela, 60 × 91 cm. Courtesy the Estate of the Artist e Sfeir-Semler Gallery Beirut / Amburgo.

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Untitled (Desert series), 1986 Olio su tela, 61 × 91,5 cm. Courtesy the Estate of the Artist e Sfeir-Semler Gallery Beirut / Amburgo.

Untitled (Desert series), 1986 Olio su tela, 91,5 × 120 cm. Courtesy the Estate of the Artist e Sfeir-Semler Gallery Beirut / Amburgo.

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Elyla

Elyla reinterpreta le tradizioni popolari per sconvolgere il nostro rapporto con le stesse e con le strutture di potere che rappresentano. Forza dinamica dell’arte performativa e dell’attivismo proveniente dall’America Centrale, ha coniato il termine barro-mestiza per prendere le distanze dalla lettura tradizionale del mestizaje durante il processo di decolonizzazione in corso. La ricerca artistica autogestita condotta ai margini del mondo accademico si manifesta come una forma di autoetnografia sperimentale che comprende performance video, installazioni, foto-performance, teatro e attivismo comunitario anticoloniale. Il suo lavoro mette in discussione le costruzioni egemoniche delle politiche identitarie e le narrazioni culturali nazionaliste relative al mestizaje, alla queerness e all’ancestrale cosmovisione indigena. Smantella attivamente le modalità convenzionali di abitare il corpo, e quest’ultimo diventa territorio e memoria collettiva, un luogo da cui lanciare una sfida al sistema. I primi lavori di Elyla contestavano le politiche patriarcali e repressive sostenute dalle forze conservatrici e il loro effetto sull’esistenza queer.

CHONTALES, NICARAGUA, 1989 VIVE A MASAYA, NICARAGUA

La video performance Torita-encuetada (2023), una cerimonia anticoloniale, esplora la liberazione dal giogo coloniale attraverso un rituale del fuoco che affonda le radici in una pratica culturale nicaraguense chiamata toro encuetado. La danza rituale, o mitote – struggente atto di ricordo politico –, sollecita il ritorno a pratiche di rispetto della terra e alla decolonizzazione del mestizaje delle identità sessuali e di genere in Mesoamerica. In collaborazione con il regista nicaraguense Milton Guillén e con le musiche di Susy Shock e Luigi Bridges, il rituale filmato si addentra nell’incontro di corpodivinità ancestrali della regione del Pacifico del Nicaragua, invitando gli spettatori ad assistere alle intersezioni tra cultura, prassi artistica anticoloniale e sacro. Nella sfida alle norme sociali, Elyla trasforma l’utopia cochón (queer) in una pratica artistica rivoluzionaria del presente. La performance è dedicata ai leader culturali indigeni Mangue-Chorotega e ai custodi del sapere ancestrale Gustavo Herrera e Cristian Ruiz (19772022), amici, collaboratori e guide dell’artista. L’opera di Elyla è esposta per la prima volta alla Biennale Arte. —Sofía Shaula Reeser-del Rio

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Torita-encuetada, 2023 Videoperformance, 9’ 43”. Courtesy l’Artista. Realizzato in collaborazione con Milton Guillén.

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Romany Eveleigh

Romany Eveleigh, nata a Londra ma cresciuta a Montreal, è figlia d’arte: il padre era il pittore e designer Henry Rowland Eveleigh e la madre era la sua modella, Ivy Florence Beasley. La carriera artistica di Eveleigh copre una traiettoria di oltre cinquant’anni, a partire dagli studi all’École des Beaux-Arts di Montreal prima di seguire le orme del padre alla Slade School of Fine Art di Londra. Inizia a esporre le sue opere a livello internazionale negli anni Cinquanta e diviene nota per i suoi dipinti e disegni astratti essenziali, quasi monocromatici. Questi sono caratterizzati da segni distintivi e da linee delicate che attingono alla scrittura come vocabolario visivo. Spesso si evidenzia il 1963 come anno decisivo nella sua biografia: è l’anno in cui incontra la fotogiornalista italiana Anna Baldazzi, che diviene sua

compagna e moglie e che la introduce al movimento femminista radicale. Eveleigh si stabilisce a Roma ma viaggia molto in Europa e in Asia, dividendosi anche fra New York e Montreal. Le opere su carta incollata alla tela – Pages (1973) e Tri-Part (1974) – prendono spunto dalla pagina scritta e stampata per la loro estetica, per i materiali e le tecniche. I disegni di Pages sono caratterizzati dalla ripetizione della lettera “o” che riempie di colonne di testo verticale lo sfondo quadrato, creando fasce irregolari di colore tenue, così che da lontano questi lavori astratti sembrano pagine di un libro o supporti stampati. La pratica di Eveleigh si produce nella forma scritta, ma non comunica un messaggio. Piuttosto, le campiture di colore bidimensionale che ricoprono la

LONDRA, REGNO UNITO, 1934 – 2020, ROMA, ITALIA

superficie della pagina evocano il gesto della mano dell’artista e sono state paragonate ai lavori dei pittori del Colour Field. Sebbene ricolme di testo, le opere generano un effetto di estrema frugalità che l’artista ha definito “non la ricerca di una fine, ma la ricerca di un inizio”. L’opera di Romany Eveleigh è esposta per la prima volta alla Biennale Arte. —Teresa Kittler

Tri-Part, 1974 Olio e inchiostro da stampante su carta, montato su tela di lino, 78 × 70 cm (ciascuno). Collezione privata. Courtesy Delancey e Greene, LLC. © The Estate of Romany Eveleigh.

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1/2 Eight, 1974 Pittura e inchiostro da stampante su carta, montata su tela di lino, 123 × 131,5 cm. Courtesy Tia Collection, Santa Fe, New Mexico, USA. © The Estate of Romany Eveleigh.

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Alessandra Ferrini

Alessandra Ferrini è un’artista, ricercatrice ed educatrice italiana residente a Londra. La sua ricerca si inserisce nel panorama metodologico postcoloniale, attingendo a pratiche storiografiche e archivistiche e ai Critical Whiteness Studies. In particolare, finora si è concentrata sulla rielaborazione dell’esperienza coloniale italiana e sul modo in cui le narrazioni storiche segnano le attuali relazioni tra l’Italia, il Mediterraneo meridionale e il continente africano. Nel farlo, l’artista accosta diversi media, rivisitando il formato del documentario ed esplorando lo sguardo multiprospettico offerto dal mezzo cinematografico, dalla fotografia, dall’installazione e dalla saggistica testuale.

FIRENZE, ITALIA, 1984 VIVE A LONDRA, REGNO UNITO

Gaddafi in Rome: Anatomy of a Friendship (2024) fa parte di una ricerca condotta da Ferrini a partire dal 2017. Il titolo si riferisce al “trattato di amicizia, partenariato e cooperazione tra Italia e Libia”, firmato dagli allora capi di Stato Muammar Gheddafi e Silvio Berlusconi nel 2008. Questi accordi sono stati ratificati durante la visita del leader libico a Roma nel 2009. In quell’occasione, l’uniforme di Gheddafi mostrava l’immagine di Omar al-Mukhtar, leader della resistenza anticolonialista. Partendo dall’iconicità di quell’incontro, il cortometraggio Anatomy of a Friendship analizza la relazione tra i due stati, scavando nelle radici dell’occupazione italiana tra il 1911 e il 1943 per arrivare ai recenti accordi bilaterali che hanno ridisegnato le politiche migratorie nel Mediterraneo. Il film è corredato dall’immagine molto discussa di Omar al-Mukhtar e da una linea temporale di accordi diplomatici. La serie intende sviscerare gli eventi storici e le dinamiche coloniali che hanno caratterizzato questa relazione controversa. Un intento non solo esplicitato nel titolo, ma richiamato anche nella configurazione dell’ambiente dell’installazione, che cita, nei tendaggi e nelle sedute, il primo teatro anatomico di Padova. L’opera di Alessandra Ferrini è esposta per la prima volta alla Biennale Arte. —Lorenzo Giusti

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Gaddafi in Rome: Anatomy of a Friendship, 2024 Video still. Courtesy l’Artista.

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Victor Fotso Nyie

Victor Fotso Nyie è un artista contemporaneo il cui lavoro è incentrato su sculture figurative, spesso ritratti, in cui la forma delle tradizionali statuette lignee africane si fonde con personaggi immaginari di fantascienza. Spinto dall’interesse per la matericità e la maestria artigiana, Fotso Nyie si è specializzato in ceramica nel suo paese d’origine e ha proseguito gli studi presso l’Istituto Tecnico Superiore Tonito Emiliani di Faenza, l’Accademia di Belle Arti di Ravenna e l’Accademia di Belle Arti di Bologna. Ponendo particolare enfasi sulle caratteristiche materiche e simboliche dell’argilla, la sua pratica ruota intorno all’intero processo di produzione, culminando in sculture antropomorfe che oscillano tra sogno e inquietudine. L’opera di Fotso Nyie traccia un parallelismo tra la sensazione di sradicamento e di essere senza dimora vissuta dagli artisti in Italia e in Europa in generale, terre percepite come familiari ed estranee allo stesso tempo. Inoltre, mette in discussione il patrimonio sradicato dell’arte africana, disseminato nelle collezioni etnografiche di tutto il mondo.

bellezza delicata e la fragilità della vita. Un senso di nostalgia affiora nell’opera Veglia (2023), un omaggio all’amata madre defunta, rappresentata con la testa sprofondata nel sonno, i capelli raccolti all’indietro e un sorriso lieve. Gioia (2023) è un ritratto dell’altra sorella dell’artista: raffigura la testa di una giovane ragazza, la cui espressione gioiosa racchiude l’ottimismo, l’entusiasmo e la spensieratezza tipici della gioventù, catturati dall’artista con uno sguardo assorto e tenero.

DOUALA, CAMERUN, 1990 VIVE A FAENZA, ITALIA

Malinconia, 2020 Ceramica smaltata e oro, 37 × 25 × 30 cm. Photo Carlo Favero. Courtesy P420, Bologna. Gioia, 2023 Ceramica smaltata e oro, 45 × 35 × 40 cm. Photo Carlo Favero. Courtesy P420, Bologna.

L’opera di Victor Fotso Nyie è esposta per la prima volta alla Biennale Arte. —Mariella Franzoni

L’iconografia delle figure in argilla a doppia cottura, sottoposte a una terza cottura con l’oro, fonde elementi biografici con la cultura vernacolare panafricana, in particolare la conoscenza spirituale proveniente dall’Africa occidentale. In Malinconia (2020), un omaggio a una delle sue due sorelle, una giovane donna si trova di fronte a uno specchio. Il suo sguardo, profondamente introspettivo, rivela solitudine e la malinconia che dà il titolo all’opera; il ritratto trasmette l’equilibrio precario tra la sua

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Louis Fratino

Louis Fratino è un artista i cui dipinti e disegni del corpo maschile e degli spazi domestici catturano l’intimità e la tenerezza trovate nella vita quotidiana queer. Le sue immagini – che si tratti di una grande pila di piatti sporchi nel lavello o della luce del mattino che illumina il busto del partner – iniziano con un disegno e vengono via via trasformate sulla tela da un vocabolario visivo che egli sintetizza dai massimi successi della storia dell’arte. Dopo la laurea, grazie a una borsa di studio Fulbright in pittura, ha vissuto per un anno a Berlino dove ha assaporato la “libertà di essere un artista che lavora”. La nuova opera nasce dal desiderio di archiviare osservazioni importanti e le esperienze emotive vissute durante il periodo trascorso

all’estero. Il lavoro di Fratino è profondamente personale e si pone in dialogo con una schiera di altri artisti queer che cercano di sovvertire le forme classiche dell’arte celebrando i piaceri della vita quotidiana LGBTQ+. Per la Biennale Fratino presenta una serie di nuovi dipinti che esplorano i modi in cui le persone LGBTQ+ socializzano per sopravvivere nel mondo come “outsider”. Questo nuovo corpus di opere critica la complessità delle dinamiche familiari che le persone queer devono affrontare, a partire dall’infanzia e fino all’età adulta. Attingendo a fonti visive personali, Fratino contrappone l’immagine della famiglia a viscerali rappresentazioni omoerotiche come modo per rendere visivamente complesse le tensioni tra i due mondi. Da decenni, le comunità

NEW YORK, USA, 1993 VIVE A NEW YORK

queer sopportano il peso di essere “altro”, sottoposte a vari gradi di violenza, in ambito domestico e pubblico, permessi dai valori tradizionali della famiglia e persino dalla legge. Il nuovo lavoro di Fratino – connotato da un urgente carico emotivo – svela un ulteriore livello di risposta politica al clima sociale che le persone queer si trovano ovunque a dover affrontare. L’opera di Louis Fratino è esposta per la prima volta alla Biennale Arte. —Juan Manuel Silverio

I keep my treasure in my ass, 2019 Olio su tela, 217,8 × 165,1 cm. Collezione privata. Courtesy Sikkema Jenkins & Co., New York. © Louis Fratino.

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267 NUCLEO CONTEMPORANEO Eggs, dishes, coreopsis, 2020 Olio su tela, 106,7 × 106,7 cm. Collezione privata. Courtesy Sikkema Jenkins & Co., New York. © Louis Fratino.

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STRANIERI OVUNQUE

Metropolitan, 2019 Olio su tela, 152,4 × 240,7 cm. Collection Tom Keyes e Keith Fox. Courtesy Sikkema Jenkins & Co., New York. © Louis Fratino.

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Ṣàngódáre Gbádégẹsin Àjàlá

Ṣàngódáre Gbádégẹsin Àjàlá è un pittore batik di tessuti colorati a mano secondo una tecnica di tintura a riserva con la cera, nella quale fonde la propria pratica artistica e rituale. Nato da una stirpe di sacerdoti Ṣàngó (il dio del tuono degli Yoruba), Àjàlá è sul punto di ricevere la propria iniziazione quando, nel 1959, il padre muore; viene allora adottato da un’artista austriaca appassionata di religione yoruba che viveva a Osogbo, Susanne Wenger, anch’essa sacerdotessa iniziata, e nel 1960 viene finalmente iniziato al culto di Ṣàngó. Dopo aver appreso la pittura batik dalla stessa Wenger, diventa a sua volta un rinomato innovatore di questa tecnica. Ha esposto a livello internazionale e ha viaggiato in Nigeria, Cuba e Brasile per supervisionare le iniziazioni sacerdotali. Diventa uno degli artisti di punta del New Sacred Art Movement fondato da Wenger e da altri artisti, assicurando in seguito la conservazione dei santuari e delle sculture nella foresta sacra di Osun-Osogbo, che si estende per 75 ettari ed è dichiarata patrimonio dell’umanità dall’UNESCO.

OSOGBO, NIGERIA, 1948–2021

La pratica di Àjàlá trasmette, come afferma egli stesso, “la ricca complessità della sua eredità culturale e della sua spiritualità”. La densa narrazione dei suoi batik spesso raffigura iniziazioni degli olórìṣàs, individui consacrati alle divinità yoruba, come era stato il suo caso, o feste dedicate alle divinità. Altri, invece, celebrano la vita quotidiana, come uomini che spillano vino di palma o donne che trasportano merci al mercato. La predilezione per il disegno preciso e il colore multidimensionale lo porta a una continua sperimentazione nella tecnica di tintura a riserva del batik che si può osservare in queste opere, in cui i disegni vengono tracciati con la cera e la tintura applicata successivamente. Oltre alla caratteristica figurazione, le innovazioni formali nella pittura batik sono legate alla sua vasta conoscenza yoruba delle piante officinali, grazie alla quale crea tinture vegetali che permettono la straordinaria colorazione e l’ombreggiatura delle sue opere, con composizioni come quelle esposte in Biennale che includono fino a trentacinque colori. L’opera di Ṣàngódáre Gbádégẹsin Àjàlá è esposta per la prima volta alla Biennale Arte. —Merve Fejzula

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Unknown title (O . ya pe. lu às. e. re. , O . ya with her symbols of sacred force), s.d. Batik, 148 × 235 cm. Courtesy Susanne Wenger Foundation. © Martin Bilinovac.

Unknown title (abstract batik motif around palm wine tapper scene), s.d. Batik, 125 × 93 cm. Courtesy Susanne Wenger Foundation. © Martin Bilinovac.

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NUCLEO CONTEMPORANEO

Untitled, s.d. Batik, 136 × 88 cm. Collezione J. & W. Druml. Collezione Lucia e Helmut Wienerroither. Courtesy. Susanne Wenger Foundation. © Martin Bilinovac.

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Madge Gill

I disegni, i tessuti e gli scritti di Madge Gill sono stati via via accolti come comunicazioni medianiche provenienti da un altro mondo, capolavori visionari e opere influenzate dai suoi problemi mentali. L’artista nasce Maude Eades nel 1882 nell’East London da genitori non sposati. A nove anni viene affidata all’orfanotrofio Barnardo’s che la invia in Canada, nell’ambito di un programma di immigrazione infantile; lì rimane a lavorare come domestica per sette anni, per poi tornare nel Regno Unito. Gill incontra una serie di difficoltà nel costruirsi una vita a Londra: la morte di un figlio nel 1918, una bambina nata morta e una salute gravemente cagionevole, fino a subire un esaurimento nervoso. A questo periodo traumatico si fa risalire la comparsa del suo impulso creativo. A partire dal 1920 inizia a sperimentare visioni, spesso di tono mitico o religioso, e comincia a produrre disegni e tessuti a grande velocità, affermando di essere “guidata da una forza invisibile”. Mentre continua a comunicare con questo regno di influenze ultraterrene, Gill diventa una medium di fama locale, partecipando a circoli spiritici.

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WALTHAMSTOW, REGNO UNITO, 1882 – 1961, LONDRA, REGNO UNITO

I disegni di Gill sono popolati da enigmatici volti femminili, scale vertiginose e piani a scacchiera che sembrano proliferare all’infinito in una fitta rete di segni ripetitivi. Nelle sue immense dimensioni, Crucifixion of the Soul (1934) è una reiterazione dello stile caratteristico dell’artista, sebbene si discosti dall’abituale tavolozza monocromatica. La composizione – che per la fulgida complessità e il processo frammentario di realizzazione ricorda una vetrata in frantumi – si è sviluppata via via che il tessuto di calicò veniva srotolato in sezioni, per dispiegarsi poi nell’insieme finale. Si ipotizza che i volti che punteggiano l’opera siano autoritratti, immagini dello spirito guida di Gill o espressioni sublimate di isolamento, sospese in paesaggi instabili. L’opera di Madge Gill è esposta per la prima volta alla Biennale Arte. —Sybilla Griffin

Crucifixion of the Soul , 1936 Inchiostro su calicò, 147 × 1062 cm. Photo Ollie Harrop. Courtesy London Borough of Newham. © London Borough of Newham.

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Marlene Gilson

WADAWURRUNG, WARRNAMBOOL, AUSTRALIA, 1944 VIVE A GORDON, AUSTRALIA

Marlene Gilson è una Wathaurung/Wadawurrung Elder e Traditional Owner la cui pratica pittorica contemporanea è caratterizzata da una meticolosa attenzione ai dettagli. In possesso di una conoscenza intergenerazionale trasmessale dalla nonna, Gilson formula delle ipotesi sulla vita degli aborigeni all’epoca della colonizzazione, durante la corsa all’oro nel territorio Wathaurung/Wadawurrung. I suoi dipinti raffigurano spesso i suoi antenati Willem Baa Nip (re Billy) e sua moglie, la regina Mary, e presentano i suoi totem, Bunjil (Aquila dalla coda a cuneo) e Waa (Corvo). Le opere di Gilson sono esposte in tutta l’Australia e recentemente sono state animate e ampliate in arte pubblica su larga scala.

I dipinti di Gilson pongono rimedio a una storia dell’arte che ha cancellato le persone, le comunità e la cultura aborigene. Gli ampi paesaggi panoramici del deserto, della spiaggia e della savana spalancano vie di accesso molto dettagliate e culturalmente ricche sul passato, popolate dai suoi riconoscibili personaggi immersi nella loro vita quotidiana. Nell’intera sua opera, l’artista mette in evidenza il coinvolgimento dei Wathaurung/Wadawurrung in eventi storici. Tra questi, l’Eureka Stockade (1854) e le interazioni tra gli abitanti delle Prime Nazioni e gli immigrati di altre culture, tra cui William Buckley (1780-1856) – un evaso britannico che visse con i Wathaurung/Wadawurrung

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per trentadue anni prima di tornare nella società coloniale – e i cammellieri afghani. Compaiono anche importanti siti culturali come le cascate di Moorabool, legate a Bunjil, il creatore ancestrale della nazione Kulin. Attestando la presenza dei propri antenati Wathaurung/Wadawurrung e relativi significanti culturali, i dipinti di Gilson assumono la forma di racconto di una verità personale. L’autrice afferma che “ogni pennellata contribuisce a collocare la storia della mia famiglia sulla mappa del mondo e a riportarla nei libri di storia”. L’opera di Marlene Gilson è esposta per la prima volta alla Biennale Arte. —Jessica Clark

Building the Stockade at Eureka, 2021 Acrilico su lino, 100 × 120 cm. Photo Jessica Maurer. Collezione privata, Sidney, Australia. Courtesy Martin Browne Contemporary, Sydney.

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273 NUCLEO CONTEMPORANEO Market Day, 2022 Acrilico su lino, 76 × 100 cm. Photo Jessica Maurer. The Wesfarmers Collection, Perth, Australia. Courtesy Martin Browne Contemporary, Sydney.

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William Buckley, Interpreter, 2023 Acrilico su lino, 60 × 76 cm. Photo Jessica Maurer. Collezione privata, Sidney, Australia. Courtesy Martin Browne Contemporary, Sydney.

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Gabrielle Goliath

Gabrielle Goliath opera principalmente per mezzo di video e performance, esplorando i temi relativi alle forme di violenza nei confronti di esseri umani storicamente emarginati o sottorappresentati, come le persone nere, marroni, queer e femme. Ha conseguito un BFA (2007) e un MAFA (2011) presso l’Università del Witwatersrand, in Sudafrica. Attraverso la sua pratica, Goliath esplora la pervasività della violenza e la politica del linguaggio che la circonda, gli atti di rispetto e commemorazione per le persone colpite e le manifestazioni di dolore. Personal Accounts (2022) è un’installazione audiovisiva in corso, transnazionale e multicanale, radicata nel rifiuto e nella riparazione.

KIMBERLEY, SUDAFRICA, 1983 VIVE A JOHANNESBURG, SUDAFRICA

Qui, donne e collaborator gender non-conforming condividono le proprie storie personali su forme di violenza fisica, psicologica e sistemica. Invece di ascoltare racconti dettagliati, si odono respiri, sospiri, mormorii, pianti e risate che testimoniano tenacia e sopravvivenza. Gli spettatori vengono informati attraverso le espressioni del corpo che solitamente impreziosiscono e danno enfasi al linguaggio. Quest’opera parla di cura, sopravvivenza e cameratismo. Sebbene il lavoro sia radicato nella performance, invece di obbedire alla spettacolarizzazione della violenza e delle sue conseguenze, Goliath sceglie di mettere in risalto ciò che è discreto e specifico. Il lavoro è stato prodotto a Johannesburg, Tunisi, Oslo, Milano, Edimburgo e Stellenbosch. L’opera di Gabrielle Goliath è esposta per la prima volta alla Biennale Arte. —Tandanzani Dhlakama

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Personal Accounts (There’s a river of birds in migration), 2024 Video stills. Courtesy l’Artista.

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Brett Graham

Cresciuto nel pieno del movimento artistico māori contemporaneo, la pratica artistica di Brett Graham ha esteso e consolidato la posizione di uno specifico linguaggio visivo māori, ampliandone le connessioni con le questioni indigene globali. Pur assorbendo l’influenza del padre, Fred Graham, e dei suoi contemporanei, spesso formatisi in ambito artistico, frequenta la Elam School of Fine Arts dell’Università di Auckland, seguita da un diploma post-laurea presso la University of Hawai’i, Honolulu (1990), una roccaforte degli studi indigeni. Tornato in Nuova Zelanda, espone regolarmente sculture e installazioni che incorporano una vasta gamma di materiali, attraverso cui esplora temi politici, filosofici e artistici centrali nella storia māori e del Pacifico. In un periodo della storia dell’arte māori rinomato per l’inclusione di pratiche Post-Pop e di narrazioni urbane, il lavoro di Graham è unico nel suo genere per il suo essere esplicitamente incentrato sulla conoscenza māori e sulla whakapapa (ascendenza) informata dal passato, pur rimanendo politicamente impegnato in questioni contemporanee.

AUCKLAND, AOTEAROA/NUOVA ZELANDA, 1967 VIVE AD AUCKLAND

La scultura Wastelands (2024) colloca un pātaka (magazzino) intagliato su ruote, evocando le nozioni di mobilità, transitorietà e separazione dalla patria. Struttura architettonica rialzata su pali, il pātaka era tradizionalmente usato dai Māori come deposito di cibo e beni, spesso con intagli particolarmente ricercati sull’architrave, indicativi della ricchezza e del prestigio della comunità iwi. Invece di utilizzare i tradizionali motivi intagliati, Graham ricopre i suoi pātaka di anguille, in riferimento alla fonte di cibo e in segno di riverenza verso il mondo naturale del suo popolo Tainui. Nel 1858, come parte del progetto coloniale, il governo neozelandese aveva approvato il Waste Lands Act, che trasformava la definizione di grandi terre paludose – una ricca risorsa per i Māori – in “waste”, “rifiuti”, appunto. La legge rivendicava queste vaste paludi come terre non occupabili, ridefinendole come territori di zone umide da prosciugare e destinare all’agricoltura. La presentazione di questo magazzino da parte di Graham ricorda che per i Māori queste riserve di anguille erano preziose quanto miniere d’oro. L’opera di Brett Graham è esposta per la prima volta alla Biennale Arte. —Natasha Conland

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Maungārongo Ki Te Whenua, Maungārongo Ki Te Tangata, 2020 Legno, vernice a polimeri sintetici e grafite, 320 × 800 × 320 cm. Photo Neil Pardington. Courtesy l’Artista.

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Fred Graham

Stimato artista e docente, Fred Graham è una delle più apprezzate figure emerse dalla prima generazione di artisti māori contemporanei negli anni Cinquanta. Come molti di questo gruppo, che combinavano organicamente due distinte tradizioni artistiche – quella indigena māori e quella del Modernismo occidentale – per forgiare una propria identità artistica, Graham si è inizialmente formato come docente di arte. Per tutti gli anni Cinquanta e Sessanta ha ricoperto importanti incarichi di educazione artistica nelle scuole māori, sviluppando al contempo il proprio linguaggio scultoreo con legno intagliato, pietra e acciaio. Per la sua prima mostra, nel 1965, torna a casa nella sua comunità iwi del Waikato, nell’Isola del Nord, esponendo insieme a un crescente movimento di māori. Queste mostre diventano un meccanismo di scambio di idee e un mezzo per rafforzare la visibilità dell’arte Māori. Nel 1978 Graham partecipa a un importante programma di scambio negli Stati Uniti, che consolida le sue convinzioni sull’importanza delle conoscenze tradizionali dell’intaglio e della visione del mondo indigeno.

ARAPUNI, AOTEAROA/NUOVA ZELANDA, 1928 VIVE A WAIUKU, AOTEAROA/NUOVA ZELANDA

Whiti Te Ra (1966) rappresenta quattro figure in movimento. Con l’abile combinazione di forme semplificate riprese dagli intagli tradizionali e i segni fluidi del pastello a olio, l’artista rende l’azione e la frase iconica della haka māori composta da Te Rauparaha, leggendario capo Ngāti Toa, intorno al 1820. La haka, che recita “Ka mate, ka mate” (È la morte, è la morte), celebra la vita sulla morte e la fortunata fuga di Te Rauparaha. Il titolo Whiti Te Ra (Verso la luce del sole) è un’esclamazione positiva di benessere e avanzamento. Il gruppo di opere scolpite mostra gli inizi sperimentali di Graham, con cui ha dato creativamente forma a concetti della mitologia māori che includono narrazioni sulle origini dell’intaglio stesso e sulla sua interrelazione con il mondo naturale. Le figure del dio Tangaroa e del guardiano Tinirau, entrambi centrali nella storia delle origini dell’intaglio, sono rappresentate in un nuovo e sorprendente linguaggio visivo che incarna, assieme alla continuità con le conoscenze indigene māori e il rispetto per la terra, una nuova forma ribelle che sfida una definizione univoca. L’opera di Fred Graham è esposta per la prima volta alla Biennale Arte. —Natasha Conland

Tamariki a Tangaroa, 1970 Legno, 76 × 244 × 120 cm. Collezione Colleen Hill. Courtesy l’Artista.

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Whiti Te Rā, 1966 Colori a olio solidi su tavola, 137 × 62,8 × 6 cm. Courtesy Auckland Art Gallery Toi o Tāmaki. © Auckland Art Gallery Toi o Tāmaki.

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Nedda Guidi

Nedda Guidi – artista in conflitto con il mondo dell’arte contemporanea in quanto donna queer, femminista convinta e insegnante – sceglie di lavorare con la ceramica, da molti considerata una tecnica minore. In sessant’anni di pratica artistica, ha stravolto i modi tradizionali di lavorare l’argilla, utilizzandola in maniera inusuale rispetto alle tecniche e alle forme convenzionali. A seguito del suo trasferimento a Roma nei primi anni Cinquanta, le sue ceramiche giocano con l’intersezione tra astrazione e figurazione. La sua prima personale alla Galleria Numero nel 1964, introdotta dal celebre critico Filiberto Menna, presenta sculture sottili come carta che evocano volumi e curve corporee. Alla fine del decennio, Guidi si orienta verso la modularità e si allontana dagli smalti. Vuole studiare l’alchimia degli ossidi naturali mescolandoli direttamente con l’argilla per “ritrovare un’innocenza perduta e recuperare l’originalità della materia”.

GUBBIO, ITALIA, 1923 – 2015, ROMA, ITALIA

Smaltato in blu Sèvres, Modular 1 (1967-1968) cattura una negoziazione tra volumi geometrici e forme corporee. Pur essendo composta da quattro blocchi identici, l’opera ha l’altezza di una persona e le sue sezioni di colore rosso rubino antropomorfizzano la scultura e le conferiscono un genere. Per contro, Otto B o Naturale-Artificiale (1974) esemplifica il suo impiego della modularità. Con precisione millimetrica, Guidi fonde elementi composti da impasti diversi, ciascuno dei quali richiede tempi e temperature di cottura specifici, che si uniscono in molteplici formazioni. Rivelando una padronanza alchemica dei processi di colorazione naturale dell’argilla, Deposizione (1977) è costituita da una sequenza di elementi rettangolari nei toni del blu. L’opera ingloba due indicatori del potere patriarcale: il cattolicesimo, con il riferimento alla Deposizione di Cristo, e il linguaggio, traducendo lo spazio che l’artista ha posto tra le lettere del titolo nella struttura dell’opera. De-position è stata esposta per la prima volta nel 1977 negli spazi della Cooperativa Beato Angelico, il pionieristico collettivo di artiste femministe co-fondato da Guidi l’anno precedente. L’opera di Nedda Guidi è esposta per la prima volta alla Biennale Arte. —Sofia Gotti

Tavola di Campionatura n. 1 (crudo-cotto), 1976 Terracotta e ossidi in custodia di legno, 50 × 50 cm. Photo Giorgio Benni. Collezione privata, Roma, Italia.

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La presenza di Nedda Guidi alla Mostra Internazionale è completata da una piccola rassegna, un Progetto Speciale a Forte Marghera, Mestre.

Otto B o Naturale-Artificiale, 1974 Terracotta non smaltata e terracotta smaltata rosa. Otto elementi totali ø 90 cm. Courtesy Museo Internazionale delle Ceramiche di Faenza, Italia.

De-posizione, 1977 Terracotta e ossidi, 6 × 66 × 155 cm. Photo Giorgio Benni. Collezione privata, Roma, Italia.

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Antonio Jose Guzman & Iva Jankovic

Nella loro collaborazione artistica, Antonio Jose Guzman e Iva Jankovic includono tessuti indaco, paesaggi sonori e performance per affrontare il modo in cui il nostro mondo è stato plasmato dal colonialismo e dalla migrazione. Spesso presentati in installazioni monumentali, i loro tessuti a stampa xilografica dimostrano che i confini sono il prodotto di una costante ricostruzione di pratiche politiche, culturali e sociali. Come uno dei capitoli della serie Electronic Dub Station, Orbital Mechanics si configura come un labirinto immersivo incentrato sugli spazi tra le culture, come identificato dallo studioso Homi Bhabha nella sua teoria del terzo spazio. Il “terzo spazio” descrive l’identità culturale ibrida che emerge dall’intreccio di elementi di culture diverse. Ciò si collega a un concetto centrale nei progetti di Guzman e Jankovic: la “cultura atlantica nera”, coniata dallo studioso Paul Gilroy come cultura non specificamente

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africana, americana, caraibica o europea, ma tutte queste insieme. Guzman e Jankovic reinterpretano la storia dei tessuti sacri di colore indaco, che sono profondamente legati alla storia coloniale e al commercio degli africani schiavizzati che portarono nelle Americhe la loro esperienza della coltivazione dell’indaco. I tessuti dell’installazione presentano un modello astratto di sequenze di DNA interculturali che incarnano una connessione globale nell’Atlantico Nero. I tessuti sono stampati nel laboratorio Ajrakh di Sufiyan Khatri ad Ajrakhpur, in India. Utilizzando metodi tradizionali di tintura manuale, l’Ajrakh è una pratica antica di quattromila anni, tramandata oralmente di generazione in generazione. Il paesaggio sonoro di accompagnamento allude alle idee di appartenenza ed esclusione attraverso l’esplorazione di suoni diasporici che combinano musica

PANAMA, 1971 VIVE AD AMSTERDAM, PAESI BASSI, E PANAMA RUMA, SERBIA, 1979 VIVE AD AMSTERDAM, PAESI BASSI

elettronica, dub, punk e tamburi senegalesi. La musica risuona in una performance intitolata Messengers of the Sun, che incarna i temi del progetto quali migrazione, razza e identità culturali ibride in una danza e parata cerimoniale.

Orbital Ignition, Electric Dub Station Series, Sonsbeek 20-24, 2021 Ajrakh stampato a blocchi tinto con indaco e cubi parametrici. Photo Natascha Libbert. Courtesy Atelier GF Workstation. © Antonio José Guzman e Iva Jankovic.

L’opera di Antonio Jose Guzman e Iva Jankovic è esposta per la prima volta alla Biennale Arte. —Amanda Pinatih e Britte Sloothaak

Jupiter Moonrise Dub, Electric Dub Station Series, 2020 Ajrakh stampato a blocchi tinto con indaco. Photo Natascha Libbert. Courtesy Atelier GF Workstation. © Antonio José Guzman e Iva Jankovic. Ultra DNA Sequencing, Electric Dub Station Series, 2020 Ajrakh stampato a blocchi tinto con indaco. Photo Natascha Libbert. Courtesy Atelier GF Workstation. © Antonio José Guzman e Iva Jankovic.

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Lauren Halsey

LOS ANGELES, USA, 1987 VIVE A LOS ANGELES

Lauren Halsey è un’artista che reinventa il rapporto tra architettura e comunità. Halsey opera in collaborazione con la propria comunità di South Central Los Angeles per creare progetti che ripensino, su scala più ampia possibile, i parametri delle possibilità estetiche e architettoniche. Le sue opere, reattive e sitespecific, sono una critica alla continua espropriazione delle popolazioni storicamente operaie, nere, marroni e queer della comunità, conservando e archiviando le loro eredità nel paesaggio culturale e nella memoria della città. Le sue installazioni sono proposte architettoniche reali che diventano modelli su larga scala forgiati con un’etica “per noi, da noi” che stimolano una visione collettiva per una cultura di radicale inclusione.

In occasione della Biennale, Halsey presenta, al termine dell’Arsenale, una nuova installazione composta da una serie di colonne monumentali ispirate alla vita quotidiana di South Central Los Angeles. Halsey ha già realizzato colonne in passato, alcune iscritte con parole e immagini, altre dipinte a mano. Per questa iterazione, ricontestualizza la forma della colonna hathorica, intagliando i capitelli con le sembianze e le storie delle persone del suo quartiere, rendendo così omaggio al loro contributo. Tale rimescolamento di temporalità – l’antico con il contemporaneo – è un gesto politico a sostegno della diaspora nera e afroamericana e della sua storia, accordandole la stessa riverenza che viene solitamente riservata ad altri punti di riferimento architettonici in tutto l’Occidente. L’installazione, intrisa della forza e delle storie della comunità locale dell’artista, dialoga con il resto dell’architettura di Venezia. L’opera di Lauren Halsey è esposta per la prima volta alla Biennale Arte. —Juan Silverio

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The Eastside of South Central Los Angeles Hieroglyph Prototype Architecture (I), 2023 Installazione al Metropolitan Museum of Art, New York. Courtesy The Metropolitan Museum of Art; Art Resource; Scala, Firenze.

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Evan Ifekoya

Evan Ifekoya – artista interdisciplinare la cui pratica rispecchia il ruolo di terapista spirituale – percepisce l’arte come piattaforma per ridistribuire e rinegoziare le risorse, sfidando le regole e gerarchie implicite negli spazi pubblici e sociali. Attraverso indagini d’archivio e sonore, esplora l’abbondanza della Blackness. Utilizzando interventi architettonici, rituali, installazioni e laboratori, stabilisce una pratica di vita che si contrappone alla disperazione. Il corpo costituisce il fulcro di un’esplorazione concentrata sul modo in cui quanti sono percepiti come marginali si muovono, si trasformano e trasmutano. I ritratti e le installazioni spaziali coinvolgono più sensi e collegandosi ad aspetti più profondi della consapevolezza spingono a riesaminare le categorie convenzionali. Operando con lo pseudonimo di Oceanic Sage, si addentra nelle tradizioni sacre influenzate dalla cosmologia dei propri antenati Yoruba. Il suo lavoro esplora le credenze, mettendo in risalto il corpo come sistema di conoscenza.

IPERU, NIGERIA, 1988 VIVE A LONDRA, REGNO UNITO

The Central Sun (2022) funge da stazione di trasmissione all’interno del progetto Resonant Frequencies, un’installazione sonora immersiva che mira a indagare l’esistenza e la comprensione al di là dei limiti della percezione visiva. Comprimendo in una sola ora il movimento di un’intera giornata, l’opera aspira a promuovere la trasformazione a livello cellulare tramite un coinvolgimento sensoriale e ambienti immersivi. Caratterizzato dal disco solare e dalla mezzaluna quali simboli di equilibrio e armonia, The Central Sun incorpora frequenze come la curativa 528 Hz. Questa integrazione trasforma l’opera in spazi di rinnovamento e riparazione, favorendo il benessere individuale e comunitario di coloro che sono storicamente esclusi dagli spazi sacri. L’artista, immergendosi in stati alterati di coscienza attraverso l’esperienza del suono, del silenzio e dell’ascolto, attinge alla saggezza delle tradizioni e delle pratiche Yoruba, ponendo sempre in primo piano l’elevazione della coscienza nera e queer. L’opera di Evan Ifekoya è esposta per la prima volta alla Biennale Arte. —Amanda Carneiro

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The Central Sun, 2022 Installazione sonora a un canale, altoparlanti, legno, vetro acrilico, styrodur, motore, sonagli di zucca dipinti, tamburo in pelle di gomma con gusci di ciprea, sughero, tappeto. Photo Stefan Altenburger Photography, Zurigo. Courtesy Sammlung Migros Museum für Gegenwartskunst. © ProLitteris, Zurigo

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Julia Isídrez

Julia Isídrez – artista e ceramista indigena guaraní – ha appreso le tecniche della ceramica dalla madre, Juana Marta Rodas. A metà degli anni Novanta, a causa di difficoltà economiche, progetta di trasferirsi a Buenos Aires; tuttavia, la madre e la sua stessa vocazione di ceramista la dissuadono dall’idea, scelta questa che le permette di sviluppare una brillante carriera artistica in Paraguay e di raggiungere la notorietà nell’arte contemporanea. Sia l’artista che la madre sono state protagoniste di varie mostre e biennali ed entrambe hanno ricevuto premi condivisi. Dopo la scomparsa della madre, Isídrez ottiene il diploma di Maestra del Arte, promosso nel 2014 dal Centro Cultural Cabildo, Congreso de Paraguay, e nel 2018 il premio Carlos Colombino, conferito dal Dipartimento Nazionale della Cultura del Paraguay.

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ITÁ, PARAGUAY, 1967 VIVE A ITÁ

Isídrez opera all’interno della tradizione guaraní, secondo la quale il mestiere di ceramista deve essere tramandato di madre in figlia, e sempre dalla madre ha appreso a raccogliere la sfida di incorporare audacemente forme e funzioni appartenenti a periodi diversi. Dopo la scomparsa della madre, ha continuato a percorrere nuove strade che non cancellano quelle ereditate: le sue continue e innovative sperimentazioni non le fanno dimenticare la forza elementare dell’argilla, né le antiche tecniche guaraní. Nutriti da mondi diversi, mossi dalla pura pulsione estetica, i vasi plasmati passano da una figurazione fantasmagorica, a volte barocca, all’esattezza di volumi austeri e linee pulite. Alimentata da un’immaginazione febbrile e sostenuta da una vocazione impeccabile per quanto riguarda la forma, la sua opera è oggi una delle più importanti nel suo paese natale. L’opera di Julia Isídrez è esposta per la prima volta alla Biennale Arte. —Ticio Escobar

Ginea (Diseño de Juana Marta), 2017 Ceramica, 110 × ø 48 cm. Photo Edouard Fraipont. Courtesy Gomide & Co.

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Vasija base tinója con tapa 2 ranas, 2023 Ceramica, 77 × 35 × 35 cm. Photo Edouard Fraipont. Courtesy Gomide & Co.

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Grito de libertad, 2019 Ceramica, 102 × ø 55 cm. Photo Edouard Fraipont. Courtesy Gomide & Co.

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Nour Jaouda

Nour Jaouda è un’artista libica che fonde vita e pratica estetica attraverso continui spostamenti tra luoghi reali e ricordati. Tramite colori saturi e terrosi e fibre tessili, Jaouda esplora le tensioni tra vicinanza e distanza, presenza e assenza, frammentazione e ricostruzione. La simultanea esperienza di radicamento, come processo, e di assenza di radici conferiscono alla sua opera dimensioni concettuali e sensoriali. Sia che evochino lo sradicamento o il reimpianto del sé, i tessuti di Jaouda trasmettono la fluidità dell’identità e una condizione in costante divenire. Questo mutamento di forma è reso visibile attraverso la stratificazione e la piegatura di tessuti riccamente colorati tinti a mano, tagliati e ricuciti dall’artista. Attraversando ambienti ed ecologie, Jaouda raccoglie pigmenti naturali, stoffe e materiali per i suoi arazzi e le sue installazioni in tessuto. Vive e lavora tra il Cairo, dove risiede la sua famiglia, e Londra, dove ha conseguito un master in pittura presso il Royal College of Art nel 2021.

LIBICA, NATA A IL CAIRO, EGITTO, 1997 VIVE A IL CAIRO E LONDRA, REGNO UNITO

Gli alberi di fico appartenenti alla nonna dell’artista a Bengasi, in Libia, regalano il loro impulso poetico ai tre tessuti esposti alla Biennale. Fortemente legati al luogo, gli alberi custodiscono e incarnano i ricordi. Jaouda ne ricrea gli elementi botanici decostruendo le stoffe, tingendole con toni terrosi e ricucendole in arazzi scultorei. Per l’ideazione e il titolo si ispira alla personificazione degli ulivi del poeta palestinese Mahmoud Darwish. In queste opere e nelle precedenti affiorano concetti di assenza di radici e resilienza, di distruzione, rigenerazione e atemporalità. Jaouda ama i processi lenti, fisici e sentiti della fabbricazione dei tessuti tinti a mano. La loro intrinseca connettività li associa all’eterno e al divino; per l’artista, i tessuti non hanno inizio né fine. Le tinture vegetali possiedono una forza propria e imprevedibile, che dà vita all’opera. I suoi tessuti, sontuosamente stratificati, risuonano di colori profondi ed eterei, ombrosi e luminescenti, e infinitamente strutturati come la memoria stessa. L’opera di Nour Jaouda è esposta per la prima volta alla Biennale Arte. —Jessica Gerschultz

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This poem will never be finished, 2023 Tintura e pigmento su tela, acciaio, 170 × 80 cm. Photo Nour Jaouda. Courtesy l’Artista.

Everything touches everything else, 2023 Tintura e pigmento su tela, acciaio, 170 × 80 cm. Photo Nour Jaouda. Courtesy l’Artista.

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Rindon Johnson

SAN FRANCISCO, USA, 1990 VIVE A SAN FRANCISCO

The stage is no place for the riot, 2019 - in corso Pelle grezza, acqua, dimensioni variabili. Photo Kyle Knodell. Courtesy l’Artista e Max Goelitz, Monaco e Berlino.

La pratica artistica di Rindon Johnson è radicata nell’esplorazione delle complessità dell’identità e dell’esperienza umana attraverso la lingua e gli oggetti. Il suo lavoro spesso scava nei temi dell’appartenenza, dell’alterità e del modo in cui la lingua può plasmare la nostra percezione della realtà e, attraverso una serie di mezzi – tra cui poesia, scultura, fotografia, performance e realtà virtuale –, crea esperienze immersive e contemplative. Come poeta, utilizza spesso l’umorismo e un tono pacato ma pungente che richiama l’attenzione su dettagli cruciali e al tempo stesso trascurati della vita quotidiana. Nel frattempo, il lavoro basato sugli oggetti affronta le carenze della lingua e la sua incapacità di contenere adeguatamente tutto il contesto del mondo che ci circonda. La pratica di

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Johnson si muove all’interno di questo paradosso: da un lato, la lingua struttura la nostra esperienza, dall’altro, è spesso incapace di comunicare la profondità dei nostri sentimenti. In Coeval Proposition #1: Tear down so as to make flat with the Ground or The *Trans America Building DISMANTLE EVERYTHING (2021), Johnson affronta sia il poetico gioco delle parole che l’incapacità delle stesse di catturare la totalità di un’esperienza. Con un gioco di parole, l’artista riproduce con legno di sequoia recuperato la forma del Transamerica Pyramid – un grattacielo modernista di 48 piani nel centro di San Francisco – per affrontare la propria esperienza di uomo trans in America. La sagoma della piramide diventa sinonimo dello skyline della città natale dell’artista, riflettendo il modo in cui la lingua, il luogo di origine

e l’emigrazione plasmano collettivamente l’identità di una persona, identità ulteriormente complicata dalla sua incompletezza, come una pelle vuota. Opere come The stage is no place for a riot (2019 - in corso) utilizzano la pelle bovina in vari modi: riciclata per finestre, usata come contenitore per l’acqua e appesa come bandiera. Questo corpus di opere vuole ricordare il modo in cui l’identità può essere equipaggiata e protetta, trasformandola in un indumento simbolico o in uno strumento materiale. L’opera di Rindon Johnson è esposta per la prima volta alla Biennale Arte. —William Hernandez Luege Coeval Proposition #1: Tear down so as to make flat with the Ground or The*Trans America Building DISMANTLE EVERYTHING, 2021 Sequoia, 520 × 125 cm. Photo Andy Keate. Courtesy l’Artista; Max Goelitz, Monaco e Berlino; con un ringraziamento a Rennie Collection, Vancouver, Canada.

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Joyce Joumaa

Joyce Joumaa è un’artistafilmmaker la cui opera si confronta con realtà storiche plasmate dal conflitto e dalla crisi, spesso radicate nel nativo Libano o in esperienze diasporiche. Con documentari e film sperimentali, attraverso la ricerca di materiali d’archivio e la fotografia, l’artista crea narrazioni che complicano la nostra lettura degli eventi passati, delle figure storiche o di luoghi emblematici, studiando il modo in cui continuano ad agire su di noi nel presente. In questo senso, i suoi lavori intendono analizzare spazi politicamente carichi e memorie collettive, evidenziando relazioni, strutture di potere e paradossi al loro interno. Nel 2021-2022 Joumaa viene selezionata per l’Emerging Curator Residency Program presso il Canadian Centre for Architecture, durante il quale produce To Remain in the No Longer (2023). Il film prende in esame il fallimento del progetto della Fiera internazionale di Tripoli, disegnata dall’architetto brasiliano Oscar Niemeyer, nel quadro dell’attuale contesto socioeconomico in Libano.

In Memory Contours (2024), Joumaa si occupa di un capitolo del movimento eugenetico negli Stati Uniti e dei suoi effetti sui nuovi immigrati all’inizio del Novecento. In particolare, studia i testi sull’“intelligenza” concepiti per identificare deficit mentali e, potenzialmente, far incarcerare e deportare le persone così individuate. A partire dal reportage dell’Ufficio per la Salute Pubblica degli Stati Uniti del 1914 intitolato Mentality of the Arriving Immigrant (la mentalità dell’immigrato in arrivo) Joumaa si concentra su un particolare test condotto a Ellis Island, New York, in cui ai partecipanti era chiesto di disegnare forme a memoria. L’artista riproduce quattro dei disegni che compaiono nel reportage come casi studio e affianca a ciascuno un video con il primo piano delle mani che ricreano lo schizzo. Questa interazione accentua la tensione fra il disegno come espressione gestuale e la sua strumentalizzazione come parametro per misurare competenze e intelligenza. L’installazione di Joumaa svela come ai neoarrivati fossero imposti controlli discriminatori e come il semplice fatto di essere stranieri fosse sistematicamente stigmatizzato, ricollegandolo a inadeguatezza, inidoneità e inferiorità.

BEIRUT, LIBANO, 1998 VIVE A MONTREAL, CANADA

Joyce Joumaa è tra i quattro beneficiari della borsa di studio del Biennale College Arte 2024. Quest’opera è fuori concorso.

L’opera di Joyce Joumaa è esposta per la prima volta alla Biennale Arte. —Julia Eilers Smith

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Joyce Joumaa è tra i quattro beneficiari della borsa di studio per l’edizione della Biennale College Arte 2024. Quest’opera è fuori concorso.

Immagini del libro: Mentality of the Arriving Immigrant pubblicato dal Dipartimento di Sanità Pubblica degli Stati Uniti nel 1917.

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Nazira Karimi

I filmati di Nazira Karimi raccontano storie di donne ed esplorano l’identità, la memoria e la riappropriazione del territorio centroasiatico colpito dalla colonizzazione sovietica. L’artista, di origini per metà tajike e per metà kazake, è rimpatriata in Kazakistan con la famiglia nel 2013. Ad Almaty ha studiato scenografia e pittura e, dal 2018, prosegue la sua indagine artistica a Vienna. Nelle opere di Karimi, femminismo e decolonialità non costituiscono soltanto un tema, ma ne incarnano il processo creativo. È attivamente coinvolta in vari collettivi e piattaforme artistiche femminili, promuovendo la produzione di arte e conoscenza e incoraggiando le comunità artistiche in Asia centrale. Karimi ha partecipato a documenta 15 (2022) come membro del gruppo di ricerca DAVRA avviato dall’artista Saodat Ismailova. Negli ultimi cinque anni, Karimi ha preso parte a residenze artistiche e ha esposto i suoi filmati e le sue installazioni in Asia e in Europa.

DUSHANBE, TAGIKISTAN, 1996 VIVE AD ALMATY, KAZAKISTAN, E VIENNA, AUSTRIA

Il filmato Hafta (che in tagico significa “sette” e “una settimana”), del 2024, è un’opera video in sette parti che racconta gli antenati dell’artista. Secondo la tradizione dell’Asia centrale chiamata Jety-Ata (“sette nonni” in kazako), bisogna conoscere i nomi di sette nonni di sangue diretti. Karimi invece immagina e racconta le storie di sette donne della propria linea materna, che rappresentano le generazioni che hanno vissuto i terribili episodi storici dell’Asia centrale. Per realizzare questo filmato, Karimi ha percorso un lungo viaggio dal Kazakistan al Tagikistan e ritorno, insieme alla madre Mariam. Hanno ripetuto il percorso della loro famiglia, rappresentato in Hafta, dallo sfollamento e dalla migrazione lungo il Mare d’Aral e il Syr Darya fino al loro recente rimpatrio. Nelle acque che si ritirano e nei paesaggi che si disseccano, Karimi ritrova il dolore e il lutto di tutte le perdite subite dalla regione. L’opera di Nazira Karimi è esposta per la prima volta alla Biennale Arte. —Dana Iskakova

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Nazira Karimi è tra i quattro beneficiari della borsa di studio per l’edizione della Biennale College Arte 2024. Quest’opera è fuori concorso.

Hafta, 2024 Video stills. Courtesy l’Artista

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Bhupen Khakhar

Bhupen Khakhar si forma come contabile a Bombay prima di trasferirsi a Baroda per studiare critica d’arte presso la Facoltà di Belle Arti. Qui entra a far parte dell’affiatata cerchia di artisti, scrittori e poeti che all’epoca risiedevano in città. Il lavoro di Khakhar trae la sua forza dall’assenza di formazione ufficiale, unita allo studio di David Hockney, R.B. Kitaj e Henri Rousseau, nonché al suo profondo interesse per l’arte premoderna indiana e per la cultura pop contemporanea. Insieme ad artisti come Vivan Sundaram, Gulam Mohammed Sheikh, Sudhir Patwardhan, Nalini Malani e altri, Khakhar è stato determinante nella svolta verso un’arte figurativa e narrativa che trae i suoi soggetti da “persone particolari in luoghi particolari”. Questo ha portato alla serie di dipinti degli anni Settanta che ritraggono lavoratori e commercianti come sarti, negozianti e riparatori di orologi, radicata nel suo impegno verso la rappresentazione della vita quotidiana.

BOMBAY, INDIA, 1934 – 2003, BARODA, INDIA

Negli anni Ottanta Khakhar si dichiara omosessuale e dipinge una serie di opere iconiche come You Can’t Please All (1981). I suoi sono tra i primi dipinti ad approfondire in India i temi delle relazioni tra uomini e dei tabù sociali sull’omosessualità. Fishermen in Goa (1985) raffigura un gruppo di tre uomini: uno completamente vestito, un altro in canottiera e il terzo nudo. È un esempio di feticizzazione del corpo maschile, sessualizzato attraverso gesti e metafore, come il pesce che l’uomo al centro tiene in una mano, mentre l’altra mano si infila sotto la camicia del compagno. Le grandi figure in primo piano e lo spesso strato di pigmento sono tipici dello stile di Khakhar di questo periodo. Le sue opere sono state ampiamente esposte a livello internazionale in mostre collettive a Londra, Parigi, Kassel, Amsterdam, New York e Tokyo. L’opera di Bhupen Khakhar è esposta per la prima volta alla Biennale Arte. —Latika Gupta

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Fisherman in Goa, 1985 Olio su tela, 168 × 168 cm. Collezione Shireen Gandhy. Courtesy l’Artista; Chemould Prescott Road, Mumbai, India.

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Bouchra Khalili

Bouchra Khalili studia cinema all’Université Sorbonne Nouvelle e arti visive all’École nationale supérieure d’arts di Paris-Cergy. La pratica multidisciplinare di Khalili sviluppa strategie collaborative di narrazione insieme ai membri delle comunità escluse dall’appartenenza alla cittadinanza. Con le sue opere, suggerisce ipotesi poetiche che meditano su nuovi immaginari di comunità. Il lavoro di Khalili è stato oggetto di numerose mostre personali in tutto il mondo.

The Mapping Journey Project di Khalili è stato elaborato nel corso di tre anni attraverso le rotte migratorie mediterranee dell’Africa settentrionale e orientale, del Medio Oriente e dell’Asia meridionale. Khalili ha raccolto le storie partecipative dei migranti che ha incontrato nelle stazioni ferroviarie locali e in altri spazi pubblici. Le otto video installazioni di The Mapping Journey Project documentano queste storie insieme alle mani dei migranti, che tracciano sulle mappe l’arduo percorso geopolitico compiuto tra mare e terra. Nell’era contemporanea del movimento Land Back e del genocidio colonialista, The Mapping Journey Project è un appello storico a favore

T P In D J ©

CASABLANCA, MAROCCO, 1975 VIVE A VIENNA, AUSTRIA

dell’autodeterminazione delle comunità diasporiche e indigene. Constellations Series, il capitolo conclusivo di The Mapping Journey Project, riformula e illumina poeticamente la videoinstallazione. Le otto serigrafie traducono i viaggi narrati sotto forma di costellazioni, facendo riferimento all’astronomia antica radicata nella mitologia. Khalili invita gli spettatori a proiettarsi attivamente nella costellazione per immaginare collettivamente altri modelli di appartenenza. —Tracy Fenix

Constellations, 2011 Serigrafia su carta, 60 × 40 cm. Courtesy l’Artista.

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The Mapping Journey Project, 2008-2011 Installazione video, 8 proiezioni video, Dimensioni e durata variabili. Photo Jonathan Muzikar. Courtesy l’Artista. © Jonathan Muzikar.

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Kiluanji Kia Henda

Kiluanji Kia Henda nasce nel 1979, quattro anni dopo l’indipendenza dell’Angola dal Portogallo e l’inizio della guerra civile. L’Angola è stato uno degli ultimi paesi africani a ottenere l’indipendenza e i tredici anni di lotta con il Portogallo fascista sono stati una delle guerre d’indipendenza più lunghe dell’Africa. Kia Henda è fortemente interessato alle dimensioni politiche dell’arte, della cultura e della storia, soprattutto quando si intersecano con la sua nativa Luanda e con il continente africano. L’artista opera attraverso diversi media – video, fotografia, scultura, installazione e performance – spesso manipolando immagini e narrazioni, a volte con un notevole senso dell’umorismo. Nel suo lavoro si intrecciano temi come l’architettura modernista di Luanda, il passato coloniale dell’Angola

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e l’eredità comunista, l’immigrazione africana in Europa, l’astrazione e la griglia modernista. Kia Henda presenta alla Biennale tre opere che, benché realizzate nell’arco di sette anni, sono tra loro strettamente collegate. The Geometric Ballad of Fear (2015) comprende nove fotografie che documentano le ringhiere metalliche protettive dipinte di bianco che si trovano negli edifici e nelle case dell’Angola e che sono una preminente caratteristica nelle grandi città del Sud globale contraddistinte da notevoli disparità tra le popolazioni. Anche The Geometric Ballad of Fear (Sardegna) (2019) consiste in nove fotografie in bianco e nero, con le medesime griglie, questa volta nere, sovrapposte come elemento grafico a vedute del paesaggio sardo affacciato sul Mediterraneo. A espiral do medo (2022) utilizza

A S C L G J

LUANDA, ANGOLA, 1979 VIVE A LUANDA

le ringhiere metalliche prese dagli edifici e dalle case di Luanda che nel 2015 hanno attirato l’interesse dell’artista. Seppure costituita da ringhiere metalliche che un tempo offrivano una solida protezione a chi si trovava all’interno, la scultura di grandi dimensioni appare ora permeabile e alquanto instabile – come una sorta di rovina – e funge da mero emblema della paura. —Adriano Pedrosa

The Geometric Ballad of Fear, 2015 Stampa a getto d’inchiostro su carta di cotone, 70 × 100 cm. Courtesy Galeria Filomena Soares, Lisbona; Galleria Fonti, Napoli; Goodman Gallery, Johannesburg. The Geometric Ballad of Fear (Sardegna), 2019 Stampa a getto d’inchiostro su carta fine art, 100 × 120 cm. Courtesy Galeria Filomena Soares, Lisbona; Galleria Fonti, Napoli; Goodman Gallery, Johannesburg.

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A Espiral do Medo, 2022 Scultura in ferro, 400 × 400 cm. Courtesy Galeria Filomena Soares, Lisbona; Galleria Fonti, Napoli; Goodman Gallery, Johannesburg; Jahmek Contemporary Art, Luanda.

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Shalom Kufakwatenzi

Shalom Kufakwatenzi, artista non-binari , opera prevalentemente con performance, fotografia e tessuti, il tutto spesso combinato con elementi letterari e sonori, dando origine a una pratica che è una riflessione sulla vita quotidiana e sulle politiche identitarie in Zimbabwe. Pratica informata dal continuo processo interno di guarigione, rifiuto e accettazione di sé che si verifica quando ci si muove all’interno di gravose strutture sociali, siano esse politiche o familiari. Nel 2015 Kufakwatenzi si diploma alla National Gallery School of Visual Art and Design (NGSVAD) di Harare, una piccola scuola d’arte da cui provengono molti degli artisti più acclamati del paese. Pur specializzat in scultura e fotografia, la sua pratica risente della vicinanza a mentori artisti il cui

lavoro sperimentale rifiutava i vincoli della categorizzazione classica. Per questo, desideros di approfondire il potenziale dell’espressione transdisciplinare, successivamente si iscrive all’accademia AfriKera Professional Dance Training (APDT), diretta dalla famosa ballerina Soukaina Edom, diplomandosi nel 2021. Under the sea (2023) e Mubatanidzwa (Adjoined) (2023) sono opere tessili, poiché Kufakwatenzi è interessat alla natura malleabile e trasformativa del tessuto, un materiale che può essere adattato, allungato, piegato e cucito, similmente a come Kufakwatenzi si muove nel proprio contesto come persona queer. Under the sea incarna il desiderio e l’appartenenza. Sentendosi stranier in patria,

HARARE, ZIMBABWE, 1995 VIVE A HARARE

con quest’opera crea uno spazio privo del mare di opinioni della società. I colori vivaci e materici ricordano l’infanzia richiamando luoghi oscuri, pericolosi e allo stesso tempo bellissimi. Tuttavia, sebbene il personale sia spesso il punto di partenza, Kufakwatenzi esplora anche temi più ampi legati alla terra, da sempre di grande importanza in Zimbabwe. Mubatanidzwa è realizzato con tela di juta, lenza da pesca, spago, lana e pelle, tutti materiali legati al lavoro agricolo. Le linee cartografiche cucite indicano le politiche inique di distribuzione della terra, lo sfollamento e la corruzione. L’opera di Shalom Kufakwatenzi è esposta per la prima volta alla Biennale Arte. —Tandanzani Dhlakama

Mubatanidzwa (Adjoined), 2023 Tessuto di iuta, lana, spago per tabacco, pelle, tela per tappezzeria, 240 × 186 cm. Photo Sekai Machache.

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Under the sea, 2023 Tessuto di iuta, lana, spago per tabacco, filo da pesca, 96 × 216 cm. Photo Sekai Machache.

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Fred Kuwornu

Fred Kudjo Kuwornu è un regista e attivista italiano afrodiscendente, attualmente residente a New York. La sua prima formazione avviene nel campo delle scienze politiche. Dopo alcune esperienze in TV – come autore per la RAI-Radiotelevisione Italiana e come presentatore per l’emittente LA7 – nel 2007, sul set del film Miracolo a Sant’Anna, per il quale recita come comparsa, conosce il regista statunitense Spike Lee. L’incontro lo porterà a intraprendere la carriera di regista-documentarista e a scegliere di dedicarsi al racconto dell’eredità coloniale italiana e al tema dell’invisibilità delle comunità nere. A caratterizzare i lavori di Kuwornu è una forma documentaristica ibrida, che mescola investigazione e denuncia con l’intento di generare conoscenza, promuovere il multiculturalismo e innescare un cambiamento sociale.

BOLOGNA, ITALIA, 1971 VIVE AD ACCRA, GHANA, BOLOGNA, E NEW YORK, USA

We Were Here (2024), il film realizzato da Kuwornu per questa Biennale, si inserisce nel percorso avviato con Inside Buffalo (2010) e proseguito con 18 Ius Soli (2012) e BlaxploItalian (2016). Al centro di questi film vi è l’intenzione di restituire visibilità alle vicende degli afrodiscendenti nelle società occidentali: dagli eventi storici – come il contributo del reggimento 92ª Divisione Buffalo, che combatté in Italia durante la Seconda guerra mondiale – alle microstorie degli immigrati di seconda generazione impegnati nel riconoscimento della cittadinanza italiana, sino alla rivendicazione dell’identità nera nel mondo delle industrie creative e delle arti. Se BlaxploItalian indaga i processi di oscuramento della comunità nera nei media, We Were Here si concentra sulla storia dell’arte e sulla rappresentazione dei neri africani nella cultura visuale europea a partire dal Rinascimento. Il percorso è accompagnato dalla voce dell’autore, la cui presenza mira a creare una connessione empatica con lo spettatore. L’opera di Fred Kuwornu è esposta per la prima volta alla Biennale Arte. —Lorenzo Giusti

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We Were Here: The Untold History of Black Africans in Renaissance Europe, 2024 Video, 45’. Courtesy l’Artista.

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Bertina Lopes

Bertina Lopes ha prodotto uno straordinario complesso di opere intimamente intrecciato con attivismo politico e critica sociale. Lopes ha studiato a Lisbona; lì è entrata in contatto con il Modernismo, che ha influenzato la sua produzione artistica e l’ha portata a fonderlo con l’iconografia africana. Tornata in Mozambico all’inizio degli anni Cinquanta, Lopes diventa un’illustre docente d’arte e allo stesso tempo si impegna attivamente con i poeti, gli scrittori e gli attivisti politici del paese. Al consolidarsi delle sue idee anticolonialiste, si trova ad affrontare persecuzioni che la spingono a rifugiarsi a Roma, dove trascorrerà il resto della sua vita. La sua opera rimane legata agli eventi del Mozambico, e riflette il desiderio di indipendenza, la fine del colonialismo e la consapevolezza della propria identità africana. A Roma, l’artista diventa una figura cruciale in qualità di addetta culturale dell’ambasciata del Mozambico. Dopo la sua morte, viene istituito nella capitale italiana l’Archivio Bertina Lopes per preservare la sua eredità, la sua casa e lo studio.

MAPUTO, MOZAMBICO, 1924 – 2012, ROMA, ITALIA

Unendo spesso elementi formali e costruttivi ripresi dai circoli artistici europei a una visualità associata al continente africano, l’artista trasforma la tela in un mezzo per esprimere la libertà, sia a livello personale che in risposta alla situazione repressiva del proprio paese d’origine. Le sue opere sono caratterizzate da intricate composizioni di diverse prospettive e volumi disposti sullo stesso piano. L’influenza cubista risulta evidente, benché contrassegnata da un forte gesto personale quando combina maschere e totem a creare forme che evocano movimenti di danza realizzati con audaci pennellate. Non di rado, nelle sue opere l’artista incorpora paglia, piume e tessuti colorati. I suoi Totem si ispirano alle cerimonie Nyau e alle danze Tufo, tradizioni locali del Mozambico oggetto di sprezzo durante il periodo coloniale. Queste influenze rafforzano in lei il suo essere straniera in Italia e allo stesso tempo contribuiscono a mantenere un forte legame con la propria eredità mozambicana. L’opera di Bertina Lopes è esposta per la prima volta alla Biennale Arte. —Amanda Carneiro

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Totem, 1980-1986 Olio su tela, 130 × 150 cm. Courtesy Richard Saltoun Gallery, Londra e Roma. © The Estate of Bertina Lopes.

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MAHKU (Movimento dos Artistas Huni Kuin)

Il Movimento dos Artistas Huni Kuin (MAHKU) nasce ufficialmente nel 2013 a seguito di alcuni workshop universitari di disegno nella regione dell’alto Rio Jordão, Acre, in Brasile, vicino al confine con il Perù. Il txana (maestro di canto) Ibã Huni Kuin e alcuni suoi parenti hanno sviluppato da tempo metodi per memorizzare e riportare in pittura le conoscenze orali Huni Kuin, in particolare i canti che guidano i rituali chiamati nixi pae (filo incantato), che prevedono l’ingestione della bevanda psicoattiva ayahuasca. Attraverso questa esperienza è possibile produrre ramibiranai (immagini emergenti), un’incarnazione dello spirito della foresta, accedendo alla prospettiva di yube (il boa constrictor), che aveva trasmesso agli uomini la ricetta della bevanda. I dipinti di MAHKU, murali, su tela o

carta, sono registrazioni di miti, storie ancestrali sull’avvento del mondo e sull’umanità in relazione agli altri esseri. I colori e le forme di queste opere rispecchiano l’esperienza visionaria che avviene durante i rituali dell’ayahuasca. Nel grande murale realizzato per la facciata del Padiglione Centrale della Biennale di Venezia, MAHKU ha dipinto la storia di kapewë pukeni (il ponte-alligatore). Il mito descrive il passaggio tra il continente asiatico e quello americano attraverso lo stretto di Bering. Per attraversarlo, gli uomini trovarono un alligatore che si offrì di portarli sulla schiena in cambio di cibo. Tuttavia, man mano che attraversavano, gli animali diventavano sempre più scarsi e gli uomini alla fine ricorsero alla caccia di un piccolo alligatore, tradendo la fiducia del grande alligatore, che si

FONDATO A KAXINAWÁ (HUNI KUIN) TERRITORIO INDIGENO, ACRE, BRASILE, 2013. CON BASE A KAXINAWÁ (HUNI KUIN) TERRITORIO INDIGENO

inabissò nel mare. Da qui ebbe origine la separazione tra popoli e luoghi diversi. Questo mito sottolinea come MAHKU e i suoi membri siano produttori e prodotti di passaggi tra contesti e territori lontani, collegando gli aspetti visibili della loro arte alla natura invisibile delle loro visioni, attraverso l’associazione e la traduzione delle pratiche tradizionali del villaggio nei parametri e convenzioni del mondo dell’arte.

Kapewë pukeni, 2022 Acrilico su tela, 140 × 115 cm. Photo Daniel Cabrel. Courtesy gli Artisti; Collezione Museu de Arte de São Paulo Assis Chateaubriand (MASP).

L’opera di MAHKU è esposta per la prima volta alla Biennale Arte. —Guilherme Giufrida

Hawe Henewakame Mural painted in Montreal, 2023 Acrilico su muro, 240 × 7200 cm. SBC galerie d’art contemporain MilMurs.

Yube Nawa Ainbu - Mural painted at the exhibition Vaivém, 2019 Acrilico su muro, 377 × 472 cm. Photo Edson Kumasaka. Courtesy gli Artisti; Centro cultural Banco do Brasil, San Paolo, Brasile.

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Anna Maria Maiolino

La variegata produzione artistica di Anna Maria Maiolino, influenzata dai cambiamenti vissuti nel corso della propria vita, abbraccia diversi mezzi espressivi e poetiche sperimentali. Dopo la Seconda guerra mondiale, la famiglia lascia l’Italia per Caracas, in Venezuela, dove l’artista studia alla Scuola nazionale di Belle Arti. Nel 1960 si trasferisce a Rio de Janeiro, Brasile, integrandosi nella vita artistica della città ed entrando successivamente a far parte del movimento Nova Figuração (Nuova Figurazione), una risposta artistica al clima politico di opposizione alla dittatura brasiliana. Nell’arco della sua vita abita a New York e a Buenos Aires, e collabora con artisti tra cui Lygia Clark, Ivan Serpa e Helio Oiticica, diventando un punto di riferimento per diverse generazioni di artisti brasiliani. Sebbene la sua pratica sia via via cambiata per includere temi relativi alla propria migrazione, al territorio, alla memoria e alle relazioni familiari, la sua poetica segue una traiettoria a spirale. In questo percorso, l’artista rivisita

le proprie opere, reinventandole nel tentativo di esorcizzare situazioni politiche arbitrarie o sentimenti che necessitano di essere rielaborati. L’installazione site-specific Indo e Vindo (2024) alla Casetta Scaffali è parte dell’iconica serie di Maiolino Terra Modelada (1993-2024), in cui il lavoro in argilla evidenzia le qualità primordiali, organiche, elastiche e piacevoli al tatto del materiale. Per la Biennale torna a lavorare sull’installazione intitolata Ao Infinito, una costruzione realizzata con la vegetazione, utilizzando rami di pino. L’opera esalta il gesto manuale e la ripetizione nella costante modellazione di numerose piccole sculture, simili e diverse, mantenendo il lavoro incompiuto, aperto, in perenne evoluzione – firma, questa, della singolarità di Maiolino. L’azione trasformativa della natura per mano umana, che modella la materia grezza, significa anche costruzione della forma attraverso il lavoro e indica il ciclo naturale dell’argilla: si disidrata, si pietrifica e può

SCALEA, ITALIA, 1942 VIVE A SAN PAOLO, BRASILE

tornare a essere polvere. L’installazione è completata dall’inclusione di filmati e audio prodotti negli ultimi decenni in collaborazione con amici fotografi e musicisti. Questi lavori si inseriscono in una linea di continuità con la produzione audiovisiva iniziata dall’artista con i film in Super8 degli anni Settanta. Ha ricevuto il Leone d’oro alla carriera della Biennale Arte 2024.

Hic et Nunc - dalla serie Terra modelada, 1994-2017 Veduta dell’installazione. Photo Brian Forrest. Courtesy l’Artista. © Anna Maria Maiolino.

L’opera di Anna Maria Maiolino è esposta per la prima volta alla Biennale Arte. —Amanda Carneiro

In-locu - da Terra modelada alla mostra Poetic Wanderings, 2018 Veduta dell’installazione. Photo Timothy Doyon. Courtesy l’Artista; Hauser & Wirth. © Anna Maria Maiolino.

Here and There, 2012 Veduta dell’installazione. Photo Elzbieta Bialkowska. Courtesy l’Artista. © Anna Maria Maiolino.

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Teresa Margolles

Teresa Margolles lavora con la presenza della morte, dentro e oltre i confini del Messico. La sua pratica artistica è basata sulla ricerca e comprende installazioni, film e sculture create con le tracce materiali di vittime e luoghi di violenza. Dopo aver studiato arte, comunicazione e medicina forense, ha lavorato in un obitorio statale, esaminando i corpi di innumerevoli vittime. Ha co-fondato il Grupo SEMEFO, che affrontava la dimensione sociale e politica della violenza nel suo Paese attraverso la manipolazione di materiale organico proveniente da obitori e cadaveri di animali. Per i suoi progetti, Margolles interviene in vari siti di ricerca. La sua opera comprende installazioni immersive con fluidi corporei e progetti cinematografici collaborativi con le vittime, le loro famiglie e i loro amici, fino a includere sculture di cemento o vetro, acquisiti da luoghi di violenza, sobrie nella forma. L’artista affronta diverse questioni politiche come la guerra del narcotraffico, il femminicidio e la migrazione forzata, punta inoltre i riflettori sull’indifferenza e l’oblio sociale nei confronti delle vittime in tutto il mondo.

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CULIACÁN, MESSICO, 1963 VIVE A CITTÀ DEL MESSICO, MESSICO E MADRID, SPAGNA

Parte di un progetto di ricerca su lavoro e migrazione durato anni al confine tra Venezuela e Colombia, Tela Venezuelana (2019) mostra una sagoma umana impressa su un grande panno bianco. Il colore marrone della sagoma deriva dal sangue secco di un giovane venezuelano, ucciso presso il fiume Táchira a Cúcuta, sul lato colombiano del confine. Posizionando il panno sul corpo durante l’autopsia, Margolles ha fatto in modo che il sangue del viso, delle braccia, del torso e delle gambe dell’uomo lasciasse un segno duraturo, creando allo stesso tempo un ritratto irregolare e anonimo di un’ennesima vittima della migrazione forzata. La stoffa diventa un’indecifrabile mappa o documento con una forte presenza materiale. La quantità di sangue testimonia non solo la violenza inflitta al corpo, ma anche la brutalità subita da migliaia di migranti venezuelani durante il loro viaggio. —Sebastián Eduardo

Tela venezuelana, 2019 Impronta umana su tessuto, 210 × 210 cm. Photo Aurélien Mole. Courtesy l’Artista; mor charpentier.

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Mataaho Collective

Il Mataaho Collective, formato dalle artiste māori Bridget Reweti, Erena Baker, Sarah Hudson e Terri Te Tau, collabora da un decennio alla realizzazione di vaste installazioni in fibra che si addentrano negli intrichi della vita e dei sistemi di sapere māori. Il termine māori mata include in sé vari significati, fra cui canto profetico e harakeke, una pianta di lino usata per tessere; aho (trama) indica i fili orizzontali in tessuto intrecciato, fondamentali per la struttura, in unione con i fili verticali dell’ordito. Il nome del collettivo designa dunque un’interconnessione, riflettendo la storia, la filosofia e il sapere generazionale māori e rimarcando l’essenza collaborativa della loro pratica artistica; evidenzia inoltre un senso di libertà solidale, manifestazione dell’emancipazione delle donne māori. L’utilizzo di materiali sia in fibra industriale che naturale e l’impiego delle tecniche artistiche tradizionali māori segnalano la vivacità e l’adattabilità del pensiero Te Ao Māori nel trattare le realtà delle comunità indigene contemporanee.

Il takapau è una stuoia tessuta finemente, tradizionalmente usata nelle cerimonie, in particolare durante il parto. In Te Ao Māori, l’utero racchiude un significato sacro in quanto spazio in cui i bambini sono in connessione con gli dei. Takapau segna il momento della nascita, come transizione fra luce e buio, Te Ao Marama (il regno della luce), e Te Ao Atua (il regno degli dei). I tiranti usati nell’installazione di Mataaho Collective incorporano materiali minuziosamente selezionati, attrezzi per mettere in sicurezza e per sostenere carichi in movimento e che sono allo stesso tempo economici e facilmente accessibili. Questa scelta intenzionale vuole dare visibilità a lavoratori spesso ignorati, sottolineando la forza che deriva dall’interdipendenza e celebrando un patrimonio che merita di essere riconosciuto. L’installazione Takapau, osservabile da molteplici prospettive, rivela la sua intricata struttura nel gioco di luci e ombre su motivi intessuti, offrendo un’esperienza multisensoriale.

TE ATIAWA KI WHAKARONGOTAI, NGĀTI TOA RANGĀTIRA, NGĀTI AWA, NGĀI TŪHOE, NGĀTI PŪKEKO, NGĀTI RANGINUI, NGĀI TE RANGI, RANGITĀNE KI WAIRARAPA FONDATO AD AOTEAROA/NUOVA ZELANDA, 2012 – CON BASE AD AOTEAROA/NUOVA ZELANDA

Takapau, 2022 Fasce in poliestere ad alta visibilità, fibbie in acciaio inossidabile, dimensioni variabili. Photo Maarten Holl. Courtesy le Artiste; Museum of New Zealand, Te Papa Tongarewa.

L’opera di Mataaho Collective è esposta per la prima volta alla Biennale Arte. —Amanda Carneiro

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Naminapu Maymuru-White

Naminapu Maymuru-White è una Grande Anziana yolŋu la cui pratica artistica contemporanea spazia dalla pittura all’intaglio, dalla stampa alla tessitura e al batik. I suoi dipinti rappresentano una notevole evoluzione della pratica creativa e culturale yolŋu, poiché appartiene alla prima generazione di donne a cui è stato insegnato a dipingere i miny’tji (disegni sacri del clan), una tradizione tramandata dal padre Nänyin Maymuru e dallo zio Narritjin Maymuru, artisti maŋgalili e uomini di legge. Dal 1984, Maymuru-White espone in molteplici occasioni, a livello nazionale e internazionale. Gli iconici disegni miny’tji di Maymuru-White riflettono

DJARRAKPI, AUSTRALIA, 1952 VIVE A YIRRKALA, AUSTRALIA

il concetto yolŋu di Milŋiyawuy, che rappresenta contemporaneamente il fiume Milŋiyawuy che serpeggia attraverso il paese dei Maŋgalili e la Via Lattea celeste. I suoi dipinti su corteccia ospitano tentacolari fiumi di stelle che si torcono e ruotano sulla superficie per trasmettere una visione immersiva della costellazione nel cielo notturno. Maymuru-White raffigura Milŋiyawuy dall’alto e dal basso, dal cielo e dalla terra, per riflettere la convergenza dei regni fisico e ancestrale. Ha spiegato che ogni stella rappresenta le anime maŋgalili passate, presenti e future. Il cielo pieno di stelle e i paesaggi fluviali dell’artista – delicatamente realizzati con il sacro gapan (ocra bianca), un marwat (pennello tradizionale fatto con capelli umani) e uno stecchino di legno – sottolineano una comprensione multidimensionale del Paese; l’inestricabile legame tra il mondo ancestrale e quello vissuto che attraversa le generazioni, il tempo, lo spazio e il luogo. I dipinti di MaymuruWhite pulsano di energia e conferiscono strati di forma e significato al concetto ciclico di vita e morte. L’opera di Naminapu MaymuruWhite è esposta per la prima volta alla Biennale Arte. —Jessica Clark

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Milniyawuy, 2023 Dipinto su tavola, 60 × 90 cm. Photo Aaron Anderson.

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Omar Mismar

TAANAYEL, LIBANO, 1986 VIVE A BEIRUT, LIBANO

Two Unidentified Lovers in a Mirror, 2023 Mosaico, 130 × 130 cm. Photo Mahmoud Merjan. Courtesy l’Artista.

Parting Scene (with Ahmad, Firas, Mostafa, Yehya, Mosaab) dalla serie Studies in Mosaics (2019-2023), 2023 Mosaico, 151 × 201 cm. Photo Mahmoud Merjan. Courtesy l’Artista.

Omar Mismar si è formato prima come grafico a Beirut e poi come artista negli Stati Uniti. La sua pratica, estremamente sovversiva e versatile in termini di tecniche, sonda l’intreccio tra arte, politica ed estetica del disastro. Nelle serie Studies in Mosaics (2019 – in corso) e Two Unidentified Lovers in a Mirror (2023), l’artista impiega la maestria e il linguaggio classico del mosaico per riprodurre istantanee digitali. Genera un deterioramento temporale tra tecniche e linguaggio artistico formale per catturare tracce visive di persone comuni e del loro quotidiano. Il collasso tra pixel contemporanei e tessere musive riecheggia quello temporale della nostra epoca, che assiste alla sconsiderata crudeltà dell’antichità in concomitanza con l’ipertecnologia, mentre i concetti fondanti

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di umanesimo, solidarietà ed empatia sono gestiti secondo il calcolo politico dei poteri dominanti. Con Ahmad and Akram Protecting Hercules (20192020) e Parting Scene (with Ahmad, Firas, Mostafa, Yehya, Mosaab) (2023), Mismar sovverte la commissione per render omaggio alle azioni eroiche dei dimenticati e benevoli guardiani di un museo archeologico in Siria. Con Fantastical Scene [sic] (20192020), sostituisce la testa del leone, il predatore, con quella del toro, la preda: un gioco di parole in arabo, dato che il primo si traduce in al-assad e il secondo in al-thawr, che suona come thawra, o rivoluzione. Con Spring Cleaning (2022), l’artista rovescia le rappresentazioni dei manufatti preziosi consacrando invece l’economica coperta in poliestere, emblematica delle condizioni di vita dei rifugiati.

Con Two Unidentified Lovers in a Mirror (2023), rivendica audacemente un’immagine esplicita della vita queer, ritenuta innaturale in Libano, ma la cui esplicitezza viene stravolta riorganizzando le tessere dei volti dei due uomini. L’opera di Omar Mismar è esposta per la prima volta alla Biennale Arte. —Rasha Salti

Ahmad and Akram Protecting Hercules - dalla serie Studies in Mosaics (2019-2023), 2019-2020 Mosaico, 130 × 200 cm. Photo Mahmoud Merjan. Courtesy l’Artista.

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Sabelo Mlangeni

Sabelo Mlangeni è un fotografo che richiama l’attenzione sulla bellezza, l’affetto, la vulnerabilità e la quotidianità in luoghi inaspettati. Nato nel 1980 a Saul Mkhizeville, un piccolo villaggio del Mpumalanga, in Sudafrica, Mlangeni produce soprattutto fotografie in bianco e nero che gli permettono di concentrarsi sull’essenza dell’intimità umana. L’artista è noto in particolare per aver documentato la queerness in spazi rurali, come la sua provincia natale, o nelle case rifugio in Nigeria. Dopo aver ricevuto una borsa di studio nel 2001, si trasferisce a Johannesburg per frequentare il Market Photo Workshop fondato da David Goldblatt, dove si diploma nel 2004. Da allora produce opere che coinvolgono e mettono in luce comunità spesso sottorappresentate.

Le opere seminali di Mlangeni comprendono Country Girls (2003-2009), Black Men in Dress (2011) e The Royal House of Allure (2020). Rifiutandosi sempre di mettere al centro la violenza, tutti e tre i lavori esaltano persone queer in situazioni di relax, di riposo o di divertimento. Il prerequisito per catturare tale intimità è di solito costituito dalla fiducia e dalla vicinanza, perciò Mlangeni trascorre spesso lunghi periodi di tempo con le persone che sta fotografando, per assicurarsi di catturare sia la loro particolare aura che le più ampie esperienze universali. Royal House of Allure è il nome di una casa rifugio LGBTQI+ a Lagos, in Nigeria. L’artista è entrato in contatto con chi vi abita, realizzando immagini sia di momenti celebrativi che di situazioni ordinarie di persone in rilassato ozio.

Id M S r B ©

MPUMALANGA, SUDAFRICA, 1980 VIVE A JOHANNESBURG, SUDAFRICA

Analogamentema, questa volta in Sudafrica, Country Girls e Black Men in Dress ritraggono gli aspetti eleganti, provocatori e sentimentali della vita queer in luoghi spesso percepiti come minacciosi. —Tandanzani Dhlakama

A rooftop photoshoot with the dancers; Tonnex, (Ruby, Nonso and Oshodi) dalla serie The Royal House of Allure, 2019 Stampa digitale ultrachrome d’archivio. Courtesy l’Artista; Blank Projects, Città del Capo. © Sabelo Mlangeni.

Faith and Sakhi Moruping Thembisa Township dalla serie Isivumelwano, 2004 Stampa alla gelatina d’argento realizzata a mano. Courtesy l’Artista; Blank Projects, Città del Capo. © Sabelo Mlangeni.

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Identity dalla serie Black Men in Dress, 2011 Stampa alla gelatina d’argento realizzata a mano. Courtesy l’Artista; Blank Projects, Città del Capo. © Sabelo Mlangeni.

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Paula Nicho

COMALAPA, GUATEMALA, 1955 VIVE A COMALAPA

Paula Nicho è una pittrice maya che vive a Comalapa, in Guatemala. Fin dalla prima infanzia, il nonno, lo scultore Francisco Cumez, la incoraggia ad approfondire le proprie capacità artistiche. Con il sostegno del proprio insegnante – il pittore Salvador Cumez Curruchich, che diventerà poi suo marito – inizia a produrre le sue prime opere a metà degli anni Ottanta, in un contesto in cui la pittura era ancora tradizionalmente riservata agli uomini. In quel periodo, insieme ad altre cinque donne maya, Nicho promuove la creazione di un gruppo di artiste, prima noto come Pintoras Surrealistas Kaqchikeles (Pittrici surrealiste Kaqchikel) e poi semplicemente come Pittrici Kaqchikel di Comalapa. In origine il suo lavoro trae ispirazione dalle storie raccontate dagli anziani della sua comunità e dalla lettura delle narrazioni sacre del popolo maya, quali quelle contenute nel Chilan Balan e nel Popol Vuh.

I dipinti di Nicho vedono nell’equilibrio e nella reciprocità dei mondi naturali e spirituali una componente essenziale per il ripristino dell’autodeterminazione indigena. Il simbolismo onirico gioca un ruolo centrale nelle sue creazioni. Le opere realizzate per la Biennale raffigurano donne consapevoli del proprio potere, che ricordano le antiche dee maya della guarigione, della fertilità e della tessitura; esse appaiono nude, ricoperte da forme e vivaci motivi geometrici indigeni. Le immagini sono una risposta ai ricordi d’infanzia dell’artista, quando non le era permesso indossare abiti indigeni a scuola. Nicho trasforma quel dolore in rappresentazioni assertive in cui i motivi maya emergono come la vera pelle delle donne. L’artista contrasta la storia della colonizzazione e dell’assimilazione occidentale, esaltando al tempo stesso il valore e la bellezza della produzione tessile maya, espressa soprattutto nell’huipil, un indumento tradizionale tessuto a mano i cui motivi riflettono memorie collettive, sapere e storie politiche. L’opera di Paula Nicho è esposta per la prima volta alla Biennale Arte. —Miguel Lopez

Tejiendo mi segunda piel, 2023 Olio su tela, 64 × 84 cm. Courtesy l’Artista.

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Mi piel y sombrero, 2023 Olio su tela, 64 × 84 cm. Courtesy l’Artista.

Camino a xejul, 2005 Olio su tela, 102 × 122 cm. Courtesy l’Artista.

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Taylor Nkomo

Taylor Nkomo – artista ndebele, diplomato al Mzilikazi Arts and Crafts Centre di Bulawayo – è considerato un’icona nel campo della scultura in pietra dello Zimbabwe. È stato introdotto alla scultura presso i laboratori della National Gallery of Zimbabwe, dopo esservi entrato nel 1973 e avervi lavorato anche come grafico. Le influenze della sua precedente professione sono evidenti nel modo in cui crea le proprie opere, offrendo un diverso punto di vista sulla rappresentazione della vita quotidiana. Le sue sculture sono spesso realizzate in opale bianco, verdite verde e pietra di cobalto in varie forme e dimensioni. Tale varietà viene esplorata nelle diverse acconciature delle figure, nei concetti di bellezza e nelle scarificazioni del viso, il tutto in dialogo con le forme visive presenti nell’intero continente africano.

BULAWAYO, ZIMBABWE, 1957 VIVE A HARARE, ZIMBABWE

Le opere presentate alla Biennale sono spesso esposte all’aperto, nel giardino dello studio di Nkomo: un gesto che stabilisce una connessione tra l’artista, i suoi lavori e la comunità. La scultura The Thinker (2023) instaura un dialogo tra spazi positivi e negativi, enfatizzando la prominenza di un occhio in contrasto con l’assenza dell’altro, accentuando le opposizioni. Anche Fashion Girl (2023) esplora forme contrastanti: su un lato del volto compaiono delle scarificazioni, mentre nell’altro è in risalto l’acconciatura, suggerendo una fusione tra figura maschile e figura femminile. Le opere di Nkomo rendono omaggio alle diverse tradizioni scultoree del continente africano, riaffermando al contempo una potente firma individuale. L’opera di Taylor Nkomo è esposta per la prima volta alla Biennale Arte. —Raphael Chikukwa

Singing Blues, 2022 Cobalto, 27 × 11 × 48 cm. Courtesy l’Artista.

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Thinker, 2023 Cobalto, 27 × 23 × 46 cm. Courtesy l’Artista.

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Fashion Girl, 2023 Opale bianco, 33 × 25 × 10 cm. Courtesy l’Artista.

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Philomé Obin

BAS-LIMBÉ, HAITI, 1892 – 1986, CAP-HAÏTIEN, HAITI

Philomé Obin, come il fratello minore Sénèque, è uno dei creatori della scuola di pittura di Cap-Haïtien, dal nome del comune sulla costa settentrionale di Haiti. Obin fa riferimento a questo luogo fondamentale in diversi suoi dipinti, in cui appare insieme al figlio Antoine e a Sénèque davanti all’edificio che ospitava la sede locale del Centre d’Art. Il centro originario era stato fondato nel 1944 nella capitale Port-au-Prince dal critico americano DeWitt Peters e da intellettuali e artisti haitiani come Philippe ThobyMarcelin e Albert Mangonès. Insieme ai colleghi Hector Hyppolite, Rigaud Benoit e Préfète Duffaut, Obin è uno dei primi artisti a essere coinvolto nel centro, sebbene dipingesse già da diversi decenni. Il gruppo entra a far parte di una rete internazionale che comprendeva anche il pittore cubano Wifredo Lam, il surrealista francese André Breton e il fotografoetnografo Pierre Verger. Con una grande varietà di temi e complesse composizioni narrative dallo stile riconoscibile e autorevole, Obin è un cronista delle dinamiche sociali all’interno dello spazio pubblico. Le sue vivaci scene di strada del carnevale sono spesso contrapposte a tranquilli paesaggi urbani, come nel caso di Carnaval (1958), dove una folla in costume sfila davanti alla facciata di un centro sanitario, le cui finestre sono chiuse in un cupo silenzio. In Deux déguisés du Carnaval (1947), una coppia in costume in mezzo alla strada forma un inquietante trio con una figura maschile in abito da sera che osserva da una porta vicina.

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L’artista è noto anche per i suoi dipinti storici. Una delle sue scene politiche più famose rappresenta la crocifissione di Charlemagne Péralte, che combatté contro l’occupazione statunitense (1915-1934), a testimoniare l’importanza dell’autodeterminazione. L’opera di Philomé Obin è esposta per la prima volta alla Biennale Arte. —Rodrigo Moura

Missionaire, 1951 Olio su tavola di legno, 58,5 × 71 cm. Collezione Josh Feldstein. Courtesy Zelaya Qattan Gallery, Philadelphia.

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Carnaval de 1958 au Cap-Haitien, 1958 Olio su tavola di legno, 66 × 83,1 cm. Collezione Josh Feldstein. Courtesy Zelaya Qattan Gallery, Philadelphia.

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Sénèque Obin

Sénèque Obin – parte di una famiglia di artisti che comprende il fratello maggiore Philomé, i nipoti Antoine e Telemaque e il figlio Othon – ha cinquant’anni quando inizia a dipingere e si unisce al Centre d’Art di Port-auPrince nel 1948. Lui e la sua famiglia sono figure chiave nel successivo sviluppo della scuola di pittura di Cap-Haïtien, promuovendo e influenzando gli artisti della scena della città sulla costa settentrionale. Massone praticante, Obin ha rappresentato cerimonie massoniche, scene di vita quotidiana e nature morte. È noto per i suoi dipinti di eventi e personaggi storici, come il leader rivoluzionario Toussaint Louverture, che portò la popolazione schiava autoliberatasi verso l’indipendenza di Haiti nel 1804. Ha anche creato una rappresentazione

allegorica dell’ascesa al potere del presidente Paul Magloire, con lo stemma nazionale di Haiti e il motto L’union fait la force. La pratica di Obin come pittore e attivista artistico offre un fecondo punto di vista tramite cui comprendere le arti nelle Americhe a metà del XX secolo. Il suo lavoro espone le contraddizioni del processo di modernizzazione, sfidando le etichette di “autodidatta”, “ingenuo” e “primitivo”, spesso applicate agli artisti neri come lui e che hanno pregiudizialmente oscurato la comprensione della complessità delle loro opere. Attraverso una miriade di temi, motivi e iconografie, Obin ha articolato visivamente diversi aspetti della cultura haitiana – come i mercati di strada,

LIMBÉ, HAITI, 1893 – 1977, CAP-HAÏTIEN, HAITI

il carnevale e il sincretismo spirituale – nonché le dinamiche politiche del Paese. Marché Clugny (1966) raffigura un tema su cui Obin tornerà più volte: pone il mercato costruito nel 1890 al centro della vita sociale di Cap-Haïtien. Con le sue linee precise, i colori decisi e le molteplici narrazioni, il dipinto allude al commercio, all’estrazione e alla trasformazione delle risorse naturali, evocate sia dalle merci offerte al mercato sia dal circostante paesaggio montuoso sullo sfondo.

Marché Clugny, 1950s-1960s Olio e/o gouache su masonite. Photo Jason Mandella. Collezione El Museo del Barrio, New York. Dono di Roslyn e Lloyd Siegel. Courtesy El Museo del Barrio, New York. Marché Poissons, 1956 Olio su masonite, 42 × 53,5 cm. Collezione Josh Feldstein.

L’opera di Sénèque Obin è esposta per la prima volta alla Biennale Arte. —Rodrigo Moura

Eglise Sacré-Coeur, 1961 Olio su masonite, 60 × 76 cm. Photo Jose Zelaya. Collezione Josh Feldstein .

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Daniel Otero Torres

La pratica multidisciplinare di Daniel Otero Torres comprende installazioni, sculture e disegni, che rappresentano movimenti di resistenza basati sulla comunità e portati avanti da gruppi emarginati. La tecnica di Otero Torres, che consiste in disegni scultorei caratterizzati da una figurazione dettagliata ed espressiva, prevede l’utilizzo di immagini tratte da diverse fonti, tra cui archivi storici, libri, giornali, fonti online e propria documentazione. Questo processo formale di giustapposizione e collage stratifica eventi di diverse regioni, creando metafore visive delle esperienze, delle conoscenze e delle tecnologie dei popoli.

Aguacero (2024), che si sviluppa dal suo lavoro precedente Lluvia (2022) ed è un’installazione effimera site-specific fatta di materiali raccolti localmente e riciclati, riflette il coinvolgimento dell’artista rispetto all’impatto della crisi ecologica sulla vita degli emarginati colombiani. L’opera evoca l’insolito sistema di architettura vernacolare a palafitte della comunità emberà, lungo le rive del fiume Atrato, progettato per raccogliere l’acqua piovana e fornire agli abitanti acqua non inquinata. Paradossalmente, pur abitando in una delle regioni più ricche di precipitazioni, gli Emberà devono affrontare gravi difficoltà per ottenere acqua pulita a causa dell’esteso inquinamento provocato dall’estrazione illegale dell’oro. Attraverso una ricostruzione metaforica, Otero Torres richiama l’attenzione sulla sfida che le comunità di tutto il mondo devono affrontare per garantire l’accesso all’acqua potabile e pulita, un problema strettamente connesso ai processi di privatizzazione e finanziarizzazione della natura. Struttura aperta agli occhi del mondo, questo lavoro rivela il viaggio dell’acqua che scorre e i suoi molteplici significati.

BOGOTÁ, COLOMBIA, 1985 VIVE A BOGOTÁ

Lluvia, 2020 Tecnica mista, 435 × 610 × 700 cm. Photo Omar-Tajmouati. Courtesy l’Artista e mor charpentier, Bogotá e Parigi.

L’opera di Daniel Otero Torres è esposta per la prima volta alla Biennale Arte. —Amanda Carneiro

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Lydia Ourahmane

Lydia Ourahmane conosce da sempre il movimento; la transitorietà è il modo in cui le è stato insegnato a vivere. Il suo lavoro è al contempo effimero e un esercizio di palinsesto: interseca colonialismo, migrazione, spiritualità e geopolitica. Cresciuta tra Londra e l’Algeria, ha vissuto nelle comuni cristiane fondate e gestite dal padre algerino e dalla madre malese: gioiosi spazi di fede che offrivano sollievo alla minoranza ancora perseguitata durante il decennio della guerra civile (1991-2002). Da quasi estranei, ballavano, cantavano, mangiavano, crescevano i loro figli. Allo stesso tempo, le loro comunità erano sottoposte a una stretta sorveglianza, che impregna la sua installazione interattiva Barzakh (che significa limbo, in mezzo, sapere-non sapere). Nelle esposizioni a Kunsthalle di Basilea (2021), Triangle-Astérides (2021) e S.M.A.K. (2022), Ourahmane ha sradicato e ricreato integralmente il proprio appartamento in affitto di Algeri, per essere “a casa” quando le frontiere si sono chiuse a causa della pandemia. Si tratta di un esercizio sulla burocrazia dello Stato-nazione, la cui seconda parte riguarda l’impossibilità di ‘restituzione’ di oggetti fondamentalmente mutati dai molteplici viaggi, toccati e alterati da mani sconosciute, di cui rimane solo l’ingresso.

SAÏDA, ALGERIA, 1992 VIVE AD ALGERI, ALGERIA E BARCELLONA, SPAGNA

Entrance (1901-2021) comprende due porte funzionanti. Sulla seconda strada dal mare, la porta originale in legno (1901) deriva dal progetto di un tipico appartamento parigino, poiché l’occupazione francese voleva che Algeri assomigliasse alla Francia. La seconda porta in metallo, con cinque serrature, è stata aggiunta negli anni Novanta, durante la guerra civile. Incarnando una fusione dei due momenti, l’ingresso leggermente socchiuso è un’invasione architettonica della fiducia collettiva che era stata costruita e poi di nuovo spezzata nella guerra d’indipendenza. La scrittrice e curatrice Negar Azimi l’ha descritta come una “scultura emozionante, un palinsesto di storie”. È carica di tensione psicologica: quando l’artista si sentiva assalita dalla paranoia, chiudeva più serrature per sentirsi al sicuro. Ora l’appartamento e i suoi oggetti “restituiti” sono tornati a essere utilizzati da amici. Liberarlo dall’ingresso originale, dice Ourahmane, è stato catartico. L’opera di Lydia Ourahmane è esposta per la prima volta alla Biennale Arte. —Khushi Nansi

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21 Boulevard Mustapha Benboulaid (entrance), 1901–2021 Porta in metallo, porta in legno, 9 serrature, cemento, intonaco, mattoni, telaio in acciaio, 220 × 200 × 16 cm. Stedelijk Museum Amsterdam. Photo Philipp Hänger. Courtesy l’Artista

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Dalton Paula

BRASÍLIA, BRASILE, 1982 VIVE A GOIÂNIA, BRASILE

Artista poliedrico, Dalton Paula si occupa di pittura, installazione, performance art, fotografia, video e creazione di oggetti. Residente a Goiânia, ha fondato e dirige Sertão Negro, uno spazio dedicato alla formazione di artisti locali. Opera a partire da una ricerca visiva che cerca di interpretare in maniera critica gli eventi storici e il cammino della popolazione nera del Brasile. Ha ottenuto riconoscimenti internazionali grazie alla creazione di una serie di ritratti che conferiscono dignità a uomini e donne neri che hanno lottato per la libertà, combattuto contro ogni tipo di ingiustizia, e che ancora oggi vedono la propria immagine cancellata o sottorappresentata dalla storia brasiliana. Full-Body Portraits (2023) è una serie di sedici dipinti che riprendono l’indagine condotta dall’artista a partire dalla mostra Afro-Atlantic Histories (2018) tenutasi presso il Museu de Arte de São Paulo. In queste opere, figure storiche di origine africana che hanno guidato i movimenti di resistenza antischiavista in Brasile, o ne sono state in qualche modo coinvolte (Chico Rei, Zeferina e Ventura Mina, tra gli altri), sono rappresentate in grandi tele bipartite, un tratto stilistico che evoca il divario come metafora per unire storie e ricordi. La composizione instaura un dialogo tra paesaggio e sfondo, presentando un rapporto quasi monocromatico tra i due, e fa riferimento alle strutture scenografiche degli studi

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fotografici di fine Ottocento e inizio Novecento. Oggetti altrettanto scenografici – tra cui bicchieri, rocce, sedie, bandiere, colonne, tende, scale e scettri – sono inseriti in questa nuova serie in modo critico e simbolico, rendendo evidenti le possibili relazioni tra immagine, memoria e potere.

L’opera di Dalton Paula è esposta per la prima volta alla Biennale Arte. —Glaucea Helena de Britto

Manuel Congo, 2022 Olio e foglia d’oro su tela, 61 × 45 cm. Photo Paulo Rezende. Museu de Arte de São Paulo Assis Chateaubriand, opera commissionata, 2019-2022, MASP.10837 Courtesy l’Artista.

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Mariana Crioula, 2022 Olio e foglia d’oro su tela, 61 × 45 cm. Photo Paulo Rezende. Museu de Arte de São Paulo Assis Chateaubriand, opera commissionata, 2019-2022, MASP.10842 Courtesy l’Artista.

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Marcilio Dias, 2022 Olio e foglia d’oro su tela, 61 × 45 cm. Photo Paulo Rezende. Museu de Arte de São Paulo Assis Chateaubriand, opera commissionata, 2019-2022, MASP.10836. Courtesy l’Artista.

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La Chola Poblete

La Chola Poblete è un’artista transdisciplinare che opera con performance, videoarte, fotografia, pittura e oggetti: attraverso un sofisticato immaginario queer, recupera conoscenze ancestrali dai territori sudamericani. Proveniente da una famiglia operaia di origine boliviana, ha studiato arti visive all’Università nazionale di Cuyo. Il suo lavoro denuncia l’abuso e il pregiudizio nei confronti delle popolazioni indigene, nonché la stereotipizzazione e l’esotizzazione dei popoli nativi. In questa linea, la scelta del suo nome (che riflette il termine comune per le donne mestiza native andine) serve come affermazione di identità. Nella sua critica radicale della normalità, l’artista porta l’attenzione su forme antiegemoniche di bellezza e di incarnazione. La cultura pop, i fumetti e il rock contribuiscono al repertorio di strategie visive che sfidano l’eredità coloniale.

MENDOZA, ARGENTINA, 1989 VIVE A BUENOS AIRES, ARGENTINA

I grandi acquerelli di La Chola Poblete rivelano la fluidità derivante dalla sua identità. Una marea di esseri ibridi convive con motivi astratti, religiosi e pop, tra cui figurano piccole riproduzioni delle sue opere, come le maschere di pane. Vergini con le trecce, spade che affettano patate e forme organiche ornate di peni risuonano come canti di resistenza. La Vergine è un motivo centrale e sfaccettato nell’opera di quest’artista, che incarna il sincretismo tra cultura occidentale e comunità indigene. La serie Vírgenes Chola riprende dal barocco mestizo l’identificazione tra la Vergine e la dea Pachamama (Madre Terra per le comunità andine). Anche in questa serie, le Vergini in trono indossano i loro attributi come icone pop. La performance Il martirio di Chola (2014) affronta l’emarginazione sociale della comunità boliviana residente in Argentina, insieme all’uso dell’evangelizzazione come forma di tortura emotiva e fisica. L’opera di La Chola Poblete è esposta per la prima volta alla Biennale Arte. —María Amalia García

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Il Martirio di Chola, 2014 Fotografia, 100 × 70 cm. Courtesy l’Artista.

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Untitled, 2019 Tessuto, 140 × 90 cm. Courtesy l’Artista.

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Virgen del cerro - dalla serie Virgenes Chola, 2022 Acquerello e inchiostro su carta, 198 × 153 cm. Courtesy l’Artista.

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Charmaine Poh

Charmaine Poh è un’artista, documentarista e scrittrice che scava in storie incentrate su esperienze femministe e queer asiatiche, attraversando temi legati a norme di genere, dinamiche di parentela e creazione di mondi queer. Essendo cresciuta a Singapore, dove la rappresentazione delle persone queer nei media statali è fortemente regolamentata, Poh insiste sul potere delle micronarrazioni per riflettere sulle forme di resistenza, riparazione e sopravvivenza di quanti sono ai margini della società. Nella sua pratica, che spazia tra fotografia, film e lezioni-performance, combina la narrazione con l’indagine e l’analisi etnografica, nel costante intento di promuovere uno spazio collaborativo che consenta la stratificazione di diversi immaginari e codici di genere, di corpi in relazione e di introspezione. Nel 2022 si è trasferita a Berlino, dove sta attualmente svolgendo una ricerca di dottorato sull’avatar femminile asiatico, rintracciandone le origini a partire dal “miracolo economico” dell’Asia orientale degli anni Ottanta e dall’emergere del tecno-orientalismo e del cyberfemminismo.

SINGAPORE, 1990 VIVE A BERLINO, GERMANIA, E SINGAPORE

La serie di documentari ibridi Kin (2021) penetra nella vita domestica queer a Singapore. L’autrice mette in luce le contraddizioni vissute dalle persone queer, il cui desiderio di vivere e prosperare è limitato dall’idealizzazione delle famiglie nucleari eterosessuali da parte della società. In Kin, tre giovani queer riflettono sui concetti di casa e di famiglia scelta, dove l’accesso agli alloggi pubblici dipende da definizioni eterosessuali di matrimonio. Con Kin ll (2024), Poh esamina le difficoltà dei genitori queer nel crescere i figli quando la loro famiglia non ha legittimazione agli occhi dello stato. Nel 2022, il Parlamento di Singapore ha abrogato la Sezione 377a, una legge di epoca coloniale che criminalizzava il sesso tra uomini, blindando però al contempo la definizione di matrimonio e bloccando così i futuri sforzi per stabilire pari diritti coniugali per le persone LGBTQ+. Intrecciando lettere personali di genitori queer con pratiche intergenerazionali di cura, il film immagina la vita domestica queer – nella sua simultanea ordinarietà, fantasiosità e complessità – come luogo di potenziale per forme alternative di comunità. I legami queer diventano un orizzonte aperto di possibilità relazionali che punta oltre l’organizzazione eteronormativa di intimità, desiderio, cura e riproduzione. L’opera di Charmaine Poh è esposta per la prima volta alla Biennale Arte. —Joleen Loh

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Kin, 2022 Video, 2’ 45”. Photo Charamine Poh. Courtesy l’Artista.

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Sandra Poulson

Sandra Poulson è un’artista angolana che vive tra Londra e Luanda. Concentrandosi su eventi, contesti e storie locali vissuti e osservati a Luanda, nelle sue opere costruisce narrazioni che parlano di politiche globali e strutture sociali e dei modi in cui essi definiscono l’accesso, il movimento e gli ambienti abitabili. Operando attraverso tecniche e scale diverse crea installazioni e performance scultoree e spaziali; utilizza inoltre una varietà di materiali, spesso mescolando quelli con differenti qualità e possibilità, tra cui tessuti, carta, sapone, legno e cemento. La sua pratica comprende anche la scrittura e la documentazione visiva, adoperati e come materiale di ricerca e tradotti e direttamente nel suo lavoro.

ANGOLANA, NATA A LISBONA, PORTOGALLO, 1995 VIVE A LUANDA, ANGOLA E LONDRA, REGNO UNITO

Onde o Asfalto Termina, e a Terra Batida Começa (2024) prosegue l’esplorazione degli ambienti formali e informali di Luanda e del modo in cui essi dettano il movimento nella città, sia in senso letterale sia in termini di strutture sociali. L’opera si concentra sul momento in cui lo sterrato di una strada informale incontra quella asfaltata e lo utilizza per esplorare le sfumature tra ciò che è considerato centrale o periferico, abitabile o inabitabile, locale o globale. Realizzata con cartone recuperato e amido, questa installazione site-specific di cartapesta include stralci di paesaggio urbano che costituiscono attività e divisioni umane. Un’installazione video multicanale, esposta sulle pareti laterali, è formata da video spontanei girati con un cellulare che catturano diversi momenti, eventi e materiali che avvengono nella città e la formano. I video completano l’installazione offrendo una visione del rigoroso ed esteso processo di documentazione che alimenta la ricerca di Poulson. L’opera di Sandra Poulson è esposta per la prima volta alla Biennale Arte. —Natalia Grabowska

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Sandra Poulson è tra i quattro beneficiari della borsa di studio per l’edizione della Biennale College Arte 2024. Quest’opera è fuori concorso.

Dust as an Accidental Gift, 2023 Veduta dell’installazione, Sharjah Architecture Triennial 2023, Al Qasimiya School, Sharja, Emirati Arabi Uniti. Photo Danko Stjepanovic. Courtesy Sharjah Architecture Triennial.

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Puppies Puppies

DALLAS, USA, 1989 VIVE A NEW YORK, USA

(Jade Guanaro Kuriki-Olivo) Puppies Puppies (Jade Guanaro Kuriki-Olivo) lavora tra scultura, installazione e performance art per trattare in modo incisivo tematiche personali e politiche. È conosciuta per le opere con le quali critica le modalità di produzione patriarcali e capitalistiche, servendosi di ready-made, oggetti di uso comune e durational performance che seguono le sue attività quotidiane, esse stesse una forma di resistenza e di sopravvivenza. I suoi lavori si confrontano con i simboli di identificazione e misidentificazione, visibilità e opacità, fisico e digitale, pubblico e privato, spesso sfumandone i confini, nel rifiuto di un pensiero binario. Con il suo modus operandi ricco di nuance e stratificazioni, l’artista

porta scompiglio in istituzioni, centri commerciali, gallerie e nel concetto stesso di identità e di origine culturale, spesso coinvolgendo dei collaboratori. A Sculpture for Trans Women… (2023) è una scultura di bronzo a grandezza naturale realizzata a partire da una scansione in 3D del corpo dell’artista. L’opera, che presenta l’incisione “WOMAN” – e che viene animata da performance durante tutta l’esposizione – intende sovvertire il potere dei monumenti rendendo visibile e celebrando la vita trans in un atto di protesta e di commemorazione. Electric Dress (Atsuko Tanaka) (2023) rende omaggio alle persone che nel 2016 sono state uccise nel corso della sparatoria avvenuta durante una “Notte

latina” al Pulse, un nightclub queer a Orlando, Florida. La scultura si riferisce a Electric Dress (1956) di Atsuko Tanaka, con luci LED che tremolano seguendo il battito del cuore e luci che alternano i colori dell’arcobaleno della bandiera del Pride. Le due sculture sono un tributo alla vita queer e trans per combattere l’oblio e l’invisibilità. L’opera di Puppies Puppies (Jade Guanaro Kuriki-Olivo) è esposta per la prima volta alla Biennale Arte. —Elena Ketelsen González

A sculpture for Trans Women. A sculpture for the Non-Binary Femmes A sculpture for Two-Spirit People. I am a woman. I don’t care what you think. (Transphobia is everywhere and everyone is susceptible to enacting it at any moment) (Unlearn the transphobia brewing within) I am a Trans Women. I am a Two-Spirit Person. I am a Woman. This is for my sisters and siblings everywhere. History erased many of us but we are still here. I will fight for our rights until the day I die. Exile me and I’ll keep fighting, 2022 Fusione in bronzo su una base in ottone inciso, 190 × 60 × 60 cm. Photo Vincent Blebois. Courtesy l’Artista; Galerie Balice Hertling; Galerie Barbara Weiss; Hannah Hoffman Gallery; Galerie Francesca Pia.

Electric Dress (Atsuko Tanaka), 2023 Abito a LED in tessuto e plastica, drappeggiato su manichino, 12 batterie agli ioni di litio in custodie in tasche di tessuto, scheda micro SD programmata con Madrix, 81 × 66 × 63 cm. Photo Cedric Mussano. Courtesy l’Artista; Galerie Francesca Pia, Zurigo.

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Agnes Questionmark

Agnes Questionmark è un’artista che si divide tra performance, scultura, video e installazione. Esplorando i confini del sé, la pratica di Questionmark si addentra negli esperimenti genetici, nelle operazioni chirurgiche e nei processi riproduttivi artificiali con cui l’identità viene sconvolta. Costringendo il proprio corpo e il pubblico all’interno di spazi in cui l’umanità non riesce ad affermare le proprie istanze normative, Questionmark scardina le implicazioni biopolitiche dei corpi transgender e trans-specie in un mondo dominato dall’essere umano. Le recenti performance di lunga durata, presentate in spazi pubblici come strade e stazioni ferroviarie, così come i suoi testi, sono parte integrante della sua pratica artistica, che sta ottenendo ampia visibilità.

ROMA, ITALIA, 1995 VIVE A ROMA E NEW YORK, USA

Cyber-Teratology Operation (2024) mette in primo piano un corpo trans (trans-specie, transgender, transumano) all’interno di una sala operatoria dove ogni persona è sorvegliata. Mentre il pubblico osserva i movimenti al suo interno, l’occhio del soggetto è anche uno schermo di monitoraggio, in cui il sé e il dispositivo diventano tutt’uno. Il lavoro di Questionmark affronta il corpo transgender come un corpo spesso patologizzato, meccanizzato e ospedalizzato, facendo luce sulla biopolitica patriarcale in gioco nell’ambito della scienza e della sanità. L’installazione solleva il problema delle nozioni di artificialità percepita o presunta per i corpi trans da parte della società normativa e celebra il potenziale emancipatorio di un corpo in trasformazione che sfida la tassonomia attraverso il suo stesso processo rivendicato del divenire. Solleva domande sull’insistenza, ancora attuale, nel collegare il genere con la riproduzione, e muove guerra al controllo scientifico esercitato sui corpi che stanno affrontando i propri processi di deterritorializzazione. CyberTeratology Operation oscilla tra realtà, fantasia e mondi più che umani, incubando futuri e nuovi neuroni resi possibili se sogniamo e ci fondiamo in altro modo. L’opera di Agnes Questionmark è esposta per la prima volta alla Biennale Arte. —Kostas Stasinopoulos

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Agnes Questionmark è tra i quattro beneficiari della borsa di studio per l’edizione della Biennale College Arte 2024. Quest’opera è fuori concorso.

Cyber-Teratology Operation, 2024 Scultura in silicio, metallo e resina con schermo video, 180 × 190 × 270 cm. Courtesy l’Artista.

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Violeta Quispe

LIMA, PERÙ, 1989 VIVE A LIMA

Violeta Quispe è un’artista e attivista legata alle tradizioni andine della cultura quechua della regione di Ayacucho, in Perù. È cresciuta immersa nella produzione artistica locale, tra cui le Tablas de Sarhua, dipinti su legno – raffiguranti le usanze, i rituali, le festività e le credenze della suddetta comunità – che vengono tramandati di generazione in generazione. Generalmente realizzate dagli uomini, che le offrivano in dono alle nuove famiglie, nell’opera di Quispe acquistano altri significati recuperando l’artigianato femminile e trasformandolo in uno strumento per combattere la violenza di genere. Dal 2018, l’artista si concentra su rappresentazioni che reimmaginano la figura dell’Ekeko andino, una divinità maschile associata alla prosperità e all’abbondanza, spesso raffigurata come un mercante che trasporta diversi oggetti, alcuni simbolicamente legati alla virilità, come il toro e il drago. Sfidando le credenze locali che equiparano la presenza femminile alla sfortuna, Quispe sovverte il genere dell’Ekeko, creando Ekekas ed Ekekes.

Le lettere finali “e” e “x” nel nome Ekeke Sarhuinx sottolineano l’aspetto neutro rispetto al genere della figura di Sarhuina, che combina elementi maschili, come il poncho, il sigaro e i baffi, con gonne e sandali tipicamente femminili. Il megafono, la maschera antigas e il guantone da boxe con la frase “lotta costante” denotano il suo attivismo politico, mentre il pallone e la macchinina – giocattoli solitamente associati ai maschi – interrogano le convenzioni di genere. Allo stesso modo, bandiere, libri e slogan difendono la libertà sessuale e i diritti LGBTQIA+. Il “vino sangue di Cristo” è una critica al conservatorismo cristiano e la bibita “HincaCola” denuncia l’imperialismo culturale. Quispe incorpora anche riferimenti alla cultura andina, come i colori al neon della street art Chicha, i diversi tipi di mais, la foglia di coca e gli strumenti musicali come il flauto di Pan. Nella parte inferiore sono raffigurate le divinità del sole e della luna, accompagnate dalla frase “Kuyaykusqay Kuyaykusqaymi”, che in quechua significa “l’amore è amore”. L’opera di Violeta Quispe è esposta per la prima volta alla Biennale Arte. —Matheus de Andrade

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Ekeke, 2021 Policromia, terra, pigmento naturale su MDF, 60 × 35 cm. Courtesy _VIGILGONZALES.

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349 NUCLEO CONTEMPORANEO El matrimonio de la chola, 2022 Policromia mista, pigmento naturale con applicazione di foglia d’oro su MDF, 150 × 170 cm. Courtesy Collezione Jorge M. Pérez, Miami.

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Juana Marta Rodas

Juana Marta Rodas – nata in un villaggio contadino – è stata iniziata all’arte della ceramica dalla nonna Maria Balbina Cuevas, seguendo un’usanza popolare paraguaiana di trasmissione di saperi tra madri e figlie. Questa tradizione trae origine dalla cultura indigena preispanica, attraversa la storia coloniale e conduce in uno spazio segnato da diverse sfide culturali. Le sue ceramiche costituiscono un pregevole caso di appropriazione transculturale di grande interesse sia per la teoria sia per le pratiche artistiche latinoamericane contemporanee. Il lavoro di Rodas è stato presentato in mostre e biennali in Paraguay, Brasile, Spagna e Francia e ha ricevuto il Premio de la ciudad de Madrid, Spagna (1998) e il Premio Prince Claus, Amsterdam, Paesi Bassi (1999). La ceramica, una delle più significative manifestazioni dell’arte popolare in Paraguay, prosegue una tradizione millenaria che resiste alle

ITÁ, PARAGUAY, 1925 – 2003

continue sfide poste – o imposte – da colonizzazione, modernità e globalizzazione. A questa tradizione Juana Marta Rodas imprime audacemente una brusca svolta, sovvertendone le forme e i temi e sviluppando uno stile singolare, che si rifà alle sue origini guaraní ed esprime una sensibilità unica influenzata dall’arte contemporanea. Le antiche brocche, i vasi e le fontane di origine mestizoindigena si trasformano, incorporano forme zoomorfe e antropomorfe e assumono fantasiose protuberanze e concavità. Le figure di Rodas qui presentate rifiutano le grandi dimensioni dei vasi convenzionali; l’artista crea invece un bestiario di animali immaginari ed esseri ibridi, guidata da un’immaginazione libera da qualsiasi dipendenza dalla rappresentazione naturalistica. L’opera di Juana Marta Rodas è esposta per la prima volta alla Biennale Arte. —Ticio Escobar

Untitled, 1993 ca. Ceramica modellata e ingobbio rosso, 10 × ø 11 cm. Collezione del Centro de Artes Visuales/Museo del Barro (CAV/MdB) - Fundación Carlos Colombino Lailla (FCCL). The Musicians (serie), 1993 ca. Ceramica modellata e ingobbio rosso, 12,5 × 8,5 × 14 cm. Collezione del Centro de Artes Visuales/Museo del Barro (CAV/MdB) - Fundación Carlos Colombino Lailla (FCCL).

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351 Untitled, 1993 ca. Ceramica modellata, 18,5 × ø 55 cm. Collezione del Centro de Artes Visuales/ Museo del Barro (CAV/MdB) - Fundación Carlos Colombino Lailla (FCCL).

NUCLEO CONTEMPORANEO

Untitled, 1993 ca. Ceramica modellata e ingobbio rosso, 11 × 19 cm. Collezione del Centro de Artes Visuales/ Museo del Barro (CAV/MdB) - Fundación Carlos Colombino Lailla (FCCL).

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Abel Rodríguez

Abel Rodríguez nasce con il nome di Mogaje Guihu nel Dipartimento di Putumayo in Colombia e si forma come esperto botanico fra i Nonuya, uno dei numerosi gruppi etnici dell’Amazzonia. Il suo incarico di “battezzatore di piante” (esperto della flora della foresta pluviale tropicale) e la sua profonda conoscenza delle proprietà curative di una grande varietà di specie attirano l’attenzione della comunità scientifica internazionale. Nel tentativo di sistematizzare e documentare la sua vasta conoscenza – e dato che fra i popoli indigeni le informazioni vengono trasmesse oralmente e visivamente – l’artista ricorre allo strumento del disegno, che diventa rapidamente un dispositivo per registrare e rappresentare l’ambiente amazzonico e la sua ricca

complessità naturale. Rodríguez è oggi ritenuto uno dei maggiori artisti indigeni e uno dei maggiori esperti di piante dell’Amazzonia. Le opere esposte alla Biennale sono rappresentative della produzione recente di Rodríguez. Sin título (2023) è tratta da una serie che si concentra sull’esplorazione tassonomica delle varietà degli alberi amazzonici, catturandone le qualità distintive quali colore, forma delle foglie, consistenza del tronco e architettura generale della pianta. Queste meticolose raffigurazioni riflettono le caratteristiche reali degli esemplari e non sono soltanto efficaci riproduzioni artistiche, ma anche rappresentazioni scientificamente accurate della biodiversità amazzonica.

CAHUINARÍ, COLOMBIA, 1944 – VIVE A BOGOTÁ, COLOMBIA

Centro el terreno que nunca se inunda (2022), una sezione della foresta pluviale amazzonica presentata in prospettiva bidimensionale, è una composizione in cui diverse specie di flora coesistono con animali ed elementi del paesaggio. L’opera racconta il modo in cui alberi e piante – in cui l’artista è specializzato – si intrecciano dal punto di vista biologico e cosmologico nella concezione di natura e vita dei Nonuya e di altri gruppi indigeni; nella loro visione del mondo, un punto di vista non può esistere senza l’altro. L’opera di Abel Rodríguez è esposta per la prima volta alla Biennale Arte. —Emiliano Valdés

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353 NUCLEO CONTEMPORANEO Sin título, 2023 Inchiostro su carta, 30 × 20 cm (ciascuna). Photo Ana María Balaguera. Courtesy l’Artista; Instituto de Visión.

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STRANIERI OVUNQUE

Centro el terreno que no se inunda, 2022 Inchiostro su carta, 70 × 100 cm. Photo Nicole López. Courtesy l’Artista; Instituto de Visión.

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Aydeé Rodríguez López

Aydeé Rodríguez López è un’artista afro-messicana autodidatta impegnata a rendere visibili la storia e le voci delle comunità nere in Messico. Cresciuta in una famiglia di contadini, si trasferisce a Città del Messico in giovane età. A trentotto anni inizia il suo percorso nella pittura con un ritratto della nonna. Da allora, Rodríguez López richiama l’attenzione sulla storia, la cultura e le credenze delle popolazioni afrodiscendenti. Nati dalla volontà di combattere il razzismo, i suoi dipinti affrontano questioni di violenza razziale, argomenti ufficialmente riconosciuti nel suo paese solo in questi due ultimi decenni. Ricche di dettagli intricati e narrazioni avvincenti, le sue opere approfondiscono gli eventi storici e le loro ripercussioni sulla società contemporanea. Alcune sono un atto d’accusa, mentre altre ritraggono visioni utopiche di un futuro definito da giustizia e libertà.

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Ex hacienda de Guadalupe Collantes (2014) raffigura il sistema di piantagione con le varie fasi dell’industria del cotone, simboleggiando così il sistema coloniale di schiavitù in Messico. Situata nello stato di Oaxaca, questa hacienda ha avuto un ruolo significativo nella storia della madre, della nonna e dei bisnonni di Rodríguez López. Dopo la morte della nonna, l’artista ha intrapreso una ricerca per scoprire le proprie radici e la propria ascendenza nera. L’opera costituisce un importante contributo al riconoscimento delle persone nere in Messico, delle loro lotte, della loro visibilità e della loro libertà, tutti temi affrontati nitidamente nel corpus di opere di Rodríguez López. El Negro Yanga (2011) rende omaggio a Gaspar Yanga, uno dei primi

CUAJINICUILAPA, MESSICO, 1955 – VIVE A CUAJINICUILAPA

liberatori nelle Americhe, che guidò ribellioni nel Messico coloniale e fondò, intorno al 1618, l’insediamento africano libero di San Lorenzo de los Negros. Migración (2018) porta l’attenzione sul confine tra Messico e Stati Uniti, mettendo a confronto le restrizioni alla circolazione umana e la libera migrazione degli uccelli e delle farfalle monarca sul continente. L’opera di Aydeé Rodríguez López è esposta per la prima volta alla Biennale Arte. —Eva Posas

Ex hacienda de Guadalupe Collantes, 2014 Olio su tela, montato su telaio in legno di pioppo tinto e intagliato a mano, 171,5 × 221 cm. Photo Ramiro Chaves. Courtesy Proyectos Monclova. El Negro Yanga, 2011 Olio su tela, montato su telaio in legno di pioppo tinto e intagliato a mano, 117 × 135,5 cm. Photo Ramiro Chaves. Courtesy Proyectos Monclova.

Migración, 2018 Olio su tela, montato su telaio in legno di pioppo tinto e intagliato a mano, 110 × 153,5 cm. Photo Ramiro Chaves. Courtesy Proyectos Monclova.

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Miguel Ángel Rojas

Dalla metà degli anni Sessanta del XX secolo, Miguel Ángel Rojas lavora con vari linguaggi, quali disegno, incisione, ricamo e videoarte. La sua opera affronta diverse tematiche, tra cui l’omosessualità e il conflitto armato interno in Colombia, concentrandosi in particolare sull’esplorazione delle varie sfaccettature dell’esperienza e sul corpo maschile. Le sue foto in bianco e nero degli anni Settanta trattano la discriminazione e altre tematiche sociali legate al corpo e all’esperienza personale, mettono in mostra inoltre pratiche nascoste dell’intimità queer e incontri clandestini a Bogotá. Anche la politica nazionale e la geopolitica sono narrate con un occhio di riguardo per l’esperienza, come nel ritratto di soldati feriti e di tossicodipendenti attraverso video e fotografie che sottolineano la bellezza

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maschile. L’artista inserisce foglie di coca, oro e terra per formare grandi composizioni che vanno osservate da diverse angolazioni. Quando sono esposti, il peso economico, ambientale e umano di questi materiali viene trasmesso attraverso complesse esperienze di visione. Analogamente ad altre serie fotografiche di quel periodo, El Emperador (1973-1980) prende il nome da un cinema della capitale colombiana che negli anni Settanta era usato come punto di ritrovo per incontri sessuali illegali tra uomini. Nelle stampe in bianco e nero vediamo il contorno delle parti del corpo contro un muro rivestito di mattonelle. Le fotografie di El Negro (1979) inquadrano in un cerchio l’immagine sfocata di un uomo. Sono state scattate da un foro nella porta del bagno del Teatro Mogador, un altro cinema nel

BOGOTÁ, COLOMBIA, 1946 VIVE A BOGOTÁ

centro di Bogotá in cui avevano luogo incontri intimi. Il tipo di ambientazione impedisce a Rojas di catturare il corpo intero, generando così ritratti anonimizzati che mettono l’osservatore nella posizione di voyeur. Il titolo della serie indica l’origine africana del soggetto ed evidenzia l’interesse di Rojas nel mostrare frequentatori appartenenti a diverse sfere sociali. Il modo accurato con cui tratta luci e ombre sottolinea la relazione ambivalente tra segretezza ed esibizione. L’opera di Miguel Ángel Rojas è esposta per la prima volta alla Biennale Arte. —Sebastián Eduardo

El Negro, 1979 4 stampe vintage alla gelatina d’argento, 20,3 × 25,4 cm. Photo Miguel Ángel Rojas. Courtesy l’Artista; Sicardi Ayers Bacino, Houston, USA. © Miguel Ángel Rojas 2023.

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Erica Rutherford

Artista, attrice, regista, contadina, insegnante e scrittrice, il percorso incredibilmente multidisciplinare di Erica Rutherford la conduce in numerosi paesi e continenti, tra cui la Gran Bretagna, gli Stati Uniti, la Spagna, il Sudafrica e, infine, il Canada. Nata nel 1923, l’artista si sottopone a un intervento chirurgico per l’affermazione del genere nel 1976, a cinquantatré anni. La sua lotta, durata tutta la vita, con quella che descrive come “disforia di genere” è documentata nell’autobiografia Nine Lives. The Autobiography of Erica Rutherford (1993). Membro della Canadian Royal Academy of Arts, Rutherford continua a dipingere fino a oltre i suoi ottant’anni e le sue opere vengono esposte in numerose importanti gallerie in Europa e Nordamerica. Muore nel 2008, a ottantacinque anni, a Charlottetown, Isola del Principe Edoardo, dove lascia un segno indelebile sulla comunità artistica locale.

EDIMBURGO, REGNO UNITO, 1923 – 2008, CHARLOTTETOWN, CANADA

Mentre affronta la transizione, negli anni Settanta, Rutherford inizia le sperimentazioni con l’autoritratto. Molte delle opere qui esposte sono autoritratti dipinti basati su fotografie dell’artista. In tutti, le figure sono senza volto – il viso è appiattito e privo di ogni connotato – e rappresentate in una serie di pose rigide. Le tonalità monocromatiche e brillanti sono un’altra caratteristica comune a queste opere, insieme alle strisce di colore che incorniciano le figure anonime. In un’ovvia affinità con la Pop Art, lo stile di Rutherford amplia la critica del fenomeno dei mass media per aggiungervi una complessa riflessione su costruzione di genere e agentività. Lo scrittore Jay Prosser descrive gli autoritratti dell’artista come opere “che immaginano la donna che Rutherford desidera diventare e durante la sua transizione si trasformano gradualmente in una registrazione di quel divenire... l’autoritratto dipinto appare come un modello per il corpo transessuale che verrà”. L’opera di Erica Rutherford è esposta per la prima volta alla Biennale Arte. —Marko Ilic

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The Diver, 1968 Acrilico su tela, 172,6 × 121,6 cm. Courtesy Richard Saltoun Gallery, Londra e Roma. © The Estate of Erica Rutherford.

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The Coat (The Mirror), 1970 Acrilico su tela, 122 × 127,2 cm. Courtesy Richard Saltoun Gallery, Londra e Roma. © The Estate of Erica Rutherford.

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Self-Portrait with Red Boots, 1974 Acrilico su tela, 137,2 × 132,1 cm. Courtesy of the Collection of Beth Rudin DeWoody. © The Estate of Erica Rutherford.

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Dean Sameshima

LOS ANGELES, USA, 1971 VIVE A BERLINO, GERMANIA

Anonymous Homosexual, 2020 Acrilico su tela, 30 × 40 cm. Courtesy l’Artista; Kristina Kite Gallery, Los Angeles; Soft Opening, Londra.

Il lavoro di Dean Sameshima si pone in equilibrio tra una malinconica posizione psicosociale e la nostalgia presente negli spazi che indaga attraverso la fotografia. In veste di documentarista, come si autodefinisce, Sameshima esplora le sfumature della cultura gay del passato per raccontare anche la propria esperienza di persona gay che cresce nella Los Angeles degli anni Novanta. Nato a Torrance, frequenta il CalArts e in seguito l’ArtCenter College of Design, dove si concentra sulla fotografia e consegue il proprio MFA. Il senso attivo del “guardare” lo porta a lavorare nelle librerie, dove impara a conoscere fotografi come Bruce Weber e Larry Clark. Questo “guardare” critico lo porta poi a consultare le pagine gialle alla ricerca di uomini,

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nonché di un senso di sé e di comunità gay. Gli spazi pubblici gli permettono di comprendere a fondo che cosa significhi essere un uomo asiatico gay a Los Angeles, tra altri gay. Ora risiede a Berlino e opera tra le due città. In sintonia con lo spazio e il gesto queer, Sameshima documenta le sale cinematografiche per adulti di Berlino per creare la serie del 2022 being alone, in cui fotografa di nascosto figure solitarie. Mentre fissano gli schermi, gli spettatori rivolgono lo sguardo anche verso un orizzonte di (im)possibilità. Qui Sameshima sfrutta la fotografia in modo tale da integrare un linguaggio di desiderio e piacere in un tempo che fu, suggerendone allo stesso tempo il ritorno. Oscillando tra

più spettatori, l’artista rivela le sfumature del cruising e l’azione continua del “guardare”. Che si tratti di pagine gialle, librerie o sale cinematografiche, Sameshima ci ricorda che questi spazi di svago e piacere possono farci sentire soli e insieme, rendendoci allo stesso tempo anonimi. L’opera di Dean Sameshima è esposta per la prima volta alla Biennale Arte. —Xavier Robles Armas

being alone (no.5), 2022 Stamp d’archivio a a getto d’inchiostro su carta Hahnemühle Photo Rag, 59,4 × 42 cm. Courtesy l’Artista; Kristina Kite Gallery, Los Angeles; Soft Opening, Londra. being alone(no.12), 2022 Stampa d’archivio a getto d’inchiostro su carta Hahnemühle Photo Rag, 59,4 × 42 cm. Courtesy l’Artista; Kristina Kite Gallery, Los Angeles; Soft Opening, Londra. being alone (no.15), 2022 Stampa d’archivio a getto d’inchiostro su carta Hahnemühle Photo Rag, 59,4 × 42 cm. Courtesy l’Artista; Kristina Kite Gallery, Los Angeles; Soft Opening, Londra. being alone (no.17), 2022 Stampa d’archivio a getto d’inchiostro su carta Hahnemühle Photo Rag, 59,4 × 42 cm. Courtesy l’Artista; Kristina Kite Gallery, Los Angeles; Soft Opening, Londra.

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Bárbara Sánchez-Kane

Bárbara Sánchez-Kane decostruisce e disseziona le idee di mascolinità attraverso la moda, la performance, la scultura e la pittura. Dopo un periodo trascorso in Italia a studiare modellistica sartoriale, con particolare attenzione al vestiario maschile, il suo lavoro è in gran parte informato dalla storia dell’abbigliamento, per lei “strumento usato per rappresentare identità e incarnare ideologie su base quotidiana”. Presentando spesso il proprio lavoro tramite epiche passerelle performative, Sánchez-Kane utilizza il comune linguaggio e contesto dell’industria della moda per esplorare, con ampie ambizioni multidisciplinari, i tropi ricorrenti di identità mutevoli. Scegliendo di alternare i pronomi, l’artista utilizza il concetto di “macho sentimentale” per descrivere il proprio lavoro come persona in contatto con la mascolinità e la femminilità. In Prêt-à-Patria (2021), Sánchez-Kane disegna e crea una nuova uniforme militare e orchestra una performance che dà vita a un’installazione video e scultorea. Prendendo

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MÉRIDA, MESSICO, 1987 VIVE A CITTÀ DEL MESSICO, MESSICO

il titolo dal termine francese prêt-à-porter, e inserendo il concetto in lingua spagnola di patria, l’opera altera l’immagine militare, dello Stato per commentare i proposti simboli egemonici di mascolinità e potere. Basata sul rituale della milizia di salvaguardare e onorare la bandiera nazionale, noto in Messico come Escolta de Bandera (scorta della bandiera), la performance presenta un gruppo di uomini che praticano questa cerimonia indossando la versione di Sánchez-Kane dell’uniforme militare con la schiena aperta che espone lingerie di pizzo. Accostando indumenti maschili e femminili sul corpo dei militari, Prêt-à-Patria si propone come approccio salace e sardonico al nazionalismo messicano, alla devozione allo Stato e al suo violento indottrinamento delle identità. L’opera di Bárbara SánchezKane è esposta per la prima volta alla Biennale Arte. —José Esparza Chong Cuy

Prêt-à-Patria, 2021 Fibra di vetro, resina, struttura in acciaio e poliestere, 560 × 63 × 170 cm. Photo Gerardo Landa / Eduardo López (GLR Estudio). Courtesy l’Artista; Kurimanzutto, Città del Messico / New York.

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Greta Schödl

Greta Schödl è una poetessa visiva diplomata all’Accademia di Arti Applicate di Vienna nel 1953. Nel 1959 si trasferisce a Bologna e interrompe per un breve periodo la propria attività artistica per dedicarsi alla famiglia, per poi riprenderla a metà degli anni Sessanta. A partire dagli anni Cinquanta le sue opere – dai libri a collage alle installazioni di grandi dimensioni – sono esposte a livello internazionale. Alla fine degli anni Settanta inizia a sperimentare gli effetti della ripetizione di linee sulla pagina, prima di passare alle parole. L’artista combina questi segni con oggetti trovati – libri di preghiere, camicie, piante e mappe – che vengono utilizzati come supporto fisico per la sua scrittura. È stata inclusa nella mostra Materializzazione del linguaggio curata da Mirella Bentivoglio per la Biennale (1978), che riuniva il lavoro di artiste la cui pratica esplorava il rapporto tra corpo, identità e linguaggio, temi che continuano a informare la pratica di Schödl.

HOLLABRUNN, AUSTRIA, 1929 VIVE A BOLOGNA, ITALIA

La recente serie Scritture, che comprende Piccolo marmo rosato (2020), Granito rosso Serra Chica (2020) e Marmo basso calcareo (2023), è caratteristica del pluriennale approccio al lavoro di Schödl. La scrittura ricopre interamente le facce piane o curve degli oggetti, dando forma alle sue parole. Su queste pietre, scelte per la loro qualità tattile, Schödl ripete, scritte a mano, le parole “marmo”, “granito” o “quarzite” distinguendo così la loro composizione materiale. Isola poi una lettera della parola (“o” o “q” in questi casi), sulla quale viene apposta la foglia d’oro. I riflessi dorati appaiono come linee delicate che percorrono la pietra e creano un ritmo sulla superficie, trasformando la scrittura in un disegno astratto. Queste linee sono descritte dall’artista come “vibrazioni” che registrano le variazioni della scrittura e l’esperienza o il processo di creazione dell’artista. —Teresa Kittler

Untitled - Scritture series, 2020 Inchiostro e foglia d’oro su quarzite, 13,5 × ø 8,5 cm. Courtesy l’Artista. © Greta Schödl. Marmo travertino piccolo, 2023 Inchiostro e foglia d’oro su travertino, 14,5 × 8,5 × 3 cm. Photo Letizia Rostagno. Courtesy l’Artista. © Greta Schödl.

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Untitled, 1980 ca. Olio, inchiostro e foglia d’oro su tela francese, 185 × 102 cm. Courtesy l’Artista. © Greta Schödl.

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Ana Segovia

Il lavoro di Ana Segovia sfida le narrazioni dominanti della mascolinità, in particolare quelle propagate attraverso la perenne influenza dell’industria cinematografica e la persistente metafora western. Nei suoi dipinti, Segovia sembra rallentare e mettere in pausa la pellicola cinematografica, per trasformarla in vibranti fotogrammi che evidenziano e inquadrano la natura performativa dei ruoli di genere. Caratterizzata da una rappresentazione romantica e ipermascolina dei suoi protagonisti, l’età dell’oro del cinema messicano si trasforma in ricca fonte di ispirazione per l’artista la quale, invece di perpetuarne gli stereotipi, crea un nuovo discorso visivo che consente un’esplorazione più sfumata dell’identità. Attraverso la deliberata alterazione di questi fotogrammi cinematografici, Segovia non solo critica le rappresentazioni storiche, ma invita anche a una profonda riflessione sulla fluidità della mascolinità.

CITTÀ DEL MESSICO, MESSICO, 1991 VIVE A CITTÀ DEL MESSICO

In Pos’ se acabó este cantar (2021), accanto a una coppia di dipinti che rappresentano il suo stile eterogeneo, l’artista presenta anche il suo primo filmato, dando vita e movimento alle proprie scene fluorescenti. Con due charros (cowboy messicani) che indossano abiti tradizionali dalle tonalità alterate, il primo piano è organizzato quasi come un provino, rivelando un certo omoerotismo tra gli attori e invitando gli spettatori a riesaminare le dinamiche all’interno degli ambienti maschili. Il charro, qui interpretato dall’artista, è uno stereotipo ricorrente nella cultura messicana ed è particolarmente associato alla figura proto-maschile. Dopo numerosi rifiuti da parte di molti sarti, a causa di quelli che con sprezzo definivano tessuti da “finocchio”, gli abiti che compaiono nel film sono stati creati dal nipote charro del sarto di Jorge Negrete, iconica star del cinema messicano dell’età d’oro che tuttora incarna l’idea di mascolinità nel paese. L’opera di Ana Segovia è esposta per la prima volta alla Biennale Arte. —José Esparza Chong Cuy

Charro Azul, 2023 Olio su tela, 185 × 130 cm. Collezione privata. Courtesy l’Artista; Odette Peralta.

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Aunque Me Espine la Mano - Veduta dell’installazione alla mostra “Pos’ se acabó este cantar” , 2020 Video, 5’ 35”. Courtesy l’Artista; Odette Peralta.

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Vámonos con Pancho Villa!, 2020 Olio su tela, 210 × 240 cm. Collezione privata. Courtesy l’Artista; Odette Peralta.

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Joshua Serafin

Joshua Serafin è un artista multidisciplinare nato a Bacolod, nelle Filippine. Si è formato presso la Philippine High School for the Arts, la Hong Kong Academy for Performing Arts, la P.A.R.T.S. School for Contemporary Dance e l’Academie voor Beeldende Kunst di Gand, in Belgio. Attualmente vive a Bruxelles ed è artista in residenza presso il Viernulvier Ghent (2023-2027). La sua pratica ricopre varie modalità – testo, arte visiva, video e suono, con un’attenzione particolare a danza e coreografia – e inserisce questi luoghi di creazione in metodologie queer e trans tratte dall’interno del mito tropicale. Essi sono inoltre ispirati dal lavoro onirico di una cosmopoli non binaria, popolata da figure emancipate dal genere coloniale e incarnate a turno in diversi stati di solennità e di gioco. Le performance di Joshua, acclamate in tutto il mondo, sono dedicate all’abitare all’interno di spazi interstiziali, rifiutando deliberatamente di partecipare a strutture dimorfiche in modo da poter creare un idioma da cui parlare dalla detta “in-betweenness”.

BACOLOD, FILIPPINE, 1995 VIVE A BRUXELLES, BELGIO

La calma evocata in VOID (2022-in corso) non è il vuoto, ma un intervallo di tempo basato sul possibile, realizzato attraverso una divinità non binaria che immagina un mondo nuovo e lo mette in atto attraverso gesto, espressività e movimento. La visione tropicale e futurista del corpo bruno nello spazio primordiale di VOID infrange i concetti del patriarcato imperiale non solo di potere e bellezza, ma anche di esistenza e della stessa esperienza. Attingendo ai miti che raccontano la creazione dell’arcipelago filippino attraverso performance queer e trans, VOID immagina un futuro che evoca incarnazioni di una specie non binaria nel regno della diversità di genere. Questa visione è prefigurata da un dio non binario che danza in uno spazio in continua evoluzione. Al limite della cancellazione e dell’écriture, Serafin presenta un’allegoria dell’assenza per proporre risonanze di una certa ri-presenza. Il vuoto è quel momento generativo in cui l’essere si trasfigura come élan vital del divenire-aperto, un paradosso volutamente abbracciato solo dal postumano queer che è anche umanamente trans-divino. L’opera di Joshua Serafin è esposta per la prima volta alla Biennale Arte. —Jaya Jacobo

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VOID, 2022 Video performance. Photo Joshua Serafin. Courtesy l’Artista.

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Kang Seung Lee

Kang Seung Lee tratta diversi linguaggi artistici, fra cui il disegno, il ricamo, l’installazione e l’appropriazione di materiali e oggetti organici. Il suo lavoro implica lunghi periodi di ricerca, non solo a fine documentario ma anche con l’integrazione di elementi immaginifici. Ha conseguito un MFA in arti visive presso il California Institute of the Arts negli Stati Uniti, dove l’interesse per i vari periodi storici l’ha spinto a creare ambienti che invitano il pubblico a un’osservazione dettagliata. Si interessa in particolare agli artisti asiatici e a quelli delle molte diaspore asiatiche negli Stati Uniti, nonché agli artisti queer, spesso messi in ombra dalle storie dell’arte predominanti.

insieme ad altri artisti deceduti a causa di complicazioni dovute all’AIDS. Nell’ambiente creato dall’artista, lo spettatore è in grado di riconfigurare le narrazioni queer in modo transnazionale e transstorico. Disegni, ricami con linee placcate oro a 24 carati, oggetti appesi al soffitto e altri elementi installati alle pareti permettono a chi osserva di attraversare narrazioni che rendono omaggio, in modo anti-monumentale, a personaggi fondamentali per la cultura queer. Com’è possibile ritrovare la storia micro e quella macro all’interno di una stessa installazione? Lee preferisce una visione pluralistica della storia a una narrazione enciclopedica.

L’opera di Lee è un’installazione basata sulle molteplici possibilità narrative e iconografiche di figure artistiche come Goh Choo San, Tseng Kwong Chi, Martin Wong, José Leonilson e Joon-soo Oh,

L’opera di Kang Seung Lee è esposta per la prima volta alla Biennale Arte.

SEOUL, COREA, 1978 VIVE A LOS ANGELES, USA

Untitled (Lazaro, José Leonilson 1993), 2023 Grafite, filo d’oro antico 24K, Sambe, perle, ago da piercing, foglia d’oro 24K, chiodi in ottone su pergamena di pelle di capra, 137,2 × 82,5 cm. Photo Paul Salveson. Courtesy l’Artista e Commonwealth and Council, Los Angeles, Città del Messico. © Lee Kang Seung. Lazarus, 2023 Filo d’oro antico 24 carati su Sambe, legno, 62,2 × 35,6 cm ciscuno (dimensioni complessive variabili). Photo Paul Salveson. Courtesy l’Artista e Commonwealth and Council, Los Angeles, Città del Messico. © Lee Kang Seung.

—Raphael Fonseca

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Yinka Shonibare

Yinka Shonibare, artista britannico-nigeriano di fama mondiale, supera l’artificiale concetto di cultura attraverso un corpus di opere acclamato a livello internazionale. Nato a Londra, cresciuto a Lagos, in Nigeria, e di nuovo trasferito a Londra, Shonibare utilizza pittura, scultura, fotografia, cinema e installazione per un’indagine critica su colonialismo, postcolonialismo e identità culturale nel contesto della globalizzazione. Il caratteristico uso di tessuti fantasia, importati in Africa con il commercio olandese, riflette una comprensione dei paradigmi culturali ricca di sfumature. La sua teatralità cattura l’attenzione e immerge gli spettatori in un mondo fantastico che sfida le norme e mette in discussione lo status quo. Riconoscendo nella percezione il ruolo centrale dell’identità, Shonibare affronta coraggiosamente la storica sottomissione subita dalle persone di origine africana in Europa e negli Stati Uniti. La serie Refugee Astronaut (2023) presenta un astronauta nomade a grandezza naturale ornato di tessuto “africano”, equipaggiato per affrontare crisi ecologiche e umanitarie.

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LONDRA, REGNO UNITO, 1962 VIVE A LONDRA

Portando con sé una rete colma di beni terreni, la figura simboleggia le sfide poste dal dislocamento. Nata dalla contemplazione dello spazio come potenziale rifugio, l’opera mette in guardia contro la negligenza ambientale e il capitalismo, contestando l’insostenibile ricerca di crescita perenne; sovverte inoltre le connotazioni coloniali, presentando un rifugiato astronauta in netto contrasto con l’istinto coloniale di conquistare il mondo. In tono cautelativo, Shonibare sottolinea che l’opera serve da monito, esortando a meditare sulle potenziali conseguenze dell’inazione riguardo all’innalzamento del livello delle acque e al conseguente spostamento delle persone. Per l’artista, la questione generale dell’umanità è incredibilmente varia e ribadisce che non esiste un unico modo di essere umani. —Sofía Shaula Reeser del Rio

Refugee Austronaut II, 2016 Manichino in fibra di vetro, tessuto di cotone stampato a cera olandese, rete, oggetti, casco da astronauta, stivali lunari e base in acciaio, 210 × 90 × 103 cm. Photo Stephen White & Co. Courtesy l’Artista e Goodman Gallery, Città del Capo, Johannesburg, Londra e New York, James Cohan Gallery, New York e Stephen Friedman Gallery, Londra e New York. © Yinka Shonibare.

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Leopold Strobl

Leopold Strobl, cresciuto in una regione rurale a nord di Vienna dove vive tuttora, disegna e dipinge fin dall’infanzia, senza mai aver seguito una preparazione formale. A partire dal primo decennio del XXI secolo è stato di tanto in tanto ospite dello studio dell’Art Brut Center Gugging, in Bassa Austria. Strobl ha sviluppato il suo stile distintivo e minimalista intorno al 2014, quando ha iniziato a rielaborare con matita e pastelli colorati piccole fotografie, ritagliate da giornali locali. Ogni mattina sceglie un’immagine e la modifica abilmente con radi e precisi interventi. Ne risultano paesaggi interiori che assomigliano a scene di un acquario, dove le persone e le tracce di civiltà sono state in gran parte cancellate, o meglio, coperte e avvolte da tratti di matita, trasformandosi in blocchi monolitici e forme simili a montagne. Nella misteriosa quiete di queste miniature si legge anche la precarietà del nostro tempo. Le opere di Leopold Strobl fanno parte, tra l’altro, della collezione del MoMA.

MISTELBACH, AUSTRIA, 1960 VIVE A MISTELBACH

Per quanto i suoi scenari possano sembrare onirici, sono generati da frammenti di realtà filtrata dai media. L’artista ne individua il potenziale trasformativo come grazie a una bacchetta da rabdomante, estraendolo a livello compositivo. Tinti di giallo e verde, delineati con pochi tratti, i paesaggi emergono in una spettrale monumentalità, mentre le persone e i loro feticci sono appena discernibili, come fantasmi sotto la rete disegnata su di loro. Sebbene il suo lavoro possa ricordare le sovrapitture di Arnulf Rainer e le strategie estetiche del collage, Strobl ha sviluppato il proprio stile senza alcun riferimento alla storia dell’arte. Le sue opere sono interessanti non solo per la loro natura diaristica, quasi rituale, ma anche per il loro orientamento coerente verso una prospettiva interna. I curvi bordi neri di ogni immagine assomigliano a orbite oculari che guardano verso un cielo enigmaticamente luminoso. A volte, quando la sovrapittura si solleva come una lava grigio scuro, di questo cielo rimane solo un sinuoso frammento. L’opera di Leopold Strobl è esposta per la prima volta alla Biennale Arte. —Gisela Steinlechner

Untitled, 2016 Matita, matite colorate su carta da giornale, montata su carta, 13,3 × 9,5 cm. Courtesy Galerie Gugging.

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Untitled, 2022 Matita, matite colorate su carta da giornale, montata su carta, 8,9 × 13,8 cm. Courtesy Galerie Gugging.

Untitled, 2022 Matita, matite colorate su carta da giornale, montata su carta, 7 × 9,3 cm. Courtesy Galerie Gugging.

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Superflex

Superflex è un collettivo artistico danese fondato da Bjørnstjerne Christiansen, Jakob Fenger e Rasmus Nielsen nel 1993, cresciuto da allora fino a includere a rotazione un crescente numero di collaboratori globali. Superflex si basa su un approccio flessibile e tenace alla creazione artistica con cui affronta temi quali la disuguaglianza economica, la sostenibilità ambientale e le strutture del potere politico. Rendendo spesso indistinti i confini tra artista, partecipante e spettatore, Superflex mette in atto un’ampia gamma di strategie per minare o aggirare i sistemi di sfruttamento. Uno di questi progetti è stato Free Beer (2004) che, insieme alla Copenhagen IT University, ha applicato i principi digitali dei metodi open-source alla birrificazione, creando una marca di birra libera da

copyright per aggirare i sistemi legali di regolamentazione. In quello che è diventato il suo tipico approccio alla risoluzione dei problemi, questo collettivo trova soluzioni intelligenti e innovative agli ostacoli materiali e ideologici per un futuro più sostenibile. Lo spazio pubblico costituisce spesso uno dei luoghi più fertili e provocatori in cui Superflex sfida le ideologie reazionarie. In quello che è forse l’uso più famoso dello spazio pubblico, Foreigners Please Don’t Leave Us Alone With The Danes! (2002), ha creato una serie di poster che prendevano in giro la retorica danese, più xenofoba nei confronti degli immigrati. Il manifesto allude umoristicamente al crescente pericolo che l’ideologia antiimmigrazione e nazionalista rappresenta non solo per gli immigrati, ma anche

FONDATO A COPENAGHEN, DANIMARCA, 1993 CON BASE A COPENAGHEN

per il tessuto morale di una maggioranza etnica all’interno di una nazione. Dall’iniziale uscita durante la presidenza danese dell’Unione Europea nel 2002, l’autoironico poster si è radicato nella politica danese, comparendo nei ristoranti, nei caffè e sui pali della luce ogniqualvolta che il sentimento anti-immigrati è in aumento. Negli ultimi due decenni, Superflex ha ristampato e ridistribuito il manifesto non solo come commento politico continuo, ma anche per sperimentare la circolazione pubblica di oggetti culturali.

Foreigners, Please Don’t Leave Us Alone With The Danes!, 2002 Poster. 70 × 50 cm. Photo SUPERFLEX. Courtesy gli Artisti. Foreigners, Please Don’t Leave Us Alone With The Danes!, 2002 Poster a Copenaghen. Photo SUPERFLEX. Courtesy gli Artisti

—William Hernandez Luege

Foreigners, Please Don’t Leave Us Alone With The Danes!, 2002 Poster.

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Maria Taniguchi

DUMAGUETE, FILIPPINE, 1981 VIVE A MANILA, FILIPPINE

Il vasto progetto pittorico di Maria Taniguchi, che copre oltre quindici anni, costituisce la base per i suoi grandi monocromi, apparentemente spenti. L’artista crea con grande precisione dipinti che richiedono un’ispezione ravvicinata per riuscire a distinguere le variazioni nella sua sottile resa di mattoni; opere che funzionano sia come dispositivi che come sistemi. A un attento esame, emergono accumuli di vernice, accenni di viola nelle profondità del nero, pennellate quasi invisibili e scintillanti linee di grafite. Il pubblico è invitato a impegnarsi in una lenta e metodica lettura, scoprendo sfumature che rivelano l’essenza stessa del processo pittorico come fenomeno intrinseco, una pratica strettamente legata al tempo, al lavoro e all’etica. Il repertorio artistico di Taniguchi comprende video, sculture e installazioni. La sua esplorazione del mattone come motivo – non nel senso di concetto astratto autonomo, ma come modo per identificare il dipinto come prassi – è iniziata durante gli studi del suo MFA alla Goldsmiths nel Regno Unito, dopo il diploma alla Philippine High School for the Arts.

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I tre dipinti presentati alla Biennale fanno parte del più ampio progetto di Taniguchi dedicato all’astrazione. Queste opere esistono in un regno ambiguo. Pur essendo superfici dipinte, una volta adagiate contro una parete assumono il peso di una scultura, creando volume in questa posizione solo appoggiata. Questo gesto intenzionale produce instabilità, costringe chi osserva a percepirle come immagine e oggetto, astrazione e rappresentazione, scultura e pittura. Taniguchi combatte le categorizzazioni e inserisce la figurazione in questo progetto cumulativo. La figura assente dell’artista diventa presente nel dipinto attraverso il lavoro, il tempo e la dimensione. L’opera di Maria Taniguchi è esposta per la prima volta alla Biennale Arte. —Joselina Cruz

Untitled, 2023 Acrilico su tela, 228,6 × 114,3 cm. Courtesy l’Artista; Silverlens, Manila / New York.

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Untitled, 2023 Acrilico su tela, 274,3 × 487,7 cm. Courtesy l’Artista; Silverlens, Manila / New York.

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Evelyn Taocheng Wang

Evelyn Taocheng Wang, originaria di Chengdu e attualmente residente a Rotterdam, opera con diverse tecniche e tradizioni pittoriche. Dapprima formatasi all’interno della pittura dei letterati dell’Asia orientale, nel 2006 si laurea presso il Dipartimento di Belle Arti dell’Università Normale di Nanchino. Mentre è ancora in Cina, Wang è esposta anche al Realismo Sociale e al Modernismo occidentale. Nel 2007, ottiene una residenza artistica in Germania che la porta a studiare alla Städelschule di Francoforte (2010-2012), per poi proseguire presso De Ateliers di Amsterdam (2012-2014). Il percorso transnazionale e nomade influenza la sua pratica, in cui temi legati a tradizioni culturali, multilinguismo, storia

dell’arte, identità, autenticità, genere e interazione delle immagini diventano oggetto di appropriazione, rielaborazione o narrazione romanzata. Caratteristica ricorrente del suo lavoro è il riferimento a figure femminili moderniste (Ingeborg Bachmann, Octavia Butler, Eileen Chang, Agnes Martin) che fungono da specchi o oggetti di scena per la queerizzazione delle storie di cui l’artista si appropria. La serie di dipinti Do Not Agree with Agnes Martin All the Time (2022-2023), nasce dalla lunga fascinazione per la pittrice americana di origine canadese, che Wang definisce “maestraeremita”, iniziata attraverso i cataloghi più che con i dipinti reali di Agnes Martin. Emigrata, figura centrale ma allo stesso tempo outsider dell’ambiente

CHENGDU, REPUBBLICA POPOLARE CINESE, 1981 VIVE A ROTTERDAM, PAESI BASSI

dell’arte minimalista e ispiratasi al pensiero dell’Asia orientale (taoismo e buddismo zen), la vita e l’opera di Martin raggruppano immagini con cui Wang si identifica e sulle quali si rifrange il proprio linguaggio. Per questa serie, Wang segue letteralmente le didascalie di alcuni dipinti di Martin. Sebbene parli indistintamente di “imitazione” e “appropriazione”, la lettura delle didascalie porta alla luce un elemento represso, ovvero la quantità di acqua utilizzata con la pittura. Se leggerezza e fluidità diventano rimandi alla tradizione cinese della pittura dei letterati, la allontanano anche dalla sua base confuciana-patriarcale, mentre l’inserimento di elementi figurativi all’interno della griglia modernista sembra canzonare le pretese universalistiche del Minimalismo.

L’opera di Evelyn Taocheng Wang è esposta per la prima volta alla Biennale Arte. —Adeena May

Three Stage of a Corn Life and Imitation of Agnes Martin - Do Not Agree with Agnes Martin All the Time series, 2023 Acrilico, gesso colorato, inchiostro di china, matita colorata, grafite su tela di lino, 185 × 185 × 2,5 cm. Photo Yan Tao. Courtesy l’Artista; Antenna Space, Shanghai; Carlos/Ishikawa, Londra; Galerie Fons Welters, Amsterdam; Kayokoyuki, Tokyo; e The Rockbund Art Museum (RAM), Shanghai. © Evelyn Taocheng Wang 2023.

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Soymilk and Imitation of Agnes Martin - Do Not Agree with Agnes Martin All the Time series, 2022 Inchiostro di china, colore acrilico, gesso colorato, matita colorata su tela di lino, 185 × 185 × 2 cm. Photo Yan Tao. Courtesy l’Artista; Antenna Space, Shanghai; Carlos/Ishikawa, Londra; Galerie Fons Welters, Amsterdam; Kayokoyuki, Tokyo; e The Rockbund Art Museum (RAM), Shanghai. © Evelyn Taocheng Wang 2024.

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Tangerines and Imitation of Agnes Martin - Do Not Agree with Agnes Martin All the Time series, 2022 Acrilico, grafite, matita colorata su tela di lino, 185 × 185 × 2 cm. Photo Aad Hoogendoorn. Courtesy l’Artista; Antenna Space, Shanghai; Carlos/ Ishikawa, Londra; Galerie Fons Welters, Amsterdam; Kayokoyuki, Tokyo. © Evelyn Taocheng Wang 2023.

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Mariana Telleria

RUFINO, ARGENTINA, 1979 VIVE A ROSARIO, ARGENTINA

Dios es inmigrante (God Is an Immigrant) - detail, 2017 Targa in bronzo, 1500 × 390 × 925 cm. Photo Ignacio Iasparra. Collezione Bienalsur; Collezione Jorge M. Pérez, Miami. Courtesy BIENALSUR, Muntref; Museo de la Inmigración, Buenos Aires, Argentina. © Mariana Telleria.

L’opera di Mariana Telleria scava nelle profondità del significato suscitato dagli oggetti, spesso manipolando prodotti di uso quotidiano (vecchie cornici di legno, rami, letti e crocifissi) e generando sincronicità tra entità disparate. La sua produzione si basa sull’ambiguità, evidente sia concettualmente sia materialmente, una versatilità che le permette di unire il misero oggetto a un’impeccabile maestria. Ad esempio, l’interno del tettuccio di un’automobile si trasforma in un soffitto dipinto in stile barocco, i tralicci si trasformano in crocifissi e persino la

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spazzatura può diventare un monumento. El nombre de un país ha rappresentato l’Argentina alla 58. Biennale di Venezia, nel 2019. La versione iniziale dell’opera Dios es inmigrante (God Is an Immigrant) (2017) è collocata nel giardino di quello che un tempo era un hotel/ ospedale, eretto nei dintorni del porto di Buenos Aires per assistere l’ingresso degli immigrati nel paese all’inizio del XX secolo (attualmente MUNTREF - Museo de la Inmigración). L’opera è composta da dieci alberi di barca a vela in alluminio

verniciato di nero, di dimensioni variabili. Le sartie in acciaio inox affondano in un mare sotterraneo e gli alberi delle barche si trasformano in croci evangelizzatrici. Una sontuosa targa in bronzo sottolinea il suo status di monumento di commemorazione nazionale, mentre il titolo dell’opera celebra il transito transnazionale. “I flussi migratori sono una delle forze che hanno plasmato il mondo”, osserva l’artista. —María Amalia García

Dios es inmigrante (God Is an Immigrant), 2017 10 alberi per barche a vela in alluminio, vernice epossidica nera, linee di controllo/cavi e tenditori in acciaio, targa in marmo e bronzo, 1500 × 390 × 925 cm. Photo Laura Glusman. Collezione Bienalsur; Collezione Jorge M. Pérez, Miami. Courtesy BIENALSUR, Muntref; Museo de la Inmigración, Buenos Aires, Argentina. © Mariana Telleria.

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Güneş Terkol

Artista residente a Istanbul, Güneş Terkol studia pittura e consegue la laurea al Dipartimento di Arte Multidisciplinare. Viene coinvolta in importanti mostre collettive e fa parte dei collettivi artistici HaZaVuZu e Alaca Heyheyler e suona con il gruppo GuGuOu. Utilizza vari linguaggi, ma negli ultimi diciassette anni si è concentrata soprattutto su narrazioni stratificate di ricami su tessuto, con personaggi che oscillano fra l’astratto e il figurativo. Per le sue opere trae ispirazione da quanto la circonda, dalle condizioni sociali, le relazioni, le immagini, la propria storia personale e i materiali che trova. Terkol impiega il cucito o il disegno direttamente sui tessuti per creare i

personaggi di un regno incerto, caratterizzato da confini labili che inducono l’osservatore a diventare narratore. L’artista si fa portatrice di uno spirito comunitario che va al di là dell’espressione individuale. I suoi striscioni collettivi presentati alla Biennale e prodotti in Turchia, Cina, Germania, Regno Unito, Italia, Austria, Francia e a Yogyakarta riuniscono a livello internazionale donne di diversa origine. Attraverso laboratori femministi, Terkol genera una piattaforma in cui le donne possono condividere le proprie esperienze e affrontare le sfide socioeconomiche mediante un processo concettuale collettivo. Nell’approfondire la narrazione e il contesto culturale di ogni donna, l’artista

ISTANBUL, TURCHIA, 1981 VIVE A ISTANBUL

progetta l’immagine di fondo dello striscione affinché possa offrire spazi di espressione alle storie individuali all’interno della narrazione collettiva. Questi banner di tessuto, con i loro racconti senza tempo, amplificano la voce delle donne e promuovono un profondo senso di comunità. Allo stesso tempo, la produzione artistica di Güneş Terkol subisce una trasformazione in ragione del processo partecipativo collettivo della narrazione, in cui le donne reinterpretano le proprie storie, le proprie realtà attuali e il proprio modo di essere.

L’opera di Güneş Terkol è esposta per la prima volta alla Biennale Arte. —Arzu Yayıntaş

Home is my Heart, 2017 Ricamo su tessuto (creato collettivamente/laboratorio Home is my Heart a Londra, UK - Middlesex Street Estate), 200 × 300 cm. Collezione privata Banu & Hakan Çarmıklı. Courtesy l’Artista.

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STRANIERI OVUNQUE

Against the Current, 2013 Ricamo su tessuto, 200 × 265 cm. Photo Sahir Uğur Eren. Courtesy Istanbul Museum of Modern Art.

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Salman Toor

LAHORE, PAKISTAN, 1983 VIVE A NEW YORK, USA

The Lock, 2023 Olio su pannello, 61 × 45,7 cm. Photo Farzad Owrang. Courtesy l’Artista; Luhring Augustine, New York. © Salman Toor. The Backseat Boy, 2023 Olio su tavola, 45,7 × 61 cm. Photo Farzad Owrang. Courtesy l’Artista; Luhring Augustine, New York. © Salman Toor.

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The Beating, 2019 Olio su tela, 119,4 × 119,4 cm. Photo Farzad Owrang. Courtesy l’Artista; Luhring Augustine, New York. © Salman Toor.

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Frieda Toranzo Jaeger

Frieda Toranzo Jaeger realizza dipinti e installazioni modulari ispirati a una varietà di fonti storiche, iconografiche e tecnologiche, reimmaginando queste influenze per creare utopie in cui rappresenta libertà, consapevolezza ecologica e un senso di comunione tra gruppi marginalizzati. Influenzati dai suoi studi sulla tradizione del ricamo nel Messico precolombiano e sui dipinti degli altari del Quattrocento europeo, e da motivi legati al mondo dell’automotive, i polittici di Toranzo Jaeger offrono prospettive varie sui processi collaborativi. L’artista fonde tecniche tradizionali e un approccio contemporaneo, sfidando le nozioni convenzionali di ciò che si considera canonico ed esplorando l’ibrido, la sessualità e l’anatomia come concetti all’interno della sua produzione artistica. I temi centrali sono il movimento e la tecnologia, con una minuziosa esplorazione delle relazioni tra i simboli dell’oppressione coloniale e il potenziale distruttivo del sistema capitalista, trasformati in immaginari politici radicali di un futuro che resiste contro i sistemi oppressivi accogliendo identità queer.

CITTÀ DEL MESSICO, MESSICO, 1988 VIVE A CITTÀ DEL MESSICO E BERLINO, GERMANIA

Nel progetto realizzato per la Biennale, Toranzo Jaeger approfondisce il proprio interesse per le automobili, le tradizioni del ricamo, i dipinti murali e gli altari delle religioni occidentali, guidando il fruitore tra le esperienze delle comunità emarginate nella loro resistenza di genere e contro il colonialismo. La fascinazione dell’artista per le auto, soprattutto elettriche, trae origine nella percezione che esse siano intrinsecamente femminili e ispirino così fantasie utopistiche. Toranzo Jaeger sottolinea la sensualità delle superfici creando anche una tensione attraverso i riferimenti presenti nel suo lavoro. L’opera allude al Venditore di fiori (1941) di Diego Rivera e ai murales di Juan O’Gorman presso la biblioteca UNAM (19491952). Inoltre, rende omaggio a Saffo (circa 630-604 a.C.), la famosa poetessa greca dell’isola di Lesbo, celebrata come simbolo queer per i suoi versi rivolti ad altre donne, dal carico fortemente emotivo. Le dimensioni esagerate della firma dell’artista non solo rappresentano una parodia dell’autorialità tradizionalmente maschile associata alla pittura, ma reclamano anche quello spazio per una voce femminile queer. L’opera di Frieda Toranzo Jaeger è esposta per la prima volta alla Biennale Arte. —Amanda Carneiro

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Times Come to an End, 2021 Polittico a sette pannelli, olio su tela con ricami e cerniere per porte, 200 × 1000 cm. Courtesy l’Artista. © Frieda Toranzo-Jaeger.

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Ahmed Umar

Ahmed Umar vive in Norvegia e mette in scena le proprie radici sudanesi plasmate da un’infanzia alla Mecca, incarnando storie queer di migrazione musulmana. Cresce in un ambiente in cui i vicini osservano gli insegnamenti wahhabiti, mentre la sua famiglia è portatrice di una forte eredità fatta di misbahah ̇ e amuleti del sufismo. In lotta con temi di fede, libertà e mancanza della stessa, nel 2008 Umar chiede asilo in Norvegia e oggi percorre un costante pellegrinaggio SudanNorvegia. Attraversando performance, scultura, fotografia e oltre, con la sua pratica ottiene la collettiva emancipazione di norme, corpi e insegnamenti attraverso la liberazione di materiali, oggetti e modalità di creazione. Autobiografiche in principio e politiche in applicazione, le sue narrazioni spesso rivisitano l’antico regno sudanese di Kush, i cui faraoni neri sono per lui oggetto di studio approfondito. Attualmente Umar sta ideando il festival Nile Pride 2030.

SUDAN, 1988 VIVE A OSLO, NORVEGIA

Talitin, The Third (2023) mette in scena una danza nuziale sudanese, tradizionale apice di una settimana di celebrazioni. Umar interpreta la sposa che deve esibire la propria bellezza e ricchezza e nel contempo coreografa il percorso degli sposi dal corteggiamento in poi. Talitin, ovvero “terzo” in arabo, allude a un insulto locale – essere “il terzo delle ragazze” – diretto ai ragazzi interessati alle cosiddette attività femminili. Attraverso gli abiti, i tessuti e le trecce, l’artista si riappropria di una pratica delle donne della sua famiglia, a cui ha assistito in prima persona fino all’esclusione una volta raggiunta la pubertà. Le canzoni sono un elogio alla famiglia della sposa e anche il paesaggio sonoro in cui mostra la sua nuova floridezza. Per la performance, Umar ha aumentato il consumo di cioccolato norvegese per ingrandire la propria silhouette. I gioielli esposti provengono dal Cairo, una città fondamentale nella pratica di Umar e il proprio diasporico accesso all’odierno Sudan in fermento. L’opera di Ahmed Umar è presente per la prima volta alla Biennale Arte. —Daniel Rey

Talitin (The Third), 2023 Performance, 25’ 23”. Photo Nadia Caroline Andersen. Courtesy l’Artista. © Nadia Caroline Andersen.

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(The Third), 2023 Talitin Veduta dell’installazione. Photo Romana Halgošová. Courtesy l’Artista.

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Artiste cilene ignote, Arpilleristas

Chiamate con il termine spagnolo che designa i sacchi di iuta, la loro base di supporto, le arpilleras sono manufatti tessili ricamati e realizzati in Cile durante la dittatura militare di Augusto Pinochet (19731990). Venivano realizzate dalle donne in laboratori condivisi che fungevano anche da reti di supporto sociale per le mogli e le madri di persone arrestate o assassinate dal regime. Cucite a mano a partire da pezzi di tessuto, spesso provenienti dagli abiti delle persone scomparse, queste opere servivano come espressioni catartiche, intese a rievocare il trauma e a commemorare l’esperienza collettiva di perdita e amnesia. La loro ricca iconografia raffigura le talleres (incontri collettivi) e le proteste in cui le stesse arpilleras vengono realizzate ed esposte come forma di resistenza. Altre rappresentano ambienti domestici in cui l’assenza delle persone “scomparse” viene evocata con spazi vuoti e segni di incertezza.

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Il gruppo di arpilleras esposto alla Biennale fa parte di una vasta collezione di oltre duecento opere donate al Museo del Barrio di New York. Anche se la loro provenienza rimane incerta, i tessuti sono stati probabilmente acquistati dai rispettivi donatori durante le vendite di solidarietà degli anni Ottanta, dal momento che questa era la modalità principale attraverso la quale il pubblico statunitense veniva a conoscenza delle arpilleras in quel periodo. Presenti anche a livello internazionale nelle case degli esuli latinoamericani, la loro influenza continua a riverberare anche ai nostri giorni nelle opere di artiste più giovani, come Carolina Caycedo

CILE

e Maria Guzmán Capron. Presentate un anno dopo il cinquantesimo anniversario del colpo di Stato e nel bel mezzo dell’incertezza politica che regna in Cile, le arpilleras ci ricordano le continue lotte per il cambiamento istituzionale in atto nella nazione sudamericana, ancora governata dalla costituzione imposta dal regime di Pinochet. Il sole splendente presente in ogni arpillera, tuttavia, rappresenta un segno di speranza nei confronti del cambiamento. È la prima volta che le artiste ignote arpilleras vengono presentate alla Biennale Arte. —Rodrigo Moura

Untitled, anni Ottanta Stoffa lavorata e applicata, uncinetto e tecniche miste, 96,5 × 81,3 cm. Photo Matthew Sherman. Collezione El Museo del Barrio, New York; dono di Arthur e Dorothy Hammer. Courtesy El Museo del Barrio, New York.

Untitled, anni Ottanta Stoffa lavorata e applicata, uncinetto e tecniche miste, 96,5 × 81,3 cm. Photo Matthew Sherman. Collezione El Museo del Barrio, New York; dono di Arthur e Dorothy Hammer. Courtesy El Museo del Barrio, New York.

Untitled, anni Ottanta Stoffa lavorata e applicata, uncinetto e tecniche miste, 96,5 × 81,3 cm. Photo Matthew Sherman. Collezione El Museo del Barrio, New York; dono di Arthur e Dorothy Hammer. Courtesy El Museo del Barrio, New York.

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Rubem Valentim

Rubem Valentim è una figura centrale nell’arte brasiliana ed è un riferimento fondamentale nella produzione afro-atlantica del XX secolo. Vive a Roma negli anni Sessanta, periodo in cui realizza una raccolta di opere iconiche con diverse tecniche. Si dedica alla pittura, all’incisione e alla scultura, reinterpretando l’Astrazione geometrica, il Costruttivismo e il Concretismo, predominanti nella produzione artistica brasiliana e latino-americana. Nel concepire complesse composizioni geometriche che ridisegnano e riconfigurano in modo intricato simboli ed emblemi delle religiosità afro-atlantiche, Valentim introduce riferimenti africani nei linguaggi artistici europei. Particolarmente degni di nota sono i motivi e i disegni delle divinità yoruba, che ricordano le tradizioni di questo popolo trapiantato in Brasile nei secoli della tratta degli schiavi e che sono un elemento indissolubile dalla storia del Paese. Con questo gesto, Valentim effettua una delle operazioni più radicali nella storia dell’arte in un contesto di diaspora.

SALVADOR, BRASILE, 1922 – 1991, SAN PAOLO, BRASILE

Questo corpus di opere emerge durante la “fase romana” dell’artista. Immerso nell’esperienza di essere straniero, Valentim approfondisce la ricerca di un linguaggio che si intrecci con l’eredità africana del Brasile. Tramite simboli legati agli orixás — le divinità venerate nel pantheon del Candomblé, la religione africana che si sviluppa in Brasile — l’artista si addentra in curve e geometrie, decodificando ed esplorando simmetrie e dialoghi tra forme pure e sintetiche. Nel suo alfabeto artistico, Valentim pone l’accento su figure geometriche e colori primari, costruendo un vocabolario di forme che genera tante parole quante sono le possibili combinazioni fra loro. Nelle sue opere di questo periodo osserviamo l’influenza della recente esplorazione che Valentim fa della scultura e che lo porta a evidenziare il pensiero tridimensionale nelle proprie tele. Al centro delle composizioni si ergono forme totemiche che contribuiscono a creare simmetria. I lati uguali alludono a Xangô, l’orixá della giustizia, ritratto con l’ascia, che taglia metaforicamente i due lati con lo stesso peso e la stessa misura. —Amanda Carneiro

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C O S B G

Pintura 3, 1966 Olio su tela, 100 × 73 cm. Photo Sergio Guerini. Collezione privata. Courtesy Almeida & Dale Galeria de Arte.

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Pintura 26, 1965-1966 Olio su tela, 100 × 73 cm Collezione Luiz Paulo Montenegro. Courtesy Almeida & Dale Galeria de Arte.

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Composição Bahia no1, 1966 Olio su tela, 101 × 73,5 cm. Photo Sergio Guerini. Collezione Roberto Bicca. Courtesy Almeida & Dale Galeria de Arte.

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Kay WalkingStick

Kay WalkingStick, madre di origine scozzese-irlandese e padre cherokee, da oltre sessant’anni realizza dipinti e sculture che si confrontano con il passato dell’America, reinserendo la presenza indigena in una storia da cui è stata in larga parte cancellata. WalkingStick passa la maggior parte dell’età adulta tra New York e la Pennsylvania, ma viaggia anche molto, con soggiorni a Roma, dove insegna, e un periodo nelle Colorado Rockies (Montagne Rocciose meridionali) che l’influenza profondamente e continua a permeare tutto il suo lavoro. I suoi quadri citano paesaggisti statunitensi come Thomas Cole e Albert Bierstadt che, con le loro rappresentazioni di campagne aspre e vuote, imposero il repertorio dei colonizzatori al territorio indiano. I dipinti dell’artista sovvertono queste visioni, fondendo l’immaginario sublime di montagne, vallate e specchi d’acqua con motivi geometrici mutuati dalle tribù che da tempo immemore vivono in queste terre.

SYRACUSE, USA, 1935 VIVE IN PENNSYLVANIA, USA

The Silence of the Glacier (2013), South Rim (2016), Galena Pass (2023) e Salmon River Valley (2023) attingono ai ricordi di WalkingStick e tratteggiano vedute maestose del Grand Canyon, del Glacier National Park e della Sun Valley. Rinomati come località ricreative e turistiche, questi luoghi sono anche la patria ancestrale delle comunità native, che un tempo furono sfollate e trasferite nelle riserve. In queste opere, l’artista sovrappone temi appartenenti ai popoli che erano i custodi originari di queste terre, al fine di recuperare la memoria storica della loro perdurante esistenza. Proprio come lei si è interrogata sul proprio senso di appartenenza in quanto cittadina della Cherokee Nation dell’Oklahoma e sulla propria eredità mista, l’artista chiede ai fruitori di riflettere sul conflitto fra queste storiografie e di immaginare come potrebbero coesistere. L’opera di Kay WalkingStick è esposta per la prima volta alla Biennale Arte. —Elena Ketelsen González

Galena Pass, 2023 Olio su pannello diviso in due parti, 101,6 × 203,2 × 3,8 cm. Photo JSP Art Photography. Courtesy l’Artista; Hales, Londra e New York. © Kay Walkingstick. The Silence of Glacier, 2013 Olio su pannello diviso in due parti, 91,4 × 182,9 × 5,1 cm. Photo JSP Art Photography. Courtesy l’Artista; Hales, Londra e New York. © Kay Walkingstick.

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South Rim, 2016 Olio su pannello diviso in due parti, 91,4 × 182,9 × 6,3 cm. Photo JSP Art Photography. Courtesy l’Artista; Hales, Londra e New York. © Kay Walkingstick.

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WangShui

È paradossale premettere informazioni biografiche all’arte di WangShui, poiché la sua pratica è guidata dal desiderio di smaterializzare l’identità. Cresciut tra gli Stati Uniti e la Tailandia da immigrati cinesi, e in seguito operanti in Nepal, Sudafrica e New York, dove attualmente risiede, la sua vita itinerante sfugge alla narrazione. Con la stessa libertà e fluidità, lavora con video, installazione e pittura per abitare stati mutevoli di materialità e coscienza. Questo stratagemma vuole riflettere la fame della società di consumare e categorizzare corpi segnati dalla differenza, un allettante desiderio pericolosamente avvantaggiato dalle nuove tecnologie. Approfondendo l’indagine sulla liminalità, WangShui presenta un’installazione commissionata di recente, che comprende tre dipinti in alluminio di grandi dimensioni e una scultura video a LED. Esplorando la migrazione di materia e forma

tra America Latina, Asia ed Europa, l’installazione si basa sull’interesse di WangShui per l’interpolazione transnazionale della forma. Ogni opera integra processi tattili e meccanici per sfumare il confine tra mente e macchina. Per questa nuova serie di dipinti, l’artista ha anodizzato manualmente pannelli di alluminio con la cocciniglia, un pigmento rosso messicano commercializzato a livello globale e ottenuto dalla macinazione di insetti parassiti. La scultura video multicanale è assemblata con schermi LED intrecciati, un’altra trasmutazione di immagine e luce. Le luci pulsanti della scultura video attraggono e allo stesso tempo disorientano gli spettatori: con questo WangShui avverte che la coscienza si forma negli spazi latenti tra i nodi della leggibilità.

DALLAS, USA, 1986 VIVE A NEW YORK, USA

Fundamental Attribution Error, 2023 Simulazione a canale singolo, schermo LED flessibile, sensori di movimento. Photo Frank Sperling. Courtesy l’Artista.

L’opera di WangShui è esposta per la prima volta alla Biennale Arte. —Wong Binghao

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Weak pearl, 2023 Veduta dell’installazione. Photo Alwin Lay. Courtesy l’Artista.

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Agnes Waruguru

Agnes Waruguru lega sempre le proprie opere alla pittura e al rapporto di questa con il design, il ricamo, la scultura e l’installazione tramite idee di appartenenza geografica, tempo e transitorietà. Waruguru ha studiato al Savannah College of Art and Design negli Stati Uniti, ottenendo un Bachelor in Fine Arts nel 2017; dal 2021 al 2023 ha vissuto ad Amsterdam, dove ha frequentato la Rijksakademie, e di recente è tornata a Nairobi. Le pratiche dell’artista spesso instaurano un dialogo con lo spazio architettonico circostante, il fulcro in un’indagine in cui anche i concetti di trasparenza e opacità assumono la massima importanza. Quella di Waruguru è una continua ricerca sui materiali organici e su come questi possano

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essere il punto di partenza per la creazione di dipinti in cui il processo si esprime in maniera concreta e omogenea. Alla Biennale l’artista espone dipinti in formato tradizionale e un’installazione che contiene materiali organici, stabilendo una relazione tra la propria ricerca e il libro Vagabonds! (2022) della scrittrice nigeriana Eloghosa Osunde. Il volume ruota in parte attorno ai rapporti tra vita spirituale e quotidiana nelle grandi città, tra ciò che è visibile e invisibile. Mentre i personaggi si spostano tra mondi e situazioni diverse, l’artista invita chi osserva a muoversi intorno alla sua opera, a stabilire relazioni con questa narrazione letteraria e con i legami tra organico e industriale, o tra tempo e spazio. Dietro gesti

M In a P

NAIROBI, KENYA, 1994 VIVE A NAIROBI

e forme apparentemente astratte e formalmente minimaliste, l’artista ci porta silenziosamente a riflettere sullo scorrere del tempo e sul possibile futuro di alcuni di questi materiali. A quali ecosistemi appartengono? Quali di questi materiali, visti nel contesto della Biennale, possono essere considerati “stranieri”? In che modo possono essere associati alla vita e alla morte?

I dreamed a place for you, will you visit?, 2022 Varie opere su carta, pavimento dipinto, ceramica ed elementi floreali, profumo di mughetto, veduta dell’installazione. Photo Sander Van Wettum. Courtesy l’Artista.

L’opera di Agnes Waruguru è esposta per la prima volta alla Biennale Arte. —Raphael Fonseca

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Morning Dew, 2023 Inchiostro di china, pigmenti naturali, inchiostro acrilico e sequenza su cotone, 285 × 190 cm. Photo Tomek-Dersu-Aaron. Courtesy l’Artista.

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Susanne Wenger

Susanne Wenger è stata una scultrice, pittrice e graphic designer. Ha iniziato la propria formazione artistica nella sua città natale per poi completare gli studi a Vienna dal 1933 al 1935. A Vienna si unisce agli artisti organizzati contro i nazisti; la guerra, tuttavia, la spinge a dieci anni di continui spostamenti attraverso l’Europa e a un personale viaggio spirituale nel misticismo esoterico. Arrivata in Nigeria nel 1950, affascinata dalle credenze e dall’estetica yoruba, Wenger si stabilisce a Osogbo, dove rimane per il resto della sua vita. A metà degli anni Cinquanta inizia un lungo processo di iniziazione a diversi culti, diventando infine olórìṣ à, ovvero persona consacrata a una divinità. Si dedica alla rinascita dell’estetica yoruba e al restauro dei santuari di Osogbo, dando avvio al New Sacred Art Movement insieme agli artisti yoruba. I giornali nigeriani hanno periodicamente commentato la ridicolaggine di una “sacerdotessa bianca” che abbraccia le usanze locali, eppure per molte persone a Osogbo rimane una figura venerata.

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GRAZ, AUSTRIA, 1915 – 2009, OSOGBO, NIGERIA

L E À 2 C ©

Durante l’iniziazione ai culti yoruba negli anni Cinquanta e Sessanta, Wenger comincia uno studio approfondito dei vari repertori estetici associati ai rituali religiosi yoruba: tintura batik, pittura murale e scultura di sacrari. Le opere qui selezionate rappresentano la sua sperimentazione nell’àdìre olórìsà, una tecnica ̇ di tinturȧ a resistenza in cui un disegno viene applicato con una pasta di amido di manioca prima di immergere il tessuto nel colorante indaco. Convenzionalmente utilizzata per abiti femminili, Wenger ha adattato questa tecnica per produrre composizioni tessili di grande formato, dipinte a mano, talvolta, come in questo caso, cucendo

insieme diversi pezzi di stoffa. La figurazione angolare e l’uso delle dimensioni per differenziare i soggetti divini dagli altri è caratteristica dei principi estetici yoruba e, come suggeriscono i titoli di queste sei opere, i suoi batik sono ispirati alla cosmologia yoruba. Tuttavia, le sue opere sono interpretazioni personali più che rappresentazioni fedeli del pantheon yoruba, indicative di una propria ricerca junghiana di archetipi primordiali. L’opera di Susanne Wenger è esposta per la prima volta alla Biennale Arte. —Merve Fejzula Das große Fest des Ajagẹmọ, 1958 Àdìrẹ batik di amido di manioca, 200 × 400 cm. Photo Martin Bilinovac. Courtesy Susan Wenger Foundation. © Martin Bilinovac.

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Die magische Frau, 1960 Àdìrẹ batik di amido di manioca, 252 × 163 cm. Photo Martin Bilinovac. Courtesy Susan Wenger Foundation. © Martin Bilinovac.

Leopard, die magische Erdendimension, 1959 Àdìrẹ batik di amido di manioca, 253 × 258 cm. Photo Martin Bilinovac. Courtesy Susan Wenger Foundation. © Martin Bilinovac.

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Emmi Whitehorse

CROWNPOINT, USA, 1957 VIVE A SANTA FE, USA

Emmi Whitehorse, artista indigena diné, lavora principalmente su paesaggi poetici, astratti e di grandi dimensioni, degli Stati Uniti sud-occidentali. Il suo rapporto quarantennale con la pittura inizia nel 1980 sotto l’ala del suo mentore, Harmony Hammond. Ha inoltre appreso le tecniche tradizionali di tessitura diné dalla propria cerchia familiare indigena che ha guidato il suo stile pittorico e l’ha portata a esplorare il rapporto con le ecologie e i territori nativi circostanti. La propria pratica di meditazione la rende sensibile alle psico-geografie atmosferiche e alla relazione tra l’uso culturale del territorio e la cura dell’ambiente condivisa dalle comunità indigene.

Cópia (2023) è un dipinto a tema paesaggistico su due pannelli che innesca la bellezza e la caotica tensione della rottura. L’artista mette in evidenza le ecologie native utilizzando il concetto tradizionale diné/ navajo di Hózhó, che esprime l’interconnessione tra terra e persone per raggiungere l’armonia e la bellezza. Le sue opere su carta e su tela rappresentano le temporalità spirituali dei Diné, che vedono nel paesaggio una sinfonia nel tempo. È una partitura sorprendente, composta da armonie naturali e dalle innaturali dissonanze provocate dai rapaci scavi postcoloniali sulla terra indigena. In Outset, Launching, Progression (2015), Whitehorse risponde alla fratturazione estrattiva di petrolio e gas naturale nei

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territori navajo. Ha seguito lo spostamento e lo sfruttamento delle comunità indigene nei territori diné in cui è cresciuta. Le tecniche di marcatura sensoriale del paesaggio di Whitehorse, presentate attraverso composizioni disorientanti, mettono in luce strategie alternative per preservare l’indigenità e resistere alla violenza e all’estrazione coloniali. L’opera di Emmi Whitehorse è esposta per la prima volta alla Biennale Arte. —Tracy Fenix

Pressed Flower, 2023 Tecnica mista su tela, 129,5 × 199,3 cm. Courtesy l’Artista; Garth Greenan Gallery, New York.

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405 NUCLEO CONTEMPORANEO Wild Flower, 2023 Tecnica mista su tela, 129,5 × 199,3 cm. Courtesy l’Artista; Garth Greenan Gallery, New York.

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Pollinator, 2023 Tecnica mista su tela, 129,5 × 199,3 cm. Courtesy l’Artista; Garth Greenan Gallery, New York.

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Xiyadie

Xiyadie – padre, contadino, omosessuale, lavoratore migrante e artista – crea ritagli di carta elaborati in modo intimo che documentano l’evoluzione della vita queer in Cina a partire dagli anni Ottanta. Cresciuto in una famiglia di artigiani, apprende l’arte di ritagliare la carta dalla madre. Questa antica tradizione popolare, solitamente tramandata per linea femminile, prevede la creazione di motivi spesso appesi a finestre e porte come portafortuna. Alle scuole superiori Xiyadie capisce di essere attratto dagli uomini, ma le aspettative familiari lo portano a sposarsi e ad avere due figli. Negli anni Ottanta, alla ricerca di una stabilità economica, emigra per lavorare a Xi’an e in seguito a Pechino, dove scopre un’accogliente comunità queer in cui può esprimersi liberamente. I suoi intricati ritagli di carta vengono esposti

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PROVINCIA DI SHAANXI, REPUBBLICA POPOLARE CINESE, 1963 VIVE NELLA PROVINCIA DI SHANDONG, REPUBBLICA POPOLARE CINESE

per la prima volta presso il Centro LGBT di Pechino sotto uno pseudonimo che significa “farfalla siberiana”, una creatura a un tempo resiliente, appariscente e delicata. Anche se già nel primo decennio del XXI secolo i ritagli di Xiyadie ritraggono scene d’amore queer sullo sfondo di luoghi dove si pratica il cruising, scoperti al suo arrivo a Pechino nel 2005, le prime opere sono ambientate per lo più in spazi domestici. In Sewn (1999) Xiyadie descrive la difficoltà di accettare la propria sessualità, intrappolato in un matrimonio eterosessuale. I suoi pantaloncini gialli pendono da una gamba mentre stringe il proprio pene cucendolo con un grande ago e con filo fatto di sperma e sangue. Rifugiatosi in una stanzetta dominata da una porta e da un tetto tradizionali cinesi, Xiyadie guarda una foto del suo primo ragazzo, un assistente ferroviario di nome

Minghui. La lama appuntita che gli fora la gamba evoca dolore e incapacità di reagire, mentre un lungo serpente che striscia dentro di lui rappresenta il suo irreprimibile desiderio. È significativo che l’ago usato da Xiyadie per cucirsi attraversi anche il tetto dell’edificio, suggerendo così un progressivo affrancamento dalla pressione della tradizione e della famiglia. L’opera di Xiyadie è esposta per la prima volta alla Biennale Arte. —Rosario Güiraldes

Wall, 2016 Carta ritagliata con tintura all’acqua e pigmenti cinesi su carta Xuan, 140 × 140 cm. Courtesy l’Artista; Blindspot Gallery; P21 Gallery. Sewn, 1999 Carta ritagliata con tintura all’acqua e pigmenti cinesi su carta Xuan, 141 × 140 cm. Courtesy l’Artista; Blindspot Gallery; P21 Gallery.

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Kaiyang, 2021 Carta ritagliata con tintura all’acqua e pigmenti cinesi su carta Xuan, 140 × 300 cm. Photo Daniel Terna. Courtesy l’Artista; Blindspot Gallery; P21 Gallery; The Drawing Center.

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Rember Yahuarcani

Rember Yahuarcani è un pittore, scrittore, curatore e attivista appartenente al clan Aimeni (clan dell’Airone Bianco) della Nazione Uitoto dell’Amazzonia settentrionale, in Perù. Figlio degli artisti Santiago Yahuarcani e Nereida López, ha appreso dal padre la preparazione dei coloranti naturali e della llanchama (corteccia d’albero usata come superficie per i suoi dipinti). Le storie raccontate dalla nonna, Martha López Pinedo, lo hanno profondamente influenzato, al punto che la maggior parte del suo lavoro rende omaggio al legame spirituale con lei. Voce attiva per i diritti dei popoli indigeni, i suoi scritti denunciano la situazione ambientale dell’Amazzonia e affrontano le strutture culturali razziste e coloniali del Perù. Ha pubblicato diversi libri che raccolgono leggende e miti uitoto, tra cui El sueño de Buinaima (2010) e El guardian de la selva (2020).

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I suoi dipinti attingono alle narrazioni della mitologia uitoto e alle tradizioni e tecniche artistiche occidentali. Dal 2003, il suo vocabolario artistico è passato dallo stile descrittivo dei primi dipinti alla creazione di paesaggi lirici e onirici su larga scala, come quello presentato alla Biennale. Attraverso tracce delicate e colori vivaci, Yahuarcani presenta scene che ci invitano a immergerci nel pensiero, nella narrazione e nella vita quotidiana degli Uitoto, per vedere e sentire il mondo da un diverso sistema di credenze. Gli animali, le piante, gli spiriti, gli esseri umani e gli altri esseri della foresta amazzonica che popolano i suoi dipinti sono rappresentati come molecolarmente connessi gli uni agli altri; l’artista ne prende possesso come fonti di saggezza. Yahuarcani dipinge i suoi molteplici personaggi

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PEBAS, PERÙ, 1985 VIVE A PEBAS

in perenne movimento, come in fuga dalle identità e dalle narrazioni imposte dallo stato e dal mondo occidentale. L’opera di Rember Yahuarcani è esposta per la prima volta alla Biennale Arte. —Miguel López

Los Abuelos, 2021 Acrilico su tela, 170 × 240,5 cm. Photo Juan Pablo Murrugarra. Courtesy l’Artista.

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Las canoas tienen sueños feroces, 2023 Acrilico su tela, 170 × 240 cm. Photo Juan Pablo Murrugarra. Courtesy l’Artista.

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El Territorio de los Abuelos, 2023 Acrilico su tela, 300 × 300 cm. Photo Juan Pablo Murrugarra. Courtesy l’Artista.

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Santiago Yahuarcani

Santiago Yahuarcani è un pittore e scultore autodidatta appartenente al clan Aimeni (clan Airone Bianco) della Nazione Uitoto dell’Amazzonia settentrionale. La madre, Martha López Pinedo, era discendente di Gregorio López, l’unico membro del clan emigrato da La Chorrera (oggi parte dell’Amazzonia colombiana) alla regione del fiume Ampiyacu (oggi Amazzonia peruviana settentrionale) nell’ambito dell’operazione che prevedeva il trasferimento delle popolazioni indigene per lavorare nell’industria della gomma. L’esperienza gli è stata trasmessa proprio dal nonno Gregorio, uno dei sopravvissuti al genocidio di Putumayo (1879-1921), durante il quale quasi trentamila indigeni, soprattutto dei popoli Bora, Uitoto, Andoque e Ocaina, furono ridotti in schiavitù e crudelmente annientati.

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I dipinti di Yahuarcani non derivano né dipendono dalla storia dell’arte occidentale. Raccolgono i ricordi narrati dai suoi antenati, la conoscenza sacra delle piante medicinali, i suoni della giungla e i miti uitoto che spiegano le molteplici configurazioni dell’universo. Nei suoi lavori, il territorio e i suoi abitanti mostrano coscienza, affetto, memoria e intelligenza e mettono in atto forme di comunicazione udibili al di là dei parametri della colonizzazione coloniale. Non raccontano un passato rigido, ma creano un dialogo con il presente e si interrogano su un futuro collettivo. Rivendicando la presenza e la forza degli spiriti (guardiani) delle piante, degli alberi e degli animali, ampiamente ignorati nell’era moderna, Yahuarcani sottolinea come la catastrofe climatica non sia un evento recente, ma parte di una lunga storia

PEBAS, PERÙ, 1960 VIVE A PEBAS

di espropriazione coloniale iniziata con lo sradicamento dei mondi spirituali e dei poteri che emanano dalla stretta interrelazione con il territorio. L’opera di Santiago Yahuarcani è esposta per la prima volta alla Biennale Arte. —Miguel López

Hultoto Cosmovisión, 2022 Tinture naturali e acriliche su Ilanchama, 210 × 410 cm. Photo Juan Pablo Murrugarra. Courtesy l’Artista; CRISIS Gallery. Ni vergüenza ya tienen los pucachus, 2020 Tinture naturali su Ilanchama, 115 × 200 cm. Photo Juan Pablo Murrugarra. Courtesy l’Artista; CRISIS Gallery.

Shiminbro, el Hacedor del sonido, 2023 Tinture naturali e acriliche su Ilanchama, 207 × 410 cm. Photo Juan Pablo Murrugarra. Courtesy l’Artista; CRISIS Gallery.

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Nil Yalter

Nil Yalter è considerata una pioniera del movimento artistico femminista francese. Inizialmente si dedica a dipinti fortemente influenzati dalla tradizione astratta, soprattutto quella del Costruttivismo russo, ancora oggi riconoscibile nelle sue opere digitali. Trasferitasi a Parigi, l’artista si concentra su installazioni, performance, film e fotografia, spesso affrontando temi come la liberazione sessuale femminile, l’oggettivazione orientalista delle donne mediorientali e le esperienze delle persone che si confrontano con i movimenti migratori, intersecando questioni di razza, classe e genere. Il suo approccio autobiografico – che rievoca una metodologia antropologica applicata alle arti – intreccia esperienze personali e collettive ponendo le voci sottorappresentate al centro non solo della propria arte, ma anche dei temi cruciali della società.

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TURCA, NATA A IL CAIRO, EGITTO, 1938 VIVE A PARIGI, FRANCIA

Nell’installazione per la Biennale, Yalter combina due delle sue opere iconiche. Exile is a hard job (1977-2024), ispirata alle parole del poeta turco Nâzim Hikmet, presenta immagini di immigrati ed esiliati affisse illegalmente, con il titolo dell’opera dipinto sopra in grosse lettere rosse, a ricordare le frasi politiche che ornano i paesaggi urbani. Gli schermi video mostrano testimonianze della vita e delle lotte dei migranti, affrontando idee di integrazione, precarietà e stigmatizzazione ed evocando al contempo una certa nostalgia per quanto lasciato alle spalle e per le sfide future, intrecciate a miti e poesie turche. Topak Ev (1973) fa riferimento a un’esperienza dell’artista nella comunità nomade Bektik,

che storicamente viveva in tende rotonde nell’Anatolia centrale ed era emigrata intorno al X secolo. La loro tecnologia costruttiva fa luce sulle modalità di vita di queste comunità storicamente misconosciute e confonde le generali percezioni che se ne hanno. L’opera sensibilizza sui ruoli di genere e sulle norme sociali che confinano le donne negli spazi domestici, fornendo un’esplorazione dei ruoli femminili nel contesto della migrazione. Alla Biennale Arte 2024 Yalter riceve il Leone d’Oro alla Carriera.

Untitled, pre-1976 Video, bianco e nero, suono, 5’ 41”. Courtesy l’Artista.

L’opera di Nil Yalter è esposta per la prima volta alla Biennale Arte. —Amanda Carneiro

Topak Ev, 1973 Struttura in metallo, feltro, pelle di pecora, testi e tecniche miste, 250 × 300 cm. Arter Collection Istanbul. Exile is a hard job, 1983-2024 Installazione video, dimensioni variabili. Courtesy l’Artista.

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Joseca Mokahesi Yanomami

Joseca Mokahesi, artista appartenente al popolo degli Yanomami, nasce nell’Amazzonia brasiliana e vive nella comunità di Watoriki (catena montuosa ventosa), situata nella Terra Indígena Yanomami. L’infanzia di Mokahesi coincide con un momento particolarmente drammatico per il suo popolo, colpito dai primi contatti – intensi e non voluti – con persone non indigene e con le loro malattie. La madre, vittima dell’epidemia di morbillo, viene a mancare quando l’artista è ancora un bambino, e successivamente muore anche il padre, un insigne sciamano. Spinto da un profondo hixio (rabbia per il lutto), Mokahesi fugge dalla sua comunità e cammina in mezzo ai boschi per duecento chilometri. Anni dopo, al suo ritorno, organizza una scuola e diventa il primo insegnante

e assistente sanitario della comunità. All’inizio degli anni Duemila, scolpisce nel legno piccoli animali per poi dedicarsi a disegnare con crescente fascinazione personaggi, scene e paesaggi dell’universo yanomami. I disegni di Joseca Mokahesi rappresentano miti e canti sciamanici, nonché momenti dell’esistenza quotidiana della sua gente, accompagnati da titoli descrittivi in lingua yanomami che hanno una funzione esplicativa. Molti fra i personaggi ritratti dall’artista sono xapiri, spiriti lasciati da Omama – la dea della creazione per gli Yanomami – per aiutare gli sciamani nei loro compiti. Quando vengono evocati, scendono e si manifestano nei corpi degli sciamani. Yamanaioma, il femmineo spirito dell’ape, viene rappresentata come figura

TERRITORIO DEGLI INDIGENI YANOMAMI, BRASILE, 1971 VIVE NEL TERRITORIO DEGLI INDIGENI YANOMAMI

umana che cammina sulla terra e fa in modo che l’erba cresca bene; Hawahiri, invece, è disegnato come un albero – l’albero della noce amazzonica – che emerge da una bocca. Le pitture di viso e corpo che compaiono nei disegni di Mokahesi si riferiscono alla prima umanità, yarori pë. L’opera di Joseca Mokahesi è esposta per la prima volta alla Biennale Arte. —David Ribeiro

Xapiri Hawarihiri omamari a ithuu tëhë anë yai kiriai mahi, kuë yaro yanomãe yamaki amuku haari keai. Hwei hawarihiri omamari aka kii ani xawara a waiha ani yai waro pata a kutaeni kuë yaro hwei xapiri pata yamapë yai pihipo, 2011 Penna idrografica, matita colorata e grafite su carta, 30 × 42 cm. Photo Isabella Matheus. Collezione Museu de Arte de São Paulo Assis Chateaubriand. Dono di Clarice O. Tavares, 2021. Untitled, 2011 Penna idrografica, grafite e pastelli su carta, 29,5 × 42 cm. Photo Isabella Matheus. Collezione Museu de Arte de São Paulo Assis Chateaubriand. Dono di Clarice O. Tavares, 2021.

Yamanayomani thë urihi karukai xoao tëhë wamotima thëpë raruu totihio tëhëma thëa. Yamanayoma a, 2013 Penna idrografica, matita colorata e grafite su carta, 30 × 42 cm. Photo Isabella Matheus. Collezione Museu de Arte de São Paulo Assis Chateaubriand. Dono di Clarice O. Tavares, 2021.

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André Taniki Yanomami

André Taniki è uno sciamano nativo della regione dell’alto Rio Catrimani, nell’Amazzonia brasiliana. La sua produzione artistica è direttamente collegata alla presenza sul territorio della fotografa e attivista elveticobrasiliana Claudia Andujar e dell’antropologo francese di origini marocchine Bruce Albert, che lavorano fra gli Yanomami dagli anni Settanta. Interessata a instaurare forme alternative di comunicazione fra stranieri con la mediazione delle immagini, Andujar incoraggia Taniki a esprimersi visivamente. Lei e Albert, che da allora diventano importanti alleati degli Yanomami, forniscono allo sciamano i materiali necessari per disegnare: carta e pennarelli, all’epoca materiali nuovi per la popolazione (che solo

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recentemente è entrata in contatto con persone non indigene). I disegni diventano argomento di conversazione fra Taniki e i napë (“stranieri”, in lingua yanomami), che trascorrono ore a parlare sia di pitture sul corpo sia di quelle su “pelli di carta”. Questi disegni sono stati realizzati dall’artista, in dialogo con Bruce Albert, alla fine degli anni Settanta, quando entrambi cercavano modalità per rappresentare le visioni sciamaniche. Riccamente colorati, combinano astrazioni e schemi figurativi in strutture che sembrano riprodurre l’organizzazione del cosmo dal punto di vista dell’universo di senso degli Yanomami. In questo modo possono essere considerati come una sorta di cartografia di ciò che è

TERRITORIO DEGLI INDIGENI YANOMAMI, BRASILE, 1949 VIVE NEL TERRITORIO DEGLI INDIGENI YANOMAMI

visibile soltanto agli xapiri – gli spiriti ausiliari dello sciamano yanomami – e agli sciamani stessi. Le circostanze in cui si sono originati e i disegni stessi costituiscono un’importante espressione delle possibilità di traduzione e comunicazione fra diversi sistemi di sapere e relazioni. L’opera di André Taniki è esposta per la prima volta alla Biennale Arte. —David Ribeiro

Untitled 1, 1978-1981 ca. Pastelli su carta, 21 × 29 cm Untitled 2, 1978-1981 ca. Pastelli su carta, 21 × 29 cm Untitled 3, 1978-1981 ca. Pastelli su carta, 21 × 29 cm Untitled 4, 1978-1981 ca. Pastelli su carta, 21 × 29 cm Tutte le opere Collezione Fondation Cartier pour l’art contemporain

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Kim Yun Shin

WONSAN, COREA DEL NORD, 1935 VIVE A BUENOS AIRES, ARGENTINA E YANGGU, COREA DEL SUD

Add Two Add One, Divide Two Divide One, 2001 Diaspro, 39 × 61 × 29 cm. Photo KIM Mingon. Collezione privata.

Figura pionieristica dell’arte coreana e argentina, attiva nella scultura, nella pittura e nella stampa, Kim Yun Shin ha viaggiato molto nel corso della vita, esperienza profondamente riflessa nella sua opera. È nata nella città di Wonsan, nell’attuale Corea del Nord, durante l’occupazione giapponese, ma parte della sua famiglia è riuscita a fuggire in Corea del Sud durante la divisione della Corea del 1945. Negli anni Cinquanta studia scultura all’Università Hongik di Seul per poi trasferirsi a Parigi negli anni Sessanta, dove studia all’École Nationale Supérieure de Beaux-Arts di Parigi (1964-1969). Partecipa alla Bienal de São Paulo del 1973. Il 1984 è l’anno in cui il suo percorso cambia radicalmente: va a vivere a Buenos Aires per poi percorrere l’America Latina,

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vivendo in Messico (19881991) e in Brasile (2001-2002), esperienza che influenza il suo lavoro e la scelta dei materiali, come le sculture in legno e pietra. Di recente si è trasferita nella piccola città di Yanggu, Gangwon-do, nella Corea del Sud settentrionale. Alla Biennale, Kim Yun Shin presenta un gruppo di otto sculture, quattro in legno realizzate tra il 1979 e il 1984 e quattro in pietra prodotte tra il 1991 e il 2001. In modo concettuale, tutte le sue opere a partire dalla fine degli anni Settanta riportano lo stesso titolo: Add Two Add One, Divide Two Divide One. Add e Divide sono collegati allo Yin e allo Yang della filosofia cinese, che a loro volta rappresentano dicotomie multiple e concetti opposti

strettamente interconnessi: due che sono uno, uno che è due. Lo Yin rappresenta la frammentazione, la scissione, la divisione, mentre lo Yang rappresenta la convergenza, l’integrazione, l’aggiunta. Le operazioni e il processo scultoreo dell’artista sono proprio questo: divide, separa, estrae dalla pietra e dal legno per costruire le proprie opere. In questo senso, al centro dell’opera scultorea di Kim in legno e pietra si esprime il contrapposto rapporto tra arte e natura, cultura e paesaggio, geometria e organico che, attraverso il laborioso processo scultoreo, diventano uno e due. L’opera di Kim Yun Shin è esposta per la prima volta alla Biennale Arte. —Adriano Pedrosa Add Two Add One, Divide Two Divide One, 1986 Legno, 87 × 37 × 37 cm. Photo KIM Mingon. Collezione privata.

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Anna Zemánková

L’artista autodidatta Anna Zemánková nasce in Moravia e comincia a produrre le sue composizioni di carattere lirico nella fase matura della sua vita. Zemánková si forma come odontotecnica prima di diventare madre di quattro figli, uno dei quali muore all’età di quattro anni; dopo essere caduta in una profonda depressione, inizia a creare le composizioni liriche per cui oggi è nota, scoprendo la natura terapeutica che sottende la loro creazione. Lavora nelle prime ore del mattino, abbracciando la semicoscienza tra sonno e veglia e approfittando della calma prima di affrontare le incombenze domestiche. Accompagnando regolarmente il suo lavoro con l’ascolto di musica classica, Zemánková disegna, incide e ricama intuitivamente sul supporto da lei scelto, realizzando astrazioni botaniche in uno stato di trance che si avvicina all’automatismo. L’impatto della musica sulla sua pratica può essere rintracciato attraverso la struttura ritmica delle sue forme, molte delle quali sono costruite intorno a un ritornello visivo che si snoda in variazioni melodiche.

Se considerate come una serie, le opere di Zemánková costituiscono un erbario inventato di organismi ultraterreni, come lei stessa afferma: “coltivo fiori che non crescono altrove”. Sebbene la sua pratica sia stata paragonata a quella di Hilma af Klint e di altri artisti medianici, Zemánková non ha mai affermato di essere influenzata da una filosofia mistica o dal dialogo con un regno spirituale. Invece, le sue opere sono nate da un impulso sub cognitivo radicato nella sua sfera interiore. Le forme sembrano dilagare con una forza vitale propria, cariche di appendici simili a frutti e delicati arabeschi. L’arte figurativa dei pezzi in mostra è a cavallo tra gli ordini microcosmici e macroscopici, evocando una cartografia di formazioni astronomiche ignote e strutture riproduttive di una vita vegetale immaginaria.

HODOLANY, MORAVIA, 1908 – 1986, PRAGA, CECOSLOVACCHIA

Untitled, 1980 ca. Collage satinato, colore per tessuto, acrilico e penna a sfera su carta, 62,6 × 45 cm. Courtesy Christian Berst Art Brut.

—Sybilla Griffin

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Untitled, 1980 ca. Collage satinato, colore per tessuto e penna a sfera su carta, 62,6 × 45 cm. Courtesy Christian Berst Art Brut.

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Untitled, 1975 ca. Matite colorate, penna a sfera, ricamo e perle su carta, 62,6 × 45 cm. Collezione privata. Courtesy Christian Berst Art Brut.

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INTERVENTIONS: DECENTERING MODERNISM: ART HISTORY AND AVANT-GARDE ART FROM THE PERIPHERY, IN “THE ART BULLETIN”, VOL. 90, N. 4, DICEMBRE 2008.

Il Modernismo si è diffuso in tutto il mondo grazie al dominio dell’Occidente, ciononostante il messaggio radicale del Modernismo ha ispirato le regioni non occidentali a creare la propria arte di resistenza contro l’ordine coloniale. Nonostante il programma radicale, l’avanguardia occidentale non ha tenuto conto né della progressiva eterogeneizzazione dell’arte né della ricchezza e della creatività delle pratiche artistiche all’interno delle periferie. I suoi limiti derivano dalla narrazione monolitica e lineare di una storia dell’arte che non ammette differenze, che in parte è il riflesso delle diseguali relazioni di potere tra centro e periferia. Il mio ragionamento contribuisce ai recenti dibattiti sulla necessità di spostare il centro di gravità dal discorso originario a una definizione più eterogenea di Modernismo globale, che incorpori i cambiamenti avvenuti nel XX secolo. Risponde alla sfida dell’arte transnazionale, mettendo in discussione la “purezza” del canone modernista e la conseguente accusa del carattere derivativo della periferia.

PARTHA MITTER


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Tupi or not tupi, questo è il dilemma.

OSWALD DE ANDRADE

MANIFESTO ANTROPÓFAGO, IN “REVISTA DE ANTROPOFAGIA”, MAGGIO 1928.


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INCOMPLETE GLOSSARY OF SOURCES FOR LATIN AMERICAN ART, IN CARTOGRAPHIES, A CURA DI IVO MESQUITA, PAULO HERKENHOFF E JUSTO MELLADO, WINNIPEG, WINNIPEG ART GALLERY, 1993.

DUALITÀ. Dove finisce il Terzo Mondo e dove inizia il Primo Mondo in questo mondo? (O viceversa?) L’arte latinoamericana è allineata a quella europea e nordamericana? O è l’ambientazione di una tradizione locale? Il dilemma shakespeariano si trasforma in “Tupi, or not Tupi, questo è il dilemma”, dove il nome di questo popolo nativo dà al poeta brasiliano Oswald de Andrade la possibilità di condensare in una sintesi il dubbio fondamentale dell’identità nazionale al crocevia di culture e tempi storici.

PAULO HERKENHOFF


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Adriano Pedrosa

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431 NUCLEO STORICO • RITRATTI STRANIERI OVUNQUE

Questa sezione del Nucleo Storico è dedicata ai ritratti e alle rappresentazioni della figura umana realizzati nel Sud del mondo nel corso del XX secolo. Raccoglie oltre cento opere di artisti provenienti da Algeria, Aotearoa–Nuova Zelanda, Argentina, Bolivia, Brasile, Cile, Cina, Colombia, Corea, Cuba, Ecuador, Egitto, Filippine, Ghana, Guatemala, India, Indonesia, Iran, Iraq, Giamaica, Libano, Malesia, Messico, Mozambico, Nigeria, Pakistan, Perù, Porto Rico, Repubblica Dominicana, Singapore, Sudafrica, Sri Lanka, Sudan, Tunisia, Turchia, Uruguay, Venezuela, Vietnam e Zimbabwe. Si tratta per lo più di dipinti, ma anche di sculture e opere su carta, che coprono un arco di tempo che va dal 1915 al 1990. È difficile stabilire una cronologia generale rigorosa, poiché i processi possono essere alquanto specifici di ogni paese o regione, e spesso seguono percorsi del tutto propri. Per questo motivo, l’arco cronologico è molto più ampio del tipico arco temporale modernista. La selezione testimonia come la figura umana sia stata esplorata in innumerevoli modi diversi dagli artisti del Sud del mondo, e riflette sulla crisi della rappresentazione dell’umano che ha caratterizzato gran parte dell’arte del XX secolo, ponendosi ulteriori domande: chi può essere rappresentato, da chi, e come? La maggior parte dei lavori ritrae personaggi non bianchi, il che a Venezia, nel cuore della Biennale, diventa un tratto eloquente di questo gruppo così ampio ed eterogeneo e della stessa Esposizione Internazionale d’Arte. Molti artisti del Sud del mondo sono venuti a contatto con il Modernismo europeo attraverso viaggi, studi o libri. Tuttavia, apportano alle proprie opere delle riflessioni potenti e contributi personali, ritraendo figure prese dai propri repertori visivi, dalle proprie storie e vite, se stessi inclusi. In questo processo, nella regione, il Modernismo è stato acquisito e divorato. Il riferimento qui è al concetto di antropofagia, termine coniato dal modernista e intellettuale brasiliano Oswald de Andrade nel suo Manifesto antropófago del 1928. L’antropofagia è offerta all’intellettuale moderno ai margini dell’Europa come strumento per impadronirsi della cultura metropolitana, cannibalizzandola e producendo qualcosa di proprio. Il concetto evoca la pratica cannibalistica degli indigeni tupinambá del Brasile pre-invasione, che mangiavano la carne dei nemici sconfitti per acquisirne le virtù. Le tipologie uniche e distinte di Modernismo del Sud globale assumono figure e forme radicalmente nuove in dialogo con narrazioni e riferimenti locali e indigeni. Conosciamo fin troppo bene la storia del Modernismo dell’Euro-America, ma i modernismi del Sud del mondo rimangono in gran parte sconosciuti e assumono quindi una vera e propria rilevanza contemporanea: abbiamo urgente bisogno di imparare di più su e da quei contesti. La maggior parte degli artisti presenti nel Nucleo Storico partecipa per la prima volta alla Biennale Arte: viene così pagato un debito storico nei loro confronti. In questo contesto, un’attenzione particolare è rivolta alla vita straordinaria di tutti gli artefici che rappresentano vasti movimenti e trasformazioni culturali impossibili da catturare in un’unica mostra. Per questo motivo, il Nucleo Storico è inteso come bozza, provocazione e come un esercizio curatoriale speculativo volto a mettere in discussione i confini e le definizioni del Modernismo, aprendo nuove strade e possibilità di comprensione dell’arte del XX secolo.

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Mariam Abdel-Aleem

ALESSANDRIA, EGITTO, 1930–2010

Artista e docente, Mariam Abdel-Aleem, forse più nota per le sue pratiche di stampa, nel corso della sua attività sperimenta una varietà di tecniche e soggetti. Formata presso la facoltà di Belle Arti del Cairo (1954), consegue un master in arti grafiche presso la University of Southern California (1957), seguito da un dottorato di ricerca presso l’Università Helwan del Cairo. Studia inoltre al Pratt Institute di New York. Membro fondatore dell’Associazione degli artisti di Alessandria, è stata una docente stimata della facoltà di Belle Arti di Alessandria fin dalla sua istituzione nel 1958. Nel corso della sua carriera, esplora principalmente stampa e incisione, dipinti su carta e su tela, disegno e scultura con opere in gran parte incentrate su temi sociali e attingendo alla vita quotidiana in Egitto.

Clinic (1958) raffigura una fila di pazienti in attesa all’ingresso di un ambulatorio medico, mentre una colomba bianca si libra sopra di loro. Le donne sono in coda con i figli, tutte vestite con abiti in stoffa fantasia; una porta prodotti freschi, mentre altre reggono ciotole di cibo. Un infermiere, in uniforme bianca, sorveglia l’ingresso, contrassegnato da un cartello con la scritta “Visita” in arabo. Il dipinto è caratteristico della pratica di Abdel-Aleem, con le protagoniste rese con figurazioni stilizzate

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A p d n d in lo m n c Y N a g e s I in g 1 S a p r B e 1 s s i t s f

e pennellate gestuali; rappresenta inoltre un commento sociale sulla vita nell’Egitto degli anni Cinquanta, e soprattutto sulle lotte della donne egiziane. Abdel-Aleem ha esposto in Egitto e nel mondo intero e ha rappresentato l’Egitto in numerose biennali internazionali. Il suo lavoro è stato presentato alla Biennale Arte del 1964. —Nadine Nour el Din

Clinic, 1958 Olio su tavola, 77 × 83 cm. Collezione Barjeel Art Foundation, Sharja. Courtesy Barjeel Art Foundation, Sharja.

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Affandi ha realizzato molti autoritratti con diverse tecniche, tra cui inchiostro, olio e argilla. Self-Portrait (1975) è una delle opere presentate all’interno della sua personale tenutasi a Singapore nel 1975, in occasione della laurea honoris causa conferitagli dall’Università di Singapore. Una fotografia dell’evento mostra Affandi mentre crea quest’opera sul posto, in presenza del pubblico. L’artista ha donato due dipinti, tra cui questo, alla National Museum Art Gallery di Singapore dopo la sua fondazione nel 1976, dipinti successivamente incorporati nell’attuale collezione della National Gallery Singapore. La tela mostra lo stile maturo di Affandi: fili sinuosi di giallo, rosso e verde formano i tratti del viso, mentre le aree di ocra e verde dipinte con il palmo della mano o con le dita assomigliano a una lavatura a pennello. —Anissa Rahadiningtyas

Self-Portrait, 1975 Olio su tela, 130 × 100,5 cm. Collezione National Gallery Singapore. Courtesy l’Artista; National Heritage Board, Singapore. © Affandi Foundation.

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Affandi, uno dei più rinomati pittori indonesiani, inizia a dipingere da autodidatta negli anni Trenta. Il periodo della guerra d’indipendenza indonesiana (1945-1950) lo vede parte attiva in un movimento di guerriglia e nei sanggar (spazi e atelier comuni gestiti da artisti) di Yogyakarta, Giava Centrale. Nel 1946, insieme ad altri artisti indonesiani della sua generazione, come S. Sudjojono e Hendra Gunawan, Affandi si unisce al gruppo Seniman Indonesia Muda (Giovani pittori indonesiani). Finanziato dal governo indiano, dal 1949 al 1951 studia pittura all’eremo di Santiniketan prima di iniziare a viaggiare ed esporre le proprie opere in Europa. Ha rappresentato l’Indonesia alla Bienal de São Paulo nel 1953 e alla Biennale di Venezia nel 1954. È noto per dipingere i suoi soggetti senza alcuno schizzo preliminare; spremeva i colori direttamente sulle tele, stratificandoli in maniera spontanea per trasmettere forte tensione e movimento.

CIREBON, INDONESIA, 1907 – 1990, YOGYAKARTA, INDONESIA

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Affandi

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Miguel Alandia Pantoja

CATAVI, BOLIVIA, 1914 – 1975, LIMA, PERÙ

L’opera di Miguel Alandia Pantoja deve essere vista sia nell’ambito della storia politica della Bolivia sia in relazione al muralismo messicano. Rivoluzionario, pittore e combattente nella guerra del Chaco, sopravvissuto alla prigionia in Paraguay, è stato un leader sindacale e un artista che ha ricevuto importanti incarichi statali a La Paz dopo la rivoluzione del 1952. I suoi murales La educación (1957) e La medicina boliviana (1957) dialogano senza dubbio con le opere di Diego Rivera. Con i suoi drammatici chiaroscuri e le tormentate rappresentazioni di corpi di indigeni e campesinos stremati, feriti e afflitti, i dipinti di Alandia rivelano affinità con quelli di José Clemente Orozco e David Siqueiros. Il suo lavoro, tuttavia, non era semplice imitazione dei maestri messicani, ma un potente contributo all’arte politica del XX secolo. Alandia, costretto a fuggire dalla Bolivia in seguito al colpo di stato militare del 1971, muore poco tempo dopo in esilio a Lima, in Perù. Sebbene il titolo (“ragazza” in Aymara) non abbia nulla di sorprendente, Imilla (1960) è tutt’altro che innocuo. La figura seduta occupa l’intero quadro notturno. Il corpo fasciato appare come un’alta cima che si erge dall’altipiano. L’abbigliamento dell’imilla ricorda quello delle miliziane del precedente Milicianos (1957). Perfettamente simmetrico, il volto è immobile come lo è il corpo. Guarda direttamente lo spettatore, anche se gli occhi rimangono nascosti nell’ombra. Non è una bambina addormentata né un’allegoria romantica della femminilità

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indigena. Questa imilla aspetta, osserva, vigila come una sentinella nella notte. La forma triangolare sembra essere più di una preferenza compositiva: la solidità pietrosa della sua presenza vigile suggerisce una sorellanza con la sua omonima: la montagna Imilla Apachita. Anche questa ragazza aymara è una montagna, una militante che difenderà il suo popolo. L’opera di Miguel Alandia Pantoja è esposta per la prima volta alla Biennale Arte. —Lisa Trever

Imilla, 1960 Olio su cartone pressato, 77 × 59,7 cm. Photo Michael Dunn. Collezione Museo Nacional de Arte. Courtesy Fundación Cultural del Banco Central de Bolivia.

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letteratura irachene, nonché alle proprie origini assire, babilonesi e sumere. Al-Azzawi è un umanista di profondo impegno politico e molte opere riflettono sulla guerra, la sofferenza umana e la causa palestinese. A Wolf Howls: Memories of a Poet (1968) si distingue tra i primi dipinti di al-Azzawi, realizzati negli anni Sessanta, per il ricorso a riferimenti mitologici e folcloristici. È stato dipinto all’indomani di un periodo turbolento, ovvero la Guerra dei sei giorni del 1967 (quando Siria, Giordania e Iraq furono sconfitti da Israele) e il colpo di stato che in Iraq riportò al potere il partito socialista Ba’ath. L’opera prende spunto da una poesia inedita di Muzaffar Al-Nawab – amico di al-Azzawi e figura di spicco della letteratura araba nonché feroce critico dei regimi dittatoriali – che racconta la storia di una

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madre che perde il figlio durante il colpo di stato Ba’ath. Gli intricati motivi colorati fanno riferimento ai tappeti kilim usati dai contadini del Sud, evocando l’astrazione geometrica modernista. Nel 1969, l’opera illustrava il manifesto radicale Towards a New Vision (Verso una nuova visione), di cui era coautore, in cui si sosteneva la necessità di una pratica artistica trasgressiva e innovativa e che l’artista fosse allo stesso tempo critico e rivoluzionario. —Adriano Pedrosa

A Wolf Howls: Memories of a Poet, 1968 Olio su tela, 84 × 104 cm. Collezione Barjeel Art Foundation, Sharja. Courtesy Barjeel Art Foundation, Sharja.

STRANIERI OVUNQUE

Dia al-Azzawi è una figura centrale del Modernismo iracheno, arabo e del Sud globale. Ha studiato archeologia al College of Arts di Baghdad e arti visive all’Institute of Fine Arts di Baghdad, e ha svolto il servizio militare a Mosul, con la sua ricca storia e cultura: uno straordinario background che gli ha permesso di approfondire la storia e le tradizioni irachene. Al-Azzawi appartiene alla terza generazione di artisti moderni iracheni seguita ai Pionieri, che hanno introdotto il Modernismo nel paese, e al Gruppo d’Arte Moderna di Baghdad cofondato da Jewad Selim. Quest’ultimo e al-Azzawi sono considerati i due artisti iracheni più iconici del XX secolo. al-Azzawi, in particolare, è stato in grado di sfruttare le proprie eccezionali conoscenze ed esperienze di vita, attingendo al folclore, alla poesia e alla

BAGHDAD, IRAQ, 1939 VIVE A LONDRA, REGNO UNITO, GIORDANIA E LIBANO

NUCLEO STORICO • RITRATTI

Dia al-Azzawi

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María Aranís

María Aranís, pittrice cilena, appartiene alla generazione di donne che all’inizio del XX secolo ha consolidato la presenza femminile nel sistema moderno delle arti. Poco si sa della sua storia perché – a differenza della sorella, la pittrice Graciela (Chela) Aranís – le informazioni sul suo sviluppo artistico e sulla sua biografia personale sono scarse. Tra le poche informazioni in nostro possesso, sappiamo che si iscrisse alla Scuola di Belle Arti e che le sue opere furono incluse nella spedizione cilena per l’Esposizione Iberoamericana di Siviglia del 1929. Entra inoltre a far parte dell’Associazione degli artisti del Cile, che denuncia l’indifferenza dello stato nei confronti degli affari culturali e che dà vita al Salón de los

Independientes (1931). Esorta la collaborazione con i colleghi e si batte per un’arte sociale che consenta l’accesso delle classi popolari. Aranís sarà l’unica donna su dodici nel consiglio di amministrazione. La comparsa di un nucleo di produzione artistica tra le donne dell’epoca ci presenta la corporalità come questione politica attraverso la quale le artiste costruiscono la propria identità. La negra (1931) risponde a questo aspro impulso. Dipinto a Parigi, rivela l’interesse dell’artista a trattare delle esperienze delle donne insieme alla lotta per le rivendicazioni femminili, il miglioramento dei salari, la sanità pubblica e il suffragio universale. Ciò si interseca, tuttavia, con la coniugazione

SANTIAGO, CILE, 1903 – 1966, [LUOGO IGNOTO], CILE

di classe sociale e gruppo etnico presente in questi temi: donne bianche e della classe media contro le esperienze di donne razzializzate, operaie e contadine. È proprio in questo periodo che si rafforzano le riunioni multiclasse in Cile, con la comparsa del Fronte Popolare e del MEMCH (Movimiento ProEmancipación de las Mujeres de Chile) a cui partecipano diverse associazioni femminili e femministe, creando legami di appartenenza in un nuovo paradigma all’interno della storia delle donne. L’opera di María Aranís è esposta per la prima volta alla Biennale Arte. —Gloria Cortes Aliaga

E m A E a b s d t d A f c B A in a d d d e 1 e a a f H

La negra, 1931 Olio su tela, 64,8 × 54 cm. Collezione Museo Nacional de Bellas Artes, Santiago del Cile.

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Baroukh riceve l’Hallmark Art Award. Dopo gli inizi figurativi, si distingue come pittore prevalentemente astratto, passando da composizioni geometriche dai colori vivaci all’astrazione lirica. Baigneuse (1952-1954 circa) è stato dipinto a Parigi nell’anno in cui Baroukh frequenta l’accademia del pittore cubista André Lhote. La resa scultorea e decostruita del corpo della bagnante, così come la sua posizione reclinata con le gambe incrociate e la testa appoggiata sul braccio piegato, ricordano i nudi femminili di Pablo Picasso. Ma qui la figura non è nuda. Il formato allungato della tela, enfatizzato da linee orizzontali e curve dinamiche, conferisce alla scena un’atmosfera riposante, nonostante la tavolozza sia dominata dai toni del rosso. La bagnante ha gli occhi chiusi:

il tema del dipinto sembra essere il sonno, o meglio il sogno. Il seno destro sferico, che domina la scena, evoca sia una luna che la testa di una possibile seconda figura che avviluppa la donna, mentre le loro braccia si fondono in un solo arto. La figura termina con una mano con quattro dita corte e arrotondate che evocano la zampa di un animale. Questi elementi onirici collocano Baigneuse all’incrocio tra figurazione geometrica e Surrealismo.

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L’opera di Ezekiel Baroukh è esposta per la prima volta alla Biennale Arte. —Nadine Atallah

Baigneuse, 1952-1954 ca. Olio su tela, 60 × 120 cm. Photo Maria e Mansour Dib. Courtesy Ramzi e Saeda Dalloul Art Foundation.

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NUCLEO STORICO • RITRATTI

Ezekiel Baroukh è stato membro del gruppo surrealista Art et Liberté, formatosi in Egitto nel 1938. Cresciuto ad Alessandria, grazie a una borsa di studio finanziata dallo stato, studia all’Accademia di Belle Arti di Roma per poi tornare in Egitto. Alla vigilia della Seconda guerra mondiale, Art et Liberté denuncia il fascismo, sollecitando molti comunisti ed ebrei come Baroukh e la moglie, l’avvocata Annette Fedida, a mettersi in gioco. Baroukh diventa anche membro dell’Atelier d’Alexandrie, istituzione chiave della scena culturale egiziana del XX secolo, che riuniva artisti e intellettuali cosmopoliti. Nel 1946 si stabilisce in Francia ed espone regolarmente a Lione con un gruppo di artisti chiamato Contraste, fondato da Jean-Marcel Héraut-Dumas. Nel 1949

MANSOURA, EGITTO, 1909 – 1984, PARIGI, FRANCIA

STRANIERI OVUNQUE

Ezekiel Baroukh

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Baya

Baya Mahieddine, nata Fatima Haddad e conosciuta semplicemente come Baya, è stata un’artista algerina autodidatta la cui pratica creativa si è estesa per oltre sei decenni. In relazione al suo lavoro, è facile imbattersi in parole come “primitivo”, “infantile”, “arte popolare”, “arte naïf”, “arte femminista”, “arte dell’emigrazione del dopoguerra”, “art brut” e “Surrealismo”, a indicare l’eterogeneità e la complessità delle influenze che hanno plasmato il suo percorso artistico. Lei stessa sfidava le categorizzazioni della storia dell’arte definendo umoristicamente la propria pratica come Baya-ismo. A quattordici anni viene presentata dall’artista Jean Peyrissac al mercante d’arte francese Aimé Maeght, in occasione della visita di quest’ultimo ad Algeri. Due anni dopo, il suo lavoro viene incluso nella seconda esposizione surrealista a Parigi, seguita da una mostra personale alla Galerie Maeght nella stessa città, per la quale André Breton scrive una prefazione in un numero speciale della rivista d’arte Derrière le Miroir.

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BORDJ EL KIFFAN, ALGERIA, 1931 – 1998, BLIDA, ALGERIA

Baya è nota soprattutto per le vivaci rappresentazioni di paradisi occupati esclusivamente da donne in abiti sfarzosi. I suoi personaggi femminili appaiono spavaldi e briosi e spesso guardano direttamente l’osservatore con occhi prominenti e audacemente truccati. Di solito sono impegnate in attività piacevoli, come suonare strumenti musicali, portare vasi di frutta appena raccolta o ammirare farfalle. Femme à la Robe Rose (1945) è una delle

prime opere di Baya, realizzata quando l’artista aveva appena quattordici anni. Descrivendo le proprie composizioni come “paesaggi onirici”, Baya le satura di colori luminosi e motivi vivaci, presentando il mondo attraverso una lente allegra e fantasiosa. Immerse nei ricordi della sua infanzia, le opere offrono una tregua idilliaca dalla realtà spesso difficile della sua vita. —Suheyla Takesh

Femme à la Robe Rose, 1945 Acquerello e gouache su carta, 59 × 47,2 cm. Collezione Barjeel Art Foundation, Sharja. Courtesy Barjeel Art Foundation, Sharja.

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Femme au Paon, s.d. Guache su carta, 103 × 70 cm. Photo Maria e Mansour Dib. Courtesy Ramzi e Saeda Dalloul Art Foundation.

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Non datato, Femme au Paon riflette la vivacità, l’estrosità e il simbolismo culturale che caratterizzano la sua opera. L’immagine ritrae una giovane figura femminile seduta in un giardino paradisiaco brulicante di vita. La fronte tatuata della donna, le mani ricoperte di henné, la scollatura ricamata e i gioielli si mescolano a un ambiente di forme atmosferiche e vegetali, piume decorate e creature beneauguranti. L’iconografia, le campiture di colore piatte e la resa spaziale di Ben Salem collegano l’opera alle tradizioni pittoriche islamiche da lui venerate. Le sue linee ondulate e la tavolozza di rosa pastello, blu, verdi e arancioni

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animano la composizione con una gioiosa vitalità che riflette la sua pratica più ampia. Le qualità immaginifiche e allegoriche dell’opera raccontano il viaggio filosofico dell’artista attraverso l’esistenza e il potere della creatività di fronte alla colonizzazione e alla cancellazione storica. Convinto che un artista debba portare gioia e scongiurare la distruzione, Ben Salem dipinge per infondere nei suoi osservatori serenità, libertà mentale e amore. L’opera di Aly Ben Salem è esposta per la prima volta alla Biennale Arte. —Jessica Gerschultz

NUCLEO STORICO • RITRATTI

Aly Ben Salem è stato un artista moderno che ha descritto la pittura come un liberatorio atto d’amore. Pur avendo trascorso gran parte della sua carriera in Svezia e in Francia, si impegna a favore del patrimonio culturale tunisino e dell’autonomia politica. Negli anni Trenta, Ben Salem è tra i primi musulmani arabi a frequentare l’École des Beaux-Arts di Tunisi. Decora il padiglione tunisino all’Esposizione Internazionale di Parigi del 1937 e lavora come grafico per il Musée des Arts Indigènes sotto il protettorato francese. La sua rivisitazione dell’arte storica tunisina ha informato i suoi approcci estetici aprendo un campo di indagine per una generazione di artisti dediti a riconquistare l’arte dall’egemonia coloniale. Trasferitosi a Stoccolma dopo il 1945, Ben Salem esprime solidarietà politica attraverso una pratica socialmente impegnata, che trae ispirazione dalle miniature e dalla pittura su vetro a rovescio. Ha creato composizioni liriche nell’intento di coltivare l’amore per la bellezza e la vita stessa.

TUNISI, TUNISIA, 1910 – 2001, STOCCOLMA, SVEZIA

STRANIERI OVUNQUE

Aly Ben Salem

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Semiha Berksoy

Semiha Berksoy – celebre soprano drammatico, pittrice, scultrice, attrice, costumista e artista performativa – nel corso di una lunga e prolifica vita in prima linea sulle scene culturali turche e tedesche dominate da uomini, ha praticato l’“arte totale” attraversando svariate discipline. Cresciuta in una famiglia di intellettuali nel cuore culturale del quartiere Tepebaşı di Istanbul, negli ultimi anni dell’Impero Ottomano, si dedica alla pittura e alla scultura presso l’Accademia di Belle Arti di Istanbul e alla formazione vocale sotto la guida di Nimet Vahit, una delle prime cantanti turche formate alla musica classica occidentale. È stata inoltre una stella dei primi film turchi, il che ha portato alla sua caratteristica acconciatura a caschetto nero. Fino ai novant’anni ha interpretato Arianna nell’Arianna a Nasso di Richard Strauss, Ayşim in Özsoy di Adnan Saygun, Leonore nel Fidelio di Beethoven, Azucena ne Il trovatore di Giuseppe Verdi e la protagonista della Tosca di Giacomo Puccini. A partire dagli anni Sessanta ha esposto la sua arte a Berlino, Bonn, Vienna, Istanbul, New York e Lussemburgo. Collocato sopra il suo letto, My Mother the Painter Fatma Saime (1965) figura come elemento chiave in Semiha Berksoy Room (1994), un’installazione profondamente biografica che l’artista

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ISTANBUL, TURCHIA 1910–2004

ottantenne ha creato all’interno del proprio appartamento utilizzando i dipinti di amici e i loro oggetti quotidiani. Il busto-ritratto della defunta madre, vittima a ventisette anni dell’influenza spagnola, fluttua in uno sfondo rosa pallido in cui da un’aureola bianca si dipanano raggi di luce irregolari e al tempo stesso carichi di vita. Gli occhi insolitamente grandi ricordano quelli dei ritratti funerari del Fayyum e qui l’artista dipinge la madre come un bellissimo cadavere e anche come una santa. Nonostante la presenza del sangue, imprescindibile, a esso è contrapposto un enorme fiore sbocciato, simile al sacro cuore, che simboleggia l’amore sconfinato della madre e l’eredità artistica trasmessa alla figlia a dispetto della morte. La decisa linea nera, che compare nella maggior parte dei dipinti di Berksoy, non vuole evocare la morte, bensì la vita terrena e ultraterrena.

L e f d U q a s e s in e g r d d p e d J p a s V e a S e P c E le p C m

—Deniz Turker

My Mother the Painter Fatma Saime, 1965 Olio su masonite, 93 × 65 cm. Collezione Gallerist. Courtesy Galerist e Semiha Berksoy Estate. © Galerist e Semiha Berksoy Estate.

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La vita di Georgette Chen può essere caratterizzata da due fasi: la prima – contraddistinta dai viaggi tra Cina, Stati Uniti ed Europa – durante la quale persegue la propria arte mentre attorno a lei si svolgono due guerre mondiali e la guerra civile cinese; la seconda, quando si stabilisce in una nuova casa a Singapore e insegna a una nuova generazione di artisti. Ciò che rimane costante nel corso della sua vita è la capacità di trovare ispirazione nella pluralità di culture con cui entra in contatto. Nata in Cina dalla ricca famiglia Zhang Jingjiang, Chen ha i mezzi per seguire un’educazione artistica classica. Si forma sotto la guida dell’artista russo Viktor Podgursky a Shanghai e successivamente presso accademie d’arte come l’Art Students League di New York e l’Académie Colarossi di Parigi. Il matrimonio nel 1930 con il diplomatico cinese Eugene Chen, nato a Trinidad, le permette di continuare la pratica artistica in Francia e in Cina. Dopo la Seconda guerra mondiale, nel 1951, si trasferisce

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in Malesia per poi stabilirsi a Singapore nel 1953, dove diventa una figura di spicco nel mondo dell’arte. Self Portrait (1946 circa) attesta la permanente dedizione alla propria arte. Il volto in primissimo piano affronta l’osservatore con sguardo sicuro. I colori pastello utilizzati per l’incarnato contrastano con lo sfondo grigio e marrone, conferendo al dipinto un senso di austerità. In quel periodo l’artista aveva perso da poco il marito, Eugene Chen, ed è alla ricerca di un luogo tranquillo dove potersi riprendere e dipingere. Nonostante la tragedia personale, Chen rimane ferma nella volontà di affermarsi come artista. Tra il 1945 e il 1947 viaggia in Cina, realizzando opere in preparazione delle successive mostre personali a Shanghai (1947), New York (1949), Parigi (1950) e Singapore (1953).

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ZHEJIANG, CINA, 1906 – 1993, SINGAPORE

Self Portrait, 1946 ca. Olio su tela, 22,5 × 17,5 cm. Collezione National Gallery Singapore. Courtesy National Heritage Board, Singapore; Lee Foundation.

NUCLEO STORICO • RITRATTI

Georgette Chen

L’opera di Georgette Chen è esposta per la prima volta alla Biennale Arte. —Lim Shujuan

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Saloua Raouda Choucair

BEIRUT, LIBANO, 1916-2017

Saloua Raouda Choucair è un’artista con la mente della poetessa, l’anima da architetta e la precisione di una matematica. Pur avendo ricevuto un’istruzione artistica formale, sceglie di ideare un proprio percorso di esplorazioni artistiche. Scopre il misticismo sufi e i fondamenti aritmetici dell’arte islamica durante un viaggio in Egitto nel 1943. Nel 1948, continua gli studi d’arte a Parigi, presso l’Académie des Beaux-Arts, e frequenta l’Atelier d’Art Abstrait; ha però sempre sottolineato che, prima ancora di incontrare le tendenze e le filosofie artistiche occidentali, è stata l’esposizione all’astrazione geometrica dell’arte islamica a plasmare la sua sensibilità artistica. Choucair si dedica alle sue sculture più rappresentative dopo il 1957; queste si compongono di parti modulari che possono essere assemblate e disassemblate – sculture che catturano il ritmo, l’armonia, la perfezione.

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In Self-Portrait (1943), Choucair esibisce la naturale universalità della sua tecnica. Luci e ombre sono viste come forme geometriche più che come tonalità, generando così ritmo e profondità. Questo quadro si trova a un crocevia di diverse epoche nell’opera dell’artista, e dimostra che l’avanguardismo di Choucair non è legato ad alcuna storia dell’arte specifica, ma piuttosto incarna con naturalezza molteplici storie in una. L’opera di Saloua Raouda Choucair è esposta per la prima volta alla Biennale Arte. —Fadia Antar

Self-Portait, 1943 Olio su tavola, 44 × 32 cm. Courtesy Saloua Raouda Choucair Foundation.

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NUCLEO STORICO • RITRATTI

Chua Mia Tee – uno dei principali artisti realisti di Singapore, dove emigra nel 1937 in fuga dalla guerra sinogiapponese – è autore di alcune delle opere più iconiche della storia di questo paese, come ad esempio Epic Poem of Malaya (1955) e National Language Class (1959). Avendo rivelato precoci inclinazioni artistiche, sotto la guida di Chen Chong Swee, un altro emigrato cinese trasferitosi a Singapore, studia arte presso l’Accademia di Belle Arti di Nanyang di cui diventa poi docente. Chua figura come membro di spicco all’interno di due organizzazioni artistiche fondate a Singapore negli anni Cinquanta che si occupavano di arte per le masse: il Singapore Chinese High Schools’ Graduates of 1953 Arts Research Group e la Equator Art Society. Questi gruppi, composti da professionisti di varie discipline artistiche, credevano nel ritrarre la realtà della vita quotidiana e nel creare arte che elevasse la società. La Equator Art Society, in particolare, ha contribuito allo sviluppo dell’arte realista sociale a Singapore.

Road Construction Worker (1955) è il ritratto di un anonimo manovale. Il soggetto è seduto a terra, a torso nudo e a piedi nudi. Le vene sporgono dalle braccia e dalle mani, mentre il sudore gli cola dal collo e dalle ascelle, a testimonianza dello sforzo fisico del suo lavoro. Ha la barba non rasata, i capelli scuri arruffati e incolti, la fronte aggrottata e dirige verso l’osservatore uno sguardo struggente che pare implorare compassione. Chua, aderendo ai principi di

Road Construction Worker, 1955 Olio su tela, 96 × 66 cm. Collezione National Gallery Singapore. Courtesy National Heritage Board, Singapore.

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SHANTOU, CINA, 1931 VIVE A SINGAPORE

“verità, virtù e bellezza”, crede nella necessità di catturare non solo le sembianze fisiche dei propri soggetti, ma anche il loro spirito. Dipingendo questo individuo, l’artista rende omaggio ai lavoratori edili di Singapore, molti dei quali immigrati, che sono stati fondamentali per l’espansione delle infrastrutture del paese. L’opera di Chua Mia Tee è esposta per la prima volta alla Biennale Arte. —Clarissa Chikiamco STRANIERI OVUNQUE

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Chua Mia Tee

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Julia Codesido

Julia Codesido è stata pittrice, incisora e docente, e, a partire dai primi decenni del XX secolo, anche attivista femminista. Nel 1900, a diciassette anni, Codesido si trasferisce con la famiglia in Europa dove nei successivi diciotto anni entra in contatto con le opere dei maestri europei. Tornata a Lima nel 1918, decide di diventare pittrice. Una delle prime donne a essere ammessa alla Escuela Nacional de Bellas Artes di recente fondazione, ne diventa in seguito una delle docenti più innovative. La filosofia di Codesido cambia direzione quando si iscrive ai corsi di José Sabogal, primo sostenitore dell’indigenismo pittorico in Perù, il cui obiettivo primario era la rivendicazione delle popolazioni indigene e la creazione di una visione più

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ampia e inclusiva della nazione. Pur essendo principalmente una pittrice, Codesido esplora anche la xilografia. I suoi lavori sono stati spesso pubblicati sull’influente rivista Amauta. Ispirata dall’indigenismo pittorico e dai frequenti viaggi in ogni angolo del suo Perù, Codesido sviluppa un distintivo linguaggio pittorico che ridefinisce l’identità nazionale abbracciandone le radici native. Nel suo lavoro, l’artista non solo esplora l’identità peruviana, ma rielabora altresì la figura femminile. Attivista femminista, all’inizio degli anni Venti Codesido fa parte di una serie di gruppi che difendevano i diritti delle donne sia nella sfera privata sia in quella pubblica. Dipinto con colori vivaci, Vendedora ayacuchana (1927) raffigura

LIMA, PERÙ, 1883–1979

una donna scalza avvolta in una tipica coperta peruviana; colpiscono i suoi splendidi lineamenti e lo sguardo profondo. Quest’opera, come tutta la produzione di Codesido di questo periodo, riflette il suo interesse per l’estetica e la sensibilità delle Ande.

J o r n D d v c – n c t in a a A M a le c r a N c il S N d I d e s c d im p id s t d

L’opera di Julia Codesido è esposta per la prima volta alla Biennale Arte. —Sonia Becce

Vendedora ayacuchana, 1927 Olio su tela, 95 × 110 cm. Museo de Arte de Lima. Comité de Formación de Colecciones 2017.

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NUCLEO STORICO • RITRATTI

Dopo l’incontro con Toyo Kurimoto, che in seguito diventerà sua compagna di vita, Colson sperimenta una fase di trasformazione. Questa circostanza decisiva non solo lo spinge a integrare nei propri lavori elementi della cultura giapponese di Kurimoto, ma ne ispira anche il ritratto in uno stile frammentato con strati di colore che si fondono in modo organico. Nel 1926 Colson inizia la sua incursione nel Cubismo e Japonesa, realizzato in quell’anno, funge da precursore nell’evoluzione in questo ambito stilistico. La sua intensità cromatica, la purezza formale e l’intrinseca organicità non hanno pari nelle sue successive creazioni cubiste. Degno di nota è l’inserimento di cerchi neri che generano un nesso visivo tra cielo e terra, così come l’occhio solitario e penetrante, ottenuto attraverso un’incisione nel pigmento che scopre il legno sottostante. Colson usa la figura femminile come archetipo di serena santità. Si osservi la firma che scende in verticale con tratti che richiamano la calligrafia orientale. L’opera di Jaime Colson è esposta per la prima volta alla Biennale Arte. —Sara Herman

Japonesa, 1926 Olio su cartoncino, 35,5 × 41 cm. Photo Mariano Hernández. Courtesy Museo Bellapart. © Mariano Hernández 2024.

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STRANIERI OVUNQUE

Jaime Colson è un artista originario di Tubagua, nella regione di Puerto Plata, nel nord della Repubblica Dominicana. La singolarità del luogo in cui nasce, una vivace città costiera, unita alla cultura variegata dei genitori – un mix di origini spagnole, nordamericane e dominicane, ciascuna con sostrati black e taíno – esercita una profonda influenza sulla sua opera artistica. Colson studia pittura alla Real Academia de Bellas Artes de San Fernando di Madrid e in seguito si stabilisce a Barcellona, instaurando legami con l’avanguardia catalana. Negli anni Venti reitera questo processo artistico immersivo a Parigi. Nel corso di cinquant’anni di carriera, il suo stile attraversa il Realismo, il Cubismo, il Surrealismo e una variante di Neoclassicismo che l’artista denomina Neo-umanismo. Il talento nello sperimentare diversi percorsi artistici si evidenzia nella varietà delle sue espressioni creative. Ciò che davvero definisce l’opera di questo artista è l’incrollabile impegno nei confronti della pittura come piattaforma ideologica ed emotiva. Questo sforzo indefesso promuove una transizione fluida e organica fra diversi vocabolari artistici.

PUERTO PLATA, REPUBBLICA DOMINICANA, 1901 – 1975, SANTO DOMINGO, REPUBBLICA DOMINICANA

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Jaime Colson

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Olga Costa

LIPSIA, GERMANIA, 1913 – 1993, GUANAJUATO, MESSICO

Olga Kostakowsky, più nota come Olga Costa, è stata una pittrice e un’influente promotrice culturale del Modernismo messicano. Nata in Germania nel 1913, a dodici anni emigra con la famiglia a Città del Messico, dove, nel 1933 e per un breve periodo, studia alla Scuola di Belle Arti con Carlos Mérida e Rufino Tamayo. Assieme a Diego Rivera, Frida Kahlo e María Izquierdo, tra gli altri, partecipa alla mostra inaugurale del Salón de la Plástica Mexicana nel 1949. Appassionata di arte e cultura, è stata cofondatrice di numerose gallerie e spazi artistici e di diversi musei nello stato di Guanajuato, come il Museo del Pueblo. Con mostre a New York, Parigi e Stoccolma, Costa è tra le più importanti rappresentanti femminili del Modernismo messicano, impegnata in questioni riguardanti l’identità messicana, i ruoli di genere e la vita quotidiana.

In Autorretrato (1947), incontriamo una pittrice sicura di sé nel patio di una casa tradizionale nella campagna messicana. Seduta all’ombra in una giornata afosa, Olga ci fissa con fermezza, soppesando i nostri sguardi invadenti. Forse è l’intensità dei suoi occhi azzurri, quasi turchesi – un tratto distintivo che di rado si riscontra tra gli abitanti del Messico –, a suscitare profonda ammirazione. Eppure, abbigliata con la tradizionale camicetta messicana e gli orecchini artigianali,

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Costa ci fa capire che appartiene allo stesso popolo, indipendentemente dalle sue origini. Dipinto nello stesso anno in cui Costa diventa cittadina messicana, Autorretrato rivela il suo impegno nei confronti della nuova patria, attraverso la rappresentazione della cultura di questo paese. L’opera di Olga Costa è esposta per la prima volta alla Biennale Arte. —Eva Posas

Autorretrato, 1947 Olio su tela, 90 × 75 cm. Photo Francisco Kochen. Collezione Andrés Blaisten. Courtesy Collezione Andrés Blaisten. © Francisco Kochen.

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El Hueso (1940) raffigura un uomo indigeno con ombrello e cappello tranquillamente seduto, vestito di tutto punto – una scelta di abiti che si addice a un “uomo moderno” – con accanto un osso. In attesa in quello che sembra essere un portico da qualche parte nel Messico rurale, l’uomo ha un barlume di tristezza negli occhi. Conosciuta anche con il titolo Maestro Rural, la tela mostra un insegnante in attesa di un hueso, che in gergo significa ottenere un lavoro grazie al favore del politico in carica. In questo caso, la spilla sul bavero indica che l’uomo

L’opera di Miguel Covarrubias è esposta per la prima volta alla Biennale Arte. —Eva Posas

El Hueso, 1940 Olio su tela, 35,6 × 26 cm. Courtesy Instituto Nacional de Bellas Artes y Literatura; Museo Nacional de Arte, Città del Messico.

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sta aspettando qualcuno del Partito Rivoluzionario Istituzionale, fondato nel 1929 e che ha mantenuto il controllo ininterrotto del paese per settantuno anni. Mentre ritrae la vita quotidiana nelle campagne, Covarrubias dipinge una sottile critica alla situazione politica e sociale della modernizzazione del Messico.

NUCLEO STORICO • RITRATTI

Miguel Covarrubias è stato un pittore, scrittore, illustratore e documentarista delle culture indigene dotato di umorismo tagliente e occhio satirico, la cui ricerca etnografica avrebbe esercitato un grande impatto sull’identità nazionale del Messico dopo la Rivoluzione. Nato a Città del Messico nel 1904, a diciannove anni si reca a New York, dove inizia a lavorare per riviste come Vanity Fair, e dove conosce artisti del calibro di Tina Modotti, Edward Weston, Diego Rivera e Frida Kahlo. Negli anni Trenta percorre l’Asia e al suo ritorno in Messico, negli anni Quaranta, esplora il paese alla ricerca della cultura messicana. I libri che ne sono risultati sono Mexico South: The Isthmus of Tehuantepec (1946) e Indian Art of Mexico and Central America (1957). Sebbene i suoi richiami all’Art Déco possano aver rafforzato alcuni stereotipi attraverso un occhio esterno, Covarrubias documenta le culture non occidentali, ammirando ciò che ai suoi tempi era ancora inosservato e rifiutato.

CITTÀ DEL MESSICO, MESSICO 1904–1957

STRANIERI OVUNQUE

Miguel Covarrubias

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Djanira da Motta e Silva

“Dipingere e viaggiare sono i verbi del mio destino”: così Djanira da Motta e Silva ha definito il proprio percorso artistico. Pittrice autodidatta, Djanira – come preferiva essere chiamata – emerge sulla scena artistica brasiliana negli anni Quaranta. Figlia di madre austriaca e di padre di origine indigena, l’artista trascorre l’infanzia e l’adolescenza nei remoti dintorni di San Paolo. Alla fine degli anni Trenta si trasferisce a Rio de Janeiro, dove si dedica alla pittura e instaura rapporti professionali e affettivi con i suoi contemporanei. L’ambiente artistico degli anni Quaranta a Rio de Janeiro è caratterizzato dalla presenza dei rifugiati di guerra europei,

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dal mecenatismo pubblico dell’Estado Novo (la Terza Repubblica brasiliana) e dall’assorbimento delle rotture formali e tematiche provocate dall’avanguardia modernista degli anni Venti. In tale contesto, l’opera di Djanira attira l’interesse dei critici d’arte, che la classificano come “naïve” e “primitiva”, etichette che l’artista contesta con forza per tutta la sua vita. Interessata alla vita quotidiana, alla cultura vernacolare brasiliana, alle rappresentazioni del lavoro e dei lavoratori e alla varietà culturale del paese, Djanira percorre il Brasile traducendo in dipinti la realtà che insisteva a vedere da vicino. In una dichiarazione del

AVARÉ, BRASILE, 1914 – 1979, RIO DE JANEIRO, BRASILE

1976, la pittrice afferma che questa esperienza si è rivelata “più ricca di insegnamenti plastici rispetto alla sterilità di formalismi non sentiti né vissuti”. Nel 1960, si reca nel Maranhão, nel nord-est del Brasile, dove trascorre del tempo con il popolo canela (oggi autodefinitosi timbira). In una rappresentazione del tutto priva di romanticismo, due bambini mostrano le pitture sul loro corpo, mentre le gambe e i piedi si confondono con le radici dell’albero che li sostiene. Quest’opera non solo riflette l’interesse di Djanira per il grafismo indigeno, ma segna l’incontro dell’artista con la propria ascendenza indigena,

in parte persa nel processo di miscegenazione, ma sempre rivendicata dall’artista come propria origine. L’opera di Djanira da Motta e Silva è esposta per la prima volta alla Biennale Arte. —Isabella Rjeille

Crianças Kanelas, 1960 Olio su tela, 130 × 97 cm. Photo Jaime Acioli. Courtesy Pinakotheke, Rio de Janeiro. © Jaime Acioli.

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NUCLEO STORICO • RITRATTI

Artista precoce, Emiliano Di Cavalcanti inizia il suo percorso artistico all’età di diciotto anni nel mondo della caricatura e delle vignette per riviste e quotidiani. Nato a Rio de Janeiro, Cavalcanti approda a San Paolo nel 1917, insieme ai vari gruppi di artisti, pittori e scrittori che si stavano mobilitando per il festival della Settimana dell’Arte Moderna, per cui realizza anche il manifesto e la copertina del catalogo. La grande contraddizione del Modernismo brasiliano era la stessa che opprimeva Cavalcanti e il suo lavoro: da un lato si difendeva la necessità di “aggiornare” l’arte brasiliana traendo spunto da ciò che avveniva nelle avanguardie europee, in particolare il Cubismo, mentre dall’altro si cercava di ricollegare l’arte brasiliana a un’idea di “identità nazionale”, una ricerca di radici perdute che portava a interessarsi a una cultura brasiliana “popolare”.

Três mulatas (moças do interior) (1922) vuole rappresentare uno stereotipo tipicamente brasiliano, quello della mulata, un termine usato in Brasile in modo razzista e discriminatorio per designare le persone di etnia mista. Riferendosi al tema classico delle “tre Grazie”, la donna in primo piano volta le spalle alle altre due, ognuna osserva in una direzione diversa e non si rivolgono lo sguardo; una costruzione che rafforza l’opposizione tra il senso di reciproca unità e l’isolamento in cui ciascuna versa. La singolarità di ognuna è accentuata anche dalla

Três mulatas (moças do interior), 1922 Olio su tela, 60 × 50 cm. Photo Instituto Tomie Ohtake. Collezione Igor Queiroz Barroso, Fortaleza. Courtesy Instituto Tomie Ohtake.

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RIO DE JANEIRO, BRASILE, 1897–1976

differenza di tonalità della pelle, che contrasta con i colori degli abiti. Come in altre rappresentazioni di donne realizzate in questa fase, il titolo “Ragazze di campagna” (moças do interior), insieme alla semplicità degli abiti e all’assenza di gioielli o di qualsiasi altro ornamento, evidenzia le umili origini sociali dei personaggi, in un’idealizzazione del povo (gente comune) tipica della classe sociale e dell’elitarismo di molti modernisti brasiliani. —Fernando Oliva

STRANIERI OVUNQUE

Emiliano Di Cavalcanti

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Cícero Dias

Cícero Dias – nato in una piantagione di zucchero nel nord-est del Brasile – ha vissuto tra Parigi e Recife, la capitale del suo stato natale. È stato il più longevo di tutti i modernisti brasiliani e la sua opera spazia da dipinti a tema regionalistico all’astrazione geometrica. Nei lavori figurativi, le reminiscenze dell’infanzia in campagna si fondono con la cultura popolare, occupando la superficie della tela come fossero collage disposti secondo una logica molto particolare, in cui, a detta dell’artista, “non regna la legge del tempo e dello spazio”. Già prima del viaggio in Francia, la produzione artistica di Dias è stata associata a quella di Marc

Chagall per via delle figure fluttuanti e sproporzionate rispetto al paesaggio. Nel 1948 realizza un murale astratto per il Dipartimento delle Finanze di Recife, considerato il primo del suo genere nel paese. Negro (anni Venti) è un commento critico sulla condizione degli ex schiavi (liberati per legge nel 1888) nel contesto di un Brasile ancora agricolo. Il senso di non appartenenza, solitudine e incomunicabilità è trasmesso attraverso i toni neri e ocra utilizzati per il protagonista in primo piano, che si contrappongono ai toni chiari e vivaci usati nel resto del dipinto. Inoltre, il fatto che

ESCADA, BRASILE, 1907 – 2003, PARIGI, FRANCIA

il protagonista non guardi nella stessa direzione delle altre figure, messo all’angolo dalla coppia di donne che gli impediscono il passaggio, esalta queste emozioni. Il suo sguardo è rivolto allo spettatore, ma l’espressione indica che i suoi pensieri sono lontani. La direzione dello sguardo è infatti diametralmente opposta a quella del volo dell’uccello nero libero. Il collegamento tra queste due realtà antagoniste (la libertà dell’uccello e la reclusione del protagonista) è messo in atto da chi osserva, che assiste a questa disparità. —Regina Barros

Negro, 1920s Olio su tela, 79 × 52 cm. Photo Sergio Guerini. Courtesy Almeida & Dale Galeria de Arte. © Segio Guerini.

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BUENOS AIRES, ARGENTINA, 1925 – [LUOGO E DATA IGNOTI]

NUCLEO STORICO • RITRATTI

Juana Elena Diz, pittrice, stampatrice e ceramista, nasce in Argentina nel 1925. Nel suo lavoro, incentrato sulla generale solitudine delle donne lavoratrici indigene, crea un approccio singolare al realismo modellando i corpi in strutture geometriche solide, quasi monumentali e costruendo l’intimità emotiva con colori desaturati e spazi vuoti. È nota per essere l’unica donna all’interno del Grupo Espartaco (1959–1968), un collettivo di artisti che rivendicava l’eredità del muralismo messicano. Il gruppo promuoveva una visione dell’arte che privilegiava la sperimentazione formale con motivi regionali, ponendosi come azione rivoluzionaria contro il colonialismo culturale dell’arte d’avanguardia degli anni Sessanta. Insieme ai colleghi Ricardo Carpani, Mario Mollari, Juan Manuel Sánchez e Carlos Sessano, tra gli altri, partecipa a numerose mostre in Argentina, Stati Uniti ed Europa. Nel 1975 emigrò alle Isole Baleari, in Spagna, e di lei non si seppe più nulla.

Lavandera, s.d. Olio su tela, 127,8 × 97,9 cm. Collezione del Museo de Arte Moderno di Buenos Aires.

Modernismo. In questo dipinto, Diz cattura un momento di introspezione che interrompe il peso del lavoro. È una caratteristica distintiva del suo lavoro: le donne sono spesso rappresentate con espressioni assenti, bloccate nei loro pensieri, ricordi e sogni, forse inseguendo un fugace senso di libertà. L’opera di Juana Elena Diz è esposta per la prima volta alla Biennale Arte. —Nicolas Cuello

STRANIERI OVUNQUE

Come altri membri del Grupo Espartaco, Diz attinge a una serie di riferimenti formali e pittorici, tracciando in Lavandera il ritratto di una donna indigena in posizione statica, con lineamenti sproporzionati e toni terrosi. Diz non solo infonde un senso di monumentalità alla forma geometrica della donna, di cui di solito sperimenta i contorni, ma crea altresì una rappresentazione decolonizzata del corpo femminile utilizzando il vocabolario visivo del

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Juana Elena Diz

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Tarsila do Amaral

Tarsila do Amaral è stata una delle più grandi artiste moderniste brasiliane del XX secolo. Nata a Capivari, nella campagna dello stato di San Paolo, da una famiglia di agricoltori benestanti, studia a Barcellona e a Parigi. Nella capitale francese, tra il 1920 e il 1923, inizialmente riceve una formazione tradizionale presso l’Académie Julian sotto la guida dell’artista accademico Émile Renard, prima di proseguire gli studi con i cubisti André Lhote e Albert Gleizes e di frequentare lo studio di Fernand Léger. Al suo rientro in Brasile, si unisce al gruppo modernista di San Paolo, composto da Anita Malfatti, Oswald de Andrade (che sposerà), Mário de Andrade e Paulo Menotti Del Picchia. La sua carriera professionale prosegue anche a Parigi, dove partecipa alle prime mostre collettive (il Salon de la Société des artistes français al Grand Palais, 1922; il Salon des Indépendants al Palais de Bois, 1926); le sue prime due mostre personali si tengono alla Galerie Percier, nel 1926 e nel 1928.

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Do Amaral realizza Estudo (Academia n. 2) (1923) dopo i suoi studi di pittura con Lhote e Gleizes: l’opera rivela chiare influenze cubiste, in particolare nelle costruzioni volumetriche e geometriche, ravvisabili nel corpo della donna al centro, nei mobili, nella vegetazione sulla destra e nel paesaggio incorniciato sullo sfondo. Tuttavia, la tipica luminosità che caratterizza l’opera dell’artista, e che raggiungerà il suo apice nella fase Pau-Brasil (19241928), è già evidente qui nei

CAPIVARI, BRASILE, 1886 – 1973, SAN PAOLO, BRASILE

toni bluastri e rossastri, ma soprattutto nella vegetazione vicino alla schiena della donna, una pianta tropicale del luogo, la stessa delle rappresentazioni assurde nella sua fase antropofagica (1929-1930). Do Amaral ha esposto alla Biennale di Venezia nel 1964. —Fernando Olivia

Estudo (Academia no. 2), 1923 Olio su tela, 61 × 50 cm. Photo Diego Bresani. Collezione privata. Courtesy Almeida & Dale Galeria de Arte. © Diego Bresani.

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Istriku [My Wife], 1953 Olio su tela, 102 × 83 cm. Courtesy National Gallery of Indonesia.

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Istriku (1953) rivela la sua superiorità realista-romantica nel rappresentare figure femminili come soggetto principale. Come suggerisce il titolo, la figura in questo dipinto è la moglie, Jan Jaerabby Fatima. La si vede seduta e in posa come modella nello studio, con il tradizionale kebaya e un ventaglio in mano. Oltre all’impegno sostanziale nei confronti dei temi nazionalisti, dell’umanesimo e dei valori locali, Dullah è noto come ritrattista abile nel rappresentare l’umanità e la

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bellezza naturale dell’Indonesia e della sua gente. Oltre a Istriku, Dullah ha dipinto altre figure, tra cui Halimah Gadis Atjeh (Halimah la ragazza Atjeh, 1950) e Ni Samprik (1952), entrambe appartenenti alla collezione del primo presidente indonesiano Sukarno. L’opera di Dullah è esposta per la prima volta alla Biennale Arte. —Asep Topan

NUCLEO STORICO • RITRATTI

Dullah è stato una figura fondamentale nella nascita della pittura rivoluzionaria in Indonesia durante la Rivoluzione nazionale (1945-1949). Nel corso dell’occupazione olandese di Yogyakarta (1948-1949), guida un gruppo di giovani artisti, invitandoli a dipingere e disegnare direttamente per documentare la storia della lotta nazionale. L’evento spinge i suoi contemporanei a definirlo “pittore rivoluzionario”. Realista convinto, Dullah vede nel proprio realismo anche un mezzo per difendere i contadini e la gente di campagna. Proveniente da una famiglia di fabbricanti di batik di Surakarta, Dullah impara a dipingere da S. Sudjojono e Affandi quando era membro del Seniman Indonesia Moeda (Giovani artisti indonesiani) e si fa conoscere come maestro nel ritratto. Nel 1950 viene nominato pittore del palazzo presidenziale indonesiano. Durante i dieci anni di servizio, il suo compito speciale è quello di curare e rinnovare i dipinti della collezione del palazzo del presidente Sukarno.

SURAKARTA, INDONESIA, 1919 – 1996, YOGYAKARTA, INDONESIA

STRANIERI OVUNQUE

Dullah

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Inji Efflatoun

IL CAIRO, EGITTO, 1924–1989

Prisoner, noto anche con il titolo Ahlam al-sitt Bahanna (1963), viene dipinto durante i quattro anni di detenzione. L’artista, una donna dell’alta società, si è impegnata a comprendere più a fondo la realtà del popolo egiziano e ha definito la prigione un’opportunità per entrare in contatto con le donne svantaggiate. Attraverso i numerosi ritratti delle compagne di detenzione, Efflatoun ha voluto denunciare gli effetti devastanti della povertà sulle donne. Ahlam al-sitt Bahanna, o “I sogni di Bahanna”, mostra una detenuta, indicata con il nome di battesimo, che ricama un indumento a fantasia destinato al bambino che spera di concepire. Questa immagine di una prigioniera che ricama è la testimonianza di un evento specifico: le detenute avevano ottenuto il diritto di svolgere lavori manuali in seguito a uno sciopero della fame a cui la stessa Efflatoun aveva partecipato.

Inji Efflatoun – artista e attivista femminista, marxista e anticolonialista – nasce in una famiglia aristocratica turcocircassa. Impara a dipingere con Kamel el-Telmissany, membro del gruppo surrealista Art et Liberté al quale si unisce quando è ancora adolescente. Negli anni Quaranta pubblica libri e articoli politici e viaggia in tutta Europa come attivista. Negli anni Cinquanta, usa la propria arte per condannare le disuguaglianze di genere e la guerra, e per celebrare i lavoratori. Gli anni dal 1959

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al 1963 la vedono prigioniera politica sotto il regime di Gamal Abdel Nasser. Dopo il suo rilascio, dipinge principalmente paesaggi rurali e scene di lavoro nei campi, lasciando visibile gran parte della tela sottostante e definendo questo nuovo stile “la luce bianca”. Nel corso della sua attività in Egitto, fa frequenti viaggi all’estero ed espone a San Paolo (1953), Parigi e Roma (1967), Mosca, Varsavia, Berlino Est e Dresda (1970), Belgrado (1974), Sofia (1975), Praga (1976), Nuova Delhi (1979) e Kuwait (1988).

Le opere di Inji Efflatoun sono state esposte alla Biennale Arte nel padiglione dell’Egitto nel 1952 e nel 1968 e nel Padiglione Centrale nel 2015. —Nadine Atallah

Prisoner, 1963 Olio su legno, 50 × 38 cm. Photo Maria e Mansour Dib. Courtesy Ramzi e Saeda Dalloul Art Foundation.

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NUCLEO STORICO • RITRATTI

Uzo Egonu è stato descritto come un solitario, un bambino prodigio e uno studioso della cultura nigeriana Nok. Sostenuto dal padre, Egonu arriva in Inghilterra alla fine del 1945, dove viene prontamente iscritto a una scuola privata e subito sottoposto alla dura esperienza di essere l’unica persona nera. Riservato e laborioso, lascia il Norfolk per Londra e si iscrive al Camberwell College of Arts dove si diploma nel 1951. Nel 1953 si trasferisce a Parigi per un anno, trascorrendo il tempo in musei e gallerie, soprattutto al Musée de l’Homme. Nel 1959, deciso a perfezionare il disegno, Egonu frequenta i corsi serali della St. Martins School of Art. Rimane nel Regno Unito, seguendo con attenzione gli eventi sul continente. Nel 1983, l’International Association of Art lo ammette nel gruppo di consiglieri a vita, onore conferito in precedenza, tra gli altri, a Henry Moore, Joan Miró e Louise Nevelson.

I primi anni Sessanta sono gli anni dell’indipendenza in Africa; per gli artisti in esilio si tratta di un momento di orgoglio nazionalista ed Egonu non fa eccezione. Di tenore vagamente fauvista, la sua produzione è caratterizzata da una tavolozza di blu, giallo e nero che emerge in tutta la sua forza in Guinean Girl (1962). Caratterizzato da una deliberata ingenuità, dallo sprezzo per la precisione fisionomica e animato dalla determinazione a sentire con il colore, questo animato ritratto sottolinea i lineamenti

Guinean Girl, 1962 Olio su tela, 76 × 63,5 cm. Photo Justin Piperger. Courtesy Grosvenor Gallery, Londra.

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ONITSHA, NIGERIA, 1931 – 1996, LONDRA, REGNO UNITO

del soggetto, i grandi occhi, il portamento e i modi assertivi. L’abbigliamento nazionale è reso in maniera minuziosa e la collana, che scende sulla spalla, suggerisce che la donna si è appena avvicinata. Un anno dopo aver realizzato Guinean Girl, Egonu tiene la sua prima grande personale alla Woodstock Gallery di Londra. L’opera di Uzo Egonu è esposta per la prima volta alla Biennale Arte. —Nancy Dantas STRANIERI OVUNQUE

Uzo Egonu

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Hatem El Mekki

Hatem El Mekki – nato a Batavia (attuale Giacarta) da padre tunisino e madre indonesiana di origine cinese – si trasferisce nel paese del padre all’età di sei anni. Frequenta il liceo Carnot di Tunisi, dove apprende la tecnica dell’acquarello cinese, prima di recarsi a Parigi con una borsa di studio governativa. Parigi lo vede artista in residenza presso la prestigiosa Cité internationale des arts e durante questo periodo produce illustrazioni, lavora nel cinema e collabora con la rivista francese Marianne. Tornato in Tunisia nel 1939, tiene le sue prime mostre personali ad Algeri e a Tunisi, che riscuotono grande successo. Nel 1947 si trasferisce nuovamente a Parigi per un breve periodo, esponendo in varie gallerie e incontrando intellettuali di spicco quali Albert Camus, Gaston Bachelard e Gertrude Stein. Rientrato a Tunisi nel 1951, El Mekki realizza murales pubblici e disegna oltre 450 francobolli tunisini.

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La Femme et le coq (anni Cinquanta) raffigura una donna che tiene in braccio un gallo su uno sfondo nero. La figura e l’uccello sono entrambi resi come semplici silhouette, distinte solo da un contorno bianco quasi a gesso e dai bargigli rossi sulla testa del gallo. La donna punta gli occhi spalancati direttamente sull’osservatore mentre le braccia – tracciate in maniera

GIACARTA, INDONESIA, 1918 – 2003, CARTAGINE, TUNISIA

affrettata e quasi macabra – stringono il volatile. In molte culture il gallo è considerato simbolo di speranza e di una nuova alba, e nel contesto del dipinto di El Mekki può essere letto come segnale della liberazione della Tunisia dal protettorato coloniale francese, avvenuta tra il 1952 e il 1956.

I o E a n S n c n u p c is c g a s c b s R S 1 t e c S a A d p S e o n S R

—Suheyla Takesh

La Femme et le Coq, anni Cinquanta Olio su tela, 64,7 × 50 cm. Collezione Barjeel Art Foundation, Sharja. Courtesy Barjeel Art Foundation, Sharja.

T O C S F

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OMDURMAN, SUDAN, 1930 VIVE A OXFORD, REGNO UNITO

NUCLEO STORICO • RITRATTI

Ibrahim Mohamed El-Salahi, oggi conosciuto come Ibrahim El Salahi, è uno dei più rinomati artisti moderni del Sudan, nonché membro illustre della Scuola di Khartoum, fondata nel 1961 da un gruppo di artisti con l’obiettivo di sviluppare un nuovo vocabolario visivo per una nazione indipendente. Il padre di Salahi era un rispettato capo religioso dell’Istituto islamico e della scuola coranica di Omdurman, dove il giovane Salahi viene educato a osservare l’importanza e il significato della lettera nella calligrafia araba. Ottenuta una borsa di studio dal governo sudanese per studiare nel Regno Unito, entra alla Slade School of Art (19541957), dove incontra l’artista tanzaniano Sam Joseph Ntiro e la portoghese Paula Rego. In cambio della borsa di studio, Salahi accetta di insegnare alla Scuola di Belle Arti e Arti Applicate di Khartoum di cui assume la direzione a partire dal 1960. Con i colleghi, Salahi si dedica alle culture e alle tradizioni del Sudan, organizzando viaggi semestrali nella città di Wadi Halfa, a Suakin, sulle colline del Mar Rosso e sui Monti Nuba.

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circondate da mezzelune, lune nuove e profili astratti; una visualizzazione di qualcosa di simile a un’attrazione gravitazionale, che suggerisce il trapasso dell’amato padre in una composizione che traduce l’evanescenza e la crescente distanza dell’ultimo respiro del patriarca. The Last Sound compare in Postwar: Art Between the Pacific and the Atlantic, 1945-1965 (2016) a cura fra gli altri di Okwui Enwezor e in Surrealism Beyond Borders (2021). — Nancy Dantas

STRANIERI OVUNQUE

Dopo la morte del padre, avvenuta nell’ottobre del 1964, Salahi inizia a lavorare al gruppo di dipinti che comprende The Last Sound (1964), il cui titolo allude alla preghiera sufi: “Chi si profuma per Allah, l’Altissimo, sarà innalzato nel Giorno della Resurrezione, profumando più del muschio dolce”. Questa preghiera di addio è l’ultimo suono udito quando il corpo lascia il regno terreno. Nella sua visione di questo momento, resa con i colori della terra del Sudan – calda terra di Siena e ocra diafana –, Salahi presenta linee radiali

The Last Sound, 1964 Olio su tela, 121,5 × 121,5 cm. Collezione Barjeel Art Foundation, Sharja. Courtesy Barjeel Art Foundation, Sharja.

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Ibrahim El-Salahi

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Ben Enwonwu

ONITSHA, NIGERIA, 1917 – 1994, LAGOS, NIGERIA

Ben Enwonwu è riconosciuto come pioniere della seconda fase del Modernismo nigeriano (1930–1960), periodo questo caratterizzato dall’anti-europeizzazione e dall’anticolonialismo radicale. Nato dalla nobile famiglia di Umueze-Aroli, nel 1944 riceve una borsa di studio per studiare in Gran Bretagna dove si diploma in Belle Arti presso la Slade School of Fine Arts, proseguendo poi con una laurea in antropologia. Nel 1954, diventa membro dell’Ordine dell’Impero Britannico. Nel 1956 gli viene commissionato un ritratto della regina Elisabetta II, diventando il primo artista africano a realizzare il ritratto di un monarca europeo. La sua decisione di rappresentare la regina con labbra più carnose – un abile gioco provocatorio (definito da uno storico dell’arte “imposizione inversa”) – scatenò polemiche nel mondo dell’arte imperiale britannico, che lo accusò di “africanizzare” la regina.

The Dancer (1962) riprende il tema della masquerade africana che attraversa e soffonde l’opera dell’artista. Qui celebra l’Agbogho Mmuo, la rappresentazione Igbo che onora ragazze e antenate nubili attraverso lo Spirito di una Fanciulla. Impersonato da uomini, Enwonwu cattura la molteplicità e l’elusività dell’Agbogho Mmuo; mobile, trasfigurato e indeterminato, colto a metà del volo, con un sontuoso copricapo di pennacchi multicolori che rimbalzano, punteggiati di morbidissime piume che sfiorano leggere il volto bianco come il gesso del portatore dello spirito. L’artista cattura l’Agbogho Mmuo in posizione intermedia – braccia, gambe e mani tese in posa transitoria – sospeso su uno sfondo di pennellate blu impressioniste, utilizzate con effetto dinamico. I toni contrastanti accentuano l’abbagliante danzatore richiamando l’attenzione su un corpo densamente ricoperto da ricchi motivi e colmo di riferimenti e oggetti carnevaleschi. L’opera di Ben Enwonwu è esposta per la prima volta alla Biennale Arte. —Nancy Dantas

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The Dancer (Agbogho Mmuo - Maiden Spirit Mask), 1962 Olio su tela, 93 × 62 cm. Photo Ben Uri Gallery and Museum. Courtesy Ben Uri Gallery and Museum. © Estate Ben Enwonwu.

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Le Gardien de la vie, 1967-1968 Olio su tela, 132 × 100 cm. Collezione Barjeel Art Foundation, Sharja. Courtesy Barjeel Art Foundation, Sharja.

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Dipinto all’indomani della guerra arabo-israeliana del 1967, Le Gardien de la vie offre un’immagine di forza ma anche di cautela: il soldato tiene saldamente il fucile in una mano, mentre con l’altra teneramente ripara e protegge le persone nella loro vita quotidiana. Oltre la mano a coppa del soldato, a destra, compare un paesaggio deserto e un albero spoglio, a suggerire la perdita della penisola del Sinai da parte dell’Egitto durante la guerra

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del 1967. In lontananza, sono raffigurati una piantagione, un villaggio, una fabbrica e un gruppo di lavoratori. L’opera di Hamed Ewais è esposta per la prima volta alla Biennale Arte. —Suheyla Takesh

NUCLEO STORICO • RITRATTI

Hamed Ewais si diploma alla Madrasat al-funun al-jamila (scuola di Belle Arti) del Cairo nel 1944, sotto la guida del pedagogo e critico Youssef el-Afifi, per poi proseguire gli studi presso la Real Academia de Bellas Artes de San Fernando a Madrid tra il 1967 e il 1969. Il 1947 lo vede cofondatore del Gruppo di Arte Moderna insieme ad artisti e artiste quali Gamal el-Sigini, Gazbia Sirry e Zeinab Abdel Hamid, e tra il 1977 e il 1979 è il direttore della Facoltà di Belle Arti di Alessandria. Nel 1956 riceve il Guggenheim International Award. Influenzato da figure chiave del muralismo messicano come Diego Rivera e David Alfaro Siqueiros, Ewais sceglie di operare con uno stile estetico che riflette le sue inclinazioni politiche socialiste, ponendo in evidenza la condizione della classe operaia egiziana. Un momento chiave per l’artista è la visita alla Biennale di Venezia del 1952, dove incontra i pittori italiani del Realismo Sociale. In Le Gardien de la vie (1967–1968), Ewais dipinge un soldato sovradimensionato che incombe protettivo sopra un gruppo di civili egiziani impegnati in una serie di attività quotidiane: un matrimonio, una madre che allatta, bambini che vanno in bicicletta, uno scienziato che esegue un esperimento, una coppia che si abbraccia affettuosamente.

BENI SOUEIF, EGITTO, 1919 – 2011, IL CAIRO, EGITTO

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Hamed Ewais

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Dumile Feni

WORCESTER, SUDAFRICA, 1939 – 1991, NEW YORK, USA

Dumile Feni inizia la propria carriera come pittore di murales e apprendista in una fonderia di Johannesburg negli anni Sessanta, prima di un esilio volontario a Londra nel 1968, a causa della minaccia di arresto, e del suo successivo trasferimento a New York. Feni è stato criticato dai suoi contemporanei per avere esposto soggetti legati all’apartheid durante la sua partecipazione alla Bienal de São Paulo nel 1967 e gli è stata perfino attribuita l’etichetta di “Goya delle Township” per avere ritratto la sofferenza della popolazione nera. Considerato a un certo punto della sua vita maestro dell’immaginario turbolento, negli anni Sessanta e Settanta passa a una nuova estetica che celebra l’aspetto spirituale ispirato dalla letteratura, dalla danza e dalla musica. Scegliendo di mettere in evidenza la speranza piuttosto che la disperazione, reagisce allo stile prevalente della “Township Art”, che spesso ricorreva a immagini senza speranza e trasforma la propria arte in un’aspirazione fiduciosa e rivolta al futuro.

R d s n n f in p a s n e M a f A A p a B u c L p è p r s

Head (1981 circa) presenta un motivo ricorrente nell’opera di Feni: incentrato sulla testa di una figura maschile, il soggetto è caratterizzato dal volto allungato su un lungo collo. Composta da linee decise e da un’attenzione particolare alla forma del viso e della testa, l’opera colpisce per l’equilibrio, che ricorda Brancusi, di curve morbide e linee definite con cui vengono raffigurati i lineamenti. La fronte e gli zigomi sembrano

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formare i tratti di una maschera o di una corazza, suggerendo un riferimento ai copricapi tradizionali. Realizzata in bronzo, la scultura è un riferimento alle maschere e alle tradizionali figure africane intagliate nel legno. L’opera di Dumile Feni è esposta per la prima volta alla Biennale Arte. —Heba Elkayal

Head, 1981 ca. Bronzo, 52 × 18,5 × 26 cm. Courtesy Norval Foundation. Photo Amber Alcock.

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Raquel Forner, figura iconica dell’arte argentina, riuscì a superare le sfide implicite nell’essere una donna artista nella sua epoca. A dodici anni fece con la famiglia un viaggio in Spagna, luogo natale del padre; lì sperimentò un risveglio artistico dinanzi ai capolavori spagnoli. Fece ritorno in Europa nel 1929 per studiarvi arte e visitò l’Italia, la Spagna, il Marocco e la Francia. Come altri artisti argentini in Europa – fra loro Lino Enea Spilimbergo, Antonio Berni e lo scultore Alfredo Bigatti, che sarebbe poi diventato suo marito – si unì al Grupo de París. Rientrata a Buenos Aires, iniziò a lavorare a una serie di opere che, insieme, costituiranno un vasto universo. La sua sincera preoccupazione per le sofferenze umane è evidente nella maggior parte dei suoi dipinti, che raffigurano al centro una donna, sola o in gruppo.

BUENOS AIRES, ARGENTINA, 1902–1988

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Raquel Forner Toccata nel profondo dalla Guerra civile spagnola, fu sostenitrice della lotta internazionale contro il fascismo. Le serie España ed El Drama, prodotte fra il 1937 e il 1950, manifestano la sua disperazione. Attraverso la complessa iconografia che circonda la sua figura in Autorretrato, che appartiene alla seconda di queste serie, Forner racconta gli effetti della guerra in prima persona. In primo piano, l’artista regge tre pennelli; nel mappamondo, sulla parte destra della tela, l’Africa e l’Europa sono parzialmente nascoste dalle pagine insanguinate di un giornale sgualcito. Al centro, una colomba morta giace sul palmo di una mano e due donne in lutto si abbracciano di fronte a un corpo esanime. Come contrappunto spaziale e simbolico, la parte sinistra della tela mostra una mappa dell’Argentina con un fascio di spighe. È in quella terra dell’abbondanza che l’artista ha scelto la propria casa e ha formato una famiglia. In lontananza, minuscoli paracadutisti discendono su una terra desolata. In questo dipinto e in altri, l’artista elabora il trauma del suo tempo.

Autorretrato, 1941 Olio su tela, 186 × 141 cm. Collezione Museo Provincial de Bellas Artes Emilio Pettoruti. Courtesy FornerBigatti Foundation, Buenos Aires.

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—Sonia Becce

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Enrique Grau Araújo

Enrique Grau Araújo – pittore, scultore, scenografo, incisore, regista e docente – è esponente di spicco del Modernismo colombiano. Nato a Panamá da una famiglia benestante, riceve sin da giovane una formazione artistica non ufficiale. La sua carriera registra una svolta decisiva nel 1940, quando presenta al primo Salón de Artistas Colombianos l’emblematico dipinto La mulata cartagenera (1940), un ritratto di donna caraibica. Il successo di quest’opera gli permette di ottenere una borsa di studio dal governo colombiano per studiare pittura e grafica all’Art Students League di New York, dove si immerge nelle idee dell’avanguardia e studia sotto la guida dell’espressionista tedesco George Grosz. Al suo ritorno in Colombia nel 1943, si stabilisce a Bogotá e si unisce a un gruppo di giovani artisti – tra cui Edgar Negret, Alejandro Obregón e più tardi Cecilia Porras – che cercano di modernizzare la scena artistica colombiana, promuovendo la rappresentazione di temi nazionali e la ricerca di un’identità artistica locale.

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Hombre Dormido (1945) ritrae la monumentale figura di un uomo raggomitolato e addormentato su una coperta bianca. L’opera rivela un legame con l’estetica del Muralismo messicano e l’interesse dell’artista a rappresentare la popolazione indigena e afrocolombiana all’interno di un programma di riappropriazione culturale. Nei decenni successivi Grau Araújo esplora l’astrazione e il Surrealismo. Co-dirige, con Gabriel García Márquez e Álvaro Cepeda Samudio, il pionieristico cortometraggio

PANAMA, 1920 – 2004, BOGOTÁ, COLOMBIA

surrealista latinoamericano La langosta azul (1954). Nel 1955, dopo aver visitato il Messico per studiare di persona il Muralismo, si reca a Firenze, dove rimane influenzato dall’uso della geometria sul corpo umano di Piero della Francesca. L’opera degli anni Settanta evolve verso la pittura figurativa, di cui rivisita le figure umane espressioniste, creando scene teatrali simboliche che includono elementi di umorismo e fantasia. —Laura Hakel

Hombre Dormido, 1945 Olio su tela, 79 × 107 cm. Photo. Collezione Banco de la República, Bogotá. Courtesy Colección Banco de la República.

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Cabeza de Hombre Llorando, 1957 Olio su tela, 105 × 70 cm. Collezione Banco de la República, Bogotá. Courtesy Colección Banco de la República.

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In Cabeza de Hombre Llorando (1957), un uomo, reso con forme angolari e tratti allungati, piange. La pittura vicino agli occhi si screpola, conferendo alla figura un profondo senso di stanchezza e di logorio. Questo aspetto è accentuato dalla prospettiva appiattita che crea un senso di intrappolamento e di angoscia. Il soggetto è dipinto in grigio, marrone, nero e rosso, toni terrosi che sembrano fatti di pigmenti naturali e che l’artista associa alle culture visive pre-contatto. L’uomo rivolge uno sguardo di sfida allo spettatore; nella sua angoscia, permane la dignità. L’opera è emblematica

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dell’Espressionismo proprio di Guayasamín che utilizza il colore e la distorsione delle forme per raffigurare figure oppresse. Mentre molti espressionisti europei usavano colori e forme per rispondere alle ansie di una società sempre più industrializzata, Guayasamín usa l’Espressionismo come protesta sociale, riproducendo l’oppressione subita da molte culture native dell’America Latina. L’opera di Oswaldo Guayasamín è esposta per la prima volta alla Biennale Arte. —Diego Chocano

NUCLEO STORICO • RITRATTI

Oswaldo Guayasamín è stato un pittore e attivista politico le cui rappresentazioni espressionistiche della condizione delle popolazioni indigene gli sono valse un grande successo tra la metà e la fine del XX secolo. Nel 1943 si reca in Messico dove lavora con José Clemente Orozco, il famoso muralista messicano. Qui sviluppa il proprio personale approccio all’Indigenismo. Attraverso i monumentali murales e le serie di dipinti come Huaycañán (1946–1952) – ovvero “il sentiero delle lacrime” in quechua, una lingua diffusa nella catena montuosa andina – Guayasamín cerca di catturare la variegata composizione etnica dell’Ecuador e di denunciare la violenza politica. Pur difendendo strenuamente i diritti delle popolazioni indigene, il suo lavoro spesso idealizza queste culture, associandole alla natura, alla tradizione e a un innato senso di bontà: un appiattimento di identità eterogenee, per loro natura complesse e ibride.

QUITO, ECUADOR, 1919 – 1999, BALTIMORA, USA

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Oswaldo Guayasamín

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Hendra Gunawan

Tra i più prolifici e rinomati pittori indonesiani, Hendra Gunawan inizia negli anni Trenta la propria attività, che attraversa il periodo della rivoluzione indonesiana fino al regime dittatoriale dell’Ordine Nuovo. Come molti altri artisti emersi in questo periodo, quali Affandi, S. Sudjojono ed Emiria Sunassa, Gunawan è in gran parte autodidatta. La sua pratica sposa i principi socialisti della vita in comune e del lavoro cooperativo. Tra gli anni Quaranta e Sessanta, è attivo all’interno di diversi gruppi di artisti e organizzazioni culturali, tra cui i Seniman Indonesia Muda (Giovani pittori indonesiani), i Pelukis Rakyat (Pittori del popolo) e la Lembaga Kebudayaan Rakyat (LEKRA – Associazione culturale del popolo). Molti

dei suoi dipinti mettono in primo piano la vita quotidiana delle persone comuni in modo espressivo ma delicato, in genere concentrandosi sulle attività di un gruppo affiatato in uno spazio incerto. Le sue opere sono spesso caratterizzate da motivi simili a tessuti, da colori vivaci e pennellate fluide e sinuose. My Family (1968) è stato probabilmente dipinto quando Gunawan era imprigionato a causa dei suoi legami con una presunta fazione comunista in Indonesia. Nello stesso anno, la contesa della Guerra Fredda in Indonesia si conclude con la soppressione e l’annientamento delle forze comuniste e l’ascesa di un nuovo regime dittatoriale sostenuto dagli Stati Uniti. Dipinto in modo più realistico

BANDUNG, INDONESIA, 1918 – 1983 BALI, INDONESIA

rispetto alle precedenti opere degli anni Quaranta e Cinquanta, My Family ritrae l’artista, seduto con i pantaloni a brandelli, assieme alla moglie e ai tre figli. Sullo sfondo, una folla è radunata davanti a un edificio qualunque, forse la prigione di Bandung dove era stato detenuto. Dopo il suo rilascio nel 1978, Gunawan si trasferisce a Bali e continua a dipingere fino ai suoi ultimi giorni, ispirandosi a scene di vita quotidiana della gente comune.

M u s s d g s c K H b d c n D n b m a p C m h L li d d s n d m

L’opera di Hendra Gunawan è esposta per la prima volta alla Biennale Arte. —Anissa Rahadiningtyas

My Family, 1968 Olio su tela, 197,5 × 145,5 cm. Collezione National Gallery Singapore. Courtesy National Heritage Board, Singapore.

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Marie Chiha Hadad è stata un’importante artista e scrittrice libanese, nota soprattutto per i dipinti figurativi di soggetti del suo paese. In gran parte autodidatta, deve la sua formazione a lezioni private con l’artista polacco Jean Kober a Beirut (1924-1925). Hadad nasce in una famiglia benestante di politici dotata di un’ampia rete di contatti che le permette di avanzare nella propria carriera di artista. Dipinge paesaggi espressivi, nature morte e ritratti di bambini, contadini, beduini e montanari libanesi, con scarsa attenzione agli approcci della pittura europea convenzionale. Considerata una pioniera del movimento artistico libanese, ha diretto la Società d’Arte Libanese. Firma Les Heures libanaises (1937), una raccolta di racconti corredata da alcuni dei suoi dipinti. La sua carriera si interrompe bruscamente nel 1945, quando smette di dipingere in seguito alla morte della figlia.

BEIRUT, LIBANO, 1889–1973

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Marie Hadad Questo ritratto, senza titolo e data, raffigura un beduino in abiti tradizionali, un tema centrale nell’opera di Hadad che era conosciuta come “l’artista dei beduini”, poiché molti dei suoi ritratti raffiguravano per l’appunto questi soggetti. Il dipinto, realizzato con tonalità vivaci e decise, enfatizza questo giovane protagonista dall’espressione cupa, posto davanti a uno sfondo astratto. Come in molti dei suoi ritratti, lo sguardo penetrante è fissato sull’osservatore. L’approccio di Hadad viene descritto come Realismo Sociale, anche se le figure e i paesaggi delle sue composizioni di soggetti libanesi assumono forme stilizzate intensamente emotive. Nel rappresentare i beduini, l’artista evoca un’immagine diversa da quella percepita dalla società benestante di Beirut e dal pubblico delle mostre in Francia, Gran Bretagna e Stati Uniti. Prima e unica artista libanese a essere ammessa al Salon d’Automne del Grand Palais di Parigi (19331937), Hadad ha esposto ripetutamente in Libano e a livello internazionale. L’opera di Marie Hadad è esposta per la prima volta alla Biennale Arte.

Untitled, s.d. (anni Trenta ca.) Olio su tela, 40 × 60 cm. Collezione Barjeel Art Foundation, Sharja. Courtesy Barjeel Art Foundation, Sharja.

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—Nadine Nour el Din

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Tahia Halim

Tahia Halim proviene da una famiglia aristocratica egiziana. Studia pittura con insegnanti privati prima di entrare a far parte, nel 1941, dello studio del pittore Hamed Abdalla, che sposa nel 1945. Dal 1949 al 1951 la coppia si stabilisce a Parigi, dove Halim studia all’Académie Julian. Dal 1956 al 1957 si iscrive alla Scuola Libera del Nudo annessa all’Accademia di Belle Arti di Roma. Dopo aver scoperto che, mentre lei si trovava in Italia, il marito aveva sposato segretamente una seconda moglie, ottiene il divorzio, affrontando lo stigma sociale che colpisce le donne divorziate in Egitto. Nel 1958 riceve il Premio Internazionale Guggenheim e per tutta la sua carriera viene finanziata dal governo egiziano. Se lo stile delle prime opere si avvicina

all’Impressionismo, la sua produzione artistica si evolve verso composizioni cubiste, arricchendosi, a partire dagli anni Sessanta, di stili e tecniche dell’antico Egitto. Il suo nome è strettamente collegato alla Nubia. Nel 1962, viene incaricata dal Ministero della Cultura egiziano di documentare la regione dell’Alto Egitto che si estende a nord del Sudan. In seguito alla costruzione della diga di Assuan (1960–1970), molti villaggi nubiani scomparvero sotto le acque del Nilo costringendo le popolazioni a emigrare. Three Nubians raffigura tre donne sedute in un paesaggio collinare. La figura centrale regge una foglia di palma, un motivo ricorrente nei dipinti nubiani dell’artista, in particolare nelle

DONGOLA, SUDAN, 1919 – 2003, IL CAIRO, EGITTO

scene di matrimonio come The Wedding Ceremony in Nubia (1964). I volti stilizzati e la silhouette delle figure frontali conferiscono alla scena una dimensione atemporale. Halim presenta l’immagine di una cultura dalle radici antiche e africane. Sullo sfondo, le cupole delle moschee accanto alle tradizionali case di mattoni di fango evocano l’islamizzazione della Nubia, originariamente una regione cristiana, rimandando a una storia secolare di assimilazione e discriminazione da parte dell’Egitto. Alcune sue opere sono state esposte nel Padiglione egiziano della Biennale nel 1956, 1960 e 1970.

L N e d a S p d p q I in d d d d d U A n U a A

—Nadine Atallah

Three Nubians, s.d. Olio su tavola, 84 × 76 cm. Photo Maria e Mansour Dib. Courtesy Ramzi e Saeda Dalloul Art Foundation.

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L’artista e docente egiziana Nazek Hamdi è celebre per essere stata una pioniera dell’arte del batik nella regione araba. Studia presso l’Istituto Superiore di Studi Pedagogici per l’Arte del Cairo dove si diploma nel 1949. Grazie alla prima borsa di studio indiana di questo tipo, nel 1955 si reca in India dove consegue la laurea in Belle Arti presso l’Università di Tagore, a cui segue un dottorato presso l’Università del Rajasthan. Autorevole docente, insegna alla facoltà di Arti Applicate della Helwan University, alla facoltà di Belle Arti del Cairo e di Alessandria, nonché presso l’American University del Cairo. Ha inoltre assunto incarichi di docenza in Arabia Saudita e in Kuwait.

IL CAIRO, EGITTO, 1926–2019

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Nazek Hamdi Il suo dipinto intitolato The Lotus Girl (1955), presenta in semi profilo una figura femminile che indossa un vivace sari fantasia, una corona di fiori e tiene in mano un elegante fiore di loto bianco, originario dell’India. Lo sfondo di questa composizione riprende il fiore di loto come motivo, ripetuto e accostato a forme geometriche che rimandano ai temi del batik tradizionale. Dipinto nell’anno in cui Hamdi si trasferisce per iniziare i suoi studi in India, The Lotus Girl trae ispirazione dalla formazione classica lì ricevuta, dai soggetti indiani e dagli abiti che lei stessa indossava quando era studentessa. L’uso di contorni neri e decisi, di toni piatti e uniformi nonché di forme stilizzate e allungate è da attribuire alla sua specializzazione in antiche arti orientali, miniatura, pittura murale, pittura su tessuti di seta e nell’arte del batik, tecniche che hanno esercitato grande influenza sulla sua opera. Il dipinto fa parte di una serie di lavori realizzati in India e raffiguranti soggetti indiani, tra cui i dipinti murali delle università di Tagore e del Rajasthan. Hamdi ha tenuto numerosissime mostre in Egitto e nel mondo. L’opera di Nazek Hamdi è esposta per la prima volta alla Biennale Arte.

The Lotus Girl, 1955 Olio su tela, 70 × 50 cm. Collezione Barjeel Art Foundation, Sharja. Courtesy Barjeel Art Foundation, Sharja.

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—Nadine Nour el Din

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Faik Hassan

BAGHDAD, IRAQ, 1914 – 1992, PARIGI, FRANCIA

Nonostante il suo stile pittorico riveli l’influenza degli studi condotti in Europa, Faik Hassan dedica l’intera sua carriera alla celebrazione della cultura irachena e alla creazione di un linguaggio visivo nazionale. Laureato all’École Nationale Supérieure des Beaux-Arts di Parigi nel 1938, grazie a una borsa di studio governativa, al termine degli studi rientra in Iraq e fonda il Dipartimento di Pittura dell’Istituto di Belle Arti di Baghdad. Il 1940 lo vede dar vita al collettivo di artisti Société Primitive, dal 1959 ribattezzato Pioneers Group. Nel 1967 fonda il gruppo artistico al-Zawiya, insieme ad artisti quali Kadhim Haider e Muhammad Ghani Hikmat. Nel 1964, riceve il Golden Prize della Fondazione Gulbenkian in Iraq.

Bedouin Tent (1950) raffigura una scena di vita quotidiana di contadini iracheni residenti lungo i fiumi Tigri ed Eufrate. Due figure maschili sono sedute all’interno di una tenda, circondate da oggetti tradizionali come i dallah e finjan (caffettiera e tazze). L’opera è resa in modo da rompere la profondità spaziale e colloca le figure e gli oggetti su più piani distinti, offrendo così simultaneamente una serie di punti di vista diversi sull’intimità della scena. In questo modo, l’artista

K a e c h d S d f e B e R e P a J a B è d a h c m h M I a B d p d m a e

riesce ad accentuare le particolarità di alcuni elementi della composizione, come la forma del tappetino giallo o il beccuccio della caffettiera, che dipinge con angolazioni innaturali. L’opera è parte del grande impegno dell’artista per rappresentare la vita quotidiana irachena e catturare le condizioni di vita degli abitanti dei villaggi, dei lavoratori e dei contadini. L’opera di Faik Hassan è esposta per la prima volta alla Biennale Arte. —Suheyla Takesh

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Bedouin Tent, 1950 Olio su legno, 58 × 74 cm. Collezione Barjeel Art Foundation, Sharja. Courtesy Barjeel Art Foundation, Sharja.

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Kadhim Hayder è stato un artista, incisore, scenografo e organizzatore teatrale la cui pratica delle arti visive ha contribuito allo sviluppo del Modernismo iracheno. Studente negli anni Cinquanta dell’Istituto superiore per la formazione degli insegnanti e dell’Istituto di Belle Arti di Baghdad, studia letteratura e pittura, per poi iscriversi al Royal College of Art di Londra e specializzarsi in incisione. Partecipante attivo dei gruppi artistici Al-Ruwad (Pionieri), Jama’et Baghdad Lil Fann al-Hadith (Arte moderna di Baghdad) e al-Zawya (Angoli), è stato anche un membro di spicco dell’Unione degli artisti arabi, per la quale ha organizzato eventi e conferenze. Oltre alle numerose mostre a livello nazionale, ha esposto al Musée d’Art Moderne de la Ville de Paris. Il 1974 vede la sua presenza alla prima Biennale araba di Baghdad, l’inaugurale incontro di idee e di arte moderna panaraba. Il linguaggio artistico di Hayder fonde tropi antichi e moderni e attinge ampiamente alla favola, alla mitologia e alla religione.

Tramite l’esplorazione di rappresentazioni rituali e cerimonie religiose, i riferimenti artistici di Hayder attingono all’antica epopea mesopotamica di Gilgamesh (2150–1400 a.C. circa) e alla battaglia di Karbala (680 d.C.), dove Husayn Ibn Ali, nipote del profeta Maometto, venne trucidato in un combattimento contro il califfo omayyade Yazid. L’evento ebbe come conseguenza di ampliare ulteriormente l’abisso tra musulmani sciiti e sunniti riguardo a chi fossero i successori e custodi dell’Islam e portò alla divisione di imperi e nazioni. La battaglia è stata rappresentata anche nella cultura visiva, nella letteratura,

Thalathat Ashkhas Raqm 20 [Three People no. 20], 1970 Olio su tela, 55 × 75 cm. Photo Humayun Memon. Courtesy Collezione Taimur Hassan.

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BAGHDAD, IRAQ, 1932–1985

nei sermoni e nella Ta’ziyeh, un’opera originaria del mondo islamico incentrata sul martirio di Husayn e rappresentata in Iraq, Iran e altrove. I dipinti di Hayder illustrano il simbolismo astratto dell’epopea di Karbala. Nell’opera Thalathat Ashkhas Raqm 20 (1970) sono evidenti le immagini della Ta’ziyeh e delle favole antiche, che fungono da studio morale sulle trasformazioni e le divisioni delle società moderne. L’opera di Kadhim Hayder è esposta per la prima volta alla Biennale Arte. —Sara Raza

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Kadhim Hayder

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Gilberto Hernández Ortega

BANÍ, REPUBBLICA DOMINICANA, 1923 – 1979, SANTO DOMINGO, REPUBBLICA DOMINICANA

Gilberto Hernández Ortega – guidato nella sua formazione di pittore da Celeste Woss y Gil – è stato uno dei primi iscritti alla Escuela Nacional de Bellas Artes dopo la sua istituzione nel 1942. Incontra André Breton e Wifredo Lam durante la loro permanenza a Santo Domingo nel 1941. In seguito, diventerà docente della scuola e per molti decenni guiderà importanti artisti dominicani. Le sue opere sono state premiate in biennali e concorsi nazionali dal 1950 al 1972. Come musicista e poeta, entra a far parte del movimento letterario La Poesía Sorprendida – di natura surrealista – per il quale scrive e illustra riviste. Eccezionale pittore dell’identità dominicana, Ortega perfezionò la pennellata e il colore per sviluppare, a partire dall’Espressionismo, un linguaggio tutto proprio, radicato nello spazio, nei miti, nelle realtà e nell’esuberanza dei tropici delle Antille: surreale, magico, familiare, vicino, strano e lontano allo stesso tempo.

Allievo di Josep Gausachs e insegnante multigenerazionale di artisti dominicani, Ortega crea un’interpretazione dell’habitat caraibico, stabilendo una simbiosi che esprime l’irreale essenza della sua foresta e dei suoi costumi attraverso tratti sciolti e pennellate audaci. In Marchanta (1976), l’artista ripropone un tema presente nella pittura dominicana fin dalla sua inclusione da parte di Yoryi Morel negli anni Trenta, assemblando fiori e frutti sulla testa di una donna dalla pelle scura, dal lungo collo e un volto contraddistinto dall’orbita completamente bianca di

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un occhio spettrale. Il pittore fa risaltare l’abito candido attraverso uno sfondo di patine scure, con accenni di alcune case dipinte con pochi tratti di luce che guidano lo sguardo dello spettatore sull’intera tela. Il tracciato, l’applicazione dei pigmenti e l’aura magica che emana da questa composizione ne fanno uno dei capolavori di Ortega. L’opera di Gilberto Hernández Ortega è esposta per la prima volta alla Biennale Arte. —Myrna Guerrero Villalona

Marchanta, 1976 Olio su tela, 117 × 88 cm. Photo Mariano Hernández. Courtesy Museo Bellapart. © Mariano Hernández 2024.

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Femme et Mur, 1977-1978 Olio su tela, 162 × 130 cm. Collezione Barjeel Art Foundation, Sharja. Courtesy Barjeel Art Foundation, Sharja.

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Femme et Mur (1977-1978) raffigura una donna algerina vestita con abiti, gioielli e copricapo tradizionali amazigh, gli occhi bassi e un’espressione cupa sul volto, ha le mani giunte e guarda in lontananza, in silenziosa contemplazione. Inquietante e quasi spettrale, incarna un’etica di silenziosa sopportazione e uno spirito di resistenza più e più volte dimostrato dalle donne algerine nel corso del XX secolo. Alle sue spalle, una parete con delle scritte simili a graffiti che fanno riferimento alla guerra d’indipendenza algerina, svoltasi tra il 1954 e il 1962, e

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acronimi quali FLN, riferito al Front de Libération Nationale dell’Algeria, e OAS, riferito all’Organisation Armée Secrète, un’organizzazione paramilitare segreta francese. Sul muro è presente anche un’immagine dell’hamsa, altrimenti nota come mano di Fatima, un amuleto a forma di palmo ampiamente riconosciuto come simbolo di protezione. L’opera di Mohammed Issiakhem è esposta per la prima volta alla Biennale Arte. —Suheyla Takesh NUCLEO STORICO • RITRATTI

Mohammed Issiakhem è uno dei principali artisti modernisti algerini le cui opere hanno spesso come tema il movimento anticoloniale del paese, le lotte personali e collettive, le tradizioni amazigh (berbere) e i ritratti di persone comuni. Nel 1943, a quindici anni, perde il braccio sinistro nell’esplosione di una granata. Nel 1947 inizia la sua formazione artistica con lezioni gratuite presso la Société des Beaux-Arts di Algeri, per poi frequentare l’École des Beaux-Arts algerina dal 1948 al 1951, dove studia miniatura sotto la guida di Omar Racim. Issiakhem, in possesso dello status ufficiale di “francese musulmano”, figura tra i primi algerini a essere ammessi all’istituzione, che fino al 1945 era riservata esclusivamente agli studenti francesi. In seguito, tra il 1951 e il 1959, studia all’École Nationale Supérieure des Beaux-Arts di Parigi, per poi tornare in Algeria dopo l’indipendenza del 1962.

TIZI OUZOU, ALGERIA, 1928 – 1985, ALGERI, ALGERIA

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Mohammed Issiakhem

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Elena Izcue Elena Izcue è stata docente, illustratrice, artista, designer tessile e pioniera delle rappresentazioni artistiche legate alle moderne arti decorative indigene e peruviane. Il suo lavoro si inserisce nell’ambito della nascita dell’archeologia andina e della ricerca di fonti per la costruzione dell’identità nazionale peruviana degli anni Venti. Con la sorella Victoria, Izcue sviluppa una serie di progetti incentrati sul design, l’arte e l’educazione in Perù. Entrambe emigrate a Parigi, si cimentano con la ceramica, l’intaglio del legno e la produzione di tessuti utilizzando motivi precolombiani, legati a loro volta all’industria della moda in Francia e negli Stati Uniti. L’attività didattica di Izcue comprende pubblicazioni come Arte peruano en la escuela (1926), tradotto in

LIMA, PERÙ, 1889–1970

inglese e francese, volto alla divulgazione dell’arte preispanica e delle arti popolari come mezzo pedagogico. L’interesse europeo per l’opera di Izcue coincide con la circolazione di mostre dedicate al lavoro di artisti latinoamericani e che pongono l’abitante indigeno come tema di rappresentazione artistica. Tali mostre hanno permesso a questi artisti di creare linguaggi visivi riconoscibili, mettendo al contempo in discussione il canone, le relazioni di potere e la formazione di un linguaggio artistico moderno. Tra loro troviamo Laura Rodig, Lola Cueto, Carmen Sacco, Julia Codesido, Tarsila do Amaral e la stessa Izcue, artiste che hanno affrontato questi temi a partire dalla loro triplice condizione di genere (donne), identità razziale e culturale

(latinoamericana), nonché di soggetti sociali (non cittadine). In particolare, hanno esplorato i temi del corpo e la costruzione culturale di un’identità femminile “altra”. Tuttavia, la femminilizzazione delle discipline intrapresa da Izcue (design, tessile, arti popolari e decorative) ha marginalizzato il suo inserimento nella storiografia latinoamericana. Solo di recente le sono state dedicate delle ricerche, rimediando così all’assenza e mettendone in risalto l’importanza nella formazione delle arti visive della regione. L’opera di Elena Izcue è esposta per la prima volta alla Biennale Arte. —Gloria Cortés Aliaga

Mujer de Perfil, 1924 Olio su tela, 73,8 × 66 cm. Photo Courtesy MALI – Museo de Arte de Lima.

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SAN JUAN DE LOS LAGOS, MESSICO, 1902 – 1955, CITTÀ DEL MESSICO, MESSICO

NUCLEO STORICO • RITRATTI

María Izquierdo è stata la prima donna messicana a esporre opere negli Stati Uniti. Nata nel 1902 nel villaggio meta di pellegrinaggio di San Juan de los Lagos, Izquierdo cresce circondata da tradizioni popolari cattoliche diventate in seguito leitmotiv dei suoi dipinti ed elementi caratteristici del movimento artistico postrivoluzionario. Mentre frequenta l’Escuela Nacional de Bellas Artes (1928-1931), subito dopo la Rivoluzione, incontra artisti come Diego Rivera e Rufino Tamayo. Izquierdo dipinge un’ampia varietà di immagini di devozione, tradizioni e rappresentazioni popolari, raffigurando scene tratte dai propri ricordi del Messico rurale. Allo stesso tempo, accoglie l’immagine delle donne moderne che partecipano alla lotta rivoluzionaria.

al di là delle nazionalistiche esibizioni della propaganda di stato. Nel 1947, il curatore Fernando Gamboa organizzò la mostra 45 Autorretratos de Pintores Mexicanos al Palacio de Bellas Artes, dove Izquierdo espose questa tela, affermando uno stile che catturava la complessità del ruolo della donna messicana moderna. L’opera di María Izquierdo è esposta per la prima volta alla Biennale Arte. —Eva Posas

Autorretrato, 1947 Olio su tela, 55 × 45 cm. Photo Francisco Kochen. Collezione Andrés Blaisten. Courtesy Andrés Blaisten. © Francisco Kochen.

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Autorretrato (1947) fa parte di una serie di autoritratti realizzati negli anni Quaranta. Una pensierosa María che indossa un abito giallo ocra si staglia su uno sfondo blu e grigio di cielo e nuvole. A differenza di altri suoi vivaci ritratti con gioielli e abiti sontuosi, in Autorretrato l’artista è coronata solo da una treccia e da un ornamento abbinato, presentando così un’immagine austera che dà grande risalto al volto e ai suoi pensieri in quella giornata uggiosa. Si ritiene che gli autoritratti possano costituire una risposta al movimento muralista, un modo per mostrare altre narrazioni

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María Izquierdo

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Frida Kahlo

CITTÀ DEL MESSICO, MESSICO 1907–1954

Frida Kahlo è un’icona la cui immagine è ampiamente diffusa come simbolo di femminismo, emancipazione e impegno politico. La fascinazione per la sua estetica e la sua biografia, però, in parte oscura la radicalità delle sue opere, ispirate più allo studio delle tradizioni dell’arte popolare in Messico e alla militanza comunista, che ai movimenti modernisti europei come il Surrealismo. Kahlo appartiene a un contesto intellettuale che sostiene la Rivoluzione messicana e che cerca di re-immaginare il paese svincolato dai retaggi del colonialismo europeo e riconnesso con la propria eredità precolombiana. Tema vitale in tutta la sua opera è la creazione di un’estetica personale che si estende anche a considerazioni sulla costruzione di genere. Moglie del rinomato artista Diego Rivera, è ben consapevole delle difficoltà che le donne incontrano nel perseguire una carriera artistica: nel corso della sua vita ebbe solo due mostre personali, una a New York e una in Messico.

In Diego y Yo (1949), l’autoritratto di Kahlo occupa quasi l’intera tela e sul suo volto è presente un ritratto di Diego Rivera. Lo sguardo è puntato su chi osserva. Il marito, Diego, rappresentato sulla sua fronte, domina i suoi pensieri. Le tre lacrime che le scorrono sulle guance si riflettono nei tre occhi di Rivera. Il terzo occhio, simbolo di un sapere visionario, mostra ciò che gli occhi anatomici non riescono a percepire e svela in Rivera una straordinaria coscienza sensitiva e creativa. Nel ritratto, Kahlo è addolorata per le difficoltà coniugali e i capelli attorcigliati al collo sembrano soffocarla. Kahlo costruisce la propria identità attraverso l’aspetto esteriore, esplorando il corpo femminile e le sue convenzioni. Indossa un huipil, una tunica tipica di Tehuantepec, regione del Messico in cui le donne sono protagoniste delle società in cui vivono. Le tehuanas incarnano la resistenza al colonialismo. Vestita come loro, Kahlo riafferma la propria identità messicana, ponendo in risalto la parola “Mexico” accanto alla firma sul quadro. L’opera di Frida Kahlo è esposta per la prima volta alla Biennale Arte. —Florencia Malbrán

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Diego y Yo, 1949 Olio su masonite, 30 × 22,4 cm. Collezione Eduardo F. Costantini.

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L K a s u s N l’ ( K il r t P e s s a a i ’4 c la n s il s c p a K a a N è d ’4 a G la li f s r


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La vita e la carriera di George Keyt hanno attraversato le sfide artistiche e politiche del XX secolo ed è riconosciuto come uno dei più importanti pittori srilankesi della sua generazione. Negli anni che precedettero l’indipendenza dello Sri Lanka (ex Ceylon) avvenuta nel 1948, Keyt si prefigge di abbracciare il Modernismo europeo rinvigorendo al contempo le tradizioni dell’Asia meridionale. Proveniente da una famiglia eurasiatica di Burgher, nella sua arte include riferimenti che spaziano dai racconti buddisti alle immagini erotiche indù, fino al Cubismo. Il 1943 lo vede tra i membri fondatori del Gruppo ’43, capeggiato dal fotografo e critico Lionel Wendt, che apriva la strada del Modernismo nello Sri Lanka. Consolida una significativa conoscenza con il poeta cileno Pablo Neruda e stringe una duratura amicizia con Martin Russell, autore della prima monografia dedicata all’artista. Nel corso della vita, Keyt trascorre lunghi periodi anche in India, dove è stato altrettanto riconosciuto. Nayika – Vasanta Raga (1943) è stato dipinto lo stesso anno della fondazione del Gruppo ’43 a Colombo e poco dopo aver completato i murales del Gotami Vihara che raffigurano la vita di Buddha. Di tono lirico, il dipinto colloca due figure femminili vestite di semplici sari in una natura rigogliosa. La composizione è

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strettamente incentrata sulle teste e sui busti, oltre che sulle foglie lussureggianti e i loro contorni audaci. Le affinità tra le curve dei motivi naturali e quelle della posa lasciva della nayika conferiscono un senso di unità all’opera. L’arte europea rappresentava una risorsa per l’artista, che tuttavia ricalibra l’uso del linguaggio visivo cubista e dell’arte di Henri Matisse per servire i temi dell’Asia meridionale. Tra questi, la nayika, o eroina romantica, rimarrà una caratteristica del suo lavoro. In questo caso, il titolo fa riferimento anche alla musica carnatica dell’India del Sud e a una delle sue melodie, nota come Vasanta raga, mentre l’ambiente circostante e lo stato d’animo distaccato evocano un’idealizzata vita di villaggio.

KANDY, SRI LANKA, 1901 – 1993, COLOMBO, SRI LANKA

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George Keyt

Nayika - Vasantha Raga, 1943 Olio su tela, 89 × 59 cm. Photo Justin Piperger. Courtesy Collezione Taimur Hassan.

—Devika Singh

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Ram Kumar

Ram Kumar ha studiato economia e ha lavorato per breve tempo come bancario e giornalista prima di ricevere lezioni d’arte informali da Sailoz Mukherjee presso la Sarada Ukil School of Art di Delhi. Nel 1948 inizia a esporre le sue opere. Tra il 1949 e il 1952 vive a Parigi, dove studia arte con André Lhote e lavora come apprendista nello studio di Fernand Léger. In questo periodo conosce artisti, poeti e scrittori come Pablo Neruda e Jacques Roubaud e artisti indiani come Francis Newton Souza, Sayed Haider Raza e Akbar Padamsee che all’epoca vivevano in Francia. Compie molti viaggi in Europa e diventa membro del Partito comunista francese, prima di tornare in India dove inizia a dipingere secondo la modalità figurativa ispirata al Realismo Socialista. È noto soprattutto per i paesaggi e per i dipinti sempre più astratti realizzati a partire dalla metà degli anni Cinquanta, in particolare l’iconica serie di Varanasi.

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A detta di molti, il percorso di Kumar come artista e scrittore riflette la sua indole solitaria. Sono stati tracciati dei paralleli tra la figura umana rappresentata in pittura e i personaggi dei racconti scritti nel corso della sua prolifica attività di autore di narrativa hindi. Entrambi sono permeati di un senso di alienazione, solitudine e tristezza che per Kumar costituiva la condizione esistenziale della vita urbana contemporanea. In Women (1953), le quattro figure sono private di qualsiasi contesto di tempo e di luogo; non sono presenti marcatori culturali, come i vestiti, né altri elementi oltre ai torsi che riempiono

SHIMLA, INDIA, 1924 – 2018, DELHI, INDIA

lo spazio pittorico. Kumar ha compiuto numerosi viaggi nel nord e nel sud del mondo e il suo lavoro è stato celebrato ed esposto a livello internazionale in mostre personali e collettive in India, Europa, Stati Uniti e Giappone, tra cui la Biennale di Tokyo (1957, 1959), la Bienal de São Paulo (1961, 1965, 1980) e la Biennale di Venezia (1958). —Latika Gupta

Women, 1953 Olio su tavola, 60,5 × 102 cm. Photo Justin Piperger. Courtesy Collezione Taimur Hassan.

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Girl in Red (Portrait of Gladys Ankora), 1954 ca. Olio su tela di lino, 76,2 × 55,8 cm. Photo Lucid Plane. Collezione Pamela Clarkson Kwami. Courtesy Estate di Atta Kwami.

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Girl in Red ritrae Gladys Ankora, una donna che lavorava per la sorella di Kwami. Ankora riempie lo spazio della tela, suggerendo una vicinanza fisica tra l’artista e la donna, che ha interrotto le sue attività e si è vestita appositamente per essere ritratta. È probabile che Ankora abbia scelto con cura il suo abbigliamento: un abito rosso su misura degli anni Cinquanta, con un’ampia scollatura a barchetta tipica dell’epoca modernista. In un’epoca in cui la stoffa era fondamentale per integrare le persone nello stato, Kwami non solo presta attenzione al tessuto e alle pieghe, ma anche all’espressione

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solenne e ai lineamenti della sua protagonista, attirando sapientemente l’attenzione dello spettatore sul piccolo orecchino a forma di diamante che ha scelto di indossare, oltre a una collana intenzionalmente sobria. L’opera di Grace Salome Kwami è esposta per la prima volta alla Biennale Arte. —Nancy Dantas

NUCLEO STORICO • RITRATTI

Grace Salome Kwami inizia la sua formazione artistica nel 1951 presso la School of Art and Craft di Achimota, dopo essersi dedicata per svariati anni all’insegnamento nelle scuole secondarie. Nel 1953, si laurea in pittura e scultura. La perdita del marito Robert Ashong Kwami, pianista ed esperto insegnante di musica ad Achimota, segna irrimediabilmente la sua vita. Nonostante le vicissitudini vissute come vedova e madre, Kwami ha creato regolarmente sculture per circa cinquant’anni. La sua inclinazione per la figurazione umana si manifesta sia nelle sue figure di argilla che nei suoi dipinti. Girl in Red (1954 circa) è stata inclusa nella recente mostra African Modernism in America, un’importante esposizione itinerante sulle reti artistiche e i dialoghi creati tra gli Stati Uniti e l’Africa durante la Guerra Fredda. Un ritratto di Kwami compare due volte nel catalogo della mostra, testimoniando la sua importanza sia come pittrice che come esponente di spicco dello stile del Realismo di Kumasi in Ghana.

WORAWORA, GHANA, 1923–2006

STRANIERI OVUNQUE

Grace Salome Kwami

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Lai Foong Moi

NEGERI SEMBILAN, MALESIA, 1931 – 1995, SINGAPORE

Plaudita come la prima donna nata in Malesia a tenere una mostra personale a Singapore, la storia di Lai Foong Moi racchiude il modo in cui lo sviluppo dello stile artistico si è intrecciato con riflessioni su nazione e identità nel contesto di una Malesia (dominio britannico fino al 1963) postbellica e postcoloniale. Prima diplomata dell’Accademia Nanyang di Belle Arti di Singapore a proseguire la formazione presso l’École Nationale Supérieure des Beaux-Arts di Parigi, Lai raccoglie fin da subito i primi consensi per i suoi dipinti che rivelano una straordinaria sensibilità per il colore e la composizione, sostenuta dai principi modernisti acquisiti durante gli studi. Rivelando un’iniziale propensione per la rappresentazione empatica di nudi femminili e per la resa emotiva di paesaggi urbani, l’artista continua a sviluppare il proprio interesse per le persone e i paesaggi di tutti i giorni anche dopo il suo ritorno in Malesia nel 1959. Rispetto ai coetanei, l’eredità di Lai è di relativa oscurità, nonostante il precoce successo. Labourer (Lunch Break) (1965) è un ritratto introspettivo che esemplifica l’attenzione dell’artista verso il mondo interiore dei propri soggetti.

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La figura al centro della composizione è presentata in un momento di riposo e contemplazione mentre guarda oltre la cornice. L’identità di bracciante è rivelata dalla camicia blu, segno distintivo dei lavoratori migranti cinesi, chiamati coolie, che fin dal XIX secolo si sono recati in Malesia per svolgere lavori manuali. Dietro di lui, voltata di spalle e con i lineamenti in parte nascosti, una donna sta consumando il proprio pasto. Il foulard rosso, che spicca come momento di differenziazione cromatica, denota la sua identità di donna samsui, ovvero una lavoratrice immigrata. Sebbene entrambe le figure occupino la stessa linea visiva all’interno della composizione, le posture divergenti permettono all’artista di suggerire una gerarchia di anonimato all’interno di questo trascurato segmento della società. L’opera di Lai Foong Moi è esposta per la prima volta alla Biennale Arte. —Teo Hui Min

A W C 1 c la e o c d c T s v a f a c N f r d d c e in t A t d s e t A

U O B C

Labourer (Lunch Break), 1965 Olio su tela, 104 × 67 cm. Collezione National Gallery Singapore. Courtesy National Heritage Board, Singapore.

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Untitled (Mujer Caballo), 1942-1946 Olio su tela, 196 × 91 cm. Photo N. Bueno. Collezione Paz Illobre-Orteu. Courtesy Collezione Paz Illobre-Orteu.

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Al centro dell’iconografia di Wifredo Lam figurano elementi esoterici, poiché, pur non avendo mai praticato personalmente la santeria afrocubana, ha partecipato ai suoi rituali e alle sue cerimonie tramite la sorella Eloísa. Attento osservatore degli altari domestici delle case cubane, dal 1941 al 1952 – anni che l’artista trascorre a Cuba – Lam dipinge oltre cento opere con immagini legate a questa pratica spirituale. La femme cheval (donna con la testa di cavallo), un tema ricorrente nelle opere di Lam di questo

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periodo, rappresenta sia una donna posseduta da un orisha – entità soprannaturale della religione dell’Africa occidentale – sia una forza spirituale anticolonialista. In opere come Untitled (Mujer Caballo), i tratti delle figure sono un incrocio tra l’umano e l’animale. La figura femminile in quest’opera ha la testa e la criniera di un cavallo. Realizzata tra il 1942 e il 1946, è una delle più importanti opere dipinte da Lam intorno a questo tema. –Sonia Becce NUCLEO STORICO • RITRATTI

Abile pittore e disegnatore, Wifredo Lam lascia la nativa Cuba per Madrid e Parigi nel 1923. Il suo impegno per la causa repubblicana durante la Guerra civile spagnola è evidente in molte delle sue opere. A Parigi stringe amicizia con i maggiori esponenti dell’avanguardia cubista e con importanti surrealisti. Tornato a L’Avana nel 1941, si scopre attratto dall’estetica vernacolare afrocubana. È a New York, dove espone frequentemente durante gli anni Quaranta, che entra in contatto con l’arte astratta. Nel 1952 si stabilisce con la famiglia a Parigi. L’ampio riconoscimento come pittore e disegnatore non gli impedisce di esplorare le arti grafiche o la ceramica, padroneggiandole entrambe. Grazie al suo interesse per la ceramica, trascorre lunghi periodi ad Albissola Marina – centro tradizionale di produzione di ceramica e ambiente stimolante di scambio artistico e intellettuale – dove conosce, tra gli altri, Lucio Fontana, Asger Jorn e Piero Manzoni.

SAGUA LA GRANDE, CUBA, 1902 – 1982, PARIGI, FRANCIA

STRANIERI OVUNQUE

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Wifredo Lam

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Maggie Laubser

Maggie Laubser – nata nel 1886 in un Sudafrica rurale e considerata, insieme a Irma Stern, una pioniera dell‘arte modernista sudafricana – dopo gli studi condotti alla Slade School of Fine Art di Londra introduce l’Espressionismo in Sudafrica. A seguito di una permanenza tra il 1922 e il 1924 a Berlino, dove vede esempi dell’Espressionismo tedesco, la sua opera si trasforma e, da ritratti e paesaggi cupi e calvinisti in colori tenui dominati da grigi, marroni e blu, passa a rappresentazioni dai colori vivaci di animali da fattoria, braccianti e abitanti delle campagne del Capo Occidentale. All’inizio della sua carriera viene aspramente criticata, salvo

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poi essere in seguito accettata e riconosciuta. È apprezzata soprattutto per la sua prolifica produzione di ritratti e per lo studio di soggetti locali. L’attenzione rivolta all’essere umano comune rappresenta una novità e un allontanamento dallo stile di ritratto classico e immobile all’epoca prevalente in Sudafrica. Meidjie (s.d.) è probabilmente il ritratto di una giovane che viveva nella fattoria della famiglia Laubser a Oortmanspost, o nelle sue vicinanze, dove l’artista risiedeva a causa delle ristrettezze economiche dopo la morte del suo mecenate. Laubser dipingeva con un senso di empatia e stima per le persone che la circondavano,

BLOUBLOMMETJIESKLOOF, SUDAFRICA, 1886 – 1973, STRAND, SUDAFRICA

con molte delle quali aveva sviluppato un forte rapporto grazie ai molti anni trascorsi in quella fattoria isolata e lontana dal centro urbano di Città del Capo. In questa tenera rappresentazione, la giovane guarda l’osservatore con luminosi occhi color rame e un’adorabile, maliziosa espressione di sfida. L’attenzione dell’artista per questo soggetto testimonia il grande rispetto che nutriva per le persone attorno a lei.

L a a d s a a g d T v m c lo s s o s S e P e I l’ t I e c c d f J u

—Heba Elkayal

Meidjie (Young Girl), s.d. Olio su tela, 46 × 36,5 cm. Courtesy Norval Foundation. Photo Amber Alcock.

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Lê Phô è stato uno dei primi artisti vietnamiti a diplomarsi all’École des Beaux-Arts de l’Indochine di Hanoi e le sue opere rappresentano le ambiziose sperimentazioni artistiche della sua generazione. La scuola, fondata dal pittore francese Victor Tardieu e dal suo collaboratore vietnamita Nam Sơn, mirava a modernizzare l’arte vietnamita con riferimenti alle pratiche locali e un programma di stampo europeo. Lê Phô si specializza nella pittura a olio che affronta con sobria sensibilità. Le opere della Scuola indocinese furono esposte a Parigi e quelle di Lê Phô apparvero nelle gallerie e all’Exposition Coloniale Internationale (1931). Nel 1937, l’artista emigra a Parigi, dove trascorre il resto della sua vita. In Francia sviluppa una nuova estetica, dipingendo su seta con stile elegante e lineare e creando immagini stilizzate di donne vietnamite, gruppi familiari, pietà e nature morte. Jeune Fille en Blanc (1931) ritrae una giovane dallo sguardo

assorto, in una sottile armonia di toni pallidi e argentei. La scritta nell’angolo superiore sinistro della composizione suggerisce il contenuto dei suoi pensieri: questo estratto da una poesia vietnamita del XVIII secolo è il lamento di una moglie il cui marito è in guerra. Mentre le “donne moderne” erano un soggetto popolare nell’arte e nella letteratura vietnamita degli anni Trenta, Lê Phô sceglie un’immagine più tradizionale di fedeltà e dovere femminile. Lo stile piatto ed essenziale dell’opera suggerisce il suo interesse per l’arte moderna europea, ma la limitata tavolozza di colori, l’inclusione della scritta calligrafica e il vaso celadon in primo piano stabiliscono un legame

con l’estetica vietnamita. Quest’opera fu realizzata per essere esposta alla Prima Mostra Internazionale d’Arte Coloniale di Roma (1931), nell’ambito di una politica di invio dell’arte vietnamita all’estero a scopo commerciale e propagandistico. Opere come quelle di Lê Phô, tuttavia, vanno al di là delle ristrette ambizioni coloniali e sono considerate come una conquista del Modernismo vietnamita. L’opera di Lê Phô è esposta per la prima volta alla Biennale Arte. —Phoebe Scott

Jeune Fille en Blanc (Young Girl in White), 1931 Olio su tela, 81 × 130 cm. Collezione National Gallery Singapore. Courtesy National Heritage Board, Singapore.

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HANOI, VIETNAM, 1907 – 2001, PARIGI, FRANCIA

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Lê Phô

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Lee Qoede

Lee Qoede – importante pittore di figura coreano attivo soprattutto dagli anni Trenta agli anni Cinquanta – è principalmente noto per i suoi dipinti in risposta alla colonizzazione giapponese. Il suo percorso segue di pari passo l’occupazione della Corea da parte del Giappone (1910-1945), la liberazione del paese e la sua divisione (1945) e la guerra di Corea (1950-1953). Formatosi negli anni Trenta a Daegu e in Giappone presso la Teikoku bijutsu gakkō (Scuola d’arte imperiale), dapprima Lee sostiene l’estetica occidentale, e in seguito la combina con le tecniche dell’Asia orientale, utilizzando linee e contorni netti per ottenere la bidimensionalità. Alla fine degli anni Quaranta, sotto l’egida della Joseon misul munhwa hyeophoe

(Associazione per l’arte e la cultura di Joseon), di cui è cofondatore, Lee realizza dipinti dedicati alla liberazione della Corea dal Giappone. Verso la fine della guerra di Corea, viene arrestato e detenuto nei campi di prigionia. Scegliendo di schierarsi con la Corea del Nord, diserta nel 1954 e viene di conseguenza inserito nella lista nera. La sua opera è stata riscoperta e ha ricominciato a essere esposta in Corea del Sud dal 1988. Self-portrait in a Long Blue Coat (1948–1949) mostra l’artista che indossa un durumagi azzurro, un soprabito maschile che fa parte dell’abbigliamento tradizionale coreano. Uno dei quattro autoritratti ancora esistenti dei molti realizzati dall’artista, è

CHILGOK, COREA DEL SUD, 1913–1965

considerato il suo capolavoro e un perfetto esempio dell’ibridazione da lui operata fra pittura occidentale e quella dell’Asia orientale. Ciò è visibile nell’inclusione di vari significanti visivi. L’abbigliamento coreano è completato da un fedora, un cappello occidentale indossato dalle classi più elevate, che rivela il suo status. Lee si ritrae inoltre con in mano una tavolozza di colori a olio europei e un pennello da inchiostro dell’Asia orientale chiamato mopil. Si erge orgoglioso con sguardo sicuro di fronte a un paesaggio rurale con donne nel tradizionale hanbok sullo sfondo. Dai colori vivaci e innovativi, questo autoritratto conferisce all’artista il ruolo e il potere di immaginare il futuro della Corea e delle arti coreane.

L’opera di Lee Qoede è esposta per la prima volta alla Biennale Arte. —Adeena Mey

Self-portrait in a Long Blue Coat, 1948-1949 Olio su tela, 72 × 60 cm. Collezione privata, Corea del Sud.

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SCHOEMANSVILLE, SUDAFRICA, 1929 – 1985, GA-RANKUWA, SUDAFRICA

NUCLEO STORICO • RITRATTI

Simon Lekgetho è noto per le sue nature morte e i suoi ritratti, benché non abbia mai seguito una vera e propria formazione artistica. Dopo aver goduto della protezione e guida di artisti come Walter Battiss, sviluppa un’opera unica che comprende immagini di animali selvatici e lavori ispirati alla pittura rupestre boscimane che lo influenzerà nell’adozione di uno stile di disegno vernacolare unico nel suo genere. I suoi temi sono incentrati sulle idee di guarigione, rinascita e continuità, idee messe in risalto da linee forti, intensi chiaroscuri e una visione attenta ai soggetti sulla tela. Le sue nature morte presentano oggetti fortemente illuminati, come ceramiche locali e conchiglie, collocati su sfondi scuri nei toni spenti del marrone, del grigio e del nero.

Self-Portrait, 1957 Olio su tavola, 38,5 × 38 cm. Courtesy Norval Foundation. Photo Amber Alcock.

dimostra un intrigante gioco cromatico, indicativo di un’acuta comprensione del colore. Collocato su uno sfondo arancione tenue, si ha la sensazione che l’artista stia dipingendo nella tradizione occidentale del ritratto, in particolare nella tradizione dell’autoritratto, tanto da firmare l’opera con la dicitura “autoritratto”. L’opera di Simon Lekgetho è esposta per la prima volta alla Biennale Arte. —Heba Elkayal

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Self-Portrait (1957) rivela l’esplorazione del colore, dell’ombra e della forma seguendo un’ispirazione in un certo senso geometrica, con cui cattura uno sguardo grave rivolto all’osservatore. Dipinge con forza i propri lineamenti, forse amplificandone alcuni aspetti, come la sporgenza del mento e la forma appuntita della testa. Queste volute esagerazioni servono a enfatizzare diverse caratteristiche di se stesso. Gli occhi e le labbra sono dipinti con maggiore delicatezza e la resa del tono della pelle nei gialli e negli azzurri acquamarina

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Simon Lekgetho

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Celia Leyton Vidal

SANTIAGO, CILE, 1895-1975

il riconoscimento della comunità con cui ha condiviso venticinque anni della sua vita, venendo ribattezzata Millaküyen (“Luna d’oro”). È così che Celia Leyton ha scelto di ritrarsi in quest’opera, riunendo la complessa rete di segni della cultura mapuche e auto-dislocando la propria identità. Così, indossa il trarilonko (fascia per capelli d’argento), alcuni chaway (orecchini), una trapelakucha (pettorale d’argento) e una trariwe (fusciacca intrecciata). L’opera compare sulla copertina del suo libro Raza Araucana del 1950, parte di una serie di libri autopubblicati dall’artista. Celia Leyton è stata emarginata dalla storiografia artistica, essendo scarsamente rappresentata nei musei.

L im d p d a F o d a im c t a e a a f r N B v s g a c s a s il o N e

L’opera di Celia Leyton è esposta per la prima volta alla Biennale Arte. —Gloria Cortés Aliaga

Celia Leyton è stata una pittrice, muralista, educatrice, scrittrice e direttrice culturale cilena, nonché figura imprescindibile nella storia delle donne artiste che hanno sviluppato la loro produzione in territori decentrati negli anni Trenta. Ha studiato a Santiago, ma ha trascorso la maggior parte della sua vita nel sud del Cile, dove ha insegnato nelle scuole femminili, creando gruppi di formazione guidati dalle stesse studentesse, come il Circolo del disegno. Nel 1942 ha creato l’Accademia di Belle Arti di Temuco, che mirava a dare visibilità ai valori

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locali, in particolare a quelli della cultura mapuche. Dopo aver lasciato l’Accademia, si è recata in Europa esponendo al Círculo de Bellas Artes di Madrid, e ha donato le sue opere a varie istituzioni, tra cui il Musée de l’Homme di Parigi. Nel 1961, al ritorno a Santiago del Cile, ha aperto il suo Rucatelier (da ruca, “casa” nella lingua mapudungun e atelier), offrendo spazi per la formazione dei giovani, soprattutto di origine indigena. La sua vicinanza al popolonazione mapuche e la sua sensibilità verso la critica sociale le valsero

Millaküyén, 1950 ca. Olio su tela, 84 × 71,8 cm. Collezione Museo Nacional de Bellas Artes, Santiago del Cile.

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Lim Mu Hue è uno dei più importanti artisti di xilografie di Singapore, la cui erudita produzione comprende dipinti con varie tecniche artistiche e rilievi scultorei. Formatosi nei metodi pittorici occidentali presso l’Accademia di Belle Arti di Nanyang negli anni Cinquanta, ma anche immerso nelle tradizioni culturali cinesi, le sue opere testimoniano i cambiamenti avvenuti a Singapore prima e dopo l’indipendenza. Negli anni Sessanta, Lim insegna arte nell’università che ha frequentato, prima di diventare redattore artistico presso il Nanyang Siang Pau (Nanyang Business Daily), creando vignette e illustrazioni per il supplemento artistico del giornale, spesso corredate di acute osservazioni e ironici commenti sociali. Nei decenni successivi, Lim espone attivamente sia a livello locale sia all’estero, ricoprendo anche il ruolo di consulente museale onorario presso l’Università di Nanyang e di ricercatore senior e visiting professor in Cina.

SINGAPORE, 1936–2008

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Lim Mu Hue Questo piccolo autoritratto, dipinto intorno ai vent’anni, rivela l’ambizione personale ma anche la sua ansia, specchio dei sentimenti e delle sfide della costruzione della nazione di Singapore. A rappresentazione della raggiunta maggiore età, il dipinto è stato pubblicato sulla copertina del catalogo della sua prima personale tenutasi nel 1970 presso la Camera di Commercio Cinese. Nel dipinto, Lim compare seduto in uno studio con tele astratte dai colori vivaci su cavalletti sullo sfondo. Fissa lo spettatore con un occhio solo. Sulla metà rotta degli occhiali, indossati davanti all’altro occhio, si vede il riflesso dei dipinti astratti che lo circondano. Rispetto al precedente autoritratto del 1955, che raffigura la sua giovanile diffidenza di neodiplomato alla scuola d’arte, Self-Expression (1957-1963 circa) è una dichiarazione più matura e sicura di sé, che abbraccia la sperimentazione degli stili artistici moderni occidentali pur mantenendo uno sguardo saldamente realista sulle condizioni di Singapore. L’opera di Lim Mu Hue è esposta per la prima volta alla Biennale Arte.

Self-Expression, 1957-1963 ca. Olio su tavola, 34,3 × 30 cm. Collezione National Gallery Singapore. Courtesy National Heritage Board, Singapore; Koh Seow Chuan. © Estate di Lim Mu Hue.

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—Adele Tan

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Anita Magsaysay-Ho

ZAMBALES, FILIPPINE, 1914 – 2012, MANILA, FILIPPINE

Anita Magsaysay-Ho è una pittrice filippina riconosciuta per il contributo fondamentale alla storia del Modernismo del Sud-Est asiatico. Nata in una famiglia benestante, ha studiato all’Università delle Filippine sotto la guida di Fernando Amorsolo, che esercitò un’influenza decisiva sul suo stile figurativo. In seguito, è stata esposta alle tradizioni moderniste grazie agli studi all’estero presso l’Art Students League e la Cranbrook Academy of Art. Magsaysay-Ho incorpora quanto appreso nelle sue rappresentazioni di donne filippine rurali al lavoro, nei campi o al mercato, molte delle quali frutto dell’immaginazione o dei ricordi dell’infanzia. Tutte, che esprimano vigore o tenerezza, sono rese con un tocco nobilitante. Pur costretta a continui spostamenti a causa dell’attività del marito, l’artista tornerà su questo soggetto, fonte continua di empatia e possibilità estetiche, per il resto della sua vita, lasciando un’opera che è al contempo un’ode alla femminilità filippina. L’opera di Anita Magsaysay-Ho è esposta per la prima volta alla Biennale Arte. —CJ Salapare

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Self-Portrait, 1944 Olio su cartoncino Bristol, 61 × 48 cm. Collezione privata. Courtesy National Museum of the Philippines.

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Negro Aroused, 1935 Legno, 63,5 × 43,1 × 21,5 cm. Photo Franz Marzouca. Collezione National Gallery of Jamaica. Courtesy National Gallery of Jamaica.

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Negro Aroused (1935), la sua scultura più iconica, è indicativa del suo impegno politico durante un periodo vitale della storia del lavoro giamaicano. Elegantemente scolpita in legno di mogano (l’artista ne realizzò in seguito una replica in bronzo), l’opera mostra la maestosa figura di un uomo che emerge dalla schiacciante oppressione del colonialismo. Massa corpulenta di enormi proporzioni, la figura rivolge lo sguardo verso il cielo, come se aspirasse a un’altra realtà, forse una libera da vincoli economici, sociali e razziali. Nel periodo

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in cui fu realizzata la scultura, i Caraibi erano attanagliati da un’ondata di ribellioni operaie che vedevano i lavoratori dell’intera area protestare per i bassi salari e le pessime condizioni di lavoro; Negro Aroused, quindi, è una sorta di monumento al loro fermento e all’ardore rivoluzionario che animava la loro lotta. L’opera di Edna Manley è esposta per la prima volta alla Biennale Arte. —Ade J. Omotosho NUCLEO STORICO • RITRATTI

Edna Manley è stata una figura chiave della storia dell’arte giamaicana e con il proprio lavoro ambiva a nobilitare la cultura e il popolo giamaicani. Nata nello Yorkshire nel 1900, Manley cresce nella Gran Bretagna coloniale, da giovane studia presso varie istituzioni artistiche del paese prima di sposarsi con il politico Norman Manley e trasferirsi in Giamaica. Il suo mezzo di comunicazione è la scultura, in cui sviluppa uno stile personale, attingendo a un tipo di estetica internazionalista profondamente influenzata da temi sociali e molto diffusa nella prima parte del XX secolo. Pur essendo cresciuta all’interno dell’élite britannica, Manley prende le distanze dalla politica borghese. La sua arte rivela la sua grande vicinanza al popolo giamaicano e sostiene le cause della classe operaia nera.

BOURNEMOUTH, REGNO UNITO, 1900 – 1987, KINGSTON, GIAMAICA

STRANIERI OVUNQUE

Edna Manley

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Josiah Manzi

Nato nel 1918 in Zimbabwe da genitori emigrati dal Malawi, Josiah Manzi è stato un membro fondatore della comunità artistica di Tengenenge a Guruve, nonché pioniere del movimento di scultura contemporanea in pietra del Paese, iniziato negli anni Sessanta. Nello Zimbabwe coloniale le opportunità per i neri erano limitate e Manzi studia per diventare operaio edile. Nel 1967 trova lavoro presso la piantagione di tabacco di Tengenenge; quando le tensioni politiche rendono meno redditizia l’agricoltura, ha la possibilità di dedicarsi all’arte a tempo pieno diventando uno degli artisti più acclamati del movimento. Tengenenge era un luogo favorevole alla creazione di opere d’arte, in quanto si trovava in prossimità di grandi affioramenti di serpentino e di pietra da taglio. All’intensificarsi della Seconda Chimurenga a metà degli anni Settanta, la famiglia di Manzi è una delle poche a rimanere a Tengenenge, dove l’artista continua a scolpire fino alla morte, avvenuta nel 2022. Mfiti Woman and Snake (1990)

[LUOGO IGNOTO], ZIMBABWE, 1933-2022

era fino a poco tempo fa collocata nei giardini di Harare, un parco centrale che circonda in parte la National Gallery of Zimbabwe. Nella lingua chichewa parlata in Malawi, mfiti significa stregone. In quest’opera, l’artista raffigura una donna seduta che tiene tra le braccia un serpente a due zampe. Curiosamente, sia il serpente sia la donna presentano una fusione di caratteristiche zoomorfe e antropomorfe. Tra i motivi ricorrenti nell’opera di Manzi figurano teste a forma di cono, colli allungati ed esseri in parte umani e in parte animali totemici, come rinoceronti e uccelli. Il metodo di Manzi prevedeva l’ascolto della pietra, la rimozione del primo strato esterno e la comprensione di come essa dovesse essere modellata. Gran parte della sua pratica si ispira alle cosmologie e al folclore africano. Il suo approccio visivo era stato influenzato dalla spiritualità tradizionale del popolo Yao del Malawi, poiché era un chigure – un mascherato della società segreta – che spesso costruiva maschere di legno con il padre.

M s p S la le e d p B n r n p a B n b a il t t in d n d M l’ l’ s

L’opera di Josiah Manzi è esposta per la prima volta alla Biennale Arte. —Tandazani Dhlakama

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Mfiti Woman and Snake, 1990 Pietra, serpentino nero, 182 × 60 × 53 cm. Courtesy l’Artista e National Gallery of Zimbabwe.

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Maria Martins è stata una scultrice brasiliana nota per la sua partecipazione al Surrealismo internazionale, il cui lavoro ha messo in discussione le idee sul femminile, sul Brasile e sui tropici. Sposata con un diplomatico, trascorre gran parte della propria vita fuori dal Brasile. È solo negli Stati Uniti, negli anni Quaranta, che ottiene riconoscimento come artista nel circuito internazionale; partecipa a mostre surrealiste a New York e Parigi e poi alla Biennale Arte del 1952. Acquista notorietà con le sue sculture in bronzo raffiguranti mitologie amazzoniche, che le valgono il soprannome di “scultrice dei tropici”, denominazione che tuttavia finisce per limitare le interpretazioni più complesse del suo lavoro, imprigionandola nel ruolo di narratrice culturale del proprio paese all’estero. Maria Martins oscilla tra l’essere “troppo brasiliana” per l’arte internazionale e “troppo straniera” per l’arte brasiliana.

CAMPANHA, BRASILE, 1894 – 1973, RIO DE JANEIRO, BRASILE

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Maria Martins Nel 1945, ancora all’estero, l’artista abbandona una certa visualità facilmente associabile al Brasile. In quello stesso anno Martins definisce le proprie sculture “le mie dee e i miei mostri”, mentre continua a creare le proprie mitologie personali incentrate su figure femminili ibride, fantastiche o mostruose, in cui i temi dell’erotismo e del desiderio assumono ancor più evidenza. However (1948) – opera esemplare di quel periodo – raffigura una figura femminile con il corpo circondato da serpenti, uno che le stringe le gambe, l’altro che le comprime il petto e il seno. Sul volto, solo una bocca aperta che suggerisce un grido di dolore o di piacere. I serpenti – comunemente associati al femminile nell’opera di Martins – evocano una dinamica di dominio e di minaccia esterna o interna alle figure, che avviene tramite il riferimento a figure della mitologia greca, come Medusa, o amazzonica, come il Cobra Grande. Queste figure, tuttavia, non sono mai mostrate completamente “libere” e sembrano trarre la loro forza da questa dicotomia. L’opera di Maria Martins è esposta per la prima volta alla Biennale Arte.

However, 1948 Bronzo, 130 × 24 × 32,5 cm. Photo Vicente de Mello. Collezione Dalal Achcar Bocayuva Cunha, Brasile.

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STRANIERI OVUNQUE

–Isabella Rjeille

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Carlos Mérida

Carlos Mérida, nato a Città del Guatemala nel 1891, è uno dei primi artisti a fondere Modernismo europeo e regionalismo latinoamericano, portando la cultura indigena al centro di quella visiva. Dal 1910 al 1914 vive e lavora a Parigi, dove si mescola ad artisti dell’avanguardia, tra cui Pablo Picasso, Joan Miró e Paul Klee, e ad artisti latinoamericani quali Diego Rivera. Mosso dalla curiosità per lo status quo artistico post-rivoluzione in Messico, nel 1919 si trasferisce nella capitale dove vive fino alla morte, nel 1985. Pur facendo parte del movimento muralista messicano, il suo stile geometrico si concentra non tanto su narrazioni politiche quanto su rappresentazioni non figurative. La sua opera è profondamente influenzata dalle arti e dalla cultura delle popolazioni indigene di Messico e Guatemala, che egli si impegna a promuovere incorporando elementi simbolici nei suoi murales, tra cui figurano monumentali opere a mosaico su costruzioni architettoniche negli anni Cinquanta e Sessanta.

CITTÀ DEL GUATEMALA, GUATEMALA, 1891 – 1985, CITTÀ DEL MESSICO, MESSICO

Motivo Guatemalteco (1919) fa parte di un corpus di opere che tenta di catturare l’essenza dei popoli indigeni e della cultura maya. Mescolando gli stili pittorici del Modernismo europeo ai simboli e agli elementi dell’arte popolare delle Americhe, Mérida ritrae una donna maya quiché in posa orgogliosa con gli abiti tradizionali rappresentativi della propria comunità. La donna potrebbe essere originaria degli altopiani di Quetzaltenango in Guatemala, dove Mérida è cresciuto, tuttavia l’artista realizza questo dipinto nell’anno in cui si trasferisce definitivamente a Città del Messico. Le tracce geometriche e colorate mettono in risalto i dettagli della fusciacca, del cerchietto e dell’huipil. I motivi e colori simboleggiano la visione del mondo propria della cultura della figura ritratta, e rappresentano gli elementi naturali che formano le origini del mondo. Il dipinto guida l’attenzione dello spettatore verso i dettagli tessili, rivelando così una comprensione del mestiere e non un’esotizzazione dei corpi femminili.

C d p n C a im M v S M f c s n p s g P M a p d c t 1 c u e il f in p d o c r v d d c g

—Eva Posas

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Motivo Guatemalteco, 1919 Olio su tela, 97,5 × 71,5 cm. Photo Juan Carlos Mencos. Collezione The Hugo Quinto e Juan Pablo Lojo. Courtesy Collezione The Hugo Quinto e Juan Pablo Lojo.

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I ritratti di Mgudlandlu spesso raffigurano donne o ragazze del gruppo etnico xhosa, solitamente in coppia. Al posto delle figure in ombra che tipicamente accompagnano questi soggetti, tuttavia, una foschia bianca indica il freddo, per ripararsi dal quale si rannicchiano e si piegano le anziane signore del titolo. Forse essa indica anche ciò che l’artista considerava il “sacro e protettivo potere del bianco”, un colore che – come racconta alla sua biografa Elza Miles quando ricorda le fattorie della sua fanciullezza a Peddie – applicava alle cornici di porte e finestre. Un’idea di sacralità satura quest’opera, poco conosciuta, non datata e insolita, le cui ampie forme

L’opera di Gladys Mgudlandlu è esposta per la prima volta alla Biennale Arte. —Ruth Ramsden-Karelse

Two Old Ladies Shopping on a Cold Day, s.d. Vernice in polvere su tavola, 51 × 63 cm. Collezione privata.

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fanno pensare allo stile successivo di Mgudlandlu. Le due donne appaiono vestite con l’uniforme di quella che probabilmente è una chiesa AmaZioni. Sono osservate dalla prospettiva “a volo d’uccello” amata dall’artista, che si identificava profondamente con i volatili e le cui rappresentazioni di queste creature in coppie armoniose, come in The Oystercatchers (1964), sono evocate dalla simmetria estetica delle due donne e dal gesto concorde delle loro braccia.

STRANIERI OVUNQUE

Con i paesaggi inquieti che dipinge di notte, attingendo a piene mani all’infanzia trascorsa nella provincia rurale del Capo Orientale, l’insegnante e auto-proclamata “sognatriceimmaginista” Gladys Mgudlandlu diventa l’artista visiva nera più insigne nel Sudafrica degli anni Sessanta. Mgudlandlu resta intrappolata fra due estremi: i successi commerciali annunciati alla sua prima mostra personale nel 1961 nascondono una persistente precarietà, che si manifesta nella perdita di gran parte della sua opera. Presentata come “primitiva”, Mgudlandlu è soggetta sia alla denigrazione razzista da parte dei media, sia alla critica di alcuni contemporanei neri che ritengono il suo lavoro troppo poco politico. Nel 1971 – proprio quando quello che l’artista descrive come un mix di Impressionismo ed Espressionismo cede il passo all’astrazione – le ferite riportate in seguito a un incidente stradale impediscono per sempre a Mgudlandlu di dipingere. Nonostante le sue opere siano state esposte con frequenza, si è iniziato a riconoscerne nuovamente il valore solo dal primo decennio del XXI secolo, e i suoi paesaggi dipinti sono ora reinterpretati come potente protesta contro gli espropri coloniali.

PEDDIE, SUDAFRICA, 1917/1926 – 1979, CITTÀ DEL CAPO, SUDAFRICA

NUCLEO STORICO • RITRATTI

Gladys Mgudlandlu

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Bahman Mohasses

Bahman Mohasses studia pittura sotto la guida di Seyyed Mohammed Habib Mohammedi, docente formatosi all’Accademia delle Arti russa. Prosegue la propria formazione presso la Facoltà di Belle Arti dell’Università di Teheran, città dove si unisce all’associazione culturale e letteraria iraniana Fighting Cock Society, e dove cura il settimanale Panjeh Khoroos (zampa di gallo), prima di partire per Roma per completare gli studi all’Accademia di Belle Arti. Tornato in Iran all’inizio degli anni Sessanta, diventa parte attiva del movimento artistico moderno iraniano, che beneficiava delle riforme culturali laiche dell’era Pahlavi.

Pittore eclettico e singolare, interessato a esplorare visioni astratte di tipo surrealista, grazie a una pratica artistica che abbraccia pittura, scultura, progettazione, regia teatrale e traduzione letteraria, Mohasses si distingue dai propri contemporanei. Partecipa a biennali a Parigi, Teheran, San Paolo e Venezia. A causa delle sue idee politiche, dopo la rivoluzione islamica del 1979 in Iran, le sue opere sono state distrutte. In seguito alle turbolenze provocate dalla rivoluzione, si trasferisce a Roma, dove vive fino alla morte, avvenuta nel 2010. Impregnato di simbolismo, Untitled (Personages) (1966) raffigura una muscolosa figura

RASHT, IRAN, 1931 – 2010, ROMA, ITALIA

ibrida umano-aliena simile a un minotauro mitologico, che non presenta tratti somatici se non due occhi incavati. Il minotauro è una figura ricorrente nei ritratti di Mohasses e spesso indica il suo senso di alienazione, mentre lavora contro le politiche identitarie. L’opera è anche un cenno alle favole persiane in cui gli animali vengono allegorizzati per trasmettere racconti morali, tradizione che affonda le sue radici nell’antico Panchatantra, una raccolta di favole indiane in sanscrito. Tradotto in persiano medio nel VI secolo, il Panchatantra ha successivamente influenzato il teatro e le performance iraniane. —Sara Raza

Untitled (Personages), 1966 Olio su cartoncino , 70 × 50 cm. Photo Justin Piperger. Courtesy Taimur Hassan Collection.

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Montenegro è ancora in Europa quando scoppia la Prima guerra mondiale e questo lo porta a stabilirsi a Maiorca per sei anni. Lì dipinge scene ispirate ai costumi locali, tra cui una delle maggiori attività dell’isola: la pesca. Pescador de Mallorca (1915) ritrae di spalle un uomo bronzeo e muscoloso. Il pescatore volge lo sguardo a chi osserva, mentre il braccio destro stringe un grande vassoio di pesce fresco. Rami spogli e argentei e rigogliosi fichi d’India si frappongono tra la persona e il paesaggio costiero sullo sfondo, con

Pescador de Mallorca, 1915 Olio su tela, 100 × 97 cm. Courtesy Instituto Nacional de Bellas Artes y Literatura; Museo Nacional de Arte, Città del Messico.

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scogli che tagliano di netto il blu del mare. Ben lontano dalle atrocità della guerra, il soggetto del quadro, nello stile decorativo e nella sontuosa gamma cromatica usata per renderlo, preannuncia il ruolo che continueranno a svolgere la fantasia e la tradizione nell’opera più tarda dell’artista. L’opera di Roberto Montenegro è esposta per la prima volta alla Biennale Arte. —Marko Ilić

STRANIERI OVUNQUE

Roberto Montenegro, pittore, illustratore, tipografo e scenografo, è membro fondatore del movimento del Muralismo messicano. Nato da una famiglia dell’élite di Guadalajara, inizia la carriera artistica come apprendista di Félix Bernardelli, pittore brasiliano di origini italiane, e quindi si iscrive alla Escuela Nacional de Arte di Città del Messico, dove studia anche Diego Rivera. Come quest’ultimo, Montenegro trascorre la maggior parte della Rivoluzione messicana studiando all’estero, in Europa. Tornato definitivamente in Messico nel 1921, è uno dei quattro artisti cui vengono commissionati i primi murales finanziati dal governo a Città del Messico. In seguito diviene noto soprattutto per le opere che combinano una visione surrealista e uno stile popolare volutamente naïf. Figura di spicco del Modernismo messicano, Montenegro è anche appassionato dell’artigianato e dell’arte popolare messicani e, nel 1934, viene nominato primo direttore del Museo de Arte Popular del Messico.

GUADALAJARA, MESSICO, 1885 – 1968, CITTÀ DEL MESSICO

NUCLEO STORICO • RITRATTI

Roberto Montenegro

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Camilo Mori

VALPARAÍSO, CILE, 1896 SANTIAGO, CILE, 1973

Camilo Mori è stato un pittore, cartellonista e scenografo teatrale, uno dei più prolifici e poliedrici artisti d’avanguardia del Cile. Diplomato alla Scuola di Belle Arti di Santiago, Mori si reca in Europa all’inizio degli anni Venti, qui approfondisce i suoi studi nelle libere accademie e partecipa al Salon d’Automne. Questa esperienza è fondamentale per la sua carriera e al suo ritorno crea il collettivo artistico Gruppo Montparnasse (1923) e partecipa al Salón de Junio (1925) che ospita artisti come Pablo Picasso e Juan Gris. Nel 1928, riceve una borsa di studio dal governo per studiare arti applicate in Europa, dove si specializza in manifesti pubblicitari che sviluppa insieme alla pittura, ricevendo riconoscimenti internazionali. Compie un terzo viaggio nel 1957, quando sperimenta l’astrazione. La viajera (1928) è il risultato dei suoi primi esperimenti

con le tendenze europee, in particolare quelle emerse dopo Paul Cézanne. È un ritratto della moglie, la pittrice Maruja Vargas Rosas, la cui opera è scarsamente citata, essendo riconosciuta più come musa del pittore che come artista autonoma. Il ritratto, realizzato a Valparaíso, rappresenta la passeggera di un treno nel periodo di massimo splendore del trasporto ferroviario in Cile. Il treno divenne uno spazio di appropriazione per le donne, permettendo loro di spostarsi liberamente da un luogo all’altro nel bel mezzo della lotta per il diritto di voto femminile. La protagonista del dipinto porta con sé anche un libro, segno dell’accesso delle donne alla sfera culturale. Mori, membro del Partito Comunista e direttore del Museo Nazionale di Belle Arti, ha ricevuto il Premio Nazionale d’Arte nel 1950 e rimane una figura emblematica della storia dell’arte cilena. La viajera è la sua opera più nota ed è tuttora ampiamente riprodotta su francobolli, libri scolastici e calendari. L’opera di Camilo Mori è esposta alla Biennale Arte per la prima volta. —Gloria Cortés Aliaga

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La viajera, 1928 Olio su tela, 100,5 × 70 cm. Collezione Museo Nacional de Bellas Artes, Santiago del Cile.

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A s h p s C in e S s A s in s a T c d la d e p in c d p c p a f Y c m c p t s U a d


Ahmed Morsi è uno scrittore, scenografo e artista visivo che ha dedicato gran parte della propria attività alla pittura e al suo rapporto con la figurazione. Con una pratica poetica iniziata negli anni Quaranta e articolata nell’ambito del Surrealismo egiziano, Morsi si laurea all’Università di Alessandria nel 1954 con una specializzazione in letteratura inglese. Nello stesso decennio si dedica alla pittura e partecipa a mostre collettive in Egitto. Tra il 1954 e il 1956, entra in contatto con la scena artistica di Baghdad, in Iraq, e inizia a lavorare come scenografo, diventando in seguito il primo egiziano a creare le scenografie per l’Opera del Cairo. Nel 1968, insieme ad altri intellettuali, crea la rivista Galerie 68, che diventa una delle pubblicazioni più importanti della critica culturale egiziana, soprattutto per le riflessioni su letteratura e arti visive. Nel 1974, per motivi familiari, si trasferisce a New York, dove prosegue la sua carriera non solo come artista ma anche come agitatore culturale, organizzando pubblicazioni, traducendo testi e stabilendo legami tra la scena delle arti visive negli Stati Uniti e gli artisti appartenenti alla varietà culturale del mondo arabo.

Questo autoritratto del 1970 esemplifica la sua ricerca artistica: l’immagine gioca con la pittura, il corpo umano e la rappresentazione. La figura tiene la cornice in un gioco di metalinguaggi che pervade il percorso di Morsi come artista visivo. In questo quadro nel quadro, notiamo come l’artista giochi con l’idea di astrazione – ponendosi in dialogo con molti artisti a essa interessati, – quando accosta un cerchio e aree di colore sul proprio corpo. È un autoritratto di Morsi che, più che un pittore, è stato un commentatore della storia dell’arte della propria generazione. L’opera di Ahmed Morsi è esposta per la prima volta alla Biennale Arte. —Raphael Fonseca

Portrait of the artist with a broken mirror, 1970 Olio su legno, 124 × 81 cm. Collezione Barjeel Art Foundation, Sharja. Courtesy Barjeel Art Foundation, Sharja.

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ALESSANDRIA, EGITTO, 1930 VIVE A NEW YORK, USA

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Ahmed Morsi

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Effat Naghi

Nata in una ricca famiglia di proprietari terrieri di Alessandria d’Egitto, Effat Naghi viene avviata al disegno, alla pittura e alla musica fin da piccola, per poi acquisire una formazione artistica ufficiale presso l’Accademia di Belle Arti di Roma nel 1947, dove apprende l’arte dell’affresco. A Parigi diventa allieva e amica di André Lhote. Nel 1954 sposa il pittore Saad al-Khadem e insieme studiano arti e tradizioni popolari egiziane. Naghi introduce nella propria arte elementi visivi attinti dall’astrologia e dalle scienze occulte, che diventeranno la sua cifra artistica. A partire dagli anni Sessanta produce assemblaggi di pezzi di legno dipinti e oggetti trovati. Visitando Assuan nell’ambito di missioni governative, raffigura i meccanismi dell’Alta Diga e partecipa alla riscoperta della cultura nubiana. Se il fratello, Mohamed Naghi, è considerato una figura di spicco della pittura egiziana della prima età moderna, anche lei si distingue per l’innovativo uso del vocabolario visivo e dei materiali.

ALESSANDRIA, EGITTO, 1905-1994

Alla fine degli anni Cinquanta, l’opera di Naghi subisce una svolta stilistica, alimentata dall’interesse per la storia egiziana e le culture popolari, e caratterizzata da colori vivaci e forme e figure semplificate. La composizione e la tavolozza naturalistica di questo ritratto di donna sono di natura più classica. L’andamento verticale, le tonalità ocra e marroni, l’acconciatura sofisticata della modella, la tunica bianca, le linee nere che accentuano i grandi occhi e le sopracciglia ricordano i ritratti del Fayyum che ricoprivano i volti delle mummie dell’alta società dell’Egitto romano. Tuttavia, l’uso del truciolato – un materiale con particelle visibili che spesso fungeva da base per i suoi dipinti – insieme all’aggiunta di riflessi verdi, blu e rosa sul viso e sui capelli della modella, dà vita a un’interpretazione moderna di questa antica tradizione pittorica su tavola. Lo sfondo è animato da linee in inchiostro nero che tracciano quelli che sembrano simboli e scritte evocativi delle parole magiche talvolta incorporate nei lavori dell’artista. Effat Naghi compare fra gli artisti che hanno rappresentato l’Egitto alla Biennale Arte del 1950, 1952 e 1956. —Nadine Atallah

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Untitled, 1960 Olio e inchiostro su pannello, 121,5 × 81,5 cm. Photo Maria e Mansour Dib. Courtesy Ramzi e Saeda Dalloul Art Foundation.

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La riflessione sul senso della vita ha sempre guidato la produzione artistica di Ismael Nery: l’io, l’altro e la loro intersezione, i riflessi e le ombre, la ricerca dell’interezza sono tutti temi ricorrenti. Nel dipinto Figura decomposta (1927), due corpi rappresentati in maniera schematica – torsi maschili e femminili – sono parzialmente giustapposti, rivolti in avanti. All’altezza del collo, le figure si dividono formando immagini ambigue: sono entrambe di profilo o sono due metà dello stesso volto frammentato? Seguendo la propria teoria dell’Essenzialismo,

Figura decomposta, 1927 Olio su tela, 42 × 47,5 cm. Photo Sergio Guerini. Collezione privata. Courtesy Almeida & Dale Galeria de Arte. © Sergio Guerini.

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Ismael Nery, pittore, disegnatore e poeta, da bambino si trasferisce a Rio de Janeiro con la famiglia. Studia alla Escola Nacional de Belas Artes e negli anni Venti si reca due volte in Europa. Nel corso del primo viaggio, conosce il lavoro degli artisti d’avanguardia e nella propria pittura incorpora in particolar modo il Cubismo. Nel secondo viaggio incontra gli artisti surrealisti, tra cui Marc Chagall, che da quel momento eserciterà grande influenza sulla sua produzione artistica. Nery realizza molti ritratti e autoritratti in cui mira a rappresentare l’essenza dell’essere umano, indipendentemente dal tempo e dallo spazio. Sempre negli anni Venti concepisce un sistema filosofico denominato Essenzialismo che promuove la ricerca di un’unità originaria da lungo tempo perduta dall’umanità. Rappresenta questa teoria attraverso la pittura e la poesia, da lui considerate un’iniziazione al cattolicesimo. Si spegne all’età di trentatré anni a causa della tubercolosi.

BELÉM, BRASILE, 1900 – 1934, RIO DE JANEIRO, BRASILE

Nery illustra la divisione dell’unità primordiale delle polarità femminile e maschile, idealmente costitutive di ogni individuo. La semplificazione delle forme, la geometrizzazione, la frammentazione delle figure in piani e la tavolozza monocromatica fanno parte del lessico cubista assorbito dal pittore durante il suo primo viaggio a Parigi negli anni Venti. L’opera di Ismael Nery è esposta per la prima volta alla Biennale Arte. —Regina Barros

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Ismael Nery

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Malangatana Valente Ngwenya

MATALANA, MOZAMBICO, 1936 – 2011, MATOSINHOS, PORTOGALLO

Malangatana Valente Ngwenya – pittore, poeta, musicista, intellettuale e rivoluzionario – ha dato voce alle lotte dei popoli del suo Paese e dell’Africa. Nato nel Mozambico tardo-coloniale, ha vissuto le depredazioni del colonialismo portoghese. In assenza del padre lavoratore migrante, da bambino Ngwenya lavora come pastore, trasferendosi a Maputo (allora Lourenço Marques) a dodici anni. Scoperto l’interesse per la pittura, prende lezioni al Núcleo de Artes, dove espone per la prima volta in una mostra in onore del Ministro dei Territori d’Oltremare (1959). Fin dai primi lavori, utilizza l’intensità del colore per trasmettere la violenza del colonialismo e della guerra. Nel 1964 aderisce al partito socialista FRELIMO; viene incarcerato dalle forze di sicurezza portoghesi e durante i diciotto mesi di detenzione produce una serie di notevoli disegni. To the Clandestine Maternity Home (1961) è una densa composizione pittorica che parla dell’oppressione femminile sotto il dominio coloniale, del controllo del corpo e della riproduzione femminili, nonché dell’esistenza di reparti di maternità clandestini e di reti per l’aborto. La tela, affollata di corpi sovrapposti e intrecciati, è dominata dai volti tormentati di donne appartenenti a ogni estrazione sociale. I loro sguardi penetranti sono rivolti verso lo spettatore o di lato, segnalando la consapevolezza di quanto le circonda e dello sguardo maschile che sorveglia e controlla. Una delle figure dominanti è una

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madre emaciata; il feto in grembo è mostrato cullato dalle mani laboriose e dalle braccia rassicuranti della madre. A differenza di questa malnutrita madre in attesa, le sue controparti bianche sono corpulente. A destra un’altra figura rivelatrice, una domestica con i capelli legati da un doek, allatta un bambino nato da un’unione interrazziale (o da uno stupro) mentre osserva in silenzio il resto delle donne in quest’ode dell’artista alla maternità. L’opera di Malangatana Valente Ngwenya è esposta per la prima volta alla Biennale Arte. —Nancy Dantas

To the Clandestine Maternity Home, 1961 Olio su tela, 157 × 180 cm. Collezione Università di Bayreuth, Germania. Courtesy Università di Bayreuth.

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Madona de Ternura, 1946-1951 Granito Comanche, 28,8 × 22,5 × 32,8 cm. Collezione MAC USP, San Paolo, Brasile.

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El Olivar di San Isidro ospita oggi un museo e un giardino di sculture in cui sono ospitate molte delle sue opere. Madona de la Ternura (19461951), o Madonna della tenerezza, è una scultura in granito screziato che si colloca a metà strada nel percorso artistico di Núñez del Prado, tra le prime figure indigeniste in legno e pietra e le successive astrazioni organiche in metallo. È una coinvolgente immagine di madre e figlio che rappresenta la tenerezza indigena. La morbidezza dei due corpi avvolti come in un bozzolo all’interno della pietra – solo i tratti dei loro volti, l’uno accoccolato accanto all’altro, sono visibili all’interno dell’apertura – dimostra l’abilità dell’artista nel maneggiare il materiale. La scultura è

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monumentale ma intima, cattolica e aymara. Il materiale di cui è composta – pur trattandosi di un tipo di granito non originario né della Bolivia né del Perù – evoca la natura tellurica della mitologia e della cosmologia andina; tuttavia, con la scelta del soggetto religioso, Núñez del Prado ha creato un posto per sé e per le sue “figlie” aymara nella storia dell’arte. —Lisa Trever

NUCLEO STORICO • RITRATTI

Marina Núñez del Prado, celebrata tra i più famosi scultori dell’America del Sud del XX secolo, nel corso della propria carriera ha creato opere in stile indigenista e astratto con diversi medium artistici. Nata a La Paz, in Bolivia, da una famiglia appassionata di musica e arti, studia pittura e scultura presso l’Academia Nacional de Bellas Artes dove lavorerà in seguito come docente di scultura e anatomia artistica. Le sculture, a volte dall’artista definite le sue “figlie”, evidenziano i profili corporei femminili, anche nel successivo orientamento verso forme astratte. Le sue opere sono state esposte in tutta l’America Latina, negli Stati Uniti, in Europa e in Giappone. Nel 1971, Núñez del Prado si trasferisce a Lima, in Perù. La sua casa nell’elegante quartiere

LA PAZ, BOLIVIA, 1910 – 1995, LIMA, PERÙ

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Marina Núñez del Prado

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Alejandro Obregón

BARCELLONA, SPAGNA, 1920 – 1991, CARTAGENA, COLOMBIA

Alejandro Obregón nasce a Barcellona da padre colombiano e trascorre l’infanzia tra l’Europa e gli Stati Uniti. Negli anni Quaranta si afferma come giovane artista promettente nella crescente scena artistica colombiana. In seguito all’assassinio del leader progressista Jorge Eliécer Gaitán nel 1948, lascia l’incarico di direttore della Escuela Nacional de Bellas Artes e si trasferisce ad Alba-la-Romaine, in Francia, dove risiede per quasi un decennio prima di tornare in Colombia. “È importante che Alejandro Obregón sia tornato in Colombia”, scrisse la critica Marta Traba nella sua rubrica sul quotidiano El Tiempo nel 1959. Cofondatrice del Museo d’Arte Moderna della Colombia e sostenitrice dell’avanguardia, Traba affermava spesso che Obregón era il primo pittore moderno del paese. Lo raggruppava con gli artisti che definiva “los nuevos” – tra cui Fernando Botero, Enrique Grau Araújo, Edgar Negret e Eduardo Ramírez Villamizar – vedendo nella loro arte un passo fondamentale nella modernizzazione delle pratiche artistiche locali.

In Máscaras (1952), un personaggio femminile mascherato regge un vassoio con del cibo e un elmo da conquistatore collegato a una maschera antigas. Questi due oggetti suggeriscono una continuità simbolica tra la colonizzazione delle Americhe e gli eventi postbellici del XX secolo, che stavano trasformando la geopolitica globale dell’epoca. Pur esplorando l’astrazione, l’opera di Obregón rimane sempre figurativa, con continui commenti sulla violenza politica in Colombia. Tra il 1955 e il 1956 riceve un premio nazionale Guggenheim e le sue opere entrano nelle collezioni dell’Organization of American States e del Museum of Modern Art di New York. All’apice del suo riconoscimento internazionale, Máscaras viene acquisito dal Museo Nacional de Colombia nel 1956 e collocato nella tromba delle scale che separava la collezione di Belle Arti da quella storica, intrecciando tra loro importanti connessioni. L’opera di Alejandro Obregón è esposta per la prima volta alla Biennale Arte. —Laura Hakel

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Máscaras, 1952 Olio su tela, 210 × 107 cm. Courtesy Museo Nacional de Colombia, Bogotá.

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Male Model Standing, 1959 Olio su tavola, 92,3 × 60,7 cm. Photo Paul Odijie. Collezione G. Hathiramani. Courtesy Estate dell’Artista.

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Okeke ha circa ventisei anni quando dipinge questo autoritratto di ispirazione postimpressionista, un anno prima della pubblicazione del manifesto Natural Synthesis e dell’indipendenza politica della Nigeria. Il colore predominante, l’indaco nigeriano, bagna le pareti alle sue spalle e si riflette sul petto, un riferimento all’antica cultura della tintura di indaco. Dalle ombre sulla parete alla sua sinistra, che

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appare più scura, Okeke ci guarda intensamente, rilassato, malinconico, bello, pronto per l’alba di una nuova Nigeria. L’opera di Uche Okeke è esposta per la prima volta alla Biennale Arte. —Nancy Dantas

NUCLEO STORICO • RITRATTI

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Uche Okeke, nato nella Nigeria settentrionale da una famiglia igbo, fonda la Zaria Art Society (1957-1961) con i compagni Demas Nwoko e Simon Okeke mentre frequenta il secondo anno del Nigerian College of Arts, Science and Technology. Privilegiando le discussioni sull’arte e la cultura indigena e la documentazione di leggende e racconti popolari, il gruppo sfida il piano di studio eurocentrico coloniale del college e il programma artistico, ponendo i propri “studi collaterali” al centro del lavoro. Come risultato delle sessioni del gruppo, nel 1958 Okeke redige il manifesto Natural Synthesis, sostenendo l’impiego consapevole e intenzionale di nuovi materiali e tecniche per la creazione di immagini. Scrivendo del Nuovo Artista, Okeke afferma che questi dovrebbe adattarsi alle idee provenienti dall’Oriente e dall’Occidente, agendo al contempo da custode della propria eredità. Coerentemente, Okeke basa la propria ricerca e la propria pratica sulla produzione culturale degli Igbo. Con l’aiuto degli anziani dei villaggi, raccoglie diverse centinaia di racconti popolari (pubblicati nel 1971) e, con i suoi studenti, studia i principi dell’Úlí, una forma di pittura murale e corporea.

NIMO, NIGERIA, 1933-2016

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Uche Okeke

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Pan Yuliang

Dalle sue umili origini di orfana venduta come prostituta, la vita errante di Pan Yuliang – artista rivoluzionaria, pedagoga e “Donna Nuova” forgiata durante il fronte di riforma culturale e sociopolitico noto come Movimento del Quattro Maggio – è stata profondamente intrecciata ai movimenti artistici moderni e alle rotture geopolitiche del XX secolo. Pan Yuliang è stata presente in mostre internazionali e celebrata per i suoi colori e ritratti esuberanti, soprattutto nudi femminili e spesso autoritratti, che hanno suscitato polemiche e ammirazione per il loro vibrante senso di individualità e indipendenza. Tra le prime studentesse ammesse allo Shanghai Fine Arts College nel 1920, vi ritorna nel 1928 come responsabile del corso di pittura occidentale, dopo aver studiato a Lione, Parigi e Roma. Le amicizie instaurate durante il suo primo soggiorno europeo annoverano prestigiosi artisti come Xu Beihong, Sanyu e Fang Junbi, altrettanto impegnati a calibrare le ricche tradizioni pittoriche della Cina con il Modernismo occidentale. Pan Yuliang torna a Parigi nel 1937 e rimane in una condizione di diaspora fino alla sua morte.

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Back of Nude (1946) esemplifica l’approccio unico di quest’artista al nudo femminile, che spesso combina la tecnica a linee sottili della tradizione pittorica cinese – a cui unisce un rigore intrinseco nell’articolazione espressiva della forma – con una libertà fauvista nel colore e nello spazio. I curiosi bagliori lungo la spina dorsale e il busto eretto della figura seduta suggeriscono una fonte luminosa che apparentemente contraddice il paesaggio aperto e leggermente smorzato della riva del fiume e delle palme. Gli esempi esistenti di figure quasi identiche con sfondi diversi suggeriscono un esperimento con il genere e le modalità di narrazione, in cui le tendenze

YANGZHOU, CINA, 1895 – 1977, PARIGI, FRANCIA

orientaleggianti – segno distintivo del Modernismo europeo – si intersecano con l’immaginazione cosmopolita di un’artista diasporica. Chen Duxiu, una delle figure culturali e politiche chiave del Movimento della Nuova Cultura, ha osservato che i dipinti di Pan Yuliang “traggono il loro spirito dalla pittura ad olio e dalle sculture europee, pur conservando la tecnica cinese della linea fine [...] uno stile che definisco nuova linea fine, una valutazione [con cui] Yuliang stessa concorda” (1937). L’opera di Pan Yuliang è esposta per la prima volta alla Biennale Arte. —Xin Wang

Back of Nude, 1946 Olio su tela, 65 × 50,2 cm. Collezione privata. © 2017 Christie’s Images Limited.

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NUCLEO STORICO • RITRATTI

Amelia Peláez – pittrice, ceramista, illustratrice e muralista cubana – rappresenta una delle figure femminili più interessanti ed eccezionali della modernità latinoamericana. Entrata all’Academia San Alejandro di Cuba, prosegue gli studi all’Art Students League di New York e successivamente a Parigi, dove si iscrive alla Grande Chaumière, all’Ecole du Louvre e all’École Nationale Supérieure des Beaux Arts, in cui studia pittura con l’amica scrittrice cubana Lydia Cabrera. Nel 1931, entra nell’atelier di Fernand Léger, dove conosce la designer, scenografa e artista costruttivista russa Alexandra Exter, che la introduce a nuove idee sul colore e sul design. Il 1933 vede una sua personale presso la famosa Galerie Zak e il Salon des Tuileries, nell’ambito del circuito che permette agli artisti latinoamericani di posizionarsi strategicamente nell’ambiente parigino basato sul linguaggio internazionalista delle avanguardie, ma a partire dalle proprie posizioni e idee. A questo periodo appartiene Mujer con abanico (1931). Tornata a Cuba nel 1934, un anno dopo espone le sue opere al Liceo femminile, un’istituzione culturale e sociale di grande importanza per la storia dell’arte cubana. Da questo momento in poi, Amelia Peláez dà vita a un’eccezionale opera che dalla cultura afrocubana prende gli elementi associati al colore, alla forma e alla natura, trasformandoli in un immaginario astrattoornamentale, personale e politico. Partecipa attivamente alle riviste Orígenes ed Espuela de plata, dirette dal poeta José Lezama Lima; queste

Mujer con abanico, 1931 Olio su tela, 69,4 × 58,5 cm. Collezione Sandy e George Garfunkel, Palm Beach, USA. Courtesy Sandy e George Garfunkel.

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YAGUAJAY, CUBA, 1896 – 1968, L’AVANA, CUBA

pubblicazioni erano proposte nazionaliste che consentivano una combinazione di immagini e aspetti scritti e visivi, nell’ambito delle possibilità di un’identità di “origine”. Infine, l’artista rappresenta Cuba alla Bienal de São Paulo nel 1951 e alla Biennale di Venezia l’anno successivo. Con l’avvento della Rivoluzione cubana, Amelia rimane all’Avana fino alla morte, avvenuta nel 1968. L’opera di Amelia Peláez è esposta per la prima volta alla Biennale Arte. —Gloria Cortes Aliaga

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Amelia Peláez

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George Pemba

PORT ELIZABETH, SUDAFRICA, 1912 – 2001, CAPO ORIENTALE, SUDAFRICA

a olio a causa del maggior valore attribuito a questo mezzo dai potenziali acquirenti, in particolare dai collezionisti bianchi. La dedizione di Pemba all’acquerello e alla pittura a olio si traduce, oltre che nell’impegno a catturare gli aspetti tradizionali e culturali della vita sudafricana, in una delle più riuscite documentazioni visive dell’epoca.

N it in f s e g a m F d c C c “ le d P m a F C r P d c S l’ p il d B a d

L’opera di George Pemba è esposta per la prima volta alla Biennale Arte. —Heba Elkayal

L’arte di George Pemba è stata spesso classificata come “Township Art”, ma il suo lavoro è essenzialmente apprezzato per la grande varietà di scene di vita e cultura sudafricane. Incoraggiato dai genitori fin da bambino a disegnare e dipingere, a sedici anni vince una borsa di studio per studiare arte. Con l’inconfondibile stile fatto di tratto semplice e pulito, forte uso del colore e rigore compositivo, le opere di Pemba presentano una varietà di ritratti di sudafricani e di momenti quotidiani – come le incursioni della polizia, i pazienti negli ambulatori medici e i contadini al lavoro nei campi. Celebrato

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soprattutto per la maestria nell’acquerello, le sue opere migliori sono ritenute quelle dipinte tra il 1933 e il 1947. Young Woman (1947) è un dipinto a olio che ritrae una ragazza alla soglia della pubertà. La figura – in abito tradizionale, ornata di gioielli e con un copricapo di tessuto – rivolge all’osservatore uno sguardo timido. Oltre a padroneggiare l’acquerello, Pemba utilizza i colori a olio per evidenziare la vivacità dei colori e dei paesaggi del Sudafrica. Benché sconsigliato dai colleghi, Pemba abbandona gli acquerelli a favore della pittura

Young Woman, 1947 Olio su tela, 59 × 44 cm. Photo Amber Alcock. Courtesy Norval Foundation.

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Nato in Argentina da genitori italiani, Emilio Pettoruti intraprende un viaggio di formazione in Europa, dove soggiorna dal 1913 al 1924 e partecipa direttamente a gruppi d’avanguardia, pur non aderendo ai dettami di alcun movimento. Conoscitore del Futurismo e del Cubismo, dimostra interesse anche nei confronti dell’arte classica. Come egli stesso affermò, cercava un’arte che fosse “moderna, sì, ma coerente con le virtù dell’arte che ammiravo di più: quella del Quattrocento”. Pur studiando gli antichi maestri italiani, si confronta anche con Umberto Boccioni, Filippo Tommaso Marinetti e Carlo Carrà, tra gli altri. Al suo ritorno in Argentina, nel 1924, Pettoruti organizza una mostra dei suoi dipinti che lo consacra come pioniere dell’avanguardia. Si impegna per consolidare l’arte moderna attraverso il proprio lavoro, anche durante il suo incarico come direttore del Museo Provincial de Bellas Artes de La Plata, dove aspira ad ampliare il pubblico dell’arte d’avanguardia.

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La del Abanico Verde o El abanico verde (1919) mostra la visione unica di Pettoruti dell’arte moderna. Il corpo della donna è sintetizzato in forme geometriche. Tiene in mano un ventaglio, le cui curve in movimento trovano risonanza visiva nelle linee che circondano la testa della donna, enfatizzando la percezione dinamica del movimento, un interesse essenziale che condivideva con i futuristi italiani. Le pieghe del volume del ventaglio inoltre permettono all’artista di dimostrare la sua padronanza dei piani frammentati e consecutivi tipici del Cubismo, dalla cui sobrietà cromatica sfugge tuttavia l’abito rosa della donna – che invece ricorda le tonalità delle tuniche degli angeli dipinte da Beato Angelico, un artista che Pettoruti studia. Questo quadro fu esposto per la prima volta a Milano nel 1919, dove Pettoruti viveva all’epoca.

LA PLATA, ARGENTINA, 1892 – 1971, PARIGI, FRANCIA

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Emilio Pettoruti

La del Abanico Verde, 1919 Olio su tela, 96 × 50 cm. Collezione Eduardo F. Costantini.

—Florencia Malbran

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Candido Portinari

SAN PAOLO, BRASILE, 1903 – 1962, RIO DE JANEIRO, BRASILE

Candido Portinari, secondo di dodici figli, nasce a Brodowski, cittadina nella campagna intorno a San Paolo, in una famiglia di immigrati originari del Veneto. Talento naturale e artista autodidatta, inizia a disegnare all’età di sei anni. A quattordici, su invito di un gruppo di pittori e scultori italiani, partecipa al restauro della chiesa locale. Nel 1928, a venticinque anni, mostrando nuovamente la sua precocità, vince un premio per un viaggio studio in Europa e attraversa Italia, Inghilterra, Spagna e Francia, stabilendosi infine a Parigi. Nel 1931 fa ritorno in Brasile, dove diviene uno dei più importanti artisti nazionali del XX secolo. Nel 1939, il MoMa acquisisce il suo dipinto Morro (1933). Nel 1940, il museo statunitense ospita una sua personale, Portinari of Brazil, con circa 180 opere. Artista politicizzato, attento ai problemi sociali del Brasile, aderisce al Partito Comunista Brasiliano nel 1945.

Cabeça de Mulato (1934) è un’opera significativa nel contesto dei ritratti di Portinari, uno dei suoi linguaggi più rappresentativi. L’artista dimostra la sua straordinaria abilità di disegnatore, come si nota dall’uso del chiaroscuro e soprattutto dai tratti delicati e precisi che delineano gli occhi, il naso, la bocca e il mento. Nel corso della sua vita, Portinari dipinge oltre settecento ritratti. Gli interessa in particolare ritrarre tipologie di brasiliani “popolari”, tra cui contadini mulatti e di colore e umili

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migranti. Nel Brasile dell’epoca il termine “mulatto” designa una persona di origine multietnica — nata da genitori di etnie diverse, solitamente di ascendenza africana ed europea. Tuttavia da allora la parola ha acquisito connotazioni dispregiative e discriminatorie nel Paese e oggi se ne ripudia l’uso. Qui il personaggio guarda in faccia l’osservatore, enfatizzando così il potere, la dignità e la nobiltà che Portinari imprime ai propri ritratti di “gente comune”. —Fernando Olivia

Cabeça de Mulato, 1934 Olio su tela, 73.5 × 60 cm. Photo Jaime Acioli. Collezione Igor Queiroz Barroso, Fortaleza. Courtesy Collezione Igor Queiroz Barroso.

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Waiting, s.d. Olio su tela, 91,44 × 66,04 cm. Photo Sebastian Bach. Courtesy Aicon, New York.

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In tutti i quadri di Prabha ricorrono le figure femminili. Il tono è intimo, le scene sono spesso ambientate in un contesto di quotidianità rurale. Fra queste, Waiting (s.d.) offre una resa sorprendente per il suo uso ardito del verde. La sfumatura intensa color smeraldo, lavorata nella pittura a olio, amalgama lo sfondo, la flora e il panno che cinge i fianchi del soggetto femminile. Ne deriva una sensazione di sospensione del tempo. In una posa leggermente di tre quarti, la figura volge chiaramente la schiena al fruitore, mostrando

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un corpo snello, allungato e seminudo. Con lo sguardo fisso verso un punto lontano, il profilo sinistro del viso rivela tratti raffinati, ma anche un’espressione triste, quella della donna in attesa. La natura ipnotica del dipinto è data dalla tensione fra l’audace uso del colore e la modestia e dignità della figura solitaria. L’opera di B. Prabha è esposta per la prima volta alla Biennale Arte. —Devika Singh NUCLEO STORICO • RITRATTI

B. Prabha nasce in un villaggio vicino a Nagpur, nello stato del Maharashtra, e inizia a studiare alla Nagpur School of Art per trasferirsi poi alla Sir J.J. School of Art di Bombay (oggi Mumbai), città in cui si stabilirà con il marito, l’artista B. Vithal. L’importanza della sua arte viene riconosciuta da subito: alcune opere della prima mostra di Prabha, infatti, vengono acquisite dal fisico nucleare e mecenate dell’arte Homi J. Bhabha per la collezione del Tata Institute of Fundamental Research (TIFR). Tuttavia, nel corso di tutta la sua carriera, Prabha deve anche gestire le costrizioni sociali e le difficoltà che una donna incontra nel mondo dell’arte dell’India post-indipendenza: è un periodo in cui i circuiti artistici in India ruotano ancora prevalentemente intorno agli uomini. La sua opera si concentra fin da subito sulla figura umana, suggerendo un paragone con l’arte di Amrita Sher-Gil.

MAHARASHTRA, INDIA, 1933 – 2001, NAGPUR, INDIA

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B. Prabha

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Alfredo Ramos Martínez

Alfredo Ramos Martínez, spesso descritto come “padre dell’arte messicana moderna”, è stato un prolifico pittore, muralista e insegnante, una figura chiave nella riconfigurazione delle scuole d’arte e del Modernismo messicano durante la Rivoluzione (1910-1920). Nato nel 1871 a Monterrey, Ramos Martínez si trasferisce prima a Città del Messico e poi, nel 1897, prosegue gli studi artistici a Parigi, dove conosce i postimpressionisti e artisti e poeti come il poeta nicaraguense Rubén Darío. Tornato in Messico nel 1913, diventa direttore dell’Accademia Nazionale, dove fonda le scuole all’aperto. Molti studenti di questo programma educativo diventeranno famosi pittori muralisti, come David Alfaro Siqueiros. Nel 1930, si trasferisce con la famiglia negli Stati Uniti alla ricerca di cure mediche speciali per la figlia, stabilendosi poi a Los Angeles, dove sviluppa un corpus di opere con numerosi murales riguardanti le proprie radici messicane.

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MONTERREY, MESSICO, 1871 – 1946, LOS ANGELES, USA

A d è s in g R in in p A r s G N p A q m a u p e b c p

Mancacoyota (1930) trasmette l’idea di un’orgogliosa donna indigena, pervasa da una dignità derivante dalle sue radici native. Con sguardo indagatore, la donna ci osserva – esitante, serena e sospettosa allo stesso tempo – con un imponente muro di cactus come sfondo. Questo ritratto fonde la ritrovata ammirazione per le tradizioni native con l’idea di una nuova identità nazionale. Una forma di nazionalismo, rappresentata dalla scuola pittorica impressionista

messicana, è chiaramente rintracciabile nei fiori rossi sullo sfondo e nei tratti delicati del viso. Dipinta probabilmente dopo essersi stabilito a Los Angeles, Mancacoyota mostra una donna indigena forte, modello di femminilità indigena come soggetto degno di rappresentazione artistica. L’opera di Alfredo Ramos Martínez è esposta per la prima volta alla Biennale Arte. —Eva Posas

Mancacoyota, 1930 Olio su cartoncino, 38,4 × 38,3 cm. Photo Francisco Kochen. Collezione Andrés Blaisten. Courtesy Collezione Andrés Blaisten.

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A Macuto, Reverón inizia a desaturare la propria tavolozza, creando dipinti tattili e quasi monocromatici. Essi fondono il postimpressionismo con uno stile estremamente gestuale in cui i pigmenti, applicati quasi direttamente sulla tela, producono superfici asciutte in cui le pennellate sembrano galleggiare nella composizione. Retrato de Alfredo Boulton (1934) raffigura l’intellettuale, amico e mecenate – un’importante voce della generazione impegnata nelle discussioni sulla modernizzazione del Venezuela e spesso ospite di Reverón a Macuto. Boulton è inoltre l’organizzatore della retrospettiva tenutasi nel 1995 presso il Museo de Bellas Artes di Caracas, in occasione dell’anniversario della morte di Reverón. Ricordando le sue visite a Macuto, Boulton scrive nel catalogo della mostra: “lo vidi uscire dal suo ranch e rimasi accecato dal bagliore del paesaggio”.

NUCLEO STORICO • RITRATTI

Armando Reverón, figlio unico di una coppia benestante, è stato cresciuto da una seconda famiglia a Valencia, in Venezuela. Isolato fin da giovane per problemi di salute, Reverón scopre un precoce interesse per l’arte e viene incoraggiato a studiare pittura presso l’Academia de Bellas Artes di Caracas. Nel 1911 si reca in Spagna e a Parigi, dove subisce l’influenza di Velázquez, Goya e degli impressionisti. Nel 1915 torna a Caracas, dove partecipa al Círculo de Bellas Artes fino ai primi anni Venti, quando si trasferisce con la moglie Juanita Mota in un appartato castillete a Macuto, una città costiera. In questo periodo crea paesaggi e ritratti e inizia a realizzare con la tela bambole a grandezza naturale, che utilizza come modelli e per popolare la propria abitazione.

CARACAS, VENEZUELA 1889-1954

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Armando Reverón

Retrato de Alfredo Boulton, 1934 Olio e gouache su carta aderente a una tavola, 120 × 85 cm. Photo John Berens. Courtesy Collezione Clarissa ed Edgar Bronfman Jr.

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—Laura Hakel

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Emma Reyes

Famosa per le sue magnetiche qualità di narratrice, la vita di Emma Reyes è materia di leggenda. Pur provenendo da un’indigente famiglia colombiana, riesce a viaggiare per tutto il Sud America, a ottenere una borsa di studio per vivere a Parigi, a lavorare a Washington D.C. per l’UNESCO, a collaborare con Frida Kahlo e Diego Rivera in Messico, a vivere a Roma, Gerusalemme e Tel Aviv prima di stabilirsi definitivamente in Francia nel 1960. Il toccante resoconto dei suoi primi anni di vita è contenuto nell’epistolario autobiografico The Book of Emma Reyes (2012), pubblicato postumo, che racconta i pericoli e la povertà della sua infanzia. Chiamata affettuosamente “Mama Grande” dagli artisti latinoamericani che vivevano a Parigi, Reyes è stata un punto di riferimento per molte delle figure culturali più influenti del XX secolo. In un’opera che abbraccia quasi sei decenni, l’artista torna continuamente alla figura umana e, pur sperimentando diversi stili, il ritratto rimane un tema costante.

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Il dipinto in mostra è stato realizzato durante la sua permanenza a Roma dal 1954 al 1960, periodo in cui frequenta importanti intellettuali, da scrittori quali Elsa Morante e Alberto Moravia al regista Pier Paolo Pasolini, fino a Enrico Prampolini, suo amante e artista postcubista con cui collabora. Le tele di Reyes combinano un lessico visivo radicato nella propria storia personale a un approccio alla pittura profondamente sperimentale, informato dall’Indigenismo e dal Primitivismo – tendenze che è stata incoraggiata a

BOGOTÁ, COLOMBIA, 1919 – 2003, BORDEAUX, FRANCIA

sperimentare nel corso della sua formazione a Parigi negli anni Quaranta. L’opera presenta l’immagine inquietante di una donna in uno stile figurativo che gioca con l’astrazione, la stratificazione e la forma. La tecnica anticipa un tratto distintivo del suo lavoro successivo: superfici dipinte che riproducono le qualità di fili, filati e tessuti. L’opera di Emma Reyes è esposta per la prima volta alla Biennale Arte. —Sofia Gotti

Untitled, 1955 Olio e colori a olio solidi su tela, 75 × 93 cm. Collezione Riccardo Boni, Roma.

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Retrato de Ramón Gómez de la Serna, 1915 Olio su tela, 110 × 90 cm. Photo Gustavo Sosa Pinilla. Collezione Malba. Courtesy Museo de Arte Latinoamericano di Buenos Aires.

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In Retrato de Ramón Gómez de la Serna (1915), Rivera rivela immediatamente il mestiere del soggetto: il famoso scrittore impugna infatti una penna. Il volto è mostrato sia frontalmente sia di profilo, rompendo la prospettiva fissa. Da Madrid, Rivera continua a sperimentare il Cubismo, che aveva intrapreso a Parigi prima della guerra. Frequenta la tertulia del Café Pombo, un focolaio di nuove idee fondato da Gómez de la Serna. In questo dipinto è raffigurato El rastro, un libro che l’autore dedicò al famoso mercato delle pulci di Madrid, pieno di oggetti che egli portava nello studio di Rivera, come la bambola e la spada presenti nella scena.

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L’artista ritrae Gómez de la Serna come un “anarchico che incita al crimine” – ecco il motivo della donna decapitata dalla spada – perché era “famoso per la sua opposizione a tutti i principi convenzionali”. Se l’arma in primo piano si riferisce all’accumulo di oggetti dello scrittore, potrebbe anche essere simbolo della cultura come arma o strumento per diffondere idee rivoluzionarie. —Florencia Malbran

NUCLEO STORICO • RITRATTI

Diego Rivera, protagonista del rinnovamento culturale favorito dalla Rivoluzione messicana, è stato un ponte tra arte e politica, diventando uno degli artisti più influenti del primo Novecento. Formatosi in Messico, nel 1907 si reca in Europa, dove prosegue la carriera di artista. Tornato in patria nel 1922, contribuisce alla riscoperta del passato preispanico e popolare, promuovendo la creazione di un’identità nazionale in grado di trascendere la colonizzazione europea. Per questo compito, fondamentali furono i murales, che presentavano la storia riscritta del Paese sulle pareti degli edifici pubblici. L’artista si schiera con la “rivoluzione sociale”, affermando che i murales devono essere “una chiara propaganda ideologica per il popolo”. Ottiene un ampio riconoscimento, arrivando a dipingere anche il Palazzo Nazionale. Rivera era sposato con Frida Kahlo ed era noto per la sua personalità imponente e la sua politica radicale.

GUANAJUATO, MESSICO, 1886 – 1957, CITTÀ DEL MESSICO

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Diego Rivera

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Laura Rodig

Laura Rodig è stata docente, insegnante rurale, sostenitrice della causa mapuche, attivista femminista antifranchista e parte attiva nel cambiamento sociale del proprio tempo. Nell’ambito dell’iniziativa di modernizzazione del sistema educativo, realizza importanti progetti educativi insegnando il disegno, organizzando mostre d’arte per bambini e formando operatori museali. Partecipa attivamente al Movimiento Pro-Emancipación de las Mujeres de Chile (MEMCH), un organismo femminista di vitale importanza per il suffragio femminile. In Europa, riveste ruoli significativi in eventi culturali importanti per la costruzione dell’arte moderna, come la sua prima esposizione a Madrid – dove il Museo de Arte Moderno acquisisce la

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sua scultura Mexican Indian (1924) – il Salon d’Automne del 1929 e la Première Exposition du Groupe Latino-Américain de Paris, tenutasi alla Galerie Zak nel 1930. Nello stesso anno espone alla Maison des Nations Américaines e dona parte delle sue opere al Musée du Trocadéro. Catalizzatrice di reti queer, Rodig interagisce con le più importanti intellettuali del suo tempo, come Gabriela Mistral, conosciuta nel 1916 e con la quale mantiene anche una relazione sessualeaffettiva, oltre che uno scambio professionale. Viaggiano insieme per il Cile insegnando e, nel 1922, Rodig accompagna Mistral in Messico per lavorare al progetto educativo di José Vasconcelos. Questa esperienza le pone

LOS ANDES, CILE, 1896/1901 – 1972, SANTIAGO, CILE

entrambe in uno scenario di relazioni intellettuali ricche e diversificate, ma diventa altresì un fattore scatenante della loro rottura. Pur ritrovandosi insieme in varie occasioni di viaggio, la distanza tra Mistral e Rodig si amplia ulteriormente nel corso degli anni. Il ritratto qui presentato risale a questo primo periodo e riflette le numerose circostanze in cui Rodig raffigura la poetessa. La relazione tra le due donne è documentata anche in numerose lettere, scritti, poesie e quaderni, che costituiscono un vero e proprio archivio emotivo. L’opera di Laura Rodig è esposta per la prima volta alla Biennale Arte. —Gloria Cortés Aliaga

Retrato de Gabriela Mistral, 1914-1916 Olio su tela, 49 × 59,5 cm. Photo Francisco Urzua. Collezione Gabriela Mistral Museum.

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Tehuana, 1940 Olio su tela, 61,5 × 51 cm. Collezione Eduardo F. Costantini.

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513 NUCLEO STORICO • RITRATTI

Rosa Rolanda è stata un’artista multidisciplinare la cui pratica poliedrica ha incluso coreografia, fotografia e pittura. Nel 1916 lascia la nativa California per esibirsi come ballerina per Marion Morgan a New York, danzando a Broadway e partecipando ai tour europei. Nel corso dei suoi viaggi esplora la fotografia e, dopo essersi formata con Man Ray, inizia la propria sperimentazione con i fotogrammi: una tecnica resa popolare dai fotografi surrealisti che prevede l’utilizzo di carta fotografica, oggetti e luce per creare delle stampe. Con i fotogrammi Rolanda crea un linguaggio iconografico unico nel suo genere, inquadrando rappresentazioni intime del proprio corpo con oggetti e simboli ricorrenti, per lei importanti dal punto di vista personale e politico. Nel 1930, dopo il matrimonio con l’artista Miguel Covarrubias, si stabilisce in Messico dove inizia a dipingere ed entra a pieno titolo nell’ambiente artistico di Città del Messico. I suoi dipinti, sovente autoritratti o raffigurazioni di donne indigene e delle zone rurali, sono influenzati nella forma e nella politica dal Surrealismo e dal Modernismo messicano e impiegano un linguaggio iconografico simile a quello dei suoi fotogrammi.

AZUSA, USA, 1896 – 1970, CITTÀ DEL MESSICO, MESSICO

Anche se Rolanda si definisce un’artista neofigurativa, non si può negare che Tehuana (1940) sia un’opera influenzata dal progetto politico del Muralismo messicano – che includeva frequenti ritratti idealizzati di bambini indigeni, a incarnare un’identità messicana “pura” – e dal suo stile moderno nella rappresentazione. L’artista ritrae una ragazzina con grandi occhi a mandorla, pelle molto scura e tratti fisionomici tondeggianti. Il soggetto, una giovane donna proveniente dall’istmo di Tehuantepec, indossa un huipil, la tunica tradizionale delle indigene zapotec. Alcuni considerano gli Zapotec una società matriarcale e Rolanda, come l’amica Frida Kahlo,

indossa l’huipil come simbolo di resistenza femminista nella società messicana patriarcale del XX secolo. Un colibrì, figura importante nei miti cosmogonici maya, è appeso come un ciondolo al collo della ragazza. Questo uso di un’iconografia antecedente all’arrivo dei colonizzatori è caratteristico del Modernismo messicano, in cui molti artisti guardano all’indigenità per forgiare un’identità messicana rivoluzionaria e culturalmente decolonizzata. L’opera di Rosa Rolanda è esposta per la prima volta alla Biennale Arte. —Diego Chocano STRANIERI OVUNQUE

Rosa Rolanda

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Jamini Roy

BENGALA, INDIA, 1887 – 1972, CALCUTTA, INDIA

Jamini Roy, spesso descritto come primitivista-modernista, è riconosciuto come un pioniere artistico nell’India del XX secolo. Le sue opere sono state ampiamente esposte sin dagli anni Quaranta, anche a Londra e New York. Sebbene i suoi primi quadri di paesaggi e ritratti si conformino a un realismo accademico europeo e all’Impressionismo, negli anni Trenta le sue opere subiscono una drastica trasformazione, perché inizia a guardare all’India indigena come ispirazione per soggetti, materiali e tecniche. Figure iconiche tratte dall’epica indiana, fiabe popolari e mitologie vengono rese in colori bidimensionali con contorni netti, in uno stile reminiscente del pattachitra, la tradizionale pittura su rotolo del Bengala. Sviluppa inoltre un vocabolario visivo attingendo ai dipinti Kalighat che ritraggono scene di vita quotidiana come commento sociale all’ipocrisia della vita urbana borghese. Roy critica l’idea di autorialità del singolo artista, allestendo un atelier-laboratorio in cui gli studenti e i suoi familiari lavorano insieme come una corporazione di artigiani.

identificato in Krishna, amata divinità indù, riconoscibile dal corpo scuro e dalle vesti gialle. Il pappagallo che Krishna stringe al petto compare spesso nei dipinti popolari bengalesi. Nell’atelier sono state dipinte più versioni di una figura simile, che potrebbe essere riferita a un indigeno santal o a Kama, divinità dell’erotismo e dell’amore solitamente in compagnia di un pappagallo. Gli spessi contorni neri, i colori bidimensionali e la popolare resa frontale e ieratica del corpo, che riempie il piano dell’immagine, sono tipici dello stile di Roy. Il “dio blu”, come viene anche chiamato Krishna, è una delle figure religiose spesso presenti nell’opera di Jamini Roy, che esplora anche soggetti cristiani. —Latika Gupta

Il soggetto di questo quadro senza titolo potrebbe essere

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Untitled - Krishna with Parrot, s.d. Tempera su tela, 96,5 × 51 cm. Collezione Sanjay Yaday, Londra.

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R c a m r in e d c l’ n a B u d e m t s d c t m v p e in r il la s r in li e


a

Rómulo Rozo è uno scultore colombiano associato all’Indigenismo, un movimento che sosteneva la rappresentazione di soggetti indigeni in uno stile che fondeva elementi dell’ Espressionismo, del Cubismo e dell’Astrazione, con l’intenzione di riformulare l’identità e la cultura indigene nel moderno. Rozo studia alla Escuela Nacional de Bellas Artes di Bogotá, in un ambiente conservatore dominato dall’accademismo e dall’influenza degli antichi maestri spagnoli. Nel 1923 si trasferisce in Europa, dove si confronta con le idee d’avanguardia, allontanandosi così dalla propria formazione tradizionale. A Parigi, l’artista matura il proprio lessico visivo a cavallo tra patrimonio personale e Modernismo europeo. Nel 1931 si trasferisce in Messico, dove trascorrerà il resto della sua vita. Sebbene il lavoro di molti indigenisti latinoamericani come Rozo sia stato criticato per la romanticizzazione delle culture indigene, la sua ricerca di un linguaggio visivo autoctono ha esercitato grande influenza.

Bachué, diosa generatriz de los chibchas (1925) rappresenta il mito della creazione del popolo muisca della Colombia centrale. La scultura è divisa in due parti distinte: dal busto in su, Bachué – una divinità madre – indossa una corona composta da nove gusci di lumaca, uno per ogni mese di gravidanza; sopra di lei, un ragazzo è annidato all’interno di una forma conica. Nel mito, Bachué e il ragazzo creano l’umanità da una laguna prima che lei si trasformi in un serpente d’acqua, rappresentato da una spirale discendente nella metà inferiore della scultura. L’opera, moderna nella forma e nell’espressione del movimento, è debitrice dei linguaggi estetici di molte culture indigene della Colombia. Nel 1930, dopo aver visto su un giornale una fotografia di questa scultura, una generazione di giovani artisti decide di rompere con la formazione accademica e di orientarsi verso nuove forme di creazione, ispirate al Modernismo e all’indigenità. Questi artisti, considerati il primo movimento di arte moderna in Colombia, si autodefinirono Bachués.

BOGOTÁ, COLOMBIA, 1899 – 1964, MÉRIDA, MESSICO

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Rómulo Rozo

Bachué, Diosa Generatriz de los Chibchas, 1925 Granito, 177 × 44 × 40 cm. Courtesy Proyecto Bachué, Colombia.

L’opera di Rómulo Rozo è esposta per la prima volta alla Biennale Arte. —Diego Chocano

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José Sabogal

Figura tra le più influenti della cultura peruviana del XX secolo, José Sabogal è stato pittore, disegnatore e incisore, ha realizzato anche progetti architettonici. Fin da giovane rivela un intenso desiderio di viaggiare e dipingere il mondo; a vent’anni visita diversi Paesi europei. Dal 1912 al 1918 vive in Argentina, dove frequenta la Escuela Nacional de Bellas Artes di Buenos Aires prima di trasferirsi a Jujuy, una delle province andine settentrionali del Paese. Nel 1922 si reca Messico, dove incontra le figure principali del nascente movimento muralista. È tuttavia il periodo tra 1918 e 1919, trascorso a Cusco e nelle Ande peruviane meridionali, a influenzare in maniera decisiva la sua arte: è determinante per la sua adesione all’indigenismo, il movimento sociale, politico e culturale degli anni Venti e Trenta che avrebbe ridefinito l’identità nazionale peruviana. Quale fondatore dell’indigenismo pittorico, Sabogal dà voce alle idee del proprio tempo e contribuisce ad ampliare la visione che la nazione aveva di se stessa, compresa la sua varietà culturale.

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José Sabogal ha un ruolo cruciale nella costruzione dell’immaginario collettivo del Perù. Dopo avere insegnato alla Escuela Nacional de Bellas Artes dal 1920 al 1932, ne assume la direzione fino al 1943. Le sue stampe sono state utilizzate per quasi tutte le copertine di Amauta, una rivista pubblicata dal 1926 al 1929 e incentrata sulla dimensione sociale, culturale e politica dell’indigenismo. È negli anni Venti che la sua visione artistica si consolida con l’introduzione nella sua pittura di paesaggi

CAJABAMBA, PERÙ, 1888 – 1956, LIMA, PERÙ

andini e figure indigene. El Recluta (1926) denuncia lo sfruttamento della manodopera indigena nei progetti di costruzione militare. La figura di quest’opera, come altri soggetti dei dipinti di Sabogal, è solenne; i tratti marcati e lo sguardo risoluto sono resi con colori vivaci. L’opera di José Sabogal è esposta per la prima volta alla Biennale Arte. —Sonia Becce

El Recluta, 1926 Olio su tela, 60 × 60 cm. Courtesy Centro Cultural UNI.

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Untitled (Lady with Diya), anni Cinquanta-Sessanta Olio su tela, 91,4 × 60,9 cm. Photo Humayun Memon. Courtesy Taimur Hassan Collection.

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Untitled (Lady with Diya), anni Cinquanta-Sessanta, è caratteristico dello stile dalle forme sintetiche sviluppato da Sadequain all’inizio della propria carriera. Reso in tonalità scure e smorzate, con linee finemente tratteggiate, un nudo femminile dal viso oblungo e dal corpo longilineo occupa il centro della composizione. Con la mano destra regge una diya, una lampada a olio tradizionale del sud dell’Asia. L’audacia del soggetto, che ha una connotazione apertamente sessuale, è sottolineata dalla posa eretta e assertiva. Ma

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l’opera si apre anche ad altre letture: da una finestra sulla destra, infatti, appare una mezzaluna. A livello simbolico, la figura nuda che regge una diya evoca i rituali indù, mentre la mezzaluna può essere interpretata come riferimento all’islam. Questo sincretismo e la resa sessualizzata dell’opera testimoniano l’ardire che ha accompagnato tutta la vita creativa di questo artista. L’opera di Syed Sadequain è esposta per la prima volta alla Biennale Arte. —Devika Singh

NUCLEO STORICO • RITRATTI

La vita e la carriera di Syed Sadequain percorrono la nascita e la storia del Pakistan. Sadequain nasce nel 1930 nell’India britannica, in una famiglia di calligrafi, e si trasferisce ancora giovane a Delhi, dove lavora per All India Radio prima di iniziare gli studi all’Università di Agra. Dopo la separazione dall’India e l’indipendenza, conquistata nel 1947, l’artista diventa membro del Progressive Artists’ and Writers’ Movement in Pakistan. Punto di svolta per la sua carriera è la mostra del 1955 presso la residenza di quello che diventerà il primo ministro, Huseyn Shaheed Suhrawardy. Sadequain parte per Parigi nel 1960, dove riceve uno dei premi della Biennale di Parigi (1961) e nel 1966 viene incaricato di illustrare L’Étranger di Albert Camus, pubblicato nel 1942. Al suo ritorno in Pakistan, nel 1967, la sua prolifica carriera lo porta anche a creare straordinari murali su larga scala alla diga di Mangla, al Museo di Lahore e alla Frere Hall di Karachi, oltre a opere che contribuiscono allo sviluppo transnazionale dell’astrazione calligrafica.

AMROHA, INDIA, 1930 – 1987, KARACHI, PAKISTAN

STRANIERI OVUNQUE

Syed Sadequain

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Mahmoud Saïd

Nel 1947, Mahmoud Saïd lascia la carica di giudice presso i tribunali misti di Alessandria per dedicarsi all’arte. Appartenente a un’importante famiglia egiziana, si laurea alla Scuola di legge francese del Cairo nel 1919, ma in precedenza aveva fatto pratica negli studi di pittori italiani che si erano stabiliti nella sua città, quali Amelia Daforno Casonato e Arturo Zanieri. In seguito, tra le estati del 1919 e del 1921, frequenta corsi d’arte a Parigi presso l’Académie de la Grande Chaumière e l’Académie Julian. Visitando i centri culturali d’Europa, Saïd manifesta una profonda attrazione per l’arte del Rinascimento veneziano e per le opere dei Primitivi fiamminghi. L’artista troverà

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ispirazione anche nelle arti dell’Antico Egitto e nelle tradizioni egiziane locali, che diventeranno il cuore dei suoi dipinti. La sua opera illustra la società egiziana moderna cogliendone la ricchezza culturale e storica. Nel corso della propria carriera, Saïd produce una notevole serie di ritratti femminili, come Haguer (1923). L’opera viene esposta per la prima volta nel 1924, parte di una mostra collettiva di artisti egiziani moderni tenutasi al Cairo. Qui, Saïd raffigura una donna seduta sul pavimento, la schiena appoggiata a un muro, mentre fissa l’osservatore. Contrariamente alle donne dell’occidentalizzata élite locale, il soggetto non porta

ALESSANDRIA, EGITTO, 1897-1964

gioielli e indossa un semplice abito scuro e un copricapo azzurro. Con questo, assieme alla posa umile e alle mani giunte, il pittore alessandrino rivela che la modella appartiene alla classe operaia. Le conferisce tuttavia un aspetto sacro riflettendo una luce dorata proveniente dall’esterno sulla sua carnagione ambrata. Saïd ama celebrare la vita e i costumi della gente comune che personifica l’essenza dell’identità egiziana.

N d r u il p in r d s d è 1 n a d N s p m a la m c s in lo – il C d in ic P p s s d R p S d g e

—Arthur Debsi

Haguer, 1923 Olio su tela, 81,2 × 64,7 cm. Photo Hamad Yousef. Courtesy Mathaf: Arab Museum of Modern Art, Doha, Qatar.

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NUCLEO STORICO • RITRATTI

sicure e colori e contrasti decisi. Datato “14.10.47” sul retro, a quanto pare il dipinto viene completato giorni prima dell’arrivo a Londra, mentre Sekoto è diretto a Parigi dopo un viaggio di due settimane da Città del Capo. Sull’orlo dell’esilio, dopo aver raccontato con sensibilità la normale vita di coloro che rifiutava di considerare vittime, Sekoto rivolge lo sguardo, in questo primo autoritratto noto, verso l’artista che osserva. Solitamente i suoi soggetti sono impegnati in attività, sempre in movimento; qui invece il protagonista guarda nel buio, mentre il corpo è rivolto alla luce, evocando così il futuro luminoso verso cui avanzano i lavoratori, reimmaginati con grande efficacia nel suo celebre e contemporaneo dipinto Song of the Pick: “guardo al futuro del nostro paese con molta ansia, ma del tutto determinato a vivere questa vita come fanno tutti”. L’opera di Gerard Sekoto è esposta per la prima volta alla Biennale Arte. —Ruth Ramsden-Karelse

Self-Portrait, 1947 Olio su tela su tavola, 45,7 × 35,6 cm. Photo Kristian Tobin Photography. The Kilbourn Collection.

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STRANIERI OVUNQUE

Negli anni Trenta e Quaranta, i dipinti di Gerard Sekoto – che ritraggono le classi lavoratrici urbane del Sudafrica – rifiutano il desiderio di esotismo del pubblico bianco e propongono invece una modalità di realismo sociale caratterizzata da empatia e assenza di sentimentalismo. A differenza di molti contemporanei, Sekoto è apprezzato già in vita; dal 1939 espone regolarmente e nel 1940 è il primo artista nero ad avere un’opera acquistata dalla Johannesburg Art Gallery. Nel 1947, spinto dalla crescente segregazione sociale, Sekoto parte per Parigi; nel 1966, mentre stava trascorrendo un anno in Senegal, gli viene tolta la cittadinanza e non rientrerà mai più in Sudafrica. Negli anni che precedono l’esilio, cattura lo spirito dei celebri centri culturali in cui aveva vissuto prima della loro distruzione sotto l’apartheid – Sophiatown di Johannesburg, il District Six di Città del Capo, così come Eastwood di Pretoria – in alcuni dipinti inclusi in seguito nella potente iconografia anti-apartheid. A Parigi le sue opere rimangono prevalentemente incentrate sulla vita sudafricana, anche se ormai permeate dalla distanza fisica. Realizzato durante il fecondo periodo Eastwood (1945-1947), Self-Portrait è un esempio della tecnica a olio sviluppata già dalla fine degli anni Trenta, espressa con pennellate

BOTSHABELO, SUDAFRICA, 1913 – 1993 NOGENT-SUR-MARNE, FRANCIA

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Gerard Sekoto

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Lorna Selim

Lorna Selim, Hales da nubile, nata e cresciuta nel Regno Unito, nel 1945 si iscrive alla Slade School of Fine Art di Londra dove studia arte e design e dove incontra l’artista iracheno Jewad Selim. Completati gli studi, i due si trasferiscono a Baghdad e nel 1950 si sposano. Docente al College femminile, insegna inoltre pittura di paesaggio alla facoltà di ingegneria dell’università locale, Jāmi‘at Baghdād. Soggetto centrale della sua opera diventa il popolo iracheno, di cui ritrae la vita quotidiana. In uno stile astratto-figurativo, adatta le tradizioni artistiche irachene a un linguaggio visivo moderno, impiegando pochi colori e mettendo in risalto linee e forme. Tornata in Inghilterra

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nel 1971, Selim realizza opere ispirate principalmente all’architettura di Baghdad, permeandole di nostalgia. A Baghdad nel 1950, sente il fascino della campagna irachena e della sua gente. In Unknown (1958), l’artista raffigura un trio che forse rappresenta una madre con il figlio sulla spalla e accanto la figlia. Utilizzando una prospettiva bidimensionale, Selim sceglie uno stile che riduce le parti principali del corpo a elementi quasi astratti. L’espressione ieratica degli occhi a mandorla dei protagonisti è un chiaro riferimento stilistico all’arte della scultura del periodo sumero del III secolo AEV. L’artista utilizza inoltre una

SHEFFIELD, REGNO UNITO, 1928 – 2021, ABERGAVENNY, REGNO UNITO

tavolozza limitata di colori – tra cui ocra, marrone e beige – i cui toni ricordano i colori terrosi dei manufatti mesopotamici. L’immagine della famiglia contadina simboleggia le tradizioni su cui è fondata la moderna nazione irachena e che vengono tramandate di generazione in generazione. L’opera di Lorna Selim è esposta per la prima volta alla Biennale Arte. —Arthur Debsi

Unknown, 1958 Olio su tela, 83 × 70,5 cm. Photo Hamad Yousef. Courtesy Mathaf: Arab Museum of Modern Art, Doha, Qatar.

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le fasi della luna, da crescente a piena, e alludono alle tradizioni associate alla dea lunare sumera Nanna, un’importante divinità legata alla fertilità. Nell’Islam, la luna rappresenta la ricerca della via spirituale ed è il sistema su cui si basa il calendario lunare musulmano. Inoltre, nelle scritture islamiche la luna, o qamar, fa riferimento al miracolo della divisione della luna compiuto dal profeta Maometto, che preannuncia il giorno del giudizio e la divisione tra credenti e non credenti. Analogamente, le proprietà angolari della cassettiera,

Woman and a Jug, 1957 Olio su tela, 72 × 52 cm. Photo Anthony Dawton. Collezione privata. Courtesy Meem Gallery, Dubai.

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su cui poggiano la figura e la caffettiera, equivalgono a 360 gradi, simboleggiando il concetto di cerchio completo.

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Jewad Selim – un precursore del Modernismo iracheno, proveniente da una famiglia militare della classe media – subisce l’influenza del padre, ufficiale, che si era formato come pittore di paesaggi presso l’Accademia militare ottomana. Nei primi anni Venti del Novecento la sua famiglia si trasferisce a Baghdad; gli anni di formazione dell’artista coincidono con il crollo dell’Impero ottomano, che aveva governato le nazioni arabe per quattro secoli, e la conseguente apertura della strada verso stati nazionali indipendenti. Fra il 1938 e il 1949 studia pittura e scultura a Parigi, Roma e Londra per poi tornare a Baghdad e aprire il proprio studio. Qui crea un vocabolario culturale visivo che riflette lo spirito dell’Iraq indipendente, che cerca attivamente di incorporare l’arte e le idee sociopolitiche del XX secolo senza abbandonare il passato epico del Paese. Nel 1951, insieme al collega Shakir Hassan Al Said, fonda l’importante Baghdad Modern Art Group. In Woman and a Jug (1957), Selim rivela la confluenza della moderna astrazione geometrica all’intersezione degli stili islamico, antico mesopotamico e occidentale. In quest’opera, i contorni curvilinei del volto della figura, delle braccia, della caffettiera e delle foglie adiacenti rappresentano

ANKARA, TURCHIA, 1919 – 1961, BAGHDAD, IRAQ

—Sara Raza

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Jewad Selim

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Amrita Sher-Gil

Amrita Sher-Gil nasce nel 1913 a Budapest da Umrao Singh Sher-Gil – aristocratico sikh, studioso e fotografo autodidatta – e Marie Antoinette Gottesman, cantante d’opera ungherese. Si è formata all’École des Beaux-Arts di Parigi e ha vissuto e lavorato in Ungheria e a Shimla prima di stabilirsi a Lahore. Prima dell’indipendenza dell’India ottiene notevoli riconoscimenti come artista, ma muore tragicamente a soli ventotto anni, mentre è in procinto di realizzare una grande mostra. In un’autoproclamata ricerca delle proprie radici indiane, Sher-Gil percorre il paese e viene profondamente influenzata dall’arte antica e premoderna del subcontinente. A partire dalla metà degli anni Trenta, il suo lavoro denota un cambiamento sostanziale rispetto ai primi dipinti, basati sulla sua formazione accademica in Europa. Dipinge scene e figure dell’India rurale con colori scuri e terrosi in composizioni simili a tableau; i suoi soggetti, con occhi grandi ed espressioni cupe, ricordano le pitture murali di Ajanta e le sculture classiche indiane, in una confluenza unica di Oriente e Occidente.

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BUDAPEST, UNGHERIA, 1913 – 1941, LAHORE, INDIA

Head of a Girl (1937) segue lo stile dei suoi lavori più tardi, anche se il soggetto non è specificamente indiano. La testa e le spalle di una ragazza con grandi occhi a mandorla e un ovale incorniciato da una pesante frangia presentano una straordinaria somiglianza con una fotografia in bianco e nero di una giovane Sher-Gil scattata tra il 1920 e il 1924, forse dal padre. Sebbene all’inizio l’artista abbia dipinto diversi autoritratti, non ne esiste nessuno di lei da giovane e, benché lei non lo confermi, è probabile che la fotografia le sia servita da riferimento per il dipinto. Nel 2007, la Tate Modern ha esposto trenta suoi dipinti in una delle prime grandi mostre di un’artista indiana da parte di questa istituzione. —Latika Gupta

Head of a Girl, 1937 Olio su tela, 29 × 33 cm. Photo Justin Piperger. Courtesy Collezione Taimur Hassan.

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DERBY, REGNO UNITO, 1954 – VIVE A HARARE, ZIMBABWE

NUCLEO STORICO • RITRATTI

Nata nel 1954 in Inghilterra da genitori giamaicani, Doreen Sibanda è un’artista, curatrice, amministratrice e attivista nel campo dell’educazione artistica – disciplina che ha studiato –, ed è sempre stata un’accanita sostenitrice delle arti. Nel 1980, si è trasferita in Zimbabwe alla vigilia dell’indipendenza ed è diventata la prima addetta alla didattica della National Gallery of Zimbabwe (NGZ). Il marito faceva parte del corpo diplomatico e negli anni Novanta hanno vissuto in Russia. L’artista ha continuato la propria attività e ha esposto in Repubblica Ceca, Russia e Svezia. Rientrata in Zimbabwe nel 2004, ha ripreso la collaborazione con la NGZ, di cui è stata direttrice esecutiva fino al 2021. In questo ruolo ha contribuito allo sviluppo del programma nazionale del Paese, ha commissionato il primo padiglione dello Zimbabwe alla Biennale, ha favorito incontri globali e sostenuto generazioni di artisti e curatori.

Reclining Woman, 1978 Olio su tela, 60 × 60 cm. Courtesy National Gallery of Zimbabwe.

il colore, era inoltre entusiasta dell’arte classica africana e della relativa semplificazione della forma e dello spazio. Attratta dalla fierezza, dalla sicurezza di sé e dai tratti del viso di Diana, Sibanda pensa subito di documentare questa essenza attraverso la pittura. Quest’opera fa parte della collezione permanente della National Gallery of Zimbabwe. L’opera di Doreen Sibanda è esposta per la prima volta alla Biennale Arte. —Tandazani Dhlakama

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Reclining Woman (1978) raffigura una figura femminile che riposa serena, la mano che regge il capo mentre guarda lontano. Reso con ampie pennellate gestuali in toni luminosi e contrastanti, il dipinto utilizza i dettagli in maniera contenuta per rappresentare i tratti nitidi del viso messi in evidenza dalla luce intensa. L’intento è ritrarre la forza e il carattere della protagonista, Diana, da poco immigrata dalla Giamaica. All’epoca l’artista era interessata al modo in cui i pittori modernisti catturavano le emozioni attraverso il gesto e

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Doreen Sibanda

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Gazbia Sirry

IL CAIRO, EGITTO, 1925-2021

Gazbia Sirry, artista originaria del Cairo, sale alla ribalta negli anni Cinquanta, dopo aver vissuto la Rivoluzione dei Liberi Ufficiali del 1952 in Egitto e le ideologie socialiste e panarabiste promosse dal presidente Gamal Abdel Nasser. Studia presso l’Istituto Superiore di Educazione Artistica per Donne Insegnanti del Cairo (oggi noto come la facoltà di Educazione Artistica della Helwan University), diplomandosi nel 1950. Ottiene poi borse di studio governative per studiare in Europa: con Marcel Gromaire a Parigi nel 1950, all’Accademia d’Egitto a Roma nel 1952 e alla Slade School di Londra nel 1953. I suoi primi lavori affrontano le trasformazioni politiche del suo tempo e le lotte collettive della società egiziana moderna, mettendo spesso in risalto forti figure femminili.

In Portrait of a Nubian Family (1962), che si riferisce all’etnia nilo-sahariana originaria di alcune zone del Sudan e dell’Egitto, Sirry dipinge una madre circondata da quattro bambini. La donna indossa un abito dai colori vivaci, mentre i capelli e il corpo sono ornati da elaborati gioielli. La famiglia si trova davanti a quella che sembra essere la porta ad arco di una casa in mattoni di fango, comune nei villaggi nubiani, le cui pareti esterne sono decorate con motivi geometrici,

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floreali e animali. L’inclusione degli elementi ornamentali nel dipinto riflette l’interesse di Sirry per il patrimonio, la mitologia e il simbolismo tratti dalla cultura popolare. L’opera è stata dipinta durante la costruzione dell’alta diga di Assuan, che ha provocato l’inondazione di ampie zone della Bassa Nubia e il reinsediamento di oltre centomila persone. —Suheyla Takesh

Portrait of a Nubian Family, 1962 Olio su tela, 72 × 53 cm. Collezione Barjeel Art Foundation, Sharja. Courtesy Barjeel Art Foundation, Sharja.

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The Guitarist, 1988 Legno ferro, 136 × 49 × 24 cm. Collezione privata.

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Una delle sue numerose rappresentazioni di musicisti, The Guitarist (1988) è riconoscibile come opera di Sithole per il profilo e la complessa forma allungata che esemplifica l’uso delle proporzioni acclamato dal collega scultore Sydney Kumalo come una “sintesi” di “tradizioni africane e occidentali”. Aggraziata, sinuosamente inclinata, e allo stesso tempo scarna, quasi un serpente, la contorta figura racchiude insoliti contrasti. La solidità del legno è disturbata dall’articolazione dello spazio negativo e dal gioco

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di luci e ombre evocato dalla giustapposizione materica di superfici ruvide e segnate, tipica dei primi lavori di Sithole. Paragonate dall’artista a una brama di divino, le forme e le sottili spirali tortuose appaiono come rivelate nella grana e nelle lunghe fibre dei legni indigeni, che preferiva rispetto agli altri materiali con cui lavorava: pietra, argilla, bronzo e acciaio. Nel 1968, la sua opera Tornado (Antediluvian Animal) (1968) è stata presentata nella partecipazione sudafricana alla Biennale. —Ruth Ramsden-Karelse

NUCLEO STORICO • RITRATTI

Lucas Sithole, considerato uno dei massimi scultori sudafricani, è noto soprattutto per le caratteristiche rappresentazioni semi-astratte di animali, persone ed esseri mitologici swazi e zulu, intagliate in alberi morti cercati personalmente dall’artista. Dopo essersi formato in falegnameria e aver svolto lavori manuali, dal 1959 al 1960 partecipa a laboratori di pittura e scultura presso il Polly Street Art Centre di Johannesburg. All’epoca diretto da Cecil Skotnes, il Centro era una delle prime strutture educative alternative in cui gli artisti neri, legalmente esclusi dalla formale educazione artistica sotto l’apartheid, potevano ricevere una formazione. Dopo la prima personale a Johannesburg, nel 1966, le sue opere sono state esposte a Londra e a New York, anche se l’artista non ha mai viaggiato oltre il Sudafrica, il Lesotho e l’eSwatini.

KWATHEMA, SUDAFRICA, 1931 – 1994, SPEKBOOM, SUDAFRICA

STRANIERI OVUNQUE

Lucas Sithole

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Francis Newton Souza

Souza è stato un ribelle per tutta la vita e probabilmente uno degli artisti più significativi dell’India. Nato nel 1924 a Saligao, allora colonia portoghese, nel 1945 viene espulso dalla Sir J.J. School of Art di Bombay per il suo coinvolgimento nel movimento indipendentista indiano. Nello stesso anno tiene la sua prima mostra personale, seguita da una seconda nel 1946. Cresciuto in una rigida famiglia cattolica romana, Souza criticava la moralità e l’ipocrisia dei sacerdoti e dei loro seguaci. Gran parte della sua opera si concentra sull’istituzione della Chiesa, agendo da feroce commento sulla società contemporanea. Nel 1947, Souza forma l’importante Progressive Artists Group – con Krishna Hawlaji Ara, Sadanand

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Bakre, Hari Amba Das Gade, Maqbool Fida Husain, Syed Haider Raza – che rifiutava il revivalismo sentimentale della Scuola d’Arte del Bengala e cercava invece di formulare un’avanguardia indiana basata sull’internazionalismo. Nel 1949 si trasferisce a Londra (e in seguito a New York) e negli anni seguenti le sue opere sono esposte in tutta Europa, anche alla Biennale del 1954, e successivamente in Nord e Sud America. Souza, sostenitore della completa libertà di espressione nei contenuti e nella tecnica, sviluppa uno stile netto e riconoscibile sia nella pittura sia nella scrittura. Le opere della metà degli anni Cinquanta presentano spesso figure maschili, con occhi alti sulla fronte, barba e viso butterato,

SALIGAO, INDIA, 1924 – 2002, MUMBAI, INDIA

il corpo delineato da spesse linee nere. Spesso gli uomini sono archetipi di sacerdoti o santi cattolici. Untitled (1956) può essere letto insieme agli scritti di Souza in Words and Lines (1959): Gli occhi nella fronte per vedere meglio con il cervello Le stelle sul viso sono le cicatrici del vaiolo Le frecce nel collo, come mosche, significano afflizione. Il digrignare dei denti non è nel giorno della risurrezione, ma oggi La giacca, la cravatta e il colletto rigido sono segni di rispettabilità. —Latika Gupta

Untitled, 1956 Olio su tavola, 91 × 127 cm. Photo Justin Piperger; Grosvenor Gallery, Londra. Collezione Jane e Kito de Boer. Courtesy Grosvenor Gallery, Londra.

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NUCLEO STORICO • RITRATTI

Irma Stern nasce in una famiglia benestante di immigrati ebrei tedeschi e per tutta la vita viaggia di frequente tra l’Africa e l’Europa. Nel 1910 gli Stern lasciano il villaggio di Wolmaransstad per trasferirsi nella cosmopolita Berlino, in Kurfürstendamm, permettendo così alla figlia di avere accesso ai principali luoghi d’arte della città. A diciannove anni, si iscrive alle classi d’arte dell’Accademia di Weimar. Nel 1918, anno della sua prima mostra personale, ha già incontrato il suo mentore, Max Pechstein, che la mette in contatto con i circoli espressionisti, ambiente ossessionato dalle idee primitiviste. Nella vita ha all’attivo un centinaio di mostre personali e beneficia enormemente del sostegno statale. Negli anni Cinquanta rappresenta il Sudafrica alle biennali di San Paolo e di Venezia. La diversità etnica caratterizza fortemente i suoi ritratti etnografici, catturati percorrendo lunghe distanze in tutta l’Africa subsahariana. Stern dipinge Watussi Princess (1942) mentre è in Ruanda per l’incoronazione del re. Il ritratto rappresenta Emma Bakayishonga, sorella del re Mutara III Rudahigwa. La principessa è seduta di tre quarti e i suoi occhi pensosi non guardano l’osservatore. Un telo bianco, che sfiora i due lati della cornice, le avvolge morbidamente le spalle inclinate, sottolineando la sua maestosa statura. In tutta la composizione di Stern si reiterano linee diagonali che segnalano un certo modo espressionista di tracciare la forma. L’acconciatura nera, ovaleggiante, svetta in alto, lontano dal viso. Questa forma oblunga viene riecheggiata

da una fascia a forma di lira elegantemente posata sulla fronte, tendendo i lineamenti e accentuando lo status regale. Il ritratto si discosta nettamente dalle vivaci raffigurazioni etnografiche dell’artista. L’armonioso interagire di colori e carattere conferisce alla principessa un senso di profondità e dimensione, evocando riverenza nei suoi confronti. —Zamansele Nsele

Watussi Princess, 1942 Olio su tela, 69 × 55 cm. Collezione privata. Courtesy Sotheby’s.

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SCHWEIZER-RENEKE, SUDAFRICA, 1894 – 1966, CITTÀ DEL CAPO, SUDAFRICA

STRANIERI OVUNQUE

Irma Stern

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Emiria Sunassa

TANAHWANGKO, INDONESIA, 1894 – 1964, LAMPUNG, INDONESIA

La vita di Emiria Sunassa è intrisa di indeterminatezza e le sue opere tendono a puntare l’attenzione sui diversi popoli dell’arcipelago indonesiano, che lei mostra al pubblico giavanese di Batavia. Vive in tutto l’arcipelago indonesiano, svolgendo vari lavori, tra cui infermiera, amministratrice di piantagioni e cantante di cabaret. Priva di formazione formale in pittura, entra a far parte del gruppo di artisti PERSAGI (Persatuan Ahli-Ahli Gambar Indonesia [Associazione dei disegnatori indonesiani]), attivo a Batavia (l’attuale Giacarta) negli anni Trenta e Quaranta. Questo gruppo progressista si batteva per una pittura moderna legata alla realtà della vita in Indonesia e criticava le opere pittoresche e banali che dominavano il mercato. Nel periodo successivo all’indipendenza continua a esporre le proprie opere in mostre personali e partecipando a collettive di arte indonesiana ad Amsterdam e New York.

A p A s in d G in T d ( p m P s r d p o c s p in b c J d la le m l’ a

Coerentemente con la qualità cruda ed espressiva del proprio corpus di opere, la figura in questo dipinto è resa con linee audaci e ampie, mentre il volto è simile a una maschera, evidenziata da un verde sorprendente sul fondo scuro. Nell’immagine, un uomo di Irian (Papua) è raffigurato mentre stringe al petto degli uccelli del paradiso: si tratta di animali sacri per gli indigeni di Papua, le cui piume erano però anche un bene prezioso per i cacciatori e i commercianti stranieri. Possono quindi essere considerate un simbolo dello sfruttamento delle risorse naturali locali. L’artista afferma la propria discendenza dal sultano di Tidore, un’isola BIENNALE ARTE 2024

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dell’arcipelago di Maluku, che storicamente aveva governato parti della Papua Occidentale. Di conseguenza, in un momento cruciale in cui sia l’Indonesia sia la Papua Occidentale stavano lottando per la loro indipendenza (tra la fine degli anni Quaranta e l’inizio degli anni Sessanta), Sunassa rivendica di essere la legittima sovrana della regione, cosa mai ufficialmente accettata, ma che ha complesse implicazioni per i suoi dipinti di scene papuane. L’opera di Emiria Sunassa è esposta per la prima volta alla Biennale Arte. —Phoebe Scott

Orang Irian dengan Burung Tjenderawasih [Irian Man with Bird of Paradise], 1948 Olio su tela, 67,2 × 54,5 cm. Collezione National Gallery Singapore. Courtesy National Heritage Board, Singapore.

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Armodio Tamayo si forma presso l’Academia de Bellas Artes di La Paz, in Bolivia, e studia con il principale pittore indigenista Cecilio Guzmán de Rojas. Figlio di Luisa Galindo e dell’importante intellettuale boliviano Franz Tamayo, autore di Creación de la pedagogía nacional (1910), Armodio (o Harmodio) prende il nome dall’antico martire ateniese tirannicida. Per il padre, Armodio e il suo amante Aristogitone rappresentano un ideale democratico per la moderna politica sudamericana. Le opere di Tamayo, meno conosciute di quelle di alcuni suoi contemporanei, consistono principalmente in ritratti di indigeni aymara e meticci boliviani e in figure allegoriche, come Cristo indio (s.d.) e Justicia del sol (1952). I suoi dipinti sono stati descritti come la “versione plastica dell’opera letteraria” di Franz Tamayo, ma sarebbe un errore ridurre l’opera del figlio interamente alle motivazioni del padre.

LA PAZ, BOLIVIA, 1924-1964

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Armodio Tamayo Imilla (1946) – ovvero “ragazza” in Aymara, la lingua parlata dalle comunità della Bolivia e del Perù meridionale – è un ottimo esempio dei dipinti di Armodio Tamayo con soggetti indigeni e meticci. La composizione triangolare è formata dal mantello a righe della giovane, che il pittore ha realizzato con pennellate sciolte. Per il mantello non usa il colore rosso cocciniglia intenso di altri tessuti aymara, ma principalmente toni terrosi come lo sfondo minimamente definito. L’enfasi cromatica è invece riservata ai lacci rossi del corpetto verde e bianco del vestito, un vivace contrasto tra tessitura tradizionale e moda più moderna. L’attenzione visiva si concentra infine sul volto luminoso dell’imilla – arrossato dal sole e levigato dal sudore e dalla concentrazione – i cui occhi luminosi rifiutano di incontrare il nostro sguardo e fissano intenti un oggetto che la attira oltre l’inquadratura. L’opera di Armodio Tamayo è esposta per la prima volta alla Biennale Arte.

Imilla, 1946 Olio su tela, 54 × 43 cm. Photo Michael Dunn. Courtesy Museo Nacional de Arte - Fundación Cultural del Banco Central de Bolivia.

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STRANIERI OVUNQUE

—Lisa Trever

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Lucy Tejada

PEREIRA, COLOMBIA, 1920 – 2011, CALI, COLOMBIA

Lucy Tejada, una pioniera che ha contribuito a consolidare il Modernismo in Colombia, è stata tra le prime donne a essere riconosciuta come artista professionista nel proprio paese. Nata in un ambiente culturale amante delle arti, Tejada studia alla Scuola Nazionale di Belle Arti di Bogotá, unica donna della sua classe. Parte attiva dei circoli intellettuali bohémien, frustrata dallo stantio accademismo istituzionale, si trasferisce in Spagna nel 1952, dove studia stampa e arte moderna presso l’Accademia Reale di Belle Arti San Fernando di Madrid. Tejada abbraccia il potenziale espressivo e la sperimentazione pittorica osservate nelle avanguardie europee. Tuttavia, nella nativa Colombia, dove torna nel 1956, l’artista non abbandona mai del tutto la figurazione, rivolgendo la propria attenzione a paesaggi e costumi specifici della regione, spesso dipingendo gruppi di donne, per catturare la bellezza e le difficoltà vissute nel proprio paese.

Immagine senza tempo della fecondità agricola, El Sembrador (1958) è realizzato in un periodo di successi professionali e riconoscimenti internazionali. Nel 1958 Tejada viene chiamata a rappresentare la Colombia alla Primera Bienal Interamericana de pintura y grabado di Città del Messico e alla Biennale di Venezia, oltre a tenere una personale presso la Biblioteca Luis Ángel Arango e una serie di incarichi pubblici. Per comunicare la fertilità della propria terra natale nonché la sua nascente modernità, l’artista rappresenta l’uomo e la terra in armonia attraverso un vocabolario modernista di forme geometrizzate. Con una tavolozza pallida, quasi traslucida, Tejada riduce il corpo al profilo smussato dei suoi contorni, ricordando così la sua formazione di incisora. Sfocando la figura con lo sfondo, composto da piani di colore vivido, Tejada si avvicina all’astrazione geometrica, ma mantiene il simbolismo narrativo: il paesaggio naturale è miniaturizzato nella forma del germoglio nutrito da mani umane. —Lucia Neirotti

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El Sembrador, 1958 Olio su tela, 130 × 70,5 cm. Collezione Banco de la República, Bogotá. Courtesy Collezione Banco de la República.

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Retrato de VP, 1941 Olio su tela, 77 × 66 cm. Courtesy Estate di Joaquín Torres-García.

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Joaquín Torres-García – nato e morto a Montevideo, in Uruguay – dopo quarantatré anni trascorsi tra le avanguardie europee, diventa uno dei principali sostenitori dell’astrazione in America Latina. Artista di formazione classica nella Barcellona di fine secolo, Torres-García, a suo tempo assistente di Antoni Gaudí, passa dalle arti decorative e dall’Art Nouveau a una pratica pittorica incentrata sulla sintesi formale. Entrato in contatto con Theo van Doesburg e Piet Mondrian durante la sua permanenza a Parigi, Torres scopre una profonda affinità con il Concretismo e diventa uno dei principali collaboratori della rivista Cercle et Carré (19291930). Tornato in Uruguay nel 1934, Torres sviluppa il proprio stile, l’Universalismo costruttivo, insieme a una pratica pedagogica che, attraverso centinaia di conferenze e workshop, forma quella che divenne nota come la Scuola del Sud. Sebbene sia noto soprattutto per le composizioni geometriche a griglia di pittogrammi, Torres è stato un artista dall’ampia visione eclettica che ha prodotto nello stesso tempo arte astratta e figurativa fino alla morte, avvenuta nel 1949.

MONTEVIDEO, URUGUAY, 1874–1949

Retrato de VP (1941) è stato dipinto durante un periodo di intensa attività. Da poco nominato professore onorario d’arte dal governo uruguaiano e trasmettendo le sue lezioni alla radio, Torres consolida il proprio ruolo di esponente di spicco del Modernismo in America Latina. Mentre sviluppa la teoria e la pratica dell’Universalismo Costruttivo, Torres continua a dipingere in altri stili. L’impasto pesante e la cupa tavolozza di questo dipinto di una sconosciuta riecheggiano i ritratti precedenti, realizzati su commissione mentre, in Europa, stava ancora cercando

di mantenersi con la propria arte. In Retrato de VP, tuttavia, integra quella pratica figurativa con elementi strutturali del proprio caratteristico stile costruttivista. Come nelle sue tele a griglia, Torres costruisce la forma a partire da densi piani di colori primari, modulandoli con il bianco e il nero per creare una texture di gradazioni tonali. La composizione si basa sulla sezione aurea, un sistema di proporzioni di derivazione matematica sottostante la superficie pittorica. —Lucia Neirotti

STRANIERI OVUNQUE

e

Joaquín Torres-García

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Twins Seven-Seven

Twins Seven-Seven appartiene a un gruppo di pittori di Oshogbo formatosi in un periodo in cui la Nigeria stava vivendo uno sconvolgimento politico ed economico. Nato a Ijara, l’artista non era solo un ibeji, un gemello, ma anche un abiku, un bambino dotato di poteri spirituali, nato per morire. Il padre apparteneva a una casa reale di Ibadan, il che lo rendeva un principe; la madre era un membro molto stimato degli Ogboni. Twins Seven-Seven arriva al Mbari Club di Ibadan come frontman dei venditori di Superman Tonic (un tonico per la potenza sessuale maschile). Indossava sempre una camicia con il proprio nome stampato sulla schiena e le sue scelte sartoriali, il suo magnetismo e la bella vita facevano scalpore. Invitato a rimanere come animatore all’inizio della terza scuola estiva del club, Twins inizia a disegnare, sperimentando gouache e acquaforte, e dimostra una padronanza del disegno e un’espressività delicata usate per trasmettere le proprie storie e quelle degli altri. Come musicista, registra due album percepiti come critica nei confronti del governo, per i quali viene arrestato. Nel 1981 si candida alle elezioni, ma viene dichiarato ineleggibile. Maestro della giustapposizione radicale, Twins intreccia storie

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IJARA, NIGERIA, 1944 – 2011, IBADAN, NIGERIA

nelle storie e sogni con la realtà, evocando scambi tra lo spirituale e il culturale nelle proprie narrazioni orali e visive. Nel dettagliatissimo The Architect (1989), un trasferimento del disegno su legno, Twins presenta una serie di figure femminili che celebrano il linguaggio visivo dell’Úlí, una tradizione di pittura murale e del corpo femminile della Nigeria sudorientale basata su forme sinuose e naturali. La madre architetta, che occupa la quasi totalità dell’inquadratura con la sua posa da yogi, racchiude idee di simmetria, riflessione e delimitazione attraverso il serpente a due teste che le incorona il capo. Di particolare rilievo sono gli ammassi di tetti di paglia che appaiono alle sue spalle. Pur essendo unità eterogenee, Twins disegna le singole case, un riferimento all’architettura precoloniale, incastrandole politicamente in un insieme. L’opera di Twins Seven-Seven è esposta per la prima volta alla Biennale Arte. —Nancy Dantas

The Architect, 1989 Inchiostro su compensato, incollato e intagliato, 61 × 41 cm. Photo Maurice Aeschimann. The Jean Pigozzi African Art Collection. Courtesy The Jean Pigozzi African Art Collection.

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Conversation, 1981 Olio su tela, 127,5 × 91 cm. Photo National Gallery of Jamaica. Courtesy National Gallery of Jamaica.

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The Conversation (1981) è uno dei suoi più noti ritratti di donne giamaicane, suo soggetto abituale. Il dipinto mostra un trio di giovani donne che si godono una pausa nella loro giornata lavorativa, con i secchi di latta appoggiati dietro di loro mentre si osservano con attenzione. Vestite con gonne, camicie e foulard, sono in evidente posizione chiastica, forse stanno scherzando, sfogando le loro frustrazioni o intrattenendosi a vicenda con i dettagli dell’ultimo dramma del

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quartiere. Sebbene le donne da tempo svolgano un ruolo fondamentale all’interno della forza lavoro giamaicana, il loro contributo viene spesso trascurato; la sensibilità di Watson per questo momento di vita quotidiana conferisce alle attività femminili un carattere eroico. L’opera di Barrington Watson è esposta per la prima volta alla Biennale Arte. —Ade J. Omotosho

NUCLEO STORICO • RITRATTI

Barrington Watson ha passato tutta la vita a realizzare magnifici dipinti della storia e della cultura del proprio paese. Ha studiato al Royal College of Art di Londra, dove ha affinato uno stile di tipo realista sociale; tornato in patria negli anni Sessanta, si dedica all’insegnamento e crea un corpus di opere ricco di ritratti e paesaggi che raccontano la sua passione per la vita giamaicana. Le opere per cui Watson è più conosciuto sono le sensuali rappresentazioni femminili; immagini che spesso mostrano donne al lavoro: madri che si occupano dei figli, lavandaie che strizzano il bucato, lavoratrici domestiche sfinite dalla fatica.

LUCEA, GIAMAICA, 1931 – 2016, KINGSTON, GIAMAICA

STRANIERI OVUNQUE

Barrington Watson

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Osmond Watson

Il pittore e scultore Osmond Watson ha catturato le agitate trasformazioni culturali della Giamaica post-indipendenza. Dopo aver coltivato il suo precoce interesse per l’arte nelle principali accademie della città, la sua ambizione lo porta, come molti artisti caraibici della sua generazione, a Londra, dove studia alla St Martin’s School of Art. Il periodo trascorso in Europa affina il suo stile, in cui fonde le storie dell’arte occidentale con quelle della diaspora africana. La cultura popolare giamaicana è il grande soggetto di Watson e le sue opere spesso raffigurano scene di vita quotidiana, nonché i vivaci festival e le tradizioni religiose del paese.

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Johnny Cool (1967) è un esercizio nella cupa tavolozza degli azzurri e dei verdi che ricorre nell’opera di Watson. Il ritratto mostra un giovane in posa disinvolta davanti a uno sfondo blu-verde scuro, quasi fumoso. Indossa una bella polo azzurra con i bottoni allacciati, infilata in un paio di pantaloni. Sveglio e sicuro di sé, è l’immagine dell’indifferenza fanciullesca. L’abbigliamento è in linea con i capisaldi della sottocultura dei rude boy diffusa in tutta la Giamaica negli anni Sessanta. I contorni netti e stilizzati del viso e la carnagione lucente sono caratteristici dello stile di Watson e richiamano la sua abilità nella scultura.

KINGSTON, GIAMAICA, 1934-2005

Se l’espressione del soggetto nasconde i particolari della sua vita interiore, la postura indica la sua fiducia nella possibilità di lasciare un segno nel mondo attraverso lo stile. L’opera di Osmond Watson è esposta per la prima volta alla Biennale Arte. —Ade J. Omotosho

Johnny Cool, 1967 Olio su tela, 85,1 × 72,1 cm. Photo National Gallery of Jamaica. Courtesy National Gallery of Jamaica.

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NUCLEO STORICO • RITRATTI

Selwyn Wilson, considerato una figura fondante del Modernismo māori, si iscrive alla Elam School of Fine Arts dell’Università di Auckland nel 1945 diventando il primo māori a diplomarsi in una scuola d’arte neozelandese. Nel 1951 i suoi dipinti sono esposti alla National Art Gallery di Wellington e due delle sue prime opere figurative sono state acquistate dalla Auckland Art Gallery Toi o Tāmaki, nel 1948 e nel 1950: si tratta delle prime opere di un artista māori contemporaneo a essere acquisite da una galleria pubblica in Nuova Zelanda. Nel 1957 Wilson ottiene la Sir Āpirana Ngata Memorial Scholarship per studiare alla Central School of Arts and Crafts di Londra. Al suo ritorno, si dedica all’insegnamento nella remota Northland Region per includere le arti e i mestieri māori nei programmi di studio tradizionali. Si ritiene che Study of a Head (1948) sia un ritratto del nipote dell’artista, Ponga Pomare Kingi Cherrington, nella casa di famiglia a Taumarere. L’opera, vincitrice del primo premio in un concorso della Elam School of Art and Design nel 1948, si era distinta per la tavolozza di colori pastello e la pennellata. I suoi primi lavori rivelano l’influenza del direttore della scuola d’arte, Archibald Fisher, sostenitore della forma e del design che sfidava il gusto contemporaneo, insistendo sul fatto che i pittori dovessero

commentare la vita. Questo cambiamento guida Wilson verso la soggettività māori e nel 1993 commenta: “Quello che ho sempre cercato di dare a tutti gli studenti è una consapevolezza del luogo in cui vivono... e un occhio per il design di tutte le cose funzionali che ci circondano”. L’opera di Selwyn Wilson è esposta per la prima volta alla Biennale Arte. —Natasha Conland

Study of a Head, 1948 Olio su tavola, 52 × 52 × 2,5 cm. Courtesy Auckland Art Gallery Toi o Tāmaki. © Auckland Art Gallery Toi o Tāmaki.

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TAUMARERE, AOTEAROA/NUOVA ZELANDA, 1927 – 2002, KAWAKAWA, AOTEAROA/NUOVA ZELANDA

STRANIERI OVUNQUE

Selwyn Wilson

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Chang Woosoung

Artista di spicco della tradizione coreana della pittura a inchiostro, Chang Woosung nei suoi dipinti di figura ha rappresentato un nuovo tipo di realismo. A differenza dei suoi contemporanei, Chang non si reca in Giappone per una formazione artistica, ma studia in Corea con Kim Eun-ho (1892-1979), la cui esperienza nella ritrattistica e nell’inchiostro colorato era già nota. Già nel 1922, le opere di Chang vengono selezionate per l’annuale Mostra d’Arte Nazionale di Joseon 조선미술전람회(朝鮮美術展覽會), un concorso artistico ufficiale istituito dal governo generale giapponese durante il periodo coloniale in Corea (19101945). Dopo la liberazione, è stato professore di Belle Arti all’Università Nazionale di Seoul (1946-1963) e all’Università di Hongik (1971-1974), prendendosi delle pause per esporre le proprie opere negli Stati Uniti e per fondare la Scuola d’Arte Orientale a Washington, DC, nel 1965, tramite cui condividere gli insegnamenti dell’inchiostro coreano. Nel corso della sua vita ha ricevuto numerosi premi, tra cui l’Ordine al merito della Repubblica di Corea.

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Atelier (1943) raffigura lo stesso artista nel proprio studio con una modella. Si ritrae nelle vesti di uomo moderno che indossa abiti in stile occidentale, fuma disinvolto la pipa e usa la scala come seduta. La presenza della modella evidenzia la crescente popolarità della rappresentazione femminile nell’arte, un cambiamento drastico rispetto alla tradizione. La donna indossa un abito tradizionale coreano bianco (hanbok) e sfoglia una rivista. L’opera rappresenta la vita urbana modernizzata. Sotto il dominio coloniale, il paese era stato messo a dura prova dal punto di vista culturale,

CHUNGJU-SI, COREA, 1912 – 2005, SEOUL, COREA DEL SUD

costretto ad adottare nomi giapponesi e a vietare qualsiasi discorso e pubblicazione coreana. Sebbene vi siano diverse interpretazioni, l’hanbok bianco allude all’onnipresenza degli abiti bianchi indossati in epoca precoloniale, e lo sfondo vuoto distingue le opere coreane a inchiostro colorato da quelle giapponesi, in cui lo sfondo era spesso completato da motivi. L’opera di Chang Woosung è esposta per la prima volta alla Biennale Arte. —Virginia Moon Atelier, 1943 Inchiostro e colore su carta, 210,5 × 167,5 cm. Photo Kim Hyunsue. Collezione Leeum Museum of Art. Courtesy Leeum Museum of Art.

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Desnudo, 1948 Olio su tela, 59 × 46 cm. Photo Mariano Hernández. Courtesy Museo Bellapart. © Mariano Hernández 2024.

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Celeste Woss y Gil è considerata una maestra nella pittura di ritratti e nudi. Questi ultimi specialmente sono resi con notevole equilibrio e rigore e rivelano l’abile prospettiva corporea e muscolare. Desnudo (1948) si distingue per la sua modellazione e solidità, ed esalta la ricchezza e la bellezza della carne. È un esempio di padronanza anatomica, facilità tecnica e realismo intenzionalmente mantenuto. Woss y Gil è un’artista che ha compiuto il passaggio dalla tradizione accademica al Modernismo. Edward Sullivan collega la sua opera a quella

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di pittrici latinoamericane come Tarsila do Amaral, María Izquierdo, Amelia Peláez e Anita Malfatti. L’opera di Celeste Woss è esposta per la prima volta alla Biennale Arte. —Myrna Guerrero Villalona

NUCLEO STORICO • RITRATTI

Celeste Woss y Gil è stata un’artista moderna e un’icona femminista della pittura dominicana. Lei e la sua famiglia subirono un esilio a Parigi nel 1902 in seguito al rovesciamento del padre, il presidente Alejandro Woss y Gil. Trasferitisi nel 1903 a Santiago di Cuba, dal 1922 al 1924 l’artista frequenta la National Academy of Design e l’Art Student League di New York. Nel 1924 rientra a Santo Domingo per aprire uno studio-scuola, e tiene la prima mostra personale femminile della Repubblica Dominicana. Partecipa attivamente ai movimenti suffragisti e femministi. Come artista e insegnante all’avanguardia, introduce il disegno della figura umana nel suo stato naturale, allontanandosi da qualsiasi sua idealizzazione. Negli anni Quaranta – che segnano il suo periodo di maturità – crea i suoi formidabili nudi, sia femminili che maschili, evidenziandone la multirazzialità attraverso un intero spettro di forme e colori, con realismo sensuale ed energico. Si concentra sui Caraibi nell’approccio alla figura umana, ai ritratti e alle nature morte, in cui fiori e frutti tropicali sono elevati al rango di ritratto.

SANTO DOMINGO, REPUBBLICA DOMINICANA, 1891-1985

STRANIERI OVUNQUE

Celeste Woss y Gil

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Yêdamaria

SALVADOR, BRASILE, 1932-2016

La produzione di Yêdamaria in pittura, collage e incisione tratta principalmente nature morte con motivi della propria vita quotidiana, divinità afroreligiose, il paesaggio marino di Salvador – capitale dello stato di Bahia, in Brasile – e riferimenti ai movimenti neri e femministi. Dopo la laurea in Belle Arti a Bahia, lavora come docente e sviluppa un progetto di master negli Stati Uniti, dove vive alla fine degli anni Settanta. L’analisi del suo lavoro può essere intesa come resoconto della vita della classe media nera nella seconda metà del XX secolo in Brasile.

Il suo autoritratto Proteção de Yemanjá (1978) combina elementi della ritrattistica tradizionale ad altri immaginari e soggettivi. Il volto sereno e simmetrico è al centro della tela; indossa un cappotto rosa che contrasta con il blu predominante dello sfondo. Alle sue spalle compaiono una balaustra, una barca e un blu uniforme, a suggerire il mare e il cielo – elementi che contrappongono lo spazio architettonico al paesaggio. Nel turbante che porta in testa si alternano colori materici e solidi, che a volte suggeriscono due persone che fiancheggiano BIENNALE ARTE 2024

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la stella rossa al centro, altre l’immagine di due sirene, con la coda di pesce e i lunghi capelli che rimandano a Yemanjá, l’orisha (divinità yoruba) dei mari presente nel titolo dell’opera. Non è chiaro se le sirene siano una stampa sul turbante o la rappresentazione di una proiezione psichica, come se si potesse vedere nella mente dell’artista. L’opera di Yêdamaria è esposta per la prima volta alla Biennale Arte. —Leandro Muniz Proteção de Yemanjá, 1978 Olio su tela, 91 × 80 cm. Photo Márcio Lima, Salvador. Courtesy Collezione Ayrson Heraclito, Salvador.

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MINYA, EGITTO, 1913 – 1966, IL CAIRO, EGITTO

NUCLEO STORICO • RITRATTI

Pittore, scrittore e critico, Ramsès Younan nasce nell’Alto Egitto e cresce in una modesta famiglia copta. Nel 1929 si iscrive alla École des beauxarts del Cairo, ma nel 1933 abbandona gli studi senza conseguire la laurea. L’anno seguente ottiene un certificato di insegnamento dal Sindacato per l’istruzione superiore in Egitto e assume l’incarico di insegnante di arte nelle scuole secondarie di Tanta e Porto Said. Nel 1939, con Georges Henein, fonda il gruppo Art et Liberté, composto da artisti e intellettuali che danno vita a un movimento surrealista di matrice egiziana. È anche uno dei firmatari del manifesto Vive l’art dégéneré! del 1938. Nel 1947 è costretto a fuggire a Parigi a causa delle sue idee politiche anarchiche; tuttavia, le sue proteste contro il ruolo della Francia nella crisi di Suez del 1956 lo inducono a tornare al Cairo.

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le composizioni oniriche, la mente subconscia e le forme distorte e biomorfe. Le opere di Younan presentano spesso corpi torturati o smembrati come commento contro la repressione e a sostegno dei diritti delle donne. —Suheyla Takesh

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Portrait (s.d.) presenta due sagome sovrapposte di volti, resi in modo astratto. Il volto frontale si dilata in ampie spire che ricordano una conchiglia aperta o una sezione ingrandita dell’orecchio interno; il volto posteriore, invece, è piatto e simile a un’ombra. Separati e con lo sguardo rivolto in direzioni opposte, i visi appaiono separati e alienati. Accostando le due immagini, l’artista rivela la propria attrazione surrealista per

Portrait, s.d. Olio su tela, 50 × 35 cm. Collezione Barjeel Art Foundation, Sharja. Courtesy Barjeel Art Foundation, Sharja.

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Ramsès Younan

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Bibi Zogbé

SAHEL ALMA, LIBANO, 1890 – 1975, MAR DEL PLATA, ARGENTINA

Bibi Zogbé nasce a Sahel Alma, città costiera del Libano, e diviene nota in tutto il Sudamerica come “La pintora de flores” (la pittrice di fiori). A sedici anni si trasferisce a San Juan, Argentina, prima di spostarsi a Buenos Aires, dove studia pittura con l’artista bulgaro Klin Dimitrof. Zogbé inizia la carriera artistica con tre mostre personali consecutive: a Buenos Aires (1934), Parigi (1935) e in Cile (1939). Viaggiando di continuo tra Argentina, Senegal e Parigi, l’artista trova ispirazione in una grande varietà di paesaggi, fauna e flora. I suoi dipinti fondono spesso elementi di diversi movimenti artistici, ad esempio i colori vivaci del Fauvismo e l’eleganza e la sensualità dell’Art Déco. Il motivo per lei predominante dei fiori trascende un’estetica meramente decorativa e trasmette un profondo simbolismo.

In Femme aux fleurs (s.d.) Zogbé esprime l’aspetto mitico dei soggetti femminili nel movimento dell’Art Déco, ma infonde umiltà e connessione con la natura, anziché trasmettere la magnificenza dell’industrialismo. L’artista inoltre cancella lo sguardo maschile da un primitivismo alla Gauguin, volendo omaggiare con delicatezza la sua modella, anziché esotizzarla. Lo sfondo uniforme allude alle icone bizantine o ad altri antichi stilemi artistici in cui la sacralità del soggetto è enfatizzata dal posizionamento su un piano separato, al di là del tempo e dello spazio. In effetti il busto della donna dipinta ricorda uno dei primi ritratti funebri copti del Fayyum, Egitto, caratterizzato da grandi occhi che rappresentano l’anima e da un’espressione di calma eterna. La raffigurazione della donna operata dall’artista la colloca tra il simbolo e l’umano, ma identifica anche la femminilità stessa: forte e al contempo dolce e umile, un’aura di ricchezza e fertilità incorniciata da rigogliose piante in fiore, nell’armoniosa gamma cromatica di Zogbé. L’opera di Bibi Zogbé è esposta per la prima volta alla Biennale Arte. —Fadia Antar

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Femme aux Fleurs, s.d. Olio su tavola, 69,5 × 50 cm. Photo Maria e Mansour Dib. Courtesy Ramzi e Saeda Dalloul Art Foundation.

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INTRODUCTION, IN DISCREPANT ABSTRACTION, A CURA DI KOBENA MERCER, LONDRA, INSTITUTE OF INTERNATIONAL VISUAL ARTS: THE MIT PRESS, 2006.

L’astrazione discrepante è ibrida e parziale, sfuggente e ripetitiva, ostinata e strana: comprende quasi tutto ciò che non rientra nella narrazione istituzionale dell’arte astratta come ricerca monolitica della purezza. [...] Mentre gli artisti provenienti da contesti non occidentali e minoritari sono stati spesso esclusi dalla narrazione ufficiale a causa di discrepanze creative che andavano contro le preferenze istituzionali, le prospettive interculturali riunite in questo volume non mirano solo ad “aggiungere” coloro che un tempo erano stati trascurati, ma cercano di ridefinire l’intero campo di discussione riaprendo la storia dell’astrazione a una interpretazione più ampia dell’arte e della cultura del XX secolo.

KOBENA MERCER


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THE OTHERWISE MODERN. CARIBBEAN LESSONS FROM THE SAVAGE SLOT, IN CRITICALLY MODERN: ALTERNATIVES, ALTERITIES, ANTHROPOLOGIES, A CURA DI BRUCE KNAUFT, BLOOMINGTON, INDIANA UNIVERSITY PRESS, 2002.

“Modernità” è un termine fumoso che appartiene a una famiglia di parole che potremmo definire “universali nordatlantici”. Con questo intendo parole ereditate da quello che oggi chiamiamo Occidente – e che io preferisco chiamare Nord Atlantico, non solo per motivi di precisione geografica – che trasmettono l’esperienza nordatlantica su una scala universale che hanno contribuito a creare. Come parte della geografia dell’immaginazione che ricrea costantemente l’Occidente, la modernità ha sempre richiesto un Altro e un Altrove. È sempre stata plurale, proprio come l’Occidente è sempre stato plurale. Questa pluralità è insita nella modernità stessa, sia strutturalmente che storicamente. La modernità come struttura richiede un altro, un alter, un nativo... anzi, un alter-nativo. La modernità come processo storico ha creato anche questo alter ego, moderno come l’Occidente, ma altrimenti moderno.

MICHEL-ROLPH TROUILLOT


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THE DARKER SIDE OF WESTERN MODERNITY: GLOBAL FUTURES, DECOLONIAL OPTIONS, DURHAM E LONDRA, DURKE UNIVERISITY PRESS, 2011.

Il primo passo verso il decolonialismo è dissociarsi dal colonialismo e non cercare modernità alternative, ma alternative alla modernità.

WALTER D. MIGNOLO


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Il movimento del neoconcretismo brasiliano di metà secolo avrebbe potuto essere incluso in questo gruppo, e forse dovrebbe essere incluso in una sezione più ampia dedicata alle astrazioni del Sud del mondo. Tuttavia, dato il nostro ambito, considerato che i neoconcretistas brasiliani sono ormai noti a livello internazionale e, anzi, tre dei rappresentanti più significativi – Elio Oiticica, Lygia Clark e Lygia Pape – hanno già partecipato a Biennale Arte, ho deciso di privilegiare altre figure eccezionali del Sud del mondo.

Adriano Pedrosa

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549 NUCLEO STORICO • ASTRAZIONI STRANIERI OVUNQUE

Questa sezione del Nucleo Storico è dedicata all’astrazione, un termine che comprende molteplici e variegate declinazioni artistiche e diffusamente inteso come quintessenza del Modernismo europeo del XX secolo. Eppure l’astrazione si riscontra nel repertorio visivo di molte culture extraeuropee e precede il XX secolo, ossia il luogo e il tempo in cui teoricamente ha avuto origine. Tuttavia, tentare di tracciare una mappa completa o una storia onnicomprensiva dell’astrazione in Euro-America, per non parlare del Sud del mondo, appare impresa pressoché impossibile. In tal senso, questa sezione si concentra sul modo in cui l’astrazione è stata reinventata, reinterpretata e rivitalizzata nel Sud del mondo durante il XX secolo. Presenta un piccolo campione di un panorama molto più ampio, con opere di una quarantina provenienti da vari Paesi, tra cui Argentina, Aotearoa–Nuova Zelanda, Brasile, Cile, Colombia, Cuba, Egitto, Filippine, Guatemala, India, Indonesia, Iraq, Giordania, Corea, Libano, Messico, Marocco, Pakistan, Palestina, Porto Rico, Repubblica Dominicana, Sudafrica e Turchia. Ciò che interessa in questa sede è un certo tipo di astrazione che si distacca dalla tradizione geometrica astratta costruttivista europea – con la sua tavolozza di colori primari, la rigida griglia ortogonale di verticali e orizzontali, le aspirazioni di purezza e di spiritualismo – per privilegiare forme più sinuose e curvilinee, colori vivaci, in composizioni di grande impatto, a volte lavorando su supporti diversi dalla tela che vanno da fili di lana e tessuti ai bambù. Pur apparentemente geometriche, le opere raccolte in questa sezione spesso resistono o mettono in discussione il concetto dei contrasti netti, poiché esplorano la qualità del “fatto a mano” e l’irregolarità della linea retta nettamente marcata. Un riferimento fondamentale è la straordinaria Scuola di Casablanca dei pittori attivi nel Marocco post-indipendenza degli anni Sessanta. I loro dipinti astratti, i murales e le grafiche sono spesso caratterizzati da colori vivaci, composizioni sensuali e linee ondulate e attingono a elementi della loro ricca tradizione afro-berbera, quali motivi e disegni presenti in ornamenti, elementi decorativi, tessuti e calligrafia. Sono presentate le opere di quattro membri del gruppo: Mohamed Chebaa, Mohamed Hamidi, Mohamed Kacimi e Mohamed Melehi. Gli artisti di questa sezione hanno pertanto tratto ispirazione da fonti, memorie, narrazioni e repertori di varia e diversa natura, al di là dei canonici riferimenti astratti, geometrici o costruttivisti europei: tessiture e ceramiche antiche e indigene; tessuti e patchwork; calligrafia, scrittura e alfabeto; paesaggi naturali e urbani; mappe e vedute aeree; il cosmico e il celeste; la luna, la mezzaluna e il sole; arcobaleni, onde e fiamme; biomorfismo e struttura cellulare; il corpo e le tassonomie razziali; diagrammi e simboli sacri ed esoterici1. Data la presenza di molti elementi e di fonti intensamente figurative e indigene, si deve necessariamente pensare ad astrazioni controcorrente, astrazioni impure, “contro-narrazioni dell’astrazione”, come propone Devika Singh, o “astrazioni discrepanti”, nei termini di Kobena Mercer, che riflettono in qualche modo una forte posizione anticoloniale. In questo gruppo eterogeneo e pluralista, l’astrazione è stata radicalmente cannibalizzata e divorata e ora ci spinge a ripensare i confini e i limiti del termine astrazione stesso.

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Etel Adnan

BEIRUT, LIBANO, 1925 – 2021, PARIGI, FRANCIA

Etel Adnan è stata una poetessa, saggista e artista visiva la cui pratica ha spaziato dalla pittura all’arazzo, dal disegno al cinema, all’interno di una vita caratterizzata da continui spostamenti e periodi di studio in diversi paesi. Nel 1950 si trasferisce a Parigi e studia filosofia alla Sorbona prima di recarsi negli Stati Uniti, dove studia alla UC Berkeley e a Harvard e insegna alla Dominican University of California. Negli anni Settanta torna in Libano e lavora come redattrice di giornale, occupandosi dei vari aspetti dei conflitti territoriali. Nel 1977 pubblica Sitt Marie Rose, libro premiato dall’Associazione di solidarietà franco-araba. La sua pratica come artista visiva ha inizio negli anni Sessanta, quando comincia a sperimentare con il colore. Ha collaborato spesso con la sua compagna di vita, l’artista Simone Fattal.

Interessata al contrasto tra i toni, molte delle sue opere rivelano diverse tradizioni di pittura paesaggistica e una marcata curiosità per il rapporto tra calligrafia, disegno e astrazione. Adnan ha lavorato con materiali e scale diverse e il suo percorso è esemplificativo della prima generazione riconosciuta di artisti araboamericani. Questo dipinto senza titolo attira inizialmente l’attenzione per le sue piccole dimensioni. Benché le sue misure neghino ogni idea di monumentalità, in esso Adnan genera un contrasto di colori che pare superare i vincoli fisici dell’oggetto. Attivamente

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impegnata nel corso della propria carriera di scrittrice e artista visiva, Adnan sembra sempre ricordarci che, anche in un mondo permeato di conflitti, il piacere che ci donano l’arte, il colore e la pittura è essenziale e ci radica nella nostra complessità di individui e di fautori della differenza. L’opera di Etel Adnan è esposta per la prima volta alla Biennale Arte. —Raphael Fonseca

Untitled, 1965 Olio su tela, 50 × 43,1 cm. Courtesy Estate dell’Artista; SfeirSemler Gallery, Beirut e Amburgo.

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Waipuna, 1978 Acrilico su tavola, 101,7 × 101,7 × 3,5 cm. Courtesy Auckland Art Gallery Toi o Tāmaki. © Auckland Art Gallery Toi o Tāmaki.

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Cresciuto sulla costa orientale della Nuova Zelanda, immerso nelle tradizioni delle case comuni decorate, l’arte e gli insegnamenti di Sandy Adsett si ritrovano nei marae, nelle chiese, nei musei e negli edifici governativi di tutto il paese. L’artista ha frequentato l’Ardmore Teachers College (1958) un decennio dopo Fred Graham, quando c’era la necessità di aumentare il personale docente per far fronte al baby boom del dopoguerra. Il responsabile nazionale per l’educazione artistica, Gordon Tovey, lo presentò a Pine Taiapa, famoso maestro intagliatore Ngāti Porou, che influenzò profondamente il nuovo movimento artistico contemporaneo māori. Adsett fu attratto dall’esplorazione di forme dipinte ispirate ai kōwhaiwhai (ornamenti dipinti su rotoli), molto diffusi nell’area di Raupunga, nella baia di Hawke, a partire dal XIX secolo. Taiapa gli ha insegnato a promuovere la conoscenza e il controllo di queste forme fluide interconnesse.

WAIROA, AOTEAROA/NUOVA ZELANDA, 1939 VIVE A HASTINGS, AOTEAROA/NUOVA ZELANDA

Il dipinto Waipuna (1978), traducibile con “primavera”, appartiene a un periodo in cui Adsett ha creato le sue composizioni più elaborate di kōwhaiwhai, tipicamente su tavola quadrata. Qui la composizione spaziale si orienta intorno a un asse centrale e rompe la cornice dipinta per creare un senso di energia e la sensazione di correnti d’acqua. Per Adsett, la rottura del bordo è un dettaglio importante che concentra la nostra attenzione sul ruolo dello spazio negativo, cruciale per la comprensione del kōwhaiwhai. Le forme sontuose del disegno, che altrimenti potrebbero essere interpretate come astrazione geometrica, funzionano

all’interno delle tradizioni genealogiche māori come registrazione della storia, del luogo e del whakapapa. È allo stesso tempo comunicazione visiva, conoscenza preziosa e abilità pittorica. La profonda comprensione del kōwhaiwhai da parte di Adsett è stata esplorata nello spazio architettonico della casa comune e sulle tavole dipinte; ha sviluppato questa forma d’arte nel tempo, grazie ai ruoli importanti assunti nel restauro e nella decorazione delle case comuni. L’opera di Sandy Adsett è esposta per la prima volta alla Biennale Arte. —Natasha Conland

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Sandy Adsett

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Zubeida Agha

LYALLPUR, INDIA, 1922 – 1997, ISLAMABAD, PAKISTAN

Zubeida Agha è annoverata tra le artiste che nei decenni del dopoguerra iniziano a costruire una contro-narrazione dell’astrazione. Si laurea in filosofia e scienze politiche al Kinnaird College di Lahore, prima di formarsi con l’artista B.C. Sanyal. Nel 1946 viene presentata a Mario Perlingieri, un prigioniero di guerra italiano che aveva studiato con Pablo Picasso. Sotto la sua guida, il lavoro di Agha si orienta decisamente verso l’astrazione e abbraccia l’uso di colori vivaci. Alla fine degli anni Quaranta, Agha espone le sue opere in Pakistan con grande successo. Nel 1950 riceve una borsa di studio per la Central Saint Martins di Londra e presto si reca a Parigi per frequentare l’École des Beaux-Arts. Tornata in Pakistan, espone regolarmente i propri dipinti e dirige per sedici anni la Galleria d’arte contemporanea di Rawalpindi, prima di stabilirsi a Islamabad nel 1977.

Composition (1988) è stato realizzato verso la fine della carriera di Agha. A differenza delle opere precedenti, che presentavano paesaggi surreali e tratti ancora narrativi, è un esempio di pura astrazione geometrica. Un insieme di forme asimmetriche modellate in nero, giallo e diverse tonalità di rosso – che evocano una disposizione tridimensionale – converge al centro dell’opera e sottolinea l’aspetto modulare dell’elemento centrale composto da triangoli e altri segmenti di linea diagonali. Contrariamente alle aspettative, non ci sono bordi

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netti; le linee sono volutamente irregolari. Alcune sembrano abbreviate e quasi distorte. Il risultato è magnetico, ma anche contenuto nell’uso parziale della superficie. Ostacolata da una fascia marrone che attraversa il primo piano, la composizione si sottrae alla risoluzione pittorica. È uno studio sulla forma e sulle sue possibilità. L’opera di Zubeida Agha è esposta per la prima volta alla Biennale Arte. —Devika Singh

Composition, 1988 Olio su tela, 91,4 × 76,2 cm. Photo Justin Piperger. Courtesy Collezione Taimur Hassan.

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Untitled, 1971 Pigmento su compensato, 100 × 105,5 cm. Photo Hamad Yousef. Courtesy Mathaf: Arab Museum of Modern Art.

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Negli anni Settanta, Rafa alNasiri impiega le lettere arabe nelle proprie opere, come in Untitled (1971). Sceglie una tela romboidale su cui dipinge strisce di colori vivaci che si espandono in diagonale nel quadro, da un angolo all’altro. Sopra queste strisce stende spesse linee nere che assomigliano alle forme calligrafiche dell’arabo. L’artista utilizza linee rette e curve per generare una composizione il cui stile astratto richiama i motivi decorativi dell’arte arabo-islamica. Rafa alNasiri e i suoi colleghi vedono nell’uso della grafia araba la

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massima espressione artistica ereditata dalla civiltà araboislamica. Tuttavia l’artista dà importanza unicamente alle forme dei caratteri arabi, anziché al loro significato letterale. Queste forme riflettono le sue sperimentazioni con l’astrazione, ricollegando così le comunità irachena e araba al loro comune patrimonio artistico. L’opera di Rafa al-Nasiri è esposta per la prima volta alla Biennale Arte. —Arthur Debsi

NUCLEO STORICO • ASTRAZIONI

Rafa al-Nasiri è ricordato come il primo artista in Iraq a specializzarsi nelle arti grafiche. Studia pittura all’Università di Baghdad e dopo la laurea, conseguita nel 1959 presso l’Istituto di Belle Arti, si specializza in incisione formandosi, in Cina e in Portogallo. Per oltre venticinque anni insegna all’Istituto di Belle Arti di Baghdad e, durante il suo incarico, fonda il Dipartimento di Arti Grafiche e lo dirige dal 1974 al 1989. Dopo lo scoppio della Guerra del Golfo nel 1990, si trasferisce definitivamente ad Amman dove viene nominato direttore del centro artistico Darat al-Funun dal 1993 al 1995. Negli anni Settanta è particolarmente coinvolto nello sviluppo del gruppo Jama’at al-Bu’d alWahid (One Dimension Group). Nell’approfondire il patrimonio artistico del mondo araboislamico, al-Nasiri si cimenta con l’astrazione per creare un’estetica contemporanea, che attingerà alla grafia araba come punto di partenza.

TIKRIT, IRAQ, 1940 – 2013, AMMAN, GIORDANIA

STRANIERI OVUNQUE

Rafa al-Nasiri

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Margarita Azurdia

Margarita Azurdia, nata nel 1931 da madre catalana e padre guatemalteco, respinge le costrizioni di una società conservatrice per sviluppare una pratica interdisciplinare, rivendicando uno spazio per le cosmologie femminili e indigene osservate nel nativo Guatemala. Si sposa giovane con un benestante uomo d’affari e inizia la propria carriera d’artista con tre figli piccoli e nessuna formazione ufficiale. Trovando rifugio ed emancipazione nella pratica artistica, Azurdia elabora un’opera riccamente variegata che comprende l’astrazione gestuale e geometrica, l’installazione, la performance e la poesia. Ben presto ottiene fama internazionale e, nei cinque anni che seguono la sua prima mostra, espone a El Salvador, a New York e alla Bienal de São Paulo. Nei tre decenni successivi, Azurdia continua il proprio impegno per l’emancipazione femminile e per il nativo Guatemala, integrando tradizioni e cosmologie indigene persino nelle sue opere più astratte. Untitled (1968) fa parte della serie Pinturas geométricas (dipinti geometrici), eseguita nel decennio successivo alla sua permanenza solitaria in California per studiare saldatura e arte moderna. Con spunti ripresi dall’Optical Art, dal Colour Field e

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ANTIGUA, GUATEMALA, 1931 1998, CITTÀ DEL GUATEMALA, GUATEMALA

dall’astrazione geometrica, la composizione romboidale caratteristica delle Geométricas di Azurdia si costruisce per campiture di colore bidimensionali nettamente delineate. Anche se queste opere si annoverano fra le sue più famose, sono subito state trascinate in un dibattito che ha polarizzato il mondo artistico guatemalteco: diviso tra la Nuova Figurazione socialmente impegnata e l’astrazione formale – il cui internazionalismo era contaminato dal contesto della Guerra Fredda –, in molti hanno accusato l’artista di essere, nella migliore delle ipotesi, apolitica. Le forme a losanga e le insolite combinazioni di colore compatto che ricorrono in questa serie rimandano, tuttavia, alle huipil (tuniche) degli indigeni maya, disegnate, create e indossate dalle donne. Nel suo intrecciare la pittura modernista a una tradizione di lavoro e performatività delle donne indigene, l’opera pittorica di Azurdia presenta una politica alternativa. L’opera di Margarita Azurdia è esposta per la prima volta alla Biennale Arte. —Lucia Neirotti

Untitled (serie geométricas), 1976 Acrilico su tela, 218 × 162 × 5 cm. Collezione Margarita Azurdia. Courtesy Asociación Milagro de Amor.

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BEIRUT, LIBANO, 1931–2019

NUCLEO STORICO • ASTRAZIONI

Huguette Caland, figlia del primo presidente della Repubblica Libanese, si forma con Fernando Manetti, artista italiano a Beirut. Caland allestisce un atelier di pittura nel proprio giardino a Kaslik e nel 1964 si iscrive all’American University di Beirut per conseguire una formazione ufficiale nelle belle arti. Nel 1970, lascia il Libano e si reca a Parigi, dove, nel 1979, collabora con lo stilista francese Pierre Cardin per disegnare una collezione di caftani. Dopo oltre dieci anni in Francia, si trasferisce a Venice, California, dove risiede fino al 2013, anno in cui fa ritorno a Beirut dopo la morte del marito. La sua opera si avventura fra arte, moda, design, comunicando gioia e una profonda sensualità. Sua primaria fonte di ispirazione è il corpo femminile, il cui erotismo scandalizza il pubblico dell’epoca.

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moda, sovrappone queste forme come se le avesse cucite insieme. La composizione ha l’aspetto di un patchwork con cui l’artista crea un paesaggio urbano immaginario. Lo spazio in negativo fa galleggiare gli elementi con un tocco di fantasia. Nella sua pratica, Huguette Caland rivela una grande brama di libertà, rifuggendo la realtà per lasciarsi guidare dalle emozioni. —Arthur Debsi

STRANIERI OVUNQUE

Negli anni Sessanta, Huguette Caland dedica sempre più tempo alla creazione artistica e all’esplorazione della scena artistica libanese. L’opera Suburb (1969) viene esposta nella personale Huguette Caland: Faces and Places presso il Mathaf: Arab Museum of Modern Art, a Doha nel 2020. Su uno sfondo beige, Caland usa una gamma di colori vivaci per dipingere forme astratte, riempiendole di linee nere, punti, quadrati e cerchi. Con una precisa sensibilità per la

Suburb, 1969 Olio su tela, 100,5 × 100,5 cm. Photo Hamad Yousef. Courtesy Mathaf: Arab Museum of Modern Art, Doha, Qatar.

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Huguette Caland

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Mohammed Chebaa

Mohammed Chebaa è membro fondatore della Casablanca Art School. Concepisce i tre pilastri della sua poetica – arte, architettura e artigianato – a partire dallo studio del Rinascimento italiano e della scuola del Bauhaus mentre frequenta l’Accademia di Belle Arti a Roma (1962–1964). Nella ricerca di un’arte nazionale marocchina, Chebaa guarda all’architettura, che storicamente è stata veicolo della massima genialità nella creatività locale. La sua opera è strettamente legata allo spazio e alla progettazione: con un occhio di riguardo per l’astrazione gestuale e geometrica, l’artista combina forme ed elementi in strutture che lasciano trapelare la dedizione all’architettura. Anche il movimento delle linee trasmette spesso un’interpretazione lirica delle forme architettoniche. Chebaa ha pubblicato numerosi scritti sull’arte marocchina e ha partecipato a tavole rotonde e

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conferenze intervenendo sulla democratizzazione dell’arte e sull’impatto che essa esercita sulla società e sull’individuo. Fondendo l’arte tradizionale marocchina con un approccio moderno all’astrazione geometrica, Composition (1974) fluisce sulla tela partendo da destra e ne scivola fuori in basso a sinistra. Sia il movimento, sia la direzione alludono alle curve e alle linee della grafia araba, dando quasi l’impressione di trovarsi di fronte a un’opera da leggere. L’artista introduce un senso di profondità e tridimensionalità impiegando una prospettiva realistica nelle sezioni a forma di scala, al centro della tela. Tuttavia, accanto all’influenza occidentale, la composizione adotta la bidimensionalità delle tradizioni orientali, nel suo esistere primariamente su un unico piano verticale. Qui evoca una confusione ininterrotta – un limbo fra superficie e profondità, vicino

TANGERI, MAROCCO, 1935 – 2013, CASABLANCA, MAROCCO

e lontano. Le ripetute linee parallele con colori alternati rendono omaggio all’artigianato marocchino dei cesti intrecciati e delle mattonelle in ceramica. Inoltre, in quest’opera l’approccio allo studio dello spazio ricorda quello dei progetti architettonici. L’opera di Mohammed Chebaa è esposta per la prima volta alla Biennale Arte. —Fadia Antar

Composition, 1974 Acrilico su tela, 94 × 220 cm. Photo Maria e Mansour Dib. Courtesy Ramzi e Saeda Dalloul Art Foundation.

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queste si compongono di parti modulari che possono essere assemblate e disassemblate – sculture che catturano il ritmo, l’armonia, la perfezione. Rhythmical Composition with White Sphinx (1951) viene realizzato dopo il soggiorno di Choucair a Parigi, durante il quale frequenta gli artisti del periodo postbellico francese, e soprattutto Fernand Léger. Il paesaggio moderno è estremamente presente in quest’opera, sebbene il soggetto – una creatura mitologica – provenga da un’antica civiltà quasi diametralmente opposta a quella del XX secolo. Nondimeno, lo studio della linea e della relazione fra diversi motivi da parte dell’artista

Rhythmical Composition with White Sphynx, 1951 Olio su tela, 88 × 116 cm. Photo Hamad Yousef. Courtesy Mathaf: Arab Museum of Modern Art, Doha, Qatar.

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accenna ai principi dell’arte islamica senza ricorrere all’estetica dell’arabesco o della calligrafia. L’opera di Saloua Raouda Choucair è esposta per la prima volta alla Biennale Arte. —Fadia Antar

NUCLEO STORICO • ASTRAZIONI

Saloua Raouda Choucair è un’artista con la mente della poetessa, l’anima da architetta e la precisione di una matematica. Pur avendo ricevuto un’istruzione artistica formale, sceglie di ideare un proprio percorso di esplorazioni artistiche. Scopre il misticismo sufi e i fondamenti aritmetici dell’arte islamica durante un viaggio in Egitto nel 1943. Nel 1948, continua gli studi d’arte a Parigi, presso l’Académie des Beaux-Arts, e frequenta l’Atelier d’Art Abstrait; ha però sempre sottolineato che, prima ancora di incontrare le tendenze e le filosofie artistiche occidentali, è stata l’esposizione all’astrazione geometrica dell’arte islamica a plasmare la sua sensibilità artistica. Choucair si dedica alle sue sculture più rappresentative dopo il 1957;

BEIRUT, LIBANO, 1916–2017

STRANIERI OVUNQUE

Saloua Raouda Choucair

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Monika Correa

BOMBAY, INDIA, 1938 VIVE A MUMBAI, INDIA

Monika Correa, formatasi in microbiologia, inizia a tessere negli anni Sessanta dopo un viaggio in Finlandia dove conosce i tappeti Rya. Riceve una formazione di base a Boston da Marianne Strengell e una di quattro mesi presso il Weavers’ Service Centre di Bombay (1964-1965). Mentre impara dalle tessitrici tradizionali, Correa viene ispirata dal famoso artistapedagogo Kalpathi Ganpathi Subramanyan che utilizzava la lana filata a mano proveniente dallo Saurashtra per creare grandi sculture astratte in fibra. Ha inoltre avuto modo di osservare il lavoro del designer tessile americano Jack Lenor Larsen durante una breve visita di quest’ultimo al suddetto centro. Correa utilizza lana filata a mano, fine e grossa, proveniente da Panipat, nell’India settentrionale, che combina con filati di cotone, sfruttando le qualità materiche offerte dal materiale. Ha sviluppato una tecnica lavorando con un telaio tradizionale realizzato su misura con pettine rimovibile,

sperimentando con l’ordito e la saia per creare linee dinamiche che si discostano dalla forma strutturata della tessitura tradizionale. No Moon Tonight (1974) ha una trama verticale semplice, simile a quella di arazzi precedenti come Original Sin (1972), in cui l’artista lavora su grandi forme circolari in composizioni astratte che diventano emblematiche del suo stile maturo. La nitidezza della linea verticale è interrotta da motivi serpeggianti creati estraendo il pettine. Correa parla diffusamente della rappresentazione della natura, in particolare del cielo, nei dipinti persiani e dell’Asia centrale. Il titolo dell’opera e il cerchio alludono a un’astrazione tratta dalla natura: la luna che sorge o si eclissa in un gioco di buio e luce, il pannello superiore monocromatico bilanciato dai pannelli colorati nella metà inferiore. L’opera di Monika Correa è esposta per la prima volta alla Biennale Arte. —Latika Gupta

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No Moon Tonight, 1974 Ordito: cotone grezzo; trama: cotone grezzo, lana tinta a più colori, 180 × 93 cm. Photo JUDDartINDEX. Collezione Lorenzo Legarda Leviste e Fahad Mayet.

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Muro tejido terruño 3, 1969 Lana, 210 × 137 cm. Courtesy Lisson Gallery. © Olga de Amaral.

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Abakanowicz, Sheila Hicks e Lenore Tawney. Questa mostra ha contribuito in modo significativo alla rivalutazione della Fiber Art come importante luogo di indagine artistica, respingendo la frequente associazione con manodopera e uso e riconoscendo invece questi elementi come parte del potenziale creativo del mezzo. Muro tejido terruño 3 (1969) è un primo esempio della sperimentazione formale di Amaral con il tessuto come scultura. Utilizzando registri multipli di fili verticali avvolti a spirale, intrecciati e legati insieme, Amaral modula la superficie, la profondità e lo

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spazio negativo per creare una struttura pulsante che appare allo stesso tempo architettonica e organica. Nella loro disposizione ritmica, i fasci di corde raggruppate e distanziate a intervalli sembrano racchiudere una metrica subliminale o tattile, evocando la pratica incaica dell’annotazione attraverso l’annodamento e il raggruppamento delle fibre su un quipu. —Sybilla Griffin NUCLEO STORICO • ASTRAZIONI

Olga de Amaral è una figura chiave dell’avanguardia che ha contribuito alla crescente accettazione della Fiber Art come legittima e importante categoria della pratica artistica, degna di attenzione critica. Mentre molti dei suoi contemporanei europei e americani citavano i tessuti andini come influenze nel loro approccio alla fibra, il lavoro di Amaral fonde osmoticamente forme elementari, processi precolombiani e una sensibilità post-minimalista attraverso l’intuizione piuttosto che tramite una dichiarata intenzionalità. Dopo la formazione in progettazione architettonica a Bogotá, nel 1952 lascia la Colombia per studiare tessitura alla Cranbrook Academy of Art nel Michigan, Stati Uniti, dando inizio a un periodo di viaggi creativamente fecondi attraverso gli Stati Uniti e l’Europa. Nei sei decenni successivi, il lavoro di Amaral ha continuato a espandersi in termini di portata e ambizione, e rimane una delle artiste colombiane più prolifiche oggi operanti. Nel 1969, l’opera di Amaral è presente in Wall Hangings al Museum of Modern Art di New York, che comprendeva anche sculture tessili di Magdalena

BOGOTÁ, COLOMBIA, 1932 VIVE A BOGOTÁ

STRANIERI OVUNQUE

Olga de Amaral

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Saliba Douaihy

Saliba Douaihy nasce nel 1915 a Ehden, nel Libano settentrionale, e fin da giovane rivela un talento artistico; la sua carriera si sviluppa tra il Libano, Parigi e New York. A quattordici anni si trasferisce a Beirut ed entra a bottega dal pittore Habib Srour che assiste nell’esecuzione di grandi dipinti murali per le chiese. Nel 1932, a diciassette anni, la comunità di Ehden raccoglie i fondi necessari per mandarlo a Parigi a studiare all’École Nationale Supérieure des Beaux-Arts. Studia pittura a olio per due anni ed espone al Salon des Artistes Français. Rientrato in Libano nel 1936, nel 1947 ottiene un incarico di docenza in una scuola locale, che svolge parallelamente alla propria attività di pittore. Nel 1950, si trasferisce negli Stati Uniti, dove espone nel padiglione del Libano all’Esposizione Universale di New York, al Philadelphia Museum of Art (1952) e al Guggenheim Museum (1967). Gli incarichi ricevuti dalle chiese a Beirut hanno inciso sulle opere astratte che Douaihy avrebbe sviluppato e dipinto in un momento successivo della sua carriera. Regeneration (1974) è un ottimo esempio dello stile “flat” e minimalista a cui Douaihy giunge dopo alcuni anni di vita e attività a New York. Ispirato da Joseph Albers, riduce tutte le forme a linee semplici ma forti. I

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suoi dipinti, a partire dai primi anni Sessanta – caratterizzati da linee che si incontrano in modo netto e preciso – si concentrano sull’esplorazione dei temi relativi alla forma e allo spazio, alludendo ai paesaggi del paese d’origine nelle linee e nelle bande orizzontali di colore che percorrono alcuni dei suoi quadri. Il cielo, i campi lontani, gli alberi e le montagne sono suggeriti ma

EHDEN, LIBANO, 1915 – 1994, NEW YORK, USA

M a d u il c p S in s a S P e e in d s a c m a le in N in in E p li r ( e 1 t 2

mai esplicitamente disegnati. Si ritiene che abbia tratto ispirazione anche dalla forma lineare dell’architettura religiosa e dall’iconografia cristiana. L’opera di Saliba Douaihy è esposta per la prima volta alla Biennale Arte. —Heba Elkayal

Regeneration, 1974 Acrilico su tela, 152 × 202 cm. Photo Justin Piperger. Courtesy Taimur Hassan Collection.

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Mohammad Ehsaei è un acclamato artista, calligrafo, designer e docente, nonché uno dei primi ad adottare il naqqashi-khat (pittura calligrafica), un approccio alla pittura modernista degli anni Sessanta che faceva un uso innovativo delle tradizionali scritture persiane. È spesso associato ad artisti iraniani Saqqa-Khaneh quali Faramarz Pilaram, Hossein Zenderoudi e Parviz Tanavoli, i cui dipinti e sculture degli anni Sessanta inglobavano elementi popolari dell’iconografia musulmana sciita. I dipinti di Ehsaei attingono alla sua formazione classica in calligrafia nas’taliq, ma ne enfatizzano l’astrazione, aggrovigliando le forme delle lettere persiane in gereh (nodi) indecifrabili e spesso colorati. Non tutto il suo lavoro è indecifrabile: una serie in corso iniziata negli anni Settanta, Eternal Alphabet, presenta parole e frasi derivate dalla liturgia musulmana. Ha anche realizzato murales pubblici (Università di Teheran, 1977 e Museo Nazionale dell’Iran, 1986) e manoscritti di calligrafia tradizionale (il Divān di Hafez, 2010 e il Corano, 2021).

QAZVIN, IRAN, 1939 VIVE A TEHERAN, IRAN, E VANCOUVER, CANADA

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Mohammad Ehsaei L’opera senza titolo del 1974 di Ehsaei è una delle sue prime astrazioni calligrafiche, creata poco dopo la laurea all’Università di Teheran, dove – mentre era ancora studente – è stato uno dei fondatori del dipartimento di Grafica. La vivace tavolozza e le campiture piatte sono insolite rispetto ai lavori successivi, così come il grado di allontanamento dalle forme calligrafiche tradizionali. Le curve ritmiche, i ripetuti tratti verticali e i punti romboidali creano un forte rimando alla scrittura persiana, senza tuttavia formare parole leggibili. Ehsaei ha parlato di questa inaccessibilità come di una critica agli abusi storici del linguaggio, al modo in cui la scrittura è spesso al servizio dei potenti, sia nei documenti legali sia nella storiografia. L’illeggibilità è anche un invito a impegnarsi: “Gli spettatori che parlano la lingua potrebbero trovare qui o là una parola che riescono a leggere, quindi continueranno a cercare il resto, ma non lo troveranno mai. Ed è proprio questa ricerca il mio obiettivo”. L’opera di Mohammad Ehsaei è esposta per la prima volta alla Biennale Arte.

Untitled, 1974 Olio su tela, 120 × 79 cm. Courtesy l’Artista.

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STRANIERI OVUNQUE

—Media Farzin

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Samia Halaby

GERUSALEMME, PALESTINA, 1936 VIVE A NEW YORK, USA

Samia Halaby, nata a Gerusalemme e attualmente residente a New York, è una pittrice astratta, un’accademica ed ex docente. Prima donna a ricoprire l’incarico di professore associato alla Yale School of Art dal 1972 al 1982. Ha studiato arte negli Stati Uniti e da tempo è attiva come artista, attivista e docente negli Stati Uniti e in Medio Oriente. Trasferitasi in Libano nel 1948 a seguito della creazione di Israele, Halaby ha prodotto opere figurative legate al proprio attivismo politico per i movimenti di liberazione palestinesi. Nota principalmente per il suo stile astratto, cita i principi del Costruttivismo russo, dell’architettura islamica e dell’arte tradizionale mediorientale quali elementi fondanti della sua pittura. Riporta inoltre i ricordi d’infanzia in Palestina come punti d’ispirazione per elementi compositivi e motivi astratti quali il sole, il cielo e il paesaggio. L’interesse per la tecnologia la porta, all’inizio degli anni Ottanta, a realizzare dipinti generati dalla macchina, simulati con un computer Amiga. Il dipinto Black is Beautiful (1969) fa parte di un corpus di opere realizzate per esplorare i limiti del vedere gli oggetti così come sono, un’abitudine, secondo l’artista, autoritariamente trasmessa dal mondo accademico. In questo dipinto, Halaby esplora la prospettiva, incoraggiando l’osservatore a esaminare i bordi arrotondati. Il dipinto porta l’occhio a considerare i profili stondati della forma a croce. Quando questo si posa sul bordo liminare della curva, è invitato a soffermarsi:

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lo sguardo è trattenuto da punti specifici della tela. L’esplorazione della forma, della sagoma e della qualità sfumata dei bordi è intellettualmente motivata, dando vita a un dipinto astratto che aderisce all’indagine condotta dall’artista sugli elementi formali e concettuali dell’arte astratta. L’opera di Samia Halaby è esposta per la prima volta alla Biennale Arte. —Heba Elkayal

Black is Beautiful, 1969 Olio su tela, 167,5 × 167,5 cm. Courtesy l’Artista; Sfeir-Semler Gallery, Beirut e Amburgo.

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Harmonie, 1969 Acrilico su tela, 158 × 99 cm. Photo Maria e Mansour Dib. Courtesy Ramzi e Saeda Dalloul Art Foundation.

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Harmonie (1969) – per i colori rossastri, la composizione, il bordo dipinto che incornicia il quadro e il rombo al centro – viene spesso citato come prova dell’ispirazione che Hamidi trae dai tappeti marocchini. Le pennellate visibili aggiungono all’opera una trama intenzionale e trasmettono la sensazione lanosa e tattile di un tappeto. Con il sapiente uso del colore, riesce a creare luci e ombre in qualsiasi sezione desideri, dando origine a una composizione visivamente piacevole, simile a un collage. Anche se i cerchi non si riscontrano tipicamente nelle tessiture tradizionali, qui potrebbero anticipare

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in modo sottile l’erotismo presente nelle opere più tardive. Inoltre, potrebbero essere letti anche come decostruzione della fusione lineare fra il tradizionale tratto dentellato delle tessiture marocchine e le forme ondulate impiegate dai membri del movimento della Scuola di Casablanca. Queste ondulazioni diventeranno in seguito motivo ricorrente in tutte le opere del gruppo. L’opera di Mohamed Hamidi è esposta per la prima volta alla Biennale Arte. —Fadia Antar

NUCLEO STORICO • ASTRAZIONI

Mohamed Hamidi inizia il proprio percorso artistico all’École des Beaux-Arts di Casablanca e in seguito esplora Parigi, immergendosi nei suoi movimenti artistici e musei, iscrivendosi a istituti d’arte e diplomandosi all’École Supérieure des Beaux Arts. Una volta tornato a Casablanca, nel 1966, Hamidi aspira a rafforzare il proprio legame con le tradizioni dell’arte popolare marocchina e a riconoscerne i valori estetici. La brillante interazione fra i colori con cui gioca, gli effetti ottici creati con spazi positivi e negativi e le variopinte astrazioni, rese con ampie campiture cromatiche e forme geometriche nette, alludono talvolta ai tappeti marocchini e in alcune istanze assumono forme implicitamente erotiche. A partire dal 1969, Hamidi si inoltra nell’esplorazione della sensualità che lo porta a realizzare i suoi iconici dipinti incentrati sull’eros, dalle forme che si compenetrano, e per i quali è maggiormente noto. Hamidi continua tuttora la propria audace e giocosa produzione artistica.

CASABLANCA, MAROCCO, 1941 VIVE AD AZEMMOUR, MAROCCO, E CASABLANCA

STRANIERI OVUNQUE

Mohamed Hamidi

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Carmen Herrera

L’AVANA, CUBA, 1915 – 2022, NEW YORK, USA

Carmen Herrera è un’artista statunitense di origine cubana le cui geometrie minimaliste hanno aperto nuovi orizzonti nella storia dell’astrazione mondiale. Nata e cresciuta a L’Avana in una famiglia benestante, in gioventù ha vissuto tra Francia e Cuba, studiando arte, storia dell’arte e architettura a L’Avana, New York e Parigi. Dopo il matrimonio con Jesse Loewenthal nel 1939, Herrera si trasferisce a New York. La sua pratica trova un impulso fondamentale durante il periodo trascorso nei circoli artistici della Parigi del dopoguerra. Nel 1954 l’artista si stabilisce definitivamente a New York e affina i suoi caratteristici giochi di colore, la simmetria e la percezione fino alla morte, avvenuta nel 2022. Raggiunti gli ottant’anni, l’artista è stata ampiamente riconosciuta per lo stile rarefatto e la disciplinata sensibilità affinata nel corso di decenni. Il sincopato ritmo visivo di Untitled (Halloween) (1948), realizzato durante gli anni formativi di Herrera nella Parigi del dopoguerra, è un primo esempio del rigoroso linguaggio minimalista per cui l’artista sarebbe poi diventata famosa. Durante la permanenza a Parigi dal 1948 al 1956, Herrera è stata esposta a vari stili di astrazione – risalenti a tradizioni europee, latinoamericane e sudamericane – che filtrano nella sua pratica in evoluzione. I dipinti di questo periodo, data la scarsità di materiali dell’epoca, sono spesso realizzati su tela da imballaggio con colori acrilici; Herrera è stata la prima artista

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a utilizzare questo supporto in Europa. In questo dipinto, l’economia di curve e linee produce un campo di forme reattive e colori contrastanti, un gioco di alternanza di sagome arancioni e nere. Composte all’interno di una forma ovale squadrata, queste scelte offrono un esercizio pittorico di ritmo e variazione, evocando al contempo la festività che dà il nome al dipinto. L’opera di Carmen Herrera è esposta per la prima volta alla Biennale Arte. —CJ Salapare

Untitled (Halloween), 1948 Acrylic on burlap, 96,5 × 123,2 cm. Collezione privata. © Estate di Carmen Herrera.

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Composition in Red, Green and Yellow, 1963 Olio su tela, 91 × 71,5 cm. Photo Justin Piperger. Courtesy Collezione Taimur Hassan.

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Composition in Red, Green, and Yellow (1963) fa parte della serie Square Compositions, iniziata nel 1963. Colori vibranti e tonalità di nero danno vita a forme e motivi ritmici. L’opera è composta da mezzelune, semicerchi e cerchi incastrati in unità quadrate e rettangolari. Tuttavia, nonostante l’apparente ripetitività, la disposizione a griglia offre molte variazioni. Le linee sono inoltre imperfette, cedevoli e irregolari, e la resa è volutamente disomogenea, sottolineando così il carattere artigianale della composizione. Ribaltando le convenzioni del minimalismo, la pittura di Shemza è intrisa, come nel

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caso delle serie Meem e Roots, di sottili riferimenti culturali, a cominciare dall’uso costante dell’urdu per datare e firmare le sue opere geometriche. L’opera di Anwar Jalal Shemza è esposta per la prima volta alla Biennale Arte. —Devika Singh

NUCLEO STORICO • ASTRAZIONI

Anwar Jalal Shemza – attivo sia in ambito artistico che letterario – ha pubblicato romanzi in urdu e curato il periodico Ehsas. All’inizio degli anni Cinquanta è stato anche membro fondatore del Circolo artistico di Lahore, che ha aperto la strada all’arte moderna in Pakistan. Nel 1956 si reca a Londra dove studia presso la Slade School of Fine Art. Pur essendo produttivo, questo primo periodo nel Regno Unito provoca in lui una crisi non solo artistica. “La ricerca era quella della mia identità”, ha spiegato in seguito. Dopo aver tentato di stabilirsi di nuovo in Pakistan nel 1960 per contribuire all’educazione artistica del paese, torna in Gran Bretagna e si trasferisce nelle West Midlands, dove accetta un posto di insegnante. La notevole opera di Shemza ha contribuito allo sviluppo dell’arte pakistana e alle forme transnazionali di Modernismo.

SHIMLA, INDIA, 1928 – 1985, STAFFORD, REGNO UNITO

STRANIERI OVUNQUE

Anwar Jalal Shemza

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Mohammed Kacimi

Mohammed Kacimi è stato pittore, poeta, docente, intellettuale e attivista politico. Ha iniziato a dipingere nell’ambito del programma Open Workshops promosso dal Ministero della Gioventù e dello Sport marocchino e diretto da Jacqueline Brodskis. Frequenta per un breve periodo l’Università di Fez e l’École nationale superiéure des Beaux-Arts di Parigi prima di perseguire una formazione nomade, viaggiando a lungo in Europa, Nord Africa e Asia occidentale e stringendo amicizia con molti artisti, letterati e intellettuali di spicco. Questa esperienza all’estero, unita al clima politico repressivo del Marocco durante il regno di re Hassan II, segna la sua lunga e variegata carriera artistica, in cui i confini fra modalità figurativa e astratta risultano sfumati. La sua opera rivela l’attenzione per le politiche di libertà, decolonizzazione, segni e marcature, rappresentazioni del corpo, slittamenti tra visibilità e invisibilità, e per i materiali. Ha prodotto anche sculture, grafica, installazioni site-specific, ceramiche e arte pubblica.

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Nomadic Signs – Abstract composition (1979) gioca tra astrazione geometrica e rappresentazione corporea. Il forte uso di linee curve e di campiture piatte di colori non modulati evoca segni, motivi e simboli. Allo stesso tempo, le forme geometriche sembrano assumere la sembianza di braccia umane, una proveniente dall’angolo in basso a destra e l’altra dall’angolo in alto a sinistra; le braccia potrebbero entrare in contatto nell’area circolare centrale, stringendosi la mano, ma ciò è oscurato e lasciato ambiguo. Il dipinto gioca con i concetti di spazio positivo e negativo e con il rapporto figura/sfondo, dove il color guscio d’uovo dello sfondo spezza le forme che compongono le braccia. Il titolo fa riferimento alle esperienze nomadi di Kacimi

MEKNES, MAROCCO, 1942 – 2003, RABAT, MAROCCO

durante i suoi viaggi e al suo interesse per i segni come sistemi di comunicazione. In questo particolare periodo risuona l’opera di Jewad Selim, vista dall’artista nelle mostre del Modernismo iracheno a Baghdad, Beirut e Londra. L’opera di Mohammed Kacimi è esposta per la prima volta alla Biennale Arte. —Riad Kherdeen

Nomadic Signs - Abstract composition, 1979 Olio su tela, 75,5 × 116 cm. Photo Maria e Mansour Dib. Courtesy Ramzi e Saeda Dalloul Art Foundation.

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Acervo 290, concreto 18, 1954 Smalto su pannello, 72 × 60 cm. Photo Sergio Guerini. Collezione privata. Courtesy Almeida & Dale Galeria de Arte. © Sergio Guerini.

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Qui lavora con la relazione tra forme e piani di colore, sviluppando complesse strutture a partire da figure semplici, ripetute in modo sistematico. La combinazione di elementi a volte scompone le figure e altre volte crea nuovi poligoni e strutture più organiche, generando ritmo e dinamismo sulla tela. Il triangolo e il rombo occupano una posizione centrale, svolgendosi e ripresentandosi in modi diversi, conferendo così un carattere discreto ed elegante al movimento interno della composizione. Questa dinamica matematica viene

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stemperata dall’uso dei colori e dal loro contrasto, insieme alla presenza solitaria di un unico cerchio in basso a destra, che crea un insospettato punto di fuga in un’operazione formale tipicamente lauandiana. L’opera di Judith Lauand è esposta per la prima volta alla Biennale Arte. —Fernando Olivia

NUCLEO STORICO • ASTRAZIONI

Judith Lauand – figlia di immigrati libanesi – trascorre l’infanzia e la giovinezza ad Araraquara, importante centro economico e culturale nella campagna intorno a San Paolo. Nel 1952 si trasferisce nella capitale dello Stato e, insieme a Waldemar Cordeiro, Geraldo de Barros e altri, è l’unica donna attiva nel pionieristico Grupo Ruptura, il cui manifesto del 1952 pone le basi per il Concretismo in Brasile. Nella sua fase figurativa e pop degli anni Sessanta, si sofferma su questioni politiche legate alla violenza, alla sessualità, alla sottomissione e alla libertà femminile, affrontando i temi della repressione attuata dalla dittatura militare in Brasile, della guerra del Vietnam e della condizione delle donne nella società brasiliana. Acervo 290, concreto 18 (1954) appartiene agli inizi della sperimentazione concretista di Lauand, quando l’artista ha già accantonato gli esordi accademici e figurativi.

PONTAL, BRASILE, 1922 2022, SAN PAOLO, BRASILE

STRANIERI OVUNQUE

Judith Lauand

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Esther Mahlangu

A ottantotto anni, la leggendaria Esther Mahlangu ha più anni della Repubblica del Sudafrica ed è stata testimone della dissoluzione dell’apartheid. La sua particolare e prolifica carriera artistica diviene simbolo della resilienza della cultura ndebele, che l’artista ha celebrato e preservato. Mahlangu ottiene un riconoscimento a livello internazionale nel 1989, dopo aver ricreato le intricate pitture degli esterni della sua casa rurale di Mpumalanga per l’esposizione anti-etnocentrica di arte contemporanea al Centre Pompidou, Magiciens de la Terre. Da allora espone in tutto il mondo, ma l’arte di Mahlangu non si limita mai al solo spazio della galleria. Dalla creazione della prima South African Art Car per la prestigiosa serie di BMW nel 1991, i dipinti geometrici di Mahlangu abbelliscono gli oggetti più disparati, dalle lattine di tè rooibos alle scarpe da ginnastica di lusso, fino alla coda di un jet Boeing, continuando ad adornare la casa in cui insegna le tecniche ndebele di pittura, scultura e lavorazione delle perline.

Untitled (1990) rappresenta uno dei primi esempi della tipica trasposizione operata da Mahlangu delle tecniche ndebele per dipingere gli edifici su superfici nuove, molto spesso delle tele. Mahlangu dipinge secondo l’usanza ndebele, appresa da sua madre e da sua nonna fin dall’età di dieci anni: a mano libera, senza righelli né schizzi preparatori e con un pennello di piume di gallina, preferendo le linee rette e l’equilibrio compositivo. Anche se condizionate dalla tela, le forme brillanti e le linee di un bianco intenso con spessi contorni neri evocano la simmetria e la ripetizione

MIDDELBURG, SUDAFRICA, 1935 VIVE IN MPUMALANGA, SUDAFRICA

E d M p d u u s p li a a s n P p c B s n d d s p p F 1 c la N a d d

dei vasti murales astratti ndebele, nonché un senso di movimento contraddittorio dato dall’accumularsi di forme angolari e motivi. Pur accennando alle tenui tonalità della terra, tradizionalmente create impastando argilla, terriccio e sterco di vacca, i colori piatti e decisi di quest’opera mettono più in risalto le tonalità blu e viola e le sfumature vibranti apprese da Mahlangu nell’infanzia e che continuano a caratterizzare il suo stile. L’opera di Esther Mahlangu è esposta per la prima volta alla Biennale Arte. —Ruth Ramsden-Karelse

BIENNALE ARTE 2024

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Untitled, 1990 Acrilico su tela, 123 × 190 cm. Photo Maurice Aeschimann. The Jean Pigozzi African Art Collection. Courtesy The Jean Pigozzi African Art Collection.

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L’affiliazione di Mancoba agli artisti danesi di Linien e la sua visita al British Museum, dove studia una collezione di maschere centroafricane, determinano la sua virata verso il linguaggio della pittura e verso l’astrazione. Nella parte superiore di Composition si nota un caratteristico motivo romboidale, abbinato a una V e a ripetuti zig-zag. L’insieme ricorda in modo sorprendente le maschere a elmo (Bwoom) dei Kuba del Congo. Si ritiene che l’artista abbia potuto osservare questa tipologia di maschere proprio al British Museum. Composition viene creato otto anni prima della sua adesione al collettivo artistico internazionale CoBrA. Nel suo stile astratto, è evidente che Mancoba ha già abbandonato le rappresentazioni realistiche tipiche dei suoi primi lavori scultorei, prodotti prima di lasciare il Sudafrica. L’opera di Ernest Mancoba è esposta per la prima volta alla Biennale Arte. —Zamansele Nsele

Composition, 1940 Olio su tela, 59 × 50,5 cm. Collezione privata.

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STRANIERI OVUNQUE

Ernest Mancoba, discendente del popolo migrante degli Mfengu, è figlio di un predicatore e minatore e di un’insegnante. Riceve un’istruzione anglicana presso una missione e in seguito scopre il proprio talento per la scultura. Dinanzi alle limitate prospettive per un artista nero in Sudafrica, dopo avere ottenuto una borsa di studio e conseguito la laurea nel 1937, Mancoba parte per Parigi e Londra, dove rimane profondamente colpito dalle collezioni di arte africana del British Museum. In Francia studia scultura presso l’École nationale supérieure des arts décoratifs e si lega ai compagni danesi che condividono il suo status di outsider e l’interesse per l’arte africana. Questi gli presentano la scultrice Sonja Ferlov, che l’artista sposa nel 1942 mentre è prigioniero in un campo di internamento durante la Seconda guerra mondiale. Nel 1948 è già membro attivo, sebbene emarginato, del collettivo artistico d’avanguardia CoBrA.

JOHANNESBURG, SUDAFRICA, 1904 – 2002, CLAMART, FRANCIA

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Ernest Mancoba

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María Martorell

María Martorell – artista originaria della tradizionale provincia di Salta, nel nord dell’Argentina – inizia a dedicarsi alla pratica artistica dopo i trentatré anni. A partire dalla metà degli anni Quaranta si reca spesso a Buenos Aires, dove il contatto con la nuova avanguardia astratta la porta gradualmente ad allontanarsi dal lavoro figurativo caratteristico dei suoi esordi, interessandosi in particolare ai principi del gruppo Arte Concreto-Invención, guidato da Tomás Maldonado. Nel 1952 si reca a Madrid e poi a Parigi, dove studia alla Sorbona. Dopo il ritorno in Argentina, la sua opera riflette l’influenza degli studi in Francia, in particolare la sociologia dell’arte e la psicologia della percezione. La sua ricerca e il suo interesse per la sintassi del colore e lo sviluppo delle forme nello spazio si dimostrano costanti. A metà degli anni Sessanta apre un laboratorio di ricerca e design tessile nella nativa Salta. Gli arazzi che progetta e realizza con le donne del luogo testimoniano il suo tentativo di far convivere l’iconografia ancestrale e la geometria contemporanea.

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Nonostante l’economia dei colori, le forme esagonali dei dipinti di Martorell della fine degli anni Cinquanta producono un senso di tridimensionalità. Queste forme lasciano il posto prima alle ellissi e poi alle bande ondulate caratteristiche del suo lavoro a partire dalla metà degli anni Sessanta. In quegli anni inizia a produrre in serie, una scelta indubbiamente dettata dall’ammirazione per Josef Albers. Inoltre, amplia la sua tavolozza e ricorre a configurazioni come il dittico e il trittico. Realizzato nel 1968, il dittico Ekho Dos fa parte di una serie più ampia che porta

SALTA, ARGENTINA, 1909-2010

lo stesso nome. In questo dipinto, onde dinamiche di colori vibranti si muovono sullo sfondo monocromo generando deviazioni sulla superficie. Le onde si estendono fino al bordo del telaio, producendo un effetto di ritmo e movimento e un generale senso di calma. L’opera di María Martorell è esposta per la prima volta alla Biennale Arte. —Sonia Becce

M A n d m p S N T s ( d R la Y p E a F G d p s e in c d a

Ekho Dos, 1968 Olio su tela, 170 × 160 cm. Photo Otilio Moralejo. Collezione Museo de Artes Plásticas Eduardo Sívori, Buenos Aires, Argentina. Courtesy Museo de Artes Plásticas Eduardo Sívori, Buenos Aires, Argentina. © Otilio Moralejo.

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diversificare gli orientamenti di questi simboli, l’artista dà vita a composizioni dinamiche e ritmiche. Melehi si è spento a Parigi nel 2020. Nelle sue opere, Melehi incorpora le onde; queste a volte assumono la forma di parti del corpo umano o esplodono verso l’alto, come un magma, altre volte sono del tutto astratte e decostruite. Tuttavia, all’origine, queste onde sono l’interpretazione dell’artista di prodotti tribali noti come tappeti Glaoui, realizzati con un’ampia gamma di tecniche tessili a formare fasce su trame piatte allungate, comuni nella tradizione tribale amazigh. Sin dal 1970 Melehi inizia a usare la vernice per auto a base di cellulosa per applicare colori piatti e brillanti alle superfici in legno. Nell’intento di ottenere piattezza di composizione e

una sottile assenza dell’artista, non lascia pennellate visibili sulle sue opere. In Composition (1968), si avvicina alla piattezza desiderata anche utilizzando la pittura a olio su tela. La deliberata manipolazione di continuità e discontinuità nel dipinto da parte dell’artista coinvolge lo spettatore in un’esperienza giocosa: può scegliere di seguire il flusso vibrante dell’onda da un lato all’altro o di guardare l’intera immagine, abbracciandone il movimento animato e il rapimento visivo.

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L’opera di Mohammed Melehi è esposta per la prima volta alla Biennale Arte. -Fadia Antar

Composition, 1968 Olio su tela, 89,8 × 199,6 cm. Photo Hamad Yousef. Courtesy Mathaf: Arab Museum of Modern Art, Doha, Qatar.

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NUCLEO STORICO • ASTRAZIONI

Mohamed Melehi – nato ad Asilah, nel nord del Marocco, nel 1936 – è stato cofondatore della Scuola di Casablanca, movimento d’arte moderna post-coloniale degli anni Sessanta. Diplomato all’Istituto Nazionale di Belle Arti di Tetouan nel 1956, prosegue gli studi a Siviglia, Madrid e Roma (1956-1960). Grazie a una borsa di studio della Fondazione Rockefeller, studia poi presso la Columbia University di New York (1962-1964). Nel 1963 prende parte alle mostre Hard Edge and Geometric Painting and Sculpture al MoMA e Formalists alla Washington Gallery of Modern Art. Ispirato dalla vivace spiritualità della propria tradizione, Melehi si dedica a forme astratte e geometriche, integrando inoltre nelle sue opere tratti calligrafici arabi e una serie di elementi simbolici, come arcobaleni, fiamme e onde. Nel

ASILAH, MAROCCO, 1936 – 2020, PARIGI, FRANCIA

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Mohamed Melehi

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Tomie Ohtake

Tomie Ohtake arriva a San Paolo da Kyoto nel 1936, nel corso della terza grande fase di emigrazione giapponese verso il Brasile. Madre di due figli, nel 1952 Ohtake prende le prime lezioni di pittura e si unisce al Seibi, un gruppo di artisti di origine giapponese formatosi nel 1935 e attivo fino al 1970. Nel 1957 il critico Mário Pedrosa, suo amico di lunga data e portavoce, la invita a tenere la sua prima mostra personale al Museu de Arte Moderna de São Paulo. Mentre i primi lavori sono costituiti per lo più da paesaggi naturali o urbani, a partire dal 1959 l’artista si dedica all’astrazione, collocandosi vicino alle tendenze più vivaci come il Concretismo e il Neoconcretismo, che dominavano la produzione d’avanguardia in Brasile. La prima serie di tele astratte – denominata Blind Series, perché le dipingeva bendata – ottiene immediati consensi per la ricchezza di stratificazioni, texture e sorprendenti cromatismi, tratti che ancor oggi caratterizzano la sua pratica.

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Coltivando intenzionalmente l’immagine di persona riservata, Ohtake ha lasciato tutte le sue opere senza titolo, evitando inoltre di offrirne qualsiasi interpretazione in pubblico o in privato. Un attento esame della sua tecnica e preparazione, tuttavia, ci dice molto molto sul suo processo creativo. Questa astrazione senza titolo del 1978, ad esempio, rivela chiaramente un punto di svolta nella sua produzione, riconducibile ai primi anni Settanta, quando si allontana da uno stile espressionista per approdare a composizioni grafiche e ottiche caratteristiche della pittura a contrasti netti. In questo periodo, Ohtake sperimenta

KYOTO, GIAPPONE, 1912 – 2015, SAN PAOLO, BRASILE

la serigrafia e utilizza ritagli di riviste e altri materiali per realizzare studi preparatori per le sue tele. I vivaci accostamenti cromatici delle sue opere hanno anche favorito inaspettati accostamenti ad artisti quali Claudio Tozzi e Antônio Henrique Amaral – associati in particolare alla Pop Art e alla nuova figurazione –, con i quali nel 1977 ha condiviso una mostra alla Galeria Alberto Bonfiglioli di San Paolo. Potremmo osservare la potente corporeità dell’opera di Ohtake anche solo nelle semplici dimensioni e nella vivacità cromatica. —Sofia Gotti

Untitled, 1978 Acrilico su tela, 124,8 × 134,8 × 3,3 cm. Photo Erika Mayumi. Courtesy Estate dell’Artista e Nara Roesler.

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strutture più elementari. Eppure l’artista – che dipinge spesso paesaggi – continua a fare riferimento alla natura e agli oggetti tangibili, e solo negli anni Cinquanta tronca definitivamente la relazione fra il proprio lavoro e il mondo esterno, rivolgendo l’attenzione soprattutto alla forma. Si presume che Abstracto (s.d.) sia caratteristico della produzione in quel periodo. Nel quadro, le forme arrotondate e organiche e le tonalità di viola, azzurro, verde e color crema

Abstracto, s.d. Olio su tela, 110 × 90 cm. Courtesy Proyecto Bachué, Colombia.

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Marco Ospina è stato pittore, scrittore e grafico, ha insegnato alla Facultad de Artes dell’Universidad Nacional de Colombia per quarant’anni e alla Escuela de Bellas Artes, di cui è stato anche direttore nel 1948. È stato a lungo considerato una “figura di transizione” fra l’accademismo figurativo e il Modernismo, tuttavia una nuova analisi della sua opera dimostra che in realtà si tratta di un pioniere dell’astrazione. Nel 1947 partecipa al nazionale Salón de artistas jóvenes con un quadro considerato fra le prime opere che si avvicinano all’astrazione in tutta la storia della Colombia. Lo stesso anno pubblica El arte de la pintura y la realidad, un testo fondamentale che difende l’arte non figurativa da un ecosistema conservatore che vede l’astrazione come “importata” e non colombiana. Nel 1955 Ospina prende parte alla prima collettiva sull’astrazione del paese e contribuisce con un saggio al catalogo della mostra. Negli anni Ottanta si trasferisce in Messico, dove lavora e risiede negli ultimi anni della sua vita. Negli anni Quaranta, man mano che si affievolisce l’influenza di uno stile figurativo indigenista, molti pittori colombiani iniziano a cimentarsi con un linguaggio pittorico più astratto. Di conseguenza, nell’opera di Ospina si evidenzia una riduzione di linee e forme a favore di

BOGOTÁ, COLOMBIA, 1912–1983

sono interrotte bruscamente e in modo netto da una linea, che delimita così tre sezioni distinte. La prospettiva è molto meno profonda rispetto ai lavori precedenti, diventando bidimensionale: una caratteristica fondamentale dell’astrazione. L’opera di Marco Ospina è esposta per la prima volta alla Biennale Arte. —Diego Chocano

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Marco Ospina

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Samia Osseiran Junblatt

SAIDA, LIBANO, 1944 VIVE A BRAMIYEH, LIBANO

Samia Osseiran Junblatt si è immersa nella teoria dell’arte occidentale in Europa per poi recarsi in Oriente a esplorare una filosofia completamente diversa, incentrata sulla potenza attraverso la semplicità e la precisione. Si trasferisce a Firenze per conseguire il master in Belle Arti presso il Rosary College Pio XII, diplomandosi nel 1967; nel 1975, consegue invece la laurea in Arte Grafica presso l’Università di Belle Arti di Tokyo. L’artista combina complessità e semplicità nelle linee delle sue opere, infondendovi una cruda spiritualità caratteristica della scena artistica femminile della Beirut degli anni Sessanta. La recente esplosione di creatività di Osseiran riesamina i temi e i periodi attraversati nel corso della propria carriera. Con mano tremante, cerca di scoprire l’essenza della propria pratica.

In Sunset (1968) Osseiran dipinge un cammino lungo e stretto che percorre verticalmente la tela, lasciando spazio al sole che tramonta in un cielo circoscritto. Tra la moltitudine di linee che seguono la tradizionale prospettiva a punto di fuga centrale, una singola linea curva infrange l’illusione di perfezione. Questa sottile curvatura all’interno di una resa geometrica altrimenti rigida conferisce una sensazione animata al paesaggio astratto. Osseiran manipola abilmente la prospettiva e la geometria, immergendo lo spettatore in un’esperienza avvincente, in cui viene lasciato a chiedersi se ciò che vede sia solo un paesaggio. I toni terrosi sono allo stesso tempo vibranti e solidi. Il gioco di luci e ombre non proviene da un’unica fonte luminosa, come se ogni oggetto emanasse una propria luminosità. Il tramonto, che per sua natura è rapido e fugace, è in netto contrasto con il sentiero sottostante, dove il tempo stesso sembra indugiare. L’opera di Samia Osseiran Junblatt è esposta per la prima volta alla Biennale Arte. —Fadia Antar

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Sunset, 1968 Olio su tela, 109,5 × 69 cm. Photo Maria e Mansour Dib. Courtesy Ramzi e Saeda Dalloul Art Foundation.

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S.H. Raza nasce nelle zone rurali dell’India centrale e studia arte a Nagpur e Bombay, prima di trasferirsi a Parigi nel 1950 con una borsa di studio presso l’École Nationale Supérieure des Beaux-Arts. Il 1947 lo vede cofondatore dell’iconico Progressive Artists’ Group insieme a F.N. Souza e M.F. Husain, con l’obiettivo di sviluppare un linguaggio artistico moderno e internazionale per un’India divenuta da poco indipendente. Se le sue prime opere in Francia sono influenzate dagli stili europei, quali Impressionismo e Cubismo, a partire dagli anni Sessanta si reca spesso in India e i suoi viaggi nel paese danno il via alla fase successiva del suo lavoro, che distilla l’esperienza e la memoria dei paesaggi indiani, del colore e della luce, in composizioni sempre più astratte.

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MADHYA PRADESH, INDIA, 1922 – 2016, DELHI, INDIA

NUCLEO STORICO • ASTRAZIONI

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Sayed Haider Raza

n A partire dalla fine degli anni Settanta sviluppa un vocabolario visivo unico, con leitmotiv come quadrati, triangoli e cerchi in dipinti simbolici che rimandano alle tradizioni spirituali e filosofiche indiane. Offrande (1986) è un dipinto emblematico per l’opera di Raza, con una specifica gamma cromatica legata alla terra, fatta di ocra, verdi, terra d’ombra bruciata, rossi profondi e neri densi, memori del suolo arso dal sole e delle fitte foreste del Madhya Pradesh, dove è cresciuto. La composizione geometrica, con fasce di colore orizzontali e verticali e un triangolo invertito, attinge al simbolismo degli yantra – diagrammi

Offrande, 1986 Acrilico su tela, 100 × 100 cm. Courtesy Grosvenor Gallery, Londra.

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esoterici sacri. Essa dimostra anche l’intento dichiarato della ricerca dell’artista, “finalizzata all’ordine plastico puro, all’ordine delle forme […], alla tematica della natura”. I quadri di Raza sono esposti diffusamente in India, Europa, Giappone e Nordamerica, e inoltre a biennali internazionali a Dakar, Senegal (1992), Avana, Cuba (1987), São Paulo (1958) e Venezia (1954, 1956 e 1958). —Latika Gupta

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e.

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Freddy Rodríguez

La pratica pittorica di Freddy Rodríguez – nato nella Repubblica Dominicana – si muove attraverso diversi stili, quali l’astrazione geometrica e la figurazione espressiva, affrontando l’identità personale dell’artista e la sua storia di migrazione e spostamento. Rodríguez cresce durante il violento regime del dittatore

Rafael Trujillo e, temendo per la propria vita di giovane attivista, a diciotto anni emigra a New York, dove studia presso l’Art Students League e la New School for Social Research con l’espressionista astratto Carmen Cicero. Attingendo alla geometria dell’architettura newyorkese, alla storia dell’arte moderna e a scrittori

SANTIAGO DE LOS CABALLEROS, REPUBBLICA DOMINICANA, 1945 – 2003, NEW YORK, USA

latinoamericani come Julio Cortázar, Rodríguez sviluppa un corpus di opere diverse che combinano la cultura e la storia dei Caraibi ai riferimenti storici dell’arte occidentale. Il dipinto Mulato de tal (1974) prende il titolo dal romanzo del 1963 Mulata de tal (in italiano Mulatta senza nome), del premio Nobel guatemalteco Miguel Ángel Asturias, che racconta la storia di un povero contadino del Guatemala che fa un patto con il diavolo. Mulato de tal, come molti altri dipinti di questa serie, è stato inizialmente abbozzato con penna e matita colorata su carta millimetrata. L’opera fa riferimento a un mulato, un uomo di etnia mista, attraverso forme geometriche che suggeriscono un corpo in movimento. La tavolozza di colori caldi suggerisce una relazione tra terra e corpo, ma anche le tassonomie razziali che regolano la vita dominicana. Attraverso linee dinamiche e tratti gestuali, il dipinto allude ai ritmi della musica latina diventata popolare a New York negli anni Settanta. Un dipinto gemello intitolato Mulata de tal (1974) è andato perduto durante gli spostamenti dell’artista tra i Caraibi e New York. L’opera di Freddy Rodríguez è esposta per la prima volta alla Biennale Arte. —Carla Acevedo Yates

Mulato de tal, 1974 Acrilico su tela, 203,2 × 101,6 cm. Courtesy Hutchinson Modern & Contemporary. © Estate Freddy Rodriguez.

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Alla fine degli anni Sessanta, Sabri si interessa sempre più al rapporto tra arte e scienza. Influenzato dal testo di David Alfaro Siqueiros Towards a Transformation of the Plastic Arts (1934), il mutato approccio alla pittura di Sabri riecheggia le parole dell’artista messicano: “La nostra arte deve avere una vera base scientifica. [...] Per la prima volta nella storia, troveremo verità scientifiche che possono essere dimostrate, dal punto di vista fisico, chimico o psicologico. In questo modo, saremo in grado di creare un forte legame tra arte e scienza”. Nel 1971

Water (Quantum Realism Series), 1970 ca. Olio su tela, 87 × 87 cm. Collezione Barjeel Art Foundation, Sharja. Courtesy Barjeel Art Foundation, Sharja.

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Sabri pubblica un manifesto intitolato Quantum Realism, in cui chiede “l’applicazione del metodo scientifico nel campo dell’arte”. I suoi lavori successivi consistono in composizioni di colori che presentano una codificazione indicizzata della realtà, priva di figure e oggetti riconoscibili, come si può osservare nel suo dipinto Water (1970 circa). L’opera di Mahmoud Sabri è esposta per la prima volta alla Biennale Arte. —Suheyla Takesh

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A metà degli anni Quaranta, Mahmoud Sabri si laurea in scienze sociali alla Loughborough University nel Leicestershire, in Inghilterra. Nel 1947 – artista ancora in gran parte autodidatta – partecipa a una mostra presso l’ambasciata irachena a Londra, esponendo accanto a Hafidh al-Droubi, Jewad Selim, Fahrelnissa Zeid e molti altri che presto sarebbero diventati figure di spicco dell’arte moderna del Medio Oriente. Al suo ritorno in Iraq, Sabri si unisce al collettivo artistico Société Primitive, in seguito ribattezzato Pioneers Group, e lavora a stretto contatto con l’artista e insegnante Faik Hassan. Il principio guida del gruppo era quello di far uscire l’arte dallo studio e portarla nelle strade, dipingendo direttamente dall’ambiente circostante. Nel 1960 si reca a Mosca per studiare all’Istituto d’arte Surikov, sotto la guida del pittore realista socialista Aleksandr Deyneka, e nel 1963 si trasferisce a Praga, dove entra a far parte del Comitato per la difesa del popolo iracheno.

BAGHDAD, IRAQ, 1927 – 2012, MAIDENHEAD, REGNO UNITO

NUCLEO STORICO • ASTRAZIONI

Mahmoud Sabri

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Nena Saguil

Nena Saguil è stata una pittrice filippina nota soprattutto per le sue pionieristiche astrazioni cosmiche. Anziché soddisfare il desiderio della famiglia, che avrebbe voluto si iscrivesse a una scuola cattolica, Saguil sceglie di diventare pittrice e nel 1949 si laurea all’Università delle Filippine. Successivamente è attiva presso la Philippine Art Gallery, importante punto di riferimento per il Modernismo del dopoguerra, ottenendo consensi per le sue opere figurative e sviluppando al contempo un crescente interesse per l’astrazione. Nel 1954 ottiene una borsa di studio e parte per la Spagna e la Francia, dove studia l’arte astratta prima di stabilirsi a Parigi per i successivi quattro decenni. Qui conduce un’esistenza modesta e solitaria; spesso lavora come domestica per finanziare la propria attività artistica. La sua è una pratica quotidiana, meditativa, consistente nel disporre cerchi, globi e sfere in composizioni ipnotiche che collegano il mondo cellulare e quello celeste, riflettendo la sua spirituale visione degli schemi spesso invisibili alla base dell’esistenza quotidiana.

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Untitled (Abstract) (1972) evidenzia la sua proteiforme manipolazione di forme circolari a fini cosmici. Il cerchio è organizzato in vari modi sulla tela: piccoli punti in rilievo incrostano la superficie, circondano e spesso comprendono forme organiche più ampie, a loro volta raggruppate, concentriche e/o sovrapposte. All’interno di questa composizione, la forma è allo stesso tempo elemento primario, mezzo di relazione e struttura di controllo, il tutto reso in gradienti di colore

MANILA, FILIPPINE, 1914 – 1994, PARIGI, FRANCIA

con effetti disorientanti. Questa proliferazione rivela la porosità di vista, senso e scala ottenuta dal trattamento operato dall’artista: mentre la lettura dell’opera oscilla tra associazioni atomiche e planetarie, le singolari geometrie offrono possibili illuminazioni sui modelli alla base di piccoli e grandi mondi. L’opera di Nena Saguil è esposta per la prima volta alla Biennale Arte. —CJ Salapare

Untitled (Abstract), 1972 Olio su tela, 126,9 × 127,5 × 5,5 cm (con cornice). National Fine Arts Collection del National Museum of the Philippines. Courtesy Bengy Toda III e the National Museum of the Philippines.

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Pintura No. 9 (1969) è una delle opere che Sakai realizzò durante i suoi anni in Messico, quando entrò in contatto con artisti come Gunther Gerzso, Vicente Rojo, Mathias Goeritz e Carlos Mérida. In quel periodo Sakai cambiò gradualmente direzione, per passare dalle composizioni gestuali ad altre caratterizzate da forme geometriche angolari, intersecate con fasce e campiture di un colore intenso e saturo. Le variazioni nella consistenza e nella luminosità della sua pittura sono l’esito di una sperimentazione con la resina acrilica. L’artista ne applicava molteplici strati in

Pintura No.9, 1969 Acrilico su tela, 130 × 130 cm. Collezione Marina Pellegrini.

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Kazuya Sakai è stato artista visivo, designer, critico, traduttore e ricercatore operante alla congiuntura fra Oriente e Occidente. Esperto di musica contemporanea e di jazz, Sakai lavorò come docente universitario in Argentina, negli Stati Uniti e in Messico. Quando aveva sette anni, dalla natia Buenos Aires i genitori lo mandarono a Tokyo; tornato nella capitale argentina a ventitré anni iniziò a dipingere. L’astrazione geometrica fu il primo linguaggio visivo che adottò, prima di abbracciare l’Arte Informale. Dopo un breve periodo a New York, in coincidenza con l’apice della Pop Art, si stabilì a Città del Messico, dove è considerato un pioniere dell’arte geometrica. Sarebbe divenuto famoso come illustratore e critico di Plural, la rivista culturale fondata da Octavio Paz. Dopo essersi trasferito in Texas, nel 1977, la sua pittura iniziò a trarre ispirazione dalle sue radici asiatiche.

BUENOS AIRES, ARGENTINA, 1927 – 2001, DALLAS, USA

alcune sezioni del dipinto e usava nastro adesivo protettivo in altre per impedirne la presa, ottenendo così varie gradazioni di spessore sulla superficie pittorica. In questa tela dalle ricche policromie, ad esempio, ha applicato il nastro adesivo sulle aree bianche e nere. Le brusche interruzioni, le punte aguzze e le linee prospettiche inclinate conferiscono ad alcune parti del quadro l’illusione della tridimensionalità. Una sintesi armoniosa ed equilibrata tra relazioni spaziali e forme semplici dà vita a un linguaggio davvero unico. —Sonia Becce

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Kazuya Sakai

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Ione Saldanha

Ione Saldanha ha coraggiosamente esplorato nuovi supporti pittorici con un uso energico e caratteristico del colore. Nata in una cittadina nel sud del Brasile, si trasferisce a Rio de Janeiro negli anni Trenta, sviluppando lì la propria opera artistica per oltre cinquant’anni. Frequenta corsi aperti, ma non riceve mai un’istruzione tradizionale, cosa che le permette di mantenere semplicità e freschezza nella sua arte. I suoi primi quadri presentano spazi interni, case di città, facciate e orizzonti, catturando così l’immagine di una città in piena trasformazione. La verticalità diviene un elemento strutturale fondamentale man mano che il suo stile pittorico si fa più sintetico. Dal 1967 inizia a dipingere su ripas (assicelle di legno), solitamente usate

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per produrre i telai dei quadri. Nello stesso periodo Saldanha inizia a produrre i suoi Bambus e in seguito passa ad altri oggetti tridimensionali come rocchetti di cavi elettrici e pile di blocchi di legno. I Bambus di Saldanha (anni Sessanta) rappresentano una modalità radicale di forzare i confini fra linguaggi artistici, dando corpo e anima alla pittura. Nel suo appropriarsi di un elemento naturale, la stessa organicità del supporto rivendica le sue proprietà scultoree. Per produrre i Bambus l’artista attraversa numerose fasi distinte. Dopo aver raccolto il bambù e averlo fatto seccare per più di un anno, Saldanha lo sabbia e vi applica cinque rivestimenti preparatori di pittura bianca. Quando arriva il momento

ALEGRETE, BRASILE, 1919 – 2001, RIO DE JANEIRO, BRASILE

di ricoprirli di colore, l’artista esegue questo passaggio contemporaneamente per tutti i bambù. Questi lavori ci invitano a sperimentare il colore mentre ci giriamo intorno. Appesi al soffitto, si muovono dolcemente, come fossero semoventi, trasmettendo giocosità e dinamismo. La pennellata leggera ma visibile sullo strato sottile di pittura acrilica evidenzia la sequenza e l’accuratezza del movimento della mano dell’artista. In gruppo, ogni Bambu è allo stesso tempo unico ma anche parte di una più vasta composizione. L’opera di Ione Saldanha è esposta per la prima volta alla Biennale Arte. —Laura Cosendey

Veduta dell’installazione di 35 singoli Bambus, anni Sessanta-Settanta. Acrilico su bambù. Alla mostra Ione Saldanha: The Invented City, Museu de Arte de São Paulo Assis Chateaubriand, 2021-2022. Courtesy Museu de Arte de São Paulo Assis Chateaubriand.

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L’AVANA, CUBA, 1926 VIVE A SAN JUAN, PORTORICO

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Zilia Sánchez, con una pratica tutta propria di tele scultoree, sfuma i confini tra le forme artistiche. Formatasi come pittrice all’Avana, tende inizialmente all’astrazione gestuale e all’impegno politico come scenografa del gruppo teatrale di guerriglia Los Yesistas. Approfittando dei suoi primi successi, nel 1959 lascia Cuba per studiare al Museo del Prado di Madrid e poi al Pratt Institute di New York. Durante la sua permanenza in questa città, visita la mostra Primary Structures al Jewish Museum e assiste all’emergere del Minimalismo. Inizia quindi a stendere la tela su tre dimensioni, ridefinendo il rapporto tra pittura appesa al muro e spazio reale in un formato che perfezionerà nei decenni successivi da Portorico. Apertamente omosessuale, con una comprensione acuta e critica dell’arte moderna, Sánchez trasforma gli spigoli duri e spietati dell’arte minimalista in curve e fenditure corporee.

Lunar [Moon], 1980 Acrilico su tela tesa, 118 × 121,9 × 29,9 cm. The Mende Collection.

opaca, le tonalità fredde e il profilo sporgente di Lunar sono tutti elementi caratteristici del formato a tela sagomata per il quale Sánchez è nota. Trattando il tessuto come uno schermo e una pelle, l’artista lo tende su armature di legno che prima modella a mano. Lunar si gonfia in curve e fessure che ricordano labbra o seni, un biomorfismo astratto che codifica la sessualità femminile nel volto rotondo della luna. — Lucia Neirotti

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In Lunar (1980), la rappresentazione è ridotta all’essenziale astratto. Giocando con l’intersezione tra profondità reale e pittorica, Sánchez dipinge dei cerchi concentrici in gradazione di grigi, che imitano il sorgere e il tramontare della luna mentre chi osserva cammina intorno all’opera. I toni freddi della tavolozza minimale dell’artista sono amplificati dall’ombra reale nella spaccatura assiale tra i due emisferi quasi simmetrici. La precisa finitura

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Zilia Sánchez

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Fanny Sanín

Nata a Bogotá e residente a New York, Fanny Sanín lavora con il linguaggio pittorico dell’astrazione sin dalla fine degli anni Sessanta, facendosi notare per la dedizione alle geometrie spigolose. Magistrale nell’abilità compositiva e nella sperimentazione con il colore, è erede dei pittori geometrici astratti statunitensi incontrati – durante la sua permanenza in Europa alla fine degli anni Sessanta – in occasione della mostra L’art du réel tenutasi al Grand Palais di Parigi nel 1968. Deve inoltre molto a una notevole tradizione di astrazione geometrica nella nativa Colombia, di cui alcuni mettono tuttavia in dubbio la funzione nel rappresentare la violenza. Eduardo Ramírez Villamizar ed Édgar Negret sono solo due fra gli artisti che le sono stati particolarmente vicini. Sanín svolge un ruolo chiave nell’ampio panorama dell’astrazione latinoamericana e internazionale e solo ora si inizia a riconoscerne l’apporto su una più ampia scala.

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Sanín realizza Oil No. 7 (1969) in un momento cruciale per la sua carriera: è l’epoca in cui i suoi lavori passano dall’astrazione gestuale – con cui esordisce alla fine degli anni Cinquanta, dopo la laurea all’Universidad de los Andes di Bogotá – alla cesellata sofisticatezza delle costruzioni geometriche successive al 1969. Nel quadro, le campiture nette di colori caldi e scuri indicano l’appiattimento dello spazio pittorico. Questo segna le fasi iniziali del processo di geometrizzazione, cambiamento che darà poi origine alle rigorose composizioni simmetriche per le quali è oggi maggiormente nota. Il dipinto accenna anche

BOGOTÁ, COLOMBIA, 1938 VIVE A NEW YORK, USA

al suo caratteristico uso stratificato del colore, nonché alle linee e alle aree verticali che strutturano la maggior parte delle opere mature. Oil No. 7 racconta la ricerca di un linguaggio personale, rivelando l’innata inclinazione e capacità nell’uso del colore dell’artista in un momento in cui non è ancora compiuto il suo definitivo approccio compositivo, che determinerà la sua lunga carriera. L’opera di Fanny Sanín è esposta per la prima volta alla Biennale Arte. —Emiliano Valdes

Oil No. 7, 1969 Olio su tela, 165 × 175 cm. Collezione Steven e Olga Immel, New York. Courtesy the Fanny Sanín Legacy Project. © Fanny Sanín, 2024.

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Dinamika Keruangan IX [The Dynamic of Space IX], 1974 Olio su tela, 80 × 60 cm. Courtesy National Gallery of Indonesia.

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Dinamika Keruangan IX (1974) è un esempio del suo caratteristico stile di pittura astratta, definito proprio Dinamika Keruangan. In questo dipinto, Sidik dispone forme semplici con colori contrastanti, creando una sorta di biomorfismo e cercando di negoziare lo spazio sulla tela. In questo periodo l’artista entra in una fase di maturità come pittore astratto, iniziata negli anni Sessanta. L’esperienza vissuta a Bali nel periodo 1957-1961 ha influenzato il suo approccio alla pittura astratta: se dapprima desidera dipingere solo “oggetti industriali”, avverte poi il bisogno di creare altre forme come pura

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espressione. Ne consegue una nuova proposta estetica nell’era dell’urbanizzazione e dell’industrializzazione, ed è allora che inizia a sviluppare la serie di dipinti astratti e a includere altre immagini, come astrazioni di forme animali e naturali, nonché composizioni decorative con colori contrastanti e ritmici che ricordano i batik disegnati a mano. L’opera di Fadjar Sidik è esposta per la prima volta alla Biennale Arte. —Asep Topan

NUCLEO STORICO • ASTRAZIONI

Fadjar Sidik nell’arco di quattro decenni ha sviluppato il corpus di opere Dinamika Keruangan (Dinamiche spaziali) raffiguranti semplici composizioni che evocano il vibrante pulsare e movimento della natura in continuo mutamento. Uno dei più importanti e celebrati pittori astratti indonesiani, con le sue immagini dà voce ai propri impulsi emotivi e pensieri interiori. Sidik ha studiato pittura alla Akademi Seni Rupa Indonesia (ASRI) nel 1954 e nel 1952 al Sanggar Pelukis Rakyat (Studio di pittori del popolo), sotto la guida di Hendra Gunawan e Sudarso; è stato inoltre docente presso la sua alma mater ASRI, dal 1966 al 1995. Nel corso della sua vita, fra il 1957 e il 1993 ha tenuto diverse mostre personali; ha partecipato alla mostra itinerante del KIAS (Indonesian Arts in America) negli Stati Uniti (1990-1991) e di recente l’Asia Art Center di Taipei ha ospitato la sua prima mostra personale all’estero dal titolo Fadjar Sidik: Space Dynamics (2020).

SURABAYA, INDONESIA, 1930 – 2004, YOGYAKARTA, INDONESIA

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Fadjar Sidik

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Eduardo Terrazas

Prima di iniziare la carriera di artista visivo, Eduardo Terrazas ha studiato architettura presso l’Universidad Nacional Autónoma de México e ha lavorato a lungo nel campo del design. Fra i suoi primi contributi figura la partecipazione al gruppo responsabile dell’immagine grafica dei Giochi Olimpici del 1968, tenutisi in Messico. Qualche anno prima, tra il 1964 e il 1965, Terrazas era stato docente di Disegno Architettonico alla Columbia University, mentre tra il 1969 e il 1970 insegna all’UC Berkeley. Nel 1972 entra a far parte del team dell’Instituto de Acción Urbana e Integración Social del Messico e partecipa a progetti di architettura e pianificazione urbana nazionali e all’estero. L’attività di pittore inizia nei primi anni Settanta, con lo studio e l’ammirazione delle diverse tradizioni artigianali sviluppate dal popolo Wixarika (noto anche come Huichol) nel territorio che oggi chiamiamo Messico. Le varie articolazioni tra l’uso espressivo ed espansivo del colore e la sperimentazione geometrica, nonché quella con i materiali, caratterizzano le sue prime opere. Terrazas dipinge su una superficie di lana per poi applicare uno strato di cera comunemente chiamata cera di Campeche, che prende il nome da una regione del Messico orientale.

GUADALAJARA, MESSICO, 1936 VIVE A CITTÀ DEL MESSICO

N f c in f D r il a r g d p s Y l’ P S a a a T d d d d r d p in f s Y in d

Risalente agli inizi della sua carriera, 1.1.91 (1970-1972) costituisce un esempio della sperimentazione sui materiali e dei suoi primi lavori volti a ricodificare le tradizioni artigianali. Lavorando con il quadrato e la contrapposizione con l’aspetto curvilineo del cerchio, Terrazas propone forti contrasti cromatici che attraggono lo sguardo e fanno appello alla fisicità del corpo umano. L’artista fa riferimento non solo ai dibattiti modernisti ed europei sul ruolo dell’astrazione nella storia dell’arte, ma anche alle tradizioni indigene e a quelle associate alla classe operaia in America Latina e altrove. L’opera di Eduardo Terrazas è esposta per la prima volta alla Biennale Arte. — Raphael Fonseca

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1.1.91, 1970-1972 Fili di lana su tavola di legno ricoperti di cera Campeche, 121 × 121 cm. Photo Eduard Fraipont. Courtesy Galeria Luisa Strina. © Eduard Fraipont.

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Nil Yalter riceve la sua prima formazione artistica all’età di cinque anni, quando la nonna le insegna a inventare e disegnare favole in una sorta di fumetti. Da adolescente, grazie ai libri regalati dal padre, conosce il Modernismo europeo e si appassiona alle avanguardie russe. Nota per le sue astrazioni geometriche, per mantenersi disegna scenografie e costumi per il teatro. Spinta da uno spirito indomito, la diciottenne Yalter viaggia attraverso l’Asia prima di stabilirsi a Parigi. All’inizio degli anni Settanta, la sua attenzione artistica si sposta dalla pittura all’installazione, al cinema e alla fotografia. Torna allo storytelling documentando la vita dei migranti, segnata dall’espropriazione e dalle difficoltà, ma anche dalla resilienza e dalla capacità di adattamento. Immersa per l’intera sua giovinezza in un contromondo artistico fatto di attivisti e femministe, soprattutto dopo il 2000 Yalter è esposta e celebrata in importanti istituzioni di tutto il mondo.

Pink Tension (1969) è una tela che l’artista tiene presso di sé a Parigi. A prima vista, l’opera riflette l’iniziale passione per l’astrazione geometrica, influenzata dal Costruttivismo russo e dagli ideali di partecipazione sociale rappresentati da figure quali Kazimir Malevič, El Lissitzky e il pittore di Istanbul Serge Poliakoff. Tuttavia, la tela è stata creata nei sette anni successivi al suo trasferimento a Parigi, anni che nel ricordo dell’artista rappresentano un periodo di straordinari cambiamenti. Immersa nella scena artistica della città, e pronta ad accoglierne le tendenze avanguardistiche, la sua tavolozza si trasforma in risposta ai vibranti colori della

Pink Tension, 1969 Acrilico su tela, 120 × 180 cm. Courtesy l’Artista.

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IL CAIRO, EGITTO, 1938 VIVE A PARIGI, FRANCIA

Pop Art; anche se nel frattempo le sue composizioni rimandano al quotidiano, fonte primaria del Nouveau Réalisme. È un periodo contraddistinto dalle rivolte del maggio 1968, dal rafforzamento dei movimenti di liberazione delle donne e dal colpo di Stato turco, detto “del memorandum”, che spinge Yalter a riorientare la propria pratica sull’esperienza dell’oppressione politica e dell’emarginazione sociale. È stata insignita del Leone d’Oro alla carriera. L’opera di Nil Yalter è esposta per la prima volta alla Biennale Arte. —Sofia Gotti

STRANIERI OVUNQUE

Nil Yalter

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Fahrelnissa Zeid

BÜYÜKADA, TURCHIA, 1901 – 1991, AMMAN, GIORDANIA

Fahrelnissa Zeid – nata in una famiglia dell’élite ottomana – è stata una delle prime artiste della sua generazione a studiare all’İnas Sanayi-i Nefise Mektebi, l’accademia femminile di Belle Arti di Istanbul, nel periodo di declino dell’Impero e di nascita della nuova Repubblica turca. Figura di spicco nell’ambiente creativo dell’arte moderna a Istanbul e membro attivo del D Grubu di arte moderna, espone i suoi caratteristici dipinti astratti a Istanbul e viaggia per tutta Europa, esponendo a Londra, Parigi e Berlino, dove negli anni Trenta vive con il secondo marito, il principe Zeid Al-Hussein, ambasciatore iracheno in Germania. Dopo le turbolenze della Seconda guerra mondiale, la coppia si trasferisce a Baghdad per poi stabilirsi ad Amman, dove nel 1976 l’artista fonda l’Istituto Reale Nazionale Giordano di Belle Arti Fahrelnissa Zeid. I dipinti dell’artista riacquistano nuova attenzione dopo la sua morte, avvenuta nel 1991.

Sebbene Zeid abbia dipinto diverse opere figurative, abbandona questo stile a favore dell’astrazione. Traccia forme di varie dimensioni sulle tele, che poi dipinge meticolosamente a olio. In Untitled (1955), combina forme geometriche e astratte – quadrati, triangoli, cerchi, mezzelune e vortici – creando una composizione caleidoscopica. Dalle ricche tonalità e con una maestosa tavolozza di colori, l’opera assomiglia a un esempio alternativo della prima Land

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Art concettuale – diffusa negli anni Sessanta e Settanta – che incorpora interventi, fotografia e mappatura. Il dipinto di Zeid ricorda un paesaggio aereo in cui i contorni di edifici, campi, colline, montagne e alberi sono definiti dagli spazi negativi in bianco e nero allo scopo di evidenziare la complessità dell’intera composizione. L’opera di Fahrelnissa Zeid è esposta per la prima volta alla Biennale Arte. —Sara Raza

Untitled, 1955 Olio su tela, 187 × 174 cm. Photo Justin Piperger. Courtesy Collezione Taimur Hassan.

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ON ALTERNATIVE MODERNITIES, IN ALTERNATIVE MODERNITIES, A CURA DI DILIP PARAMESHWAR GAONKAR, DURHAM, DUKE UNIVERSITY PRESS, 2001.

La modernità è passata dall’Occidente al resto del mondo non solo in termini di forme culturali, pratiche sociali e assetti istituzionali, ma anche come forma di discorso che interroga il presente.

DILIP PARAMESHWAR GAONKAR


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Adriano Pedrosa e Sofia Gotti

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591 NUCLEO STORICO • ITALIANI OVUNQUE STRANIERI OVUNQUE

Questa sezione del Nucleo Storico riunisce opere di artisti italiani che hanno viaggiato e vissuto all’estero, sviluppando la propria carriera in Africa, Asia e America Latina, nonché negli Stati Uniti e in Europa. In un’edizione della Biennale Arte incentrata sul tema dello straniero, dell’immigrato, dell’espatriato e dell’esiliato, ha senso prendere in considerazione gli immigrati italiani di prima e seconda generazione che sono a loro volta diventati stranieri nel Sud del mondo e oltre nel corso del XX secolo. Molti di loro si sono del tutto inseriti nelle culture locali o ne hanno profondamente subito l’influenza, spesso contribuendo in modo significativo allo sviluppo di narrazioni moderniste locali. Se diaspora e migrazione sono intese come formazioni culturali inestricabili dalla modernità, l’emigrazione di massa degli italiani nel mondo rivela alcune delle inaspettate trame transnazionali della modernità stessa. Gli artisti qui presentati hanno lasciato l’Italia per diverse ragioni. A cavallo del XX secolo, gli orientalisti, che vivevano di committenze estere, avevano il privilegio di viaggiare in Nord Africa, Medio Oriente e Asia. Se da un lato abitualmente producevano visioni esotiche ed erotiche dei luoghi visitati, dall’altro il loro lavoro e le loro ricerche hanno avuto un ruolo importante nello sviluppo di tendenze artistiche in Italia, adottate anche da artisti che non avevano mai intrapreso viaggi di sorta. Altri facevano parte dei convogli inviati durante le brevi ma brutali imprese coloniali italiane in Africa, iniziate alla fine del XIX secolo e proseguite a intermittenza fino al 1941. La loro influenza è ancora visibile nell’architettura di alcune città africane e spesso nelle accademie d’arte che hanno contribuito a fondare o gestire. Altri ancora furono costretti a emigrare a causa delle disastrose condizioni economiche dell’Italia durante e dopo la Seconda guerra mondiale. Alcuni cercarono fortuna all’estero, mentre altri risposero alle richieste di manodopera specializzata e semi specializzata provenienti dalle Americhe. L’America del Sud è stata una delle principali destinazioni degli emigranti italiani nel XX secolo, in particolare il Brasile e l’Argentina, che oggi hanno rispettivamente una popolazione di circa 32 milioni e 25 milioni di persone con qualche grado di ascendenza italiana. Ciò si riflette in questa sezione, dove la metà degli artisti proviene da questi due Paesi. La priorità è data al lavoro degli artisti naturalizzati nel Sud del mondo, pur dando spazio anche a coloro che sono stati costretti a sfuggire al terrore del fascismo e alle leggi antisemite, trovando rifugio negli Stati Uniti o nel resto d’Europa. In particolare, le opere della sezione sono esposte con il sistema cavalete de cristal ideato da Lina Bo Bardi. La stessa Bo Bardi era un’italiana trasferitasi in Brasile, dove ha lavorato come architetta, designer e allestitrice. A lei è stato assegnato il Leone d’Oro speciale alla memoria della Biennale Architettura 2021. Il suo cavalete de cristal, o cavalletto di vetro, è un dispositivo leggendario nella storia degli allestimenti. Concepito appositamente per la collezione del Museu de Arte de São Paulo Assis Chateaubriand (MASP) e presentato nel 1968 in occasione dell’inaugurazione della nuova sede del museo a San Paolo, anch’essa progettata da Bo Bardi, il cavalete consiste in una spessa lastra di vetro inserita in un cubo di cemento a formare un pannello trasparente autoportante su cui viene appeso un quadro. L’etichetta del dipinto è apposta sul retro, in modo che il visitatore possa affrontare l’opera senza alcuna previa contestualizzazione storica. L’intento di Bo Bardi era quello di presentare le opere come prodotto del lavoro e, di conseguenza, desacralizzarle. Il cavalletto sfida la tradizionale visione frontale permettendo di osservare anche il retro delle opere, rivelando così la loro materialità e la loro provenienza internazionale attraverso i timbri e gli adesivi lasciati sulle cornici dalle mostre precedenti. Ispirandosi al brutalismo, Bo Bardi era attratta dalla crudezza del cemento, del vetro e del legno. Questi elementi contrastano e completano la ricca materialità e la qualità palinsestuale delle Corderie dell’Arsenale, caratterizzate da pareti e colonne in mattoni a vista, che riportano la stratificazione delle storie espositive di molte passate edizioni della Biennale Arte.

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Libero Badií

L’artista argentino di origine italiana Libero Badií è arrivato a Buenos Aires con la famiglia quando aveva undici anni. È proprio nel laboratorio di lavorazione del marmo della famiglia che Badií inizia a sperimentare con la pietra, portando avanti una tradizione iniziata con il nonno scultore. Le diverse scuole d’arte da lui frequentate gli hanno fornito una formazione rigorosa. Le sculture accademiche degli anni Quaranta rivelano un rapporto armonioso tra i volumi concavi e convessi scolpiti nella pietra e lo spazio circostante. Negli anni Cinquanta, percorre per la prima volta l’America del Sud, visitando il nord dell’Argentina, l’Ecuador, il Perù

e la Bolivia. Le culture indigene incontrate in quel viaggio hanno un grande impatto su di lui ed è allora che il colore esplode nel suo lavoro e che inizia a esplorare nuovi materiali come il legno, il metallo e il gesso. Il poliedrico Badií non è stato solo scultore, disegnatore, pittore, ceramista e stampatore, ma anche autore di oltre cinquanta libri d’artista. L’Arte Siniestro (arte del perturbante) è emersa a metà degli anni Sessanta come reazione alle avanguardie dell’epoca. Pur essendo stata sviluppata da Badií e dal pittore argentino Luis Centurión, è stato Badií a porre il perturbante al centro della propria produzione

AREZZO, ITALIA, 1916 – 2001, BUENOS AIRES, ARGENTINA

artistica dalla fine degli anni Sessanta fino agli anni Settanta. Per Badií, l’idea del perturbante nell’arte è legata a forme sconosciute – o, forse, prossime a essere conosciute – provenienti dalle culture indigene delle Americhe, a lui familiari e nel contempo sconosciute, in contrapposizione alla tradizione estetica classica europea. Come per altre sue opere di questo periodo, il processo di produzione del policromo Autorretrato Siniestro (1978) prevedeva l’assemblaggio di tavole e aste di legno e la collocazione di ritagli di legno sulla superficie dell’opera. La figura richiama alla mente le culture indigene che tanto avevano colpito l’artista durante il suo viaggio nell’Altipiano sudamericano. —Sonia Becce

Autorretrato Siniestro, 1978 Vernice su legno, 200 × 45 × 45 cm. Photo Pablo Messil. Collezione Arthaus Foundation, Argentina.

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La Toile de Penelope (1959), un collage tessile realizzato in collaborazione con la moglie Licia Monesi, rappresenta un allontanamento, forse influenzato da Alberto Burri, dallo stile abituale di Bertini. L’opera fa parte di Espaces imaginaires, una serie di dipinti informali che va dal 1953 al 1960. Astratte e gestuali, queste opere presentano titoli significativi che fanno riferimento a personaggi mitologici quali Edipo, Didone, Artemide, Marte e altri. I miti antichi gli forniscono uno strumento per ricostruire un moderno e condiviso umanesimo dopo

La Toile de Penelope, 1959 Collage tessile, 146 × 165 cm. Courtesy Thierry Bertini e Frittelli Arte Contemporanea.

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593 NUCLEO STORICO • ITALIANI OVUNQUE

Gianni Bertini è stato un artista anticonformista e un viaggiatore instancabile. Formatosi come matematico, negli anni Quaranta sviluppa un interesse per il Post Cubismo e l’Espressionismo. A Milano aderisce al Movimento Arte Concreta e si avvicina ai pittori dell’Arte Nucleare. Trasferitosi a Parigi nel 1952, si dedica alla pittura Informale, esplora il Nouveau Réalisme di Pierre Restany e negli anni Sessanta partecipa al movimento Mec Art (una sorta di Pop Art europea). I suoi lunghi viaggi in Europa, a New York, a Tangeri e in città del Senegal e dell’America Latina lo rendono molto consapevole delle dinamiche politiche e culturali internazionali del suo tempo. Ha esposto alla Biennale nel 1950, 1958 e 1968 con una sala personale ed è stato commissario di esposizione nel 1970. Con le sue azioni, le opere d’arte, le poesie e i numerosi scritti critici, ha costantemente sfidato l’establishment culturale.

PISA, ITALIA, 1922 – 2010, CAEN, FRANCIA

la guerra e per interpretare i propri sentimenti, le opinioni e la vita personale. Imitando l’immediatezza delle pennellate, vari ritagli di tessuto sono cuciti insieme con punti larghi e volutamente irregolari, in modo che l’opera, vista da lontano, abbia una qualità espressionista, contraddetta dal minuzioso assemblaggio di toppe e fili. La combinazione di tessuti e fili allude alla tela di Penelope, conferendo un ulteriore livello di significato all’opera. —Antonella Camarda

STRANIERI OVUNQUE

Gianni Bertini

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Lina Bo Bardi

Lina Bo Bardi studia architettura nella nativa Roma e nel 1946, dopo aver sposato il critico italiano Pietro Maria Bardi a trentadue anni, si trasferisce in Brasile dove trascorre il resto della sua vita, diventando cittadina brasiliana nel 1951. Bo Bardi non solo svolge la professione di architetta, ma lavora anche come redattrice di riviste, grafica, designer di mobili, scenografa, curatrice e scrittrice. In Brasile, vive soprattutto a San Paolo, ma trascorre anche un periodo a Salvador dove si immerge nella cultura locale, con uno spiccato interesse per la ricca cultura popolare del paese, dalle tradizioni popolari e vernacolari alle culture indigene e afrobrasiliane. In effetti, i suoi contributi più straordinari combinano in molteplici modi Modernismo europeo e cultura popolare brasiliana. Per molti anni Bo

Bardi si occupa di architettura, allestimenti museali e mostre presso il Museu de Arte de São Paulo Assis Chateaubriand (MASP), diretto per quarantacinque anni dal marito. Due dei suoi edifici più iconici si trovano a San Paolo e sono punti di riferimento del Modernismo latinoamericano: la sede del MASP in Avenida Paulista e il SESC Pompéia, un “centro ricreativo”. Nel 2021 vince il Leone d’Oro speciale alla memoria della Biennale Architettura. Il suo “cavalletto in vetro” è un dispositivo leggendario nella storia degli allestimenti. Concepito appositamente per la pinacoteca del MASP e presentato per la prima volta all’inaugurazione del museo nel 1968, è costituito da una spessa lastra di vetro inserita in un cubo di cemento, a formare un pannello trasparente

ROMA, ITALIA, 1914 – 1992, SAN PAOLO, BRASILE

autoportante sul quale viene appeso un quadro. La didascalia relativa è apposta sul retro, in modo che il visitatore possa all’inizio entrare in contatto con l’opera senza alcuna contestualizzazione storica. Bo Bardi vuole presentare le opere come frutto di un lavoro, togliendole da un’aura di sacralità. Per la creazione dell’edificio e dei cavalletti impiega materiali grezzi e industriali, in contrappunto alla raffinata collezione classica europea del museo, che oggi comprende anche l’arte contemporanea. In uno spazio di 2.000 metri quadrati, i cavalletti sono distribuiti in file come in una parata o come in una foresta di opere d’arte. Staccate dalle pareti, le opere diventano più accessibili permettendo così al visitatore di stabilire con esse un rapporto più stretto e diretto. Il sistema di Bo Bardi è stato

influenzato dagli allestimenti di Franco Albini alla Pinacoteca di Brera a Milano negli anni Quaranta e ha ispirato la Galerie du Temps del LouvreLens, progettata da SANAA e inaugurata nel 2012. L’opera di Lina Bo Bardi è esposta per la prima volta alla Biennale Arte. —Adriano Pedrosa

Vista della pinacoteca del MASP in Avenida Paulista con i cavalletti in vetro progettati da Lina Bo Bardi, anni Settanta. Photo Paolo Gasparini. Courtesy Museu de Arte de São Paulo Assis Chateaubriand.

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L è in B n la 1 n d a f r e V I d g A a G a d a a d d p u e a t m p in O u u


La matrice incisa della xilografia è la chiave di volta della pratica incisoria e scultorea di Maria Bonomi. L’artista lascia l’Italia nel 1944 e si stabilisce con la famiglia a San Paolo nel 1946. Inizia la sua formazione nell’ambito della pittura e del disegno in Brasile, ma grazie al prestigio intellettuale della famiglia d’origine, collabora con rinomati pittori dell’avanguardia europea, tra cui Emilio Vedova ed Enrico Prampolini. Il suo impegno nei confronti dell’incisione matura nel 1952 grazie al modernista Livio Abramo, con il quale fonda anche lo sperimentale Estúdio Gravura (studio di incisione), attivo dal 1960. Lo stile artistico di Bonomi passa dal figurativo alla geometria astratta, allineandosi alle tendenze dell’avanguardia brasiliana degli anni Cinquanta. Con il passare del tempo, sviluppa un approccio più corporeo e scultoreo all’incisione attraverso la sperimentazione tecnica, utilizzando matrici multiple (fino a un centinaio per una singola incisione) in varie scale e materiali. Oltre a essere un’artista e un’educatrice, Bonomi è anche una sindacalista e un’attivista.

MEINA, ITALIA, 1935 VIVE A SAN PAOLO, BRASILE

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Maria Bonomi Per approfondire la sua conoscenza della xilografia negli anni Sessanta e Settanta, Bonomi frequenta il Pratt Institute sotto la guida di Seong Moy. Viaggia inoltre in Giappone, nella Cina maoista e studia le tecniche praticate in Amazzonia. Pedra Robat (1974) fa parte di una serie realizzata nel periodo successivo a questi viaggi trasformativi. Partendo dai metodi convenzionali della xilografia, utilizza due matrici di legno insolitamente grandi e pesanti. Queste sono state incise utilizzando tecniche ispirate alle sculture in giada viste a Pechino, che erano il risultato di abilità affinate da generazioni di scalpellini. La stampa si ottiene stratificando l’impronta di ogni matrice. Il risultato non è tipicamente spigoloso. Al contrario, sembra vibrare di energia cinetica, una caratteristica distintiva dello stile xilografico dell’artista. Elementi cruciali dell’opera sono i blocchi di legno esposti alla base della stampa. La sua ricerca infinita sulla superficie incisa ha portato Bonomi a elaborare la visione di una “xilografia espansa”, trasformando le matrici in installazioni scultoree monumentali per commissioni pubbliche.

Pedra Robat, 1974 Stampa xilografica, 132 × 95 cm. Courtesy l’Artista.

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—Sofia Gotti

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Victor Brecheret

Victor Brecheret è il più celebre scultore della prima metà del XX secolo in Brasile. Nato in Italia, Brecheret emigrò a San Paolo con la famiglia quando era ancora bambino. A diciannove anni si trasferisce a Roma, dove lavora come assistente dello scultore Arturo Dazzi. Tornato in Brasile nel 1919, l’anno successivo incontra artisti e intellettuali entusiasti delle forme non accademiche dei suoi lavori, influenzati da scultori come Ivan Meštrović e Auguste Rodin. La semplificazione formale per cui la sua opera è maggiormente conosciuta avviene però durante gli anni

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trascorsi a Parigi (1921–1936), sotto l’influenza di Constantin Brancusi e del movimento Art Déco. Alla fine degli anni Quaranta, i temi religiosi e le figure femminili lasciano il posto a motivi nazionali. Nel 1921, grazie a una borsa di studio, Brecheret si trasferisce a Parigi e ben presto la sua pratica subisce importanti cambiamenti. Le drammatiche torsioni delle figure eroiche appartenenti alla sua produzione precedente vengono sostituite da forme sintetiche e da superfici ben levigate che riflettono la luce, come si vede in Vierge à l’enfant

FARNESE, ITALIA, 1894 – 1955, SAN PAOLO, BRASILE

(1923–1924). Benché il tema religioso e il marmo rimandino al repertorio della scultura classica, la costruzione delle figure con cilindri e forme arrotondate, il ritmo stabilito dalle loro connessioni e i sottili rilievi e incisioni che definiscono la forma dei corpi sono tutti elementi che attestano l’impegno di Brecheret nei confronti dell’arte moderna.

N p in la d d d P u s b f c in d il N p e d m p r la s a a m u n è in e d a in s v

—Regina Barros

Vierge à l’enfant, 1923-1924 Marmo, 142 × 34 × 27 cm. Photo Fabrice Gousset. Courtesy Almeida & Dale Galeria de Arte.

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Nata ad Asti, Elda Cerrato fu pittrice ed educatrice, emigrata in Argentina nel 1940. Il suo lavoro si è occupato del mistero dell’essere, dell’immensità dello spazio cosmico e dell’organizzazione umana. Per realizzare ciò, utilizza un linguaggio astratto in cui strutture geometriche, forme biologiche e sperimentazioni fenomenologiche coesistono con il colore; un insieme di interessi che approfondisce dopo il 1954, quando incontra il compositore Luis Zubillaga. Nel 1960, durante il suo primo viaggio in Venezuela, entra in contatto con artisti d’avanguardia legati al marxismo e inizia il suo percorso come educatrice. Di ritorno in Argentina nel 1964, la sua tendenza al misticismo si radicalizza dopo avere avvistato un disco volante e aver appreso delle pratiche magiche nelle città rurali. Si unisce alla militanza peronista negli anni Settanta e in seguito è costretta nuovamente all’esilio in Venezuela e in altri paesi europei. Una volta terminata la dittatura militare nel 1983, torna a Buenos Aires e la sua arte inizia a riflettere sulla memoria, sulla stabilità democratica e la violenza politica.

ASTI, ITALIA, 1930 – 2023, BUENOS AIRES, ARGENTINA

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Elda Cerrato Maternidad (1971) appartiene all’ampia serie di dipinti realizzati nel periodo della nascita del figlio, in cui Cerrato indaga la misteriosa figura dell’Essere Beta (1967–1973). È questa una creatura astratta che, dotata di molteplici qualità soprannaturali, utilizza l’erotismo come linguaggio per muoversi nella realtà. Attraverso l’uso suggestivo di cerchi e ovali, con cui Cerrato allude simbolicamente alla fertilità, Maternidad annuncia l’imminente atterraggio dell’Essere Beta e raffigura il suo spostamento da una geografia colorata alla turbolenta realtà argentina. Intorno all’arrivo di questa entità energetica, Cerrato crea un universo di astrazione geometrica, forme morbide e organismi inesistenti, influenzato dalla poesia surrealista, dalla conoscenza ancestrale, dalla fantascienza e dalla sua profonda curiosità nei confronti della vita proveniente dallo spazio. Contemporaneamente, utilizza i linguaggi dell’avanguardia per sintetizzare una critica spirituale della violenza politica in ascesa in America Latina. L’opera di Elda Cerrato è esposta per la prima volta alla Biennale Arte.

Maternidad, 1971 Acrilico su tela, 115,8 × 81,8 cm. Photo Diego Spivacow. Collezione Ama Amoedo. Courtesy Collezione Ama Amoedo.

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—Nicolas Cuello

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Galileo Chini

Galileo Chini è contemporaneamente pittore, restauratore, ceramista e scenografo teatrale, e spazia tra Simbolismo, Divisionismo e stile Liberty. A Firenze nel 1896 è tra i fondatori della manifattura Arte della Ceramica. Nel 1909 decora la cupola del vestibolo ottagonale della Biennale, suscitando lo stupore del re del Siam, Chulalongkorn (Rama V), che gli commissiona la decorazione del Palazzo del Trono a Bangkok. Il soggiorno di Chini nel Siam (l’attuale Thailandia) tra il 1911 e il 1913 è documentato da resoconti fotografici, schizzi, studi e dipinti che rappresentano la vita nel Siam e le sue frequentazioni di templi, cerimonie e feste. Alla Biennale del 1914 decora la sala espositiva centrale ed espone le opere realizzate nel Siam, affermandosi come uno dei più importanti pittori

dell’Orientalismo italiano. La sua collezione di oggetti etnografici provenienti dal Siam, che compaiono spesso nei suoi dipinti, viene donata al Museo di Antropologia ed Etnologia di Firenze. Galileo Chini dipinge La notte al Watt Pha-Cheo nel 1912, durante il soggiorno a Bangkok. Conduce l’osservatore fuori dal tempio, permettendogli di scorgere una fila di monaci di spalle. In questa visione notturna, l’“impressione” di Chini prevale sulla narrazione figurativa, che è appena abbozzata. L’artista riesce a catturare l’opalescenza, le stelle, i colori iridescenti dei materiali e il bagliore delle luci sui tessuti. È il pittore stesso a dare un titolo all’opera, scrivendolo sul retro del quadro, insieme alla data. Così ricorda il Watt Pha-Cheo nel 1948:

FIRENZE, ITALIA 1873–1956

I monaci di questo tempio custodiscono il tempo Con salmi creano un percorso sempre lo stesso, ritmico, tanto che impiegano sempre lo stesso tempo, così ogni mezz’ora si trovano al punto indicato, dove c’è un GONG, che battono – ed è così segnato il tempo. —Carmen Belmonte

La notte al Watt Pha Cheo, 1912 Olio su compensato, 79,5 × 65,5 × 1,5 cm. Photo Marzio De Santis, Padova. Courtesy Galleria Gomiero.

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ROMA, ITALIA, 1925 – 1973, SAN PAOLO, BRASILE

NUCLEO STORICO • ITALIANI OVUNQUE

Waldemar Cordeiro, emigrato in Brasile nel 1946, divenne ben presto l’esponente più in vista del movimento dell’Arte Concreta a San Paolo (1952– 1959). Nel 1952 curò il Manifesto Ruptura in cui si affermava che l’arte doveva essere autonoma (un oggetto a sé stante, senza riferimenti al mondo esterno) e concepita in base a principi matematici, dato che (in teoria) la matematica è un linguaggio universale e, quindi, dovrebbe essere accessibile a tutti. Con l’emergere della Pop Art, Cordeiro produsse una serie di Popcretos (Arte Pop + Concreta): si tratta di tele a parete su cui assemblava elementi di uso quotidiano, come ruote di bicicletta e bottiglie, un riferimento ai readymade di Marcel Duchamp (1887–1968). Dal 1968 in poi fu tra i primi a esplorare la Computer Art, oltre a creare più di 150 progetti paesaggistici per spazi pubblici e privati.

Untitled, 1963 Olio su tela, 75 × 74,5 cm. Courtesy Waldemar Cordeiro’s Estate e Luciana Brito Galeria, San Paolo. Photo © Edouard Fraipont.

In questa composizione, l’artista non è più interessato a dimostrare la propria abilità nell’applicare la matematica per costruire illusioni ottiche, ma si gode semplicemente il piacere di dipingere. Sempre utilizzando simboli matematici, l’artista crea un motivo a mano libera, in cui segna la propria presenza e al tempo stesso raffigura un’immagine decorativa, entrambi approcci che un tempo avrebbe ritenuto inconcepibili. L’opera di Waldemar Cordeiro è esposta per la prima volta alla Biennale Arte. —Regina Barros STRANIERI OVUNQUE

Pur essendo principalmente noto per il radicalismo con cui propugnava un’astrazione geometrica priva di soggettività (ottenuta con vernici industriali al fine di eliminare qualsiasi traccia di pennellata), uno dei momenti più interessanti del suo percorso artistico è stato il periodo di transizione verso la fase successiva della sua arte, quando inizierà ad aggiungere ai suoi dipinti oggetti tridimensionali. Untitled (1963) appartiene a questa breve transizione. Qui, il segno più (+) e il segno di moltiplicazione (×), così come i cerchi, sono dipinti a mano su uno sfondo verde uniforme.

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Waldemar Cordeiro

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Victor Juan Cúnsolo

Victor Cúnsolo, nato a Vittoria, in Italia, arriva in Argentina nel 1913 e diventa uno dei più importanti pittori di La Boca, un quartiere popolare ai margini di Buenos Aires abitato soprattutto da immigrati della classe operaia, artisti bohémien e prostitute. Cúnsolo aderisce ad associazioni culturali che lo aiutano ad adattarsi alla società argentina, come l’Academia de Pintura de la Unione e Benevolenza, El Ateneo Popular e l’Agrupación de Gente de Arte y Letras. Oltre alle mostre collettive condivise con i colleghi del suo gruppo, nel 1928 e nel 1931 tiene due grandi mostre personali presso la rinomata Asociación Amigos del Arte, dove espone una serie di dipinti che documentano il suo legame emotivo con il quartiere marginale di La Boca, la precarietà della sua

architettura e la vita difficile delle persone che vi abitavano. Esprime il suo sensibile apprezzamento attraverso un linguaggio nostalgico pregno dei nuovi realismi della pittura italiana. All’inizio degli anni Trenta, a causa di gravi complicazioni di salute, Cúnsolo è costretto a trasferirsi a La Rioja, una provincia del nord dell’Argentina, dove porta avanti il proprio stile fatto di forme raffinate, dettagli austeri e spazi geometrici, come nel ritratto di La Boca, in cui si leggono risonanze della pittura metafisica di Giorgio de Chirico e Carlo Carrà. In Paisaje de La Rioja (1937), uno dei suoi ultimi dipinti, Cúnsolo amplia questi paesaggi strutturati, caratterizzati dall’assenza di figure umane, in un ambiente rurale con porte chiuse, finestre

VITTORIA, ITALIA, 1898 – 1936 LANUS, ARGENTINA

oscurate e bar abbandonati, seguito da una sequenza colorata di edifici storici che contrastano con l’ombra delle montagne. In primo piano, i graffiti che promuovono un imminente circo creolo accentuano la capacità di Cúnsolo di lavorare con l’ambivalenza, tra la bellezza di uno scenario umile e la desolazione di un’atmosfera irreale in cui la cultura sembra fuori dal tempo.

J p a e A s n u d H R G V g A a e c s m m s C t a la u c f e g c e A ( o

L’opera di Victor Cúnsolo è esposta per la prima volta alla Biennale Arte. —Nicolas Cuello

Paisaje de La Rioja, 1937 Olio su tavola, 69 × 58 cm. Collezione Neuman, Buenos Aires

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soggiorno parigino – riflette le iniziali risonanze della sperimentazione non figurativa in cui si era avventurato in quel periodo. Inclusa in due mostre consecutive presso la Asociación Amigos del Arte nel 1933 e 1934, insieme a molti altri dipinti, collage e sculture, quest’opera abbraccia un vocabolario astratto che mescola dense campiture di pigmenti con materiali di scarto come carte colorate, corde, brandelli di tessuto, fili e oggetti metallici. L’opera documenta un momento chiave della pratica artistica di Del Prete che, come Yente, decide di abbandonare qualsiasi tipo di legame con la realtà e con la dimensione sociale per privilegiare un’astrazione imperfetta incentrata sul trattamento delle forme e sull’uso di colori insoliti, soprattutto il rosa. —Nicolas Cuello

Abstracción con material, 1934 Olio, cemento, lastre di rame, bronzo e zinco su cartone, 69 × 49 cm. Courtesy Roldan Moderno Gallery. © Archivo Yente Del Prete.

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601 NUCLEO STORICO • ITALIANI OVUNQUE

Juan Del Prete è stato un pittore, disegnatore e scultore autodidatta di origine italiana, emigrato con la famiglia in Argentina nel 1909. Dopo la sua prima mostra personale nel 1926, gli viene assegnata una borsa per studiare a Parigi dove entra in contatto con Hans Arp, Massimo Campigli, Raquel Forner, Joaquín Torres García, Jean Hélion e Georges Vantongerloo e si unisce al gruppo Abstraction-Création, Art Non-Figuratif. Tornato a Buenos Aires nel 1933, espone i dipinti astratti e i collage prodotti durante il suo soggiorno, proponendo la prima mostra di arte non figurativa mai allestita in Argentina. In seguito, con l’artista Eugenia Crenovich (nota come Yente), torna in Italia per esporre a Genova e a Milano. Il suo lavoro è caratterizzato da un’insaziabile sperimentazione con precari oggetti quotidiani, forme geometriche irregolari e colori insoliti, in un’ampia gamma di stili modernisti e con l’accento sulle potenzialità espressive di materiali popolari. Abstracción con material (1934) – una delle prime opere realizzate dopo il

VASTO, ITALIA, 1897 – 1987, BUENOS AIRES, ARGENTINA

STRANIERI OVUNQUE

Juan Del Prete

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Danilo Di Prete

Danilo Di Prete è stato un artista figurativo e un pubblicitario autodidatta emigrato dall’Italia al Brasile; lì aderisce all’Astrattismo e apre la strada all’Arte Cinetica nel periodo successivo alla Seconda guerra mondiale. Adotta le tecniche di propaganda del Futurismo italiano per promuovere la sua carriera in entrambi i paesi, ma quando viene ignorato dai critici, la sua eredità viene offuscata. Mentre si trova ancora nell’Italia fascista, durante gli anni della guerra, partecipa alla mostra Artisti italiani in armi (1942), un’esposizione di opere di soldati dell’esercito italiano che raccontano le esperienze sul campo di battaglia. A San Paolo dal 1946 si muove presto negli ambienti italo-brasiliani ed è vicino a Francisco “Ciccillo” Matarazzo Sobrinho, fondatore del Museu de Arte Moderna e della Bienal de São Paulo. In effetti, Di Prete si aggiudica due premi per la pittura brasiliana alla Bienal: il primo per le sue nature morte

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cubiste all’edizione inaugurale del 1951 e il secondo nel 1965 per la sua serie di dipinti astratti, Paisagem Cósmica. Di Prete è attento ai movimenti artistici internazionali, studia il Cubismo e l’astrazione. A metà degli anni Settanta, adotta uno stile figurativo “metapsichico” che associa a dei viaggi cosmici attraverso l’interiorità dell’individuo. Il dipinto Untitled (1954) è rappresentativo della prima astrazione di Di Prete. La composizione provoca un conflitto tra la sezione più scura e ondulata alla base e i toni giallastri nella parte superiore del dipinto, dove si librano tre cerchi. Oltre alle piccole forme

ZAMBRA, ITALIA, 1911 – 1985, SAN PAOLO, BRASILE

geometriche disseminate tra le campiture di colore, spiccano altri tre elementi rettangolari. Il formato orizzontale, associato ai paesaggi, suggerisce una vista aerea lontana e sfocata. Questo dipinto annuncia l’interesse duraturo di Di Prete per le nuove tecnologie, che culminerà nella serie Paisagem Cósmica degli anni Sessanta, in cui l’artista esplora l’impatto dei viaggi nello spazio sull’arte e sulla vita. —Luiza Interlenghi

Untitled, 1954 Olio su tela, 59 × 72 cm. Photo Sergio Guerini. Collezione privata. Courtesy Almeida & Dale Galeria de Arte. © Sergio Guerini.

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Me Chani Ballerina della Regina, 1925 Olio su tela, 95 × 73 cm. Collezione Giovanni Ferro Milone, Vicenza.

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Il ritratto Me Ciani, Ballerina della Regina (1925) è legato al suo secondo soggiorno in Siam (1923–1924). Me Ciani, celebre danzatrice della corte siamese, è seduta a terra in posa aggraziata e sinuosa in un interno decorato con pitture murali. Milone, che aveva ritratto anche la regina Savang Vadhana, cattura lo sguardo fiero della danzatrice, rivolto direttamente allo spettatore. Il pittore si sofferma sulle preziose stoffe siamesi, mettendone in risalto la lavorazione e il luccichio

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dei metalli, e interrompe la figura in basso a destra con un taglio fotografico. L’opera, firmata e datata 1925, è stata probabilmente dipinta a Torino utilizzando schizzi, fotografie e ricordi raccolti durante il suo soggiorno, secondo una pratica comune agli artisti itineranti. Fortemente affascinato dalla danza e dal teatro siamesi, Milone si è anche ritratto allo specchio tra maschere teatrali siamesi e altri oggetti. —Carmen Belmonte

NUCLEO STORICO • ITALIANI OVUNQUE

Cesare Ferro Milone trascorre la sua vita tra Torino e Bangkok, dedicandosi alla ritrattistica e alla pittura murale. Dopo aver studiato all’Accademia Albertina di Belle Arti di Torino, nel 1904 parte per il Siam (l’attuale Thailandia), che nel 1870 aveva firmato un trattato di amicizia con l’Italia. Durante due diversi soggiorni (1904– 1907 e 1923–1924), realizza dipinti murali per il tempio di Wat Arun, per villa Ambara e villa Norasingh, sperimentando tecniche appropriate per la conservazione delle opere in ambienti umidi. Oltre a dipingere ritratti di dignitari siamesi, danzatori di corte, musicisti e bambini, si cimenta con la fotografia, immortalando la popolazione locale, la vita quotidiana e l’architettura. All’Esposizione di Torino del 1911, dedicata al Siam e alla sua produzione industriale (tessitura della seta, paraventi di madreperla, minerali e pietre preziose), novantasei opere di Milone hanno plasmato l’immagine del paese per il pubblico italiano ed europeo. È stato presidente dell’Accademia Albertina dal 1930 al 1933. Nel 1940 la Biennale riserva un’intera sala alle sue opere.

TORINO, ITALIA, 1880–1934

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Cesare Ferro Milone

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Simone Forti

Simone Forti, premiata con il prestigioso Leone d’Oro alla carriera alla Biennale Danza 2023, è pioniera nell’ambito della danza, della performance e dell’arte sperimentale. Forti cresce a Los Angeles, costretta a lasciare l’Italia per sfuggire alle leggi razziali annunciate da Mussolini nel 1938. All’inizio affina la propria comprensione della danza studiando con Anna Halprin nel nord della California. Nel 1959, si trasferisce a New York, dove frequenta le lezioni di Martha Graham e Merce Cunningham, trovandole però restrittive ed eccessivamente basate sulle competenze coreutiche. Debutta come coreografa nel 1960 con performance come See-Saw e Rollers, che vanno a costituire la rivoluzionaria serie Dance Constructions del 1961, eseguita per la prima volta nel loft di Yoko Ono. Rientra in Italia nel 1968 e trascorre circa un anno a Roma, dove collabora con Fabio Sargentini alla Galleria L’Attico, trampolino di lancio per la sua ricerca e per la sua influenza sulla danza in Italia.

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Huddle (1961), dalla serie Dance Constructions, coinvolge circa sette performer che si abbracciano in uno stretto accalcarsi di corpi. A turno, ogni danzatore si arrampica sugli altri per un attimo, creando una forma “simile a una piccola montagna”, nelle parole dell’artista. L’opera trasforma in scultura i corpi dei performer, giocando sui confini fra soggetto e oggetto. La metafora si riferisce ai legami interpersonali e alla collettività, nonché all’individuale ciclo di superamento delle sfide, fisicamente espresso dal reggere il peso e dal condividerlo. Oltre alle coreografie, Forti pratica ampiamente il disegno. Nel

FIRENZE, ITALIA, 1935 VIVE A LOS ANGELES, USA

P f s G c n n s 1 a m d J f V p q f e 1 f la c C e a L s s la c e d il G E

1966, realizza la serie di acquerelli Red Hat, intitolata così per un cappello da lei posseduto, che diviene metonimia della stessa artista: “In qualche modo [il cappello rosso] è diventato il segno distintivo di questo personaggio, io, che corro sulle montagne, talvolta inseguita da cupe figure”. In assonanza con le performance, i disegni si muovono sul limite tra soggetto e oggetto, evidenziando una convergenza tra vita e arte. L’opera di Simone Forti è esposta per la prima volta alla Biennale Arte. —Sofia Gotti Adventure of Red Hat, Red Hat Pursued with Yellow, 1966 Acquerelli su carta, 45,5 × 38 cm. Courtesy Collezione Malagoli, Modena; Galleria Raffaella Cortese, Milano e Albisola; The Box, Los Angeles.

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Miliciano, Trinidad, Cuba (1961/2014-2015) è una fotografia scattata a Cuba quando Gasparini vi soggiorna, tra il 1961 e il 1965. Come già a Caracas, a Cuba continua a lavorare con pubblicazioni comuniste come Lunes de Revolución e organizzazioni quali El Consejo Nacional de la Cultura Cubana per documentare la campagna di alfabetizzazione sostenuta dallo Stato, oltre a scene di vita quotidiana nei contesti rurali a seguito della rivoluzione cubana. Questa fotografia è il ritratto di un guerrigliero armato con indosso un’uniforme sporca. Il titolo della serie di cui fa parte questa immagine, Serie Cuba, de la utopia al desencanto (1961–1996), sottolinea le dure condizioni di vita sull’isola, che Gasparini cerca di rivelare, non edulcorate dall’ideologia. A partire da questa serie redige uno dei suoi primi libri di fotografia, La ciudad de las columnas (Havana, 1970), con prefazione a cura del famoso romanziere cubano Alejo Carpentier. —Sofia Gotti

Miliciano, Trinidad, Cuba, 1961/2014-2015 Stampa alla gelatina d’argento, 60 × 49 cm. Courtesy l’Artista.

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STRANIERI OVUNQUE

Paolo Gasparini inizia la propria formazione fotografica nello studio di Aldo Mazucco a Gorizia. I suoi primi lavori condividono con il cinema neorealista italiano l’interesse nel ritrarre le difficili realtà sociali del dopoguerra. Nel 1954 si trasferisce a Caracas all’apice dello sviluppo e della modernizzazione promossi dalla dittatura di Marcos Pérez Jiménez (1952–1958). Gasparini fotografa il Modernismo del Venezuela attraverso gli edifici pubblici progettati da architetti quali Carlos Raúl Villanueva. Nel frattempo collabora con riviste e pubblicazioni di sinistra. Nel 1976, con María Teresa Boulton fonda La Fototeca (1976–1979), la prima galleria fotografica con libreria del Venezuela. Combinando impegno politico e impeto artistico, Gasparini attraversa tutta l’America Latina, documentando le strutture e le diseguaglianze sociali del continente, spesso lavorando fianco a fianco con figure autorevoli quali ad esempio il consulente artistico dell’UNESCO Damián Bayón, il celebre sociologo Néstor García Canclini e lo scrittore Edmundo Desnoes.

GORIZIA, ITALIA, 1934 VIVE A TRIESTE, ITALIA, CARACAS, VENEZUELA E CITTÀ DEL MESSICO

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Paolo Gasparini

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Umberto Giangrandi

Umberto Giangrandi, artista, attivista e insegnante di origine italiana, ha trascorso mezzo secolo a documentare la realtà sociale in Colombia, sua patria dal 1966, e a sperimentare con rappresentazioni multimediali del corpo. Cresciuto a Lucca durante le tumultuose ricostruzioni del dopoguerra, Giangrandi avverte una precoce affinità con la figurazione viscerale di Giorgio de Chirico, Francis Bacon e Pablo Picasso. Dopo essere stato nominato professore di arte presso l’Universidad Nacional de Colombia, Giangrandi intraprende una carriera che coniuga la pedagogia con il dibattito politico. Con il Laboratorio Giangrandi (fondato nel 1968), è stato un pioniere dello studio della stampa in Colombia. Come co-fondatore del Taller 4 Rojo (1972–1976), Giangrandi ha orientato il potenziale espressivo e la riproduzione seriale e meccanica della stampa verso urgenti lotte sociopolitiche. Nel corso della sua lunga carriera, Giangrandi è tornato ossessivamente sul tema del corpo emarginato, reso grottesco e libidinoso, senza censurare la violenza della sua repressione o la libertà del suo erotismo.

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In Bodegón Erótico (1989), Giangrandi rielabora e dipinge una stampa realizzata in precedenza. Attraverso la frutta monocromatica in primo piano e il tratteggio irregolare della parete che la incornicia, Giangrandi pone in evidenza lo sfondo di carta stampata dell’opera, riecheggiando i collage multimediali che ha prodotto per il radicale Taller 4 Rojo. Dipingendo sopra la ciotola di frutta che originariamente si trovava a destra della bottiglia di vetro, Giangrandi fa spazio nella composizione a una coppia che si abbraccia nel paesaggio verdeggiante che si estende sul fondo. Facendo riferimento

PONTEDERA, ITALIA, 1943 VIVE A BOGOTÁ, COLOMBIA

alla sua precedente serie di notturni sessualmente espliciti, Giangrandi giustappone la rappresentazione inequivocabile del sesso in uno spazio aperto e pubblico con una suggestiva natura morta. Il simbolismo codificato in questa composizione di frutta tagliata a metà con il decanter a collo lungo indica una repressione del desiderio a cui Giangrandi risponde con una scena di libertà disinibita. L’opera di Umberto Giangrandi è esposta per la prima volta alla Biennale Arte. —Lucia Neirotti

Bodegón Erotico, 1989 Acrilico e serigrafia su carta, 50,7 × 69,2 cm. Courtesy Proyecto Bachué, Colombia.

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Indian and Girl with Ethnic Clothes from Cusco, 1917 ca. Gelatina d’argento e carta, 24 × 18 cm. Collezione Diran Sirinian, Buenos Aires.

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A prima vista, Indian and Girl with Ethnic Clothes from Cusco (1917 circa) ricorda le precedenti rappresentazioni di “tipi” etnici. In questa fotografia di studio, Gismondi sceglie di ritrarre individui in abiti quechua tipici di Cusco, in Perù, invece di quelli delle locali comunità aymara di La Paz e dei dintorni della città. Lo sfondo è decisamente non andino, ed evoca invece un sentimentale paesaggio onirico di giardini europei e colline toscane. L’uomo seduto sui mattoni dello studio regge una tromba di conchiglia e un bastone di autorità politica. Lo storico dell’arte Pedro

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Querejazu ha identificato nella bambina, che tiene in mano una corda che imita la forma di un fuso e di un filo, il figlio del fotografo, Luis Antonio. A un esame più attento, l’assenza degli strumenti di filatura diventa evidente, così come la presenza centrale della piccola mano pallida del bambino che partecipa con paziente attenzione alla creazione di questa finzione. L’opera di Luigi Domenico Gismondi è esposta per la prima volta alla Biennale Arte. —Lisa Trever

NUCLEO STORICO • ITALIANI OVUNQUE

Luigi Domenico Gismondi, italiano di nascita, è stato il più importante fotografo boliviano del primo Novecento e uno dei tanti immigrati europei stabilitisi in Sud America alla fine del XIX secolo. Nel 1901, sposa a Mollendo, in Perù, Inés Morán Gandarillas e molti dei loro figli compaiono nelle sue fotografie, non solo in ritratti di famiglia ma anche in vedute monumentali delle antiche rovine di Tiwanaku e in vari altri ambienti. La pratica di Gismondi comprende il paesaggio, vedute urbane e il lavoro in studio. Tra le sue commissioni figurano progetti per compagnie ferroviarie e minerarie e ritratti ufficiali di membri dell’élite politica boliviana. Gismondi ha creato fotografie che rivelano un’eccezionale abilità tecnica e un fine occhio artistico, soprattutto nella realizzazione di sensibili ritratti di individui indigeni che respingono l’appiattimento delle caricature di matrice costumbrista o indigenista dell’epoca. A 114 anni dalla sua fondazione, lo studio di Gismondi a La Paz continua a essere gestito dai suoi discendenti.

SANREMO, ITALIA, 1872 – 1946, MOLLENDO, PERÙ

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Luigi Domenico Gismondi

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Linda Kohen

MILANO, ITALIA, 1924 VIVE A MONTEVIDEO, URUGUAY

Linda Kohen – artista ebrea nata in Italia – fugge dal fascismo nel 1939, ancora adolescente, per iniziare una carriera che dura da sessant’anni a Montevideo, Uruguay. Sostenuta dalla famiglia, Kohen prima si avvicina alla pittura per vocazione negli atelier di Pierre Fossey e Horacio Butler, entrambi attivi nella Parigi fra le due guerre, poi come una delle poche donne del gruppo Taller Torres-García. Nel 1973, con l’avvento della dittatura militare in Uruguay, abbandona i paesaggi urbani e il Costruttivismo delle prime opere e passa a studi intimi, quasi monocromatici in quello che Augusto Torres – figlio di Joaquín Torres García e uno dei mentori di Kohen – definisce come il suo “periodo bianco”. Nell’esprimere ciò che l’artista definisce il bisogno di “aggiustare il mio mondo che sentivo sul punto di sparire”, continua a dipingere oggetti e spazi del quotidiano in uno stile riservato, confessionale, sia negli anni che trascorre in Brasile – il secondo esilio politico della sua vita – che al suo ritorno definitivo in Uruguay nel 1985. In El Sillón (1999), un’opera tratta da una serie di studi, Kohen costruisce una poltrona completamente bianca a partire da volumi curvi, scorciati ma inequivocabili. La tenue tavolozza di bianchi e ocra e l’abbozzata luminosità della pittura diluita riducono il soggetto alla sua essenzialità. Dipingendo a memoria, con un approccio minimalista alla rappresentazione Kohen comunica l’ordinarietà della vita di tutti i giorni e l’intimità della vita privata. Lo stile idiosincratico di Kohen, che nasce dall’ansia di registrare e ricordare, si sviluppa dopo decenni di spostamenti forzati e di lutto. Sedie, letti, tavole da BIENNALE ARTE 2024

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pranzo: oggetti vuoti in interni disabitati sono ricorrenti nella sua opera come fossero ritratti di custodi assenti. Desolato e silenzioso, El Sillón viene dipinto appena pochi mesi dopo la morte della madre dell’artista, avvenuta nel 1998. Con una composizione dall’ingannevole semplicità, Kohen dipinge l’assenza, osservando come la memoria trasformi gli scenari domestici familiari in spazi carichi di solitudine e nostalgia. L’opera di Linda Kohen è esposta per la prima volta alla Biennale Arte. —Lucia Neirotti El Sillón, 1999 Olio su tela, 93 × 65 cm. Courtesy l’Artista.

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Legong Dancer , 1939 Olio su tela, 113 × 95 cm. Courtesy Collezione Philippe Augier, Museum Pasifika.

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Le pennellate luminose suggeriscono la musicalità della danza Legong, mentre la figura isolata è interrotta dal taglio fotografico dato al dipinto. Il Legong è un genere di danza secolare balinese del XIX secolo, originariamente associato al palazzo reale e successivamente eseguito nei villaggi e durante le cerimonie del tempio. Dagli anni Venti, le danze Legong sono state protagoniste di tournée all’estero, diventando un’immagine iconica della cultura balinese. Quando Locatelli assisteva agli spettacoli Legong, la

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danza era ancora eseguita solo da ragazze in età prepuberale, pratica che di solito abbandonavano dopo il matrimonio. Le danzatrici bambine e le giovani fanciulle sono soggetti ricorrenti nella produzione di Locatelli intorno al 1939 (Danzatrice Barong; Danzatrice giavanese; Giovane balinese). Sono raffigurate in scenari sospesi ed esotici che inevitabilmente evocano l’esperienza di Gauguin a Tahiti. —Carmen Belmonte STRANIERI OVUNQUE

Romualdo Locatelli inizia a dipingere nella bottega di famiglia a Bergamo, completando la sua formazione all’Accademia Carrara. Affascinato dalle tradizioni locali, viaggia in Sardegna, Abruzzo e Toscana. Dopo un viaggio in Tunisia nel 1927, inizia a dipingere soggetti orientalisti: paesaggi, scene di vita quotidiana e ritratti di popolazioni locali filtrati con lo sguardo coloniale europeo. Quando si trasferisce a Roma, è già un affermato pittore orientalista e uno stimato ritrattista: il re Umberto di Savoia lo incarica dell’esecuzione dei ritratti dei figli Vittorio Emanuele e Maria Pia. Nel 1939, si reca a Giava, dove le autorità locali gli commissionano svariati ritratti. Dopo alcuni mesi, si trasferisce a Giacarta e poi a Bali. Qui, la sua produzione artistica si focalizza principalmente sulle danze tradizionali locali e sulle giovani fanciulle raffigurate secondo i canoni dell’esotismo. I suoi dipinti furono esposti alla Doughitt Gallery di New York nel 1941. Allo scoppio della Seconda guerra mondiale, si trasferisce a Manila dove, nel 1943, scompare durante una battuta di caccia. Legong Dancer (1939) fu dipinto durante il soggiorno di Locatelli a Bali, in Indonesia. Raffigura il movimento sinuoso di una giovane ballerina che tiene in mano un ventaglio.

BERGAMO, ITALIA, 1905 – 1943, MANILA, FILIPPINE

NUCLEO STORICO • ITALIANI OVUNQUE

Romualdo Locatelli

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Amadeo Luciano Lorenzato

Amadeo Luciano Lorenzato nasce nel 1900 a Belo Horizonte, la prima città pianificata del Brasile: la sua famiglia, immigrata dall’Italia, lavora infatti alla costruzione della nuova capitale dello stato del Minas Gerais. L’adolescenza lo vede apprendista di pittori e decoratori, prima di trasferirsi in Italia per sfuggire alla pandemia di influenza spagnola che aveva raggiunto il Brasile dall’Europa (1918– 1919). Dopo la Prima guerra mondiale, è impiegato nella ricostruzione della cattedrale di Arsiero e frequenta la Reale Accademia delle Belle Arti di Vicenza. Tornato in Brasile nel 1948, lavora nell’edilizia civile prima di dedicarsi esclusivamente alla pittura da cavalletto a partire dai primi anni Sessanta fino alla morte, avvenuta nel 1995. Lorenzato

è noto per i suoi dipinti di paesaggio che documentano la trasformazione di Belo Horizonte e dei suoi dintorni naturali, nonché per la tecnica unica che prevede l’utilizzo di pettini per applicare la pittura, fondere i colori e creare texture. La natura gli offre spesso un’ispirazione formale che lo collega a molti pittori europei, da Giotto a Matisse; tuttavia, nella sua opera è spesso legata a contesti sociali più ampi. La composizione frontale di Araucárias (1973) mostra una linea di alberi rigidamente disposti che proiettano le loro ombre quasi astratte lungo un sentiero accidentato e terroso nella parte inferiore del dipinto. Le conifere sempreverdi appartengono a una specie indigena del Brasile meridionale, ampiamente

BELO HORIZONTE, BRASILE, 1900–1995

utilizzata nella costruzione delle case dei coloni durante il boom dell’immigrazione europea alla fine del XIX secolo; questi alberi, infatti, presenti nell’iconografia artigianale brasiliana del primo Novecento, erano ricercati dall’élite come simboli che richiamavano il gusto europeo. Se l’uso di questo motivo da parte di Lorenzato è evocativo delle storie di immigrazione e diaspora, esso fa anche parte di un più ampio corpus di opere in cui l’artista rappresenta altre piante brasiliane di importanza storica. —Rodrigo Moura

Araucárias, 1973 Olio su tavola, 61,5 × 45,5 cm. Photo Edouard Fraipont. Collezione privata. Courtesy Gomide & Co. © Edouard Fraipont.

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SCALEA, ITALIA, 1942 VIVE A SAN PAOLO, BRASILE

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La ricerca delle radici è una metafora toccante del lavoro di Maiolino. Ano 1942 (1973) fa parte della serie Mapas Mentais, iniziata nel 1971 – all’epoca del suo ritorno a Rio de Janeiro dopo avere vissuto tre anni a New York. Lì era entrata in contatto con alcuni artisti latinoamericani sfuggiti alle dittature militari del Cono Meridionale, inclusa quella brasiliana, e impegnati ad affrontare le loro storie travagliate tramite il linguaggio dell’arte concettuale. Pur utilizzando strumenti formali simili, come le griglie e il linguaggio, la serie Mapas Mentais stratifica la dimensione politica con quella personale.

Ano 1942 rimanda alla data di nascita dell’artista in Italia. Tra i molteplici pezzi della serie che ricostruiscono la mappa dell’Italia, questo è l’unico in cui la sagoma del Paese è bruciata nella sua interezza. Questo atto violento evoca il bombardamento senza precedenti perpetrato ai danni dell’Italia dalle forze alleate nel 1942 ed esprime anche l’astratto senso di alienazione dell’artista nei confronti del proprio paese d’origine. L’opera di Anna Maria Maiolino è esposta per la prima volta alla Biennale Arte. —Sofia Gotti

STRANIERI OVUNQUE

Anno 1942 - dalla serie Mapas Mentais, 1973-1999 Inchiostro, caratteri tipografici trasferibili e segni di bruciatura su carta in una scatola di legno, 50 × 42 cm. Courtesy l’Artista e Hauser & Wirth. © Anna Maria Maiolino.

NUCLEO STORICO • ITALIANI OVUNQUE

Nel corso dei suoi sei decenni di carriera, Anna Maria Maiolino ha esplorato diversi linguaggi, tra cui pittura, disegno, xilografia, fotografia, video performance e scultura. Il suo viaggio geografico ed emotivo ha una svolta trasformativa nel 1954, quando dalla nativa Italia emigra in Venezuela con i genitori e i fratelli. Nel 1960, Maiolino si stabilisce a Rio de Janeiro, dove entra rapidamente in contatto con una vivace comunità di giovani artisti. Durante la sua formazione con Ivan Serpa presso il Museo d’Arte Moderna, sperimenta la xilografia, una tecnica associata alle tradizioni popolari brasiliane, che segna l’inizio della sua esplorazione dell’identità. Nel ricordare questo periodo l’artista ha dichiarato: “per noi, avvicinarci al genere popolare significava cercare le nostre radici”.

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Anna Maria Maiolino

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Anita Malfatti

Anita Malfatti è considerata un’artista di punta del Modernismo brasiliano. Figlia di un insegnante di pittura, viene incoraggiata a seguire un’educazione artistica all’estero. Trascorre anni formativi a Berlino (1910-1914) e a New York (1914-1916), che sfociano in una serie di ritratti e paesaggi espressionisti, presentati a San Paolo nel 1917. La forza psicologica dei colori non naturalistici viene accolta con molte polemiche dalla stampa dell’epoca; il contraccolpo sconvolge Malfatti al punto che abbandona la pittura espressionista e gli intellettuali antiaccademici la elevano a martire della causa modernista. Negli anni Venti studia a Parigi, dove assimila le tendenze naturalistiche prevalenti dell’epoca. Nel corso del tempo, introduce nei propri dipinti nuove tecniche e nuovi soggetti, come le scene di feste popolari e di vita di campagna, intenzionalmente rappresentate come se fossero eseguite da una mano dilettante.

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Durante la sua prima formazione artistica a Berlino e a New York, Anita Malfatti realizza ritratti espressionisti in cui coglie le caratteristiche psicologiche dei suoi modelli. In A mulher de cabelos verdes (1915), l’artista costruisce la figura alternando macchie di rosso e di verde, creando così un vibrante contrasto. L’anatomia del volto è distorta da tratti allungati (fronte, mento, orecchio e naso) e da linee arrotondate (guance e doppio mento) che sottolineano l’età avanzata della donna ritratta ed entrano in risonanza con lo sfondo astratto del

SAN PAOLO, BRASILE 1889-1964

dipinto. Le sopracciglia inarcate, lo sguardo intrigante e il sorriso incerto contribuiscono all’espressione enigmatica, persino inquietante, della modella. Quest’opera figura fra quelle esposte alla mostra che Malfatti tenne a San Paolo nel 1917, esposizione considerata un punto di svolta nella storia dell’arte in Brasile. L’opera di Anita Malfatti è esposta per la prima volta alla Biennale Arte. —Regina Barros

A mulher de cabelos verdes, 1915 Olio su tela, 61 × 51 cm. Photo Sergio Guerini. Collezione Airton Queiroz, Fortaleza, Brasile. Courtesy Almeida & Dale Galeria de Arte. © Sergio Guerini.

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Falce, pannocchia e cartucciera, 1928 Stampa alla gelatina d’argento, 17 × 13,5 cm. Photo Riccardo Toffoletti. Courtesy Maria Domini; Comitato Tina Modotti.

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Operaia, rivoluzionaria, migrante ed esule al tempo stesso, Tina Modotti ha scattato alcune delle fotografie più iconiche che caratterizzano il periodo successivo alla Rivoluzione messicana (1910-1917). Proveniente da un ambiente operaio, nel 1912 emigra con la sua famiglia dalla nativa Italia, trasferendosi dapprima in Austria e successivamente in California. Nella tarda adolescenza lavora come attrice e modella per artisti, prima di trasferirsi a Città del Messico nel 1923, dove sviluppa rapidamente una pratica fotografica indipendente e si immerge nei circoli intellettuali e militanti comunisti – frequentati da personalità come Frida Kahlo, David Alfaro Siqueiros, Diego Rivera, André Breton e Lev Trockij. Sovvertendo lo sguardo maschile puntato su di lei nel corso della sua carriera, l’opera di Modotti è alimentata dal desiderio di contrastare le condizioni di disuguaglianza che lei stessa aveva vissuto e sofferto. Le sue immagini denunciano fermamente lo sfruttamento, indipendentemente dal fatto che i suoi soggetti siano donne o braccianti incontrati per strada, compagni di riunioni politiche, oggetti o paesaggi urbani.

UDINE, ITALIA, 1896 – 1942, CITTÀ DEL MESSICO, MESSICO

La fotografia di Modotti Falce, pannocchia e cartuccera (1928) appartiene a una delle serie esposte nell’unica personale dell’artista tenutasi nel corso della sua vita, presso la Biblioteca Nacional dell’Universidad Nacional Autónoma de Mexico nel 1929. Capaci di coniugare la fotografia formalista con la politica rivoluzionaria, le immagini accostano oggetti evocativi di militanti comunisti e lavoratori: falci, cartuccere, chitarre e mais. La mostra fu ampiamente elogiata dalla stampa e da personaggi come il muralista Siqueiros, che la proclamò “la prima mostra

fotografica rivoluzionaria in Messico”. Tra le altre opere esposte, erano presenti foto che portavano il nome degli articoli della Costituzione messicana riguardanti i diritti dei lavoratori e la proprietà della terra. Poche settimane dopo la mostra, Modotti fu espulsa dal Messico per la sua attività di dissidente e per il presunto coinvolgimento nel tentato omicidio del presidente Pascual Ortiz Rubio. L’opera di Tina Modotti è esposta per la prima volta alla Biennale Arte. —Sofia Gotti

STRANIERI OVUNQUE

Tina Modotti

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Costantino Nivola

Costantino Nivola fugge dall’Italia nel 1937 e si trasferisce negli Stati Uniti, dove vive fino alla morte. Esplorando la funzione sociale dell’arte attraverso la scultura, crea monumentali bassorilievi e sculture in cemento, opere più intime in terracotta e, negli ultimi anni, iconici idoli in marmo e bronzo ispirati alle culture preistoriche del Mediterraneo. Nato a Orani, un piccolo paese della Sardegna, Nivola si forma come grafico a Monza e a Milano, sotto la guida di Marino Marini e degli architetti Giuseppe Pagano e Edoardo Persico, e viene presto assunto dall’ufficio pubblicità di Olivetti. Anarchico e antifascista, sposato con un’ebrea, Nivola diventa una figura centrale negli scambi culturali transatlantici del secondo dopoguerra. Un cruciale incontro con Le Corbusier, nel 1946, lo porta a dedicarsi alla scultura e a successive fruttuose collaborazioni con architetti moderni quali José Luís Sert, Eero Saarinen, Marcel Breuer, Joseph Allen Stein e altri, per progetti di edilizia pubblica e privata.

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ORANI, ITALIA, 1911 – 1988, EAST HAMPTON, USA

L’apertura dello showroom Olivetti sulla Fifth Avenue a New York, nel 1954, segna l’affermazione dello “stile italiano” negli Stati Uniti nonché il riconoscimento di Nivola come scultore. Il monumentale bassorilievo che domina lo spazio – realizzato con l’esclusiva tecnica di sand casting sviluppata dall’artista mentre giocava con i figli sulle spiagge di Long Island – trae ispirazione dalle figurine preistoriche sarde, dalle maschere tradizionali del carnevale isolano e dall’interpretazione della New York School delle culture totemiche dei nativi americani. Integrandosi perfettamente con gli elementi architettonici progettati dallo studio milanese BBPR, il bassorilievo, ora al Science Center dell’Università di Harvard, emana un’aura mediterranea senza tempo. Questa maquette, che Nivola ha esposto anche come opera d’arte autonoma, possiede una qualità inquietante: il petto appuntito e il volto mascherato di nero evocano simultaneamente umorismo e minaccia.

I F u r q d p a d B a f n in p c G d c e e a s c c C P c p s d t n a

—Antonella Camarda

Bozzetto per lo show-room Olivetti a New York, 1953 Gesso su sabbia con policromia, 123,5 × 76 × 7 cm. Courtesy Fondazione Nivola.

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Immigrato italiano a San Paolo, Fulvio Pennacchi sviluppa uno stile pittorico figurativo rappresentativo della vita quotidiana e popolare, e distaccato dalle tendenze del primo Novecento orientate all’Astrattismo. Dopo essersi diplomato all’Accademia di Belle Arti di Lucca, nel 1929 approda in Brasile dove vivrà fino alla sua morte, avvenuta nel 1992. Lavora come insegnante, crea opuscoli pubblicitari e si distingue come pittore di affreschi. Grazie alla padronanza del disegno, all’armonizzazione cromatica e all’integrazione di elementi della cultura italiana e brasiliana, è stato l’unico artista con una formazione specifica a far parte del collettivo Grupo Santa Helena, come venne poi battezzato. Condividendo gli spazi del Palacete Santa Helena, nel centro di San Paolo, il gruppo partecipò ad alcune mostre sebbene, pur discostandosi dall’accademismo e dalle tendenze innovative dell’arte, non sviluppò mai un linguaggio artistico condiviso.

In O Circo (1942), Pennacchi utilizza toni ocra per affrontare il tema centrale degli spettacoli rurali tradizionali brasiliani. Una tenda occupa il centro del dipinto, comprendente una struttura circolare verde e marrone su cui campeggia la scritta “CIRCO”. Accanto alla porta d’ingresso, è presente un cartello che invita il pubblico ad attendere mentre, di fronte, due clown con il volto dipinto di bianco guardano l’osservatore. Altri personaggi appaiono di spalle o di profilo, per lo più persone di colore e alcuni animali. Un asino trasporta un contadino che attraversa la scena; il pavimento è fatto

di “terra rossa”, nome con cui gli immigrati italiani che lavoravano nelle piantagioni di caffè chiamavano il terreno caratteristico di alcune regioni brasiliane. Sullo sfondo, al crepuscolo, appaiono le montagne, alcune case e una chiesa. Pennacchi assorbiva ciò che vedeva direttamente nell’ambiente circostante, dipingendo come fosse l’interprete di un Brasile bucolico e popolare. L’opera di Fulvio Pennacchi è esposta per la prima volta alla Biennale Arte. —Daniela Rodrigues

O Circo, 1942 Olio su legno, 50 × 70 cm. Photo Sergio Guerini. Collezione Maria Cecilia Capobianco. Courtesy Almeida & Dale Galeria de Arte. © Sergio Guerini.

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VILLA COLLEMANDINA, ITALIA, 1905 – 1992, SAN PAOLO, BRASILE

STRANIERI OVUNQUE

Fulvio Pennacchi

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Claudio Perna

Artista concettuale e geografo, Claudio Perna nasce a Milano, in Italia, ed emigra nel 1955 in Venezuela, dove esplora pratiche concettuali basate su performance, film, fotocopie e fotografia. Dopo essere diventato professore di geografia presso l’Universidad Central di Caracas, nel 1963 intraprende il suo primo viaggio a New York; qui incontra il mondo del Minimalismo astratto e adotta il Concettualismo come mezzo per esplorare la coesistenza sociale, la geografia umana e la scienza in relazione alla conoscenza ancestrale, alla cultura popolare e alla comunicazione dei mass media. All’inizio degli anni Ottanta fonda RADAR, Centro per l’Arte e l’Ecologia, in cui amplia le sue esplorazioni intorno al ruolo degli archivi, della memoria e della pedagogia nelle complesse relazioni tra i soggetti e il loro ambiente, sia urbano che rurale, in particolare per quanto riguarda la determinazione dell’identità sociale.

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Come annuncia il titolo, Venezuela—Map Series appartiene a una serie prolifica di opere (1970-1990) in cui Perna esprime, attraverso l’uso insistente di mappe, il desiderio di acquisire una conoscenza completa del territorio venezuelano. Questi sistemi di rappresentazione geografica vengono trasformati in collage che incorporano ritagli di riviste, giornali, disegni e oggetti come sigarette, carte d’identità e fotografie personali. In questo lavoro in particolare, l’artista assembla fotocopie di fili tradizionali utilizzati nei tessuti venezuelani, l’immagine di una mano che tiene un paio di forbici aperte e una

MILANO, ITALIA, 1938 – 1997, HOLGUÍN, CUBA

vertebra solitaria – elementi il cui significato è definito dalla loro funzionalità lineare. Questi ultimi sono messi a confronto con un’immagine ravvicinata delle linee create da una camicia che si apre scoprendo lentamente un petto villoso, proprio accanto alla rappresentazione della frontiera tra Colombia e Venezuela. Un caso esemplare di come l’artista abbia cercato una possibilità di conoscere se stesso attraverso lo studio del territorio, creando un legame tra quest’ultimo, l’arte e la soggettività. —Nicolas Cuello

Venezuela - Map Series, (1970-1990) Fotocopie, foto su mappa cartacea, 62,2 × 85,1 cm. Photo Arturo Sanchez. Courtesy Institute for Studies on Latin American Art (ISLAA).

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Bona Pieyre de Mandiargues (nata Tibertelli) è nipote e allieva di Filippo de Pisis. Nel 1947 lo segue a Parigi, dove abbraccia il Surrealismo e si dedica alla magia, ai sogni, alla sessualità e all’occulto. Per l’intera sua vita sperimenta assemblaggi di tessuti e pittura astratta e figurativa. Sposa il critico d’arte e scrittore André Pieyre de Mandiargues. Alla fine degli anni Cinquanta, inizia a utilizzare dense miscele di terra e polvere per rappresentare il cosmo infuocato. Crea opere d’arte a partire da abiti maschili, carichi di simboli personali e riferimenti alchemici, ed è influenzata da viaggi in Messico, India e Afghanistan. Nel 1967, riunitasi con de Mandiargues, si cimenta in una serie di dipinti neometafisici e di assemblaggi a sfondo psicologico.

Allontanandosi dalla stereotipata rappresentazione surrealista della donna come musa o figura infantile, Bona Pieyre de Mandiargues si identifica con la lumaca, simbolo androgino volto a denotare la sua mente complessa e il vertiginoso universo. Il suo percorso artistico fu costellato da periodi di depressione clinica, dopo la nascita della figlia Sibylle, che ebbero come conseguenza fasi alterne di inerzia creativa e attività frenetica. In Toro Nuziale (1958), un suo primo cruciale assemblaggio tessile, l’artista integra brandelli di un abito da uomo con una tavolozza di rossi, grigi, marroni e bianchi. Crea una composizione simmetrica e tridimensionale che richiama il simbolo venerato dai surrealisti:

la testa di toro. Tuttavia, de Mandiargues sovverte l’immaginario virile tipicamente associato al toro – grazie al sottile suggerimento di uno smembramento dionisiaco del corpo maschile tramite una figura retorica metonimica (in cui l’abito sostituisce l’uomo), e attraverso il titolo che rimanda al sacrificio rituale del toro nei matrimoni spagnoli medioevali – e presenta invece una creatura addomesticata e sottomessa, che si piega alla volontà della donna-artista. Nel 1962, l’opera è apparsa sulla copertina del catalogo della mostra personale dell’artista presso Arturo Schwarz a Milano, rivelandone la duratura importanza. L’opera di Bona Pieyre de Mandiargues è esposta per la prima volta alla Biennale Arte. —Antonella Camarda

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ROMA, ITALIA, 1926 – 2000, PARIGI, FRANCIA

NUCLEO STORICO • ITALIANI OVUNQUE

Bona Pieyre de Mandiargues

Toro Nuziale, 1958 Assemblage, 90 × 116 × 2,5 cm. Collezione privata. Courtesy Sibylle Pieyre de Mandiargues.

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Ester Pilone

Dopo essere approdata in Argentina nel 1939, Ester Pilone sviluppa uno stile personale nell’ambito dell’Espressionismo astratto, caratterizzato da tendenze informali. Il suo lavoro punta a realizzare una matericità densa e non figurativa e una sobrietà cromatica. Anche se a partire dal 1954 partecipa a numerose edizioni del Salón Nacional, è solo negli anni Sessanta che la sua arte ottiene un più ampio riconoscimento. Nel 1963 intraprende un viaggio in Europa per visitare Francia, Italia e Spagna, con l’obiettivo di studiare e perfezionare il suo lavoro di artista. In quello stesso periodo tiene una serie di mostre personali nelle gallerie e nei musei più prestigiosi del circuito artistico d’avanguardia di Buenos Aires, tra i quali Lirolay (1961, 1962), Van Riel (1965, 1969), Museo Nacional de Bellas Artes di Buenos Aires (1979) e molti altri.

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Il dipinto Luz Amarilla (1970) di Ester Pilone è un chiaro esempio della combinazione unica di tecniche che l’artista utilizza nella sua pratica, grazie alle quali riesce a creare scenari astratti in cui coesistono diversi tipi di temperamenti emotivi. In particolare, in quest’opera possiamo notare come la purezza monocromatica del giallo crei una spazialità luminosa. All’interno di questo spazio, Pilone inserisce una misteriosa forma astratta i cui bordi tremuli creano un contrasto formale, amalgamando il diverso vocabolario della pittura non figurativa. In Luz Amarilla, l’ambivalenza simbolica risultante da questi atteggiamenti contrastanti è ulteriormente accentuata dalla difficile coesistenza di tecniche moderne opposte. Tra queste, la compresenza di una precisione geometrica ascetica e l’espressione straziante di

CUNEO, ITALIA, 1920 – [LUOGO E DATA IGNOTI]

pennellate cinetiche create utilizzando spatole cariche, che lei di solito distribuisce con le mani: un peculiare approccio alla pittura che definisce la forza espressiva della sua astrazione. L’opera di Ester Pilone è esposta per la prima volta alla Biennale Arte. —Nicolas Cuello

Luz Amarilla, 1970 Olio su tela, 50,1 × 112,1 cm. Collezione del Museo de Arte Moderno di Buenos Aires.

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NUCLEO STORICO • ITALIANI OVUNQUE

Diplomata all’Istituto d’Arte di Venezia nel 1955, Maria Polo si stabilisce prima a Roma e poi, nel 1962, a Rio de Janeiro, in un periodo in cui l’astrazione e l’oggettualità sono i principali interessi dei locali gruppi d’avanguardia. I dipinti esposti alla fiera d’arte Cento Pittori di Via Margutta (Roma, 1958) attirano l’attenzione di Pietro Maria Bardi, il fondatore italobrasiliano del Museu de Arte de São Paulo, che la invita a tenere una mostra personale nel 1960. Le sue opere sono influenzate dalla tragica esperienza rappresentata dall’essere cresciuta durante la Seconda guerra mondiale; le sue serie di paesaggi di Venezia e San Paolo erano prevalentemente nere. La luce e i colori del Brasile ravvivano in seguito la tavolozza dell’artista, includendo maggiormente bianco, giallo, rosso e blu. Quando Polo si trasferisce a Rio, è già un’artista astratta che sperimenta i confini delle sue composizioni. Negli anni 1963 e 1965 partecipa alla Bienal de São Paulo.

Untitled (1962) appartiene alla serie presentata all’undicesimo Salone d’Arte Moderna di Rio de Janeiro. Il dipinto combina forme dense e frammentate che sembrano esplodere su uno sfondo grigio. Vuoti luminosi competono con geometrie irregolari in toni sanguigni e neri, a volte allineati con il bordo della tela, altre volte scagliati contro i suoi limiti. In seguito, Polo sviluppa astrazioni sempre più colorate, combinando cerchi con forme irregolari che ne sfidano la durezza (1970-1983). Il lavoro dell’artista evoca il movimento e la trasformazione vissuti da

Untitled, 1962 Olio su tela, 81 × 60 cm. Photo Sergio Guerini. Courtesy Almeida & Dale Galeria de Arte. © Sergio Guerini.

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VENEZIA, ITALIA, 1937 – 1983, RIO DE JANEIRO, BRASILE

migrante e la sua condizione di straniera in diverse città (Venezia, Roma, San Paolo, Rio de Janeiro). Il suo marchio di astrazione si distingue dalle tendenze geometriche che caratterizzano la produzione d’avanguardia a San Paolo e Rio: le sue pennellate evocano l’Espressionismo, mentre l’impasto ricorda la materialità dell’Informale. L’opera di Maria Polo è esposta per la prima volta alla Biennale Arte. —Luiza Interlenghi STRANIERI OVUNQUE

Maria Polo

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Lidy Prati

RESISTENCIA, ARGENTINA, 1921 – 2008, BUENOS AIRES, ARGENTINA

Lidy Prati (Lidia Elena Prati) è stata una pittrice, designer e critica d’arte nota per essere una delle poche donne a praticare l’Arte Concreta negli anni Quaranta. Completa gli studi nella provincia del Chaco, dove si era stabilita la sua famiglia di immigrati italiani e svizzero-tedeschi, ma è solo quando si trasferisce a Buenos Aires che si interessa all’arte. Insieme a Tomás Maldonado e a molti altri, Prati ricopre un ruolo di primo piano nell’edizione del 1944 della rivista d’avanguardia Arturo e il 1945 la vede membro fondatore dell’Asociación Arte Concreto-Invención. A seguito di un viaggio in Europa del 1952, dove entra in contatto con esponenti dell’Arte concreta come Max Bill e Georges Vantongerloo, il suo lavoro – noto per il vasto repertorio di forme geometriche e strisce di colore – inizia a includere forme decostruite e un senso sperimentale del ritmo e della vibrazione dei colori. A metà degli anni Cinquanta abbandona la pittura e si dedica al design grafico, tessile e di gioielli.

N la n e u it im L 1 p d p in n t g S t d d p c c a d S d a c a in m e a b Composición serial (19461948) illustra il suo interesse a sperimentare la tensione tra forme geometriche – solitamente cerchi, rettangoli e quadrati – basata sull’esaltazione della superficie dello spazio pittorico. Tale tensione è prodotta dall’intermittenza di colori, dimensioni e ritmi con cui l’artista organizza percettivamente le forme geometriche sulla tela. Composición serial documenta non solo l’influenza della teoria della gestalt sul suo lavoro, ma anche un punto di svolta nell’Arte Concreta in

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Argentina: un nuovo periodo segnato dalla sospensione della formula teorica della cut-out frame a favore di un recupero del formato ortogonale. In questo formato Prati riconosce maggiori possibilità di ampliare la propria ricerca sulla forza espressiva della pittura, sull’autonomia delle forme e sui valori inventivi, in ultima analisi negando la funzione descrittiva del significato. L’opera di Lidy Prati è esposta per la prima volta alla Biennale Arte. —Nicolas Cuello

Composición serial, 1946-1948 Olio su tavola, 75,5 × 55,8 cm. Photo Nicolás Beraza. Collezione Malba. Courtesy Museo de Arte Latinoamericano di Buenos Aires.

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Nenne Sanguineti Poggi ha lasciato un segno indelebile nell’arte e nell’architettura etiope ed eritrea. Nata in un’aristocratica famiglia italiana di intellettuali, si è subito imposta come artista nella Liguria degli anni Trenta. Nel 1937, in seguito al matrimonio per procura con un ingegnere dipendente della società petrolifera Agip, si trasferisce in Eritrea, colonizzata dall’Italia nel XIX secolo. Dopo aver trascorso gli anni della Seconda guerra mondiale in Italia, Sanguineti Poggi sceglie di tornare in Eritrea e in Etiopia, dove vivrà fino alla metà degli anni Settanta. In questo periodo, l’artista sviluppa il suo caratteristico stile pittorico copto-bizantino, lasciandosi alle spalle le influenze dell’avanguardia europea. Sotto l’egida dell’imperatore d’Etiopia Hailé Selassié, e grazie a un eccezionale slancio nei confronti del lavoro, riesce ad assicurarsi numerosi incarichi pubblici. Realizza murales in mosaico, ceramica e cemento a rilievo, destinati a edifici governativi, scuole, banche, hotel e chiese.

SAVONA, ITALIA, 1909 2012, FINALE LIGURE, ITALIA

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Nenne Sanguineti Poggi Tekkà (1948) viene realizzato quando Sanguineti Poggi si stabilisce nuovamente in Eritrea dopo il Trattato di Parigi del 1947, in coincidenza con il periodo in cui la futura Federazione di Etiopia ed Eritrea (1952-1962) accoglie le imprese straniere per rilanciare la propria economia. L’opera raffigura Tekkà (o Tekké), che apparteneva al popolo BeniAmer proveniente dalle pianure occidentali verso il confine con il Sudan. Stilisticamente, il dipinto riecheggia l’Art déco e l’Espressionismo, e anche il suo rapporto con l’esotismo rappresenta una tematica importante. Una recensione di una mostra di pittura tenutasi ad Addis Abeba nel 1975 considera come la composizione dell’opera rifletta l’affetto che lega la pittrice al suo soggetto, salvandola da un “vuoto estetismo”. In effetti, nel corso della sua vita, Sanguineti Poggi si interrogò sul suo ruolo di donna italiana privilegiata attiva in territori precedentemente coloniali. Lei stessa ha precisato: “per me il problema era esprimere un grande amore per i poveri. Le parole ‘I poveri sono il popolo di Cristo’ hanno riecheggiato nelle mie orecchie per sempre”. L’opera di Nenne Sanguineti Poggi è esposta per la prima volta alla Biennale Arte.

Tekkà, 1948 Olio su tela, 49 × 44 cm. Courtesy Estate of Nenne Sanguineti Poggi. © Estate of Nenne Sanguineti Poggi.

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STRANIERI OVUNQUE

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Aligi Sassu

Aligi Sassu, pittore e scultore, trascorre la sua lunga vita tra Milano, la Sardegna e Maiorca, coniugando l’esplorazione artistica con l’attivismo politico. Nato in una famiglia di sinistra, Sassu sviluppa una passione precoce per l’arte e compie il suo debutto alla Biennale nel 1928, invitato da Filippo Tommaso Marinetti. Il suo stile migra dal Futurismo all’influenza dei Primitivi italiani e del giovane Pablo Picasso, come si può vedere nella decantata serie degli Uomini rossi (1930-1933). Nell’aprile del 1937, viene incarcerato per quattordici mesi a causa del suo impegno antifascista. Dopo la Seconda guerra mondiale, si affilia al gruppo di artisti Corrente, creando opere d’arte dalla forte impronta sociale. Ad Albissola si dedica alla ceramica, realizzando sculture magmatiche incentrate sugli amati cavalli selvatici, un tema che si intrecciava con i suoi ricordi della Sardegna rurale. Il trasferimento a Maiorca nel 1964 segna una nuova fase, ricca di riferimenti mitologici e mediterranei. Figura di spicco dell’arte italiana del dopoguerra, Sassu fa successive apparizioni alla Biennale nel 1948, 1952 e 1954.

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L’interpretazione di Sassu di una classica scena biblica rinascimentale – che raffigura il memorabile incontro tra il giovane pescatore Tobia e l’arcangelo Raffaele – riecheggia la scultura in bronzo di Arturo Martini del 1934 dedicata allo stesso tema. Eliminando qualsiasi dettaglio aneddotico, Sassu colloca i suoi soggetti davanti a una baia, concentrandosi su una rete da pesca, amplificando la relazione intensa ed eroticamente ambigua che lega l’angelo – una figura più anziana e fisicamente robusta – e Tobia, ritratto come se fosse intrappolato nella rete dell’angelo. Entrambe le

MILANO, ITALIA, 1912 – 2000, POLLENÇA, SPAGNA

figure fissano lo spettatore con uno sguardo impassibile. Il dipinto trae ispirazione dalla precedente serie degli Uomini rossi, in cui Sassu evocava un regno mitico di nudi maschili – argonauti, centauri e dioscuri, ma anche figure pubescenti e indistinte – sospesi in un’atmosfera senza tempo, eterea, ma sensualmente carica. Allo stesso tempo, le tonalità intense e lo sfondo marittimo riecheggiano il ritrovato paesaggio mediterraneo al quale l’artista era approdato dopo il suo trasferimento a Maiorca l’anno precedente. —Antonella Carmada

Tobiolo, 1965 Olio su tela, 81 × 96 × 1,5 cm. Courtesy Archivio Aligi Sassu, Monza. © Archivio Aligi Sassu.

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Nel 1901 il diciottenne Gino Severini, al cospetto delle opere di Giacomo Balla, scopre e assimila i dettami della pittura divisionista. Nel 1906 si trasferisce a Parigi ed entra in contatto con gli esponenti dell’avanguardia artistica. Aderisce nel 1910 al Futurismo, la sua ricerca pittorica approda poi nel 1916 al Cubismo sintetico, per avvicinarsi successivamente ai principi espressi da Valori Plastici. In questo periodo una rinnovata classicità caratterizza la pittura di Severini, che introduce nelle sue opere soggetti tratti dalla Commedia dell’Arte. L’artista teorizza inoltre la nuova fase pittorica con la pubblicazione del saggio Dal cubismo al classicismo. Nel 1924 è in Svizzera per eseguire un ciclo di affreschi a tema sacro. Nell’ultimo decennio la sua pittura ritorna al periodo futurista. L’intensa attività artistica di Severini contempla anche importanti contributi teorici che l’artista pubblicò durante la sua carriera. La sua presenza ha rivestito inoltre un importante ruolo di connessione tra l’Italia e la Francia.

Natura Morta, 1918 Olio su tela, 60 × 73 × 2 cm. Collezione Roberto Casamonti.

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Nel 1918 Severini dipinge l’opera Natura morta, che successivamente entra a fare parte della collezione Léonce Rosenberg, promotore del gruppo cubista. Il dipinto si colloca all’interno del dibattito teorico che avvicina l’arte di Severini agli esiti del Cubismo sintetico. La ricerca dell’artista è volta a indagare lo spazio pittorico come visione in grado di coniugare la dinamicità della linea con un rigoroso canone compositivo. La risposta è nella creazione di un assetto visivo che affida alla geometria il principio e la misura dell’organizzazione

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CORTONA, ITALIA, 1883 – 1966, PARIGI, FRANCIA

spaziale degli oggetti. Il dialogo che ne scaturisce descrive una pittura strutturata in un perfetto equilibrio tra l’espressività del colore, la sensibilità della percezione e il rigore della forma che raffigura per contrasto il profilo degli elementi pittorici. Il principio estetico adottato da Severini è interpretato come una sintesi degli oggetti nello spazio e nel tempo, capace di originare immagini che nell’opera si traducono in legge armonica. —Sonia Zampini

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Gino Severini

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Joseph Stella

Joseph Stella è stato un artista americano di origine italiana, noto soprattutto per le sue rappresentazioni della modernità americana all’inizio del XX secolo. Nato a Muro Lucano, Stella emigra a New York nel 1896 all’età di diciotto anni, ritrovandosi in mezzo alla crescente comunità italoamericana della città. Per un breve periodo si dedica alla medicina, prima di iscriversi all’Art Students League, dove studia con William Merritt Chase e Robert Henri. Un ritorno in Italia nel 1909 dà il via a decenni di vita a cavallo tra New York e il suo paese natale, con soggiorni formativi a Parigi trascorsi ad assorbire gli stili dell’epoca: Cubismo, Fauvismo, Futurismo e Surrealismo. Portando avanti queste influenze, Stella si fa apprezzare per le sue rappresentazioni dinamiche di New York. Sollecitato dai suoi viaggi ricorrenti e dai suoi aneliti nostalgici, l’artista si dedicò anche a esplorare la spiritualità della natura e la centralità della sua identità italiana, un contrappunto e un antidoto alle tensioni della modernità americana.

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Fountain (1929) è un esempio chiave dei dipinti esuberanti di Stella – fortemente stilizzati e costellati di uccelli, piante e fiori – che testimoniano la sua profonda connessione spirituale con la natura. Se i paesaggi urbani dell’artista riflettono un ambiente moderno, le sue rappresentazioni della natura sono radicate in origini più primordiali e pittoresche, influenzate in gran parte dalle visioni romantiche che Stella aveva della sua patria italiana. Questa composizione pone al centro una fontana, i cui ruscelli arcuati fanno eco a un albero

MURO LUCANO, ITALIA, 1877 – 1946, NEW YORK, USA

che cresce dalla tranquilla base di roccia e acqua, sovrastandola. I rami frondosi dell’albero scendono verso il basso e incorniciano questa scena edenica, popolata da una figura nuda sdraiata, un cigno e un fiore di loto. I motivi ricorrenti e le vedute romantiche di Stella offrono possibili letture allegoriche della natura come fuga e oasi, soprattutto contro le condizioni soffocanti della vita moderna, e come luogo di rigenerazione creativa. —CJ Salapare

Fountain, 1929 Olio su tela, 124,5 × 101,6 cm. Photo Dale M. Peterson. Collezione privata. Courtesy Schoelkopf Gallery.

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NUCLEO STORICO • ITALIANI OVUNQUE

Clorindo Testa nasce in Italia e vive in Argentina, dove progetta edifici audaci dalla forte presenza visiva. Architetto e artista, partecipa attivamente alla scena culturale del XX secolo. A Buenos Aires, Testa realizza la Biblioteca Nacional (1962-1992, con Francisco Bullrich e Alicia Cazzaniga) e la sede del Banco de Londres y América del Sur (1959-1966, in collaborazione con lo studio SEPRA). L’edificio della banca è caratterizzato da un’imponente struttura in cemento armato, in cui Testa crea aperture o perforazioni geometriche che danno vita a un potente gioco visivo. Queste forme vivaci rivelano la libertà con cui Testa si accostava ai suoi progetti. “In lui, l’umorismo è un anticorpo”, scrive l’amico poeta Julio Llinás, proponendo l’umorismo come reazione alla rigidità imposta dall’adesione a qualsiasi sistema estetico. La libertà di Testa è evidente anche nei suoi dipinti degli anni Sessanta, in cui si allontana dall’esattezza e dalla razionalità tanto apprezzate dal movimento per l’Arte concreta. In Pintura o Circulo negro (1963), Testa dipinge una sfera nera su una tela quadrata. Piuttosto che una figura geometrica precisa, il cerchio è aperto e non risponde ai dogmi dell’Arte concreta. Due aloni resi in tonalità grigie circondano questo nucleo nero, conferendo un senso di leggerezza alla figura, come se stesse levitando sopra una superficie bianca. Due segmenti verticali, tuttavia, la fissano allo sfondo. Lo strato pittorico è denso nel

Pintura o Circulo negro , 1963 Olio su tela, 150,3 × 150,1 cm. Photo Gustavo Sosa Pinilla. Collezione Malba. Courtesy Museo de Arte Latinoamericano di Buenos Aires.

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BENEVENTO, ITALIA, 1923 – 2013, BUENOS AIRES, ARGENTINA

nucleo nero e Testa sfrutta questo spessore eseguendo incisioni, raschiando, muovendo rapidamente la mano. Questo grafismo gestuale mostra la sua caratteristica libertà o umorismo. Testa è stato insignito tre volte del prestigioso Premio Konex in Argentina. Pintura o Circulo negro è stato precedentemente esposto alla Biennale nel 1964. —Florencia Malbran

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Clorindo Testa

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Horacio Torres

LIVORNO, ITALIA, 1924 – 1976, NEW YORK, USA

Horacio Torres, figlio del pittore uruguaiano Joaquín Torres García, nasce nel 1924 a Livorno, in Italia. Dopo anni di viaggi, nel 1934 la famiglia lascia l’Europa per stabilirsi a Montevideo, in Uruguay. Grazie all’influenza del padre, Torres diventa rapidamente membro della Asociación de Arte Constructivo e dell’organizzazione Taller Torres García. Nel 1942, si reca in Perù e in Bolivia per studiare l’arte precolombiana, accrescendo il proprio interesse per la rappresentazione monumentale. Dopo la morte del padre, avvenuta nel 1949, Torres esplora l’Europa, visitando celebri musei in cerca di ispirazione. Trasferitosi a New York nel 1969, abbandona i principi costruttivisti e inizia a dipingere oscuri ritratti figurativi dotati di reminiscenze classiche con i quali si impone all’attenzione internazionale.

All’inizio della propria carriera, Horacio Torres persegue in modo esemplare i principi della teoria artistica di Torres García (1944) attraverso l’uso di figure geometriche, colori primari e un immaginario culturalmente associato a un’innocenza infantile, che egli collega a complessi simboli regionali. Sebbene The White Ship (1950 circa) possa essere ritenuta parte della lenta transizione del suo interesse verso la figurazione, possiamo osservare che in questa rappresentazione narrativa di un soggetto in viaggio, facilmente associabile alla storia di migrazione della sua

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famiglia, le forme geometriche e le forti linee reticolari permangono come schema costruttivo di organizzazione all’interno del dipinto. In questo senso, l’opera non solo concretizza la teoria artistica del padre, ma segna anche un punto di partenza per il proprio studio delle connessioni tra repertori d’avanguardia e tradizioni simboliche latinoamericane. L’opera di Horacio Torres è esposta per la prima volta alla Biennale Arte. —Nicolas Cuello

The White Ship, 1950 ca. Olio su tela, 82 × 69 cm. Photo Arturo Sánchez. Courtesy Cecilia de Torres, Ltd.

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NUCLEO STORICO • ITALIANI OVUNQUE

Portatrice di una moderna idea di classicità, la pittura di Mario Tozzi si sviluppa in un dialogo costante tra l’Italia e la Francia. Nel 1919 Tozzi si stabilisce a Parigi, dove ha inizio la sua carriera artistica, ottenendo da subito un grande successo. Nel 1926 partecipa a Milano alla prima mostra del gruppo Novecento. Aderisce alle istanze teoriche del movimento, incentrate sulla volontà di costruire una rinnovata identità artistica, basata sul recupero della componente figurativa e della tradizione pittorica italiana, da contrapporre alle sperimentazioni delle avanguardie. Nel 1928 fonda il Groupe des Sept, noto come Les Italiens de Paris; movimento eterogeneo che introduce un nuovo classicismo mediterraneo in dialogo con suggestioni metafisiche. La pittura degli anni Trenta vede un progressivo allontanamento dagli esiti novecentisti; il linguaggio di Tozzi presenta in seguito una maggiore stilizzazione, dipinge soggetti femminili come presenze assorte in una sospesa dimensione atemporale. Nel 1932, in occasione della XVII Biennale d’Arte di Venezia, viene esposta l’opera Il Pittore (1931) di Tozzi. Il dipinto – appartenuto alla collezione Margherita Sarfatti, teorica del movimento Novecento – si caratterizza per i rimandi simbolici, che descrivono un assetto visuale in cui la volumetria delle forme detiene in sé un ordine puramente intellettuale. L’intera composizione visiva presenta un marcato rigore strutturale, dettato da una netta scansione delle ombre e dei piani che limitano lo spazio fisico a favore di un’apertura esclusivamente mentale.

Il Pittore, 1931 Olio su tela, 116 × 89 × 4 cm. Collezione Roberto Casamonti.

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FOSSOMBRONE, ITALIA, 1895 – 1979, SAINT-JEAN-DU-GARD, FRANCIA

La presenza del triangolo enfatizza la geometrizzazione della scena, che sembra poter accogliere una prossima condizione di vita nascente. L’ombra del chiodo è l’attesa di un accadimento, come l’imminente azione pittorica a cui si accinge il pittore. A lui è affidato il compito di congiungere l’idealità con la prassi dell’arte, l’una come condizione dell’altra, eternamente e ciclicamente, come il bambino e l’adulto ritratti e come la sfera, senza inizio e senza fine. —Sonia Zampini STRANIERI OVUNQUE

Mario Tozzi

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Edoardo Daniele Villa

Il talento di Edoardo Daniele Villa per la scultura si manifesta precocemente nella città natale di Bergamo, dove gli vengono commissionati numerosi bassorilievi per case private ancor prima di compiere vent’anni. Incoraggiato dalla madre a diventare scultore, Villa frequenta la Scuola d’Arte Andrea Fantoni e in seguito si iscrive all’Accademia di Bergamo. Arruolato nella fanteria italiana al Cairo, viene catturato e rinchiuso in un campo di detenzione in Sudafrica come prigioniero di guerra. Alla fine del conflitto deciderà di stabilirsi a Johannesburg. In attesa di essere rilasciato, mentre è in isolamento, Villa scolpisce ininterrottamente, completando sessantacinque opere che saranno esposte nella capitale sudafricana dopo la sua scarcerazione, nel 1947. Nel 1963 l’artista si unisce agli Amadlozi (“gli antenati” nelle lingue nguni), un collettivo notevolmente influenzato dall’arte classica africana. La sua scultura astratta Atmosfera Africana viene esposta alla Biennale di Venezia del 1964.

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L’etica degli Amadlozi è quella di riflettere su ciò che li circonda creando opere chiaramente ispirate all’Africa. Le sculture di Villa evidenziano la verticalità della figura umana, come si nota nell’opera allegorica Mother and Child. Nella sua semplicità astratta e purista, la resa di Villa evoca una struttura compositiva stereometrica. Stiliforme nella sua posizione eretta, Mother and Child è un flusso continuo di linee geometriche che accentua marcatamente lo stile

BERGAMO, ITALIA, 1915 – 2011, JOHANNESBURG, SUDAFRICA

degli elementi formali africani a cui si ispira. Villa dà priorità a linee, forme e dimensioni sferiche anziché scegliere espressioni facciali distinguibili, sottintendendo un principio universalista. A Johannesburg, negli anni Sessanta, Villa può avere accesso a collezioni pubbliche e private di arte africana. In questo periodo si osservano somiglianze stilistiche tra la sua opera e l’arte dell’Africa centrale. —Zamansele Nsele

Mother and Child, 1963/2010 Bronzo, 201 × 66 × 51 cm. Collezione privata.

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Autorretrato, 1902 Olio su tela, 64 × 48 cm. Photo Sergio Guerini. Collezione Visconti Hirth. Courtesy Almeida & Dale Galeria de Arte. © Sergio Guerini.

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Eliseu Visconti, immigrato italiano e artista tra due continenti, fuse l’accademismo brasiliano con il Modernismo parigino di fine secolo. Abile disegnatore, Visconti emigra in Brasile nel 1876 ed entra all’Academia Imperial de Belas Artes di Rio de Janeiro (1885). Subito dopo la caduta dell’Impero brasiliano nel 1889, si unisce agli studenti e agli insegnanti che, insorti contro l’accademismo, si rifugiano nell’Atelê Livre (Studio libero). Primo borsista della Repubblica brasiliana, si forma nelle scuole d’arte moderna di Parigi, l’Académie Julian e l’École Guérin. Quando Visconti presenta il suo lavoro europeo in Brasile, gli viene commissionata la creazione di dipinti monumentali per il Theatro Municipal do Rio de Janeiro. L’artista dipinge paesaggi che ritraggono la moglie e i figli in mezzo alla natura; realizza inoltre manifesti, vetrate colorate e lampade. Nell’esplorazione della Provenza, dei parchi parigini, delle spiagge e dei cortili di Rio, Eliseu Visconti ha saputo catturare un moderno senso della luce nella pittura.

GIFFONI VALLE PIANA, ITALIA, 1866 – 1944, RIO DE JANEIRO, BRASILE

In Autorretrato (1902), Visconti fronteggia lo spettatore con uno sguardo di sfida. Il dipinto viene realizzato poco tempo dopo il suo ritorno in Brasile al termine di sette anni di formazione a Parigi, dove le sue opere sono ignorate dal pubblico ma acclamate dalla critica. L’artista brandisce i pennelli come armi su uno sfondo vuoto, che fa eco alla tela grezza che sta trasformando. Il lato sinistro è realistico, mentre il destro è abbozzato e postimpressionista. Sullo sfondo il cielo e le nuvole delineano un orizzonte – posizionato tra gli occhi e la sommità

del capo – richiamando l’attenzione sulle forze che guidano l’artista fra tradizione e modernità: un occhio attento e la consapevolezza di sé. Almeno quaranta autoritratti realizzati nell’arco di cinque decenni testimoniano l’orgoglio di Visconti nei confronti del proprio lavoro. Come lettore di Goethe, rifletté sull’innovazione al di fuori della tradizione e costruì la propria immagine di artista. L’opera di Eliseu Visconti è esposta per la prima volta alla Biennale Arte. —Luiza Interlenghi

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Eliseu Visconti

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Alfredo Volpi

Alfredo Volpi, figlio di immigrati italiani (la madre era di Lucca e il padre di Bologna), arriva in Brasile nel 1897, quando ha appena un anno. Nato da una famiglia proletaria, come la maggior parte degli stranieri che approdano in Brasile tra la fine del XIX e gli inizi del XX secolo, abbandona gli studi formali e inizia a lavorare come pittore e decoratore murale all’età di quindici anni. Ignorato dalla corrente modernista degli anni Venti, produce sia pannelli decorativi che dipinti da cavalletto, tenendo la sua prima mostra personale nel 1944, all’età di quarantasette anni, presso la Galeria Itá di San Paolo. Negli anni Cinquanta intraprende una sorprendente transizione verso l’Astrattismo geometrico, creando le opere che diventeranno il suo marchio di fabbrica: bandeirinhas (bandierine), facciate, case e pennoni dei festival del Giugno Brasiliano. Nonostante il suo stretto legame con lo stile popolare, Volpi fu un modernista celebrato dalle istituzioni in tarda età.

marrom (anni CinquantaSessanta) è rappresentativa di questo momento, in cui crea anche le sue prime opere utilizzando i motivi geometrici delle bandeirinhas, un elemento che stabilisce un dialogo con l’astrattismo geometrico degli artisti concretisti brasiliani. In questa fase del lavoro di Volpi osserviamo una notevole tensione: le bandierine sono collocate a ridosso delle facciate degli edifici, un altro elemento tratto dall’universo

LUCCA, ITALIA, 1896 – 1988, SAN PAOLO, BRASILE

popolare. Sospese tramite sottili linee orizzontali, come accade nelle feste popolari, le bandierine sembrano fluttuare davanti alle facciate solide e stabili. Fachada marrom è anche emblematica del modo in cui Volpi comincia a trattare lo spazio della tela da quel momento in poi, con campiture di colore segmentate, mantenendo contorni discreti ma irregolari. —Fernando Oliva

Negli anni Cinquanta, durante un viaggio in Italia, Volpi si imbatte negli affreschi di Giotto e inizia a interessarsi all’uso della tempera, una pittura a base di albume d’uovo. Fachada

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Fachada marrom, anni Cinquanta-Sessanta Tempera su tela, 118 × 77,5 cm. Photo Sergio Guerini. Collezione privata. Courtesy Almeida & Dale Galeria de Arte. © Sergio Guerini.

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A TERRA DÁ, A TERRA QUER, SAN PAOLO, UBU EDITORA/ PISEAGRAMA, 2023.

Un fiume non smette di essere tale perché confluisce in un altro fiume, anzi, diventa se stesso e gli altri fiumi, diventa più forte. Quando ci uniamo, non smettiamo di essere noi, ma diventiamo noi e altre persone, ci arrendiamo.

ANTÔNIO BISPO DOS SANTOS


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Beatriz Milhazes

Beatriz Milhazes è oggi la più significativa artista brasiliana a indagare il colore nel campo allargato della pittura, e nel suo lavoro infrange i confini tra astratto e figurativo, arte alta e bassa. Dopo avere studiato pittura presso la Escola de Artes Visuais do Parque Lage di Rio de Janeiro (1980-1982), vicino al suo attuale studio, a partire dagli anni Ottanta mette a punto un proprio lessico visivo e un metodo, una combinazione di pittura, monotipia, collage e monostampa, con cui sfida il piatto spazio modernista introdotto da artisti come Matisse, Sonia Delaunay e Mondrian. Milhazes manipola una collezione diversificata di motivi che includono elementi barocchi latino-americani e brasiliani, fiori, decorazioni di carnevale, pizzi, design di lusso, icone pop e motivi Op Art. Nel suo lavoro sono presenti riferimenti ad artiste brasiliane

come Tarsila do Amaral e Ione Saldanha, o a movimenti come il Neo-concretismo. Li combina, costruendo strati saturi e composizioni altamente dinamiche. A partire dal 2000, Milhazes ha esposto in Brasile, Colombia, Venezuela, Argentina, Stati Uniti, Giappone, Francia, Germania e Gran Bretagna. Ha anche realizzato murales in vinile e vetrate colorate all’interno di spazi pubblici. I cinque dipinti di grandi dimensioni di Milhazes, creati appositamente per il Padiglione Arti Applicate, fanno riferimento alla tavolozza e ai motivi di una varietà di tessuti tradizionali di diverse culture, molti dei quali sono esposti all’interno dello stesso museo. Per Milhazes, le loro strutture complesse creano “un’incredibile fonte di motivi” basati sull’osservazione umana della regolarità intrinseca della natura. In Memórias do Futuro I,

C A P p

RIO DE JANEIRO, BRASILE, 1960 VIVE A RIO DE JANEIRO

il suo repertorio personale di bersagli, raggi, onde e motivi floreali si interseca con le tonalità e i pattern ricavati da questi tessuti. Le sue incisive pennellate su campiture di colore monostampa danno vita a spettacolari aggregati cromatici. Queste vibranti composizioni sono il risultato di una griglia sottostante e di decisioni calibrate, che rispecchiano la complessità dei nodi dell’arazzo monumentale presente nel padiglione. Il titolo dell’opera, Pindorama (20202022), è il termine utilizzato dal popolo tupi-guaraní per indicare il territorio brasiliano prima della colonizzazione.

PROMOTORI

La Biennale Di Venezia con il Victoria and Albert Museum, Londra CURATORE

Adriano Pedrosa ARTISTA

Beatriz Milhazes

Beatriz Milhazes ha rappresentato il Brasile alla Biennale Arte nel 2003. — Luiza Interlenghi

The Golden Egg, 2023 Acrilico su lino, 280 × 300 cm. Photo Pepe Schettino. Collezione privata. © Beatriz Milhazes.

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PROGETTO SPECIALE

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Colorido Cósmico, 2023 Acrilico su lino, 280 × 320 cm. Photo Pepe Schettino. Collezione privata. © Beatriz Milhazes.

PADIGLIONE ARTI APPLICATE

Meia-noite, meio-dia, 2023 Acrilico su lino, 280 × 300 cm. Photo Pepe Schettino. Collezione privata. © Beatriz Milhazes.

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PADIGLIONE ARTI APPLICATE

Pindorama, 2020-2022 Arazzo in lana e seta, 321 × 750 cm. Courtesy Art in Embassies, Dipartimento di Stato degli Stati Uniti.

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STRANIERI A NOI STESSI, ROMA, DONZELLI EDITORE, 2014.

Straniero: rabbia strozzata in fondo alla gola, angelo nero che turba la trasparenza, traccia opaca, insondabile. Figura dell’odio e dell’altro, lo straniero non è né la vittima romantica della nostra pigrizia familiare né l’intruso responsabile di tutti i mali della città. Né la rivelazione attesa né l’avversario immediato da eliminare per pacificare il gruppo. Stranamente, lo straniero ci abita: è la faccia nascosta della nostra identità, lo spazio che rovina la nostra dimora, il tempo in cui sprofondano l’intesa e la simpatia. Riconoscendolo in noi ci risparmiamo di detestarlo in lui. Sintomo che rende appunto il “noi” problematico, forse impossibile, lo straniero comincia quando sorge la coscienza della mia differenza e finisce quando ci riconosciamo tutti stranieri, ribelli ai legami e alle comunità.

JULIA KRISTEVA


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Pacita Abad Haitians Waiting At Guantanamo Bay, 1994 Olio, stoffa dipinta, bottoni e perline su tela cucita e imbottita 238,8 x 175,3 cm Pacita Abad Art Estate Con il supporto aggiuntivo di Tina Kim Gallery Filipinas in Hong Kong, 1995 Acrilico su tela cucita e imbottita 270 x 300 cm Art Jameel Collection Con il supporto aggiuntivo di Silverlens Galleries You Have to Blend In, Before You Stand Out, 1995 Olio, stoffa dipinta, lustrini, bottoni su tela cucita e imbottita 294,6 x 297,2 cm Pacita Abad Art Estate Con il supporto aggiuntivo di Tina Kim Gallery

Mariam Abdel-Aleem Clinic, 1958 Olio su tavola 77 x 83 cm Collezione Barjeel Art Foundation, Sharja Con il supporto aggiuntivo di Barjeel Art Foundation

Etel Adnan Untitled, 1965 Olio su tela 50 x 43,1 cm Estate of the Artist Con il supporto aggiuntivo di SfeirSemler Gallery, Beirut / Amburgo

Sandy Adsett

Zubeida Agha Composition, 1988 Olio su tela 91,4 x 76,2 cm Collezione Taimur Hassan Con il supporto aggiuntivo di Taimur Hassan

Dia al-Azzawi A Wolf Howls: Memories of a Poet, 1968 Olio su tela 84 x 104 cm Collezione Barjeel Art Foundation, Sharja Con il supporto aggiuntivo di Barjeel Art Foundation

Claudia Alarcón Fwokachaj kiotey [Orecchie di armadillo], 2023 Fibra di chaguar filata a mano, tinture naturali della foresta nativa, tessuto, punto antico 133 x 122 cm Collezione Estrellita B. Brodsky Kates tsinhay [Donna stella], 2023 Fibra di chaguar filata a mano, tinture naturali della foresta nativa, tessuto, punto “yica” 175 x 181 cm Collezione Antonio Murzi & Diana Morgan

Claudia Alarcón & Silät Chelhchup [Autunno], 2023 Fibra di chaguar filata a mano, tinture naturali e anilina, tessuto, punto “yica” 160 x 142 cm Fwuyetil [Inverno], 2023 Fibra di chaguar filata a mano, tinture naturali e anilina, tessuto, punto “yica” 133 x 108 cm Ifwala [Il giorno], 2023 Fibra di chaguar filata a mano, tinture naturali e anilina, tessuto, punto “yica” 105 x 108 cm Honatsi [La notte], 2023 Fibra di chaguar filata a mano, tinture naturali e anilina, tessuto, punto “yica” 145 x 127 cm Collezione Paola Creixell

Inawop [Primavera], 2023 Fibra di chaguar filata a mano, tinture naturali e anilina, tessuto, punto “yica” 159 x 104 cm Collezione privata Yachup [Estate], 2023 Fibra di chaguar filata a mano, tinture naturali e anilina, tessuto, punto “yica” 136 x 122 cm

Rafa al-Nasiri Untitled, 1971 Acrilico su tela 100 x 105,5 cm Mathaf: Arab Museum of Modern Art, Doha, Qatar Con il supporto aggiuntivo di Mathaf, Arab Museum of Modern Art, Doha, Qatar

Miguel Alandia Pantoja Imilla, 1960 Olio su cartone pressato 77,4 x 59,5 cm Museo Nacional de Arte - Fundación Cultural del Banco Central de Bolivia

Aloïse Cloisonné de théâtre, 1941-1951 Matite colorate parzialmente acquerellate e succo di geranio su dieci fogli di carta cuciti assieme 1404 x 99 cm L’Angleterre – Trône de Dehli, 1951-1960 Matite colorate su due fogli di carta cuciti insieme 70 x 98 cm Luxembourg bal Sylvestre, 1951-1960 Matite colorate su due fogli di carta cuciti insieme 156 x 91 cm Noël, 1951-1960 Tecnica mista su 4 fogli di carta cuciti insieme 82 x 117 cm Ben Hur à Parigi, 1960-1963 Pastelli a olio su carta 69,5 x 49,5 cm Cléopâtre Pape - was bitten gold, 1960-1963 Pastelli a olio su carta 61 x 47 cm Gloria in excelsis Deo Chanteuse Bornod, 1960-1963 Pastelli a olio su carta 101 x 72 cm Liberté Patrie, 1960-1963 Pastelli a olio su carta 91 x 71 cm Tutte le opere Collezione Christine e Jean-David Mermod 643

Waipuna, 1978 Acrilico su tavola 101,7 x 101,7 Auckland Art Gallery Toi o Tāmaki

Self-Portrait, 1975 Olio su tela 130 x 100,5 cm Dono dell’Artista / Collezione della National Gallery Singapore Con il supporto aggiuntivo della National Gallery Singapore, Ministero della Cultura, Comunità e Gioventù di Singapore

ESTRANJEROS EN TODAS PARTES

Tutte le opere sono per gentile concessione dell’artista, salvo diversa indicazione. Le dimensioni sono indicate in centimetri, altezza × larghezza x profondità. Se si tratta di copie da esposizione, sono indicate le dimensioni dell’originale. L’elenco è completo e definito al 19 febbraio 2024. Le didascalie e i credits delle immagini presenti in questa pubblicazione sono stati redatti con la massima cura. Eventuali errori o domissioni non sono intenzionali e saremo lieti di inserire didascalie e crediti appropriati nelle prossime edizioni se nuove informazioni dovessero giungere all’attenzione della Biennale.

Affandi

STRANIERI OVUNQUE

Elenco delle opere presenti in Mostra

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BIENNALE ARTE 2024

Giulia Andreani

Pretty Vacant (Diva Derelitta), 2014 Acrilico su tela 130 x 97 cm La scuola di taglio e cucito, 2023 Acquerello su carta 140 x 300 cm Conservative Ghost (Aetas Ferrea), 2024 Acrilico su tela 130 x 97 cm L’inconnu.e de la scène (aire mauve pâle, aire vert pâle), 2024 Vetro di Murano 30 x 30 x 50 cm (circa) In collaborazione con Fonderia Artistica Brollo and Nicola Moretti Murano Le Fanciulle Laboriose, 2024 Acrilico su tela 150,5 x 200 cm Pour elles toutes (Myrninerest), 2024 Acrilico su tela 190,5 x 400,5 cm Tutte le opere con il supporto aggiuntivo dell’Institut français

ELENCO DELLE OPERE PRESENTI IN MOSTRA

Claudia Andujar Catrimani, dalla serie A casa, 1974 Ingrandimento analogico alla gelatina e argento su carta opaca Ilford Multigrade Classic, con viraggio al selenio 40 x 60 cm Catrimani, dalla serie O reahu, 1974 Ingrandimento analogico alla gelatina di argento su carta opaca Ilford Multigrade Classic, con viraggio al selenio 40 x 60 cm Convidados enfeitados para festa com penugem de gavião, fotografado em múltipla exposição, Catrimani, dalla serie O reahu, 1974 Ingrandimento analogico alla gelatina di argento su carta opaca Ilford Multigrade Classic, con viraggio al selenio 40 x 60 cm Untitled, from A casa series, 1974 Ingrandimento analogico alla gelatina di argento su carta opaca Ilford Multigrade Classic, con viraggio al selenio 40 x 60 cm

Tutte le opere con il supporto aggiuntivo di Galeria Vermelho

María Aranís La negra, 1931 Olio su tela 64,8 x 54 cm Collezione Museo Nacional de Bellas Artes, Santiago del Cile Con il supporto aggiuntivo del Ministero della Cultura, Arti e Patrimonio e del Ministero degli Affari Esteri, Governo del Cile

Aravani Art Project Diaspore, 2024 Murale 2715 x 600 cm

Iván Argote Paseo, 2022 Video 4K 23’ 30” Descanso, 2024 Pietra arenaria scolpita, piante migranti e piante locali della regione in cui l’opera è presentata 180 x 3300 x 900 cm. Con il supporto di Albarrán Bourdais; Perrotin e Vermelho Tutte le opere con il supporto aggiuntivo dell’Institut français

Karimah Ashadu Machine Boys, 2024 Video digitale HD 16:9, colore, canale singolo, serround 5.1 8’ 50” Prodotto dalla Fondazione In Between Art Film Con il supporto addizionale di MOIN Filmförderung, Amburgo, Schleswig-Holstein Wreath (Machine Boys), 2024 Ottone 100 x 100 x 10 cm Tutte le opere con il supporto aggiuntivo di ifa — Institut für Auslandsbeziehungen

Dana Awartani Come, let me heal your wounds. Let me mend your broken bones, 2024 Rammendo su seta tinta con medicinali 520 x 1250 x 297 cm Con il supporto aggiuntivo di Diriyah Biennale Foundation

Aycoobo (Wilson Rodríguez) Amanecer, 2022 Acrilico su carta 70 x 100 cm

Bahia del amazonas, 2022 Acrilico su carta 70 x 100 cm Laguna misterioso, 2022 Acrilico su carta 70 x 100 cm Madre naturaleza, 2022 Acrilico su carta 70 x 100 cm Mandalas, 2022 Acrilico su carta 50 x 70 cm Naturaleza 2, 2022 Acrilico su carta 70 x 100 cm Vibración, 2022 Acrilico su carta 70 x 100 cm Calendario, 2023 Vernice acrilica su carta Fabriano 70 x 100 cm Tutte le opere con il supporto aggiuntivo di Instituto de Visión

Margarita Azurdia Untitled, dalla serie Geométricas, 1976 Acrilico su tela 218 x 162 cm Asociación Milagro de Amor / Collezione Margarita Azurdia

Leilah Babirye Rukirabasaija from the Kuchu Western Bunyoro Kingdom, 2023 Legno, teiere in metallo, metallo saldato e oggetti trovati 320 x 96,5 x 63,5 cm Inhebantu from the Kuchu Eastern Busoga Kingdom, 2023-2024 Ceramica smaltata, filo di ferro, camere d’aria di pneumatici di bicicletta e oggetti trovati 254 x 81,3 x 68,6 cm Oyo Nyimba Kabamba Iguru from the Kuchu Western Tooro Kingdom, 2023-2024 Legno, cera, alluminio, chiodi, bulloni, dadi e rondelle 249 x 68,6 x 61 cm Ssangalyambogo from the Kuchu Central Buganda Kingdom, 2023-2024 Legno, camere d’aria di pneumatici di bicicletta, chiodi, metallo saldato e oggetti trovati 320 x 81,3 x 68,6 cm

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Xirixana Xaxanapi thëri mistura mingau de banana em cocho suspenso, capaz de armazenar até 200 litros de alimento para as festas, Catrimani, dalla serie A casa, 1974 Ingrandimento analogico alla gelatina di argento su carta opaca Ilford Multigrade Classic, con viraggio al selenio 40 x 60 cm

Yanomami, dalla serie A casa, 1974 Ingrandimento analogico alla gelatina di argento su carta opaca Ilford Multigrade Classic, con viraggio al selenio 40 x 60 cm

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Autorretrato Siniestro, 1978 Vernice su legno 200 x 45 x 45 cm Andrés Buhar Con il supporto aggiuntivo di Arthaus Foundation Buenos Aires

Ezekiel Baroukh Baigneuse, 1952-54 ca. Olio su tela 82 x 142 cm Ramzi e Saeda Dalloul Art Foundation Con il supporto aggiuntivo di Ramzi e Saeda Dalloul Art Foundation

Aly Ben Salem Femme au Paon, n.d. Gouache su carta 122 x 89 cm Ramzi e Saeda Dalloul Art Foundation Con il supporto aggiuntivo di Ramzi e Saeda Dalloul Art Foundation

Semiha Berksoy My Mother The Painter Fatma Saime, 1965 Olio su masonite 93 x 65 cm Con il supporto aggiuntivo di Galerist, Istanbul

Gianni Bertini La Toile de Penelope, 1959 Collage di tessuti 146 x 165 cm Collezione Thierry Bertini Con il supporto aggiuntivo di Thierry Bertini e Frittelli Arte Contemporanea

Lina Bo Bardi Cavaletes de vidro, 1968/2024 Calcestruzzo, vetro, legno, neoprene e acciaio inossidabile 240 x 75 cm; 240 x 100 cm; 240 x 150 cm; 240 x 210 cm Basato sul progetto originale dell’architetto Lina Bo Bardi. Riproduzione autorizzata dall’Istituto Bardi

Pedra Robat, matriz, 1974 Matrice di un legno molto speciale (Pau D’Alho), utilizzato per la stampa in xilografia 97 x 86 x 11 cm Pedra Robat, matriz, 1974 Matrice di un legno molto speciale (Pau D’Alho), utilizzato per la stampa in xilografia 97 x 86 x 11 cm Tutte le opere con il supporto aggiuntivo di Maria Bonomi

Bordadoras de Isla Negra Untitled, 1972 Tela ricamata 230 x 774 cm Collezione Centro Cultural Gabriela Mistral Con il supporto aggiuntivo di Ministero della Cultura, delle Arti e del Patrimonio e del Ministero degli Affari Esteri, Governo del Cile

Victor Brecheret Vierge à l’enfant, 1923-24 Marmo 142 x 34 x 27 cm Collezione privata Con il supporto aggiuntivo di Almeida & Dale Galeria de Arte

Huguette Caland Suburb, 1969 Olio su tela 100,5 x 100,5 cm Mathaf: Arab Museum of Modern Art, Doha, Qatar Con il supporto aggiuntivo di Mathaf: Arab Museum of Modern Art, Doha, Qatar

Sol Calero Pabellón Criollo, 2024 Tecnica mista Dimensioni variabili Con il supporto aggiuntivo di The Bukhman Family Foundation; Fondazione Sandretto Re Rebaudengo; Cristalfarma; Museo Centro de Arte Dos de Mayo, Madrid; Collezione Silvia Fiorucci, Monaco; Mauvilac; Saikalis Bay Foundation; Charlotte Meynert e Henrik Persson; Gruppo Bardelli; Colorobbia; Terreal San Marco; Antonio Murzi & Diana Morgan; Tiqui Atencio Demirdjian; Rebiennale | R3B; Anna Guggenbuehl; Diego Grandi; Leslie Ramos; Francesca Minini, Milano; Crèvecœur, Parigi; ChertLüdde, Berlino

Elda Cerrato

Maternidad, 1971 Acrilico su tela 115 x 81 cm Collezione Ama Amoedo

Mohammed Chebaa Composition, 1974 Acrilico su tela 101 x 237 cm Ramzi e Saeda Dalloul Art Foundation Con il supporto aggiuntivo di Dalloul Art Foundation

Georgette Chen Self Portrait, 1946 ca Olio su tela 22,5 x 17,5 cm Dono di Lee Foundation / Collezione della National Gallery Singapore Con il supporto aggiuntivo della National Gallery Singapore e del Ministero della Cultura, Comunità e Gioventù di Singapore

Galileo Chini La notte al Watt Pha Cheo, 1912 Olio su compensato 79,5 x 65,5 cm Con il supporto aggiuntivo di Galleria Gomiero

Kudzanai Chiurai We Live in Silence, 2017 Film a canale singolo 41’ 40” What more can one ask for?, 2017 Teodolite, recinzione di sicurezza e terra rossa 200 x 200 x 200 cm Black Vanguard Comunique 1, 2024 Pittura a olio e pastelli a olio 180 x 220 cm Black Vanguard Comunique 2, 2024 Pittura a olio e pastelli a olio 180 x 220 cm Black Vanguard Comunique 3, 2024 Pittura a olio e pastelli a olio 180 x 220 cm Black Vanguard Comunique 4, 2024 Pittura a olio e pastelli a olio 180 x 220 cm Black Vanguard Comunique 5, 2024 Pittura a olio e pastelli a olio 180 x 220 cm Black Vanguard Comunique 6, 2024 Pittura a olio e pastelli a olio 180 x 220 cm Tutte le opere con il supporto aggiuntivo di Goodman Gallery

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‫פרעמדע אומעטום‬

Pedra Robat, 1974 Stampa xilografica 132 x 95 cm

STRANIERI OVUNQUE

Libero Badii

Maria Bonomi

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Ugangi from the Kuchu Acholi Region, 2024 Ceramica, filo di ferro, guaine elettriche, camere d’aria di pneumatici di bicicletta e oggetti trovati 273 x 84 x 84 cm Tutte le opere con il supporto aggiuntivo di Stephen Friedman Gallery, Londra e New York; Gordon Robichaux, New York

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BIENNALE ARTE 2024

Isaac Chong Wai

Falling Reversely, 2021-24 Video-installazione Dimensioni variabili Falling Reversely, 2021-24 Performance Performer: Isaac Chong Wai, Ichi Go, Ryota Maeda, Vasundhara Srivastava e altri Sound: Nobutaka Shomura Tutte le opere con il supporto aggiuntivo di Hong Kong Arts Development Council; Burger Collection e la TOY family; Sunpride Foundation; Ammodo; Hong Kong Economic and Trade Office, Bruxelles; Blindspot Gallery, Hong Kong | Zilberman, Istanbul, Berlino e Miami; Berlino Senate Department for Culture and Social Cohesion; ifa – Institut für Auslandsbeziehungen

Saloua Raouda Choucair

ELENCO DELLE OPERE PRESENTI IN MOSTRA

Self-Portrait, 1943 Olio su tela 44 x 32 cm Saloua Raouda Choucair Foundation Rhythmical Composition with White Sphinx, 1951 Olio su tela 88 x 116 cm Mathaf: Arab Museum of Modern Art, Doha, Qatar Con il supporto aggiuntivo di Mathaf: Arab Museum of Modern Art, Doha, Qatar

Chaouki Choukini Paysage au clair de lune, 1979 Wenge 63,5 x 59,5 x 28 cm Collezione Sheikh Zayed bin Sultan bin Khalifa Al Nahyan Colonne, 1983 Wenge 82 x 33 x 13 cm Collezione Olivier Georges Mestelan Villages Lointanes, 1993 Wenge 55 x 79 x 24 cm Frontale, 1996 Iroko 84 x 50 x 15 cm Dame de coeur, 2007 Rovere e bubinga 42,5 x 43,5 x 19 cm Collezione Sharja Art Foundation Vol d’Oiseau, 2008 Iroko 84 x 39 x 7 cm

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Blessure de Gaza, 2009 Rovere 80 x 36 x 15 cm Collezione Fairouz e Jean-Paul Villain

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Claire de lune, 2011-12 Iroko 97 x 19 x 19 cm Collezione Sharja Art Foundation Transcendance 2, 2013-14 Iroko 102 x 39 x 20 cm Obscure 2, 2014-15 Iroko 77 x 18 x 19 cm Collezione Yasmin Al Atassi Chardon, 2015 Mogano Sipo 160,5 x 57 x 23 cm Collezione Anurag Khanna Mirage, 2018 Iroko 96 x 40 x 14 cm Improvisation 3, 2020 Mogano Sipo 58,5 x 17 x 13 cm Tutte le opere con il supporto aggiuntivo di Green Art Gallery, Dubai; Institut français

Chua Mia Tee Road Construction Worker, 1955 Olio su tela 96 x 66 cm Collezione della National Gallery Singapore / adottato da Seah & Siak Con il supporto aggiuntivo della National Gallery Singapore e del Ministero della Cultura, Comunità e Gioventù di Singapore

Claire Fontaine Foreigners Everywhere / Stranieri Ovunque (60th International Art Exhibition / 60. Esposizione Internazionale d’Arte), 2004-2024 Sessanta neon sospesi, montati a parete o a finestra, struttura, trasformatori, cavi e accessori. Dimensioni e colori variabili Foreigners Everywhere (Selfportrait), Stranieri Ovunque (Autoritratto), 2024 Neon bifacciali, montati a parete o in finestra, struttura, trasformatori, cavi e accessori. Dimensioni e colori variabili Stranieri Ovunque (Autoritratto), Foreigners Everywhere (Self-portrait), 2024, Neon bifacciali, montati a parete o a finestra, struttura, trasformatori, cavi e accessori. Dimensioni e colori variabili Tutte le opere con il supporto di Dior, Parigi

Manauara Clandestina Building, 2021-2024 Video 5’ 37”

Manauara Clandestina in collaboration with Luiz Felipe Lucas Migranta, 2020-2023 Video 17’ Tutte le opere con il supporto aggiuntivo di Inclusartiz; Delfina Foundation; Pirámidon Centre d’Art Contemporani

River Claure Botas, dalla serie Warawar Wawa, 2019 Stampa a pigmenti su carta opaca di cotone 308 gsm 33 x 22 cm Capa, dalla serie Warawar Wawa, 2019 Stampa a pigmenti su carta opaca di cotone 308 gsm 33 x 22 cm Cordero, dalla serie Warawar Wawa, 2019 Stampa a pigmenti su carta opaca di cotone 308 gsm 108 x 72 cm Estrella, dalla serie Warawar Wawa, 2019 Stampa a pigmenti su carta opaca di cotone 308 gsm 63 x 42 cm San Cristobal, dalla serie Warawar Wawa, 2019 Stampa a pigmenti su carta opaca di cotone 308 gsm 63 x 42 cm Villa Adela, dalla serie Warawar Wawa, 2019 Stampa a pigmenti su carta opaca di cotone 308 gsm 162 x 108 cm Yatiri, dalla serie Warawar Wawa, 2019 Stampa a pigmenti su carta opaca di cotone 308 gsm 108 x 72 cm 800 bs, dalla serie Warawar Wawa, 2019 Stampa a pigmenti su carta opaca di cotone 308 gsm 75 x 50 cm Cerro 4, dalla serie Warawar Wawa, 2023 Stampa a pigmenti su carta opaca di cotone 308 gsm 88 x 70 cm Don Raymundo, dalla serie Mita, 2023 Stampa a pigmenti su carta opaca di cotone 308 gsm 113 x 90 cm Km 168, dalla serie Mita, 2023 Stampa a pigmenti su carta opaca di cotone 308 gsm 88 x 70 cm

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Virgen cerro 3, dalla serie Mita, 2023 Stampa a pigmenti su carta opaca di cotone 308 gsm 175 x 140 cm 7 adultos y un niño en el paisaje, dalla serie Mita, 2023 Stampa a pigmenti su carta opaca di cotone 308 gsm 175 x 140 cm 26, dalla serie Mita, 2023 Stampa a pigmenti su carta opaca di cotone 308 gsm 135 x 108 cm Tutte le opere con il supporto aggiuntivo di Fundación Simon I. Patiño

Julia Codesido Vendedora Ayacuchana, 1927 ca. Olio su tela 95 x 110 cm Museo de Arte de Lima. Comité de Formación de Colecciones 2017

Liz Collins Rainbow Mountains: Moon, 2023 Tessuto 340 x 373 cm Rainbow Mountains: Weather, 2023 Tessuto 340 x 425 cm Tutte le opere con il supporto aggiuntivo di Candice Madey

Jaime Colson Japonesa, 1926 Olio su cartoncino 39,5 x 32 cm Collezione Museo Bellapart

Waldemar Cordeiro Untitled, 1963 Olio su tela 75 x 74,5 cm Con il supporto aggiuntivo di Luciana Brito Galeria, San Paolo

Monika Correa

Olga Costa Autorretrato, 1947 Olio su tela 90 x 75 cm Collezione Andrés Blaisten, Messico

Miguel Covarrubias El Hueso, 1940 Olio su tela 77,2 x 61,6 cm Museo Nacional de Arte / INBAL

Victor Juan Cúnsolo Paisaje de La Rioja, 1937 Olio su pannello 69 x 58 cm Collezione Neuman, Buenos Aires Con il supporto aggiuntivo di Collezione Neuman

Andrés Curruchich Procesión: patrón de San Juan está en su trono, 1966 Olio su tela 43,5 x 48,3 cm Collezione di El Museo del Barrio, New York. Dono di Gale Simmons, Craig Duncan e Lynn Tarbox in memoria di Barbara Duncan, 2007

Rosa Elena Curruchich Cada año le regala a la gente un su escapulario de hilo bendecido po el Cofrade Mayor, 1980 ca. Olio su tela 17,2 x 16,5 cm Campesinas van hacer una Fiesta. Las muchachas que cortan árboles, 1980 ca. Olio su tela 13,1 x 15,1 cm El muchacho le gusta hacer de madera las fotos de los pájaros, 1980 ca. Olio su tela 13,1 x 16,8 cm El señor Padrino del Imagen, 1980 ca. Olio su tela 11,5 x 16,4 cm Escuela mixta, 1980 ca. Olio su tela 13,3 x 19,2 cm

Estan esperando esposa de un alcalde de otro pueblo, 1980 ca. Olio su tela 14,2 x 16 cm Fueron a traer dinero enterrado, 1980 ca. Olio su tela 13,9 x 16 cm Iglesia San Marcos, 1980 ca. Olio su tela 15 x 16,4 cm La procesión de la resurrección, 1980 ca. Olio su tela 14,3 x 20,5 cm Las dos Mujeres Llevan su Semilla de Maiz a la Iglesia, 1980 ca. Olio su tela 14,3 x 12 cm Las Patojitas las tres en su cumpliaño hace una ceremonia de ellas, 1980 ca. Olio su tela 14,2 x 18,2 cm La señora presentando su imagen ante la gente, 1980 ca. Olio su tela 12,6 x 15,7 cm Mi tio Pablo. Pintando Rosa Elena, 1980 ca. Olio su tela 12 x 15,6 cm Procesión de los patojos visitando Bebes si no tienen Bebe solo adorna tu casa, 1980 ca. Olio su tela 17,8 x 18,7 cm Palo encebado, 1980 ca. Olio su tela 19,7 x 18,5 cm Rosa Elena carriando agua, 1980 ca. Olio su tela 14,2 x 14 cm Rosa Elena van a tejer río chiperen, 1980 ca. Olio su tela 15,3 x 16,4 cm Rosa Elena Curruchich vendiendo comidas. Mi hermanita, 1980 ca. Olio su tela 14,3 x 16,9 cm Un casamiento al monte, 1980 ca. Olio su tela 15,1 x 14,5 cm Un mi hermano muy travieso solo en la calle están varias veces se han perdido, 1980 ca. Olio su tela 14,2 x 17,8 cm Van a escoger capitana del nuevo año, 1980 ca. Olio su tela 14,3 x 19 cm

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No Moon Tonight, 1974 Cotone grezzo, lana tinta a più colori, 180 x 93 cm Collezione Lorenzo Legarda Leviste e Fahad Mayet

Stela XX (Absence), 2024 Acciaio saldato 246 x 102 x 60 cm (circa) Con il supporto aggiuntivo di Commonwealth and Council Gallery; College of Letters and Science, University of California, Davis; Jan Shrem e Maria Manetti Shrem Museum of Art, UC Davis; Mohn Family Trust

ËY OMÃ JÊ AKÃTSTÊ

Untitled, dalla serie Mita, 2023 Stampa a pigmenti su carta opaca di cotone 308 gsm 100 x 75 cm

Beatriz Cortez

STRANIERI OVUNQUE

Ruinas sin titulo, dalla serie Mita, 2023 Stampa a pigmenti su carta opaca di cotone 308 gsm 88 x 70 cm

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BIENNALE ARTE 2024

Djanira da Motta e Silva Crianças Kanelas, 1960 Olio su tela 130 x 97 cm Collezione Max Perlingeiro

Olga de Amaral Muro tejido terruño 3, 1969 Lana 82 x 53 cm Con il supporto aggiuntivo di Lisson Gallery

Filippo de Pisis La bottiglia tragica, 1927 Olio su cartone 53,8 x 66 cm Collezione Gallerie d’Arte Moderna e Contemporanea “Filippo de Pisis” Nudo maschile, 1927 Olio su tela montato su masonite 36 x 45,6 cm Con il supporto aggiuntivo di P420 Gallery Il nudino rosa, 1931 Olio su tela 45 x 26 cm Collezione Gallerie d’Arte Moderna e Contemporanea “Filippo de Pisis”

ELENCO DELLE OPERE PRESENTI IN MOSTRA

Volto di ragazzo, 1931 Acquerello su carta montato su tela 40,9 x 25,9 cm Con il supporto aggiuntivo di P420 Art Gallery Ragazzo con cappello, metà anni Trenta Matita colorata su carta velina 42,4 x 25,5 cm Con il supporto aggiuntivo di P420 Art Gallery Pugile, 1940s Acquerello su carta 48,5 x 35 cm Con il supporto aggiuntivo di P420 Art Gallery Vaso di fiori con ventaglio, 1942 Olio su tela 80,5 x 59,5 cm Con il supporto aggiuntivo di P420 Art Gallery Vaso di fiori, 1952 Olio su tela 51 x 41 cm Con il supporto aggiuntivo di P420 Art Gallery

Juan Del Prete

The Museum of the Old Colony, 2024 Installazione Dimensioni variabili Con il supporto aggiuntivo di Trinity College, Uffici della Presidenza e del Preside di Facoltà; Laura Roulet e Rafael Hernandez; Center for Caribbean Studies del Trinity College; Center for Urban and Global Studies del Trinity College

Emiliano Di Cavalcanti Três mulatas (moças do interior), 1922 Olio su tela 60 x 50 cm Collezione Igor Queiroz Barroso, Fortaleza

Danilo Di Prete Untitled, 1954 Olio su tela 59 x 72 cm Collezione privata, San Paolo, Brasile Con il supporto aggiuntivo di Almeida & Dale Galeria de Arte

Cícero Dias Negro, anni Trenta Olio su tela 79 x 52 cm Antonio Almeida e Carlos Dale Jr Collection, San Paolo, Brasile Con il supporto aggiuntivo di Almeida & Dale Galeria de Arte

Disobedience Archive (The Zoetrope) – Marco Scotini Con il supporto aggiuntivo di Open Care - Servizi per l’Arte, Milano e gli studenti del Corso di laurea magistrale in Arti visive e studi curatoriali del NABA, Nuova Accademia di Belle Arti, campus di Milano e Roma

Ursula Biemann Sahara Chronicle, 2006 – 2009 Antologia di 12 video 33’ 13”

Black Audio-Film Collective Handsworth Songs, 1986 Film a colori a 16mm, riversato in video 58’ 33”

Seba Calfuqueo Nunca serás un weye. You will never be a Weye, 2015 Documentazione video della performance 4’ 46”

Simone Cangelosi

Una nobile rivoluzione. Ritratto di Marcella Di Folco, 2014 Video 85’

Cinéastes pour les sans-papiers Les Sans-Papiers parlent: Madjiguène Cissé, 1997 Film a 35mm, riversato in video 3’ 3”

Critical Art Ensemble Gender-Crash, 1995 Video 2’ 48”

Snow Hnin Ei Hlaing Queens’ Palace, 2013 Video 10’ 46”

Marcelo Expósito with Nuria Vila Tactical Frivolity + Rhythms of Resistance, 2007 Video 39’

Maria Galindo & Mujeres Creando Revolución Puta, 2022 Video 52’

Barbara Hammer History of the World According to a Lesbian, 1988 Video 16’ Estate of Barbara Hammer ed Electronic Arts Intermix

mixrice 21st Century Light of the Factory, 2016 Video 10’

Khaled Jarrar Notes on Displacement, 2022 Video 74’

Sara Jordenö KIKI, 2017 Video 94’

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Abstracción con material, 1934 Olio, cemento, lastre di rame, bronzo e zinco su cartone 69 x 49 cm Archivo Yente Del Prete Con il supporto aggiuntivo di Galería Roldan Moderno

Pablo Delano

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Daniela Ortiz

Chi Yin Sim

Maria Kourkouta & Niki Giannari

Thunska Pansittivorakul

Hito Steyerl

Pedro Lemebel Desnudo bajando la escalera, 2014 Documentazione video della performance 2’ 10” Collezione Il Posto Documentos Pisagua, 2006 Documentazione video della performance 3’ 29” Collezione Il Posto Documentos

LIMINAL & Border Forensics (Lorenzo Pezzani, Jack Isles, Giovanna Reder, Stanislas Michel, Chiara Denaro, Alagie Jinkang, Charles Heller, Kiri Santer, Svitlana Lavrenchuk, Luca Obertüfer) Asymmetric Visions: Aerial Surveillance and border control in the Central Mediterranean, 2023 Video 10’ 54”

Angela Melitopoulos Passing Drama, 1999 Video 66’

Jota Mombaça The birth of Urana remix, 2020 Video 21’ 17”

Carlos Motta Corpo Fechado: The Devil’s Work, 2018 Video 24’ 47”

Zanele Muholi Difficult Love, 2010 Video 48’

Pınar Öğrenci Inventory 2021, 2021 Video 15’ 56”

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Damnatio Memoriae, 2023 Video 108’ 11”

Anand Patwardhan Bombay, our city, 1985 Video 75’

Pilot TV Collective A Call and An Offering: Pilot TV: Experimental Media for Feminist Trespass, 2006 Documentario di Na Mira e Latham Zearfoss Video 24’

Queerocracy and Carlos Motta A New Discovery, Queer Immigration in Perspective, 2011 Video 9’ 58”

Oliver Ressler and Zanny Begg The Right of Passage, 2013 Video 19’

Carole Roussopoulos Le FHAR (Front homosexuel d’action révolutionnaire), 1971 Bianco e nero, nastro video da 1 pollice 26’ Centre audiovisuel Simone de Beauvoir

Güliz Sağlam 8 Mart 2018 - İstanbul / 8th of March 2018, 2018 Video 3’ 35”

Irwan Ahmett & Tita Salina B.A.T.A.M (Bila Anda Tiba Anda Menyesal) - When You Arrive You’ll Regret, 2020 Video 43’ 52”

Tejal Shah Between the waves, Channel 1, 2012 Video 26’ 14”

Requiem (Internationale, Goodbye Malaya), 2017 Video 12’ 34”

Universal Embassy, 2004 Video 6’ 36”

Sweatmother Transmissions Protest: Gender Inclusive Fashion, 2019 Video 3’ 15” Transmissions Protest: Witness the Real Angels (Anti-Victoria Secret Demo), 2019 Video 1’ 17” Pissed Off Trannies: Zap 1, 2022 Video 2’ 24” Pissed Off Trannies: Stigmata, 2022 Video 21’ 41” Pissed Off Trannies: Zap 3, 2023 Video 4’ 09”

Raphaël Grisey and Bouba Touré Xaraasi Xanne (Crossing Voices), 2022 Video 123’

Nguyễn Trinh Thi Everyday’s the Seventies, 2018 Video 15’

James Wentzy Fight Back, Fight AIDS: 15 Years of ACT UP!, 2002 Video 75’ Želimir Žilnik Inventur - Metzstrasse 11, 1975 Pellicola a colori 16mm, trasferita su video 8’ 57”

Juana Elena Diz

STRANIERI OVUNQUE

Spectres are haunting Europe, 2016 Video 99’

The Brightness of Greedy Europe, 2022 Video 27’ 48”

Lavandera, n.d. Olio su tela 126 x 96 cm Collezione Museo de Arte Moderno di Buenos Aires

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Transit(s): our traces, our ruin, 2016 Video 40’

ÉTRANGERS PARTOUT

Bani Khoshnoudi

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BIENNALE ARTE 2024

Tarsila do Amaral

Estudo (Academia no. 2), 1923 Olio su tela 61 x 50 cm Collezione privata Con il supporto aggiuntivo di Almeida & Dale Galeria de Arte

Saliba Douaihy Regeneration, 1974 Acrilico su tela 152 x 202,5 cm Collezione Taimur Hassan Con il supporto aggiuntivo di Taimur Hassan

Dullah Istriku, 1953 Olio su tela 102 x 83 cm National Gallery of Indonesia

Inji Efflatoun

Uzo Egonu Guinean Girl, 1962 Olio su tela 76 x 63,5 cm Estate of the Artist, Londra Con il supporto aggiuntivo di Grosvenor Gallery, Londra

Mohammad Ehsaei Untitled, 1974 Olio su tela 120 x 79 cm

Hatem El Mekki La Femme et le Coq, 1950s Olio su tela 64,7 x 50 cm Collezione Barjeel Art Foundation, Sharja Con il supporto aggiuntivo di Barjeel Art Foundation

Toli’ al Bader Alaina (Moonrise), 1982 Olio su tela 60 x 91 cm Estate of the Artist Untitled, dalla serie Deserts, 1986 Olio su tela 92 x 122 cm Estate of the Artist Untitled, dalla serie Deserts, 1986 Olio su tela 61 x 91,5 cm Estate of the Artist Untitled, dalla serie Deserts, 1988 Olio su tela 75,5 x 121,5 cm Estate of the Artist Untitled, dalla serie Deserts, 1988 Olio su tela 76 x 121,5 cm Estate of the Artist Untitled, dalla serie Deserts, 1988 Olio su tela 75,5 x 122 cm Estate of the Artist Untitled, dalla serie Deserts, 1988 Olio su tela 76 x 121,5 cm Collezione Taimur Hassan Tutte le opere con il supporto aggiuntivo di Sfeir-Semler Gallery, Beirut / Amburgo

Ibrahim El-Salahi The Last Sound, 1964 Olio su tela 121,5 x 121,5 cm Collezione Barjeel Art Foundation, Sharja Con il supporto aggiuntivo di Barjeel Art Foundation

Elyla In collaborazione con Milton Guillén Torita-encuetada, 2021 Video 9’ 42”

Ben Enwonwu The Dancer (Agbogho Mmuo - Maiden Spirit Mask), 1962 Olio su tela 93 x 62 cm Ben Uri Gallery e Museum

Romany Eveleigh

Pages 9, 1973 Olio e inchiostro da stampante su carta, montata su tela di lino 37,5 x 35 cm Collezione Beth Rudin DeWoody, New York Tri-Part, 1974 Olio e inchiostro da stampante su carta, montata su tela di lino 78 x 70 cm ciascuno Collezione Liz Sterling, New York 1/2 Eight, 1974 Pittura e inchiostro da stampante su carta, montata su tela di lino 123 x 131,5 cm Collezione Tia, Santa Fe, New Mexico Tutte le opere con il supporto aggiuntivo di Richard Saltoun Gallery

Hamed Ewais Le Gardien de la vie, 1967-68 Olio su tela 132 x 100 cm Collezione Barjeel Art Foundation, Sharja Con il supporto aggiuntivo di Barjeel Art Foundation

Dumile Feni Head, 1981 ca. Bronzo 52 x 20 x 27 cm Norval Foundation Con il supporto aggiuntivo di Norval Foundation

Alessandra Ferrini Gaddafi in Rome: Anatomy of a Friendship, 2024 Installazione video Dimensioni variabili

Cesare Ferro Milone Me Chani Ballerina della Regina, 1925 Olio su tela 95 x 73 cm Collezione Giovanni Ferro Milone, Vicenza

Raquel Forner Autorretrato, 1941 Olio su tela 186 x 141 cm Museo Provincial de Bellas Artes Emilio Pettoruti / Forner-Bigatti Foundation of Buenos Aires

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ELENCO DELLE OPERE PRESENTI IN MOSTRA

Prisoner, 1963 Olio su legno 56,5 x 43,5 cm Ramzi and Saeda Dalloul Art Foundation Con il supporto aggiuntivo di Ramzi and Saeda Dalloul Art Foundation

Aref El Rayess

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Huddle, dalla serie Dance Constructions, 1961 Performance 10’ The Museum of Modern Art, New York. Committee on Media and Performance Art Funds. © 2024 The Museum of Modern Art, New York. Tutte le opere con il supporto di Galleria Raffaella Cortese | Milano - Albisola; The Box, Los Angeles

Victor Fotso Nyie Malinconia, 2020 Ceramica smaltata e oro 37 × 25 × 30 cm Veglia, 2023 Ceramica smaltata e oro 22 × 60 × 42 cm Gioia, 2023 Ceramica smaltata e oro 45 × 35 × 40 cm Tutte le opere con il supporto aggiuntivo di P420 Gallery

Louis Fratino I keep my treasure in my ass, 2019 Olio su tela 217,8 x 165,1 cm Collezione privata Metropolitan, 2019 Olio su tela 152,4 x 240,7 cm Collezione Tom Keyes e Keith Fox My Meal, 2019 Olio su tela 109,2 x 119,4 cm Collezione privata Eggs, dishes, coreopsis, 2020 Olio su tela 106,7 x 106,7 cm Collezione privata An Argument, 2021 Olio su tela 177,8 x 165,3 cm Collezione David Bolger Kissing my foot, 2024 Olio su tela 144,8 x 198,1 cm Cosmos and miscanthus, 2024 Olio su tela 152,4 x 88,9 cm

Wine, 2024 Olio su tela 195,6 x 210,8 cm Tutte le opere con il supporto aggiuntivo di Sikkema Jenkins & Co.

Paolo Gasparini Miliciano,Trinidad, Cuba, 1961/2014-2015 Stampa alla gelatina d’argento 60 x 49 cm

Ṣàngódáre Gbádégẹsin Àjàlá Sacrifice for iroko, god and tree, 2012 Batik 180 x 248 cm Akíntúndé Ṣàngóṣakin Àjàlá Unknown title (Ògún, hunters), s.d. Batik 126 x 82 cm Augustine Merzeder-Taylor Unknown title (pidán dancing, dancer stepping on a nail), s.d. Batik 114 x 91 cm Edith Lukesch Unknown title (Ṣọ̀npọ̀nná, also known as Ọbalúayé), s.d. Batik 135 x 88 cm J. & W. Druml Unknown title (abstract batik motif around palm wine tapper scene), s.d. Batik 125 x 93 cm Lucia e Helmut Wienerroither, Austria Unknown title (Ọya pẹlu àṣẹ rẹ, Ọya with her symbols of sacred force, s.d. Batik 148 x 235 cm Lucia e Helmut Wienerroither, Austria Unknown title (a night scene under the moon), s.d. Batik 212 x 168 cm Martha Denk Unknown title (Ṣọ̀npọ̀nná, also known as Ọbalúayé), s.d. Batik 130 x 93 cm Wolfgang e Sieglinde Entmayr Tutte le opere con il supporto aggiuntivo di Susanne Wenger Foundation

Umberto Giangrandi

Bodegón Erotico, 1989 Acrilico e serigrafia su carta 50,7 x 69,2 cm Collezione Proyecto Bachué Con il supporto aggiuntivo di Proyecto Bachué

Madge Gill Crucifixion of the Soul, 1934 Inchiostro colorato su calicò 147,3 × 1061,7 cm London Borough of Newham Heritage and Archives

Marlene Gilson Building the Stockade at Eureka, 2021 Acrilico su lino 100 x 120 cm Collezione Martin Browne Happy Families – time when we all lived together, 2022 Acrilico su lino 76 x 100 cm Collezione Michael Kendall Market Day, 2022 Acrilico su lino 76 x 100 cm Collezione Wesfarmers Culture Learning, 2023 Acrilico su lino 76 x 100 cm Collezione privata Moorabool Falls, 2023 Acrilico su lino 100 x 76 cm Collezione Mark e Louise Nelson Wadawurrung Kurrung (Camp), 2023 Acrilico su lino 60 x 76 cm Collezione Cate Blanchett e Andrew Upton William Buckley Interpreter, 2023 Acrilico su lino 60 x 76 cm Collezione Amelia e Andrew Salter Tutte le opere con il supporto aggiuntivo di Martin Browne Contemporary and Creative Australia

Luigi Domenico Gismondi Indian and Girl with Ethnic Clothes from Cusco, 1917 ca. Gelatina d’argento e carta 24 x 18 cm Riproduzione Collezione Diran Sirinian, Buenos Aires

Domenico Gnoli Sous la Chaussure, 1967 Acrilico e sabbia su tela 185 x 140 cm Collezione Fondazione Prada 651

April (after Christopher Wood), 2024 Olio su tela 200,7 x 157,5 cm

Alessandro in a seersucker shirt, 2024 Olio su tela 55,9 x 43,2 cm

ΞΕΝΟΙ ΠΑΝΤΟΥ

Adventure of Red Hat, Red Hat Pursued with Yellow, 1966 Acquerelli su carta 45,5 x 38 cm Collezione Malagoli, Modena

STRANIERI OVUNQUE

Simone Forti

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BIENNALE ARTE 2024

Gabrielle Goliath

Personal Accounts, 2024 Installazione video e sonora Dimensioni variabili Con il supporto aggiuntivo di Goodman Gallery - Johannesburg, Città del Capo, Londra, New York; Galleria Raffaella Cortese | Milano - Albisola; Kamel Lazaar Foundation; Talbot Rice Gallery e Scott Collins Biennial Commission, in partnership con Outset Contemporary Art Fund.

Brett Graham Wastelands, 2024 Legno, vernice a polimeri sintetici 300 x 1600 x 360 cm Con il supporto aggiuntivo di Creative New Zealand

Fred Graham Whiti Te Rā, 1966 Oil stick su tavola 55 x 129 cm Auckland Art Gallery Toi o Tāmaki

ELENCO DELLE OPERE PRESENTI IN MOSTRA

Ngā Tamariki a Tangaroa (Children of the Sea God), 1970 Legno di mogano 76 x 245 x 12 cm Collezione Colleen Hill Maui Steals the Sun, 1971 Legno di mogano 33 x 105 x 2,5 cm Collezione Inder e Chris Lynch Tinirau and the Whale, 1971 Legno di mogano 33 x 105 x 2,5 cm Collezione Inder e Chris Lynch Tutte le opere con il supporto aggiuntivo di Creative New Zealand

Enrique Grau Hombre Dormido, 1945 Olio su tela 79 x 107 cm Collezione del Banco de la República de Colombia

Oswaldo Guayasamín Cabeza de Hombre Llorando, 1957 Olio su tela 105 x 70 cm Colección de Arte del Banco de la República de Colombia

Nedda Guidi

Scultura Oggetto V, 1965-66 Terracotta in smalto grigio scuro metallizzato e rosso scuro intenso 35,5 x 33 x 24,5 cm Collezione privata, Roma Scultura Oggetto II, 1966 Smalto granulare opaco su terracotta 48 x 46 x 24,5 cm Collezione Biffi, Roma Speculare, 1967 Ceramica smaltata in bianco demimat e blu sèvre 2 elementi Collezione Montaini, Arezzo Modulare III, 1967-68 Ceramica smaltata in rosso rubino e blu sèvre 4 elementi, 29 x 34,5 x 26,5 cm ciascuno Collezione Mingori, Parma Modulare I, 1968 Ceramica smaltata in blu sèvre e rosso rubino 4 elementi, in totale 168 x 28 x 28 cm Collezione privata, Roma Residui, 1971 Terracotta smaltata bianca, terracotta non smaltata 90 elementi, 10,5 x 19 x 15,5 cm ciascuno Collezione privata, Roma Ritmo Esagonale, 1971 Ceramica smaltata grigio-blu 16 elementi, in totale 36 x 46 x 220 cm ca. Collezione privata, Italia Dieci A ( 10A ), 1974 Terracotta In totale 50 x 240 cm – ciascun elemento 8 x 36 x 45 cm Archivio Nedda Guidi, Roma Otto B “Naturale-Artificiale”, 1974 Terracotta non smaltata e terracotta smaltata rosa 8 elementi, in tutto ø 90 cm ca. Museo Internazionale delle Ceramiche in Faenza Tavola di Campionatura n. 1, 1976 Terracotta e ossidi in custodia di legno 50 x 50 cm Collezione Boni, Roma De-posizione (o De-positione), 1977 Terracotta e ossidi 6 x 66 x 155 cm Collezione privata, Roma Raccolta di campionature, 1976 – 1991 Terracotta e ossidi in una scatola di legno 51 x 51 cm Archivio Nedda Guidi, Roma

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Grande Arco, 1977 Terracotta e ossidi 39 elementi, altezza variabile, totale 342 x 82 cm ca. Archivio Nedda Guidi, Roma

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Tavola di Campionatura n° 2, 1977 Terracotta e ossidi in una scatola di legno 50 x 50 cm Collezione Costantini, Todi Tavola di campionatura n. 8 (al cobalto), 1977 Terracotta e ossidi di cobalto in una scatola di legno 51 x 51 cm Archivio Nedda Guidi, Roma Tavola di Campionatura dei residui (o frammenti), 1976-1991 Terracotta e ossidi in una scatola di legno 50 x 50 cm Collezione Cusimano, Palermo Vasi rovesciati o Morandiana, 1988-1996 Terracotta e ossidi 27 elementi singoli Dimensioni variabili Collezioni multiple

Hendra Gunawan My Family, 1968 Olio su tela 197,5 x 145,5 cm Collection of the National Gallery Singapore Con il supporto aggiuntivo della National Gallery Singapore e del Ministero della Cultura, Comunità e Gioventù di Singapore

Antonio Jose Guzman & Iva Jankovic Orbital Mechanics, dalla serie Electric Dub Station, 2024 Tessuto Ajrakh stampato a blocchi tinto con indaco Installazione Site Specific Dimensioni variabili Con il supporto aggiuntivo di Sufiyan Khatri Ajrakh Workshop, Ajrakhpur, India Messengers of the Sun, dalla serie Electric Dub Station, 2024 Performance Performer: Antonio Jose Guzman & Puppets Family Dance Academy, Treviso Percussionisti: Elisa “Helly” Montin e Moulaye Niang Musica: Transillumination #1 / EDS Bass Mash Up Vol. 5 di Guzman & Jankovic Tutte le opere con il supporto aggiuntivo di Mondriaan Fund; Ammodo; The Daphne Oram Trust; The Daphne Oram Collection, Special Collections & Archives, Goldsmiths, Università di Londra

Marie Hadad Untitled, n.d. (1930s ca.) Olio su tela 40 x 60 cm Collezione Barjeel Art Foundation, Sharja Con il supporto aggiuntivo di Barjeel Art Foundation

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Lauren Halsey keepers of the krown (antoinette grace halsey), 2024 Calcestruzzo rinforzato con fibre di vetro e materiali misti 125 x 125 x 665 cm keepers of the krown (susan burton), 2024 Calcestruzzo rinforzato con fibre di vetro e materiali misti 125 x 125 x 665 cm keepers of the krown (patrice rushen), 2024 Calcestruzzo rinforzato con fibre di vetro e materiali misti 125 x 125 x 665 cm keepers of the krown (dr. rachel eubanks), 2024 Calcestruzzo rinforzato con fibre di vetro e materiali misti 125 x 125 x 665 cm keepers of the krown (suzette johnson), 2024 Calcestruzzo rinforzato con fibre di vetro e materiali misti 125 x 125 x 665 cm keepers of the krown (robin daniels), 2024 Calcestruzzo rinforzato con fibre di vetro e materiali misti 125 x 125 x 665 cm Con il supporto di David Kordansky Gallery e Gagosian

Nazek Hamdi The Lotus Girl, 1955 Olio su tela 70 x 50 cm Collezione Barjeel Art Foundation, Sharja Con il supporto aggiuntivo di Barjeel Art Foundation

Mohamed Hamidi Harmonie, 1969 Acrilico su tela 162,5 x 103 cm Ramzi e Saeda Dalloul Art Foundation Con il supporto aggiuntivo di Ramzi e Saeda Dalloul Art Foundation

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Kadhim Hayder

Elena Izcue Cobián

Thalathat Ashkhas Raqm 20 [Three People no. 20], 1970 Olio su tela 55,5 x 75 cm Collezione Taimur Hassan Con il supporto aggiuntivo di Taimur Hassan

Gilberto Hernández Ortega Marchanta, 1976 Olio su tela 117 x 88 cm Collezione Museo Bellapart

Carmen Herrera Untitled (Halloween), 1948 Acrilico su telo di iuta 96,5 x 123,2 cm Collezione privata

Evan Ifekoya The Central Sun, 2022 Installazione sonora a un canale (altoparlanti, legno, vetro acrilico, styrodur, motore, sughero, tappeto) Dimensioni variabili Sammlung Migros Museum für Gegenwartskunst. Commissionato da Migros Museum für Gegenwartskunst

Julia Isídrez Buo, 2017 Ceramica, 60 x ø 63 cm Collezione Jorge Enciso, Paraguay El mundo de Julia, 2017 Ceramica 87 x 46 cm Denver Art Museum El pez gordo de la buena suerte, 2023 Ceramica 125 x 43 x 40 cm Comma Foundation, Belgio Ginea (Diseño de Juana Marta), 2017 Ceramica 110 x ø 48 cm Grito de libertad, 2019 Ceramica 102 x ø 55 cm Vasija base tinója con tapa dos ranas, 2023 Ceramica 77 x 35 x 35 cm Tutte le opere con il supporto aggiuntivo di Gomide & Co.

Femme et Mur, 1977-1978 Olio su tela 162 x 130 cm Collezione Barjeel Art Foundation, Sharja Con il supporto aggiuntivo di Barjeel Art Foundation

Mujer de Perfil, 1924 Olio su tela 73,8 x 66 cm Museo de Arte de Lima. Donazione Marcela Vidal Layseca

ESTRANXEIROS EN TODAS PARTES

Three Nubians, n.d. Olio su tavola 101,5 x 93,5 cm Ramzi e Saeda Dalloul Art Foundation Con il supporto aggiuntivo di Ramzi e Saeda Dalloul Art Foundation

Mohammed Issiakhem

Bedouin Tent, 1950 Olio su legno 58 x 74 cm Collezione Barjeel Art Foundation, Sharja Con il supporto aggiuntivo di Barjeel Art Foundation

María Izquierdo Autorretrato, 1947 Olio su tela 55 x 45 Collezione Andrés Blaisten, Messico

Nour Jaouda Roots in the sky, 2023 Tessuto tinto a mano, acciaio 250 x 300 cm If the Olive trees knew…, 2023 Tessuto tinto a mano, acciaio 250 x 300 cm Silent Dust, 2023 Tessuto tinto a mano, acciaio 250 x 300 cm

Rindon Johnson For example, collect the water just to see it pool there above your head. Don’t be a Fucking Hero!, 2021 – in corso Pelle grezza, paracord, acqua piovana Coeval Proposition #1- Tear down so as to make flat with the Ground or The*Trans America Building DISMANTLE EVERYTHING, 2024 Sequoia 520 x 125 cm Commissionato da SculptureCenter, Valeria Napoleone (VNXXSC) e Chisenhale Gallery Con un ringraziamento a Rennie Collection, Vancouver, Canada. Tutte le opere con il supporto aggiuntivo di Max Goelitz, Monaco e Berlino; ifa — Institut für Auslandsbeziehungen

Joyce Joumaa

STRANIERI OVUNQUE

Tahia Halim

Faik Hassan

Memory Contours, 2024 Installazione multimediale Dimensioni variabili Biennale College Arte, La Biennale di Venezia

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Samia Halaby

Black is Beautiful, 1969 Olio su tela 167,5 x 167,5 cm Estate of the Artist Con il supporto aggiuntivo di SfeirSemler Gallery, Beirut / Amburgo

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BIENNALE ARTE 2024

Mohammed Kacimi

Nomadic Signs - Abstract composition, 1979 Olio su tela 116 x 75,5 cm Ramzi e Saeda Dalloul Art Foundation Con il supporto aggiuntivo di Dalloul Art Foundation

Frida Kahlo Diego y Yo, 1949 Olio su masonite 30 x 22 cm Collezione Eduardo F. Costantini

Nazira Karimi Hafta, 2024 Installazione audio e video Biennale College Arte, La Biennale di Venezia

George Keyt Nayika - Vasantha Raga, 1943 Olio su tela 89 x 59 cm Collezione Taimur Hassan Con il supporto aggiuntivo di Taimur Hassan

ELENCO DELLE OPERE PRESENTI IN MOSTRA

Bhupen Khakhar Fisherman in Goa, 1985 Olio su tela 168 x 168 cm Con il supporto aggiuntivo di Chemould Prescott Road

Bouchra Khalili The Constellations series, 2011 8 serigrafie su carta 60 x 40 cm ciascuna The Mapping Journey Project, 2008-2011 Installazione video, 8 proiezioni video a canale singolo, colore, suono Dimensioni variabili Sea-Drift, 2024 Ricamo su lino naturale tinto d’indaco 470 x 170 cm Tutte le opere con il supporto aggiuntivo di mor charpentier; Institut français

Kiluanji Kia Henda

A Espiral do Medo [La spirale della paura], 2022 Scultura in ferro. Dimensioni variabili 400 x 400 cm circa Collezione Jahmek Contemporary Art The Geometric Ballad of Fear, 2015 Stampa a getto d’inchiostro su carta di cotone 70 x 100 cm ciascuna Con il supporto aggiuntivo di Galeria Filomena Soares The Geometric Ballad of Fear (Sardegna), 2019 Stampa a getto d’inchiostro su carta fine art 100 x 120 cm ciascuna Con il supporto aggiuntivo di Galeria Filomena Soares

Linda Kohen El Sillón, 1999 Olio su tela 93 x 65 cm

Shalom Kufakwatenzi Mubatanidzwa (Adjoined), 2023 Tessuto di iuta, lana, spago per tabacco, pelle, tela per tappezzeria 240 x 186 cm Under the sea, 2023 Tessuto di iuta, lana, spago per tabacco, filo da pesca 96 x 216 cm

Ram Kumar Women, 1953 Olio su tavola 60,5 x 102 cm Collezione Taimur Hassan Con il supporto aggiuntivo di Taimur Hassan

Fred Kuwornu We Were here: The Untold History of Black Africans in Renaissance Europe, 2024 Video, 45’ Con il supporto aggiuntivo dell’Università del Minnesota, Africa No Filter, OSF

Grace Salome Kwami

Labourer (Lunch Break), 1965 Olio su tela 104 x 67 cm National Gallery Singapore Con il supporto aggiuntivo della National Gallery Singapore e del Ministero della Cultura, Comunità e Gioventù di Singapore

Wifredo Lam Untitled (Mujer Caballo), 1942-1946 Olio su tela 106 x 91 cm Collezione Paz Illobre-Orteu Con il supporto aggiuntivo di Silvia Paz Illobre de Orteu

Judith Lauand Acervo 290, concreto 18, 1954 Smalto su pannello 72 x 60 cm Collezione privata, San Paolo, Brasile Con il supporto aggiuntivo di Almeida & Dale Galeria de Arte

Maggie Laubser Meidjie (Young Girl), 1960 ca. Olio su tela 63 x 52,5 cm Norval Foundation Con il supporto aggiuntivo di Norval Foundation

Simon Lekgetho Self-Portrait, 1957 Olio su tavola 38,5 x 38 cm Norval Foundation Con il supporto aggiuntivo di Norval Foundation

Celia Leyton Vidal Millaküyén, 1950 ca. Olio su tela 84 x 71,8 cm Museo Nacional de Bellas Artes, Santiago del Cile Con il supporto aggiuntivo del Ministero delle Culture, Arti e Patrimonio e Ministero degli Affari Esteri, Governo del Cile

Lim Mu Hue Self-Expression, 1957-1963 ca. Olio su tavola 34,3 x 30 cm Dono di Koh Seow Chuan / Collezione di National Gallery Singapore Con il supporto aggiuntivo della National Gallery Singapore e del Ministero della Cultura, Comunità e Gioventù di Singapore

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Girl in Red (Portrait of Gladys Ankora), 1954 ca. Olio su tela di lino 76,2 x 55,8 cm Collezione Pamela Clarkson Kwami

Lai Foong Moi

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Os meninos de mafalala [The Mafalala Boys], 1963 Olio su tela 137 x 60 cm The Estate of Bertina Lopes The Last Supper Per omnia saecula saeculorum amen [For ever and ever, amen], 1964 Olio su tavola 50 x 180 cm The Estate of Bertina Lopes Totem, 1968 Olio su tela 150 x 130 cm The Estate of Bertina Lopes Collezione di Jeanne Greenberg Rohatyn Griddo grand [Big cry], 1970 Olio su tela 150 x 150 cm The Estate of Bertina Lopes Rais Antica 2 – Una historia verdadeira, 1972 Olio e collage su tela 150 x 130 cm The Estate of Bertina Lopes Tia Collection, Santa Fe, New Mexico Totem, 1983 Olio su tela 120 x 100 cm The Estate of Bertina Lopes Tutte le opere con il supporto aggiuntivo di Richard Saltoun Gallery

Amadeo Luciano Lorenzato Araucárias, 1973 Olio su tavola 61,5 x 45,5 cm Collezione privata Con il supporto aggiuntivo di Gomide & Co.

Anita Magsaysay-Ho Self-Portrait, 1944 Olio su cartoncino Bristol 61 x 48 cm Collezione privata Con il supporto aggiuntivo di National Museum of the Philippines

MAHKU (Movimento dos Artistas Huni Kuin) Kapewe Pukeni [Bridgealligator], 2024 Installazione site-specific 750 metri quadri Con il supporto di Bloomberg; Fundação Bienal de São Paulo; LUMA Foundation

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Untitled, 1990 Acrilico su tela 123 x 190 cm The Jean Pigozzi African Art Collection Con il supporto aggiuntivo di Jean Pigozzi

Anna Maria Maiolino Anno 1942, dalla serie Mapas Mentais, 1973-1999 Gouache su inchiostro, trasferibili e segni di bruciature su carta 50,5 x 42,3 cm Con il supporto di Hauser & Wirth INDO & VINDO, 2024 Installazione site-specific consistente in: Ao finito [To infinity] dalla serie Terra Modelada (Modeled Earth), 1994/2024 Installazione di 10 tonellate di argilla modellata in-situ e vegetazione Adjacentes da intuição [Adjacent to intuition], paesaggio sonoro dalla serie Da boca e com a boca [From the Mouth and with the mouth], 2024 Uma estória [A story], 2010/2024 Video digitale 4’ 33” Con il supporto di Hauser & Wirth; Luisa Strina, San Paolo, Brasile; Galleria Raffaella Cortese | Milano - Albisola; Lisa e Tom Blumenthal; Eliane e Alvaro Novis; SIO-2 | Ceramica Collet

Anita Malfatti A mulher de cabelos verdes, 1915 Olio su tela 61 x 51 cm Collezione Airton Queiroz, Fortaleza, Brazil Con il supporto aggiuntivo di Almeida & Dale Galeria

Ernest Mancoba Composition, 1940 Olio su tela 59 x 50,5 cm Collezione privata

Edna Manley Negro Aroused, 1935 Olio su legno 63,5 x 43,1 x 21,5 cm The National Gallery of Jamaica

Josiah Manzi Mfiti Woman and Snake, 1990 Pietra, serpentino nero 182 x 60 x 53 cm National Gallery of Zimbabwe

Teresa Margolles

Tela Venezuelana, 2019 Impronta umana su tessuto 210 x 210 cm

Maria Martins

SVUGDJE STRANCI

Bertina Lopes

Esther Mahlangu

However, 1948 Bronzo 130 x 24 x 32,5 cm Collezione Dalal Achcar Bocayuva Cunha, Brasile Con il supporto aggiuntivo di Almeida & Dale Galeria de Arte

María Martorell Ekho Dos, 1968 Olio su tela 170 x 160 cm Museo de Artes Plásticas Eduardo Sívori de la Ciudad Autónoma de Buenos Aires, Argentina

Mataaho Collective Takapau, 2022 Installazione (fasce in poliestere ad alta visibilità, fibbie in acciaio inossidabile, j-hooks) Configurazione site specific Museum of New Zealand, Te Papa Tongarewa Con il supporto aggiuntivo di Creative New Zealand

Naminapu Maymuru-White Mayaŋura malaŋu miḻŋ’miḻŋ (Stars reflected in the River), 2023 Pittura su corteccia multipannello 300 x 1100 cm circa Con il supporto aggiuntivo di Creative Australia; Sullivan+Strumpf; Sydney e BukuLarrnggay Mulka Centre, Yirrkala

Mohamed Melehi Composition, 1968 Olio su tela 89,8 x 199,6 cm Mathaf: Arab Museum of Modern Art, Doha, Qatar Con il supporto aggiuntivo di Mathaf: Arab Museum of Modern Art, Doha, Qatar

Carlos Mérida Motivo Guatemalteco, 1919 Olio su tela 97,5 x 71,5 cm Collezione The Hugo Quinto e Juan Pablo Lojo

STRANIERI OVUNQUE

Legong Dance, 1939 Olio su tela 113 x 95 cm Collezione Philippe Augier, Museum Pasifika

Gladys Mgudlandlu Two Old Ladies Shopping on a Cold Day, n.d. Vernice in polvere su tavola 67 x 79 cm Collezione privata

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Romualdo Locatelli

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BIENNALE ARTE 2024

Omar Mismar

Ahmad and Akram Protecting Hercules, dalla serie Studies in Mosaics, 2019-2020 Mosaico 130 x 200 cm Hunting Scene (Still from a YouTube video of a barrel bomb falling on Daraya), dalla serie Studies in Mosaics, 2019-20 Mosaico 282,5 × 158 cm Fantastical Scene [sic], dalla serie Studies in Mosaics, 2019-20 Mosaico 126 x 190 cm Parting Scene (with Ahmad, Firas, Mostafa, Yehya, Mosaab), dalla serie Studies in Mosaics, 2023 Mosaico 151 x 201 cm

Jenine, Kigoma, dalla serie Lubumbashi, 2017 Stampa digitale ultrachrome d’archivio 60 x 50 cm

Spring Cleaning, dalla serie Studies in Mosaics, 2022 Mosaico 200 x 220 cm

A roof top photoshoot with the dancers; Tonnex, (Ruby, Nonso and Oshodi), dalla serie The Royal House of Allure, 2019 Stampa digitale ultrachrome d’archivio 50 x 60 cm

ELENCO DELLE OPERE PRESENTI IN MOSTRA

Sabelo Mlangeni Faith and Sakhi Moruping Thembisa Township, dalla serie Isivumelwano, 2004 Stampa alla gelatina d’argento realizzata a mano 60 x 50 cm Contestants at Miss Queen of Queens, dalla serie Country Girls, 2008 Stampa alla gelatina d’argento realizzata a mano 60 x 50 cm Bigboy, dalla serie Country Girls, 2009 Stampa alla gelatina d’argento realizzata a mano 60 x 50 cm Oupa ‘Konke enginakho nengiyikho kuyintando KaJehova’, dalla serie Country Girls, 2009 Stampa alla gelatina d’argento realizzata a mano 60 x 50 cm Palisa, dalla serie Country Girls, 2009 Stampa alla gelatina d’argento realizzata a mano 60 x 50 cm Miss Black Pride, dalla serie Black Men in Dress, 2010 Stampa alla gelatina d’argento realizzata a mano 50 x 40 cm

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Iduku, dalla serie Black Men in Dress, 2011 Stampa alla gelatina d’argento realizzata a mano 50 x 40 cm “EXACT SCIENCE” Kigoma, Lubumbashi, DRC, dalla serie Lubumbashi, 2017 Stampa digitale ultrachrome d’archivio 60 x 50 cm

Two unidentified lovers in a mirror, 2023 Mosaico 130 x 130 cm Con il supporto aggiuntivo di Adbel Moneim Barakat

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Identity, dalla serie Black Men in Dress, 2011 Stampa alla gelatina d’argento realizzata a mano 50 x 40 cm

Tumi the singer, Soweto, dalla serie Black Men in Dress, 2010 Stampa alla gelatina d’argento realizzata a mano 50 x 40 cm

James Brown, dalla serie The Royal House of Allure, 2019 Stampa digitale ultrachrome d’archivio 50 x 60 cm Olalere’s body painting shoot (make up artist Thom Smith and Daniel), dalla serie The Royal House of Allure, 2019 Stampa digitale ultrachrome d’archivio 50 x 60 cm Uche, all dressed up, dalla serie The Royal House of Allure, 2019 Stampa digitale ultrachrome d’archivio 50 x 60 cm Tutte le opere con il supporto aggiuntivo di blank projects

Tina Modotti Falce, Pannocchia e Cartucciera, 1928/1985-1995 ca. Stampa alla gelatina d’argento 17 x 13,5 cm Riproduzione stampata da Riccardo Toffoletti su concessione di Vittorio Vidali Collezione Maria Domini, Comitato Tina Modotti

Bahman Mohasses Untitled (Personages), 1966 Olio su cartoncino 70 x 50 cm Collezione Taimur Hassan Con il supporto aggiuntivo di Taimur Hassan

Roberto Montenegro

Pescador de Mallorca, 1915 Olio su tela 100 x 97 cm Museo Nacional de Arte / INBAL

Camilo Mori La viajera, 1928 Olio su tela 100,5 x 70 cm Collezione Museo Nacional de Bellas Artes, Santiago del Cile Con il supporto aggiuntivo di Ministero delle Culture, Arti e Patrimonio e Ministero degli Affari Esteri, Governo del Cile

Ahmed Morsi Portrait of the artist with a broken mirror, 1970 Olio su legno 124 x 81 cm Collezione Barjeel Art Foundation, Sharja Con il supporto aggiuntivo di Barjeel Art Foundation

Effat Naghi Untitled, 1960 Olio e inchiostro su pannello 138,5 x 99,5 cm Ramzi e Saeda Dalloul Art Foundation Con il supporto aggiuntivo di Ramzi e Saeda Dalloul Art Foundation

Ismael Nery Figura decomposta, 1927 Olio su tela 42 x 47,5 cm Collezione privata, San Paolo, Brasile Con il supporto aggiuntivo di Almeida & Dale Galeria de Arte

Malangatana Valente Ngwenya To the Clandestine Maternity Home, 1961 Olio su tela 157 x 180 cm Università di Bayreuth, Germania

Paula Nicho Camino a xejul, 2005 Olio su tela 102 x 122 cm Mi piel y sombrero, 2023 Olio su tela 64 x 84 cm Mi segunda piel chichicastenango, 2023 Olio su tela 64 x 84 cm Saludo al Sol, 2023 Olio su tela 64 x 84 cm

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Bozzetto per lo show-room Olivetti a New York, 1953 Gesso su sabbia con policromia 123,5 x 76 x 7 cm Collezione Museo Nivola, Orani, Nuoro

Taylor Nkomo Herdboy, 2022 Springstone 32 x 15 x 37 cm Singing blues, 2022 Cobalto 27 x 11 x 48 cm Wish I could fly, 2022 Verdite 32 x 28 x 19 cm Fashion Girl, 2023 Opale bianco 33 x 25 x 10 cm Shy Girl, 2023 Opale bianco 24 x 17 x 36 cm Thinker, 2023 Cobalto 27 x 23 x 46 cm

Marina Núñez del Prado Madona de Ternura, 1946-51 Granito Comanche 28,8 x 22,5 x 32,8 cm Collezione MAC USP (Museu de Arte Contemporânea da Universidade de São Paulo, Brasile)

Philomé Obin Fete de la Garde Place St Victor, 1945 Olio su pannello di masonite 61,6 x 51,4 cm Lawrence Kent Centenaire du Pont du Haut du Cap, 1947 Olio su pannello di masonite 48,25 x 56,51 cm Colección Chocolate Cortés Deux Deguisés du Carnaval, 1947 Olio su pannello di masonite 38,1 x 47 cm Collezione Chocolate Cortés Missionaire, 1951 Olio su tavola di legno 58,5 x 71 cm Collezione Josh Feldstein

L’union fait la force, 1954 Olio su masonite 63,5 x 93,3 cm Collezione John Branca Marché Poissons, 1956 Olio su masonite 42 x 53,5 cm Collezione Josh Feldstein Marché Clugny, 1950s-1960s ca. Olio e/o gouache su masonite 69,2 x 87 cm Collezione El Museo del Barrio, New York. Dono di Roslyn e Lloyd Siegel, 2011 Eglise Sacré-Coeur, 1961 Olio su masonite 60 x 76 cm Collezione Josh Feldstein Reception Marriage Interieur, 1966 Olio su tela 43 x 94 cm Collezione Josh Feldstein Funerailles Maçonniques, 1968 ca. Tempera d’uovo su masonite 60,4 x 76,2 cm Collezione El Museo del Barrio, New York. Dono di Daniela Chappard Foundation, 2012

Alejandro Obregón Máscaras, 1952 Olio su tela 210 x 107 cm Collezione National Museum of Colombia

Tomie Ohtake Untitled, 1978 Acrilico su tela 124,8 x 134,8 cm Con il supporto aggiuntivo di National Center for Art Research, Giappone

Uche Okeke Male Model Standing, 1959 Olio su tavola 92,3 x 60,7 cm Collezione di G. Hathiramani

Marco Ospina Abstracto, n.d. Olio su tela 110 x 90 cm Collezione Proyecto Bachué Con il supporto aggiuntivo di Proyecto Bachué

Sunset, 1968 Olio su tela 117 x 77 cm Ramzi e Saeda Dalloul Art Foundation Con il supporto aggiuntivo di Ramzi e Saeda Dalloul Art Foundation

Daniel Otero Torres Aguacero, 2024 Tecnica mista 655 × 1100 × 1100 cm Con il supporto di Paprec; MDBMétiers du bois; Trampoline, Associazione a sostegno della scena artistica francese Parigi; Ministère de la Culture-DRAC Ile-de-France dans le cadre du déploiement des Résidences d’artistes en entreprise; mor charpentier, Bogotá and Paris, Institut français Donde llueve y se desborda, 2024 Ceramica Dimensioni variabili Con il supporto di mor charpentier, Bogotá e Paris

Lydia Ourahmane 21 Boulevard Mustapha Benboulaid (entrance), 1901–2021 Porta in metallo, porta in legno, 9 serrature, cemento, intonaco, mattoni, telaio in acciaio 220 x 200 x 16 cm Stedelijk Museum Amsterdam Lydia Ourahmane in collaboration with Daniel Blumberg sync, 2022-2024 Performance di 24 ore Commissionato da KW Institute for Contemporary Art, Berlino Con il supporto aggiuntivo di Ammodo

Pan Yuliang Back of Nude, 1946 Olio su tela 65 x 50,2 cm Collezione privata

Dalton Paula Chico Rei, 2024 Foglia d’oro e olio su tela 210 x 110 cm Nã Agotimé, 2024 Foglia d’oro e olio su tela 210 x 110 cm Ganga Zumba, 2024 Foglia d’oro e olio su tela 210 x 110 cm Pacífico Licutan, 2024 Foglia d’oro e olio su tela 210 x 110 cm

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Habitiacion Bayuex, 1957 ca. Olio su masonite 40,7 x 50,8 cm Collezione John Branca

Sénèque Obin

Samia Osseiran Junblatt

FREMMEDE OVERALT

Costantino Nivola

Carnaval, 1958 Olio su masonite 50 x 60 cm Collezione Josh Feldstein

STRANIERI OVUNQUE

Tejiendo mi segunda piel, 2023 Olio su tela 64x 84 cm

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BIENNALE ARTE 2024

Tereza de Benguela, 2024 Foglia d’oro e olio su tela 210 x 110 cm Tutte le opere con il supporto aggiuntivo di Sé Galeria, Cerrado Galeria e James Fuentes Gallery

Amelia Peláez Mujer con abanico, 1931 Olio su tela 69,4 x 58,5 cm Collezione Sandy e George Garfunkel, Palm Beach, USA

George Pemba Young Woman, 1947 Olio su tela 58 x 42,5 cm Norval Foundation Con il supporto aggiuntivo di Norval Foundation

Fulvio Pennacchi

ELENCO DELLE OPERE PRESENTI IN MOSTRA

O circo, 1942 Olio su legno 50 x 70 cm Collezione Maria Cecilia Capobianco Con il supporto aggiuntivo di Almeida & Dale Galeria de Arte

Claudio Perna Venezuela - Map Series, n.d. Fotocopie, foto su mappa cartacea 62,2 x 85,1 cm Institute for Studies on Latin American Art (ISLAA)

Emilio Pettoruti La del Abanico Verde o El abanico verde, 1919 Olio su tela 96 x 50 cm Collezione Eduardo F. Costantini

Lê Phô

Toro Nuziale, 1958 Assemblage 90 x 116 cm Collezione privata

Ester Pilone Luz Amarilla, 1970 Olio su tela 50,1 x 112,1 cm Collezione Museo de Arte Moderno de Buenos Aires

La Chola Poblete Il Martirio di Chola, 2014 Fotografia 170 x 100 cm Virgen Evita Madre Reconciliadora de todos los Pueblos y las Naciones, dalla serie Virgenes Cholas, 2023 Acquerello, acrilico e inchiostro su carta 200 x 152 cm María y el Cóndor, dalla serie Virgenes Cholas, 2023 Acquerello, acrilico e inchiostro su carta 200 x 152 cm Inmaculado corazón de Travo, dalla serie Virgenes Cholas, 2022 Acquerello, acrilico e inchiostro su carta 200 x 152 cm La Virgen Mulata, dalla serie Virgenes Cholas, 2022 Acquerello, acrilico e inchiostro su carta 200 x 152 cm Pachamama, dalla serie Virgenes Cholas, 2023 Acquerello, acrilico e inchiostro su carta 200 x 152 cm Virgen de la Misericordia, dalla serie Virgenes Cholas, 2023 Acquerello, acrilico e inchiostro su carta 200 x 152 cm Purple María, dalla serie Virgenes Cholas, 2023 Acquerello, acrilico e inchiostro su carta 200 x 152 cm

Charmaine Poh Kin, 2021 Video 2’ 45”

What’s softest in the world rushes and runs over what’s hardest in the world., 2024 Video 14’ Con il supporto aggiuntivo di Vega Foundation

Maria Polo Untitled, 1962 Olio su tela 81 x 60 cm Collezione Antonio Almeida e Carlos Dale Jr, San Paolo Con il supporto aggiuntivo di Almeida & Dale Galeria de Arte

Candido Portinari Cabeça de Mulato, 1934 Olio su tela 73,5 x 60 cm Collezione Igor Queiroz Barroso, Fortaleza, Brasile

Sandra Poulson Onde o Asfalto Termina, e a Terra Batida Começa, 2024 Installazione di cartone scartato, amido di mais e compensato con videoproiezioni Dimensioni variabili Biennale College Arte, La Biennale di Venezia

B. Prabha Waiting, n.d. Olio su tela 91,44 x 66,04 cm Con il supporto aggiuntivo di Aicon Gallery, New York

Lidy Prati Composición serial, 1946-1948 Olio su tavola 75,5 x 55,8 cm Collezione Malba, Museo de Arte Latinoamericano de Buenos Aires

Sin título, 2024 Tessuto 140 x 90 cm Tutte le opere con il supporto aggiuntivo di Barro, Buenos Aires e New York

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Jeune Fille en Blanc [Young Girl in White], 1931 Olio su tela 81 x 130 cm Collezione National Gallery Singapore Con il supporto aggiuntivo della National Gallery Singapore e del Ministero della Cultura, Comunità e Gioventù di Singapore

Bona Pieyre De Mandiargues

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Electric Dress (Atsuko Tanaka), 2023 Abito a LED in tessuto e plastica, drappeggiato su manichino, 12 batterie agli ioni di litio in custodie in tasche di tessuto, scheda micro SD programmata con Madrix 81 x 66 x 63 cm Hartwig Art Foundation Con il supporto aggiuntivo di Galerie Francesca Pia; Ammodo My heart is beating as I lip sync to this song, 2024 Performance Hartwig Art Foundation Con il supporto aggiuntivo di Galerie Francesca Pia; Ammodo The Hommage to Ana Mendieta (“On Giving Life”) and Marina Abramovic (“Nude with skeleton”) transizione in Daily Make-up Application, 2024 Performance Con il supporto aggiuntivo di Galerie Balice Hertling; Galerie Barbara Weiss; Hannah Hoffman Gallery; Galerie Francesca Pia; Ammodo

Lee Qoede

ìVioleta Quispe El matrimonio de la chola, 2022 Policroma mista, pigmento naturale con applicazione di foglia d’oro su MDF 150 x 170 cm Apu Suyos, 2024 Policromia, terra, pigmento naturale su MDF 200 x 200 cm Collezione Jorge M. Perez, Miami

Alfredo Ramos Martínez Maancacoyota, 1930 Olio su cartone 38,4 x 38,3 cm Collezione Andrés Blaisten, Messico

Sayed Haider Raza Offrande, 1986 Acrilico su tela 100 x 100 cm Con il supporto aggiuntivo di Grosvenor Gallery, Londra

Armando Reverón Retrato de Alfredo Boulton, 1934 Olio e gouache su carta aderente a una tavola 120 x 85 cm Collezione Clarissa e Edgar Bronfman Jr.

Emma Reyes Untitled, 1955 Olio e oil stick su tela 75 x 93 cm Collezione Riccardo Boni, Roma

Diego Rivera Retrato de Ramón Gómez de la Serna, 1915 Olio su tela 110 x 90 cm Collezione Malba, Museo de Arte Latinoamericano di Buenos Aires

Juana Marta Rodas Untitled, 1993 ca. Ceramica modellata 18,5 x ø 55 cm Untitled, 1993 ca. Ceramica modellata e ingobbio rosso 11 x 19 cm Untitled, 1993 ca. Ceramica modellata e ingobbio rosso 18,5 x ø 55 cm Untitled, 1993 ca. Ceramica modellata e ingobbio rosso 10 x ø 11 cm The Musicians (series), 1993 ca. Ceramica modellata e ingobbio rosso 12,5 x 8,5 x 14 cm The Musicians (series), 1993 ca. Ceramica modellata e ingobbio rosso 13 x 10 x 16 cm The Musicians (series), 1993 ca. Ceramica modellata e ingobbio rosso 13,5 x 9 cm The Musicians (series), 1993 ca. Ceramica modellata e ingobbio rosso 11,5 x ø 8,5 cm The Musicians (series), 1993 ca. Ceramica modellata e ingobbio rosso 11 cm x ø 9,5 cm Tutte le opere Collezione del Centro de Artes Visuales/ Museo del Barro

Laura Rodig Pizarro Retrato de Gabriela Mistral, 1914-16 Olio su tela 49 x 59,5 cm Gabriela Mistral Museum Collection Con il supporto aggiuntivo di Ministero delle Culture, Arti e Patrimonio e Ministero degli Affari Esteri, Governo del Cile

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Self-portrait in a Long Blue Coat, 1948-49 Olio su tela 72 x 60 cm Collezione privata Con il supporto aggiuntivo di Samsung Foundation of Culture

Cyber-Teratology Operation, 2024 Installazione Scultura in silicio, metallo e resina con schermo video 180 x 190 x 270 cm Biennale College Arte, La Biennale di Venezia

VREEMDELINGEN OVERAL

Una scultura per le Donne Trans. Una scultura per le Donne Non-Binarie. Una scultura per le Persone a Due Spiriti. Io sono una donna. Non mi interessa quello che pensi. (La transfobia è ovunque e ognuno è suscettibile di metterla in atto in qualsiasi momento) (Disimparare la transfobia che cova dentro di noi) Sono una donna trans. Sono una persona con due spiriti. Sono una donna. Questo è per le mie sorelle di tutto il mondo. La storia ha cancellato molte di noi, ma siamo ancora qui. Lotterò per i nostri diritti fino al giorno della mia morte. Esiliatemi e continuerò a lottare, 2022 Fusione in bronzo su base di ottone inciso 190 x 60 x 60 cm Con il supporto aggiuntivo di Galerie Balice Hertling; Galerie Barbara Weiss; Hannah Hoffman Gallery; Galerie Francesca Pia

Agnes Questionmark

STRANIERI OVUNQUE

Puppies Puppies (Jade Guanaro Kuriki-Olivo)

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BIENNALE ARTE 2024

Abel Rodríguez

Centro el terreno que nunca se inunda, 2022 Inchiostro su carta 70 x 100 cm El arbol de la vida y la abundancia, 2022 Inchiostro su carta 151 x 150 cm La centro montaña, 2022 Inchiostro su carta 100 x 70 cm La montaña centro y sus animales nativos 5 especies, 2022 Inchiostro su carta 70 x 100 cm Sin título, 2023 Inchiostro su carta 30 x 20 cm ciscuna Chorro de araracuara, 2017 (con Aycoobo, Wilson Rodriguez) Acrilico e inchiostro su carta 63 x 83 cm La montaña alta y firme, 2022 (con Aycoobo, Wilson Rodriguez) Acrilico e inchiostro su carta 70 x 100 cm

ELENCO DELLE OPERE PRESENTI IN MOSTRA

Montaña firme de centro, 2022 (con Aycoobo, Wilson Rodriguez) Acrilico e inchiostro su carta 70 x 100 cm Terraza vajá, 2022 (con Aycoobo, Wilson Rodriguez) Acrilico e inchiostro su carta 70 x 100 cm Tutte le opere con il supporto aggiuntivo di Instituto de Visión, Bogotá

Aydeé Rodriguez Lopez El Negro Yanga, 2011 Olio su tela, montato su telaio in legno di pioppo tinto e intagliato a mano 117 x 135,5 cm Cazadores de hombres, 2013 Olio su tela, montato su telaio in legno di pioppo tinto e intagliato a mano 157 x 137 cm Ex Hacienda de Guadalupe Collantes, 2014 Olio su tela, montato su telaio in legno di pioppo tinto e intagliato a mano 171,5 x 221 cm

Tutte le opere con il supporto aggiuntivo di Proyectos Monclova

Freddy Rodriguez Mulato de tal, 1974 Acrilico su tela 203,2 x 101,6 cm Estate Freddy Rodríguez

Miguel Ángel Rojas El Imperador 1, 1973-1980 Stampa vintage alla gelatina d’argento 20,3 x 25,2 cm El Imperador 5, 1973 Stampa vintage alla gelatina d’argento 20,3 x 25,2 cm El Negro, 1979 4 stampe vintage alla gelatina d’argento 20,3 x 25,4 cm ciascuna Tutte le opere con il supporto aggiuntivo di Sicardi Ayers Bacino Gallery

Rosa Rolanda Tehuana, 1940 ca. Olio su tela 61,5 x 51 cm Collezione Eduardo F. Costantini

Jamini Roy Untitled - Krishna with Parrot, n.d. Tempera su tela 96,5 x 51 cm Collezione Sanjay Yaday, Londra Con il supporto aggiuntivo di Grosvenor Gallery, Londra

Rómulo Rozo Bachué, Diosa Generatriz de los Chibchas, 1925 Granito 177 x 44 x 40 cm Collezione Proyecto Bachué Con il supporto aggiuntivo di Proyecto Bachué

Erica Rutherford

Rubber Maids, 1970 Gouache su carta 71 x 56 cm The Estate of Erica Rutherford Self Portrait with Red Boots, 1974 Acrilico su tela 137,2 x 132,1 cm The Estate of Erica Rutherford Collezione Beth Rudin DeWoody The Coat (the mirror), 1970 Acrilico su tela 122 x 127,2 cm The Estate of Erica Rutherford The diver, 1968 Acrilico su tela 176 x 120 cm The Estate of Erica Rutherford Yellow Stockings, 1970 Gouache su carta 61 x 52,5 cm The Estate of Erica Rutherford Tutte le opere con il supporto aggiuntivo di Richard Saltoun Gallery

José Sabogal El Recluta, 1926 Olio su tela 60 x 60 cm Centro Cultural UNI, Lima

Mahmoud Sabri Water (Quantum Realism Series), 1970 ca. Olio su tela 87 x 87 cm Collezione Barjeel Art Foundation, Sharja Con il supporto aggiuntivo di Barjeel Art Foundation

Syed Sadequain Untitled (Lady with a Diya), anni Cinquanta-Sessanta Olio su tela 91,4 x 60,9 cm Collezione Taimur Hassan Con il supporto aggiuntivo di Taimur Hassan

Nena Saguil Untitled (Abstract), 1972 Olio su tela 126,9 x 127,5 cm National Fine Arts Collection del National Museum of the Philippines Con il supporto aggiuntivo di National Museum of the Philippines

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Hacienda Trata Negra, 2017 Olio su tela, montato su telaio in legno di pioppo tinto e intagliato a mano 115 x 132,5 cm

Migración, 2018 Olio su tela, montato su telaio in legno di pioppo tinto e intagliato a mano 110 x 153,5 cm

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Kazuya Sakai Pintura No.9, 1969 Acrilico su tela 130 x 130 cm Collezione Marina Pellegrini Con il supporto aggiuntivo di National Center for Art Research, Giappone

Ione Saldanha Untitled dalla serie Bambus, n.d Acrilico su bambù 170 x Ø 11 cm Collezione Antonio Almeida e Carlos Dale Jr, San Paolo Con il supporto aggiuntivo di Almeida & Dale Galeria de Arte Untitled dalla serie Bambus, n.d Acrilico su bambù 193 x Ø 14 cm Collezione Antonio Almeida e Carlos Dale Jr, San Paolo Con il supporto aggiuntivo di Almeida & Dale Galeria de Arte Untitled dalla serie Bambus, n.d Acrilico su bambù 173 x Ø 17 cm Collezione Antonio Almeida e Carlos Dale Jr, San Paolo Con il supporto aggiuntivo di Almeida & Dale Galeria de Arte Bambu, 1966 Acrilico su bambù 197 x Ø 18 cm Collezione Ronie e Conrado Mesquita, Rio de Janeiro Con il supporto aggiuntivo di Ronie e Conrado Mesquita Bambu, 1970 Acrilico su bambù 179 x Ø 13 cm Collezione Ronie e Conrado Mesquita, Rio de Janeiro Con il supporto aggiuntivo di Ronie e Conrado Mesquita Bamboo, anni Sessanta Tempera su bambù 178 x Ø 12 cm Collezione Heitor Martins e Fernanda Feitosa, San Paolo

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Untitled, Bamboo, anni Sessanta Pittura acrilica su bambù 257,5 x Ø 4 cm Con il supporto aggiuntivo di Simões de Assis

Bamboo, anni Sessanta Tempera su bambù 153 x Ø 14 cm Collezione Heitor Martins e Fernanda Feitosa, San Paolo

Untitled, Bamboo, anni Sessanta Pittura acrilica su bambù 215 x Ø 6,5 cm Con il supporto aggiuntivo di Simões de Assis

Untitled, anni Sessanta Vernice su bambù 225 x Ø 5 cm Collezione Heitor Martins e Fernanda Feitosa, San Paolo

Untitled, Bamboo, 1969 Pittura acrilica su bambù 273 x Ø 8,5 cm Con il supporto aggiuntivo di Simões de Assis

Bambu, n.d. Acrilico su bambù 210,5 x Ø 9 cm Collezione Paula e Marcelo Medeiros

Untitled, Bamboo, anni Sessanta Acrilico su bambù 233 x Ø 14 cm Con il supporto aggiuntivo di Simões de Assis

Bambu, n.d. Acrilico su bambù 186,5 x Ø 17 cm Collezione Paula e Marcelo Medeiros Bambu, n.d. Acrilico su bambù 170 x Ø 9 cm Collezione Paula e Marcelo Medeiros Bambu, n.d. Acrilico su bambù 174 x Ø 14,5 cm Collezione Paula e Marcelo Medeiros Bambu, n.d. Acrilico su bambù 167 x Ø 14 cm Collezione Paula e Marcelo Medeiros Bamboo II, anni Sessanta Vernice su bambù 147,7 x Ø 16,8 cm Con il supporto aggiuntivo di Simões de Assis Bamboo, anni Sessanta Vernice su bambù 176,5 x Ø 16,5 cm Paulo Setúbal Collection Con il supporto aggiuntivo di Simões de Assis Untitled, Bamboo, anni Sessanta Tempera su bambù 265 x Ø 8,5 cm Con il supporto aggiuntivo di Simões de Assis

Bamboo, anni Sessanta Tempera su bambù 127 x Ø 14 cm Collezione Heitor Martins e Fernanda Feitosa, San Paolo

Bamboo, anni Settanta Tempera su bambù 161 x Ø 15 cm Collezione Leonardo Lopes Rocha Leite Con il supporto aggiuntivo di Simões de Assis

Bamboo, n.d. Tempera su bambù 216 x Ø 12 cm Collezione Heitor Martins e Fernanda Feitosa, San Paolo

Untitled, Bamboo, anni Sessanta Pittura acrilica su bambù 243,5 x Ø 4,5 cm Con il supporto aggiuntivo di Simões de Assis

FREMDULOJ ĈIE

Bamboo, n.d. Tempera su bambù 152 x Ø 17 cm Collezione Heitor Martins e Fernanda Feitosa, San Paolo

Dean Sameshima Anonymous Homosexual, 2020 Acrilico su tela 30 x 40 cm Anonymous Faggot, 2020 Acrilico su tela 31 x 40 cm being alone, 2022 10 stampe a getto d’inchiostro d’archivio su carta Hahnemühle Photo Rag 59,5 x 42 cm ciascuna Tutte le opere con il supporto aggiuntivo di Kristina Kite Gallery, Los Angeles; Soft Opening, London; ifa — Institut für Auslandsbeziehungen

Zilia Sánchez Lunar, 1980 Acrilico su tela tesa 118 x 121,9 x 29,9 cm The Mende Collection Con il supporto aggiuntivo di Galerie Lelong, New York

Bárbara Sánchez-Kane Prêt-à-Patria, 2021 Fibra di vetro, resina, struttura in acciaio e poliestere 560 x 63 x 170 cm Prêt-à-Patria, 2024 Performance Performers: Jhoav Stuart Molina Garcia; Kevin Adrian Beltran Villa Tutte le opere con il supporto aggiuntivo di kurimanzutto, Città del Messico / New York; Ammodo

STRANIERI OVUNQUE

Haguer, 1923 Olio su tela 81,2 x 64,7 cm Mathaf: Arab Museum of Modern Art, Doha, Qatar Con il supporto aggiuntivo di Mathaf: Arab Museum of Modern Art, Doha, Qatar

Nenne Sanguineti Poggi Tekkà, 1948 Olio su tela 49 x 44 cm Vincenzo Sanguineti/NSPART Con il supporto aggiuntivo di Estate of Nenne Sanguineti Poggi

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Mahmoud Saïd

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BIENNALE ARTE 2024

Fanny Sanín

Oil No. 7, 1969 Olio su tela 165 × 175 cm Collezione Steven e Olga Immel, New York Con il supporto aggiuntivo di Fanny Sanín Legacy Project

Aligi Sassu Tobiolo, 1965 Olio su tela 81 x 96 cm Archivio Aligi Sassu, Monza

Greta Schödl Untitled, 1980 Olio su tela, tela indiana e foglia d’oro 185 x 102 cm Quarzite, dalla serie Scritture, 2020 Tela indiana e foglia d’oro su quarzite 13,5 x Ø 8,2

ELENCO DELLE OPERE PRESENTI IN MOSTRA

Granito rosso Sierra Chica, dalla serie Scritture, 2020 Tela indiana e foglia d’oro su granito rosso 13 x 20,2 x 10 cm Piccolo marmo rosato, dalla serie Scritture, 2020 Tela indiana e foglia d’oro su marmo rosa 16 x 12 x 2 cm Schrift auf Seide, 2021 Tela indiana e foglia d’oro su seta di Dior 132 X 127 cm Marmo basso calcareo, dalla serie Scritture, 2023 Tela indiana e foglia d’oro su marmo 7,5 x 25 x 4 cm Marmo rosso, dalla serie Scritture, 2023 Tela indiana e foglia d’oro su marmo 9,5 x 12 x 8 cm Marmo rosso di Trani, dalla serie Scritture, 2023 Tela indiana e foglia d’oro su marmo rosso di Trani 13,5 x 12 x 9,6 cm Marmo rosso piatto, dalla serie Scritture, 2023 Tela indiana e foglia d’oro su marmo rosso 20 x 34 x 2 cm Marmo travertino, dalla serie Scritture, 2023 Tela indiana e foglia d’oro su marmo 10 x 20,5 x 5 cm

Tutte le opere con il supporto aggiuntivo di Phileas – The Austrian Office for Contemporary Art

Ana Segovia Vámonos con Pancho Villa!, 2020 Olio su tela 210 x 240 cm Collezione Mario e Begoña Pasquel Con il supporto aggiuntivo di kurimanzutto, Città del Messico / New York Pos’ se acabó este cantar, 2021 Installazione video 5’ 35” Con il supporto aggiuntivo di kurimanzutto, Città del Messico / New York Charro Azul, 2023 Olio su tela 185 x 130 cm Collezione Rocío e Boris Hirmas Con il supporto aggiuntivo di Boris Hirmas

Gerard Sekoto Self-Portrait, 1947 Olio su tela su tavola 45,7 x 35,6 cm The Kilbourn Collection Con il supporto aggiuntivo di The Kilbourn Collection

Jewad Selim Woman and a Jug, 1957 Olio su tela 50 x 70 cm Collezione privata

Lorna Selim Unknown, 1958 Olio su tela 83 x 70,5 cm Mathaf: Arab Museum of Modern Art, Doha, Qatar Con il supporto aggiuntivo di Mathaf: Arab Museum of Modern Art, Doha, Qatar

Joshua Serafin VOID, 2022 Video 9’ 14” VOID, 2023-2024 Performance Tutte le opere con il supporto aggiuntivo di Ammodo

Kang Seung Lee

Constellation (blood moon hands), 2023 Grafite e acquerello su pergamena di capra, Sambe, ceralacca, piuma, filo d’oro antico 24k, perle, filo d’argento, ciottolo, bottone di conchiglia, impiallacciatura di noce incisa al laser, cornice di noce 133 x 92 x 6 cm ca. Constellation (everything circulate), 2023 Grafite, acquerello, Sambe, ceralacca, baccello di jacaranda, piuma, filo d’argento, ago da traforo su pergamena di pelle di capra, filo d’oro antico 24k, perle, bottone di conchiglia, legno, impiallacciatura di noce incisa al laser, cornice di noce 133 x 92 x 17 cm ca. Constellation (my love has green lips), 2023 Grafite e acquerello su pergamena di capra, filo d’oro antico 24k, perle, foglia fossile, rame fossile, bottone di conchiglia, impiallacciatura di noce incisa al laser, cornice di noce 133 x 92 x 6 cm ca. Constellation (rain ocean sun), 2023 Grafite, acquerello, ago da traforo, Sambe, ceralacca, piuma, filo d’argento, pianta essiccata su pergamena di pelle di capra, filo d’oro antico 24k, perle, foglie fossilizzate, ciottolo, rame fossilizzato, impiallacciatura di noce incisa al laser, cornice di noce 133 x 92 x 7 cm ca. Constellation (the blind rose), 2023 Grafite e acquerello su pergamena di capra, filo d’oro antico 24k, perle, piuma, fossile, filo d’argento, ciottolo, bottone di conchiglia, ghianda, impiallacciatura di noce incisa al laser, cornice di noce 133 x 92 x 6 cm ca. Constellation (when the winds blow), 2023 Grafite e acquerello su pergamena di capra, bottone di conchiglia, legno, impiallacciatura di noce incisa al laser, cornice di noce 133 x 92 x 17 cm ca. Untitled (Constellation), 2023 Grafite, acquerello, filo d’oro antico a 24k, Sambe, Sambe tinto d’indaco, perle, foglia d’oro a 24k, chiodi d’ottone, pergamena di capra, cornice di noce, piante e semi essiccati provenienti da Elysian Park e Fort Road Beach a Singapore, perle, piume, filo d’argento, foglie fossilizzate dal Pennsylvaniano all’Eocene, meteorite, rame fossile, ciottoli, legno, carta, carta di gelso, carta di gelso laccata 15 x 300 x 750 cm ca.

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Marmo travertino piccolo, dalla serie Scritture, 2023 Tela indiana e foglia d’oro su marmo 8,5 x 14,5 x 3 cm

Untitled, dalla serie Scritture, 2023 Tela indiana e foglia d’oro su travertino 18 x 18 x 4 cm

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Gino Severini Natura Morta, 1918 Olio su tela 60 x 73 cm Collezione Roberto Casamonti

Amrita Sher-Gil Head of a Girl, 1937 Olio su tela 29 x 33 cm Taimur Hassan Collection Con il supporto aggiuntivo di Taimur Hassan

Anwar Jalal Shemza Composition in Red, Green and Yellow, 1963 Olio su tela 91 x 71,5 cm Taimur Hassan Collection Con il supporto aggiuntivo di Taimur Hassan

Yinka Shonibare Refugee Astronaut VIII, 2024 Manichino in fibra di vetro, tessuto di cotone stampato a cera olandese, rete, oggetti, casco da astronauta, stivali lunari e base in acciaio 194,4 x 94 x 114 cm Con il supporto aggiuntivo di Goodman Gallery, Città del Capo, Johannesburg, Londra e New York, James Cohan Gallery, New York e Stephen Friedman Gallery, Londra e New York.

Doreen Sibanda Reclining Woman, 1978 Olio su tela 60 x 60 cm National Gallery of Zimbabwe

Fadjar Sidik Dinamika Keruangan IX [The Dynamic of Space IX], 1974 Olio su tela 80,5 x 60 cm National Gallery of Indonesia

Lucas Sithole The Guitarist, 1988 Legno ferro 136 x 49 x 24 cm Collezione privata

Francis Newton Souza Untitled, 1956 Olio su tavola 91 x 127 cm Jane e Kito de Boer Collection, Londra Con il supporto aggiuntivo di Grosvenor Gallery, Londra

Joseph Stella Fountain, 1929 Olio su tela 124,5 x 101,6 cm Collezione privata Con il supporto aggiuntivo di Schoelkopf Gallery, New York

Irma Stern Watussi Princess, 1942 Olio su tela 69 x 55 cm Collezione privata

Leopold Strobl Untitled, 2015 Matita, matite colorate, carta da giornale, carta 5,3 x 9,8 cm Untitled, 2015 Matita, matite colorate, carta da giornale, carta 6,7 x 12,9 cm Untitled, 2015 Matita, matite colorate, carta da giornale, carta 11,2 x 10,3 cm Untitled, 2015 Matita, matite colorate, carta da giornale, carta 6,2 x 10,6 cm Untitled, 2016 Matita, matite colorate, carta da giornale, carta 13,3 x 9,5 cm Untitled, 2021 Matita, matite colorate, carta da giornale, carta 20,1 x 10,2 cm Untitled, 2021 Matita, matite colorate, carta da giornale, carta 7,4 x 10,2 cm

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Untitled, 2021 Matita, matite colorate, carta da giornale, carta 8,5 x 8,8 cm Untitled, 2021 Matita, matite colorate, carta da giornale, carta 6,8 x 9,6 cm

KANPOTARRAK NONAHI

Portrait of a Nubian Family, 1962 Olio su tela 72 x 53 cm Collezione Barjeel Art Foundation, Sharja Con il supporto aggiuntivo di Barjeel Art Foundation

Untitled, 2021 Matita, matite colorate, carta da giornale, carta 9,6 x 14,6 cm Untitled, 2021 Matita, matite colorate, carta da giornale, carta 5,4 x 9,6 cm Untitled, 2021 Matita, matite colorate, carta da giornale, carta 8,7 x 14,5 cm Untitled, 2021 Matita, matite colorate, carta da giornale, carta 5,9 x 9,6 cm Untitled, 2022 Matita, matite colorate, carta da giornale, carta 8,9 x 13,8 cm Untitled, 2022 Matita, matite colorate, carta da giornale, carta 9,3 x 11,6 cm Untitled, 2022 Matita, matite colorate, carta da giornale, carta 7 x 9,3 cm Tutte le opere con il supporto aggiuntivo di galerie gugging; Phileas – The Austrian Office for Contemporary Art

Emiria Sunassa Orang Irian dengan Burung Tjenderawasih [Uomo Irian con uccello del Paradiso], 1948 Olio su tela 67,2 x 54,5 cm Collezione National Gallery Singapore Con il supporto aggiuntivo della National Gallery Singapore e del Ministero della Cultura, Comunità e Gioventù di Singapore

Superflex Foreigners Please Don’t Leave Us Alone With The Danes!, 2002 Poster 70 x 50 cm Con il supporto aggiuntivo di Danish Arts Foundation

STRANIERI OVUNQUE

Tutte le opere con il supporto aggiuntivo di Arts Council Korea; Samsung Foundation of Culture

Gazbia Sirry

Armodio Tamayo Imilla, 1946 Olio su tela 54 x 43 cm Museo Nacional de ArteFundación Cultural del Banco Central de Bolivia

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Lazarus, 2023 Video 4K a canale singolo, colore, suono 7’ 52”

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BIENNALE ARTE 2024

Maria Taniguchi Untitled, 2023

Acrilico su tela 228,6 x 114,3 cm

A song to the world -1, 2024 Ricamo su tessuto 188 x 304 cm

Untitled, 2023 Acrilico su tela 274,32 x 487,6 cm

A song to the world -2, 2024 Ricamo su tessuto 198 x 321 cm

Untitled, 2023 Acrilico su tela 274,3 x 121,9 cm

Tutte le opere con il supporto aggiuntivo di SAHA Association; Ammodo; CO.GE.S Don Lorenzo Milani; Casa Punto Froce; Ferda Art Platform

Tutte le opere con il supporto aggiuntivo di Silverlens, Manila / New York; carlier | gebauer Berlino / Madrid; e Taka Ishii, Tokyo / Hong Kong

Evelyn Taocheng Wang Colored Cotton Candies and Imitation of Agnes Martin, 2023 Acrilico, gesso, matita su tela di lino 185 x 185 cm Diamond, Gem and Imitation of Agnes Martin, 2023 Inchiostro per calligrafia, acrilico, gesso, matita su tela di lino 185 x 185 cm Makeup Remover Cotton Pads and Imitation of Agnes Martin, 2023 Inchiostro per calligrafia, acrilico, gesso, matita su tela di lino 185 x 185 cm

ELENCO DELLE OPERE PRESENTI IN MOSTRA

Güneş Terkol

Sugar Powder Bamboo and Imitation of Agnes Martin, 2023 Acrilico, gesso, matita su tela di lino 185 x 185 cm Tulip in Whisky and Imitation of Agnes Martin, 2023 Acrilico, gesso, matita su tela di lino 185 x 185 cm Tutte le opere con il supporto aggiuntivo di Antenna Space, Shanghai; Carlos/Ishikawa, Londra; Galerie Fons Welters, Amsterdam; Kayokoyuki, Tokyo e Mondriaan Fund

Lucy Tejada El Sembrador, 1958 Olio su tela 130 x 70,5 cm Collezione Arte del Banco de la República de Colombia

Mariana Telleria Dios es inmigrante (God Is an Immigrant), 2017/2023 10 alberi per barche a vela in alluminio, vernice epossidica nera, linee di controllo/cavi e tenditori in acciaio, targa in marmo e bronzo. 1500 x 390 x 925 cm Collezione Jorge M. Pérez, Miami

1.1.91, 1970-72 Fili di lana su tavola di legno ricoperta di cera Campeche 121 x 121 cm Luisa Strina

Clorindo Testa Pintura o Circulo negro, 1963 Olio su tela 150,3 x 150,1 cm Collezione Malba, Museo de Arte Latinoamericano de Buenos Aires

Salman Toor The Beating, 2019 Olio su tela 119,4 × 119,4 cm Collezione Ilan Cohen, New York The Lock, 2023 Olio su pannello 61 x 45,7 cm Backseat Boy, 2023 Olio su tavola 45,7 x 61 cm Chance Gathering, 2023 Olio su pannello 45,7 x 61 cm Boy with Shoe, 2023 Olio su pannello 121,9 x 91,4 cm Night Grove, 2024 Olio su pannello 195,6 x 267 cm The Ceremony, 2024 Olio su pannello 122 x 152,5 cm Tutte le opere con il supporto aggiuntivo di Luhring Augustine, New York

Rage Is a Machine in Times of Senselessness, 2024 Olio e ricami su tela 1500 × 480 cm Con il supporto aggiuntivo di Galerie Barbara Weiss; Bortolami Gallery; Fundación Jumex Arte Contemporáneo; ifa — Institut für Auslandsbeziehungen

Horacio Torres The White Ship, 1950 ca. Olio su tela 82 x 69 cm

Joaquín Torres-García Retrato de VP, 1941 Olio su tela 77 x 66 cm

Mario Tozzi Il Pittore, 1931 Olio su tela 116 x 89 cm Collezione Roberto Casamonti

Twins Seven Seven The Architect, 1989 Inchiostro su compensato, incollato e intagliato 61 x 41 cm The Jean Pigozzi African Art Collection Con il supporto aggiuntivo di Jean Pigozzi

Ahmed Umar Talitin (The Third), 20232024 Performance Talitin 2024 Video 25’ 37”

(The Third), 2023-

(The Third), 2023Talitin 2024 Installazione con oggetti Dimensioni variabili Tutte le opere con il supporto aggiuntivo di Office for Contemporary Art Norway (OCA); Ammodo

Unidentified Chilean artists, Arpilleristas Arpillera, anni Ottanta Stoffa lavorata e applicata, uncinetto e tecniche miste 80 x 99,1 cm Arpillera, anni Ottanta Stoffa lavorata e applicata, uncinetto e tecniche miste 78,1 x 94 cm

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Con il supporto aggiuntivo di Collezione Bienalsur, Muntref; Museo de la Inmigración, Buenos Aires

Eduardo Terrazas

Frieda Toranzo Jaeger

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Arpillera, anni Ottanta Stoffa lavorata e applicata, uncinetto e tecniche miste 76,8 x 94 cm Arpillera, anni Ottanta Stoffa lavorata e applicata, uncinetto e tecniche miste 80 x 97,8 cm Arpillera, anni Ottanta Stoffa lavorata e applicata, uncinetto e tecniche miste 80 x 100,3 cm Tutte le opera della Collezione El Museo del Barrio, New York. Dono di Arthur and Dorothy Hammer, 1994

Rubem Valentim Pintura 2, 1964 Tempera su tela 70 x 50 cm Collezione Ana Paula e José Luiz Vianna, San Paolo, Brasile Pintura 7, 1965 Tempera su tela 70 x 50,2 cm Collezione Roberto Bicca Pintura 15, 1965 Tempera su tela 100 x 73 cm Collezione privata Composição Bahia n. 1, 1966 Tempera su tela 101 x 73,5 cm Collezione Roberto Bicca Pintura 3, 1966 Olio su tela 100 x 73 cm Collezione privata Pintura 26, 1965-66 Olio su tela 100 x 73 cm Collezione Luiz Paulo Montenegro Tutte le opere con il supporto aggiuntivo di Almeida & Dale Galeria de Arte

Edoardo Daniele Villa

Alfredo Volpi Fachada marrom, 1950-60s Tempera su tela 118 x 77,5 cm Collezione privata, San Paolo, Brasile Con il supporto aggiuntivo di Almeida & Dale Galeria de Arte

Kay WalkingStick The Silence of Glacier, 2013 Olio su pannello diviso in due parti 91,4 x 182,9 x 5,1 cm South Rim, 2016 Olio su pannello diviso in due parti 91,4 x 182,9 x 6,3 cm Collezione Max e Pamela Berry Buffalo Spring, 2020 Olio su pannello diviso in due parti 40,6 x 101,6 x 5,1 cm Galena Pass, 2023 Olio su pannello diviso in due parti 101,6 x 203,2 x 3,8 cm Salmon River Valley, 2023 Olio su pannello diviso in due parti 101,6 x 203,2 x 5,1 cm The Shah Garg Collection Tutte le opere con il supporto aggiuntivo di Hales Gallery

WangShui Lipid Muse, 2024 Simulazione multicanale dal vivo Cathexis III, 2024 Olio su alluminio Cathexis II, 2024 Olio su alluminio Cathexis I, 2024 Olio su alluminio Tutte le opere con il supporto aggiuntivo di kurimanzutto, Città del Messico/ New York e The Island

Agnes Waruguru Incomprehensible Weather in The Head, 2024 Inchiostro acrilico, pittura acrilica, inchiostro indiano, pigmenti naturali, zafferano, pastello morbido e carboncino su cotone e perline di vetro 990 x 600 cm

Barrington Watson

Conversation, 1981 Olio su tela 127,5 x 91 cm The National Gallery of Jamaica

Osmond Watson Johnny Cool, 1967 Olio su tela 85 x 71 cm The National Gallery of Jamaica

Susanne Wenger Das große Fest des Ajagemo, 1958 Àdìrẹ batik di amido di manioca 200 x 400 cm

Ọbàtálá fängt Ṣàngós Pferd, 1958 Àdìrẹ batik di amido di manioca 214 x 171 cm Leopard, die magische Erdendimension, 1959 Batik di amido di manioca 253 x 258 cm Die magische Frau, 1960 Àdìrẹ batik di amido di manioca 253 x 163 cm Mythos Odùduwà Schöpfungsgeschichte, 1963 Batik di amido di manioca 194 x 334 cm Tutte le opere Susanne Wenger Foundation Tutte le opere con il supporto aggiuntivo di Phileas – The Austrian Office for Contemporary Art

Emmi Whitehorse Typography of Standing Ruins #1, 2024 Tecnica mista olio, grafite, pastello, collage su carta affissa su tela 151,1 x 227,3 cm Typography of Standing Ruins #2, 2024 Tecnica mista olio, grafite, pastello, collage su carta affissa su tela 151,1 x 227,3 cm Typography of Standing Ruins #3, 2024 Tecnica mista olio, grafite, pastello, collage su carta affissa su tela 151,1 x 227,3 cm World Upside Down, 2024 Tecnica mista olio, grafite, pastello, collage su carta affissa su tela 151,1 x 227,3 cm Tutte le opere con il supporto aggiuntivo di Garth Greenan Gallery

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Mother and Child, 1963-2010 Bronzo 201 x 66 x 51 cm Collezione privata

Autorretrato, 1902 Olio su tela 64 x 48 cm Collezione Visconti Hirth Con il supporto aggiuntivo di Almeida & Dale Galeria de Arte

FREMDE ÜBERALL

Arpillera, anni Ottanta Stoffa lavorata e applicata, uncinetto e tecniche miste 76,2 x 99,1 cm

Eliseu Visconti

STRANIERI OVUNQUE

Arpillera, anni Ottanta Stoffa lavorata e applicata, uncinetto e tecniche miste 76,2 x 96,5 cm

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BIENNALE ARTE 2024

Selwyn Wilson Study of a Head, 1948 Olio su tavola 52 x 52 cm Auckland Art Gallery Toi o Tāmaki

Chang Woosoung Atelier, 1943 Inchiostro e colore su carta 210,5 x 167,5 cm Collezione Leeum Museum of Art Con il supporto aggiuntivo di Samsung Foundation of Culture

Celeste Woss y Gil Desnudo, 1948 Olio su tela 59 x 46 cm Colección Museo Bellapart

Xiyadie Wall, 2016 Carta intagliata con tintura all’acqua e pigmenti cinesi su carta Xuan 140 x 140 cm

ELENCO DELLE OPERE PRESENTI IN MOSTRA

Sewn, 1999 Carta intagliata con tintura all’acqua e pigmenti cinesi su carta Xuan 140 x 140 cm Don’t Worry, mom is spinning thread in the next room (A love scene when high school student is at home writing homework), 2019 Carta intagliata con tintura all’acqua e pigmenti cinesi su carta Xuan 140 x 140 cm Kaiyang, 2021 Carta intagliata con tintura all’acqua e pigmenti cinesi su carta Xuan 140 x 300 cm Con il supporto aggiuntivo di Blindspot Gallery Tutte le opere con il supporto aggiuntivo di P21

Rember Yahuarcani Los Abuelos, 2021 Acrilico su tela 200 x 200 cm El territorio de los abuelos, 2023 Acrilico su tela 300 x 300 cm Aquellos otros mundos, 2023 Acrilico su tela 250 x 500 cm

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Las canoas tienen sueños feroces, 2023 Acrilico su tela 170 x 240,5 cm

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El río, 2023 Acrilico su tela 300 x 170 cm

Santiago Yahuarcani Aquì esta caliente, 2023 Tinture naturali e acriliche su Ilanchama 279 x 524 cm Shiminbro, el Hacedor del sonido, 2023 Tinture naturali e acriliche su Ilanchama 207 X 410 cm El Mundo del Agua, 2024 Tinture naturali e acriliche su Ilanchama 283 x 671 cm

Nil Yalter Pink Tension, 1969 Acrilico su tela 120 x 180 cm Topak Ev,1973 Struttura in metallo, feltro, pelle di pecora, testi e tecniche miste 250 x 300 cm Arter Collection Istanbul Exile is a hard job, 1983-2024 Installazione video, dimensioni variabili Tutte le opere con il supporto aggiuntivo di SAHA Association; Institut français

Joseca Mokahesi Yanomami Xapiri Parahorioma yani wahariomapë, roko ahikini pata hore riã reëri ehuhua kurarkiri, roko ahiki pata hore wakara praayaria kurakiri. Awei kami xapiri yamaki urihipë hõximaimi, yamakirihipë hore horepë siprërëhe xatiti totihi. Kuë yaro kami xapiriurihi a xamio pëha yamaki ithoimi, 2013 Grafite, matite colorate e inchiostro a pennarello su carta 30 x 42 cm Poriporiwë a, 2011 Grafite, matite colorate e inchiostro di pennarello su carta 30 x 42 cm Xapiri Parahorioma yani wahariomapë, roko ahikini pata hore riã reëri ehuhua kurarkiri, roko ahiki pata hore wakara praayaria kurakiri. Awei kami xapiri yamaki urihipë hõximaimi, yamakirihipë hore horepë siprërëhe xatiti totihi. Kuë yaro kami xapiriurihi a xamio pëha yamaki ithoimi, 2013 Grafite, matite colorate e inchiostro di pennarello su carta 30 x 42 cm

Mamuruna hapa mahi a pata pirioma, hwei Mamuruna a pirio pëha ethë urihi wawë oxe totihitaoma. Mamuruna a pirio pëha, ai yanomãe e thë pë pairionimi. Yami mahi Mamuruna a pirioma. Mamuruna a piriawi yano e preonimi wãisia yano waiha a pirioma. Mamuruna a pirio piha pata e uhuanimi, Wãisia wai uwaiha a pirioma. Kama yano e sipoha puu e hanapë kuoma, hanapë hoaiwi. Inaha thë kua, hwei thuë Mamuruna aka kiinë, hapa mahi nara xiki raramariiwi a yai. Ihi anë wakëmamotima thë raramarema. Puu hanamuuwi thë raramarema, ama akanamuuwi thë raromarema. Mamuruna anë thëpë raroa thamarepë maha thëpë thapuu hikia. Nara e xihi kua, ama ehi kua, puu e hanaki kua, xote ehekua. Mamuruna pata thuë a yai, wakëmamatima thë yaika raramareni, 2017 Grafite, matite colorate e inchiostro di pennarello su carta 30 x 42 cm Yaweresiri a, 2013 Grafite, matite colorate e inchiostro di pennarello su carta 30 x 42 cm Yãpimarinë ihurupë pë komi tei, pë komi ha tënë pë kae heri õsema awai miproiminë õhotaai thëpëka kuuwi tëhë, ihurupë kae heriihe Yãpimaripënë, ihurupë komi tearariihe, Yãpimari pë pata huu mahiopëha pë toai makurahiha ihuru a toarahita yamaki pihi kuimi!, 2011 Grafite, matite colorate e inchiostro di pennarello su carta 30 x 42 cm Kami xapiri yamaki hwãithaki yayoa nikere, inaha xapiriyamaki pihi kuënëhë maimi, ai yamaki hwãithaki rapenikere, ai xapiri yamakihe marokoxi. Kami xapiri yamakinë në wari yama a xëi maprario tëhë, yamaki tirei xoao tëhë, inaha yamaki imiki kuo, kuë yaro yamaki areremorayu, 2011 Grafite, matite colorate e inchiostro di pennarello su carta 30 x 42 cm Hwei thuë pëka kii, xapiri yãmanãyõma pë thëëpë. Yãmanãyõma inãha pë thëëpë kuë, pë hwãi thakisi utiti mahi, pë nãranã pë totihi. Kuë yaro përiã yai riëri mahi tohiti, inahã kuë yaro ai xapiri komi pë pihi irãa maihi pei përiãma kiini. Hwei yãmanãyôma pë thëëpë kakii, ahete kamë pë ithoimi, kihaamë puu tha urihi praaka kure hamë pë ithoa kukiyoma, 2013 Grafite, matite colorate e inchiostro di pennarello su carta 30 x 42 cm Yawarioma kupë, 2013 Grafite, matite colorate e inchiostro di pennarello su carta 30 x 42 cm

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Xapiri Hawarihiri omamari a ithuu tëhë anë yai kiriai mahi, kuë yaro yanomãe yamaki amuku haari keai. Hwei hawarihiri omamari aka kii ani xawara a waiha ani yai waro pata a kutaeni kuë yaro hwei xapiri pata yamapë yai pihipo, 2011 Grafite, matite colorate e inchiostro di pennarello su carta 30 x 42 cm Untitled, 2011 Grafite, matite colorate e inchiostro di pennarello su carta 30 x 42 cm Yamanayomani thë urihi karukai xoao tëhë wamotima thëpë raruu totihio tëhëma thëã. Yamanayoma a, 2013 Grafite, matite colorate e inchiostro di pennarello su carta 30 x 42 cm Tutte le opere Museu de Arte de São Paulo Assis Chateaubriand. Doação [Dono] Clarice O. Tavares, 2021

André Taniki Yanomami Untitled 1, 1978-1981 ca. Pastello su carta 21 x 29 cm Untitled 2, 1978-1981 ca. Pastello su carta 21 x 29 cm Untitled 3, 1978-1981 ca. Pastello su carta 21 x 29 cm Untitled 4, 1978-1981 ca. Pastello su carta 21 x 29 cm Untitled 5, 1978-1981 ca. Pastello su carta 21 x 29 cm Untitled 6, 1978-1981 ca. Pastello su carta 21 x 29 cm Untitled 7, 1978-81 ca. Pastello su carta 21 x 29 cm Untitled 8, 1978-1981 ca. Pastello su carta 21 x 29 cm

Untitled 12, 1978-1981 ca. Pastello su carta 21 x 29 cm Untitled 13, 1978-1981 ca. Pastello su carta 21 x 29 cm Untitled 14, 1978-1981 ca. Pastello su carta 21 x 29 cm Untitled 15, 1978-1981 ca. Pastello su carta 21 x 29 cm Untitled 16, 1978-1981 ca. Pastello su carta 21 x 29 cm Untitled 17, 1978-1981 ca. Pastello su carta 21 x 29 cm Untitled 18, 1978-1981 ca. Pastello su carta 21 x 29 cm Tutte le opere Collection Fondation Cartier pour l’art contemporain

Yêdamaria Proteção de Yemanjá, 1978 Olio su tela 91 x 80 cm Collezione Ayrson Heraclito

Ramses Younan Portrait, n.d. Olio su tela 50 x 35 cm Collezione Barjeel Art Foundation, Sharja Con il supporto aggiuntivo di Barjeel Art Foundation

Add Two Add One, Divide Two Divide One 1979, 1979 Legno di pino rosso coreano 130 x 30 x 25 cm Add Two Add One, Divide Two Divide One 1979, 1979 Legno di noce 45 x 22 x 18 cm

ชาวต่​่างชาต่ิอยู่​่​่ทุ​ุกสถานทุี

Untitled 11, 1978-1981 ca. Pastello su carta 21 x 29 cm

Kim Yun Shin

Add Two Add One, Divide Two Divide One 1984-84, 1984 Legno 145 x 38 x 35 cm Add Two Add One, Divide Two Divide One 1986, 1986 Legno 87 x 37 x 37 cm Add Two Add One, Divide Two Divide One 1989-209, 1989 Onice 47 x 40 x 27 cm Add Two Add One, Divide Two Divide One 1991-422, 1991 Onice 68 x 54 x 34 cm Add Two Add One, Divide Two Divide One 1991-418, 1991 Onice 38 x 58 x 43 cm Add Two Add One, Divide Two Divide One 2001-719, 2001 Diaspro 39 x 61 x 29 cm Tutte le opere collezione privata Tutte le opere con il supporto aggiuntivo di Arts Council Korea, Kukje Gallery and Lehmann Maupin.

Fahr El Nissa Zeid Untitled, 1995 Olio su tela 187 x 174 cm Collezione Taimur Hassan Con il supporto aggiuntivo di Taimur Hassan

Anna Zemánková Untitled, 1980 ca. Collage satinato, colore per tessuto e penna a sfera su carta 62,6 x 44,8 cm Untitled, 1980 ca. Collage satinato, colore per tessuto e penna a sfera su carta 62,6 x 44,8 cm Untitled, 1980 ca. Collage satinato, colore per tessuto e penna a sfera su carta 62,5 x 45 cm Untitled, 1980 ca. Collage satinato, colore per tessuto e penna a sfera su carta 67,7 x 51 cm

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Untitled 9, 1978-1981 ca. Pastello su carta 21 x 29 cm

Untitled 10, 1978-1981 ca. Pastello su carta 21 x 29 cm

STRANIERI OVUNQUE

Në wãri Yurikori apata nɨ ihiru Në wãri Yurikori apata ni ihiru a tei tëhë, xapiri Potiri pëni, Kãnari pëni, Ioari peni, Konari pëni, ai xapiri pë paixipë waiowi pëxë ihuru a kõrii he. ihi tëhë a haroa xoarayu. inaha xapiri pë kuai. Mau pata u hamë xapiri pë wai thiri huuwi kama kanoa e ahipë pree kua, kuë yaro xapiri ë horimaimi, 2013 Grafite, matite colorate e inchiostro di pennarello su carta 30 x 42 cm

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BIENNALE ARTE 2024

Untitled, 1980 ca. Collage satinato, colore per tessuto e penna a sfera su carta 62,5 x 45 cm Untitled, 1980 ca. Collage satinato, colore per tessuto e penna a sfera su carta 62,5 x 45 cm Untitled, 1980 ca. Collage satinato, colore per tessuto e penna a sfera su carta 62,6 x 45 cm Untitled, 1975 ca. Matita colorata, penna a sfera, ricamo e perle su carta 62,5 x 45 cm Collezione Emmanuelle e Guy Delcourt Tutte le opere con il supporto aggiuntivo di christian berst art brut

Bibi Zogbé

ELENCO DELLE OPERE PRESENTI IN MOSTRA

Femme aux Fleurs, n.d. Olio su tavola 80,5 x 61 cm Ramzi e Saeda Dalloul Art Foundation Con il supporto aggiuntivo di Ramzi e Saeda Dalloul Art Foundation

PADIGLIONE ARTI APPLICATE Beatriz Milhazes

Chocolat Noir, 2013 Collage di carte varie e involucri di dolci su carta 70 x 50 cm Collezione privata

Alegria Celestial, 2023-2024 Acrilico su tela di lino 281 x 280 cm Collezione privata La Biennale di Venezia con il Victoria and Albert Museum, London

Small Red Tree, 2014 Collage di carte varie e involucri di dolci su carta 89 x 58,5 cm Collezione privata Manga e Maracujá em lilás e violeta, 2016 Collage di varie carte su carta 55 x 50 cm Collezione privata Cumaru, 2018 Collage di varie carte su carta 43,2 x 38 cm Collezione privata Cor de pele, 2019 Collage di carte varie, sacchetti della spesa, involucri di dolciumi e ritagli di stampe d’artista su carta 96,5 x 88,5 cm Collezione privata Flor de Margarida em Vermelho, Pink e Lilás, 2019 Collage di varie carte su carta 33 x 29,4 cm Collezione privata Oxalá, 2021 Collage di carte varie e ritagli di stampe d’artista su carta 70 x 90 cm Collezione privata Pindorama, 2020-2022 Arazzo in lana e seta 321 x 750 cm Collection Art in Embassies, U.S. Department of State Memórias do Futuro I, 2022 Acrilico su tela di lino 180 x 200 cm Collezione privata Colorido Cósmico, 2023 Acrilico su tela di lino 281 x 320 cm Collezione privata Meia-noite, Meio-dia, 2023 Acrilico su tela di lino 280 x 302 cm Collezione privata O Céu, as Estrelas e o Bailado, 2023 Acrilico su tela di lino 281 x 280 cm Collezione privata

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The Golden Egg, 2023 Acrilico su tela di lino 279 x 302 cm Collezione privata

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BONDING IN DIFFERENCE: INTERVIEW WITH ALFRED ARTEAGA (1993–1994), IN THE SPIVAK READER, A CURA DI DONNA LANDRY E GERALD MACLEAN, LONDRA E NEW YORK, ROUTLEDGE, 1996

Non sono in esilio. Non sono migrante. Sono una critica del neocolonialismo negli Stati Uniti con la carta verde. È una posizione difficile da negoziare, perché non mi auto-emarginerò negli Stati Uniti per ottenere la simpatia di chi è veramente emarginato.

GAYATRI CHAKRAVORTY SPIVAK


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CURATORIAL ACTIVISM, LONDRA, THAMES & HUDSON, 2018

Non possiamo affermare di vivere in un mondo post-queer quando in alcuni Paesi essere queer, gay, bisessuali e transgender è punibile con la morte e in molti altri è un reato penale.

MAURA REILLY


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Le quattro finaliste di Biennale College Arte 2024 sono:

Biennale College Arte

Biennale College è il progetto della Biennale di Venezia dedicato alla formazione e al supporto dei giovani in tutti i Settori artistici e nelle attività proprie della struttura organizzativa della Biennale. Attivo nei Settori di Arte, Architettura, Cinema, Danza, Musica, Teatro e nell’Archivio Storico delle Arti Contemporanee (ASAC), Biennale College è concepito con l’ambizione di promuovere giovani talenti, offrendo loro l’opportunità di lavorare a stretto contatto con mentori internazionali per sviluppare “creazioni” che diventano parte dei programmi dei Settori.

Joyce Joumaa

Beirut, Libano, 1998. Vive a Montreal, Canada

Nazira Karimi

Dushanbe, Tagikistan, 1996. Vive ad Almaty, Kazakistan e Vienna, Austria

Sandra Poulson

Angolana, nata a Lisbona, Portugallo, 1995. Vive a Luanda, Angola e Londra, Regno Unito

Agnes Questionmark

STRANIERI OVUNQUE

Roma, Italia, 1995. Vive a Roma e New York, USA

Amanda Carneiro, Fulvia Carnevale, Sofia Gotti, Candice Hopkins, Adriano Pedrosa, María Inés Rodríguez sono i tutor della Biennale College Arte 2024.

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Le quattro artiste hanno ricevuto una sovvenzione di 25.000 euro per la realizzazione dei loro progetti. Le opere sono presentate, fuori concorso, alla Biennale Arte 2024.

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Progetti Speciali - Sostenitori

Iván Argote

Isaac Chong Wai

Descanso, 2024

Falling Reversely, 2021 / 2024

Con il supporto di: Albarrán Bourdais Perrotin Vermelho Institut français

Con il supporto aggiuntivo di: Hong Kong Arts Development Council Burger Collection and the TOY family Sunpride Foundation Ammodo Hong Kong Economic and Trade Office, Bruxelles Blindspot Gallery, Hong Kong | Zilberman, Istanbul, Berlino e Miami Berlin Senate Department for Culture and Social Cohesion ifa – Institut für Auslandsbeziehungen

Leilah Babirye Rukirabasaija from the Kuchu Western Bunyoro Kingdom, 2023 Inhebantu from the Kuchu Eastern Busoga Kingdom, 2023-2024 Oyo Nyimba Kabamba Iguru from the Kuchu Western Tooro Kingdom, 2023-2024 Ssangalyambogo from the Kuchu Central Buganda Kingdom, 2023-2024 Ugangi from the Kuchu Acholi Region, 2024 Con il supporto aggiuntivo di: Stephen Friedman Gallery, Londra e New York Gordon Robichaux, New York

Sol Calero Pabellón Criollo, 2024 Con il supporto aggiuntivo di: The Bukhman Family Foundation Fondazione Sandretto Re Rebaudengo Cristalfarma Museo Centro de Arte Dos de Mayo, Madrid Collection Silvia Fiorucci, Monaco Mauvilac Saikalis Bay Foundation Charlotte Meynert e Henrik Persson Gruppo Bardelli Colorobbia Terreal San Marco Antonio Murzi & Diana Morgan Tiqui Atencio Demirdjian Rebiennale | R3B Anna Guggenbuehl Diego Grandi Leslie Ramos Francesca Minini, Milano Crèvecœur, Parigi ChertLüdde, Berlino

Claire Fontaine Foreigners Everywhere / Stranieri Ovunque (60th International Art Exhibition / 60. Esposizione Internazionale d’Arte), 2004-2024 Foreigners Everywhere (Selfportrait), Stranieri Ovunque (Autoritratto), 2024 Stranieri Ovunque (Autoritratto), Foreigners Everywhere (Self-portrait), 2024 Con il supporto di: Dior, Parigi

Simone Forti Adventure of Red Hat, Red Hat Pursued with Yellow, 1966 Con il supporto di: Galleria Raffaella Cortese | Milano - Albisola The Box, Los Angeles

MAHKU (Movimento dos Artistas Huni Kuin) Kapewe Pukeni [Bridge-alligator], 2024 Con il supporto di: Bloomberg Fundação Bienal de São Paulo LUMA Foundation

Anna Maria Maiolino Anno 1942, from Mapas Mentais series, 1973-99 INDO & VINDO, 2024 Con il supporto di: Hauser & Wirth, Luisa Strina, San Paolo Galleria Raffaella Cortese | Milano - Albisola Lisa and Tom Blumenthal Eliane and Alvaro Novis SIO-2 | Ceramica Collet

Daniel Otero Torres Aguacero, 2024 Donde llueve y se desborda, 2024 Con il supporto di: Paprec MDB-Métiers du bois Trampoline, Association in support of the French art scene, Paris Ministère de la Culture-DRAC Ile- de-France dans le cadre du déploiement des Résidences d’artistes en entreprise mor charpentier, Bogotá e Parigi Institut français

Huddle, from the series Dance Constructions, 1961 Con il supporto di: Galleria Raffaella Cortese | Milano - Albisola The Box, Los Angeles

Lauren Halsey keepers of the krown (antoinette grace halsey), 2024 keepers of the krown (susan burton), 2024 keepers of the krown (patrice rushen), 2024 keepers of the krown (dr. rachel eubanks), 2024 keepers of the krown (suzette johnson), 2024 keepers of the krown (robin daniels), 2024

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Con il supporto di: David Kordansky Gallery Gagosian

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Arts Council Korea Kang Seung Lee Kim Yun Shin

Creative Australia Marlene Gilson Naminapu Maymuru-White

Creative New Zealand Brett Graham Fred Graham Mataaho Collective

Danish Arts Foundation Superflex

Diriyah Biennale Foundation Dana Awartani

Hong Kong Arts Development Council Isaac Chong Wai

ifa – Institut für Auslandsbeziehungen

Mathaf: Arab Museum of Modern Art, Doha, Qatar Rafa al-Nasiri Huguette Caland Saloua Raouda Choucair Mohamed Melehi Mahmoud Saïd Lorna Selim

Ministry of Culture, Arts and Heritage and Ministry of Foreign Affairs, Government of Chile María Aranís Bordadoras de Isla Negra Celia Leyton Vidal Camilo Mori Laura Rodig Pizarro

Mondriaan Fund Antonio Jose Guzman & Iva Jankovic

National Center for Art Research, Japan Tomie Ohtake Kazuya Sakai

Anita Magsaysay-Ho Nena Saguil

Office for Contemporary Art Norway (OCA) Ahmed Umar

PHILEAS – The Austrian Office for Contemporary Art Greta Schödl Leopold Strobl Susanne Wenger

SAHA Association Güneş Terkol Nil Yalter

National Gallery Singapore & Ministry of Culture, Community and Youth of Singapore Affandi Georgette Chen Chua Mia Tee Hendra Gunawan Lai Foong Moi Lê Phô Lim Mu Hue Emiria Sunassa

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Karimah Ashadu Isaac Chong Wai Dean Sameshima Frieda Toranzo Jaeger Rindon Johnson

Giulia Andreani Chaouki Choukini Bouchra Khalili Nil Yalter Iván Argote Daniel Otero Torres

National Museum of the Philippines

Istituzioni che supportano le Artiste e gli Artisti

Isaac Chong Wai Antonio Jose Guzman & Iva Jankovic Lydia Ourahmane Puppies Puppies (Jade Guanaro Kuriki-Olivo) Bárbara Sánchez-Kane Joshua Serafin Güneş Terkol Ahmed Umar

Institut Français

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Ammodo

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60. ESPOSIZIONE INTERNAZIONALE D’ARTE STRANIERI OVUNQUE – FOREIGNERS EVERYWHERE LA BIENNALE DI VENEZIA Attività Editoriali e Web Responsabile Flavia Fossa Margutti Vol. 1 Editor Adriano Pedrosa Managing Editors Amanda Carneiro Sofia Gotti Coordinamento Editoriale Maddalena Pietragnoli Redazione Francesca Dolzani Giulia Gasparato Ornella Mogno Caterina Moro Sofia Pellegrini

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Testi Carla Acevedo Yates, Michela Alessandrini, Saira Ansari, Fadia Antar, Carolina Arévalo Karl, Nadine Atallah, Regina Barros, Sonia Becce, Carmen Belmonte, Vic Brook, Antonella Camarda, Raphael Chikukwa, Diego Chocano, Jessica Clark, Natasha Conland, Gloria Cortes Aliaga, Laura Cosendey, Joselina Cruz, Nicolas Cuello, Nancy Dantas, Matheus de Andrade, Glaucea Helena de Britto, Arthur Debsi, Luce deLire, Tandazani Dhlakama, Sebastián Eduardo, Julia Eilers Smith, Heba Elkayal, Ticio Escobar, José Esparza Chong Cuy, Media Farzin, Merve Fejzula, Tracy Fenix, Raphael Fonseca, Mariella Franzoni, María Amalia García, Jessica Gerschultz, Guilherme Giufrida, Lorenzo Giusti, Natalia Grabowska, Sybilla Griffin, Myrna Guerrero Villalona, Rosario Güiraldes, Latika Gupta, Laura Hakel, Sara Herman, Max Jorge Hinderer Cruz, Teo Hui Min, Marko Ilić, Luiza Interlenghi, Dana Iskakova, Jaya Jacobo, Elena Ketelsen González, Riad Kherdeen, Teresa Kittler, Lex Morgan Lancaster, Lim Shujuan, Joleen Loh, Miguel Lopez, William Hernandez Luege, Florencia Malbrán, Adeena May, André Mesquita, Virginia Moon, Rodrigo Moura, Leandro Muniz, Khushi Nansi, Lucia Neirotti, Nadine Nour el Din, Zamansele Nsele, Fernando Oliva, Ade J. Omotosho, Amanda Pinatih, Eva Posas, Anissa Rahadiningtyas, Ruth Ramsden-Karelse, Sara Raza, Sofía Shaula Reeser-del Rio, Daniel Rey, David Ribeiro, Isabella Rjeille, Xavier Robles Armas, Daniela Rodrigues,

C J Salapare, Rasha Salti, Marco Scotini, Phoebe Scott, Juan Manuel Silverio, Devika Singh, Britte Sloothaak, Kostas Stasinopoulos, Gisela Steinlechner, Suheyla Takesh, Adele Tan, Asep Topan, Lisa Trever, Deniz Turker, Emiliano Valdes, Xin Wang, Wong Binghao, Arzu Yayıntaş, Sonia Zampini Editorial Management per l’Inglese Karen Marta, Todd Bradway, KMEC Books Copyediting Inglese Flatpage Graphic Design e Layout Estudio Campo Paula Tinoco Roderico Souza Carolina Aboarrage Traduzioni e Layout Liberink srls, Padova Stefano Turon Coordinamento Livio Cassese Layout Copyediting Rosanna Alberti Caterina Vettore Traduzioni Salvatore Mele e Giuliana Schiavi per Alphaville Roberta Prandin Fotolito e Stampa Grafiche Antiga Spa via delle Industrie 1, Crocetta del Montello (Treviso) By SIAE 2024 Etel Adnan, Dia al-Azzawi, Rafa al-Nasiri, Giulia Andreani, Iván Argote, Gianni Bertini, Lina Bo Bardi, Victor Brecheret, Chaouki Choukini, Claire Fontaine, Liz Collins, Olga Costa, Filippo de Pisis, Emiliano Di Cavalcanti, Cícero Dias, Ibrahim El-Salahi, Evan Ifekoya, Mohammed Issiakhem,

María Izquierdo, Frida Kahlo, Bouchra Khalili, Wifredo Lam, Judith Lauand, Maggie Laubser, Mohamed Melehi, Carlos Mérida, Malangatana Valente Ngwenya, Daniel Otero Torres, George Pemba, Claudio Perna, Lê Phô, Candido Portinari, Sayed Haider Raza, Diego Rivera, Fanny Sanín, Aligi Sassu, Gerard Sekoto, Gino Severini, Anwar Jalal Shemza, Yinka Shonibare, Francis Newton Souza, Irma Stern, Twins Seven Seven, Ahmed Umar. © La Biennale di Venezia 2024 Tutti i diritti riservati in base alle convenzioni internazionali. Nessuna parte di questo libro può essere riprodotta o trasmessa in qualsiasi forma o con qualsiasi mezzo elettronico, meccanico o altro senza l’autorizzazione scritta dei proprietari dei diritti e dell’editore. Le didascalie e i crediti delle immagini in questa pubblicazione sono stati compilati con la massima cura. Eventuali errori o omissioni non sono intenzionali e saremo lieti di includere crediti appropriati e risolvere eventuali problemi relativi al copyright nelle edizioni future se nuove informazioni saranno portate all’attenzione de La Biennale di Venezia. ISBN 9788898727872 La Biennale di Venezia Prima edizione aprile 2024

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Partecipazioni Nazionali ed Eventi Collaterali

Biennale Arte Stranieri Ovunque

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Partecipazioni Nazionali 6 8 10 12 14 16 18

STRANIERI OVUNQUE

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FOREIGNERS EVERYWHERE

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Albania Argentina Repubblica di Armenia Australia Austria Repubblica dell’Azerbaigian Repubblica Popolare del Bangladesh Belgio Repubblica del Benin Stato Plurinazionale della Bolivia Bosnia-Erzegovina Brasile Bulgaria Repubblica del Camerun Canada Cile Repubblica Popolare Cinese Repubblica Democratica del Congo Croazia Cuba Repubblica di Cipro Repubblica Ceca Danimarca Egitto Estonia Etiopia Finlandia Francia Georgia Germania Gran Bretagna Grecia Grenada Santa Sede Ungheria Islanda Repubblica Islamica dell’Iran Irlanda Israele Italia Costa d’Avorio Giappone Repubblica del Kazakistan Kenya Repubblica di Corea

100 102 104 106 108 110 112 114 116 118 120 122 124 126 128 130 132 134 136 138 140 142 144 146 148 150 152 154 156 158 160 162 164 166 168 170 172 174 176 178 180 182 184

Repubblica del Kosovo Lettonia Libano Lituania Granducato di Lussemburgo Malta Messico Mongolia Montenegro Paesi Bassi Nigeria Paesi Nordici (Svezia, Finlandia, Norvegia) Repubblica di Macedonia del Nord Sultanato dell’Oman Repubblica di Panama Perù Filippine Polonia Portogallo Romania Repubblica di San Marino Arabia Saudita Senegal Serbia Repubblica delle Seychelles Singapore Repubblica Slovacca Repubblica di Slovenia Repubblica del Sudafrica Spagna Svizzera Repubblica Unita della Tanzania Repubblica Democratica di Timor Leste Turchia Uganda Ucraina Emirati Arabi Uniti Stati Uniti d’America Uruguay Repubblica dell’Uzbekistan Repubblica Bolivariana del Venezuela Repubblica dello Zimbabwe Padiglione Venezia


247 249

A Journey to the Infinite: Yoo Youngkuk A World of Many Worlds Above Zobeide, Exhibition from Macao, China All African People’s Consulate Andrzej Wróblewski (1927–1957). In the First Person Berlinde De Bruyckere: City of Refuge III Catalonia in Venice | Bestiari | Carlos Casas Cosmic Garden Daring to Dream in a World of Constant Fear Desde San Juan Bautista... Elias Sime: Dichotomy ፊት አና jerba Ernest Pignon-Ernest: Je Est Un Autre Ewa Juszkiewicz: Locks With Leaves And Swelling Buds Jim Dine – Dog on the Forge Josèfa Ntjam: swell of spæc(i)es Lee Bae — La Maison de La Lune Brûlée Madang: Where We Become Us Passengers In Transit Per non perdere il filo. Karine N’guyen Van Tham – Parul Thacker Peter Hujar: Portraits in Life and Death Rebecca Ackroyd: Mirror Stage Robert Indiana: The Sweet Mystery Seundja Rhee: Towards the Antipodes Shahzia Sikander: Collective Behavior South West Bank Landworks, Collective Action and Sound The Endless Spiral: Betsabeé Romero The Spirits of Maritime Crossing Trevor Yeung: Courtyard of Attachments, Hong Kong in Venice Ydessa Hendeles: Grand Hotel Yuan Goang-Ming: Everyday War

252

Lista dei partecipanti

191 193 195 197 199 201 203 205 207 209 211 213 215 217 219 221 223 225 227 229 231 233 235 237 239 241 243 245

Indice

3

Eventi Collaterali



Partecipazioni Nazionali


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Albania

Commissario Blendi Gonxhja, Ministro dell’Economia, Cultura e Innovazione Curatore Antonio Grulli Artista Iva Lulashi Responsabile di progetto Alessandra Biscaro Assistenti Viola Cenacchi Benedetta Zannoni Progetto di mostra VERLATO+ZORDAN studio architettura Installazione GREEN SPIN Con il supporto di Ministero dell’Economia, Cultura e Innovazione Doris Alimerko (Coordinamento per MECI)

BIENNALE ARTE

2024

Nel progetto per il padiglione albanese, la pittrice Iva Lulashi evoca la “teoria del bicchiere d’acqua”, risalente al periodo prerivoluzionario russo e legata alla pensatrice femminista Aleksandra Kollontaj (1872-1952). La teoria, basata sull’idea di una rivoluzione sessuale in cui gli impulsi sono percepiti come una semplice necessità da soddisfare con la stessa spensieratezza con cui si beve un bicchiere d’acqua, ebbe una grande influenza sui circoli artistici di quegli anni ma fu da subito osteggiata dagli apparati politici rivoluzionari. L’acqua è elemento essenziale della vita, esattamente come l’amore, ed entrambi oscillano in una perenne condizione di fragilità. Amore, sesso e desiderio possono dare un senso oppure rovinare le nostre vite, e sono l’unica grande realtà eternamente rivoluzionaria. Il lavoro di Iva Lulashi ruota proprio attorno a questi soggetti universali in grado di trascendere le differenze e di superare i confini, non solo geografici. Le immagini dei suoi dipinti sono tratte da fotogrammi di film e video. Popolate soprattutto da corpi femminili, suggeriscono situazioni potenzialmente legate all’atto erotico – quasi fossero un “subito prima” o un “subito dopo” – senza mostrarlo esplicitamente e provocando in tal modo uno stato di tensione e ambiguità.

PARTECIPAZIONI NAZIONALI

Il suo stile mescola la tradizione pittorica albanese al percorso italiano e veneziano. A prima vista i dipinti emergono per la loro attitudine “fotografica”, mentre a uno sguardo più attento si manifestano come fortemente pittorici, fatti di una liquidità livida, di pennellate sintetiche e prive di ogni leziosità, che lasciano molte parti del quadro volutamente non risolte e quasi astratte. Sono un canto al desiderio femminile, che racchiude forza, paura, speranza, voglia di libertà, lati oscuri e vitalità. Nata in Albania, Iva Lulashi si è formata come pittrice a Venezia, la città dell’acqua e del vetro, frequentando la locale Accademia di Belle Arti. Gli spazi del padiglione sono realizzati seguendo la pianta della casa/studio dell’artista, che dopo essere stata stilizzata, semplificata e privata degli arredi diventa un funzionale luogo espositivo. I visitatori potranno ammirare le opere negli spazi in cui nascono e vivono, tra intimità, voyeurismo e critica istituzionale. Antonio Grulli


Love as a Glass of Water

7

Iva Lulashi, Amari rossori, 2024. Olio su tela, 100 × 120 cm. Photo courtesy Andrea Rossetti. Courtesy l’Artista.

STRANIERI OVUNQUE

Iva Lulashi, Bed of light, 2024. Olio su tela, 100 × 150 cm. Photo courtesy Andrea Rossetti. Courtesy l’Artista.


8

Argentina

Commissario Mtro. Alejandra Pecoraro Curatrice Sofía Dourron Artista Luciana Lamothe Collaboratori Silvia Badariotti Guillermo Mirochnic Nicolás Panasiuk Ana Inciarte Con il supporto di Ministero degli Affari Esteri, Commercio Internazionale e Culto

BIENNALE ARTE

2024

Hope the Doors Collapse esplora i confini che separano l’umano dal non umano, il naturale dal costruito e il noto dall’ignoto. In questa regione liminale di indeterminatezza, Luciana Lamothe compenetra pezzi di legno e tubi, persone e strutture, mutevolezza e permanenza per creare degli spazi dentro spazi che modulano forme di violenza e cura in un equilibrio teso di corpi interdipendenti. L’opera stabilisce la materia come principio del reale e un orizzonte comune di tutto ciò che esiste per realizzare una serie di cambiamenti nei metodi costruttivi tradizionali e, di conseguenza, nelle relazioni che instauriamo con gli ambienti che ci circondano e tra di noi. Alla ricerca di un nuovo senso di affinità, l’artista amplia la sua precedente ricerca sulle funzioni, i limiti e le potenzialità dei materiali e le loro interazioni con l’architettura, per sovvertire alcuni dei suoi imperativi e delle sue applicazioni. Il groviglio di acciaio e legno ci colloca quindi in un ambiente le cui forze materiali manifestano il proprio agire ed erodono l’ontologia antropocentrica della modernità. Le sculture di Lamothe si rivolgono agli oggetti (umani, infrastrutturali, industriali e “naturali”), ai loro potenziali latenti e al tramite spaziale in cui esistono, per testare alternative alle loro modalità di interazione conosciute. Le impalcature e le lastre di legno fenolico si insinuano nei sistemi architettonici e infrastrutturali, rivelando gli strati di texture tecnologiche, informazioni, storie e relazioni che compongono i loro corpi semi-industriali e seminaturali. Mostrando le viscere scomposte delle nostre costruzioni e rimodellandole in formulazioni spaziali inaspettate, il progetto insiste sulla possibilità di trasformare i nostri ambienti edificati e le reti di relazioni che plasmano il mondo come lo viviamo.

PARTECIPAZIONI NAZIONALI

Ognuna delle quattro sculture che compongono l’opera funge da spazio avvolgente e vivibile, proponendo un modo diverso di concepire la nostra connessione con il mondo materiale. Esse contengono sia forme di cura che di aggressione, che si mostrano nei tagli, negli squarci, negli assemblaggi e nelle torsioni necessarie per mantenere la forma dell’opera: una serie di ferite e suture che riconoscono il peso di secoli di condizionamento sociale, spaziale e materiale. Il groviglio dell’opera enuncia un’ecologia in cui i corpi, gli oggetti e le strutture infrangono i confini tra cultura e natura, umano e non umano, per immaginare alleanze materiali per altri possibili modi di vivere: vite simbiotiche, queer e premurose. Sofía Dourron


Hope the Doors Collapse STRANIERI OVUNQUE

9

Luciana Lamothe, Hope the Doors Collapse, 2024, particolare. Compensato, impalcatura e legno, dimensioni variabili. Photo Catalina Romero.


10

Repubblica di Armenia

Commissario Svetlana Sahakyan, Responsabile del Dipartimento di Arte Moderna Il Ministero dell’Educazione, della Scienza, della Cultura e dello Sport della Repubblica di Armenia Curatore Armen Yesayants Artista Nina Khemchyan Organizzazione e supporto Ministero dell’Educazione, della Scienza, della Cultura e dello Sport della Repubblica di Armenia The Cafesjian Center for the Arts

Echo è un progetto multidimensionale e multimediale dell’artista armena Nina Khemchyan. Il padiglione racchiude concetti tratti dal patrimonio culturale medievale armeno e da diversi principi spirituali universali. Echo presenta due importanti opere d’arte correlate e in grado di completarsi a vicenda. Inventore dell’alfabeto armeno, filosofo, teologo, sacerdote e poeta, Mesrop Mashtots è una figura fondamentale nella storia e nella cultura del suo paese: un leader spirituale, fondatore della musica sacra armena, un vero ispiratore. Khemchyan si è immersa a lungo nel suo lavoro, fino a incontrare la voce enigmatica della cantante Hasmik Baghdasaryan-Dolukhanyan che interpretava gli sharakan di Mashtots, inni sacri scritti nel quinto secolo. È da questo incontro che ha preso vita Echo, un’interpretazione delicata e contemporanea di un pezzo essenziale del patrimonio armeno. Undici sfere di ceramica blu, ciascuna impreziosita da decorazioni dorate che ripropongono i testi di questi inni, rappresentano una selezione specifica di sharakan armeni, gli undici canti di pentimento di Mashtots. L’installazione è completata da un’esecuzione a cappella degli inni da parte di BaghdasaryanDolukhanyan: una fusione artistica di scultura materiale e musica, che unisce la sfera tattile e uditiva per rappresentare la musica sacra armena in modo evocativo. Le parole si trasformano in codici visivi, creando un ambiente meditativo.

La mostra è inoltre corredata dal progetto Seven Deadly Sins, sempre di Nina Khemchyan: un’opera d’arte costituita da un unico rotolo di carta lungo 50 metri, suddiviso in sette parti distinte, ognuna delle quali rappresenta uno dei peccati capitali: Superbia, Invidia, Ira, Accidia, Avarizia, Gola e Lussuria. L’inchiostro nero su carta bianca non solo offre una spiccata qualità grafica, ma simboleggia anche la polarizzazione tra moralità e immoralità insita nel concetto di peccato. Ogni episodio è realizzato con immagini grafiche e grottesche, accattivanti e stimolanti. È necessario aprirsi un varco attraverso questa spirale di peccati per entrare nello spazio dell’autoriflessione meditativa e del perdono, che riecheggia negli inni spirituali medievali e culmina infine in una profonda connessione con l’essenza di tutta l’esistenza. I due progetti si valorizzano e si intensificano a vicenda, nel loro intrecciare il tema della peccaminosità umana con la ricerca della redenzione spirituale. In un caso, i peccati sono rappresentati come testi visivi densi di immagini, mentre nell’altro, i testi letterali (gli sharakan) sono trasformati in codici visivi sulle sfere. Questa interazione conduce a una profonda narrazione in cui i codici visivi e gli elementi testuali si arricchiscono reciprocamente di significato. Con la partecipazione di Nina Khemchyan, artista armena che vive in Francia, il padiglione armeno riflette anche il titolo della Biennale Arte, Stranieri Ovunque. Sebbene Nina risieda in Europa, la sua opera è profondamente radicata nel patrimonio medievale armeno, oggi in pericolo, e trascende i confini geografici e temporali per affrontare temi universali di identità, memoria e appartenenza. Armen Yesayants

BIENNALE ARTE

2024

PARTECIPAZIONI NAZIONALI


Echo

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Nina Khemchyan, Echo, 2022. Argilla, oro, ottone, metallo, vernice, 11 pezzi, diametro 45–50 cm. Photo Asatur Yesayants. Courtesy Cafesjian Center for the Arts.

STRANIERI OVUNQUE

Nina Khemchyan, Seven Deadly Sins, 2018. Inchiostro su carta, 70 × 5000 cm (particolare 70 × 400 cm). Photo Zaven Khachikyan. Courtesy Nina Khemchyan.


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Australia

Commissario Creative Australia Curatrice Ellie Buttrose Artista Archie Moore Con il supporto di Robert Morgan (presidente) Alenka Tindale Alexandra Dimos Marie-Louise Theile Terry Wu Con il contributo di Djon Mundine OAM Erika Scott Grace LucasPennington Jeremy Virag Kevin O’Brien Larissa Behrendt OA Lucille Paterson Luke O’Donohoe Saida Bondini Sam Bloor Sebastian Adams Stuart Geddes Žiga Testen Articulate Clony di Vistosi Carlotta & C. COXS Servicio Know How Production Pelham University of Queensland Art Museum Partner per l’istruzione University of Melbourne Partner di mostra Arup Lighting Design BVN Architecture Terraslate The Commercial Partner della programmazione ArtReview Fondazione Querini Stampalia

I popoli delle Prime Nazioni dell’Australia figurano tra le più antiche culture viventi sulla Terra. L’opera di Archie Moore è tanto una testimonianza quanto un monito di questa realtà: kith and kin avviluppa il pubblico ripercorrendo le relazioni aborigene dell’artista (che risalgono ai popoli kamilaroi e bigambul), raffigurate sulle pareti e sul soffitto lungo un arco temporale di oltre 65.000 anni. La scelta dei materiali utilizzati da Archie per realizzare questa mappa celeste di nomi – gesso su lavagna – fa riferimento alla trasmissione della conoscenza e al modo in cui ciò che viene insegnato e tralasciato dal sistema educativo predominante si ripercuote sul futuro, non senza conseguenze. Questa tassonomia delinea la storia personale dell’artista a partire da se stesso, dai parenti stretti e da quelli lontani, passando attraverso espressioni generiche e razziste, fino a comprendere innumerevoli generazioni di antenati. L’arco temporale del murale è così ampio da comprendere gli antenati comuni a tutti gli esseri umani. Il diagramma una volta utilizzato dagli antropologi per documentare le relazioni di Archie è sostituito dalla complessità dei sistemi di parentela indigeni. Nell’opera kith and kin, l’uso di parole kamilaroi e bigambul celebra le iniziative di riscoperta della lingua indigena. I vuoti presenti nell’albero genealogico sono intesi a indicare le invasioni coloniali, i massacri, le malattie e gli esodi che recidono i legami familiari.

Con gratitudine per I sostenitori e contributori di Australia alla Biennale Arte 2024

BIENNALE ARTE

2024

PARTECIPAZIONI NAZIONALI

Una vasca contemplativa occupa il centro della stanza, un ulteriore vuoto nero e un memoriale per le centinaia di persone delle Prime Nazioni morte durante la detenzione da parte dello Stato, dato che gli indigeni australiani sono tra coloro che subiscono il maggior numero di incarcerazioni a livello globale. I rapporti dei medici legali che documentano questi decessi sono cinti dal riflesso dell’albero genealogico, a ricordare che ogni defunto fa anche parte di questa vasta rete di relazioni. I documenti d’archivio presenti tra i referti mostrano come le leggi coloniali e le politiche governative siano state a lungo imposte ai popoli delle Prime Nazioni. Collegando queste storie più ampie alla propria storia familiare, Archie include documenti che si riferiscono specificamente ai suoi parenti, come il trasferimento di suo cugino di secondo grado nella prigione di Boggo Road o il fatto che il governo negò ai suoi nonni l’accesso alle agevolazioni della cittadinanza nazionale. L’artista utilizza la sua storia familiare per rivelare al pubblico questioni sistemiche scomodamente tangibili, ricordandoci al contempo che siamo tutti parenti. Ellie Buttrose, Archie Moore


Archie Moore, Valerie Jean Moore in kith and kin, 2024. Fotografia ritrovata, padiglione australiano, Biennale Arte 2024. Progetto grafico Žiga Testen e Stuart Geddes. Courtesy l’Artista e The Commercial. © l’Artista.

kith and kin STRANIERI OVUNQUE

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Archie Moore, Fredrick Noel Clevens in kith and kin, 2024. Fotografia ritrovata, padiglione australiano, Biennale Arte 2024. Progetto grafico Žiga Testen e Stuart Geddes. Courtesy l’Artista e The Commercial. © l’Artista.


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Austria

Commissario Divisione Arte e Cultura del Ministero Federale per le Arti, la Cultura, il Servizio Civile e lo Sport dell’Austria Curatrice Gabriele Spindler Artista Anna Jermolaewa Consulenza artistica Scott Clifford Evans Manfred Grübl Anastasia Jermolaewa Progetto della mostra Manfred Grübl, Vienna Gestione del progetto e produzione section.a, Vienna Coordinamento tecnico a Venezia M+B Studio, Venice Media Partner Esteban, Vienna Pianificazione degli eventi a Venezia Solmarino, Venice Per conto di Ministero federale austriaco per le Arti, la Cultura, il Servizio Civile e lo Sport Divisione Arte e Cultura Partner generali Land Oberösterreich

BIENNALE ARTE

2024

Con il supporto di Land Niederösterreich Città di Linz Con il supporto aggiuntivo di Phileas – The Austrian Office for Contemporary Art Amici del padiglione austriaco Partner Erste Stiftung BIG Bundesimmobiliengesellschaft Energie AG Oberösterreich Eva e Christoph Dichand Geyer & Geyer Zumtobel Barta M.A.I. Kontakt Collection evn Collection Steffi e Leo Störk Amici Habau Arbeiterkammer Freunde der bildenden Künste Wolfgang Schuster Con il contributo di Bioweingut Lenikus artbook Move On Bösendorfer Vöslauer A1 Media Partner Collectors Agenda

Per il suo padiglione alla Biennale Arte 2024, l’Austria presenta l’artista concettuale Anna Jermolaewa. Nel suo lavoro, l’artista – nata a Leningrado (URSS) e residente a Vienna dal 1989 – si dimostra un’attenta osservatrice della convivenza umana, delle sue condizioni sociali e dei suoi requisiti politici. Nell’ambito del contributo austriaco, Jermolaewa traccia un arco che, partendo dalla sua esperienza personale di migrazione come rifugiata politica, approda ai significati della resistenza pacifica contro i regimi autoritari. Dopo essere fuggita dall’Unione Sovietica, Anna Jermolaewa trascorre le prime notti a Vienna su una panchina della stazione ferroviaria. I suoi ricordi di allora sono il punto di partenza per la presentazione all’interno del padiglione, perché l’artista reinterpreta il trauma di quelle notti insonni diciassette anni più tardi in Research for Sleeping Positions. Nella sua pratica artistica, Jermolaewa collega ripetutamente i ricordi individuali a quelli collettivi, sviluppandoli in opere d’arte tormentate. In Ribs, affronta il fatto che la musica occidentale – soprattutto pop, jazz e rock – era proibita in Unione Sovietica. Sperimentatori ingegnosi, però, trovarono il modo di trasferire la musica su pellicole radiografiche usate, il che portò alla nascita dell’espressione “musica delle ossa”. Mentre Ribs scardina un divieto governativo, The Penultimate mostra delle specifiche rivolte contro i regimi politici di vari paesi, la maggior parte delle quali ha portato al rovesciamento del governo. Le diverse piante presenti – un bouquet di garofani, un cedro o un piccolo arancio – simboleggiano le rivoluzioni eponime.

PARTECIPAZIONI NAZIONALI

Per l’artista, che ha stretti legami biografici con l’Ucraina, la recente invasione russa ha costituito una frattura, sia a livello personale che artistico. Da questa posizione è nata Rehearsal for Swan Lake, presentata per la prima volta al padiglione austriaco, in collaborazione con la coreografa ucraina Oksana Serheieva. Il punto di partenza di questo lavoro è un ricordo legato all’adolescenza di Jermolaewa. In tempi di disordini politici, ad esempio la morte di un capo di Stato, la televisione sovietica sostituiva le trasmissioni previste dal palinsesto con Il lago dei cigni di Čajkovskij per giorni e giorni. Nella memoria culturale sovietica, il famoso balletto divenne un codice per un cambio di potere. Jermolaewa e Serheieva trasformano il balletto da strumento di censura e svago in una forma di protesta politica: qui, i ballerini fanno le prove per il cambio di regime in Russia. Gabriele Spindler


Anna Jermolaewa

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STRANIERI OVUNQUE

Anna Jermolaewa, Oksana Serheieva, Rehearsal for Swan Lake, 2023. Photo Anna Jermolaewa. © Anna Jermolaewa.


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Repubblica dell’Azerbaigian

Commissario Rashad Aslanov, Ambasciatore Curatori Luca Beatrice Amina Melikova Artisti Vusala Agharaziyeva Rashad Alakbarov Irina Eldarova Esecuzione Heydar Aliyev Foundation, Azerbaigian in collaborazione con Ambasciata della Repubblica dell’Azerbaigian in Italia e Ministero della Cultura della Repubblica dell’Azerbaigian Assistenti dei curatori Giorgia Achilarre Nazrin Ismaylova Progetto di mostra Ostudio Coordinatori Paolo De Grandis Carlotta Scarpa PDG Arte Communications Consulenza Lana Sokolova

BIENNALE ARTE

2024

Ispirati dal titolo della Biennale Arte 2024 proposto dal curatore Adriano Pedrosa, gli artisti del padiglione azero hanno realizzato opere site specific che riflettono sul significato dell’espressione “Stranieri ovunque”, ritenendola una fondamentale urgenza culturale del nostro tempo. Vusala Agharaziyeva indaga il tema dell’estraneità, sottolineando l’intensità emotiva di sentirsi sempre e comunque stranieri nella propria vita. Traslochi, trasferimenti, viaggi, migrazioni portano sempre significativi cambiamenti che influenzano la propria identità e l’arte. Indagando il concetto di migrazione, da spostamenti importanti all’osservazione del minimo spazio umano, Agharaziyeva racconta il proprio vissuto e lo trasforma in un valore universale per il suo Paese, l’Azerbaigian, la cui storia è stata strettamente connessa e plasmata dalle dinamiche migratorie. Rashad Alakbarov offre una prospettiva significativa sul concetto di luogo di nascita, sottolineando come questo plasmi gradualmente la nostra identità nel corso del tempo. Il suo lavoro descrive come, attraverso il susseguirsi di diverse trasformazioni, gli individui si configurino come porte, finestre, pareti o tetti metaforici. In particolare, i muri – simboli di chiusura, separazione, protezione – possono celare segreti intriganti. Per svelarli, Alakbarov suggerisce di avvicinarsi e osservare l’opera da prospettive diverse. Gli specchi, veri riflessi del presente, confermano la presenza di ciascun individuo. La sua ricerca, che affronta differenti mezzi e linguaggi, culmina nell’affermazione della presenza sia personale sia collettiva, enfatizzando il legame profondo che si crea tra l’individuo e i luoghi in cui ha vissuto.

PARTECIPAZIONI NAZIONALI

Irina Eldarova ha realizzato una serie di dipinti che attingono da episodi personali. Cresciuta in un paese ricco di tradizioni come la Russia, l’artista interagisce con diverse culture. Il trasferimento in Azerbaigian rappresenta una tappa cruciale nella sua vita. Attraverso un’analisi del concetto di luogo inteso come centro di scambio e fusione tra popoli, Eldarova sottolinea l’importanza di accogliere “l’altro” con rispetto, mettendo in luce l’idea universale di comprensione reciproca e fratellanza. Luca Beatrice Amina Melikova


Rashad Alakbarov, I Am Here, 2024. Tecnica mista (pareti bianche, tappeti, specchio), 370 × 270 × 270 cm. Courtesy l’Artista.

From Caspian to Pink Planet: I Am Here

Vusala Agharaziyeva, Pink Planet, 2023–2024. Acrilico su tela, 130 × 130 cm. Photo Nigar Rzayeva. Courtesy l’Artista.

STRANIERI OVUNQUE

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Irina Eldarova, Offer, 2013. Olio su tela, 152 × 152 cm. Photo Irina Eldarova. Courtesy l’Artista.


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Repubblica Popolare del Bangladesh

Commissario Liaquat Ali Lucky Curatrice Viviana Vannucci Artisti Shahid Kabir Mini Karim Abdur Rab Shahjahan Ahmed Bikash Claudia De Leonardis Anna Carla De Leonardis Roberto Saglietto Nataliia Revoniuk Patrizia Casagranda DoJoong Jo Jiyoon Oh Franco Marrocco Marco Nereo Rotelli Mirko Demattè Altri collaboratori Giovanni Serradifalco Natalia Gryniuk Con il supporto di Shilpakala Academy Serradifalco Editore Musa International Zero Otto Srl Un

BIENNALE ARTE

2024

The Contact è una mostra ambientata in un lontano futuro in cui si immagina lo sbarco degli alieni sulla terra, l’arrivo di creature che vengono in contatto con gli abitanti del pianeta blu. Il progetto espositivo si sviluppa così a partire dall’impatto che i cosiddetti extraterrestri hanno sull’umanità, considerando gli effetti e le reazioni che il fenomeno UFO può provocare sulle sorti degli esseri umani. Alla base di questo incontro sta il concetto di diversità determinato dall’inequivocabile contrapposizione tra il genere alieno e il genere umano, idea che può essere motivo di conflittualità, paura, emarginazione, discriminazione, ma al tempo stesso può costituire un interessante spunto di riflessione. In altri termini, il contatto con il mondo UFO, raccontato dalle differenti espressioni artistiche degli espositori, può essere interpretato come un invito a esplorare il tema della diversità, che diventa ora un fenomeno più che mai concreto e tangibile. La conoscenza degli altri abitanti del cosmo può rappresentare un’idea di riflessione sul relativismo del concetto di diverso e di straniero, che sfocia nell’interrogativo su chi siano i diversi, i terrestri o gli alieni. Inoltre, il progetto espositivo può essere l’occasione per focalizzarsi sul concetto di appartenenza che, se da un lato riguarda il rapporto tra l’umanità e la terra, dall’altro riguarda il rapporto tra tutti gli esseri viventi e l’universo. Il progetto artistico si sviluppa attraverso una varietà di media, tra cui pittura, scultura, fotografia e installazioni.

PARTECIPAZIONI NAZIONALI

Ogni artista ha rappresentato questo scenario futuristico all’interno di una navicella spaziale dalla quale gli alieni osservano la vita sulla Terra. Il padiglione è stato progettato per riprodurre l’interno di una navicella spaziale aliena, creando un’ambientazione futuristica e surreale, in cui i visitatori possono immergersi nell’esperienza extraterrestre per comprendere meglio il punto di vista alieno. Le opere ideate per la mostra rappresentano le forme di vita extraterrestre che abitano la navicella spaziale, tra cui i quadri specchianti che raffigurano gli alieni e al tempo stesso riflettono le immagini dei visitatori che vi si rispecchiano. Ci sono anche dipinti che simulano le finestre dell’astronave spaziale da cui i marziani osservano la vita sulla terra oppure straordinarie immagini dall’universo. Viviana Vannucci


The Contact

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Franco Marrocco, COSA, 2024, particolare. Terracotta smaltata, dimensioni totali 400 × 400 × 400 cm, particolare 30 × 40 × 25 cm.

Marco Nereo Rotelli, in collaborazione con Space Architect Valentina Sumini, Pietro Grandi e Antonio Alfano, Gondola Aerospaziale, 2024. Installazione video NFT e telaio della finestra in ferro, 120 × 75 cm. Courtesy l’Artista. © Marco Nereo Rotelli.

STRANIERI OVUNQUE

Roberto Saglietto, Senza titolo, 2022. Tecnica mista su tela, 100 × 160 cm. Courtesy l’Artista.


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Belgio

Commissario Wallonia-Brussels Federation Artisti Denicolai & Provoost Antoinette Jattiot Nord Spec uloos Partner strutturale Wallonia-Brussels International Partner istituzionali BPS22 Charleroi FRAC Dunkerque Young Curators Programme ArBA ESA KASK, Gand Partner accademici La Cambre (ENSAV) Esä / DunkerqueTourcoing Con il supporto di Degroof Petercam Private Banking The Merode LMNO Brussels Eeckman Art & Insurance MOBULL Sigma PPG Coatings The Navigator Company visit.brussels Paolo Boselli (Q3RN_ Brussels) e tutti gli amici e i superamici del padiglione belga

BIENNALE ARTE

2024

Mescolando arte, attività curatoriale, architettura, tipografia e cartografia, il collettivo (Denicolai & Provoost · Antoinette Jattiot · Nord · Spec uloos) sovverte il tradizionale format espositivo, in una modalità collaborativa e orizzontale, tramite capitoli successivi e un potenziale narrativo. Riunitisi per la Biennale Arte 2024, i membri del collettivo – il cui tema di riflessione è incentrato sull’attraversamento fisico e simbolico dei confini – sono legati da collaborazioni di lunga data e dai rispettivi ruoli di intermediari e critici all’interno e all’esterno del campo artistico, da cui mettono in discussione il modo in cui consideriamo le organizzazioni collettive, popolari e alternative e le loro modalità di condivisione. Petticoat Government è uno scenario multidisciplinare basato su colossi folcloristici esistenti di varie comunità in Belgio, Francia e Spagna. I viaggi performativi in direzione dell’Italia, passando per il passo di Resia il 9 marzo 2024 e successivamente tornando a Charleroi e Dunkerque nel 2025, innescano un gioioso scompiglio nella realtà utilizzando la varietà dei giochi di scala e le tensioni tra l’umano e il non umano, il paesaggio e l’architettura, i confini e la loro violazione. A differenza di un’opera chiusa, il padiglione belga è immaginato come un luogo di passaggio, con una prospettiva caleidoscopica. Grazie allo spazio dato all’oralità e alla co-costruzione di storie, e alla messa in scena aerea e sonora “fuori terra” delle figure gigantesche, è la stessa origine delle mitologie contemporanee e delle storie secolari a essere interrogata.

PARTECIPAZIONI NAZIONALI

Tratto da un’espressione storica che rivela un’inversione delle relazioni di potere, il titolo di quest’opera suggerisce un processo di scardinamento ancora in corso. PG immagina un cambio di paradigma, offuscando le frontiere tra le discipline e le culture artistiche e popolari. Il collettivo e i suoi numerosi sodali attivano il potenziale della mescolanza di genere e di atteggiamenti come opportunità per mettere in discussione la complessità e per entrare in contatto con i mondi con cui si relazionano. Al di là della stigmatizzazione della pratica individuale, il progetto sottolinea la fattibilità di un “fare insieme” collettivo come potenziale veicolo di trasformazione. PG vede il folklore come un vettore di storie, conoscenza e circolazione nella sua dimensione vivente, attraverso eventi reali, trasmissione e incontri, piuttosto che nei suoi limiti territoriali o negli artefatti. I giganti generano e nutrono il terreno per l’empowerment delle comunità che li sostengono, in una direzione che conferisce a tutti il potere di agire.


Petticoat Government Petticoat Government #7, 2023. Penna Bic e matita su carta senza cloro, 28 × 38 cm. Courtesy Petticoat Government (Denicolai & Provoost, Antoinette Jattiot, Nord, Spec uloos) e LMNO, Bruxelles.

STRANIERI OVUNQUE

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Petticoat Government, Portraits. 1 Sophie Boiron; 2 Valentin Bollaert; 3 Simona Denicolai; 4 Pauline Fockedey; 5 Pierre Huyghebaert; 6 Antoinette Jattiot; 7 Ivo Provoost. Courtesy Petticoat Government (Denicolai & Provoost, Antoinette Jattiot, Nord, Spec uloos).


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Repubblica del Benin

Commissario José Pliya Curatore Azu Nwagbogu Artisti Moufouli Bello Chloé Quenum Ishola Akpo Romuald Hazoumè Curatrice associata Yassine Lassissi Scenografia Franck Houndégla Organizzazione ADAC – Agence de Développement des Arts et de la Culture Ministero del Turismo, della Cultura e delle Arti

BIENNALE ARTE

2024

Everything Precious Is Fragile scaturisce da una profonda esplorazione delle tradizioni Gelede, un’antica filosofia delle culture ̇ ̇ ̇ yoruba. Questa impresa curatoriale affronta la fragile condizione del mondo odierno, caratterizzato da sfide ecologiche, conflitti, disordini politici, disuguaglianze sociali e cambiamenti culturali. In collaborazione con la classe dirigente tradizionale della Repubblica del Benin, il team curatoriale ha avviato un dialogo a cui si ispira il concetto del padiglione, un concetto che accoglie con umiltà la fragilità e la natura effimera dell’esistenza. La filosofia Gelede ̇ ̇ svela dimensioni ecologiche,̇ politiche, culturali e sociali, celebrando la rinascita della saggezza indigena come potente strumento contro le sfide contemporanee e sottolineando il ruolo vitale delle donne nel preservare i valori portanti. Gli artisti e le artiste selezionate – Romuald Hazoumè, Chloé Quenum, Ishola Akpo e Moufouli Bello – incarnano questo ethos indigeno, sostenendo le idee beninesi di rigenerazione, rinascita e ritorno alla madre. L’eredità storica del Benin, influenzata dall’iconografia femminista come le guerriere Agojie, le donne vodunsi e le figure che combattono la schiavitù, fa da sfondo alla mostra. Everything Precious Is Fragile è un’esposizione profondamente radicata nell’impegno del Benin a promuovere la propria scena artistica e culturale dal 2016. La recente restituzione di ventisei tesori reali saccheggiati dalla Francia è sfociata nella mostra Art du Bénin d’hier et d’aujourd’hui: de la restitution à la révélation, che esplora tre secoli di storia dell’arte del Benin.

PARTECIPAZIONI NAZIONALI

Il padiglione invita il pubblico a scoprire la resilienza e la saggezza, elementi fondanti della cultura beninese, immaginando un futuro compassionevole. Sfida le percezioni di fragilità e forza attraverso le opere dei quattro artisti visionari. Il padiglione che ospita il Benin all’Arsenale presenterà una biblioteca sull’eredità coloniale, l’emarginazione della conoscenza indigena, la rappresentazione del continente africano e la perdita della biodiversità – evidenziando il paradosso di una conoscenza fragile che tuttavia perdura, a dispetto dello sfruttamento coloniale e delle ingiustizie epistemiche. Il padiglione del Benin alla Biennale Arte 2024 affronta questioni contemporanee, rivelando vulnerabilità condivise e sottolineando la necessità di trarre ispirazione dalle filosofie tradizionali per un mondo più illuminato e compassionevole. Il padiglione pone la domanda: qual è l’opposto della fragilità? La forza, la durezza, la resistenza o un connubio che includa gentilezza e compassione? Questa intangibilità è ciò che il padiglione cerca di incarnare. Azu Nwagbogu


Everything Precious Is Fragile

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Veduta generale del padiglione del Benin, 2024. © Franck Houndégla. Courtesy padiglione del Benin.

Veduta dallo spazio di lettura del padiglione, 2024. © Franck Houndégla. Courtesy Benin Pavilion.

Parziale prospettiva del padiglione. © Franck Houndégla. Courtesy padiglione del Benin.

STRANIERI OVUNQUE

Veduta dallo spazio di lettura del padiglione, 2024. © Franck Houndégla. Courtesy padiglione del Benin.


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Stato Plurinazionale della Bolivia

Commissario Juan Carlos Cordero Nina Curatore Ministero della Cultura dello Stato Plurinazionale della Bolivia Artisti Elvira Espejo Ayca Oswaldo “Achu” De León Kantule Yanaki Herrera Duhigó Zahy Tentehar Lorgio Vaca Maria Alexandra Bravo Cladera Rolando Vargas Ramos Edwin Alejo Cristina Quispe Huanca Martina Mamani Robles Prima Flores Torrez Laura Tola Ventura María Eugenia Cruz Sanchez Faustina Flores Ferreyra Pamela Onostre Reynolds Guillermina Cueva Sita Magdalena Cuasace Claudia Opimi Vaca Olga Rivero Díaz Reina Morales Davalos Silvia Montaño Ito Ignacia Chuviru Surubi Ronald Morán Humberto Velez Performance di apertura Los Thuthanka (ChuquimamaniCondori, Joshua Chuquimia Crampton) Orquesta Experimental de Instrumentos Nativos (OEIN) (Romina Quisbert, Andrea Alvarez, Pablo Olmos, Ariel Laura, Ethan Olmos, Gabriela Saravia, Alvaro Cabrera, Tatiana Lopez, Einar Fuentes, Adriana Escobar)

BIENNALE ARTE

2024

Attingendo all’ancestrale visione cosmica andina, questo progetto ci invita a soffermarci sul potere riparatore del camminare e del portare. È una riflessione sul tempo, e sui modi per sottrarlo all’assalto incalzante della monocultura contemporanea. Il famoso detto aymara “Quipnayra uñtasis sarnaqapxañani” – tradotto liberamente come “Guardando dietro e davanti troveremo la nostra strada” – propone una netta prospettiva spazio-temporale, in cui il futuro è immaginato alle spalle, come un fardello che è meglio portare sulla schiena, così da non ostruire la vista del passato davanti ai nostri occhi o distogliere l’attenzione dal presente. Questa interazione tra futuro e passato, in cui il passato può essere immaginato come futuro, fonde le due dimensioni temporali in un’unità compatta, scardinando la traiettoria lineare del tempo e delineando il sorgere di un presente densamente stratificato. In questa intricata rete di temporalità, i segni di epoche antiche si intrecciano con una miriade di prospettive e narrazioni, tessendo un arazzo esistenziale che va oltre la mera progressione lineare.

PARTECIPAZIONI NAZIONALI

La mostra è un viaggio all’interno della scena artistica contemporanea dell’America Latina, che indaga le realtà creative, estetiche, culturali e sociali di artisti provenienti da diversi paesi, confluiti per raccontare il mondo multiculturale di Abya Yala (“terra vivente” o “terra che prospera” nella lingua kuna) – un termine recuperato dai popoli amerindi per riscrivere il loro legame con le terre ancestrali. Le opere in mostra intessono narrazioni diverse, promuovendo un “accudimento reciproco” di sensibilità, esplorando la complessità simbolica della maternità, creando narrazioni contro-egemoniche e resistendo all’obliterazione storica e all’espropriazione. Offrono strategie diverse per scompaginare i protocolli della dominazione coloniale e della violenza epistemica, dando contemporaneamente forma a un repertorio di scenari che rifuggono il ripristino dell’attività estrattiva.


looking to the futurepast, we are treading forward

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Oswaldo “Achu” De León Kantule, La fuga Niños Rojos, 2023. Acrilico su tela, 122 × 91 cm.

Lorgio Vaca, La Gesta del Oriente, 2016. Schizzo a grandezza naturale, matita su carta da pacchi.

STRANIERI OVUNQUE

Duhigó, Tacape, 2014. Acrilico su tela, 23,5 × 53,5 cm. Courtesy dell’immagine Bruno Tuma Sierra Collection.


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Bosnia-Erzegovina

Commissario e Curatore Marin Ivanović Artista Stjepan Skoko Organizzazione University of Mostar Museum of Modern Art Mostar Con il supporto di Ministero degli Affari Civili della BosniaErzegovina Ministero federale della Cultura e dello Sport della Federazione di Bosnia-Erzegovina Cantone HerzegovinaNeretva Città di Mostar

BIENNALE ARTE

2024

Il progetto artistico di Stjepan Skoko mira a leggere il significato stratificato e il simbolismo del mare, della sua profondità e vastità, del condizionamento della civiltà e del ruolo nell’identità dell’individuo. Secondo Fernando Braudel, il Mediterraneo conserva la sua continuità più nell’entroterra che lungo la costa. Questo spazio culturale appartiene all’Erzegovina, patria di Stjepan Skoko, perciò l’autenticità del suo lavoro si manifesta nell’appartenenza intrinseca al mare, che è fisicamente a portata di mano. La prima parte del gruppo scultoreo è costituita da sezioni quadrate in alluminio verniciato in un colore blu brillante con alcuni elementi in alluminio grezzo ricoperti di ruggine o sabbiati. Questi elementi quadrati rappresentano la “misura del mare”, l’eterno bisogno umano di conoscere il mondo attraverso la categorizzazione, l’organizzazione, il calcolo: il mare è diviso in latitudini e longitudini, coordinate geografiche che vengono disegnate con linee regolari sulle carte nautiche e formano “quadranti”; le distanze si misurano in miglia nautiche, la velocità è espressa in nodi e la direzione del movimento si determina con la bussola, a cui è indissolubilmente legata la rosa dei venti, che sono il più grande aiuto e la più grande minaccia per un uomo in mare.

PARTECIPAZIONI NAZIONALI

La seconda parte dell’insieme scultoreo evoca il sottomarino, le cozze e altre conchiglie. Questi elementi scultorei sono stati forgiati nel ferro in una fucina tradizionale a Kreševo, e con questo l’autore ha collegato il mare con la parte interna e profonda del nostro Paese, molto vicina al centro geografico della Bosnia-Erzegovina. I singoli elementi circolari sono saldati tra loro e hanno un andamento verticale che si riferisce al metodo di coltivazione delle cozze su corde collocate verticalmente. Il gruppo scultoreo spaziale si completa con elementi sonori, suoni reinterpretati del mare e dell’attività umana, che creano un collegamento con la forgiatura di componenti scultorei, la saldatura del metallo (che sono anche i suoni del cantiere navale) e i suoni emessi dalle creature marine.


The Measure of the Sea

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Stjepan Skoko, The Measure of the Sea, 2023. Alluminio e ferro, 120 × 120 × 120 cm. Photo Miho Skvrce. © Museum of Modern Art Mostar.

STRANIERI OVUNQUE

Stjepan Skoko, The Measure of the Sea, 2023. Alluminio e ferro, 120 × 120 × 120 cm. Photo Miho Skvrce. © Museum of Modern Art Mostar.


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Brasile

Commissario Andrea Pinheiro, Presidente della Fundação Bienal de São Paulo Curatori Arissana Pataxó Denilson Baniwa Gustavo Caboco Wapichana Artisti Glicéria Tupinambá con la comunità tupinambá di Serra do Padeiro e Olivença, Bahia Olinda Tupinambá Ziel Karapotó Organizzazione Fundação Bienal de São Paulo, Ministero della Cultura, Ministero degli Affari Esteri Ambasciata del Brasile a Roma

BIENNALE ARTE

2024

I Ka’a Pûera, o capoeira, sono spazi nei campi che, dopo il raccolto, rimangono dormienti e ricoperti da una bassa vegetazione. A uno sguardo distratto, appaiono come terreni sterili-strani-anomali, quando in realtà vantano una grande varietà di piante sacre e medicinali. Il Ka’a Pûera è anche un uccello dalle zampe marroni, arancioni e grigie che riesce a mimetizzarsi nella natura. Le capoeiras ci invitano a imparare che siamo interconnessi e che la diversità e la fluidità di genere, la natura umana-uccello-memoria, i corpi in trasformazione, il visibile e l’invisibile coesistono affinché la vita possa perpetuarsi. Il padiglione hãhãwpuá – nome con cui identifichiamo il padiglione del Brasile – presenta una mostra che riunisce la comunità tupinambá e gli artisti delle popolazioni costiere, le prime a essere state trasformate in straniere all’interno del proprio Hãhãw (territorio ancestrale), per esprimere una prospettiva diversa sul vasto territorio in cui vivono più di trecento popoli indigeni (Hãhãwpuá). Glicéria Tupinambá invoca i mantelli del suo popolo, con le loro “ossa”, presenze e assenze, formando Okará Assojaba, il consiglio degli anziani in ascolto. In Dobra do tempo infinito (La piega del tempo infinito) l’artista presenta una videoinstallazione con reti a strascico, creando connessioni fra trame e abiti tradizionali. L’opera è stata realizzata dopo gli incontri con il gruppo Atã, formato da giovani e anziani tupinambá dei villaggi Serra do Padeiro e Olivença a Bahia. Ziel Karapotó presenta Cardume (Banco di pesci), un’installazione che unisce maracas e proiettili, confrontandosi con i processi coloniali. Olinda Tupinambá porta una videoinstallazione che amplifica la voce di Kaapora, entità spirituale che vigila sul nostro rapporto con il pianeta.

PARTECIPAZIONI NAZIONALI

Il padiglione Hãhãwpuá narra la storia della resistenza indigena in Brasile, la forza del corpo presente nelle rioccupazioni dei territori e gli adattamenti di fronte alle urgenze climatiche. La mostra si svolge nello stesso anno in cui uno dei mantelli ritorna in Brasile dopo un lungo periodo di esilio in Europa, dove si trovava dal 1699 come prigioniero politico. L’indumento attraversa i tempi e riattualizza le problematiche della colonizzazione, mentre i tupinambá e gli altri popoli originari continuano a condurre lotte anticoloniali nei loro territori, come i Ka’a Pûera, gli uccelli che camminano sulle foreste che risorgono. Arissana Pataxó Denilson Baniwa Gustavo Caboco Wapichana


Ka’a Pûera: We Are Walking Birds

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Glicéria Tupinambá, Céu tupinambá [Cielo tupinambá], 2022. Disegno. Courtesy l’Artista.

STRANIERI OVUNQUE

Glicéria Tupinambá, Manto tupinambá [Mantello tupinambá], 2023. Photo Glicéria Tupinambá. Courtesy l’Artista.


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Bulgaria

Commissario Nadezhda Dzhakova Curatore Vasil Vladimirov Artisti Krasimira Butseva Julian Chehirian Lilia Topouzova

BIENNALE ARTE

2024

The Neighbours indaga i ricordi taciuti dei sopravvissuti alla violenza politica durante l’era comunista della Bulgaria (19451989). Utilizzando oggetti trovati, video e design sonoro, l’installazione trasmette le storie di coloro che hanno subito i gulag bulgari e la prigionia in un progetto multidisciplinare che, consolidato da approfondite ricerche accademiche e più di quaranta interviste, reinventa le case dei sopravvissuti, invitando il pubblico a riviverle e a testimoniare. L’esposizione si concentra sui modi complessi in cui gli individui ricordano e verbalizzano le proprie esperienze in seguito a eventi traumatici. Il quadro teorico di Lilia Topouzova identifica tre modi di ricordare, corrispondenti nella mostra a tre stanze simboliche: il soggiorno, la camera da letto e la cucina. Il soggiorno dà voce a coloro che parlano e raccontano le proprie esperienze. La camera da letto rappresenta i sopravvissuti che tacciono per paura o semplicemente perché nessuno ha posto loro domande. La terza stanza è dedicata a chi non può ricordare e resta in silenzio o non ha mai avuto modo di parlare. The Neighbours esamina la memoria pubblica del socialismo, ma anche come i ricordi si sviluppano negli spazi privati. In assenza, finora, di un impegno istituzionale bulgaro nei confronti della storia e dell’eredità della violenza di Stato, il progetto svolge un ruolo cruciale come chiave per infrangere il silenzio, riflettendo anche su una funzione in divenire dei musei e delle istituzioni culturali: fornire una piattaforma per le storie individuali e delle minoranze.

PARTECIPAZIONI NAZIONALI

L’installazione mette in scena uno spazio di cura e guarigione collettiva, il linguaggio dell’assenza per preservare il ricordo come atto di resistenza contro l’oblio. Proiezioni, suoni ambientali e oggetti recuperati dai campi di lavoro forzato collegano visivamente il mondo materiale dei lager con lo spazio della casa, richiamando il modo in cui i ricordi traumatici pervadono l’esistenza quotidiana. In risposta alla riflessione della Biennale sugli “stranieri”, The Neighbours svela le storie degli “stranieri domestici” perseguitati per essersi allontanati dagli ideali del regime. Il progetto enfatizza il ruolo vitale dell’arte, come catalizzatore di riflessione e guarigione, nell’interazione con realtà complesse. Vasil Vladimirov


The Neighbours

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Krasimira Butseva, Julian Chehirian, Lilia Topouzova, The Neighbours, 2022. La camera da letto: armadio con oggetti ritrovati provenienti dagli ex campi di lavoro forzato. Photo Krasimira Butseva. Studio Benkovski 40. © Krasimira Butseva, Julian Chehirian, Lilia Topouzova.

STRANIERI OVUNQUE

Krasimira Butseva, Julian Chehirian, Lilia Topouzova, The Neighbours, 2022. Salotto, installazione multimediale: oggetti ritrovati , video. Photo Krasimira Butseva. Studio Benkovski 40. © Krasimira Butseva, Julian Chehirian, Lilia Topouzova.


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Repubblica del Camerun

Commissario Serge Achille Ndouma Curatori Paul Emmanuel Loga Mahop Sandro Orlandi Stagl Artisti Jean Michel Dissake Hako Hankson Kendji & Ollo Arts Patrick-Joël Tatcheda Yonkeu Guy Wouete Angelo Accardi Julia Bornefeld Cesare Catania Adélaïde Laurent-Bellue Franco Mazzucchelli Rex e Edna Volcan Giorgio Tentolini Liu Youju In collaborazione con Massimo Scaringella Responsabile di progetto Chiara Modìca Donà dalle Rose Organizzazione Origini Eventi Afran (Francis Nathan Abiamba) Gianluca Balocco David Berkovitz Sonia Cristoph Tony d'Amico Marzia Ratti David Sirota Alice Valenti Alexandros Yorkadjis Un ringraziamento speciale a Marthe Beatrice Happi Paolo Mozzo Filippo Bontempi Ji Xiaofeng Con il supporto di Fondazione Donà dalle Rose BIAS Institute The Doge Venice Red Carpet Cometh

BIENNALE ARTE

2024

Il detto latino “Nemo propheta in patria” (Nessuno è profeta in patria) evidenzia la circostanza per cui raramente una persona gode di prestigio e riconoscimento nel luogo in cui è nata e dove tutti la conoscono. Al contrario, è più probabile che ciò accada altrove, tra estranei. In questo contesto, un profeta è semplicemente una persona incompresa dai suoi contemporanei e connazionali a causa della sua natura dissonante. Questa figura si distingue per un qualcosa, non necessariamente a livelli estremi o di genialità, ma per la sua capacità di guardare oltre, di vedere ciò che gli altri non vedono, di anticipare i tempi e di pensare in modo divergente dalla massa. È per questo motivo che viene spesso fraintesa, specialmente nella sua comunità d’origine, dove c’è una maggiore aspettativa di conformità alle “norme” del gruppo. Ci sono numerosi casi storici in cui individui illuminati hanno dovuto trasferirsi in un altro paese a causa dell’opposizione alle proprie idee o convinzioni, oppure hanno ottenuto riconoscimento solo dopo la morte. L’arte è sempre stata all’avanguardia nel superare le discriminazioni e nel diffondere idee in ogni ambito sociale e geografico. In sintesi, il detto latino riflette una verità universale sulla difficoltà che molti innovatori incontrano nel farsi apprezzare e comprendere nel proprio territorio nativo, dove spesso predominano le aspettative di conformità.

PARTECIPAZIONI NAZIONALI

Nell’ambito di una Mostra dedicata agli stranieri e alle loro diaspore, il padiglione del Camerun porterà all’attenzione internazionale alcuni artisti camerunesi e internazionali, fuori dal loro contesto nativo, ma coinvolti in un progetto di ampie vedute. Il progetto celebra in generale coloro che hanno dovuto lasciare la propria comunità alla ricerca di lavoro, attenzione e, forse, successo altrove. Milioni di migranti hanno affrontato questa situazione in tutte le epoche, ed è possibile affermare che nessuna nazione è stata risparmiata, sia per avere alimentato questo fenomeno sia per averlo subito. Quello del Camerun sarà il “padiglione delle meraviglie”, dove i progetti di artisti locali e internazionali si mescoleranno per celebrare il coraggio di chi non ha mai abbandonato le proprie idee, indipendentemente dal riconoscimento ottenuto a livello locale, guardando con ambizione verso un orizzonte internazionale meritato. Un padiglione in cui le differenze sono considerate una ricchezza e dove nessuno si sente uno “straniero”. Sandro Orlandi Stagl


Nemo propheta in patria

33 Da sinistra a destra: Patrick Joël Tatchenda Yonkeu, Kendji & Ollo Arts, Hako Hankson e Jean Michel Dissake Dissake. Installazione al centro: Guy Wouete.

Da sinistra a destra: Liu Youju, Franco Mazzucchelli, Rex e Edna Volcan e Adélaïde Laurent-Bellue.

STRANIERI OVUNQUE

Da sinistra a destra: Angelo Accardi, Cesare Catania, Giorgio Tentolini.


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Canada

Commissario National Gallery of Canada Curatrice Gaëtane Verna Artista Kapwani Kiwanga Partner National Gallery of Canada Foundation Canada Council for the Arts Patron del padiglione canadese Reesa Greenberg Artisti canadesi a Venezia - Fondo di dotazione Donald R. Sobey Family The Michael and Sonja Koerner Charitable Foundation The Michelle Koerner Family Foundation Jackie Flanagan The Jack Weinbaum Family Foundation Hon. Bill Morneau & Nancy McCain Rosamond Ivey Stonecroft Foundation for the Arts Robin & Malcolm Anthony The DH Gales Family Charitable Foundation of Toronto Nadir & Shabin Mohamed The Freybe Family Fondazione di famiglia privata

BIENNALE ARTE

2024

Kapwani Kiwanga è un’artista multidisciplinare che esamina il modo in cui si manifestano le diverse forme di potere, come le storie celate vengono spesso trascurate e il loro impatto sulla vita quotidiana. Le sue opere si presentano come archivi esperienziali che offrono rotture temporanee nelle convenzioni stabilite, consentendo al pubblico di esperire e immaginare modi alternativi di relazionarsi e di essere. Kiwanga trasforma il padiglione del Canada attraverso un’installazione scultorea site-specific. Invita i visitatori in un ambiente immersivo attraverso un ambizioso intervento all’interno e all’esterno dell’edificio. Visto dalla facciata, l’edificio diventa un tableau su larga scala: dove le distinzioni tra interno ed esterno si dissolvono attraverso la trasparenza, la stratificazione e il superamento dei confini originali dell’edificio. L’opera di Kiwanga è tutt’altro che statica: muovendosi attraverso l’architettura a spirale, essa si dispiega, moltiplicando la prospettiva dei visitatori.

PARTECIPAZIONI NAZIONALI

Il principale materiale utilizzato nell’installazione è costituito da conterie, cioè perle di vetro. Storicamente utilizzate come moneta e oggetto di scambio, queste piccole sfere di vetro sono utilizzate da Kiwanga per realizzare abilmente il monumentale a partire da una scala minuscola. Le perle stesse potrebbero essere considerate un archivio o un testimone di transazioni passate che hanno trasformato in modo indelebile il paesaggio socioeconomico del XVI secolo e oltre. Le conterie si sono diffuse da Murano nell’arcipelago veneziano e inglobate in varie culture materiali in tutto il mondo. L’installazione di Kiwanga affronta la storia spesso devastante del commercio; tuttavia, l’opera si spinge oltre e ci invita a considerare come il commercio di queste perline in cambio di materiali diversi abbia plasmato il nostro mondo attuale. Altri materiali sono integrati quasi allo stato grezzo. Che si tratti di sculture autoportanti o all’interno dello spazio espositivo, Kiwanga ha selezionato questi elementi specifici dopo aver svolto alcune ricerche sul commercio transoceanico che coinvolgeva le conterie. Sorgendo dal pavimento lungo le pareti e riversandosi nel giardino, questi materiali affiorano per incontrare le perline. L’incontro di questi materiali distinti con le perle formalizza un luogo di scambio, chiedendoci di riflettere sulle questioni del valore intrinseco, dell’estetica e della complessità delle relazioni economiche globali.


Trinket

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Kapwani Kiwanga, Retenue, 2023. Corda di cotone, legno, acciaio, acqua, dimensioni variabili. Veduta della mostra, Retenue, Capc, Bordeaux, 2023. Produzione Capc. © Photo Marc Domage. Courtesy l’Artista.

STRANIERI OVUNQUE

Kapwani Kiwanga, On Growth, 2023. Alluminio, vetro dicroico, acciaio, 305 × 183 × 183 cm. High Line, New York, 2023. Commissionato e prodotto da High Line Art, presentato da the High Line e NYC Parks. © Photo Timothy Schenck. Courtesy l’Artista e Goodman Gallery, Città del Capo, Johannesburg, Londra.


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Cile

Commissario Florencia Loewenthal Curatrice Andrea Pacheco González Artista Valeria Montti Colque Organizzazione Ministero della Cultura, delle Arti e del Patrimonio e Ministero degli Affari Esteri, Governo del Cile In co-produzione con Bonniers Konsthall, Svezia

BIENNALE ARTE

2024

Una delle maggiori sfide che i governi dovranno sostenere nei prossimi decenni sarà quella di affrontare i problemi associati alla concezione arcaica di nazione con strumenti contemporanei. Sebbene una solida struttura intellettuale europea abbia difeso l’unità dell’organizzazione territoriale fin dal XVII secolo, il nazionalismo rimane una patologia politica che emerge ciclicamente e costituisce un ostacolo all’evoluzione della nostra civiltà. Dopo quattro secoli, la nazione continua a essere un “artefatto culturale” – secondo la definizione di Benedict Anderson in Comunidades Imaginadas – che si nutre di fantasia ed è sostenuto dall’emozione. Valeria Montti Colque è nata a Stoccolma nel 1978, due anni dopo la fuga dei suoi genitori dalla dittatura militare cilena, accolti in Svezia come conseguenza dell’impegno istituzionale assunto dal Paese nei confronti del governo deposto di Salvador Allende. È cresciuta fuori Stoccolma, in una cittadina che a metà degli anni Novanta ospitava una comunità di esuli provenienti da diversi continenti. Il particolare stile di vita e la coesistenza sociale che caratterizzava questa “enclave diasporica” (come la chiama Michel Laguerre in The Postdiaspora Condition), pervasa di ricchezza culturale, sono stati la fonte che ha alimentato il suo lavoro fin dall’inizio. Le sue azioni, disegni, murales, sculture o installazioni abbondano di entità non identificabili, body-collage, soggettività meticce che creano oggetti animati, attraversando paesaggi colorati, in costante transito, sempre in viaggio.

PARTECIPAZIONI NAZIONALI

Abbiamo mutuato il termine “cosmonazione” dall’antropologo Laguerre, il quale afferma che le comunità diasporiche non recidono le relazioni con la terra d’origine, ma rimangono legate ai loro luoghi ancestrali secondo modalità materiali, affettive e spirituali. In questo senso, abitano una cosmonazione che unisce territori geograficamente distanti. Cosmonación stravolge la nozione di rappresentazione nazionale – Montti Colque è la prima artista cilena che non è nata in Cile a rappresentare il padiglione – e propone di entrare in uno spazio cosmonazionale dove il visitatore troverà “un insieme di siti interconnessi” (Laguerre) attraverso la biografia dell’artista. Questi luoghi e identità diverse sono collegati attraverso Mamita Montaña (Montagna madre), il fulcro del padiglione, che suggerisce un simbolico rifugio collettivo alle comunità disperse, gli abitanti di quest’altra comunità immaginata che è la nazione fuori dalla nazione, in cui vive ogni membro della diaspora. Andrea Pacheco González


Cosmonación

Valeria Montti Colque, Apu Jokerita, 2024. Still da video. Photo courtesy Alexis Zeiss, filmmaker. Editing fotografico Daniel Takacs.

STRANIERI OVUNQUE

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Valeria Montti Colque, Piedra Volcano, 2024. Collage digitale stampato su carta acquarello. Courtesy l’Artista.


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Repubblica Popolare Cinese

Commissario China Arts and Entertainment Group (CAEG) Curatori Wang Xiaosong Jiang Jun Artisti Che Jianquan Jiao Xingtao Shi Hui Qiu Zhenzhong Wang Shaoqiang Wang Zhenghong Zhu Jinshi Team di progetto di “A Comprehensive Collection of Ancient Chinese Paintings” Assistenti dei curatori Wang Jingchao Wang Dan Huang Xue Zhou Jie Lou Zhe Zhou Yi Zhang Yan Zeng Chaowei Supporto accademico Zhejiang University Organizzazione Ministero della Cultura e del Turismo della Repubblica Popolare Cinese

BIENNALE ARTE

2024

Il carattere “集”, nella sua forma antica “ ”, raffigura tre uccelli appollaiati su un unico albero. Nella sua forma verbale, racchiude significati come radunare, convergere, raccogliere o assemblare. In questa mostra, “集” viene utilizzato per sottolineare il concetto di integrazione. Questo carattere agisce come un invito, incarnando l’assorbimento e l’accettazione, favorendo le opportunità di dialogo, comunicazione e comprensione reciproca. In cinese, il termine “集” può essere tradotto come “atlante”. La sua essenza consiste nel facilitare l’intercomunicazione tra un ampio gruppo di persone e nel formare un senso di “comunità”. Questa è la transizione da “集” (collezione) a “展” (mostra). Pertanto, questa mostra è divisa in due sezioni principali: “集” (raccogliere) e la sua estensione, “传” (tradurre). La sezione “Raccogliere” illustra la documentazione digitale di cento dipinti cinesi attualmente conservati all’estero, tutti provenienti dall’archivio digitale del progetto A Comprehensive Collection of Ancient Chinese Paintings, che in diciotto anni, ha raccolto 12.405 pezzi. Sono stati selezionati cento dipinti dalla collezione sotto forma di visualizzazione di dati, allo scopo di approfondire la storia della loro dispersione e circolazione, utilizzando le immagini per ripercorrerne le vicende e rivelando il viaggio dalla perdita fisica al recupero digitale, che racchiude il processo di “collezionismo”.

PARTECIPAZIONI NAZIONALI

Nella sezione “Tradurre”, che enfatizza il concetto di “ereditare” e divulgare, sette artisti contemporanei espongono sette serie di opere d’arte in risposta agli archivi digitali di A Comprehensive Collection of Ancient Chinese Paintings, nel tentativo di bilanciare la tradizione con la contemporaneità e la dimensione regionale con quella globale. Il gruppo curatoriale si ispira all’Atlante Mnemosyme di Aby Warburg, sovrapponendo una moltitudine di immagini, che collegano i dipinti storici cinesi con le opere d’arte contemporanee. Un secolo fa, Warburg ha affiancato immagini provenienti da regioni ed epoche diverse su pannelli per studiare la logica dell’evoluzione storica umana e dell’espressione emotiva, cercando di scoprire la “somiglianza” comportamentale e cognitiva dell’essere umano retrostante le immagini. Nel mondo odierno, questo approccio rimane indubbiamente un’esigenza pressante per l’umanità in un contesto di divisione e conflitto. Questa mostra cerca di promuovere un cambiamento di paradigma – dalla “differenza” alla “coesistenza” – riattivando e diffondendo la saggezza radicata nella cultura tradizionale cinese, che sostiene l’“armonia nella diversità”, la “coesistenza armoniosa” e la “bellezza condivisa”. Wang Xiaosong Jiang Jun


Atlas: Harmony in Diversity

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Shi Hui, Writing-Non-Writing Series, 2021–2024. Carta xuan, pasta di carta, filo di cotone, tecnica mista, dimensioni variabili. Photo © Shi Hui.

STRANIERI OVUNQUE

Team di progetto, A Comprehensive Collection of Ancient Chinese Paintings, 2005–2024. Archivi, visualizzazione digitale, dimensioni variabili. Photo IN DESIGN GROUP.


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Repubblica Democratica del Congo

Commissario Joseph Ibongo Gilungula, Capo di Gabinetto del Ministro della Cultura Curatori James Putnam Michele Gervasuti Artisti Aimé Mpane Eddy Kamuanga Ilunga Eddy Ekete Mombesa Jean Katambayi Mukendi Cédric Sungo Mome Steve Bandoma Kongo Astronauts (Eléonore Hellio, Michel Ekeba) Performance di apertura 5:50 Firmitas Utilitas Venustas. A new paradigm, curata da Federica Forti e coordinata da Changbei Wu Artisti: Primoz Bizjak Centre d’Art Waza (gruppo) Alessandro Librio Faustin Linyekula Scuola di Santa Rosa (Francesco Lauretta, Luigi Presicce) Tao Qiu Kay Zevallos Stephan Zimmerli Vice Commissario del padiglione Nathalie Kutika Nzamba, Assistente per la diplomazia culturale del Ministero della Cultura, delle Arti e del Patrimonio della DRC Organizzazione Ministero della Cultura, delle Arti e del Patrimonio Gervasuti Foundation Londra-Venezia & Sourire de femmes (ONG)

BIENNALE ARTE

2024

Con il supporto di Axis Gallery, New York, USA Nomad Gallery, Bruxelles, Belgio October Gallery, Londra, Regno Unito Wouters Gallery, Bruxelles, Belgio KinAct - Les Rencontres International de la performance / MetaCritikOpera association, Parigi, Francia TIN MAN ART, Londra, Regno Unito Area35 Art Gallery, Milano, Italia Serigrafia Fallani, Venezia Ebanisteria Gervasuti, Venezia, Italia The METROPOLE Hotel, Venezia Out of Africa A.C., Native Indigeneous Venetians, Venezia BRUCHIUM, A.C., Venice Foundamentalis, Ass No Profit, Venezia LE FONDAMENTA NOVE DELL’ARTE, Venezia CANNAREGIO DISTRICT, Venezia Un ringraziamento speciale a Nathalie Kutika Nzamba, Assistente per la diplomazia culturale del Ministero della Cultura, delle Arti e del Patrimonio della DRC Tim Wouters Walter De Weerdt Elisabeth Lalouschek Lisa Brittan Simona Amelotti

Lithium è il titolo provocatorio di questa mostra di artisti la cui terra e il cui popolo stanno venendo sfruttati da stranieri. Stiamo assistendo alla “corsa” delle aziende estere per l’estrazione del litio, un componente fondamentale delle batterie ricaricabili – che alimentano qualsiasi cosa, dagli smartphone ai veicoli elettrici – e usato anche nei sistemi di accumulo fotovoltaico. Nella regione di Manono, in Congo, è stato recentemente scoperto il più grande giacimento di litio non sfruttato al mondo. Quest’area sarà oggetto di un’intensa attività estrattiva da parte di un’azienda straniera che intende costruire un impianto per la lavorazione dei minerali: ne conseguiranno ingenti danni ambientali e la violazione di diritti umani, dato che l’estrazione del minerale sarà il prodotto del lavoro di persone, bambini compresi, che opereranno in condizioni di schiavitù. Un’altra materia prima essenziale per le batterie agli ioni di litio è il cobalto, e anch’esso sta venendo estratto in maniera intensiva: per i lavoratori è letale toccarlo e respirarlo, mentre l’aria e l’acqua circostanti sono contaminate dalle polveri tossiche e dagli scarti di produzione. Tramite dipinti, sculture, fotografie e performance che riflettono il loro patrimonio culturale gli artisti congolesi esprimono le loro preoccupazioni per gli incalcolabili danni causati all’ambiente dall’industria mineraria. Hanno creato opere e costituito dinamici collettivi di performance art che utilizzano costumi e maschere realizzati con detriti industriali e scarti di elettronica di consumo mentre alcuni dipinti raffigurano corpi sfregiati con motivi che ricordano i circuiti elettronici prodotti con il cobalto e il coltan estratti nel paese.

PARTECIPAZIONI NAZIONALI

Altri artisti realizzano costumi con elementi vegetali per attirare l’attenzione sulla massiccia deforestazione dovuta alla costruzione degli impianti estrattivi. Le loro opere – il cui valore estetico e i significati simbolici, combinati con un’intrinseca capacità di narrazione, si ricollegano a una tradizione orale di miti narrati in festival e rituali – mostrano come il lavoro forzato e il saccheggio delle risorse naturali per il commercio del caucciù e dell’avorio nell’era coloniale siano stati sostituiti dal rinnovato sfruttamento della “corsa al litio”. Sebbene si sostenga che l’estrazione del litio e del cobalto fornisca energia pulita per alimentare auto di lusso come le Tesla, lo smaltimento delle batterie agli ioni di litio è problematico per il loro contenuto di metalli tossici che possono contaminare le riserve idriche e gli ecosistemi. Anche le aziende farmaceutiche straniere sono alla ricerca del litio, il cui composto è utilizzato per il trattamento del bipolarismo. Attraverso varie forme d’arte – come le arti figurative, la musica, la letteratura e le performance – gli artisti accendono i riflettori sulle lotte delle comunità colpite e sul degrado ambientale, sfidando le narrazioni dominanti perpetuate dall’industria mineraria. James Putnam


Lithium STRANIERI OVUNQUE

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Aimé Mpane, Gold, installazione, 2021. Carriola, legno d'ebano, acrilico, 170 × 70 × 60 cm. © Aimé Mpane.


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Croazia

Commissario Ministero della Cultura e dei Media della Repubblica di Croazia Curatrice Antonia Majača Artista Vlatka Horvat Organizzazione Apoteka - Space for Contemporary Art Con il supporto di Luma Foundation Unstable Object Centrala

Il progetto di Vlatka Horvat per il padiglione croato – By the Means at Hand – si propone sia come una mostra dinamica e collettiva, con opere d’arte di un nutrito gruppo di artisti internazionali che vivono “come stranieri”, riflettendo sulle questioni e sulle emergenze dell’esperienza diasporica, sia come un avvincente scambio intimo, sociale e performativo reciproco che si svolge per tutta la durata della Biennale Arte 2024. Il padiglione funge anche da studio artistico temporaneo di Horvat, artista in residenza a Venezia durante tutta la durata dell’evento. L’installazione al centro del progetto è prodotta continuamente attraverso processi di incontro e scambio: Horvat ha invitato molti artisti che vivono in una condizione di diaspora in diversi Paesi a impegnarsi con lei in una serie di scambi reciproci di opere d’arte e altri materiali che, con l’aiuto di amici, viaggiatori e sconosciuti assoldati come corrieri informali per il progetto, verranno inviati a Venezia e in altri luoghi con mezzi improvvisati.

Il titolo del progetto si riferisce ai sistemi di trasporto estemporanei con cui gli individui attivano reti informali di amici, conoscenti e persino sconosciuti per consegnare lettere, pacchi, documenti, denaro e altri beni materiali a membri della famiglia e ad altre persone che vivono in città o in Paesi lontani. Sebbene queste reti traggano spesso origine da legami familiari o da raggruppamenti identitari nazionali, regionali o di altro tipo, si basano anche efficacemente su principi più ampi di solidarietà, lotta condivisa, sostegno reciproco e amicizia, fattori che il progetto sottolinea come prerequisiti per la convivenza con gli altri e come elementi chiave nel kit di strumenti per coloro che vivono “in terra straniera”. Prendendo spunto da questi sistemi di trasporto improvvisati e, più in generale, da vari metodi di improvvisazione nella vita quotidiana, By the Means at Hand parla di pratiche nate dalla dispersione sociale, dalla migrazione e dallo sradicamento. Il progetto punta anche a una vasta gamma di altri temi più ampi, come la logistica alternativa, la produzione spontanea di relazioni sociali, le economie informali e del dono e l’idea di fiducia. Su un piano infrastrutturale più sottile, ma cruciale, il progetto prende le mosse dal riconoscimento dello stato di emergenza in relazione alla crisi climatica e alla sostanziale impronta ambientale delle modalità istituzionalizzate di produzione dell’arte contemporanea. Vlatka Horvat Antonia Majača

BIENNALE ARTE

2024

PARTECIPAZIONI NAZIONALI


By the Means at Hand STRANIERI OVUNQUE

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Vlatka Horvat, Venice (at Hand) #9, 2024. Collage su fotografia da inkjet.


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Cuba

Commissario Daneisy García Roque Curatore Nelson Ramirez de Arellano Conde Artista Wilfredo Prieto Collaboratori Massimo Minini Prats Nogueras Blanchard kurimanzutto Con il supporto di EMINENTE

BIENNALE ARTE

2024

La somiglianza figurativa tra gli opposti viene messa in crisi quando cessa di essere statica, si espande verso la differenza e ruota intorno all’indifferenza stessa. Per Wilfredo Prieto, il contrasto di materiali, concetti e forme rivela un discorso ben lontano dai canoni tecnici, dove l’idea è la matrice del linguaggio. La sintassi del concetto pervade la sua opera ed è per questo motivo che le sue azioni sono sempre più poetiche che scultoree. Gli oggetti comuni diventano materia viva per riflettere in modo incisivo sulla società contemporanea. Esposta all’interno di uno spazio teatrale, Curtain si interroga su quale sia la prospettiva e il modo in cui comprendiamo ciò che fa parte del nostro contesto, da una posizione che presuppone un nucleo eterogeneo di conoscenze storiche, filosofiche e geografiche. La mostra sorprende per la semplicità dell’installazione, Illuminated Stone and Unilluminated Stone, che sottolinea il peso della responsabilità implicita nell’integrazione e la (non) sensazione di essere parte di un luogo. La sintesi narrativa di quest’opera affronta il destino che ognuno di noi incontra nell’evoluzione e nel processo di selezione naturale rappresentato dai cambiamenti, dalla diversità, dalle differenze sociali, razziali, etniche, politiche ed economiche. Realizza un’analisi della realtà riflessa tra gli opposti, tra il livello fisico tangibile e il livello rappresentato, che non è altro che un’allusione a noi stessi.

PARTECIPAZIONI NAZIONALI

Rifuggendo da qualsiasi stereotipo, quest’opera contrappone la sua evidente relazione morfologica con gli elementi essenziali del pensiero, dando valore alla differenza, all’inclusione, all’assimilazione e agli incontri interculturali. Di fronte alla saturazione e al ritmo effimero dell’esistenza, Prieto propone di comunicare, in modo essenziale e semplice, il rispetto per l’altro come entità sociale e culturale. Anche quando i nostri pensieri, le nostre sensazioni e le nostre azioni divergono, facciamo sempre parte della stessa cosa.


Curtain

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Wilfredo Prieto, Illuminated Stone and Unilluminated Stone, 2012–2024. Pietre e luce, dimensioni variabili. Photo Mauricio Chávez. Courtesy Wilfredo Prieto Studio.

STRANIERI OVUNQUE

Wilfredo Prieto, Illuminated Stone and Unilluminated Stone, 2012–2024. Pietre e luce, dimensioni variabili. Photo Mauricio Chávez. Courtesy Wilfredo Prieto Studio.


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Repubblica di Cipro

Commissario Louli Michaelidou Curatori e Artisti Forever Informed: Lower Levant Company (Peter Eramian, Emiddio Vasquez) Endrosia (Andreas Andronikou, Marina Ashioti, Niki Charalambous, Doris Mari Demetriadou, Irini Khenkin, Rafailia Tsiridou, Alexandros Xenophontos) Haig Aivazian Organizzazione Vice Ministero della Cultura di Cipro Dipartimento di Cultura Contemporanea Responsabile di produzione Charles Gohy Responsabile di progetto Ioulita Toumazi Coordinamento di progetto Marco Scurati Graphic Design Miquel Hervás Gómez Doris Mari Demetriadou Andreas Andronikou Con il supporto di psi foundation Pylon Art & Culture The Kerenidis Pepe Collection Niki Hadjilyra

BIENNALE ARTE

2024

Su una strada ghiaiosa costeggiata da fiori selvatici, all’uscita di una tranquilla arteria stradale... ... un furgone nero parcheggiato scruta l’ambiente circostante alla ricerca di dispositivi personali per inviare un’anteprima dall’account di una persona recentemente deceduta. Con la didascalia “Oddio! Hai visto che roba?!”, la foto viene inviata a tre conoscenti ignari. Incredulo, il primo destinatario abbocca e clicca sul link. Il secondo non vede la notifica, sommersa in un mare di rottami informativi. Il terzo – che non è più amico del “mittente” e ignora la sua dipartita – vede il messaggio e sceglie di non rispondere, effettivamente ghostandolo. Partendo da questo aneddoto apparentemente innocuo e attraverso strati di impianti parafantascientifici, Lower Levant Company, Endrosia Collective e Haig Aivazian eludono l’origine superstiziosa dei fantasmi per formulare ipotesi sulle attuali forme sociotecniche e materiali del ghosting. Insieme a modalità diffratte di spettatorialità, un “laboratorio vigile” ripropone il concetto di sorveglianza, invisibile all’interno dell’industria dell’arte, per mantenere uno spazio di riflessione e di ricordo. Come militanti della memoria sociale, i fantasmi insistono sulle ingiustizie irrisolte, riscrivendole fino a quando non saranno vendicate. Il padiglione si concentra sulla vicinanza di Cipro al Medio Oriente, a sua volta una fabbrica di redivivi, per riesaminare la posizione dell’isola nei confronti del Levante.

PARTECIPAZIONI NAZIONALI

“Oddio! Hai visto che roba?” – un quarto destinatario riceve il link, inoltrato dal primo. Insieme decidono di indagare. Scorrendo Reddit, si imbattono in un thread dell’utente shaba7-el-adna che rimanda a un articolo di “Forbes” del 2019 su un’operazione di spionaggio segreta, condotta da un’azienda israeliana all’interno di un furgone nero a Larnaca. Link dopo link, ripercorrono le storie di trasmissioni e interferenze, con Cipro che è allo stesso tempo un’“isola antenna” per le trasmissioni segrete e una “strada tranquilla”, complice di operazioni regionali clandestine. La tensione tra procura e prossimità, mittente e destinatario, amico e nemico, giunge a un punto di rottura critico. Così va la nostra storia fantasma, e così riecheggia: da che lato dello schermo sta il fantasma? Fingendosi un’agenzia start-up, il padiglione evoca un portale dedicato alle storie, alle narrazioni e ai miti che permangono all’interno di nuove modalità di comunicazione, delle logiche computazionali e delle economie delle piattaforme. La mostra propone il ghosting come un atto paradossale di rinuncia e perseveranza. Questa forma di sorveglianza richiede di riassestare l’attenzione, una ricalibrazione dei sensi, un impegno non solo a occuparsi del problema dei fantasmi, ma anche a stringere alleanze con loro e, depositari della loro inquietudine, a smantellare e costruire nuovi mondi. Forever Informed


“On a wildflower-lined gravel track off a quiet thoroughfare…”

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Immagine (da Multimillionaire Spyware Dealer and His $9 Million WhatsApp Hacking Van, “Forbes”, 2019) elaborata da Stable Diffusion AI. Courtesy Forever Informed, 2024.

Antenne a tenda ad Akrotiri, Cipro, elaborata da Stable Diffusion AI. Courtesy Forever Informed, 2024.

STRANIERI OVUNQUE

Immagine (da Multimillionaire Spyware Dealer and His $9 Million WhatsApp Hacking Van, “Forbes”, 2019) elaborata da Stable Diffusion AI. Courtesy Forever Informed, 2024.


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Repubblica Ceca

Commissario Michal Novotný Curatrice Hana Janečková Artisti Eva Kot’átková in collaborazione con Himali Singh Soin e David Soin Tappeser Gesturing Towards Decolonial Futures e gruppi di bambini e anziani Organizzazione National Gallery Prague Responsabile della partecipazione ceca Radka Neumannová Responsabile di progetto Barbora Lesáková Con il supporto di Ministero della Cultura della Repubblica Ceca (Recovery Plan ceco) Unione Europea (Next Generation EU) J&T Banka hunt kastner Praga Meyer Riegger Berlino/ Karlsruhe/Basilea

BIENNALE ARTE

2024

La giraffa Lenka fu catturata in Kenya nel 1954 e trasportata allo zoo di Praga per diventare la prima giraffa cecoslovacca. Sopravvisse solo due anni in cattività, dopodiché il suo corpo fu donato al Museo nazionale di Praga, dove rimase esposto fino al 2000. Le sue interiora sono state sciolte nei laboratori di tassidermia del museo e smaltite nel sistema fognario pubblico; solo la pelle è stata conservata. Il progetto collaborativo di Eva Kot’átková, The heart of a giraffe in captivity is twelve kilos lighter, reimmagina la storia di Lenka come un incontro poetico e corporeo per il pubblico, i collaboratori e l’artista, ma anche come un luogo di intervento critico nel rapporto tra le istituzioni e il mondo naturale. La mostra intende mettere in discussione le gerarchie, la violenza e le pratiche estrattive insite nel modo in cui incontriamo, osserviamo e conosciamo gli animali, suggerendo diverse modalità di coinvolgimento, in cui la cura, l’immaginazione e l’emozione sono importanti quanto la narrazione storica. L’installazione comprende molteplici rendering di parti del corpo della giraffa: scansioni 3D di Lenka nei depositi del museo e un gigantesco collo dell’animale nel suo momento di estrema vulnerabilità, ossia nel sonno. Nel paesaggio sonoro “il mondo dei liberi” – una collaborazione con gli artisti e compositori Himali Singh Soin e David Soin Tappeser – la poesia è composta interamente da documenti storici del viaggio di Lenka e da resoconti della sua morte e della sua vita postuma come oggetto museale. La giraffa, alimentandosi di ramoscelli di acacia, spesso danneggiava le linee del telegrafo.

PARTECIPAZIONI NAZIONALI

Qui, è il linguaggio stesso a essere divorato e i messaggi che rimangono sono quelli che raccontano una contro-storia di rimpatrio e riparazione. Il sommesso mormorio notturno dell’animale addormentato è intervallato da delicate interpretazioni degli inni nazionali di tutti i paesi che Lenka ha visitato durante il suo viaggio. Qual è la differenza tra Lenka, l’animale esposto nello zoo, e Lenka, l’oggetto museale con gli occhi di vetro? Interpretata da bambini, educatori e anziani coevi di Lenka, l’installazione è concepita come un unico corpo che facilita molteplici forme di narrazione, e insieme a un contributo del collettivo Gesturing Towards Decolonial Futures pone le basi per una pedagogia decoloniale. Questo approccio collaborativo mette in scena The heart of a giraffe in captivity is twelve kilos lighter, come luogo in cui l’appartenenza può essere forgiata attraverso l’attaccamento emotivo e le relazioni ecologiche, anziché dalle concezioni prestabilite di identità, confini e nazione. Hana Janečková


The heart of a giraffe in captivity is twelve kilos lighter; Eva Kot’átková (a sinistra) e Hana Janečková (a destra) con Lenka la giraffa. Photo Aleksandra Vajd, 2024.

The heart of a giraffe in captivity is twelve kilos lighter

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Eva Kot’átková, The heart of a giraffe in captivity is twelve kilos lighter, 2023. Tecnica mista su carta. Courtesy l’Artista; hunt kastner, Praga e Meyer Riegger, Berlino/Karlsruhe/Basilea.

STRANIERI OVUNQUE

Himali Singh Soin e David Soin Tappeser (Hylozoic/Desires), “The world of the free” (behind the scenes), 2023. Collage. Courtesy gli Artisti.


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Danimarca

Commissario Danish Arts Foundation Curatrice Louise Wolthers Artista Inuuteq Storch Organizzazione Danish Agency for Culture and Palaces Capo di progetto Anne Marie Fjord Abildskov Responsabili di progetto Lotte Sophie Lederballe Pedersen Ane Bülow Con il supporto di New Carlsberg Foundation Kvadrat Kalaallit Nunaat Arts Foundation Danish Agency for Culture and Palaces

BIENNALE ARTE

2024

Il sole, insieme alle metafore di colore, luce e ombre che vi gravitano intorno, è fondamentale nell’opera di Inuuteq Storch; come fotografo, infatti, scrive con la luce. Il suo soggetto principale è la vita groenlandese, dove il sole – sia in presenza sia in assenza – è fondamentale, tanto che occupa un posto di primo piano anche in uno dei simboli nazionali ufficiali della Groenlandia, ovvero la bandiera, in cui un semicerchio rosso rappresenta il tramonto sul ghiaccio. Questa forma è il fulcro di Rise of the Sunken Sun. La fotografia di Inuuteq Storch veicola l’identità groenlandese contemporanea e la vita quotidiana con un’espressione intuitiva, poetica e giocosa. Questo aspetto è evidente nelle serie At Home We Belong e Keepers of the Ocean, scattate principalmente nella sua città natale, Sisimiut. In Necromancer, Storch crea un’atmosfera ultraterrena per indicare connessioni più spirituali con la natura e altre realtà. Soon Will Summer Be Over è un’opera realizzata nel 2023 a Qaanaaq, dove le case e gli interni rivelano tracce di influenze danesi e del passato coloniale, fondendosi con gli artefatti locali e una spiccata presenza della cultura inuit. Magnifiche fotografie all’aperto testimoniano la lotta per tenere vive tradizioni come la caccia e la pesca in un’epoca in cui la natura e il clima stanno subendo drammatici cambiamenti.

PARTECIPAZIONI NAZIONALI

Storch sottolinea il potenziale della fotografia come documento culturale, sociale e storico, sperando così di contribuire alla creazione futura di un museo fotografico groenlandese. Per l’opera Mirrored, Storch ha digitalizzato una selezione di immagini scattate dal primo fotografo della Groenlandia, John Møller (1867-1935), che offrono una visione unica della società groenlandese all’epoca della colonizzazione danese. Storch le sovrappone alle proprie fotografie e, nell’incontro tra passato e presente, emergono dettagli che altrimenti sfuggirebbero all’attenzione. Storch ha anche creato un archivio di fotografie amatoriali realizzate dalla sua famiglia e raccolte nella serie Sunsets at the Forgotten Moments. I suoi nonni provenivano da contesti socioeconomici e geografici molto diversi, come testimoniano le foto di famiglia. Sebbene il lavoro di Storch vada oltre l’attenzione circoscritta alla storia coloniale della Groenlandia e al rapporto ancora controverso con la Danimarca, la decolonialità è un tema di fondo, che emerge in Rise of the Sunken Sun attraverso elementi come il testo, la musica e altri suoni. Benvenuti a Kalaallit Nunaat di Inuuteq Storch. Louise Wolthers


Rise of the Sunken Sun

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Inuuteq Storch, Sunsets of Forgotten Moments, 2024. Fotografia, versione digitale di una fotografia originale, dimensioni variabili. Photo Peter Storch. Courtesy Inuuteq Storch. © Inuuteq Storch.

Inuuteq Storch, Mirrored – Portraits of Good Hope, 2019 (originale del 1900 ca.). Fotografia, versione digitalizzata del negativo originale su lastra di vetro, dimensioni variabili. Photo John Møller (1867–1935). Courtesy Nunatta Katersugaasivia Allagaateqarfialu (Greenland National Museum & Archives). © Nunatta Katersugaasivia Allagaateqarfialu (Greenland National Museum & Archives).

STRANIERI OVUNQUE

Inuuteq Storch, Soon Will Summer Be Over, 2023. Fotografia, dimensioni variabili. Photo Inuuteq Storch. Courtesy Inuuteq Storch. © Inuuteq Storch.


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Egitto

Commissario Ministero della Cultura di Egitto – Accademia d’Egitto a Roma Curatore e Artista Wael Shawky Partner scientifici Reem Fadda Andrea Viliani Sebastien Delot Yasmine El Rashidi Un ringraziamento speciale a Barakat Contemporary Lia Rumma Gallery Lisson Gallery Sfeir Semler Gallery

BIENNALE ARTE

2024

L’artista egiziano Wael Shawky opera trasversalmente tra cinema, scultura, performance e disegno per esaminare e sovvertire le consuete nozioni di identità nazionale e religiosa, ridefinendo i punti di vista dominanti sulla storia. Caratterizzata da una ricerca rigorosa, l’opera di Shawky è radicata nel suo profondo rapporto con la storia e il patrimonio culturale del mondo arabo. Il suo lavoro parte dal presupposto che la storia è un archivio di sequenze descritte in modo soggettivo piuttosto che di fatti inconfutabili, scene che l’artista ipotizza per creare ricostruzioni e interpretazioni accuratamente coreografate degli eventi accaduti. I suoi film e le sue installazioni di ampio respiro immergono le cronistorie della realtà in mondi di sua creazione. In El Araba El Madfuna (2012) i bambini si recano a rendere omaggio a un’antica città archeologica e alle mitologie che la circondano, mentre in Cabaret Crusades (2013) gli scontri medievali tra musulmani e cristiani diventano una trilogia omerica raccontata da una prospettiva araba attraverso burattini e marionette. Sfumando attentamente i confini tra i fatti documentati e le possibili finzioni, e intrecciando accuratamente spiritualità ed estro, il lavoro di Shawky offre dei prismi poeticamente alternativi con cui considerare momenti cruciali della storia.

PARTECIPAZIONI NAZIONALI

Anche in Drama 1882 Shawky prosegue la sua pratica assidua di rivisitazione storica. Prendendo come punto di partenza l’anno 1882 e la memorabile rivolta di ʿUrābī avvenuta in Egitto (18791882) contro il dominio imperiale, l’artista analizza il bombardamento di Alessandria d’Egitto avvenuto nel 1882 a opera delle forze britanniche che cercavano di rovesciare il regno di ʿUrābī. Girato in un leggendario teatro di Alessandria, sullo sfondo di un set rosa di sapore dadaista e con l’ausilio di attori, questo epico musical in otto atti riposiziona la lente narrativa sui drammatici eventi che si svolsero quell’estate e che sfociarono nella storica battaglia di Tell al-Kebir e nella cattura di ʿUrābī. Basandosi sui resoconti delle fonti primarie, Shawky scompagina la tradizionale narrazione occidentale della guerra coloniale, intervenendo nelle lacune di questo momento caotico e decisivo della storia egiziana. Indaga, solleva dubbi e getta ombre su una serie di eventi storicamente minori, forse premeditati dalla Gran Bretagna per giustificare l’assalto. Con Drama 1882, il padiglione egiziano diventa il fulcro di una conversazione puntuale e critica sulla necessità del revisionismo storico e sull’inutilità della guerra. Yasmine El Rashidi


Wael Shawky, Drama 1882, 2024. Photo Credit Mina Nabil. © Wael Shawky.

STRANIERI OVUNQUE

Drama 1882 -

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Wael Shawky, Drama 1882, 2024. Photo Credit Mina Nabil. © Wael Shawky.


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Estonia

Commissario Maria Arusoo, Estonian Centre for Contemporary Art, CCA

Comunicazione Kaarin Kivirähk, CCA Keiu Krikmann, CCA Stina Pley Alexia Menikou

Artista Edith Karlson

Commissione e produzione Estonian Centre for Contemporary Art

Drammaturgia Eero Epner Graphic Design Jojo & me (Johanna Ruukholm e Martina Gofman) Capo di progetto Sten Ojavee, CCA Coordinamento di progetto Mikk Lahesalu, CCA Marika Agu, CCA Team tecnico Tõnu Narro e Mihkel Lember (Technical Director) Johannes Säre (Dream Team) Team degli Artisti Art Allmägi Sander Haugas Kirsti Kaubi Loora Kaubi Ats Kruusing Erik Liiv Maria Luiga Eva Mahhov Liisi Põllumaa Nikolai Saaremets Elo Vahtrik i cani dell’artista, Iti e Kusti

BIENNALE ARTE

2024

Con il supporto principale di Ministero della Cultura dell’Estonia Con il supporto di Postimehe Fond Taavet+Sten Tulevikufond Cobalt Law Firm Cultural Endowment of Estonia DSV Global Transport and Logistics Põhjala Beer Selver Uus Rada Galerii Tallinn Zoo Estonian Museum of Natural History Müürileht Estonian Academy of Arts Pallas University of Applied Sciences

La mostra di Edith Karlson nella chiesa di Santa Maria delle Penitenti a Cannaregio esplora le primitive pulsioni umane nella loro prevedibilità e solennità, interrogandosi anche sulla possibilità di redenzione in un mondo che non ne è mai degno. L’interno della chiesa rafforza l’atmosfera emotiva che permea la mostra. Qui, tutto è rimasto immutato, persino la polvere accumulata nel corso dei secoli. Lo spazio, che versa in uno stato di abbandono, è una metafora dell’essere umano, ugualmente triste e incompleto, pieno di crepe e fessure, attraverso le quali alla fine, forse, brillerà una luce salvifica. Lo spazio espositivo è disseminato dalle sculture in argilla e cemento realizzate da Karlson che evocano l’inevitabile sfortuna di nascere e la natura perennemente in tensione dell’essere umano. Non è la conoscenza degli eventi attuali da parte del cittadino civilizzato ad avere la priorità, ma i suoi impulsi, le sue sensazioni, i suoi desideri e le sue voglie, nascosti non troppo in profondità sotto il suo abito perfetto. L’opera centrale della mostra si compone di centinaia di autoritratti in argilla, creati da persone che ruotano intorno all’artista: bambini e anziani, funzionari statali e lavoratori comuni. È una galleria di volti contemporanei che in un futuro prossimo diventerà il loro memoriale. Le opere si ispirano a centinaia di sculture in terracotta del XIV secolo presenti nella chiesa di San Giovanni a Tartu, in Estonia, che verosimilmente raffigurano cittadini dell’epoca, forse un insieme commemorativo delle vittime della peste.

PARTECIPAZIONI NAZIONALI

Nell’opera di Karlson, accanto agli esseri umani vediamo anche ibridi uomo-animale, donne in lutto e splendenti cicogne bianche. Un grande santuario con dipinti, candelabri, retroaltari e creature giganti che si cimentano con giochi pericolosi tra gli oggetti. Una stanza che è diventata un rifugio per uno stormo di uccelli. Un ambiente con ante rotte di armadi e figure silenziose, che si coprono il volto con mani segnate dal tempo. Una camera da letto claustrofobica, lasciata vuota, ad eccezione di un piccolo cane fedele. Una stanza con il pavimento che crolla, dove le onde create dai vaporetti di passaggio si riversano nello spazio attraverso lo squarcio nel pavimento e schizzano le sirene, appollaiate sui bordi dell’apertura. Nella chiesa di Santa Maria delle Penitenti prende vita una narrazione esistenziale della natura bestiale degli esseri umani: la sincerità e la schiettezza dell’istinto, che a volte rivela tratti brutali e violenti, altre volte poetici e in parte ridicoli, oppure dolci e malinconici.


Hora lupi

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Edith Karlson, Hora lupi, in corso d’opera. Photo Anu Vahtra/Estonian Centre for Contemporary Art.

STRANIERI OVUNQUE

Edith Karlson, Hora lupi, in corso d’opera. Photo Anu Vahtra/Estonian Centre for Contemporary Art.


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Etiopia

Commissario Demitu Hambisa Bonsa, Ambasciatore straordinario e plenipotenziario dell’Ambasciata d’Etiopia e rappresentante permanente presso la FAO, WFP e IFAD in Italia, Roma Curatore Lemn Sissay, OBE, FRSL Artista Tesfaye Urgessa Organizzazione Ministero del Turismo della Repubblica Federale Democratica di Etiopia Ambasciatore Nasise Chali, Ministro, Ministero del Turismo Sileshi Girma-Ministro di Stato, Ministero del Turismo Assefa Abiyu, Assistente Capo dell’Ambasciata di Etiopia a Roma Abebaw Ayalew, Direttore generale di F.D.R.E. Heritage Authority Tamirat Haile, Direttore generale di Unity Park Biskut Behabtu, Coordinatore dell’Ambasciata di Etiopia a Roma Teklewoini Abrha, Coordinatore dell’Ambasciata di Etiopia a Roma Produzione locale Zuecca Projects (Alessandro Possati, Maria Caterina Denora) Un ringraziamento speciale a Saatchi Yates, Londra

BIENNALE ARTE

2024

Tesfaye Urgessa raccoglie “oggetti” e li colloca in una “cantina” concettuale; piccole immagini, grandi idee, una mano, un busto, piedi girati, una canzone. È uno spazio eterno di oggetti e idee preziose. “La cantina è il luogo in cui tieni ciò che per te è importante”. L’artista è nel suo studio a Addis Abeba. È ispirato dalla concentrazione di Lucian Freud e da “quel modo, quella naturale propensione al lavoro” di Philip Guston. Per Prejudice and Belonging, Tesfaye Urgessa ha lavorato contemporaneamente su diverse tele: “Guardo i miei quadri e poi immagino in quale di essi una particolare immagine possa funzionare, quindi la inserisco su una tela; a volte funziona e continuo, altre volte no e devo distruggerla”. Si sposta nel suo studio da una tela all’altra alla ricerca della “reazione chimica” in grado di dare avvio alla “reazione a catena”. Urgessa è cresciuto a Addis Abeba, dove scopre l’arte tramite l’iconografia religiosa delle chiese disseminate in Etiopia. Incoraggiato dalla famiglia, Tesfaye frequenta la Ale School of Art and Design dell’Università di Addis Abeba. Lì, oltre a sviluppare un particolare interesse per l’anatomia, Urgessa si avvicina al realismo russo, reso popolare in Etiopia durante gli anni da professori che avevano studiato in Unione Sovietica. Urgessa si laurea con una borsa di studio, proseguendo gli studi, sotto la guida di Cordula Güdemann, alla Staatlichen Akademie der Bildenden Künste di Stoccarda, dove nel 2014 si aggiudica il premio per le Belle Arti.

PARTECIPAZIONI NAZIONALI

Prejudice and Belonging nasce dalla particolare esperienza vissuta nei tredici anni trascorsi in Germania, assistendo come traduttore nei campi profughi, ascoltando le storie degli immigrati. “La gente tende a pensare che i soggetti delle mie tele siano vittime, ma non è affatto così. Le figure racchiudono ogni tipo di emozione, la fragilità così come la sicurezza. È la figura che si presenta senza alcun giudizio. Dice ‘questo è chi sono, questo è ciò che sono’”. In Prejudice and Belonging Urgessa “non segue le leggi naturali” ma le leggi della pittura. Le sue figure non sono definite dalle loro cicatrici, ma dalla loro straordinaria capacità di guarire. Lemn Sissay


Prejudice and Belonging

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Tesfaye Urgessa, The Guardians, dittico, 2024. Olio su tela, 249 × 250,5 cm. Photo Justin Piperger. Courtesy l’Artista e Saatchi Yates.

Tesfaye Urgessa, Love and curse, dittico, 2023. Olio su tela, 249 × 248,5 cm. Photo Matt Spour. Courtesy l’Artista e Saatchi Yates.

STRANIERI OVUNQUE

Tesfaye Urgessa, Lineage Frost, dittico, 2023. Olio su tela, 248,5 × 248 cm. Photo Justin Piperger. Courtesy l’Artista e Saatchi Yates.


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Finlandia

Commissario Raija Koli, Frame Contemporary Art Finland Curatori Yvonne Billimore Jussi Koitela Artisti Pia Lindman Vidha Saumya Jenni-Juulia WallinheimoHeimonen Design architettonico Kaisa Sööt Organizzazione Frame Contemporary Art Finland Responsabile di progetto Ellinor Zetterberg Coordinamento di progetto Francesco Raccanelli Capo della comunicazione Rosa Kuosmanen Graphic Design Samuli Saarinen Con il supporto di Ministero dell’Istruzione e della Cultura in Finlandia Kone Foundation The Swedish Cultural Foundation in Finland AVEK The Promotion Centre for Audiovisual Culture The Church Media Foundation Finnish Federation of the Visually Impaired Ambasciata di Finlandia a Roma

BIENNALE ARTE

2024

The pleasures we choose è una collaborazione poliedrica tra le artiste Pia Lindman, Vidha Saumya, Jenni-Juulia WallinheimoHeimonen, i curatori Yvonne Billimore e Jussi Koitela e la designer architetto Kaisa Sööt. Incentrata sull’inscindibilità tra arte e vita, la mostra riunisce tre artiste il cui modus operandi è fortemente caratterizzato dalle rispettive esperienze personali che spaziano tra gli squilibri strutturali, ambientali e sociali del mondo. Nella pratica di Lindman, Saumya e Wallinheimo-Heimonen, arte, vita e attivismo sono intenzionalmente intrecciati. Realizzate attraverso un’ampia gamma di materiali e processi – tra cui disegno, ricamo, scultura e guarigione – le loro opere celebrano il piacere della sfera personale come potente mezzo per abitare, immaginare e reinventare mondi plurali. Il lavoro di Pia Lindman esplora il mondo subsensoriale – un regno esperienziale che trascende le capacità delle nostre percezioni sensoriali umane quotidiane – e lo trasforma in manifestazioni materiali che le permettono di sintonizzarsi con atmosfere, tossicità e materialità in diverse condizioni spaziali e sociali. Spesso confrontandosi con l’intricata relazione tra la presenza umana e l’ambiente, il lavoro di Vidha Saumya mostra un’interazione tra desiderio, intimità e il concetto di home(land), controbilanciata dalle istanze etero normative di vantaggio, tempo ed esilio. Le opere d’arte di Jenni-Juulia Wallinheimo-Heimonen mettono in evidenza l’incitamento all’odio di cui sono vittime le persone con disabilità. Le sue complesse realtà celebrano un mondo in cui una diversità di corpi umani ha conquistato il diritto di scegliere una vita piacevole rispetto alla mera esistenza.

PARTECIPAZIONI NAZIONALI

Le opere d’arte di Lindman, Saumya e Wallinheimo-Heimonen sono intrise delle loro peculiari esperienze nel mondo, i rispettivi approcci innovativi e le relazioni con i materiali. Accolto come un progetto collettivo, The pleasures we choose si è evoluto attraverso lo scambio di esperienze condivise e individuali per creare aree di permanenza diverse, dove i visitatori sono incoraggiati a rivalutare e (ri)considerare le aspettative della società. Reimmaginando il padiglione e il tipo di arte, di corpi e di esperienze che può ospitare, la mostra introduce una “architettura dell’accesso” che considera l’accesso e le esigenze del corpo attraverso diversi registri, promuovendo al contempo esperienze multisensoriali. Il padiglione è dedicato a coloro che, attraverso le loro esperienze incarnate del mondo, non possono permettersi di differenziare la vita e l’arte, anche se non avranno mai l’opportunità di passare attraverso queste mura. Yvonne Billimore, Jussi Koitela


The pleasures we choose

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Pia Lindman, Collectivities Cycle: Embodied wefts, still da animazione, 2024. Animazione in alta risoluzione, 4h 4’. Courtesy dell’immagine l’Artista.

Vidha Saumya, To all the barricades… the rumour got you, particolare del disegno, 2024. Penna a sfera su seta, 1023 × 300 cm. Photo Commercial Art Engravers Pvt. Ltd. Courtesy dell’immagine l’Artista.

STRANIERI OVUNQUE

Jenni-Juulia Wallinheimo-Heimonen, How Great is Your Darkness, 2024. Still da video installazione a 2 canali, 5’ 22”. Photo Rasoul Khorram.


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Francia

Commissario Institut français per conto di Ministero dell’Europa e degli Affari Esteri Ministero della Cultura Curatrici Céline Kopp Cindy Sissokho Artista Julien Creuzet Collaborazioni creative Chadine Amghar Sofía Bonilla Otoya Émilien Bonnet Serge Damon Antoine Camus Julien Coetto Émilien Colombier Scarlett Chaumien Iris Fabre Benjamin Fagnère Maïlys Lamotte-Paulet Ismaïl Lazam Ari Lima Noémi Michel Makeda Monnet Mukashyaka Nsengimana Ana Pi Louis Somveille Maboula Soumahoro Jean Thevenin Produzione esecutiva ARTER Graphic Design Alliage Con il supporto eccezionale di CHANEL Culture Fund e il supporto di Luma Foundation Con la partnership di IDzia La Collectivité Territoriale de Martinique Millénaire de Caen La Fondation des Artistes

Attila cataracte ta source aux pieds des pitons verts finira dans la grande mer gouffre bleu nous nous noyâmes dans les larmes marées de la lune Queste parole creano suoni, esistono grazie a una presenza assertiva della poesia e contengono un mondo di possibilità. Questo testo è il nostro rifiuto di cedere la libertà interpretativa. Rivendica il diritto di essere, di fare spazio a sentimenti profondi: Attila cataratta la tua sorgente ai piedi delle verdi vette finirà nel grande abisso blu del mare ci annegammo nelle lacrime maree della luna. La vista del matoutou falaise è un dono quando appare nelle fitte foreste, sulla corteccia degli alberi della pioggia o sulle rocce delle coste della Martinica. Richiede un legame profondo con l’ambiente, un occhio che spazia sui contorni e scivola sulle trame. Si tratta di apparizioni e sparizioni, di ciò che è dato, protetto e anche non visto... Questo modo di vedere è senza dubbio ciò che Julien Creuzet cerca di offrire attraverso l’esperienza del proprio lavoro. Descrive l’immersione in una poesia di forme e suoni, volumi e linee in movimento, incontri colorati che formano nuovi linguaggi: un’esperienza da vivere fino in fondo.

Con la partecipazione di Ambasciata francese in Italia Institut Français Italia

BIENNALE ARTE

2024

PARTECIPAZIONI NAZIONALI

Questa tarantola, endemica della Martinica, potrebbe senz’altro essere il simbolo di un modo di esistere nell’arte che la storia non ha ancora scritto. Nutre e protegge, nell’insegnare una comprensione sensibile e poetica del mondo offre uno sguardo più morbido con cui avvicinarsi alle molteplici ecologie della vita. Le forme di Creuzet nascono da uno spazio di emancipazione, che deve essere intimamente sentito per vedere davvero. È un momento di apprendimento e disapprendimento come riconciliazione con i nostri sensi, nonché uno spazio in cui essere non tradotti e liberi. Céline Kopp Cindy Sissokho


STRANIERI OVUNQUE

Attila cataracte ta source aux pieds des pitons verts finira dans la grande mer gouffre bleu nous nous noyâmes dans les larmes marées de la lune

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Julien Creuzet, 2024 © Julien Creuzet. Courtesy l’Artista e DOCUMENT, Chicago | Lisbona; Andrew Kreps Gallery, New York; Mendes Wood DM, San Paolo, Bruxelles, Parigi, New York.


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Georgia

Commissario Magda Guruli Curatori Julia Marchand David Koroshinadze Artisti Nikoloz Koplatadze Grigol Nodia Juliette George Rodrigue De Ferluc Iliazd Max Ernst Ernst Wilhelm Tempel Responsabile di progetto Ana Jorjiashvili Assistenza di design dell’arredamento Nestan Vardiashvili Assistente del curatore Elisa Francesconi Graphic Design Fabien Chaminade Design di produzione Lasha Zambakhidze Composizione musicale Ben Wheeler Partner locale VeniceArtFactory Partner Tbilisi City Hall François Maire & Iliazd Club Tbilisi State Academy of Art Con il supporto di Ministero della Cultura e dello Sport della Georgia

BIENNALE ARTE

2024

The Art of Seeing – States of Astronomy è un progetto collaborativo presentato da un team di curatori e artisti provenienti dalla Georgia e dalla Francia. Il progetto trae interamente ispirazione da 65 Maximiliana o l’esercizio illegale dell’astronomia (1964) di Ilia Zdanevich (1894-1975), artista, poeta e editore georgiano, in collaborazione con Max Ernst (1891-1976), insieme ai relativi archivi. Il volume è un omaggio a Wilhelm Ernst Tempel (1821-1889), astronomo e litografo tedesco che ha vissuto e lavorato in Italia e in Francia. Tempel, sostenitore di un’astronomia non convenzionale e sensuale, vide le sue scoperte trascurate dai contemporanei, in parte a causa della mancanza di una formazione accademica. Zdanevich ha fatto risalire la propria storia a Tbilisi, dove la sua casa editrice, denominata “41 gradi” in riferimento alla latitudine condivisa da Tbilisi con Roma, Madrid, New York e altre città, aveva promosso un linguaggio poetico futurista noto come “ZAUM”. Dopo l’arrivo a Parigi nel 1921, adottò il nome Iliazd e diede vita a diverse opere significative, tra cui Maximiliana, che attraversa quattro paesi e tre lingue, unendo poesia e astronomia per mettere in evidenza l’esperienza degli esiliati, dal punto di vista fisico e metafisico. La mostra, ospitata a palazzo Palumbo Fossati, presenta Maximiliana accanto a materiali provenienti dall’archivio di Iliazd, che documentano il suo viaggio a Venezia e Marsiglia, intrapreso per recuperare la biografia di Tempel.

PARTECIPAZIONI NAZIONALI

La curatrice Julia Marchand (Francia) e il curatore di ricerca associato David Koroshinadze (Georgia) hanno concepito un concetto innovativo per un archivio vivente, incoraggiando il pubblico a immergersi nell’affascinante storia della biografia di Tempel, trasmessa dagli amici attraverso la tipografia e la pittura. I francesi Rodrigue de Ferluc e Juliette George hanno creato mobili unici ispirati alla tipografia di Iliazd in Maximiliana, stabilendo così un’identità visiva e spaziale distintiva per la mostra. Il georgiano Nika Koplatadze ha reinterpretato Maximiliana attraverso una prospettiva artistica contemporanea, creando una serie di libri d’artista basati sulle sue interpretazioni delle mappe stellari. La videoproiezione di Grigol Nodia, In-between, trasporta gli spettatori in un viaggio meditativo alla ricerca di un ritmo innocente. I disegni e le lettere di Tempel, pure in mostra, offrono un contesto unico per comprendere la storia che sta dietro Maximiliana e il viaggio di Iliazd. Julia Marchand


The Art of Seeing – States of Astronomy

Nika Koplatadze, Conjunction, 2021. Tela con cemento e sabbia, pigmenti, carta metallica, vernice metallica, collage, 28 × 32,5 × 4,5 cm. Photo George Shioshvili. Courtesy l’Artista.

STRANIERI OVUNQUE

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Fabien Chaminade, Study for a constellation of stargazers, 2024. Composizione digitale basata su materiali d’archivio. Courtesy l’Artista.


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Germania

Commissario Ellen Strittmatter, ifa – Institut für Auslands­ beziehungen

Assistenza Adi Nachmann (Yael Bartana) Lorenz Stöger (Ersan Mondtag)

Curatrice Çağla Ilk

Assistenza alla produzione Dmitry Ryabkov

Artisti Yael Bartana Ersan Mondtag Michael Akstaller Nicole L’Huillier Robert Lippok Jan St. Werner Cronache Doreet Le Vitte Harten Louis Chude­Sokei Georgi Gospodinov Drammaturgia Ludwig Haugk Assistente del curatore Sandeep Sodhi Commissario aggiunto Dorothea Grassmann Responsabile di progetto Friederike Klussmann (ifa) Comunicazione Henriette Sölter, Miriam Kahrmann (ifa) Contabilità Tanja Spiess (ifa)

BIENNALE ARTE

2024

Composizioni musicali Dani Meir (Yael Bartana) Benedikt Brachtel (Ersan Mondtag) Gestione tecnica e supervisione architettonica Clemens F. Kusch Martin Weigert Realizzazione ifa – Institut für Auslands­ beziehungen In cooperazione con Ministero Federale degli Affari Esteri della Germania Partner German Savings Banks Association ifa Freunde des Deutschen Pavillons / Biennale Venedig e.V. Ministero della Scienza, della Ricerca e delle Arti del Land Baden­ Württemberg Dipartimento del Senato per la Cultura e la Coesione Sociale Berlino

Thresholds rappresenta il presente come luogo in cui nessuno può restare e che esiste soltanto perché una cosa è già accaduta mentre un’altra è ancora in attesa. Per le persone le cui vite sono caratterizzate dalla migrazione, la percezione temporale del presente come soglia tra retrospettiva e prospettiva futura si accompagna alla fondamentale esperienza spaziale e fisica di vivere all’intersezione di diverse appartenenze. Con il titolo Thresholds, il contributo tedesco esplora la storia e il futuro in tre scenari: Nel primo scenario, Yael Bartana varca la soglia di un presente percepito come catastrofico; un mondo sull’orlo della distruzione totale. Alla ricerca di una via d’uscita, l’artista immagina le possibilità per la sopravvivenza futura attraverso una sfaccettata serie di opere in bilico tra distopia e utopia. Nel suo lavoro per il padiglione tedesco, Bartana costruisce storie alternative che consentono futuri condivisi e immaginati. Nel secondo scenario, il regista d’opera e teatro Ersan Mondtag crea un cosmo teatrale di rappresentazione e ricordo con una narrazione frammentaria e apparentemente minore. Per il suo lavoro, Mondtag utilizza suono e performance unite all’architettura per aprire finestre sui decenni passati. La narrazione generale dell’opera si basa sulla storia di suo nonno, giunto in Germania dalla Turchia negli anni Sessanta. Questa specifica storia di migrazione è un simbolo delle storie non raccontate di milioni di altre persone che hanno plasmato il dopoguerra. Mondtag apre così uno spazio per la storiografia dei gruppi sottorappresentati che continuano a ricevere poca attenzione all’interno di un discorso globale.

PARTECIPAZIONI NAZIONALI

In un terzo scenario, il contributo mira a costruire un ponte verso un altro luogo al di fuori dei Giardini: l’isola della Certosa. Uscendo dal padiglione, Thresholds si concentra sull’importanza del momento di transizione temporale e spaziale. Alla Certosa gli artisti Michael Akstaller, Nicole L’Huillier, Robert Lippok e Jan St. Werner creano uno spazio evocativo in un ambiente naturale che trascende i concetti di confine territoriale. Le loro opere contrastano con la monumentalità del padiglione tedesco e sottolineano l’idea del passaggio attraverso uno spazio di soglia. Çağla Ilk Ludwig Haugk Sandeep Sodhi


Thresholds

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STRANIERI OVUNQUE

Albero nelle rovine del chiostro agostiniano sull’isola della Certosa, Venezia. Photo Çağla Ilk.


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Gran Bretagna

Commissario Skinder Hundal, Direttore artistico globale, British Council Curatrice Tarini Malik Artista John Akomfrah Commissario aggiunto Miranda Stacey, Direttrice dei Programmi, Arti Visive, British Council Organizzazione The British Council Produzione Ashitey Akomfrah Lina Gopaul David Lawson Smoking Dogs Films Progetto di mostra Jessica Reynolds, vPPR Sponsor principale Burberry Partner di gestione Lisson Gallery Fundación TBA21 Con il supporto di LG Oled Frieze Christie’s Art Fund Ford Foundation Partner digitale Bloomberg Philanthropies

BIENNALE ARTE

2024

Un ringraziamento speciale a Aarti Lohia Shane Akeroyd Benefattore Luma Foundation Fondatori Glenn Earle Robert A. Seder & Deborah Harmon Westridge Foundation Committenti The John Browne Charitable Trust Lizbeth & George Krupp David & Sophie Ziyambi Con la gentile assistenza di Venice Patrons Board, i nostri Patrons e i sostenitori associati Ambassador Circle, Global Circle e UK Circle e coloro che desiderano rimanere anonimi La produzione della mostra è stata gentilmente sostenuta da LG Oled UniFor Kvadrat ArtAV

Vi è un’acqua che dorme al fondo di ogni memoria. Gaston Bachelard, La poetica della rêverie John Akomfrah, artista e cineasta, con il suo lavoro indaga sulla memoria, l’ingiustizia razziale, le esperienze delle diaspore dei migranti e il cambiamento climatico. L’incarico di Akomfrah per il padiglione britannico 2024, dal titolo Listening All Night To The Rain, interpreta il tessuto dell’edificio per sovvertire e interrogare le reliquie e i monumenti della storia coloniale. Listening All Night To The Rain conferma l’interesse dell’artista per i temi legati a post-colonialismo, ecologia e politica dell’estetica con una rinnovata attenzione all’azione dell’ascolto e al suono. La mostra è pensata come un manifesto che incoraggia l’idea dell’ascolto come attivismo e pone in essere alcune teorie progressiste dell’acustemologia, ossia come nuovi modi di divenire sono radicati in differenti forme di ascolto. Concepita come un’unica installazione con otto opere multimedia, interconnesse e sovrapposte, basate sul suono e sul tempo e organizzate in movimenti simili a canzoni o “canti”, la mostra di Akomfrah utilizza i corpi d’acqua come motivo centrale per formare un tessuto connettivo che tiene insieme le numerose e stratificate narrazioni visive e sonore. Attraverso rappresentazioni di nebbia e foschia, acqua ferma e corrente, ruscelli, fiumi, inondazioni e pioggia, l’immaginario e la firma dell’acquatico si insinuano in ogni fotogramma e nota dell’opera. Insieme al suono, Akomfrah indaga il ruolo dell’acqua nella comprensione del nostro mondo e nella conservazione della memoria.

PARTECIPAZIONI NAZIONALI

Di struttura aperta, la mostra riflette il costante interesse dell’artista per le forme non lineari di narrazione e collage. Lavorando con materiale filmato di recente in località di tutto il mondo, con un mix di archivi che da decenni caratterizzano la ricerca di Akomfrah e nuove fonti materiali, questo incarico ricolloca il ruolo dell’arte nella sua capacità di scrivere la storia in modi inattesi. A titolo di esempio, Akomfrah traccia un parallelo tra i retaggi della brutalità della polizia nel nord dell’Inghilterra, gli effetti devastanti del cambiamento climatico in Asia meridionale e in Sudamerica e i movimenti di liberazione nell’Africa occidentale. La mostra esplora i vari modi in cui l’affrontare e collegare vaste narrazioni storiche nei cinque continenti può poi riflettersi nelle esperienze delle persone diasporiche in Gran Bretagna. Tarini Malik


Listening All Night To The Rain

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John Akomfrah, Listening All Night To The Rain, 2024. Still da video. Courtesy Smoking Dogs Films e Lisson Gallery. © Smoking Dogs Films.

John Akomfrah, Listening All Night To The Rain, 2024. Still da video. Courtesy Smoking Dogs Films e Lisson Gallery. © Smoking Dogs Films.

STRANIERI OVUNQUE

John Akomfrah, Listening All Night To The Rain, 2024. Still da video. Courtesy Smoking Dogs Films e Lisson Gallery. © Smoking Dogs Films.


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Grecia

Commissario EMΣΤ | National Museum of Contemporary Art, Athens, Katerina Gregos, Direttrice artistica Curatore Panos Giannikopoulos Artisti Thanasis Deligiannis Yannis Michalopoulos Elia Kalogianni Yorgos Kyvernitis Kostas Chaikalis Fotis Sagonas Collaboratori Athina Ioannou, Direttrice amministrativa e finanziaria EMΣΤ | National Museum of Contemporary Art Yannis Arvanitis, Responsabile di produzione del padiglione greco, ΕΜΣΤ | National Museum of Contemporary Art Con il supporto di Ministero della Cultura della Repubblica ellenica

BIENNALE ARTE

2024

Xirómero/Dryland è un’installazione audiovisiva ibrida, frutto di un lavoro artistico collettivo. Il team creativo del progetto è composto da artisti e teorici, mentre il lavoro presentato comprende frammenti di ricerca, performance, sequenze sonore e installazioni video. Utilizzando l’acqua come punto focale, Xirómero/Dryland indaga il potenziale politico del suono e della musica, nonché l’impatto della tecnologia sui paesaggi rurali e sulla diversità culturale. Gli artisti esplorano l’esperienza di una fiera di provincia (panegyri), seguendone il corso e i movimenti dalla piazza del villaggio fino al territorio circostante. Il lavoro attinge alle tradizioni locali della Grecia centrale e della regione di Xirómero, che dà anche il titolo al progetto. Tra il rituale e l’intrattenimento, queste feste popolari locali trasmettono informazioni sulle attività agricole, definiscono il tempo e generano – venendone generate a loro volta – la temporalità interna della comunità durante i periodi di semina, irrigazione o raccolta. Producono significato, creano forme e aiutano la comunità a forgiare la propria immagine. Allo stesso tempo, però, concetti antitetici si ripiegano costantemente l’uno sull’altro: gli spettatori si trasformano in partecipanti, la scena nel fuori scena, la performance nell’attività quotidiana.

PARTECIPAZIONI NAZIONALI

Questo gioco incessante tra performance e realtà viene trasportato all’interno dell’opera. Xirómero/ Dryland sfrutta le caratteristiche architettoniche del padiglione greco per suggerire dei collegamenti tra le strutture di stoccaggio e l’architettura religiosa. Inoltre, un’innaffiatrice semiautomatica trasportata dalla Grecia e integrata in un’installazione video, sonora e luminosa, porta lo spazio di incontro della comunità – la piazza, l’assemblea pubblica – dall’esterno all’interno. Via via che il sistema di irrigazione si apre, stabilisce un ritmo che delinea il tempo come un orologio o un nastro, che dirige i corpi e i punti di vista dei visitatori. Anche le relazioni di genere vengono analizzate: gli artisti esaminano le possibilità di rivelazione o di occultamento, di sessualizzazione o di santificazione del corpo femminile, ma anche la reversibilità dei ruoli e la dicotomia interpersonale tra il Sé e l’Altro, scandendo il gesto ambiguo del ritiro dalla celebrazione. Xirómero/Dryland si propone di mettere in relazione l’esperienza dei costumi locali con la condizione globale in cui le direttive estetiche cambiano, le tradizioni mutano, la vita rurale e la celebrazione assumono forme diverse, mentre le dimensioni politiche di questi processi rimangono un tema di indagine aperto.


Ξηρόμερο / Dryland

Xirómero/Dryland allestimento. Photo. © Yorgos Kyvernitis.

La macchina per l'irrigazione ARMATHA, ricerca artistica durante la Residenza Margaroni, offerto da Onassis Culture. Photo Pinelopi Gerasimou. © Onassis Culture.

STRANIERI OVUNQUE

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Xirómero/Dryland allestimento. Photo. © Yorgos Kyvernitis.


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Grenada

Commissario Susan Mains Curatore Daniele Radini Tedeschi Artisti Frederika Adam BREAKFAST Jason deCaires Taylor Antonello Diodato Guardigli (ADGART) Alma Fakhre Suelin Low Chew Tung Gabriele Maquignaz Lorenzo Marini Benaiah Matheson The Perceptive Group Nello Petrucci Collaboratori Bollani Feofeo Ivan Caccavale Luciano Carini Carlo Ciucchi Picchio Fiorangela Filippini Giorgio Gregorio Grasso Asher Mains Gina Marziale Silvana Mascioli Luca Ripamonti Michele Rosa Salvatore Scaramozzino Emilio Sgorbati Fedora Spinelli Giulia Rustichelli

BIENNALE ARTE

2024

Con il supporto di Judith e Timothy Adam Georgia Taylor Aguilar Isabelle Morley Richard Nixon di Hideaway apartments Nick Browne Grenada Arts Council Grenada Tourism Authority National Lottery Authority Grenada Grenada Enterprises Group Art and Soul Gallery Grenada Act: Art and Design Grenada Century 21 Grenada Insurance Consultants Grenada Ltd Laluna Boutique Hotels and Villas BREAKFAST McGuinness Foundation Venice Documentation Project The British Council The Tetley Exhibitions and Artist Development Curator The Tetley Creative Minds Art Students of T. A. Marryshow Community College Galleria Alfieri Galleria DuePuntoZero Contemply Start srl NCART Studio C di Luciano Carini

“Nessun uomo è un’isola, completo in se stesso; ogni uomo è un pezzo del continente, una parte del tutto [...]. La morte di qualsiasi uomo mi sminuisce, perché io sono parte dell’umanità. E dunque non chiedere mai per chi suona la campana: suona per te”: sono i versi del poeta John Donne che sintetizzano un’umanità legata da una trama di racconti, a tal punto che la morte di un uomo diventa lutto collettivo, comunitario. Come afferma Édouard Glissant nella Poetica della relazione: “Viaggiamo sulla superficie, su distese, tessendo strutture immaginarie e non riempiendo i vuoti di una scienza, ma piuttosto, man mano che procediamo, rimuovendo le scatole troppo ricolme per poter, alla fine, immaginare volumi sconfinati”. Nel Discours antillais, Glissant descrive i caraibici come un popolo non avente identità a radice unica bensì in continua trasformazione. È interessante notare, inoltre, che “discorso” deriva da “discurrō”, cioè “correre qua e là” e viceversa. Relazione e movimento implicherebbero quindi conoscenza, apertura all’altro e allo scambio reciproco, pur mantenendo fermo il diritto all’opacità, ossia alla propria singolarità ispirata a coesistenze e continue evoluzioni.

PARTECIPAZIONI NAZIONALI

In linea con tale pensiero appaiono le parole del curatore Adriano Pedrosa, sul tema dell’edizione 2024 Stranieri Ovunque, il cui titolo ha duplice senso: “Innanzitutto vuole intendere che ovunque si vada e ovunque ci si trovi si incontreranno sempre degli stranieri: sono/siamo dappertutto. In secondo luogo, che a prescindere dalla propria ubicazione, nel profondo si è sempre veramente stranieri”. L’estraneità di ognuno diviene comunità nel momento in cui si “pratica” la conoscenza – concetto contrapposto a quello di “avere” conoscenza – attraverso l’attenzione prestata alle relazioni tra le cose o semplicemente raccontando le loro storie nell’ambito di una reciproca “corrispondenza” (Tim Ingold), affinché comunità implichi un “darsi insieme”. No Man Is an Island abbraccerà, quindi, un percorso espositivo in cui la centralità della “relazione” sarà presupposto fondamentale per una crescita individuale e collettiva. Daniele Radini Tedeschi Asher Mains


No Man Is an Island STRANIERI OVUNQUE

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Jason deCaires Taylor, Alveopora Verrilliana (Extract from Vicissitudes), 2023. Cemento bio-ricettivo e vita marina, 160 × 40 × 25 cm. Courtesy l’Artista. © Jason deCaires Taylor.


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Santa Sede

Commissario Cardinale José Tolentino de Mendonça, Prefetto del Dicastero per la Cultura e l’Educazione della Santa Sede Curatori Chiara Parisi Bruno Racine Artisti Maurizio Cattelan Bintou Dembélé Simone Fattal Claire Fontaine Sonia Gomes Corita Kent Marco Perego & Zoe Saldana Claire Tabouret Conversazioni Hans Ulrich Obrist Progetto di allestimento COR arquitectos & Flavia Chiavaroli Produzione COR arquitectos & Flavia Chiavaroli Organizzazione Dicastero per la Cultura e l’Educazione della Santa Sede Coordinamento Cristiano Grisogoni

BIENNALE ARTE

2024

Il padiglione della Santa Sede si presenta come una realtà inedita e senza precedenti per La Biennale di Venezia, grazie all’apertura fisica e concettuale della Casa di Reclusione Femminile di Venezia alla Giudecca, dove si parlerà di arte, di poesia, di umanità e del prendersi cura. Con i miei occhi, il titolo del padiglione della Santa Sede, è tratto da un frammento di poesia che riprende un antico testo sacro e una poesia elisabettiana. “Non ti amo con i miei occhi” (Shakespeare, Sonetto 141) risuona con i versetti 42.5 del Libro di Giobbe “I miei occhi ti hanno veduto”. Una dissolvenza incrociata, che sfuma in un’azione dove il vedere è sinonimo di toccare con lo sguardo, di abbracciare con l’occhio, di far dialogare la vista e la percezione. Il padiglione, collettivo di artisti, diventa un terreno di trasformazione dove fare un’esperienza personale d’incontro e invita al significato della parola care attraverso l’arte, con progetti pragmatici che si intrecciano con la creatività di mondi solitamente paralleli, stranieri l’uno all’altro, mai convergenti. L’universo esterno si apre all’isolamento carcerario per un incontro carico di possibili sinergie, dove l’arte si manifesta attraverso gesti tangibili e visioni condivise che, seppur per un istante limitato, respirano la stessa aria, di un tempo senza ora.

PARTECIPAZIONI NAZIONALI

Il tempo che resta. Il progetto si distingue per la convivenza di un insieme, una comunità artistica che nasce sfidando le convenzioni. Un’entità nuova che riflette la diversità e l’unità di vite lontane in cui i nomi degli artisti si uniscono con quelli delle partecipanti detenute attraverso l’uso dei loro veri nomi, di pseudonimi, di eteronimi, di nomi d’arte… una costellazione di menti creative, formata in maniera istintiva con il desiderio di collaborare. Ogni iniziativa, dai workshop alle installazioni, dalla danza al cinema, dalla performance alla pittura, è espressione di questa energia condivisa, in linea con l’urgenza del dialogo poliedrico proposto da papa Francesco. Le visite al padiglione, su prenotazione, condotte dalle detenute-conferenziere, sfidano il desiderio di voyeurismo e di giudizio verso artisti e detenute stesse, erodendo i confini tra osservatore e osservato, giudicante e giudicato, per riflettere anche sulle strutture di potere nell’arte e nelle istituzioni. Ecco la nascita di un cosmo con storie e voci diverse, tessute in un poetico arazzo.


Con i miei occhi

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STRANIERI OVUNQUE

Casa di Reclusione Femminile alla Giudecca, Venezia. Photo Marco Perego.


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Ungheria

Commissario Julia Fabényi Curatrice Róna Kopeczky Artista Márton Nemes Organizzazione Ludwig Museum – Museum of Contemporary Art, Budapest Graphic Design Dániel Kozma Coordinamento del progetto Géza Boros Anna Bálványos Zsigmond Lakó Responsabile tecnico Béla Bodor Con il supporto di Ministero ungherese della Cultura e dell’Innovazione

BIENNALE ARTE

2024

Il lavoro di Márton Nemes è fortemente influenzato dalle sottoculture techno; l’esplosione e la riorganizzazione del campo pittorico conferiscono un carattere psichedelico distintivo ai suoi dipinti, che si estendono in ambiti astratti ed evocano l’atmosfera visiva e l’illuminazione delle discoteche. I suoi dipinti e le sue installazioni multimediali combinano elementi pittorici e scultorei creando una dinamica spaziale ipnotica che porta lo spettatore dalla durezza del mondo reale in un campo di colori fluidi, vertiginosi e fluorescenti. Techno Zen è stato concepito da Nemes come un ambiente immersivo, una Gesamtkunstwerk (opera d’arte totale) basata sulla pittura, che evidenzia l’espansione del genere pittorico, la sua estensione ad altri media e il superamento dei suoi confini nella pratica recente dell’artista. Nelle sue opere precedenti, Nemes si è avvicinato alla cultura rave da una prospettiva escapista e ha formulato l’idea di liberarsi da situazioni depressive e senza speranza con i mezzi visivi. L’ensemble esposto nel padiglione segna una svolta: la sfida alla realtà è sostituita da un’esperienza trascendentale e la vibrazione della techno si trasforma in una risonanza zen.

PARTECIPAZIONI NAZIONALI

Il termine techno si riferisce anche a techné e arte tecnologica; la fusione di tecnologie e materiali industriali con un approccio più convenzionale si svolge come un oggetto pittorico, un’installazione o un ambiente pittorico in movimento. Acciaio tagliato al laser, vernice per auto, lamiera smaltata, proiezione, luci DMX, altoparlanti e ventilatori colorati sono gli strumenti che Nemes integra nella sua pratica per reinterpretare la tavolozza della pittura. Così facendo, l’ambiente che crea diventa multisensoriale: il suo contenuto ottico, acustico e tattile si svolge attraverso gli effetti combinati di luce, colore, movimento e suono. Il progetto è strutturato in tre parti principali e gruppi di opere, destinati a essere pienamente compresi, percepiti e vissuti quando il visitatore si trova al centro dello spazio, il cortile che collega gli spazi di sinistra, destra, fronte e retro. Questa posizione – essere al centro – è sia fisica sia ontologica, ma ha anche un significato simbolico. In un’epoca di fenomeni sociali estremamente polarizzati in cui le sfumature mancano o ne sono escluse, il progetto trasmette un messaggio umanistico di cui, pur nella sua semplicità, dovremmo continuare a ricordarci. Róna Kopeczky


Techno Zen STRANIERI OVUNQUE

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Márton Nemes, Techno Zen, 2024. Visualizzazione 3D dell’installazione di Bernadett Tóth. Courtesy l’Artista.


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Islanda

Commissario Auður Jörundsdóttir, Icelandic Art Center Curatore Dan Byers Artista Hildigunnur Birgisdóttir Coordinamento progetto Þórhildur Tinna Sigurðardóttir Responsabile di produzione Á. Birna Björnsdóttir Graphic Design Hrefna Sigurðardóttir Finanziato da Ministero della Cultura e degli Affari Economici Con il supporto di Business Iceland National Gallery of Iceland i8 Gallery

BIENNALE ARTE

2024

Due piccole sculture in plastica, una ricavata dal pannello di controllo di una stampante domestica e l’altra dal pannello di un frigorifero, lampeggiano senza sosta, entrando e uscendo di sincronia. Si tratta del tipo di lampeggiamenti che segnalano un inceppamento della carta. O una porta lasciata aperta. Qualcosa di cui bisogna occuparsi. Invadenti messaggi che i nostri prodotti non ci permettono di ignorare. Talvolta una scultura emette il breve ronzio della vibrazione di un cellulare, quel piccolo brivido familiare fatto d’ansia e di dopamina. Minuscole luci LED e il ronzio prodotto dalla trasmissione di messaggi silenziosi evidenziano come il nostro mondo di oggetti prodotti in serie, costruiti per l’obsolescenza, si leghi a noi – e noi a esso – con poteri quasi telepatici. Birgisdóttir individua il carisma negli oggetti che esistono a causa di miriadi di limitazioni materiali, decisioni estetiche, desideri, aspettative sociali, errori, accordi, condizioni di produzione, codici morali, e la sfrenata successione di comportamenti ed eventi che li hanno preceduti. Da tale carisma distilla le sue opere, sposando le capacità e le culture dei produttori, dei fabbricanti e delle aziende commerciali, che confluiscono nel suo processo artistico. I suoi lavori sono permeati della vita sociale di queste interazioni.

PARTECIPAZIONI NAZIONALI

Un colore uniforme e saturo ricopre le superfici di giochi ingranditi a scala umana, che descrivono un peso, un ingombro liscio e muto. Le pareti presentano le sculture come farebbero gli ambasciatori del marchio in una fiera commerciale. Oggetti didattici. Progettati per trasmettere solo le informazioni necessarie a comunicare la loro funzione. Una lezione di montaggio. Di astrazione. Di produzione di desiderio. Una galleria contenitore piena di appropriazioni sfacciate dei materiali, dei prodotti e del linguaggio della produzione di massa. Generano piacere – persino meraviglia – per la loro leggerezza, la loro splendida assurdità. E al contempo sollevano strati di realtà e di significato assodati, aprendo spazi talvolta scomodi di interrogativi filosofici e politici. Spazi di tensione tra le fantasticherie personali di ciascuno nel mondo delle cose e la complessità collettiva e le conseguenze di milioni di tali mondi di cose. Manipolate e ammiccanti, queste realtà simultanee si manifestano tra opere che richiamano l’attenzione su oggetti che il più delle volte esistono alla periferia della nostra visione e del nostro pensiero.


That’s a Very Large Number — A Commerzbau

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Particolare dal Commerzbau That’s a Very Large Number di Hildigunnur Birgisdóttir, 2024. Photo Vigfús Birgisson.

STRANIERI OVUNQUE

Hildigunnur Birgisdóttir, That’s a Very Large Number, 2024. Stampa a pigmenti d’archivio su carta di cotone e adesivo. Photo Vigfús Birgisson.


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Repubblica Islamica dell’Iran

Commissario Mohammad Khorasanizadeh Curatori Amir Abdolhoseini Shoaib Hoseini Moghadam Artisti Abdolhamid Ghadirian Gholamali Taheri Kazem Chalipa Morteza Asadi Mostafa Goudarzi Organizzazione Il Ministero della Cultura e della Guida Islamica Ufficio del Vicepresidente degli affari artistici Ufficio generale del Dipartimento di Arti Visive The Tehran Museum of Contemporary Art Uffico arti visive Hozeh Honari della Rivoluzione islamica

BIENNALE ARTE

2024

In quanto esseri umani, discendiamo tutti da Adamo ed Eva; poiché condividiamo una radice comune e un legame familiare, siamo considerati fratelli e sorelle. Condividiamo gioie e dolori; il dispiacere, il dolore e l’oppressione affrontati da qualsiasi nazione ci procurano amarezza, e il successo e la felicità di qualsiasi nazione, a patto che non violino i diritti altrui, portano gioia a tutti. Nelle parole del poeta iraniano Saadi Shirazi: Di un’unica Essenza è fatta la stirpe umana, Così come fu stabilito alla Creazione; Basta colpire un Arto, Perché tutti gli altri sentano il Randello Il tema Stranieri ovunque ci ha fornito una piattaforma appropriata per scegliere come titolo per la nostra mostra Di un’unica essenza è fatta la stirpe umana, per ricordarci che l’arte ha un valore superiore, in quanto riconosce la dignità degli individui, rappresenta vividamente la giustizia, l’integrità e l’equità e non ignora facilmente l’amarezza degli altri esseri umani. L’istituzione di confini giuridici tra le nazioni ha portato a classificare alcuni come cittadini e altri come stranieri, una riflessione che non nega tuttavia l’importanza delle frontiere per garantire la sicurezza. Immaginiamo adesso di abbattere le barriere che ci separano gli uni dagli altri e persino dalla nostra stessa esistenza, utilizzando gli strumenti dell’arte e aprendo le porte a tutti. Il momento in cui qualcuno deciderà di superare questi limiti autoimposti sarà indubbiamente un momento di sensibilità, di coraggio e di magnificenza, proprio come il superamento del dubbio e della paura trasforma gli individui in eroi delle proprie storie di vita.

PARTECIPAZIONI NAZIONALI

Abbiamo cercato di superare i confini e di invitare gli spettatori a testimoniare l’unità dell’umanità attraverso allestimenti che collocano il pubblico in contesti diversi, oppure usando la tecnologia della realtà virtuale, che sfida i confini fisici, e talora attraverso opere d’arte visiva che esprimono creativamente nuove narrazioni su questo tema. Tutto ciò rappresenta tuttavia solo una piccola parte dell’arte degli iraniani che hanno infranto confini e muri, trasmettendo il messaggio degli eredi della loro civiltà di ottomila anni fa, seduti sulle mura dell’antica Venezia. Arriverà il giorno in cui questi confini irreali crolleranno e tutti gli esseri umani diventeranno un’unica nazione. Mohammad Khorasanizadeh


Of One Essence Is the Human Race

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Kazem Chalipa, The house which has one door and two windows, 2024. Olio su tela. © Nam Art and Culture Organization.

Mostafa Goudarzi, He is a martyr who is carried by a martyr, 2024. Olio su tela. © Nam Art and Culture Organization.

STRANIERI OVUNQUE

Abdolhamid Ghadirian, May God bless your martyred son, 2024. Olio su tela. © Nam Art and Culture Organization.


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Irlanda

Commissario Culture Ireland Curatori Sara Greavu Project Arts Centre Artista Eimear Walshe Ireland at Venice è una partnership tra Culture Ireland and the Arts Council Ireland / An Chomhairle Ealaíon. Con il supporto principale di Dublin City Council for Ireland at Venice 2024 Collaborazioni artistiche Amanda Feery (composizione musicale) Mufutau Yusuf (coreografo principale, interprete, telecamera, co-regia) Lisa Godson (consulente per la ricerca) Amie Egan (costumi) Faolán Carey (fotografo di produzione) Ghaliah Conroy (interprete, riprese, co-regia) Ailbhe W. Drohan (interprete, riprese, co-regia) Ethan Soost (interprete, riprese, co-regia) Cillian Byrne (interprete, riprese, co-regia) Rima Baransi (interprete, riprese, co-regia) Kieran Ferris (responsabile della costruzione del set) Andreas Kindler von Knobloch (modellazione architettonica) Alex Synge (The First 47 – designer)

Con il supporto di Dublin Port Company The National Museum of Ireland Longford County Council The Limerick School of Art and Design Dún Laoghaire Institute of Art Design and Technology (IADT) The UCD School of Art History Ambasciata dell’Irlanda in Italia Ireland Invites e i nostri patron e donatori: Keith & Yvonne Browne Peter Crowley Anne Devlin & Paul Gannon Gerard & Monica Flood Emma & Fred Goltz Helen Kinsella Adrian & Jennifer O’Carroll Louise Church Paul & Liz Duggan Niall Ennis Kathy Gilfillan Simone Janssens Anne Kennedy Lochlann Quinn Dave Raethorne Odette Rocha Richard Whelan

ROMANTIC IRELAND si compone di un’installazione video multicanale e di una colonna sonora operistica all’interno di una scultura immersiva. Ambientato nel sito di una costruzione in terra cruda incompiuta, il video mette in scena incontri drammatici e leziosi tra personaggi archetipici dal XIX al XXI secolo, che occupano una rovina astratta, un sito in costruzione e demolizione simultanea. La colonna sonora del padiglione è un’opera a cinque voci che descrive la scena di uno sfratto, composta da Amanda Feery su libretto di Eimear Walshe. Il lavoro di Walshe ripercorre l’eredità della contestazione fondiaria di fine Ottocento in Irlanda. Il suo progetto per Venezia indaga la complessa politica della costruzione collettiva attraverso la tradizione irlandese del meitheal: una comunità di lavoratori, vicini, parenti e affini che si riuniscono per costruire, effettuare il raccolto e aiutarsi. Nel video si vede un impegno frenetico e intenso nell’antica pratica ad alta intensità di lavoro della costruzione in terra cruda, una forma edilizia con una storia di undicimila anni praticata localmente in tutto il mondo. Il video è stato girato in loco presso il centro di competenze per la sostenibilità Common Knowledge, sulla costa occidentale dell’Irlanda. Guidati dal coreografo Mufutau Yusuf, sette interpreti, tra cui l’artista, mettono in scena personaggi per coppie storiche in crisi costante. Il tutto è stato filmato con quattro telefoni cellulari passati da attore ad attore, dissolvendo la tradizionale distinzione tra regista, interprete e responsabile delle riprese.

Collaboratori Common Knowledge (partner di produzione) Drop Everything (partner dell’evento di promozione) eo/a – architects (partner di costruzione)

BIENNALE ARTE

2024

PARTECIPAZIONI NAZIONALI

Realizzata nel quadro della crisi abitativa in corso in Irlanda, l’installazione diventa, a seconda dei casi, un cantiere di possibilità, un’arena per gli antagonismi generazionali e di classe del Paese, uno spazio di tenera cura, una struttura che la morte sociale rappresentata dallo sfratto ha reso una fredda rovina. La mostra impone l’incontro tra momenti storici, di cui evidenzia le dinamiche di potere e i registri affettivi paralleli; le forme di lavoro, di conflitto e di piacere; il groviglio di storie di sessualità, proprietà e Stato.


ROMANTIC IRELAND STRANIERI OVUNQUE

81 Eimear Walshe, ROMANTIC IRELAND, 2023. Photo © Faolán Carey.

Eimear Walshe, ROMANTIC IRELAND, 2023. Photo © Faolán Carey.


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Israele

Commissari Michael Gov Arad Turgeman Curatrici Mira Lapidot Tamar Margalit Artista Ruth Patir Organizzazione Ministero della Cultura e dello Sport di Israele Ministero degli Affari Esteri di Israele Con il supporto speciale di Israel Antiquities Authority Tel Aviv Museum of Art CCA Tel Aviv-Yafo Con il supporto di The Israel Lottery Council for Culture & Arts Daniel Howard Foundation Elital e Jason Arison Jan Fischer Artis Bruce e Ruth Rappaport Foundation Ghila e Zvi Limon The Philip & Muriel Berman Foundation Albi Braverman Gallery: Adi Gura e Yaffa Braverman Daniella e Alma Luxembourg Tova e Sami Sagol Wix

BIENNALE ARTE

2024

In video che intrecciano documentario e animazione 3D, Ruth Patir esplora le proprie esperienze personali. Con una diagnosi di mutazione del gene BRCA2, che comporta un alto rischio di ammalarsi di cancro al seno e alle ovaie, l’artista, trentenne, deve affrontare la realtà: i suoi organi riproduttivi – di solito pensati quali fonte di vita e di piacere – sono autodistruttivi. Patir viene innanzitutto spinta a congelare gli ovuli per una futura gravidanza, attraverso trattamenti tanto dolorosi quanto impegnativi per la preservazione della fertilità, in Israele notoriamente coperti dallo Stato. Per quanto chiaramente privilegiata, Patir prova un risentimento crescente verso le ingerenze dello Stato in decisioni tanto personali. Ha mai realmente desiderato essere madre? In una società che è ossessionata dalla demografia, esiste davvero l’opzione di non avere figli? In precedenza, Patir aveva animato le “narrazioni ereditate” di manufatti archeologici, rimanendo affascinata da alcune figurine femminili risalenti all’800-600 AEC, molto diffuse nell’antico Levante. Sebbene queste statuette – grandi come il palmo di una mano e in posa con le braccia conserte sotto un seno prosperoso – siano state dissotterrate in grandi quantità, la loro funzione rimane sconosciuta e oggetto di dibattito tra i ricercatori: ritratti di dee, offerte votive, amuleti protettivi, o addirittura oggetti erotici. Il fatto che queste statuette fossero prodotte in massa e che siano state ritrovate in siti residenziali invece che in luoghi di culto suggerisce, però, che fossero usate comunemente in ambito domestico, manifestazione delle speranze e delle ansie di donne vissute tre millenni fa.

PARTECIPAZIONI NAZIONALI

In (M)otherland Patir utilizza queste statuette come avatar nella sua odissea personale. Mentre si fa strada tra le indegnità di una struttura sanitaria dominata dagli uomini, documenta il travaglio invisibile e il dolore associato alle sue procedure. Donne dimenticate di una civiltà passata, le statuette di (M)otherland ci raggiungono attraverso il tempo, resti silenziosi di antiche guerre e spargimenti di sangue. Evocano l’esperienza composita della femminilità, della frattura e del dolore, resa ancora più acuta di fronte alle devastazioni della guerra che dilania la regione. Mira Lapidot Tamar Margalit


(M)otherland Ruth Patir, Petah Tikva (Waiting), 2024. Still da video.

Ruth Patir, Motherland, 2024. Still da video.

STRANIERI OVUNQUE

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Ruth Patir, Intake, 2024. Still da video.


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Italia

Ministero della Cultura

Direzione Generale Creatività Contemporanea

Padiglione Italia Due qui / To Hear

Ministro della Cultura Gennaro Sangiuliano

Direttore Generale Angelo Piero Cappello

Commissario Angelo Piero Cappello

Progetto esecutivo Riccardo Rossi

Sottosegretari di Stato Lucia Borgonzoni Gianmarco Mazzi

Dirigente Servizio I Imprese culturali e creative, moda e design Maria Luisa Amante

Curatore Luca Cerizza

Progettazione e allestimento Yari Andrea Mazza

Segretario Generale Mario Turetta Capo di Gabinetto Francesco Gilioli Capo Ufficio stampa e comunicazione Andrea Petrella

Dirigente Servizio II – Arte contemporanea Fabio De Chirico Dirigente Servizio IV – Periferie e rigenerazione urbana Maria Vittoria Marini Clarelli Coordinamento generale Luciano Antonino Scuderi Coordinamento tecnico Matteo Piccioni Coordinamento tecnico Personale di supporto Valentina Fiore Segreteria Roberta Gaglione Segreteria - Personale di supporto Edoardo Cedrone Antonella Lucarelli Claudia Vitiello Amministrazione Graziella D’Urso Comunicazione e ufficio stampa Silvia Barbarotta Francesca Galasso

Artista Massimo Bartolini In collaborazione con Caterina Barbieri Gavin Bryars Kali Malone Con la partecipazione al Public program di Nicoletta Costa e Tiziano Scarpa Assistente curatrice Francesca Verga Assistenza al curatore per Public program e Antologia Gaia Martino

2024

Luci Carlo Pallieri Rendering Martin Pividori Pubblicazioni Electa Timeo Traduzioni Johanna Bishop Teresa Albanese

Organizzazione generale e relazioni istituzionali Chiara Bordin

Documentazione video Matteo Frittelli per Alto/Piano

Segreteria organizzativa Anna Vercellotti

Documentazione fotografica Agostino Osio per Alto/Piano Matteo de Mayda

Strategia di comunicazione e social media Alpha Bravo Charlie Carlotta Poli Ufficio stampa Lara Facco P&C Lara Facco Marianita Santarossa Andrea Gardenghi Direzione creativa e graphic design Studio Folder Marco Ferrari ed Elisa Pasqual con Giulia Tomasi Anna Magni Gresi Balliu

BIENNALE ARTE

Organari Massimo Drovandi Samuele Frangioni Samuele Maffucci Valerio Marrucci

PARTECIPAZIONI NAZIONALI

Produzione La Biennale di Venezia


Due qui / To Hear STRANIERI OVUNQUE

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Disegno preparatorio di Massimo Bartolini per Pensive Bodhisattva on A Flat, 2024. Photo Lorenzo Lessi.


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La Biennale di Venezia è una delle istituzioni culturali più prestigiose dell’Italia contemporanea e rappresenta fin dalla sua nascita, nel 1895, un palcoscenico internazionale d’avanguardia per la promozione delle nuove tendenze artistiche. Quel “sogno di Bellezza infinito”, come ebbe a definirlo Gabriele d’Annunzio in chiusura della prima edizione di questa esposizione d’arte a Venezia, costituisce ancora oggi un appuntamento di confronto imperdibile per il mondo della cultura ed è l’occasione per artisti, curatori, critici e appassionati di arte di conoscersi e condividere idee. È inoltre un’opportunità unica, per i Paesi partecipanti, di presentare la loro proposta culturale al resto del mondo e di creare relazioni profonde e durevoli. Perché la cultura è, senza alcun dubbio, il più importante strumento di dialogo e di diplomazia che un Paese come il nostro possegga e contribuisce alla costruzione di “ponti” tra le nazioni, promuovendo la pace e la comprensione tra i popoli. E non è un caso che questa manifestazione si svolga in Italia, in una città unica al mondo come Venezia. La cultura è un elemento imprescindibile dell’identità nazionale italiana e rappresenta un patrimonio materiale e immateriale cui attingere per affrontare le sfide della contemporaneità. L’Italia, con la sua lunga tradizione di diplomazia culturale che affonda radici nel Rinascimento di Ludovico Ariosto, ha un ruolo fondamentale sulla scena internazionale, non solo grazie al suo straordinario

BIENNALE ARTE

2024

PARTECIPAZIONI NAZIONALI

patrimonio storico-artistico, ma anche grazie alla creatività dei suoi artisti, architetti, designer, artigiani e di tutti i protagonisti del proscenio culturale del contemporaneo. La promozione culturale è parte essenziale della politica estera del nostro Paese e costituisce uno dei principali strumenti di visibilità globale, sostenuta anche dalla centralità dell’Italia nelle dinamiche inerenti alla cooperazione culturale. Per promuovere la creatività italiana nel contesto internazionale, la Direzione Generale Creatività Contemporanea del Ministero della Cultura organizza e sostiene la partecipazione italiana alla Biennale Arte: per questa edizione il Padiglione Italia è curato da Luca Cerizza con il progetto Due qui / To Hear di Massimo Bartolini, che include interventi di altri creativi nell’ottica di una pratica collaborativa e multidisciplinare. Il titolo esplicita già in sé ciò che sta alla base del percorso espositivo, ovvero la riflessione di come, insieme, l’incontro e l’ascolto attivo ci aiutino a sviluppare una maggiore consapevolezza della diversità e della complessità del mondo che ci circonda. Angelo Piero Cappello Commissario del Padiglione Italia Direttore Generale Creatività Contemporanea del Ministero della Cultura


Due qui / To Hear

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STRANIERI OVUNQUE

Disegno preparatorio di Massimo Bartolini per Due qui e Conveyance, 2024. Photo Lorenzo Lessi.


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2024

PARTECIPAZIONI NAZIONALI

Disegno preparatorio di Massimo Bartolini per Audience for a Tree, 2024. Photo Lorenzo Lessi.


Luca Cerizza

STRANIERI OVUNQUE

Giocando sull’assonanza tra “Two here” (due qui) e “To hear” (ascoltare), il titolo del progetto suggerisce la natura eminentemente relazionale del suono. Il paradigma acustico va qui inteso come esperienza fisica ma anche come metafora, invito all’attenzione, all’ascolto dell’altro, sia esso un essere umano, un elemento meccanico, una forma naturale. Se, per Bartolini, l’arte è un percorso di conoscenza, “prestare ascolto” è uno strumento per il miglioramento di se stessi nel mondo. Attraverso opere scultoree, installative, sonore e performative, in una varietà che è tipica della pratica dell’artista, il progetto delinea una modalità collaborativa e una situazione esperienziale. In un percorso a più entrate lo spettatore si muove in tre spazi modellati su diverse esperienze acustiche e momenti di incontro. Può entrare in una stanza quasi vuota ed è accolto dalla piccola scultura di un Pensive Bodhisattva, figura del buddismo che non agisce ma pensa. Il suono continuo di un drone prodotto da una canna d’organo definisce un tempo sospeso, un luogo di attesa. Nello spazio centrale un grande ponteggio di tubi Innocenti è trasformato in un organo che diffonde una melodia continua composta da Caterina Barbieri

e Kali Malone. Lo spettatore può attraversarlo e sostare su una seduta circolare. Al suo centro un’onda che pulsa costantemente è intesa a stimolare una forma di meditazione, se non di trance. Uscito da questo spazio intricato come un bosco, lo spettatore può passare al contesto più aperto del Giardino delle Vergini. Qui è accolto da una nuova suggestione acustica: un coro per tre voci, campane e vibrafono composto da Gavin Bryars insieme a suo figlio Yuri. Canta di un essere umano che si percepisce come un albero, di un rapporto osmotico con l’altro “come se tutte le cose nascessero da me / o come se io nascessi da tutte le cose”. Come per il Bodhisattva, un’apparente immobilità è, in verità, una forma più attenta di ascolto e di relazione.

Due qui / To Hear

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“L’esperienza si fonda sul donare e sul ricevere. Il suo medium è il tendere l’orecchio”. Byung-Chul Han, Vita contemplativa o dell’inazione, nottetempo, Milano 2023, p. 23


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Costa d’Avorio

Commissario Illa Ginette Donwahi Curatore Simon Njami Artisti Jems Robert Koko Bi Sadikou Oukpedjo François-Xavier Gbré Franck Abd-Bakar Fanny Marie Claire Messouma Manlanbien Organizzazione Ministero della Cultura e della Francofonia della Costa d’Avorio Françoise Remarck, Ministro Donwahi Foundation for Contemporary Art Altri collaboratori Amah Ayivi Jean-Servais Somian Youssef Khouly Fatoumata Tandjan N’Diaye Thierry Messou Josué Comoe Marie-Charles Piardon

BIENNALE ARTE

2024

It don’t mean a thing, if it ain’t got that swing. Duke Ellington La Costa d’Avorio è una parte dell’Africa, che a sua volta è una parte del mondo. Fin dall’indipendenza la sua identità non si è fondata sul ritrarsi in se stessa, ma su un panafricanismo acquisito e allargato, poiché una bandiera nazionale non dovrebbe essere ridotta a un’identità fissa. E anche se si tratta di ciò che si definisce una “rappresentazione nazionale”, la nozione più importante qui, in terra africana, non si riferisce a una rivendicazione politica e geografica, bensì alla sensibilità e all’espressione di un linguaggio comune. A Venezia, la lingua comune è l’arte, che ogni gruppo o individuo utilizza con accenti particolari, con forme idiomatiche impossibili da tradurre, ma che possono essere comprese nelle loro singolarità. Tale singolarità fa parte di una storia al contempo locale e globale, fluida e complessa. Gli africani deportati nelle Americhe e altrove si sono disperati quando hanno capito che la strada del ritorno era loro preclusa per sempre? Che avrebbero dovuto sopravvivere in una terra ostile? Forse. Alcuni sono morti. Ma altri hanno resistito. Hanno trasformato la disperazione in una forma di resilienza assoluta. Hanno trovato un appiglio per la patria perduta inventando la blue note. Quella nota era uno strumento indispensabile per gente privata di tutto, compresa l’identità, ma naturalmente di primo acchito gli specialisti europei l’hanno descritta come una forma di “anomalia”.

PARTECIPAZIONI NAZIONALI

Questa presunta anomalia, tuttavia, ha creato il blues, il jazz e tutti i loro derivati. È la blue note che dà vita a questo particolare colore che mancava nel sistema tonale occidentale. È ciò che ci permette di esprimere la solitudine e le vicissitudini della vita, ma anche la speranza. Gli ex schiavi d’America sapevano come trasformare l’impulso mortale che nasceva dalla disperazione in qualcosa di vitale e vibrante. Hanno scelto di trasformare il proprio destino nell’espressione di una lotta strenua contro qualunque previsione. Naturalmente, lottare contro il destino è una battaglia persa, ma in questa equazione non è tanto la vittoria che conta, quanto la lotta. È questo spirito che ha permesso a tutti gli esuli di resistere e di opporsi alla condizione di stranieri indesiderati. È questa volontà impetuosa e inalienabile che ha permesso ai popoli dell’Africa di superare gli orrori di una storia ostile, ed è questa volontà intatta che intendiamo promuovere con il padiglione ivoriano. Simon Njami


The Blue Note

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François-Xavier Gbré, La fournaise, Abidjan, Costa d’Avorio, 2021. © François-Xavier Gbré.

Marie-Claire Messouma Manlanbien, Garden Ladies #14, 2023. Carta di riso, inchiostro e fibre di rafia, 66 × 56 cm. Gregory Copitet. © Adagp Paris 2023, Galerie Cécile Fakhoury e l’Artista.

Jems Robert Koko Bi, UNITED, 2021, scultura. Legno di quercia, 290 × 80 × 90 cm. Courtesy l’Artista. © Jems Koko Bi.

STRANIERI OVUNQUE

Sadikou Oukpedjo, Mythe universel 5, 2023. Acquaforte su specchio, pigmenti naturali, 108 × 166 cm. Courtesy l’Artista. © Mira Mariani.


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Giappone

Commissario The Japan Foundation Curatore Sook-Kyung Lee Artista Yuko Mohri

Gestione della produzione di mostra Yui Yoshizumi Coordinamento Shintaro Tokairin Coordinamento locale Harumi Muto Consulente accademico Gaku Kondo Produzione Koshiro Shikine Kazme Egawa Takayuki Ito Kinoshita Lab. Fotografia Yasuhide Kuge Graphic Design Natsuko Yoneyama Sviluppo Natsu Tanabe Con lo speciale supporto di Ishibashi Foundation

BIENNALE ARTE

2024

Con il supporto di Takeo Obayashi Hiroyuki Maki, Buffalo Yukiko Ito Lîn (Eric) Huang RongChuan Chen, RC Foundation Jenny Yeh, Winsing Arts Foundation Hideaki Fukutake, Minamigata Holdings Taku Hoshina, Arflex Japan Yoshiko Mori Obayashi Foundation Izumi Ogino regist Art Masami Shiraishi Tetsuaki Kobata Haruo Nakamura Nomura Foundation Toshiaki Ogasawara Memorial Foundation Miwa Taguchi Chizuko Yashiro Yoshihisa Kawamura Yui Matsushima Tatsuo Fujiwara, Fumiko Suzuki Kyoko Hattori Jun Hori Fumio Nanjo Yuko Tadano Eri Takane Kankuro Ueshima Project Fulfill Art Space mother’s tankstation Yutaka Kikutake Gallery Tanya Bonakdar Gallery In cooperazione con Miyake Design Studio Re-tem Corporation

Someday we’ll evaporate together. Yoko Ono Nota per le sue installazioni e sculture incentrate su “eventi” che mutano in base alle condizioni ambientali, in questa mostra Mohri presenta due ecosistemi che riempiono lo spazio di suoni, luci, movimenti e odori. Moré Moré (Leaky) si ispira a vari espedienti adottati nelle stazioni della metropolitana di Tokyo per fermare le perdite d’acqua, molto diffuse in questa città caratterizzata da una frequente attività tettonica. L’artista creerà artificialmente delle perdite e poi cercherà di ripararle, utilizzando oggetti domestici comuni disponibili nelle vicinanze del sito della Biennale. Quando l’acqua, deviata in diversi piccoli passaggi e spinta da una pompa, fuoriesce dalle falle, il lavoro assume le sembianze di una scultura cinetica. In un mondo in cui le inondazioni funestano sempre più spesso l’ambiente, e soprattutto a Venezia, costantemente minacciata dalle inondazioni, Moré Moré acquisisce molteplici accezioni. Decomposition genera suoni e luci con l’inserzione di elettrodi in alcuni frutti, convertendone lo stato di umidità in impulsi elettrici trasmessi ad altoparlanti e luci sfarfallanti alle pareti. Le condizioni interne dei frutti mutano costantemente, modulando il tono del suono continuo e l’intensità della luce. Con il tempo, i frutti iniziano ad appassire, emanando l’odore dolce del decadimento.

PARTECIPAZIONI NAZIONALI

In questo caso, il riferimento dell’artista è il tema classico della pittura buddista noto come “Nove stadi della decomposizione”, che raffigura la graduale decomposizione e trasformazione di un cadavere. La decomposizione simboleggia quindi il modo in cui la vita delinea un grande cerchio. La decomposizione simboleggia dunque il modo in cui la vita delinea un grande cerchio, anche se sembra insignificante. L’installazione si basa anche sul live electronics, la musica improvvisata praticata fin dagli anni Sessanta da artisti come John Cage e David Tudor, che hanno lasciato che fosse il caso a dare forma al loro lavoro. Con un titolo la cui etimologia implica il “mettere insieme (com+porre)”, la mostra si interroga sul significato di esistere e lavorare insieme in una società che affronta molte sfide globali. Paradossalmente, la crisi acuisce la creatività delle persone: è l’idea centrale del progetto di Mohri, che si ispira alle trovate ingegnose dei lavoratori della metropolitana di Tokyo per far fronte alle perdite d’acqua. Le perdite d’acqua non vengono mai completamente riparate e i frutti finiscono nel compost per marcire nelle installazioni di Mohri, ma questi sforzi apparentemente futili indicano gli spiragli di soluzioni che la nostra semplice creatività potrebbe realizzare. Sook-Kyung Lee


Compose STRANIERI OVUNQUE

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Yuko Mohri, Composition for Compose, 2023. Acquarello, penna, matita. Courtesy l’Artista.


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Repubblica del Kazakistan

Commissario Aida Balayeva, Ministro della Cultura e dell’Informazione del Kazakistan Curatori Danagul Tolepbay Anvar Musrepov Artisti Lena Pozdnyakova e Eldar Tagi Yerbolat Tolepbay Kamil Mullashev Anvar Musrepov Saken Narynov Sergey Maslov Consulenza accademica Kulshat Medeuova Con il supporto di Viled Fashion Qazaq oil Universal energy Kazakistan

BIENNALE ARTE

2024

Jerūiyq è una terra promessa della leggenda kazaka, tramandata fino ai giorni nostri di generazione in generazione dai racconti orali, che funge da metafora per la ricerca, l’esplorazione, il miglioramento e la conoscenza invisibile. Gli antichi racconti sul filosofo Asan Kaigy narrano dei suoi sforzi per condurre il popolo nomade in terre libere da malattie e fame, dove il tempo sospeso avrebbe garantito la vita eterna. La parola “kaigy” si traduce dal kazako come “dolore”. Espressioni comuni come “cadere in asan kaigy” utilizzano il termine come sinonimo di questo sentimento. Come un velo sottile, il dolore incombe sulla memoria delle molte utopie irrealizzate nella steppa infinita, attraverso gli incontri traumatici con il lato oscuro della modernità: la tragica carestia degli anni Trenta, i crateri scavati dai siti di test nucleari a Semey, il prosciugamento del mare d’Aral e altre cicatrici sul corpo della terra kazaka. La mostra si fonda su una serie di opere d’arte chiave dell’immaginazione utopica degli artisti kazaki presentate cronologicamente a partire dagli anni Settanta (Above the White Desert, Kamil Mullashev), passando per le opere del periodo della nascita dell’arte contemporanea in Kazakistan (Baikonur-2, Sergey Maslov) fino a oggi, con i lavori basati sull’intelligenza artificiale (Presence, Lena Pozdanykova ed Eldar Tagi).

PARTECIPAZIONI NAZIONALI

Con l’indipendenza e non più soggetta alla censura sovietica o a sottostare all’approvazione del governo centrale, l’arte kazaka ha ricevuto un nuovo impulso a reimmaginare e decolonizzare il futuro. Questa mostra presenta una collezione di opere di artisti che proiettano la loro visione di mondi ideali, in cui spiriti e rituali mistici si incontrano (Alastau, Anvar Musrepov), dove il nomadismo diventa stazione spaziale (Mobile Unit, Saken Narynov), e il punto culminante è un dipinto visionario di grandi dimensioni creato di recente che rivela portali per guardare oltre l’orizzonte degli eventi (New Child. Rebirth, Yerbolat Tolepbay). Nel nostro tempo, con il suo stato di turbolenza permanente, Jerūiyq diventa una stella guida nel cammino per superare la crisi dell’immaginazione.


Jerūiyq: Journey Beyond the Horizon

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Yerbolat Tolepbay, New Child. Rebirth, 2024 (catturato in corso d’opera). Acrilico su tela, 300 × 660 cm. Photo courtesy l’Artista. © Yerbolat Tolepbay.

Saken Narynov, Mobile Unit, 1979. Grafica serigrafata, 84,1 cm × 118,9 cm. Photo courtesy la famiglia dell’Artista. © la famiglia dell’Artista.

STRANIERI OVUNQUE

Sergey Maslov, Baikonur 2, 2001. Installazione: legno, feltro, collage digitale, suono, tex. Photo courtesy Yelena Vorobyeva. © Yelena Vorobyeva.


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Kenya

Commissario Milka Mugo Curatore Edward Mwaura Ndekere Artisti Peter Kenyanya Oendo Mzee Elkana Ong’esa Gerard Oroo Motondi Robin Okeyo Mbera Charles Duke Kombo John Tabule Ogao Abuya

BIENNALE ARTE

2024

Il padiglione del Kenya alla 60. Biennale di Venezia, intitolato Roots of Return, approfondisce gli sfaccettati aspetti legati ai temi globali di migrazione e cultura attraverso una lente che intreccia coscienza ambientale ed espressione artistica. In linea con il tema generale Stranieri Ovunqu / Foreigners Everywhere e, la mostra affronta le complessità della migrazione verso nord da parte del Sud del mondo e in particolare dell’Africa subsahariana, alla ricerca di pascoli percepiti come “più verdi” nell’emisfero settentrionale, in un contesto di cambiamenti climatici e inquinamento. Riconoscendo le molteplici e complesse ragioni alla base delle migrazioni umane, la mostra sottolinea l’aspetto ironico del viaggio degli africani che si spostano verso nord alla ricerca di una vita soddisfacente e di un ambiente migliore che, tuttavia, rispetto all’Africa è paradossalmente inquinato e privo di risorse naturali. La mostra mette in luce l’interconnessione tra conflitti globali, industrializzazione del Nord globale e relative ripercussioni, come ad esempio il riscaldamento globale, che portano a migrazioni forzate a causa di siccità, inondazioni e malattie, nonché l’importanza del Sud globale, e in particolare dell’Africa subsahariana, nel fornire soluzioni e rimedi naturali a tali ripercussioni.

PARTECIPAZIONI NAZIONALI

La mostra affronta il rapporto – paradossale e nello stesso tempo complementare – tra l’estrazione di rocce e pietre basaltiche dalle miniere del Kenya e la creazione di un’arte scultorea che attivamente assorbe e rimuove l’anidride carbonica dall’ambiente. Si tratta di una narrazione che riprende l’attuale, benché irrisolto, discorso sul rimpatrio dell’arte scultorea africana conservata nei musei occidentali e nelle collezioni private. Si prefigge inoltre di documentare la straordinaria e continua offerta geologica di rocce e pietre minerali presenti in Kenya. Gli artisti – tra cui i maestri scultori kenyoti Gerard Motondi Oroo, Peter Kenyanya Oendo, Robin Okeyo Mbera, John Abuya Tabule Ogao e il prodigioso Elkana Onge’sa – stanno esplorando più a fondo il suolo, scoprendo e utilizzando rocce e pietre minerali più dure e difficili come i basalti, con colori, texture e composizioni chimiche uniche. La mostra riassume una profonda e stratificata narrazione che intreccia arte scultorea, ambiente, scienza e patrimonio culturale in una stimolante esplorazione multidisciplinare della migrazione e della sostenibilità. Mwaura Ndekere


Roots of Return

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Gerald Motondi Oroo, Between the Clouds.

John Tabule Abuya Ogao, Madonna (Mother and Child).

STRANIERI OVUNQUE

Peter Kenyanya Oendo, Sleeping Bull.


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Repubblica di Corea

Commissario Arts Council Korea Curatori Seolhui Lee Jacob Fabricius Artista Koo Jeong A

BIENNALE ARTE

2024

Koo Jeong A è costantemente in orbita, vive e lavora ovunque. Nella sua pratica, elementi architettonici, testi, disegni, dipinti, sculture, animazioni, suoni, film, parole e profumi ricoprono un ruolo importante. Nel corso degli anni, Koo Jeong A ha indagato e sfumato i confini tra la propria opera artistica e lo spazio che occupa. L’opera d’arte aggiunge nuovi strati a qualsiasi spazio e Koo Jeong A riesce a fondere piccole esperienze intime e opere immersive su larga scala. L’approccio curatoriale per il padiglione coreano 2024 ha combinato alcuni dei soggetti chiave e degli elementi scultorei con cui Koo Jeong A ha lavorato in questi ultimi tre decenni. Con Odorama Cities, creato appositamente per il padiglione coreano, Koo Jeong A si addentra nelle sfumature dei nostri incontri spaziali, indagando su come percepiamo e ricordiamo gli spazi, con particolare attenzione al modo in cui i profumi, gli odori e le fragranze contribuiscono a questi ricordi, esplorando anche una tattilità ampliata. Alcuni degli interessi principali dell’arte di Koo Jeong A, come l’immaterialità, l’assenza di peso, l’infinito e la levitazione, sono parole chiave in tutto il padiglione coreano. Sono incorporati e incisi sotto forma di simboli dell’infinito direttamente nel nuovo pavimento in legno, si manifestano sotto forma di due sculture di legno fluttuanti a forma di nastri di möbius e una figura di bronzo levitante e profumata, e infine, ma non meno importante, sono simboleggiati dai profumi che trasformano l’ambiente in una collezione di ricordi olfattivi, che costituiscono il fondamento di Odorama Cities.

PARTECIPAZIONI NAZIONALI

Durante l’estate 2023, sono stati raccolti con l’obiettivo di realizzare un ritratto olfattivo della penisola coreana. Attraverso social media, pubblicità, comunicati stampa e incontri personali, il team responsabile del padiglione ha raggiunto coreani e non coreani – chiunque abbia un rapporto con la nazione – e ha chiesto: “Qual è il tuo ricordo più intenso della Corea?”. Questo appello ha generato più di seicento dichiarazioni scritte sui profumi coreani. Le parole chiave e i ricordi di profumo selezionati sono stati affidati a sedici profumieri con sede a Parigi, Shanghai e Singapore. I profumieri, armati delle storie, si sono assunti il compito di interpretare e realizzare sedici esperienze olfattive distinte per il padiglione e un’unica fragranza commerciale.


Koo Jeong A - Odorama Cities STRANIERI OVUNQUE

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Koo Jeong A, KANGSE SpSt, 2023–2024. Bronzo, compensato metallico, vernice a pigmenti, diffusore di profumo, sensore, 317 × 74 × 162 cm. Courtesy the Artist. © Koo Jeong A.


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Repubblica del Kosovo

Commissario Hana Halilaj Curatore Erëmirë Krasniqi Artista Doruntina Kastrati Organizzazione Ministero della Cultura, della Gioventù e dello Sport della Repubblica del Kosovo

BIENNALE ARTE

2024

The Echoing Silences of Metal and Skin affronta il tema dell’occupazione femminile e della disuguaglianza sul lavoro. Indagando sulla deindustrializzazione dell’economia e sulla deregolamentazione del mercato del lavoro, Doruntina Kastrati si misura con le forme (im)materiali dell’occupazione precaria nelle industrie leggere all’indomani della guerra del Kosovo del 1999, un periodo segnato dalla brusca transizione da un sistema socialista al libero mercato. La partecipazione al lavoro salariato garantisce alle donne l’indipendenza finanziaria e l’affrancamento sociale. Lungi dall’essere emancipatoria, però, la femminilizzazione del lavoro in settori come la produzione alimentare perpetua i tradizionali ruoli di genere. The Echoing Silences of Metal and Skin porta alla ribalta le narrazioni femminili e si basa sulle storie orali raccolte dall’artista dalle dipendenti di una fabbrica di lokum a Prizren, la seconda città più grande del Kosovo e città natale dell’artista stessa. Kastrati porta in primo piano le prospettive e le esperienze di queste donne, che producono quotidianamente circa diecimila scatole di questi dolci. Il lavoro in fabbrica è ripetitivo e viene svolto in piedi: quasi un terzo delle lavoratrici di questa fabbrica subisce interventi chirurgici alle ginocchia e gli oggetti metallici impiantati diventano così tracce delle lunghe ore di lavoro per bassi salari. Con l’intento di sollecitare una riflessione critica sul motivo e il modo in cui le pratiche di sfruttamento del lavoro persistano, l’artista si confronta con le caratteristiche dei materiali, in particolare quelle del metallo.

PARTECIPAZIONI NAZIONALI

L’installazione è composta da quattro sculture indipendenti modellate in base ai gusci di diversi tipi di noci utilizzate come ingredienti per i lokum. Attivate da un suono, le sculture creano un ritmo particolare all’interno dello spazio espositivo. Realizzate in vari metalli, alludono contemporaneamente a impianti chirurgici e alla produzione industriale; attraverso la scelta dei materiali l’artista ricrea la freddezza meccanica della fabbrica di lokum e l’inquietante freddezza del metallo estraneo nelle ginocchia delle operaie. Pregne di significati simbolici, le parti costitutive del padiglione rendono omaggio alle narrazioni in prima persona e creano associazioni incisive ed efficaci. Erëmirë Krasniqi


The Echoing Silences of Metal and Skin

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Doruntina Kastrati, The Echoing Silences of Metal and Skin, 2024. Fotografia (materiale di ricerca). Photo Majinda Hoxha. Courtesy l’Artista.

STRANIERI OVUNQUE

Doruntina Kastrati, The Echoing Silences of Metal and Skin, 2024. Fotografia (materiale di ricerca). Photo Majinda Hoxha. Courtesy l’Artista.


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Lettonia

Commissario Daiga Rudzāte Curatore Adam Budak Artista Amanda Ziemele Architetto Niklāvs Paegle, ĒTER Organizzazione INDIE Culture Project Agency in cooperazione con Ministero della Cultura della Repubblica di Lettonia The Investment and Development Agency of Latvia The Investment and Tourism Agency of Riga Con il supporto di Ministero della Cultura della Repubblica di Lettonia Jānis Zuzāns, Alfor Tet - IT & innovation company VV Foundation Latvijas Finieris Arctic Paper Antalis

BIENNALE ARTE

2024

Quello di Amanda Ziemele è un dipinto di recente definito come una stravaganza spaziale di geometria irregolare e volume organico. Spazio di un incontro immaginario e spezzoni di ricordi, mentre attivamente si apre in un ritmo e in una suspense incontrollati, orchestra il rituale di una forma in divenire, una celebrazione della multidimensionalità cosmica, messi in scena in un cubicolo di eredità storica. Negli ambienti pittorici di Ziemele, magistralmente coreografati rispettando tutti i parametri di uno spazio dato, precisione e sobrietà equivalgono a poesia. Il suo è un gesto generoso: nei confronti del quadro stesso, dello spazio, ma anche dell’osservatore di cui l’artista continua ad attivare l’attenzione, guidandone lo sguardo in modo quasi cinematografico, un campo lungo della cinepresa, paragonabile al movimento pittorico. La semplicità di una forma elementare, insieme al gesto elementare della pennellata, lo rende una proposta insolita che seduce lo spettatore con la sua freschezza e una certa malizia, un senso dell’umorismo, il fascino della tentazione. Il dipinto è una pratica sensuale, attenta alla materialità, concentrata sulla texture, con dolci cenni narrativi all’infanzia, alla memoria, al bisogno di protezione, alla nostalgia critica. Ziemele trasforma l’interno del padiglione in un organismo vivente, addomesticando lo spazio, animando le dimensioni, consentendoci di sviluppare un legame romantico di ambiente polifonico. È lo spazio di un’accoglienza desiderata, un habitat dell’ospitalità, al contempo una promessa e un dubbio, “verso l’alto, non verso il nord”, o come direbbe un altro poeta: “hinauf und zurück”, una zona eterotopica di movimento ed esplorazione, una transizione verso la meravigliosa simultaneità di un’esperienza (iper)spaziale.

PARTECIPAZIONI NAZIONALI

Sul filo shakespeariano di Flatlandia di Edwin A. Abbott (1884) – “Oh, giorno e notte insieme, quale straniera meraviglia è questa! […] E come tale dalle il benvenuto!” – Ziemele svela i misteri delle tre dimensioni in una transizione fluida da flatlandia a pensierolandia, creando un microcosmo di abbraccio e ospitalità incondizionata. È la sua versione di uno spazio maturo, una contro-fantasmagoria, che resiste all’esaurimento e alla fatica, uno spazio di carattere, pronto a pensare e a ospitare il mondo irregolare della società contemporanea. La guarigione – la necessità di guarigione – è ciò che il progetto di Amanda Ziemele in definitiva ci offre. Adam Budak


O day and night, but this is wondrous strange... and therefore as a stranger give it welcome

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Amanda Ziemele, Zephyr, 2023. Olio su tela, compensato, 224 × 149 e 152 × 70 cm sovrapposizione. Sun Has Teeth, veduta dell’esposizione. Photo Kristīne Madjare. Courtesy l’Artista. © Amanda Ziemele.

STRANIERI OVUNQUE

Amanda Ziemele, O day and night, but this is wondrous strange… and therefore as a stranger give it welcome, 2023. In corso d’opera. Photo Kristīne Madjare. Courtesy l’Artista. © Amanda Ziemele.


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Libano

Commissario e Curatore Nada Ghandour Artista Mounira Al Solh Organizzazione Lebanese Visual Art Association – LVAA Curatrice associata Dina Bizri Architetto scenografo Karim Beckdache Coordinamento della scenografia e dell’allestimento Ibrahim Kombarji Progettazione e fornitura dell’illuminazione UNILUX Group Graphic Design Lara Nader Mouawad Team di progetto Chérine Assouad Nadine Katabi Charles Simon Thomas Consulenza Charbel Abou Charaf, White & Case Nicole Araygi, Araygi& Maalouly Dania Bazzy, Visionbuz Con il supporto principale di Tariq & Diane AlGhussein Basel Dalloul, Ramzi & Saeda Dalloul Art Foundation (DAF) The Elie Khouri Art Foundation (EKAF) Raffy Manoukian Rana & Riad Zein Con il supporto aggiuntivo di Catawiki Commercial Insurance Ziad & Monique Ghandour Tania Issa Semaan Sfeir-Semler Gallery Beirut/Hamburg

BIENNALE ARTE

2024

Il padiglione libanese ha invitato l’artista Mounira Al Solh a creare un ponte tra mito e realtà. La sua installazione multimediale A Dance with her Myth – che combina pittura, disegno, scultura, ricamo e video – immerge i visitatori nell’antica Fenicia attraverso moderne tecniche plastiche e visive. Di fronte a una realtà cruda e accecante, l’intramontabile mito greco-fenicio offre una nuova prospettiva sugli eventi attuali, con particolare attenzione alle sfide che le donne devono affrontare nel mondo contemporaneo. L’installazione di Al Solh affonda le sue radici in un racconto mitico: il rapimento della principessa Europa su una spiaggia della città di Tiro da parte del dio Zeus, che assunse la forma di un toro bianco. L’artista crea connessioni e parallelismi imprevisti attraverso il tempo. La rivisitazione dei racconti mitologici apre alla riflessione critica e alla definizione di prospettive alternative. È proprio per questo che l’interpretazione dei miti è stata spesso utilizzata come strumento di protesta, mobilitazione e sovversione. L’installazione di Al Solh racchiude tutte queste dimensioni, avendo deliberatamente scelto il mito di Europa per la sua qualità intrinseca: la capacità di consentire un dialogo pubblico. Specularmente al viaggio forzato di Europa, oggi assistiamo all’esilio forzato, alla perdita di risorse e all’eco di conflitti vicini e lontani. Tuttavia, il viaggio che l’artista ci invita a intraprendere, seguendo le orme della principessa Europa, porta alla realizzazione di un destino femminile, affrancato dall’influenza degli “dèi”, che racchiude il ruolo e le responsabilità tipicamente associate agli uomini senza subirli bensì aspirando a un diverso stato dell’essere.

PARTECIPAZIONI NAZIONALI

Questa reinterpretazione del mito di Al Solh crea uno spazio retorico e visivo che celebra l’emancipazione, la libertà, l’uguaglianza, l’impegno e la solidarietà. Funge da piattaforma per un dialogo coraggioso attraverso il tempo, in una terra che è più resiliente che mai. Il padiglione libanese presenta questa mostra al pubblico con l’obiettivo di alimentare la consapevolezza sociale e politica collettiva attraverso il potere trasformativo dell’arte. Nada Ghandour


A Dance with her Myth

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Mounira al Solh, A Dance with her Myth, 2023. Acquerello, pennarello, carboncino, inchiostro, acrilico, pastelli a olio e carta cucita su papiro, 57 × 55 cm. Photo Quinn Oosterbaan. Courtesy l’Artista; Sfeir-Semler Gallery Beirut/Amburgo. © Mounira Al Solh.

STRANIERI OVUNQUE

Mounira Al Solh, A Dance with her Myth, 2023. Carboncino, collage e olio su tela, 200 × 210 cm. Photo Quinn Oosterbaan. Courtesy l’Artista; SfeirSemler Gallery Beirut/Amburgo. © Mounira Al Solh.


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Lituania

Commissario Arūnas Gelūnas Curatori Valentinas Klimašauskas João Laia Artisti Pakui Hardware Marija Teresė Rožanskaitė Mostra Architetti dell'Ambiente e del Paesaggio Išora x Lozuraitytė Studio Organizzazione The Lithuanian National Museum of Art Con il supporto principale di Lithuanian Council for Culture Con il supporto aggiuntivo di Nord Cranes Systems Plasta Group Piritas Exterus LRT JCDecaux Lietuva artnews.lt carlier | gebauer Girteka Glassic Linen Tales

BIENNALE ARTE

2024

Questo progetto riunisce le esperienze diverse di artisti appartenenti a due generazioni ed esplora l’infiammazione dei corpi (post)umani nel contesto economico e sociale odierno. I dipinti di Marija Teresė Rožanskaitė e un’installazione scultorea di Pakui Hardware (con l’assistenza del duo di architetti Išora x Lozuraitytė) sono collegati da tematiche quali la medicina e gli ospedali, così come da paesaggi naturali, cosmici e industriali. La presentazione congiunta trasmette l’interconnessione dei corpi e degli ambienti in crisi e offre un equilibrio metabolico, aiutando a “raffreddare” i corpi umani e planetari in fiamme. Le sculture in fusione di alluminio e vetro di Pakui Hardware ricordano sistemi nervosi ingranditi e organi rigonfi; modellate con terra rovente (gli elementi in alluminio), sono state plasmate a temperature elevate (gli elementi in vetro). Come i corpi, prendono vita quando vengono lambite da un raggio ardente che ricorda la scansione spaziale o degli organi. L’elemento protesico – che utilizza membrane di silicone e materiali medici o di laboratorio – è ulteriormente amplificato dalle connessioni tra i singoli elementi, che si fondono in una più ampia installazione integrata, un tecno-organismo. Nei dipinti di Rožanskaitė, malattie senza nome, sale operatorie sterili e ambulatori medici, assemblaggi sul tema viscerale e oggetti simili a macchinari irradiano un’infiammazione cronica della carne cosmica. Le opere si riferiscono a carcasse abbandonate e sacrificate, al benessere strappato alla vita umana.

PARTECIPAZIONI NAZIONALI

Il progetto trae direttamente ispirazione dal libro Inflamed. Deep Medicine and the Anatomy of Injustice (2021), a cura di Rupa Marya e Raj Patel, che utilizza l’infiammazione come metafora del danno sistemico inflitto all’umanità e al pianeta. Secondo gli autori, l’infiammazione è la normale risposta del corpo alle condizioni tossiche, e le questioni più urgenti da “trattare” non sono i singoli organi malati, ma i sistemi stessi – economici e sociali – che causano la trasmissione di disturbi cronici da una generazione all’altra. Di conseguenza, in questo delirante post paesaggio, è difficile distinguere tra ciò che è attribuito alla natura e ciò che è considerato una creazione umana. Gli oggetti che si riferiscono ai sistemi corporei umani in uno stato di infiammazione, l’architettura, un paesaggio postnaturale di terreno plastico, la luce e altre tecnologie si fondono in un tecno-organismo ibrido uniforme. Valentinas Klimašauskas João Laia


Inflammation STRANIERI OVUNQUE

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Marija Teresė Rožanskaitė, Heart Surgery, 1974. Olio su cartone, 240 × 170 cm. Photo Antanas Lukšėnas. Courtesy the Lithuanian National Museum of Art.


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Granducato di Lussemburgo

Commissario Kultur | lx – Arts Council Luxembourg, per conto del Ministero della Cultura Curatrice Joel Valabrega, Mudam Luxembourg – Musée d’Art Moderne Grand-Duc Jean Artisti Andrea Mancini e Every Island (Alessandro Cugola, Martina Genovesi, Caterina Malavolti e Juliane Seehawer) Assistente del Curatore Nathalie Lesure Organizzazione Mudam Luxembourg – Musée d’Art Moderne Grand-Duc Jean Con il supporto di Œuvre Nationale de Secours GrandeDuchesse Charlotte LuXembourg – Let’s Make it Happen The Loo & Lou Foundation Sotto l'egida di Fondation de Luxembourg Con un ringraziamento a Ambasciata del Lussemburgo a Roma Performer Bella Báguena Selin Davasse Stina Fors Célin Jiang Identità visiva Lorenzo Mason Studio Team per la produzione ARTER

BIENNALE ARTE

2024

A Comparative Dialogue Act, un progetto dell’artista lussemburghese Andrea Mancini e del collettivo multidisciplinare Every Island, è stato concepito come un’infrastruttura per la trasmissione del suono. Per tutta la durata della Biennale, il padiglione ospita quattro artisti che producono e presentano nuove performance sonore. In questo contesto, il concetto di apertura non è vincolato all’assenza di limiti, ma piuttosto all’appropriazione dell’”altro” e al suo contributo a scenari collettivi e aperti. Gli elementi spaziali - pavimento e pareti vengono trasformati in dispositivi sonori, dando progressivamente forma a un’esperienza immersiva. La tecnologia viene utilizzata per sviluppare questo esperimento localizzato, attraverso il quale gli artisti e il pubblico considerano le condizioni in cui la conoscenza viene trasmessa e condivisa. Il titolo racchiude la natura di questo progetto sperimentale: un’esplorazione di diversi linguaggi sonori e una contemplazione del dialogo, nel mondo immersivo del suono come strumento di negoziazione. In un gesto di trasparenza radicale, il padiglione è allo stesso tempo lo spazio dove il paesaggio sonoro viene generato e riprodotto, lo studio e il palcoscenico. Una collaborazione senza precedenti tra quattro artisti emergenti provenienti da contesti diversi, il programma coinvolge la musicista e performer spagnola Bella Báguena, l’artista transdisciplinare francese Célin Jiang, l’artista turca Selin Davasse e l’artista svedese Stina Fors per offrire quattro approcci trasversali alle molteplici modalità d’incontro tra identità, performance e suono.

PARTECIPAZIONI NAZIONALI

Gli artisti sono invitati a esplorare gli elementi che ne definiscono pratiche e metodi artistici. Ciascuno di loro mette a disposizione una propria biblioteca sonora all’inizio della Biennale Arte come strumento condiviso, a sua volta usato per creare paesaggi sonori personalizzati. L’obiettivo è promuovere la cooperazione e il senso di appartenenza alla comunità attraverso la comprensione e l’interpretazione di ciò che è stato messo a disposizione. Attraverso l’esplorazione dell’identità di genere, Báguena intreccia suoni ispirati dall’intuizione, dalla motivazione e da un mosaico di influenze che spaziano dalla cultura pop alle esperienze personali; Jiang adotta un approccio cyberfemminista decoloniale, intrecciando arti, tecnologia e scienze umane digitali; Davasse realizza performance basate sulla ricerca per immaginare passati, presenti e futuri ipotetici alternativi; e Fors, che si occupa di coreografia, performance, batteria e voce, esplora le profondità di un “corpo sonoro”, mostrando le complessità dell’io. Sia le biblioteche sia le opere risultanti sono costantemente incorporate e integrate, sfidando le nozioni di autorialità e appropriazione. Come parte dell’opera d’arte collettiva, ogni artista esegue una serie di performance come presentazione del proprio contributo al pubblico. Il risultato viene inciso in un vinile distribuito alla chiusura della Biennale Arte 2024. A Comparative Dialogue Act offre una ricca composizione di voci riunite in un’opera d’arte sonora dai contorni indefiniti che travalica i confini della produzione artistica contemporanea.


A Comparative Dialogue Act STRANIERI OVUNQUE

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Padiglione del Lussemburgo, A Comparative Dialogue Act. © Andrea Mancini & Every Island, 2024.


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Malta

Commissario Arts Council Malta Curatrici Elyse Tonna Sara Dolfi Agostini Artista Matthew Attard Responsabili di progetto Maria Galea Michela Rizzo Sviluppo software Joey Borg Organizzazione Mary Ann Cauchi Romina Delia Celine Portelli Frank Psaila Architettura Vincenzo Casali Studio Identità visiva 2point3 Studio Produzione tecnica We Exhibit Patron Chiara Ave & Luca Donati Claudia Baggio Agostino Basco Francesco Berti Riboli Alvise & Daniela Braga Illa Joanna Delia Onofrio di Caprio Marcello Forin Fabio & Catia Marangon Agostino & Matilde Menditto Noel Pace James Scicluna Alessandro & Francesca Trevisan Con il supporto principale di Bank of Valletta Malta Tourism Authority Galleria Michela Rizzo Villa Montallegro recobel by Hal Mann Vella

BIENNALE ARTE

2024

Matthew Attard indaga la versatilità del disegno contemporaneo, esplorandone la natura performativa e temporale, generando compenetrazioni tra realtà fisica e input digitale. Attard condivide la paternità della sua arte con un eye-tracker, un avanzato strumento scientifico recentemente adottato da aziende private, che cattura i movimenti oculari e li trasforma in dati digitali. Per l’artista, l’eye-tracker è un’estensione di sé e un collaboratore intelligente nella produzione di disegni contemporanei, che offre una piattaforma di esplorazione del territorio ibrido tra macchine ed esseri umani. Inoltre, mette in discussione nozioni di intermediazione in un’epoca in cui l’automatizzazione e la mercificazione sembrano ridefinire tutte le forme di espressione di sé. In I Will Follow the Ship, l’artista intreccia immagini storiche con disegno e tecnologia digitale. Il titolo allude all’interazione tra l’io e l’occhio (“I” e “Eye” hanno la stessa pronuncia in inglese), simboleggiando la natura oggettiva e soggettiva del lavoro di Attard. Il padiglione si sviluppa come un’esplorazione dei significati e dell’eredità dei graffiti navali; disegni semplici che si trovano sulle facciate delle chiesette lungo le strade di Malta. Queste incisioni vernacolari su pietra sono legate agli ex voto, forse per il significato spirituale e l’immunità politica che questi edifici offrivano. La loro ampia diffusione è rappresentativa delle attività marittime in tutto il Mediterraneo e parla di antichi racconti locali di fede e salvezza.

PARTICIPATING PARTECIPAZIONI NAZIONALI COUNTRIES

I significati di questi anonimi disegni di navi riecheggiano ancora oggi, in un’epoca in cui Internet e la tecnologia informatica hanno sostenuto l’emancipazione artistica di massa e ribaltato i tradizionali centri di potere locali. Si delinea quindi un parallelo tra questi disegni tangibili su pietra e il disegno digitale contemporaneo. Entrambi lasciano tracce, a volte involontarie, sempre effimere o immateriali, dell’esistenza umana e del passaggio nel tempo. Nel padiglione, il potere evocativo delle navi invita all’interazione digitale e all’approfondimento speculativo. Sono simboli di speranza in un’epoca in cui l’umanità si misura con il cambiamento climatico, l’innalzamento del livello del mare e la crescente dipendenza dalla tecnologia. In definitiva, svelano verità celate che si annidano sotto le previsioni, le emozioni e le convinzioni.


I Will Follow The Ship

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Matthew Attard, Study 1 (I Will Follow The Ship), 2023. Disegno con tracciamento oculare, scansione 3D. Immagine digitale, dimensioni variabili. Courtesy l’Artista e Galleria Michela Rizzo. © Matthew Attard e Galleria Michela Rizzo.

STRANIERI OVUNQUE

Matthew Attard, Eye-tracking study (I Will Follow The Ship), 2023. Disegno con tracciamento oculare, scansione 3D, disegno a penna, 29 × 42 cm. Courtesy l’Artista e Galleria Michela Rizzo. © Matthew Attard e Galleria Michela Rizzo.


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Messico

Commissario Ana Catalina Valenzuela González Curatrice Tania Ragasol Artista Erick Meyenberg Organizzazione Ministero della Cultura National Institute of Fine Arts Collaboratori Roberto Velázquez was bleibt kollektiv | Gentian Doda Martha Uc Miguel González Carmen de la Parra Daniel Ricaño Rosella Pelliccioti Fjorald Doci Julien Klopfenstein Ardi Asllani Laura Vieco Mariana Calderón Félix Blume Fernando de la Rosa Raúl Vizzi Natalia Pérez-Turner Cesar Aliaj Alejandro Flores Frank López Óscar Garduño Marianne Wasowska

Nel 2019, in una campagna del Nord Italia, Erick Meyenberg, artista messicano di origini tedesche e libanesi, ha invitato a tavola la famiglia Doda, emigrata in Italia più di trent’anni prima da Tirana, in Albania. Integrandosi senza perdere i propri legami culturali e le proprie tradizioni, la famiglia ha assunto una nuova identità: quella dello straniero, una condizione intrinseca al dolore della perdita e al costante e irrimediabile ritorno alla memoria di ciò che non sarà mai più. L’artista osserva e conserva queste particolarità nel mutarsi delle abitudini personali, sia acquisite che radicate: i modi di onorare, amare e vivere l’assenza, simili nonostante le individualità, gesti ed emozioni universali. As we marched away, we were always coming back... è emerso quattro anni dopo, dalle registrazioni e dal costante dialogo con Gentian Doda, come interpretazione della doppia condizione e della costruzione dell’identità del migrante come straniero. Una riflessione su memoria e esperienza vissuta da due diversi punti di vista: il filtro emotivo e storico di chi è rinato in una nuova patria e quello dell’artista che ha vissuto in prima persona l’esilio.

Al centro del padiglione messicano c’è un tavolo, una possibilità d’incontro e di ricordo, chiuso agli angoli da schermi che mostrano la famiglia riunita intorno a quell’altro tavolo. La videoinstallazione cerca di evocare in modo poetico lo spostamento del migrante e, allo stesso tempo, il radicamento rappresentato dalle riunioni di famiglia intorno alla tavola, gli scambi che vi avvengono, la gratitudine, il dolore, ciò che si adotta e ciò che si perde. Quando “la terra”, il nostro luogo di origine o di crescita, è lontana o diventa impossibile, il cibo e la musica diventano portatori di significato e artefici di appartenenza. As we marched away, we were always coming back... è un omaggio a chi non c’è più e al desiderio che le cose semplici, come la vita stessa, vadano oltre i limiti fisici e simbolici delineati dall’uomo. Alcune delle domande che accompagnano questo progetto sono: Quando si cessa di essere stranieri? Cosa significa e cosa comporta migrare? Se siamo tutti stranieri, da dove veniamo? Cosa ci radica? Forse l’assimilazione e la permanenza, ciò che va e ciò che resta – quello che si guadagna e che si perde – sono ciò che dà identità allo straniero e alla sua progenie. Non importa da dove o in quale luogo. Tania Ragasol

BIENNALE ARTE

2024

PARTECIPAZIONI NAZIONALI


Erick Meyenberg, As we marched away, we were always coming back, 2023. Video still ad alta risoluzione, dimensioni variabili. Courtesy l’Artista.

As we marched away, we were always coming back… STRANIERI OVUNQUE

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Erick Meyenberg, As we marched away, we were always coming back, 2023. Video still ad alta risoluzione, dimensioni variabili. Courtesy l’Artista.


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Mongolia

Commissario Nomin Chinbat Curatrice Oyuntuya Oyunjargal Artista Ochirbold Ayurzana Co-curatore Gregor Jansen Assistenza culturale e comunicazione Zultsetseg Oyunjargal Coordinamento per il fundraising Damdinsuren Khurelbaatar Coordinamento in Italia Marco Scurati Organizzazione Ministero della Cultura della Mongolia Ambasciata della Mongolia in Italia Arts & Media Project Management & Consulting NGO Stampa e comunicazione Kathrin Luz Lisa Balasso Produzione Marketing e Media Sukhzorig Bayansan Progettazione grafica SIX Studio Con il supporto principale di Ministero degli Affari Esteri della Mongolia

Discovering the Present from the Future di Ochirbold Ayurzana, con le sue installazioni scultoree interattive, esplora i livelli più profondi della coscienza. Ispirate alla divinità buddista Citipati, queste opere, tra cui il teschio a tre occhi, ci ricordano dell’impermanenza della vita, favorendo la trasformazione spirituale e simboleggiando la ricerca di una coscienza superiore e dell’illuminazione. I loro movimenti illustrano il fragile equilibrio tra natura e umanità; le danze collettive simboleggiano la costruzione di ponti tra le culture, incarnando l’idea d’interconnessione globale. Citipati può essere guardiano della tecnologia nella transizione verso l’era digitale, o guardiano dell’ambiente, indicandoci sfide come il cambiamento climatico. L’installazione interattiva – a Castello 2127A, di fronte all’ingresso dell’Arsenale – invita i visitatori a esplorare il tema dello “Straniero dentro di me” e a plasmare e abitare i propri viaggi all’interno della coscienza. Fondendo saggezza buddista con tecniche moderne, l’artista mira a colmare il divario tra presente e futuro, spingendoci a esplorare il primo attraverso la lente del secondo.

Con il supporto di MIAT Mongolian Airlines ARD Financial Group Sound of Mongolia UB Art Gallery

BIENNALE ARTE

2024

PARTECIPAZIONI NAZIONALI

Nato nel 1976, l’artista mongolo Ochirbold Ayurzana ha iniziato a indagare i cambiamenti sociali e comportamentali del mondo globalizzato nel 2014. L’artista sottolinea l’importanza dell’interattività nel suo lavoro, e crea opere socialmente e criticamente riflessive che consentono interpretazioni individuali da parte degli osservatori, interrogandosi sul modo in cui la coscienza evolve all’interno della miriade d’informazioni a cui è esposta. Le sue sculture offrono agli spettatori l’opportunità di scoprire la bellezza nascosta a dispetto delle idee critiche. Né maschili né femminili, le imponenti figure che rappresentano la “Coscienza” sono in posizione meditativa di fronte alla spirale centrale, simboli del regno mentale e del mondo intermedio. Realizzate con una delicata rete metallica in acciaio ossidato, le opere trasmettono la trascendenza attraverso la permeabilità. In particolare, il suo concetto di “Coscienza” riflette il desiderio di una consapevolezza ampliata e di una connessione con la dimensione spirituale. Oyuntuya Oyunjargal, Gregor Jansen


Discovering the Present from the Future

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Ochirbold Ayurzana, Consciousness, 2020-2022. Installazione scultorea, filo di ferro, 260 × 2500 × 2000 cm. Photo l’Artista. © AMPMC NGO/MongolianArt.

STRANIERI OVUNQUE

Ochirbold Ayurzana, Discovering the present from the future, 2024. Installazione scultorea doppia, alluminio & fil di ferro, ciascuna 260-350 × 800 × 300 cm. Photo Sukhzorig Bayansan. © 2024mongolian-pavilion.org.


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Montenegro

Commissario Vladislav Šćepanović Curatrice Ana Simona Zelenović Artista Darja Bajagić Organizzazione Museum of Contemporary Art of Montenegro Con il supporto di Ministero della Cultura e dei Media del Montenegro

BIENNALE ARTE

2024

Il progetto di Darja Bajagić, It Takes an Island to Feel This Good, a cura di Ana Simona Zelenović e organizzato dal Museo di Arte Contemporanea del Montenegro, offre una considerazione critica sulla cultura della memoria collettiva e sulla nostra relazione col patrimonio storico condiviso. L’artista affronta questi temi attraverso la pittura e la scultura, concentrandosi sulla complessa e stratificata storia dell’isola montenegrina di Mamula e in particolare della sua fortezza, costruita nel 1853 dal generale austroungarico Lazar Mamula. Trasformata in campo di concentramento fascista da Mussolini durante la seconda guerra mondiale, successivamente, a partire dal 2015, è stata convertita in un hotel di lusso con l’aiuto di investimenti stranieri. Le opere di Bajagić si basano sulla ricerca, e questo progetto coniuga materiale d’archivio, incluso in un preciso quadro di riferimento, e interventi simbolici caratteristici del suo lavoro. Nella sua pratica decennale, l’artista esplora l’ambivalenza dell’immagine, la dualità della sua rappresentazione, dei simboli e del significato. La sua ricerca s’incentra sulla nostra ricezione, percezione ed esperienza delle immagini e di altre rappresentazioni visive, negoziando l’assenza o la presenza dei loro corrispondenti contesti storici o sociali, o entrambi. Sperimentando con sistemi simbolici e di contenuto, l’artista esplora il significato prodotto attraverso la visualizzazione e il rafforzarsi delle opinioni in una società basata sull’immagine.

PARTECIPAZIONI NAZIONALI

It Takes an Island to Feel This Good s’interroga sull’Altro ed esamina le relazioni tra il potere nella società e il potere sul discorso. Al centro dell’opera c’è l’analisi dell’idea politico-filosofica del filosofo Giorgio Agamben, secondo cui il paradigma e nomos della modernità è un campo di concentramento in cui il sovrano ha completa autorità, di vita e di morte, sull’homo sacer (uomo sacro e potenzialmente sacrificale). Misurandosi con complesse questioni storiche e contemporanee, Darja Bajagić affronta senza timore domande come se la precondizione del male risieda nella trascuratezza della storia o nella sua mercificazione.


It Takes an Island to Feel This Good

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Darja Bajagić, Frustum — Numero 11: Komadat Logora Mamula (Piece of Mamula Camp) or Komandant Logora Mamula (Commander of Mamula Camp), 2024. Acrilico e stampa UV su tela; telaio in acciaio, 246 (altezza) × 273,5 (larghezza) × 4 (profondità) cm. Photo Marijana Janković. Courtesy l’Artista; Museum of Contemporary Art of Montenegro. © Darja Bajagić.

STRANIERI OVUNQUE

Darja Bajagić, Artist’s scan of an undated xeroxed image of Mamula from the State Archives of Montenegro, 2022. Scansione. Courtesy l’Artista; Larry Gagosian. © Darja Bajagić.


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Paesi Bassi

Commissario Mondriaan Fund Curatore Hicham Khalidi in collaborazione con Renzo Martens Artisti Cercle d’Art des Travailleurs de Plantation Congolaise (CATPC): Djonga Bismar Alphonse Bukumba Irène Kanga Muyaka Kapasa Matthieu Kasiama Jean Kawata Huguette Kilembi Mbuku Kimpala Athanas Kindendi Felicien Kisiata Charles Leba Philomène Lembusa Richard Leta Jérémie Mabiala Plamedi Makongote Blaise Mandefu Daniel Manenga Mira Meya Emery Muhamba Tantine Mukundu Olele Mulela Daniel Muvunzi René Ngongo Alvers Tamasala Ced’art Tamasala

BIENNALE ARTE

2024

Il Cercle d’Art des Travailleurs de Plantation Congolaise (CATPC) è un gruppo di artisti congolesi che lavorano nelle piantagioni. Ha sede a Lusanga, nel cuore della Repubblica Democratica del Congo, in una piantagione un tempo di proprietà della multinazionale britannico-olandese Unilever. Il CATPC ritiene che aziende come queste siano responsabili dello sfruttamento delle loro foreste e delle loro società, causando povertà estrema e distruggendo la biodiversità. Dal 2014, il CATPC sta riacquistando le proprie terre ancestrali confiscate da aziende europee nel 1911, grazie alla creazione collettiva e alla vendita di opere d’arte all’estero. Definendole “postpiantagioni”, ha già trasformato 200 ettari di ex piantagioni in sistemi agroforestali per la biodiversità. Il CATPC ritiene che le istituzioni d’arte debbano rispondere dei loro legami con le società responsabili dello sfruttamento, le stesse che ne finanziano sedi e programmi. Per questo motivo, nel 2017, insieme all’artista olandese Renzo Martens, ha aperto un centro d’arte progettato da OMA a Lusanga, chiamandolo White Cube. È quindi nato il White Cube, proprio nel punto d’origine della ricchezza con cui si sono finanziati “cubi bianchi” in tutto il mondo.

PARTECIPAZIONI NAZIONALI

Per la Biennale Arte 2024 il CATPC presenta nuovi lavori sia nel padiglione olandese sia nel White Cube. Le sculture sono in argilla con olio di palma e cacao, gli stessi frutti coltivati nelle piantagioni commerciali. Accanto alle sculture, il padiglione olandese presenta il film-performance The Judgement of the White Cube: messi sotto accusa dalla comunità, tutti i cubi bianchi sono condannati a chiedere perdono e a restituire la terra. La scultura ancestrale Balot, ritratto in legno di un agente coloniale belga, svolge un ruolo centrale in entrambe le mostre. Realizzata nel 1931 come protezione dal regime delle piantagioni, ha un valore sacro per la comunità. Dal 2015 la scultura fa parte della collezione del Virginia Museum of Fine Arts. Per il CATPC questa scultura collega il passato al presente. Nel portare provvisoriamente Balot a Lusanga, sostiene le comunità delle ex piantagioni nella loro odierna resistenza. A nome del CATPC, l’artista Ced’art Tamasala dichiara: “Le questioni della cura, della riparazione, della guarigione e della restituzione diventano inevitabili, in quanto nessun cubo bianco può dichiararsi decolonizzato fintanto che le piantagioni non lo sono”.


The International Celebration of Blasphemy and the Sacred STRANIERI OVUNQUE

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Jean Kawata e Ced’art Tamasala (CATPC), White Cube Lusanga, 2020. Cacao, grasso di palma, zucchero, 63 × 60 × 51 cm. Photo Koos Breukel 2023.


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Nigeria

Commissario Sue Eccellenza Godwin Obaseki, Governatore dello stato nigeriano di Edo Curatrice Aindrea Emelife Artisti Tunji Adeniyi-Jones Ndidi Dike Onyeka Igwe Toyin Ojih Odutola Abraham O. Oghobase Precious Okoyomon Yinka Shonibare CBE RA Fatimah Tuggar Organizzazione MOWAA (Museum of West African Art) Produzione D.H. Office Architettura di mostra Philipp Krummel Graphic Design A.M. Con il supporto principale di Qatar Museums Arijiju Con il rilevante supporto di Gbenga Oyebode Tope Lawani Phillip Ihenacho Con il supporto di White Cube Jack Shainman Gallery Cristea Roberts Gallery Goodman Gallery James Cohan Gallery Stephen Friedman Gallery Corvi-Mora Arcadia Missa Vlisco The Christian Levett Collection Christie’s Afrinvest Kuramo Capital Management ART X Lagos The Scott Collins Biennial Commission, in partnership con Outset Contemporary Art Fund Myma Belo-Osagie Sundeep e Anshu Bahanda David Ladipo Geralyn Dreyfous Paolo e Aud Cuniberti Oba Nsugbe BIENNALE ARTE

2024

Contribuenti all’asta di Christie’s x MOWAA Yinka Shonibare CBE RA Tunji Adeniyi-Jones Zizipho Poswa Ibrahim El-Salahi Stefania Tejada Victor Ehikhamenor Johnson Eziefula Lakwena Maciver Olafur Eliasson Kwesi Botchway ruby onyinyechi amanze Sthenjwa Luthuli Niyi Adenubi Osayu Ozigbo Odili Donald Odita Option Dzikamai Nyahunzvi Osinachi Àsìkò Lanre Ishola Emma Stern Oli Epp Oluseye Femi Lijadu Un ringraziamento a Andrew Solomon Wally Bakare Aki Abiola

Nigeria Imaginary trae ispirazione da due punti di partenza: i grandi momenti di ottimismo della storia del paese e la Nigeria della mente, che potrebbe essere e deve ancora essere. Presentando diverse prospettive e idee strutturate, ricordi e nostalgie, la mostra attinge a una lente intergenerazionale e multidisciplinare che agita la nazione e cerca di immaginare una nuova Nigeria. Queste voci sono declinate attraverso diversi linguaggi che spaziano dalla pittura alla fotografia, alla scultura, alla Realtà Aumentata, al suono e alla cinematografia. Nigeria Imaginary è un’indagine inquieta del passato. Yinka Shonibare CBE RA si sofferma sulla spedizione in Benin del 1897 e presenta un nuovo modo di comprendere l’eccellenza storica e artistica degli oggetti saccheggiati, mentre Toyin Ojih Odutola immagina un mondo che ruota intorno alle Mbari Houses. Onyeka Igwe e Abraham O. Oghobase esplorano i postumi del colonialismo e s’interrogano sul futuro della sua eredità, mentre Tunji Adeniyi-Jones guarda alla storia del Modernismo nigeriano per evocare un futuro storico-artistico alternativo. Fatimah Tuggar presenta una visione utopica per una nuova Nigeria che riflette sulle pressioni coloniali che hanno svalutato la tradizione artigianale e prospetta un’ibridazione concettuale e culturale. Ndidi Dike, poi, ci spinge a valutare il collegamento tra le proteste EndSARS 2020 in Nigeria e il movimento globale di Black Lives Matter, producendo un memoriale che è sia racconto ammonitore sia faro di speranza per il futuro. Precious Okoyomon c’invita in una dimensione onirica, immergendoci in una storia orale poetica e culturale e calandoci nella mente dei nigeriani contemporanei, per re-immaginare la Nigeria con loro.

PARTECIPAZIONI NAZIONALI

Ispirandosi al modello dei club Mbari della Nigeria postindipendenza, Nigeria Imaginary presenta anche manufatti storici per immergere il pubblico in un ricco spaccato della cultura materiale nigeriana. Gli Mbari sono stati concepiti come un “laboratorio di idee”, sito per paradossali intrecci di miti folclorici, esperienze di modernità coloniale, educazione morale e fantasia utopica. I loro creatori consideravano il fare arte un dovere nei confronti di una nazione in pieno sviluppo e una questione pubblica vitale. È qui che Mbari e Nigeria Imaginary si tengono per mano, trasmettendo questo dovere a una nuova scuola di artisti per ripensare una nazione ex novo. Aindrea Emelife


Nigeria Imaginary

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Yinka Shonibare CBE RA, Monument to the Restitution of the Mind and Soul (particolare), 2024. Struttura piramidale con oggetti in argilla e busto in vetroresina con disegno dipinto a mano tipo Wax olandese, 400 × 300 × 300 cm. Photo Tom Bennett. Courtesy l’Artista; Goodman Gallery, Città del Capo, Johannesburg, Londra e New York; James Cohan Gallery, New York; Stephen Friedman Gallery, Londra e New York. © Yinka Shonibare CBE RA.

STRANIERI OVUNQUE

Toyin Ojih Odutola, Lẹhin Mgbede (Before + After the Evening’s Performance), 2023-2024. Pastello e carboncino su lino, dittico, 203,5 × 203,5 × 3,2 cm (ciascun dipinto); 211 × 211 × 8 cm (ciascuno con cornice). Courtesy l’Artista; Jack Shainman Gallery, New York. © Toyin Ojih Odutola.


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Paesi Nordici (Svezia, Finlandia, Norvegia)

Commissari Gitte Ørskou, Moderna Museet Leevi Haapala, Kiasma Museum of Contemporary Art / The Finnish National Gallery Ruben Steinum, Office for Contemporary Art Norway (OCA)

Installazione video Eidotech

Curatrice Asrin Haidari

Team di produzione Martin Christensen Fredrik Eriksson Ingela Hermansson Tanny Lam Hasse Möller Zoltan Schnierer Felicia Troedsson Friberg Jun-Hi Wennergren Nordling

Artisti Lap-See Lam con Kholod Hawash e Tze Yeung Ho Collaborazioni per gli Artisti Maya Abdullah Katerina Anagnostidou Jónas Ásgeir Ásgeirsson Linnéa Sundfær Casserly Ivan Cheng Jesper Strömbäck Eklund David Hackston Bruno Hibombo Sofia Jernberg Suvi Kajas Steve Katona Linda Kokkonen Ping-Kwan Lam Johanna Larsson Tiina Majabacka Lawen Mohtadi Anja Nedremo Maren Sofie Nyland Johansen Iris Oja Þórgunnur Anna Örnólfsdóttir Jenni Räsänen Hilla Ruuska Josh Spear Fredrik Storsveen Hsiao-Tung Yuan Axel Winquist The Gong Strikes One Responsabile di progetto Luba Kuzovnikova Produzione audio Julia Giertz Giovanni Onorato

BIENNALE ARTE

2024

Installazione ponteggi in bambù Ho Yeung Chan Produzione audiovisiva Egerstrand & Blund Fredrik Egerstrand Lisabi Fridell

Produzione in loco M+B Studio Partner Berengo Studio Elektronmusikstudion EMS Gröna Lund Högmarsö Varv Kåver & Mellin AB Sidenkompaniet Studio Voltaire The Power Plant Vega Foundation Con il supporto di Barbro Osher Pro Suecia Foundation Galerie Nordenhake Berlin | Stockholm | Mexico City Genelec Göteborgs Stad The Nordic Circle IASPIS the Swedish Arts Grants Committee’s International Programme for Visual and Applied Arts The Swedish Film Institute Un ringraziamento speciale a Johan Wang

Un vasto oceano sotto un cielo grigio. Una creatura acquatica e terrestre prega la dea del mare MaZhou quando accidentalmente evoca una nave-drago che la condurrà in un viaggio al di là del tempo e dello spazio. The Altersea Opera è un’installazione audiovisiva, un’epica ricerca in mare sulle implicazioni esistenziali dello sradicamento e dell’appartenenza. Ideata e concettualizzata dall’artista Lap-See Lam (Svezia), è realizzata in collaborazione con il compositore sperimentale Tze Yeung Ho (Norvegia) e l’artista tessile Kholod Hawash (Finlandia). Produzione riccamente stratificata, l’opera abbraccia un ensemble internazionale di collaboratori che spazia da un progettista d’impalcature in bambù e una cantante amatoriale a costumisti, interpreti, artisti d’opera e registi. Alimentata sia da moderne tecnologie che da tecniche tradizionali, la pratica generativa di Lap-See Lam rivendica e al tempo stesso rende più complessa la nozione di patrimonio culturale. Entrando nel padiglione dei Paesi Nordici, i visitatori diventano passeggeri di una nave ispirata al Floating Restaurant Sea Palace che, coi suoi tre piani e dalle sembianze di drago, ha viaggiato da Shanghai a Göteborg nel 1991. Al centro della storia, troviamo la figura mitologica cantonese Lo Ting – metà pesce e metà uomo – re-immaginata da Lap-See Lam in un libretto che ne racconta il desiderio di tornare alla sua vecchia casa di Porto Fragrante solo per trovarla trasformata in modo irriconoscibile.

PARTECIPAZIONI NAZIONALI

La musica di Tze Yeung Ho fonde ornamenti barocchi e strumenti inaspettati in melodie malinconiche, inframmezzate da ninne nanne e poesie che attingono al retroterra multilingue degli artisti. Le opere tessili di Kholod Hawash formano un’installazione scultorea nel padiglione. I suoi jodaleia e tatreez (“trapuntatura” e “ricamo” in arabo) evocano un preciso mondo di motivi e sono cuciti a mano, punto per punto, con elementi tratti da esperienze personali, racconti popolari e paesaggi archeologici. Nello spirito della compagnia itinerante Red Boat Troupes, che ha reso famosa l’opera cantonese nel XIX secolo, questa troupe del XXI secolo presenta una narrazione che oscilla tra reale e immaginario, raccontando una storia di perdita generazionale, esperienza diasporica e negoziazione tra desiderio di fermarsi e necessità di andare avanti.


Lap-See Lam, The Altersea Opera, 2024. Still da film: Lisabi Fridell/ Egerstrand&Blund. Courtesy l’Artista; Galerie Nordenhake; Moderna Museet. © Lap-See Lam.

The Altersea Opera Lap-See Lam, The Altersea Opera, 2024. Photo Lisabi Fridell. Opera tessile © Kholod Hawash. Courtesy l’Artista; Galerie Nordenhake; Moderna Museet. © Lap-See Lam. STRANIERI OVUNQUE

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Lap-See Lam, The Altersea Opera, 2024. Still da film: Lisabi Fridell/ Egerstrand&Blund. Opera tessile © Kholod Hawash. Courtesy l’Artista; Galerie Nordenhake; Moderna Museet. © Lap-See Lam.


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Repubblica di Macedonia del Nord

Commissario Dita Starova Qerimi, Direttrice del NI National Gallery della Repubblica di Macedonia del Nord Curatrice Ana Frangovska, Consulente curatoriale presso la National Gallery della Repubblica di Macedonia del Nord Artista Slavica Janešlieva Titolare del progetto NI National Gallery della Repubblica di Macedonia del Nord Con il supporto di Ministero della Cultura della Repubblica di Macedonia del Nord

BIENNALE ARTE

2024

“Non si vede bene che col cuore. L’essenziale è invisibile agli occhi.” Antoine de Saint-Exupéry Possiamo sostituire o equiparare la parola “bellezza” con rispetto, libertà, amore, tolleranza, accettazione? Possiamo accettare qualcuno per tutto quello che è e perché lo conosciamo intrinsecamente? Il progetto transmediale e transnarrativo Inter Spem et Metum di Slavica Janešlieva è un’installazione spaziale visivamente purificata e progettata concettualmente che ostenta i detriti della civiltà in un modo molto sensibile e fiabesco. Attraverso piattaforme mediali e materiali multidimensionali, come piume, insegne a LED-neon, proiezioni e specchi, Janešlieva ci conduce in diverse matrici concettualinarrative dove ci confrontiamo con la sensazione di essere un estraneo, colui che è ovunque, in me, in te, in loro, in noi. Nello specifico, ci sfida con l’accettazione o meno di qualifiche separate da quelle familiari e ben note alla folla, indipendentemente dal fatto che la diversità sia basata su genere, orientamento sessuale, apparenza, comportamento, malattia, nazionalità, religione, lingua, convinzione politica… Affronta anche il sentimento di autostigmatizzazione, autocensura, autocritica, dovuto ad aspettative autoimposte.

PARTECIPAZIONI NAZIONALI

Tuttavia, essere diversi comporta anche il potenziale di trasformazione. Proprio come nella selezione naturale, la mutazione aumenta la probabilità che si verifichi un fallimento nell’adattamento o che emerga una nuova variante superiore a quella precedente. Oppure si potrebbe spiegare il potere trasformativo della differenza come derivante dal dolore e dalla sofferenza psicologica che sono cause diverse da cui trarre ispirazione e motivazione per superare la condanna e l’ostracismo che l’essere diversi dagli altri provoca. Spetta a ciascuno di noi trovare la strada verso il nostro cigno interiore. Ana Frangovska


Inter Spem et Metum

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STRANIERI OVUNQUE

Slavica Janešlieva, Inter Spem et Metum (particolare dell’installazione), 2024. 60 kg di piume d’anatra, insegna al neon a LED, dimensioni variabili. Photo Robert Jankuloski.


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Sultanato dell’Oman

Commissario Sayyd Saeed bin Sultan bin Yarub Al Busaidi, Sottosegretario del Ministero della Cultura, dello Sport e della Gioventù Curatrice Alia al Farsi Artisti Alia al Farsi Ali al Jabri Essa al Mufarji Adham al Farsi Sarah al Olaqi Organizzazione Ministero della Cultura, dello Sport e della Gioventù

BIENNALE ARTE

2024

L’Oman è da secoli una terra di confluenze di civiltà e il padiglione di quest’anno affronta un viaggio nel tempo alla scoperta del suo ricco passato di crogiolo di diverse etnie. A celebrazione del tema di questa Biennale, Stranieri Ovunque, i nostri artisti, diversi per origini e formazione, si ritrovano insieme per catturare l’essenza dell’eredità multiculturale del paese. Intitolata Malath – Haven, la nostra mostra trae ispirazione dal cuore stesso dell’Oman, rifugio (haven) per marinai, mercanti, migranti e viaggiatori da terre lontane, e invita i visitatori a intraprendere un viaggio artistico e sensoriale espresso in una moltitudine di mezzi artistici, incluso un viaggio culinario, che usa il cibo come simbolo di unità e a testimonianza di quanto le ricette di famiglia contengano l’essenza delle proprie radici. Ciascuna delle cinque stanze del padiglione presenta l’opera di un singolo artista. Ali al Jabri (stanza 1), celebre scultore omanita, ha realizzato cinque cilindri in marmo, ciascuno associato a diverse parti del mondo. Ciò che rende eccezionali queste sculture è la fusione di pietra locale e legno di alberi morti naturalmente, che riempie lo spazio interno dei cilindri. Alia al Farsi (stanza 2), si è ispirata alle ricche culture dell’Africa orientale, dell’India e della penisola arabica. Superando le tradizionali esposizioni di tessuti, le sue creazioni si estendono all’illusione ottica, esperienza immersiva che trasporta i visitatori in un mondo di riflessi e motivi grafici.

PARTECIPAZIONI NAZIONALI

Spoonful of Tradition (stanza 3) di Sarah al Olaqi è una celebrazione del patrimonio culturale e del potere dell’arte di trascendere gli oggetti di uso quotidiano. L’utilizzo dei cucchiai (spoons) funge da metafora della forza collettiva e della resilienza delle donne omanite, che hanno abbracciato con grazia le loro tradizioni nel mezzo di un mondo in cambiamento. Tutta giocata su luci e ombre, l’installazione cilindrica di Essa al Mufarji (stanza 4) presenta una bizzarra calligrafia araba ispirata a poesie sull’immigrazione e sull’essere stranieri scritte più di mille anni fa. Infine, l’installazione video immersiva di Adham al Farsi (stanza 5) trasporterà gli ospiti in un ambiente simile a una spiaggia, pervaso di elementi della storia costiera dell’Oman, in un incontro olistico e coinvolgente con il mondo e la vita delle tartarughe, simbolo stesso dello straniero.


Malath – Haven

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Sarah Al Olaqi, Spoonful of Tradition, 195 × 192 × 175 cm, Photo l’Artista. © Sarah al Olaqi.

Adham al Farsi, Symbol of Foreigner, 2024. Screeshot da video. Dimensioni variabili. Courtesy l’Artista.

STRANIERI OVUNQUE

Ali al Jabri, Water, 110 × 70 × 70 cm. Photo l’Artista. © Ali al Jabri.


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Repubblica di Panama

Commissario Itzela Quirós Curatrici Ana Elizabeth González Mónica Kupfer Artisti Brooke Alfaro Isabel De Obaldía Cisco Merel Giana De Dier Direzione di progetto Luz Bonadies Responsabile per la grafica Mariana Núñez Team di mostra Román Florez Mirielle Robles Rendering Abdair Arauz Graphic Designer Jorge Bustamante Assistenti di progetto Anna Elena González Jeffrey Barboza Con il supporto di Ministero della Cultura Museo del Canal Ciudad del Saber Fundación Arte & Cultura

BIENNALE ARTE

2024

Attraverso le opere di quattro artisti locali, il padiglione panamense prende in esame le conseguenze indelebili della migrazione sugli individui e sull’ambiente circostante. Grazie alla posizione geografica e al suo Canale, Panama funge da ponte transcontinentale e da varco tra due oceani. Luogo di transito, commercio e contatto culturale, è stato plasmato dall’arrivo e dal passaggio di esseri umani dall’epoca precolombiana ai giorni nostri. Recentemente, ha destato attenzione grazie ai migranti che attraversano il Darién Gap, una giungla tropicale di 26.000 chilometri quadrati tra Colombia e Panama. Unica via terrestre che collega il Sudamerica con l’America Centrale, è un viaggio straziante – privo di strade, infrastrutture o servizi e senza alcuna sicurezza contro violenza, pericoli e abusi – che profughi e migranti diretti verso gli Stati Uniti e altri paesi del nord attraversano a piedi. Solo nel 2023, oltre 500.000 persone – un terzo delle quali bambini – hanno attraversato il Darién, per sfuggire alle avversità che le hanno spinte a percorrere metà del continente.

PARTECIPAZIONI NAZIONALI

Le opere si aggiungono alle testimonianze di una realtà spesso ignorata fino all’invisibilità. Giana De Dier esplora la storia della migrazione afro-antillana a Panama all’inizio del XX secolo attraverso la tecnica del collage, esaminandone l’influenza sulla costruzione dell’identità nazionale. Brooke Alfaro dipinge scene impressionanti di esseri umani in condizioni ostili, ammassati su imbarcazioni che navigano in mari turbolenti o in fitte giungle tropicali. Isabel De Obaldía crea una giungla immersiva e opprimente in un’installazione che coniuga disegni di paesaggi, effetti sonori e sculture in vetro di esseri umani. Infine, Cisco Merel riflette sul miraggio di un futuro migliore modellando superfici ricoperte di fango in una grande installazione scultorea. Questi lavori fanno luce sulle esperienze dimenticate dei migranti, fungendo da struggente monito ed esortando lo spettatore a non relegare nell’oblio le storie di chi affronta violenze e difficoltà inimmaginabili alla ricerca di una vita migliore. Mirando a stabilire una connessione tra l’arte e una crisi che comprendiamo solo in parte, la mostra cerca di creare una risonanza nel pubblico, concentrandosi sulla vita di persone costrette a intraprendere viaggi ardui, che lasciano tracce indelebili sulla terra e sul corpo.


Traces: On the Body and on the Land

Brooke Alfaro, The Earth Shook and the Sea Raged, 2021. Olio su tela. Courtesy Museo de Arte Contemporáneo de Panamá.

STRANIERI OVUNQUE

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Isabel De Obaldía, Selva, 2024. Installazione, disegni a tecnica mista, sculture in vetro, e suono. Photo Sebastián Icaza.


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Perù

Commissario Armando Andrade de Lucio Curatore Alejandro León Cannock Artista Roberto Huarcaya Consulenti del Curatore Amanda Antunes Andrea Jösch Krotki Joan Fontcuberta Artisti ospiti Antonio Pareja Mariano Zuzunaga Produzione Patronato Cultural del Perú Coordinamento a Venezia eiletz ortigas | architects Graphic Design Daniela Svagelj Patrocinio El Comercio Fundación Wiese Consulenza per l’illuminazione ERCO Con il supporto di Instituto Cultural Peruano Norteamericano ICPNA Galería Rolfart Pontificia Universidad Católica del Perú PUCP Pikimachay de Ayacucho Ministero peruviano degli Affari Esteri Doña Gumi Fundación Cultural del Banco de la Nación Banco de la Nación Power Technology SA

BIENNALE ARTE

2024

Per oltre un decennio, il fotografo Roberto Huarcaya ha percorso il Perù, creando fotogrammi monumentali a cavallo tra fotografia, installazione e land art, che mettono in discussione il nostro modo di rappresentare e comprendere il nostro ambiente. Sia i fotogrammi (vasti, singolari, astratti, materiali), che il processo di produzione (sperimentale, immersivo, euristico, lento) denotano un metodo creativo che opera consapevolmente contro il “programma dell’apparato fotografico”. Questi lavori sono in contrasto con il progetto estrattivo della modernità occidentale, che incoraggia l’uso di tecnologie “avanzate” (come l’IA) per usare le immagini e i loro utenti al fine di conoscere, controllare, sfruttare e consumare il mondo. Huarcaya, al contrario, recupera un mestiere che riconosce un’idiosincrasia spazio-temporale, ammette che la materia resiste e accetta l’esperienza come irriducibile. Opera da tramite, abbracciando l’indisponibilità del mondo. Riunisce elementi eterogenei (luce, polvere, acqua, piante, insetti) su una superficie fotosensibile per ricavare tracce (immagini). Questo metodo – che genera una relazione organica e rizomatica di forze tra materiali, circostanze, artista e collaboratori – esprime un umile riconoscimento dell’esistenza come incerta e straniera. La sua posizione critico-creativa mette in discussione il potere che gli esseri umani contemporanei hanno rivendicato sul mondo, restituendo al cosmo la facoltà negata dalla cultura occidentale (variamente definita da un’ontologia naturalista e da una politica di reificazione).

PARTECIPAZIONI NAZIONALI

Attraverso l’assemblaggio delle opere (il fotogramma di un albero, la scultura di una canoa e una composizione per pianoforte) e degli elementi strutturali e ambientali del padiglione, l’installazione Huellas Cósmicas (Tracce Cosmiche), concepita appositamente per la Biennale Arte 2024, colloca gli spettatori in un’esperienza spaziotemporale indefinita, provocandone abitudini percettive, emotive e cognitive adattate agli imperativi del sistema neoliberale. Non è quindi una proposta artistica rappresentativa (non parla di questo o di quello), ma performativa: un evento immersivo e transitivo. Trasforma lo spazio in un rifugio rituale per alimentare la consapevolezza, risvegliare l’immaginazione e incoraggiare la meditazione, invitando gli spettatori a rivalutare il loro ambiente assumendo una posizione sensibile e non strumentale. Alejandro León Cannock


Huellas Cósmicas

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Roberto Huarcaya, Rencontres de la Photographie d’Arles, Francia, 2023.

STRANIERI OVUNQUE

Roberto Huarcaya, Palm Amazograma (particolare), Lima, Perù, 2020.


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Filippine

Commissario National Commission for Culture and the Arts (NCCA) in partnership con Dipartimento degli Affari Esteri (DFA) e Ufficio del Senato Presidente Pro Tempore Loren Legarda Curatore Carlos Quijon Jr. Artista Mark Salvatus

BIENNALE ARTE

2024

I trilli degli uccelli ci sfiorano. Le tende di tessuto traslucido calmano la luce che cade a cascata nello spazio del padiglione. Il suono del respiro è distinguibile mentre gli strumenti lo trasformano in un denso ronzio o in staccati luminosi di suoni pulsanti. Ripide formazioni rocciose allungano questa scena: creste che fanno capolino dietro le tende, picchi ornati di strumenti in ottone. Il padiglione delle Filippine accoglie Sa kabila ng tabing lamang sa panahong ito / Waiting just behind the curtain of this age, una presentazione monografica della produzione artistica di Mark Salvatus. Attraverso un’opera video appena commissionata, un allestimento di sculture in tessuto e rocce in vetroresina e una rielaborazione di un’opera esistente, Salvatus esplora le etnoecologie del monte Banahaw, una montagna a tre cime nella foresta ubicata al confine tra le province di Laguna e Quezon, nei pressi di Lucban, città natale dell’artista. Il titolo è tratto da Apolinario de la Cruz (popolarmente conosciuto come Hermano Puli), che fondò una confraternita religiosa per i nativi. In un discorso ai membri della fratellanza in previsione di uno scontro armato con le autorità militari ed ecclesiastiche spagnole, Puli dichiarò che gli “eventi improvvisi” che stavano per accadere “possono essere anticipati dai fedeli attraverso alcuni segni”. Puli consigliò loro di discernere sempre il “significato dei tempi” e che “la vittoria [è] proprio dietro il sipario di questa epoca (Nasasa cabila nang tabing lamang sa Panahong yto).” Il padiglione è un assemblaggio di storie popolari,

PARTECIPAZIONI NAZIONALI

che disegnano i contorni del contemporaneo all’apice di un mondo post pandemico. S’intreccia con la ricerca di Salvatus sulle storie vernacolari del monte Banahaw e di Lucban, raccolte da archivi di famiglia, materiali popolari e da vari momenti storici e motivi mitici. Prende in considerazione diverse traiettorie di discorsi sull’argomento del rinnovamento millenario, che convergono nel monte Banahaw come topos mistico, dalla crisi ecologica, agli aspetti cosmici e cosmologici della vita extraterrestre, alle immaginazioni ideologiche anticoloniali, fino ai racconti di trasformazione e riconfigurazione terrena, e al modo in cui sono incarnati nelle immaginazioni di località e di mondi di vita vernacolari di musicisti e di altri protagonisti della cultura di Lucban, incluso lo stesso Salvatus.


Mark Salvatus, Kolorum, 2024, particolare. Vetroresina, vecchi strumenti musicali, suono. Photo Elvert Bañares. Courtesy NCCA - PAVB.

Sa kabila ng tabing lamang sa panahong ito / Waiting just behind the curtain of this age

Mark Salvatus, still from Kung ang Makagiginhawa ay Matingnan ng Ating mga Mata (La fonte dell’appagamento deve essere vista con i nostri occhi?), 2024. Video 4K, colore, suono. Courtesy NCCA - PAVB.

STRANIERI OVUNQUE

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Mark Salvatus, still from Kung ang Makagiginhawa ay Matingnan ng Ating mga Mata (La fonte dell’appagamento deve essere vista con i nostri occhi?), 2024. Video 4K, colore, suono. Courtesy NCCA - PAVB.


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Polonia

Commissario Bartłomiej Sienkiewicz, Ministro della Cultura e del Patrimonio Nazionale Curatrice Marta Czyż Artisti Open Group (Yuriy Biley Pavlo Kovach Anton Varga) Organizzazione Zachęta – National Gallery of Art, Justyna Szylman Direttrice ad interim Con il supporto di Ministero della Cultura e del Patrimonio Nazionale della Repubblica di Polonia Ufficio del padiglione polacco Anna Kowalska Michał Kubiak Aga Mandziuk Partner Orlen Adam Mickiewicz Institute dela.art collection Istituto Polacco di Roma DAAD Artists-in-Berlin Program Paradyż Vogue Poland

BIENNALE ARTE

2024

Repeat after Me II è un’installazione audiovisiva del collettivo artistico ucraino Open Group, le cui opere, in stretta collaborazione con il pubblico, si concentrano sulla creazione di situazioni aperte. Il tema della guerra è presente sin da quando, nel 2014, le forze armate russe hanno iniziato le operazioni militari nella zona sudorientale dell’Ucraina. Repeat after Me II è il ritratto collettivo di un gruppo di testimoni della guerra in corso in Ucraina, attraverso video del 2022 e del 2024. Tutti i protagonisti sono civili rifugiati di guerra che raccontano il conflitto attraverso i rumori degli armamenti che hanno dovuto imparare a riconoscere, e che poi invitano il pubblico a riprodurre. Lo fanno attraverso la forma del karaoke, anche se le basi non sono quelle di canzoni famose, ma scariche di proiettili, colpi di cannone, sirene ed esplosioni, e il testo è la descrizione di un’arma letale. La colonna sonora di una guerra. Sono stati messi insieme lavori del 2022 e del 2024 per mostrare sia la drammatica continuità dei ricordi sia le evoluzioni della tecnologia bellica. Il primo video è stato girato in un campo per cosiddetti profughi interni non lontano da Leopoli; il secondo fuori dall’Ucraina, in luoghi sicuri per tutti i partecipanti, che, seppure lontani dal raggio d’azione delle sirene della contraerea, continuano a udire i suoni della guerra.

PARTECIPAZIONI NAZIONALI

Qualche settimana prima dell’invasione russa, il Centro di comunicazione strategica del Ministero della cultura ha iniziato a distribuire una brochure dal titolo In caso di emergenza o di guerra. Le istruzioni variano a seconda dell’attacco in corso: con mitra d’assalto, pezzi di artiglieria, lanci di missili o bombardamenti aerei. La capacità di riconoscerli può salvarti la vita. Repeat after Me II mostra la guerra come esperienza collettiva che prescinde da criteri di età, provenienza, status sociale e professionale, e dà voce ai testimoni del conflitto concentrandosi sul modo di ognuno di confrontarsi con la catastrofe. Il pubblico può ripetere i rumori degli armamenti, imparando il linguaggio di chi ci è passato, oppure rifugiarsi nello spazio sicuro di un karaoke bar. Che però non è tale, ma un punto d’osservazione su un futuro ancora più militarizzato di quello che ci circonda. Questa visione ci accompagnerà fin quando la politica nazionalista e imperialista continuerù a essere accettata come un elemento di normale confronto diplomatico. Marta Czyż


Repeat after Me II

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Open Group (Yuriy Biley, Pavlo Kovach, Anton Varga), Repeat after Me, 2022. Video. © Open Group.

STRANIERI OVUNQUE

Open Group (Yuriy Biley, Pavlo Kovach, Anton Varga), Repeat after Me, 2022. Video. © Open Group.


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Portogallo

Commissario Américo Rodrigues, Direzione generale delle arti Curatrici e Artisti Mónica de Miranda Sónia Vaz Borges Vânia Gala Produzione in loco Raul Betti Team di produzione Ana de Almeida, Anca Usurelu, Magda Bull, Marcela Canadas, Studio Mónica de Miranda Progetto di mostra Paulo Moreira Architectures Architettura e design del paesaggio Clinica Botanica, Paulo Palma Produzione espositori di mostre ArtWorks Satelliti HANGAR - Centro de Investigação Artística (Portogallo) Batalha Centro de Cinema (Portogallo) INSTITUTO (Portogallo) The Showroom (Regno Unito) SAVVY Contemporary (Germania)

BIENNALE ARTE

2024

Partner Fundação EDP FAS - Forward Art Stories Jahmek Contemporary Art Mercedes Vilardell Carlos Carvalho Contemporary Art Sabrina Amrani Gallery Hangar - Centro de Investigação Artística ArtWorks Batalha Centro de Cinema Blue Dimension Grafica Maiadouro The Funambulist Museu de Arte Contemporânea MAC / CCB Fundação PLMJ Media Partner RTP – Rádio e Televisão de Portugal Contemporânea Gerador Electra e-flux Antena 1 Istituzioni di supporto FCT - Foundation for Science and Technology University of Lisbon, Faculty of Letters, Centre for Comparative Studies Department of History, Drexel University University of WisconsinMadison Museu Nacional de História Natural e Ciência

Greenhouse propone la realizzazione di un “giardino creolo” all’interno di Palazzo Franchetti, unendo scultura, teatro, installazione e spazi assembleari. Ideati sotto schiavitù per necessità di sopravvivenza, i giardini creoli sono istanze di resistenza, esercizi di libertà. Amalgami di varie specie vegetali, questi sistemi a più strati erano coltivati e curati in modo che alberi e aromi diversi si proteggessero a vicenda. Greenhouse favorisce la sperimentazione e la riflessione e si fonda su quattro azioni: GIARDINO (Installazione, Spazio e Tempo), ARCHIVIO VIVENTE (Movimento, Suono e Performance), SCUOLE (Istruzione, Storia e Rivoluzione), ASSEMBLEE (Pubblico e Comunità). Il team curatoriale e artistico – un’artista, una ricercatrice e una coreografa – organizza azioni collettive, utilizzando pedagogia, suono e movimento, per riflettere sul rapporto tra natura, ecologia e politica. Il 2024 segna il cinquantenario della Rivoluzione dei garofani in Portogallo e il centenario della nascita di Amílcar Cabral, che lottò per l’indipendenza dal Portogallo di Guinea-Bissau e Capo Verde. Prendendo spunto dal gesto rivoluzionario di mettere i fiori nelle canne dei fucili e dal collegamento che Cabral fece tra agronomia e liberazione, al centro dell’opera si trova il suolo come elemento trasversale che porta con sé non solo la memoria delle trasformazioni geomorfologiche, ma anche la violenza dell’Impero, le tracce di coloro che lo hanno attraversato e le loro storie di resistenza, differenza e liberazione.

PARTECIPAZIONI NAZIONALI

Greenhouse s’interroga sui rapporti che suolo, territorio e confini nazionali hanno oggi con le politiche del corpo e integra la terra per comprendere i processi di liberazione e scoperta di sé, al fine di creare ecologie della cura nell’ecosistema attuale. Possiamo osservare queste dinamiche nel corpo migrante, essere diasporico in costante movimento e transizione. Proponendo uno spazio discorsivo decoloniale collaborativo, Greenhouse sfida le egemonie curatoriali. Il giardino diventa spazio per la continua creazione dialogica tra artisti e pubblico, un luogo collettivo che colma le dicotomie tra curatore e artista, pensiero e pratica, essere umano e natura. L’opera d’arte è uno spazio d’azione che suscita discussioni e movimenti. Con lo sviluppo di una scuola, azioni sceniche e di una rete d’incontri tra artisti, pubblico e comunità possiamo creare un archivio vivente, in un giardino in continua crescita. Mónica de Miranda Sónia Vaz Borges Vânia Gala


Greenhouse

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Mónica de Miranda, Ground, 2024. Stampa inkjet su carta di cotone, 100 × 66 cm. Courtesy l’Artista. © Mónica de Miranda.

STRANIERI OVUNQUE

Mónica de Miranda, Creole Garden, 2024. Stampa inkjet su carta di cotone, 120 × 80 cm. Courtesy l’Artista. © Mónica de Miranda.


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Romania

Commissario Ioana Ciocan Curatore Ciprian Mureșan Artisti Șerban Savu e Atelier Brenda (Nana Esi Sophie Keij) Organizzazione Idea Foundation Responsabile di progetto Cristian Alexandru Damian Con il supporto di Galeria Plan B, Berlino The Museum of Modern Art a Varsavia S.M.A.K., Gand The National Museum of Contemporary Art of Romania The National Art Museum of Moldova Kunsthalle Bega, Timișoara Cluj Cultural Centre “George Enescu” National University of Arts, Iași The Academy of Music, Theatre and Fine Arts, Chișinău Nicodim Gallery Dawid Radziszewski Gallery UniCredit Bank, Bucarest Blue Line Energy, Electroglobal Crama La Salina

BIENNALE ARTE

2024

Attraverso dipinti e mosaici, il progetto di Șerban Savu nel padiglione della Romania e nella Nuova Galleria dell’Istituto Romeno di Cultura s’interroga sulla storia della rappresentazione del mondo operaio e compone un’iconografia del lavoro e tempo libero ispirata al realismo storico e alla propaganda comunista dell’Est europeo. Invece di contestarli o distruggerli, Savu riallestisce i tropi dello slancio e della coesione rivoluzionaria, degli operai uniti sia dalle aspirazioni politiche, sia dai ritmi coreografici dell’edificazione del futuro, per ottenere la spoglia realtà di un limbo storico, momenti di sospensione, perplessità e inerzia quali microcosmi di cambiamenti o di maggiori crisi sociali. Nel padiglione, un’installazione simile a un polittico riunisce circa quaranta dipinti in uno studio multiforme di una scena sociale svuotata progressivamente del significato comune, dove varie ideologie erigono le proprie scenografie ed emettono proclami. I dipinti sono popolati da protagonisti confusi e personaggi letargici, tutti sospesi tra lavoro e riposo, in un sogno collettivo nel quale fare qualcosa o rinunciare a tutto appaiono come risultati egualmente probabili. Così, il realismo socialista diventa una modalità per rappresentare utopie disfatte, strutture erose di azioni comuni e di fragili legami sociali.

PARTECIPAZIONI NAZIONALI

Un modello architettonico presenta una serie di mosaici distanti dalle metafore e dalle tonalità che questo medium artistico trasmette in ambito religioso o nelle cosmogonie del lavoro del mosaico socialista. Nella seconda sede del progetto, uno dei mosaici è realizzato in scala monumentale. La Nuova Galleria diventa così sia una bottega artigianale sia uno spazio di discussione. Squadre di professori e studenti di due scuole d’arte della Repubblica Moldava, Paese con un’eccezionale tradizione di arte pubblica, lavorano, nel corso della Biennale, a un mosaico di cinque metri per quattro, facendo da sfondo a una serie di dibattiti pubblici su temi politici e di storia dell’arte qui toccati. In entrambe le sedi, lo studio di grafica Atelier Brenda, con sede a Bruxelles, risponde al progetto di Savu con interventi testuali e visivi ideati tramite l’astrazione del lavoro quale perno per definire il sé capitalista. In termini antipropagandistici, i grafici indagano le intricate relazioni tra soggettività e produttività, tra posizioni all’interno e all’esterno delle fabbriche sociali, che si servono di anime per generare oggetti. Mihnea Mircan


What Work Is

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Șerban Savu, The City is Being Built and Flourishes, 2017. Olio su tela, 148 × 185 cm. Courtesy Galeria Plan B, Berlino.

STRANIERI OVUNQUE

Șerban Savu, Saint Christopher, 2022. Olio su tela, 138 × 195 cm. Courtesy Galeria Plan B, Berlino.


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Repubblica di San Marino

Commissario Paolo Rondelli Curatrice Alison M. Gingeras Artista Eddie Martinez Commissario aggiunto Riccardo Varini Comitato scientifico Alessandro Bianchini Roberto Felicetti Vincenzo Rotondo Riccardo Varini Organizzazione FR Istituto d’Arte Contemporanea SpA Collaborazione Università degli Studi della Repubblica di San Marino Con il supporto di CEFI C.O.M.A.C. International AM D’Amico ELENKA M.G.M.

BIENNALE ARTE

2024

Tenendo fede alla tradizione d’invitare artisti di nazionalità diverse a rappresentare il proprio padiglione alla Biennale Arte, per quest’edizione la Repubblica di San Marino ha scelto di presentare Nomader, nuovo corpus di opere dell’artista americano Eddie Martinez. Questo gesto rende omaggio alla pratica sammarinese di dare asilo a cittadini stranieri nel corso degli ultimi due secoli, e celebra lo spirito diplomatico che ha caratterizzato il paese sin dalla nascita, distinguendolo come faro di libertà e ospitalità. Sotto il segno di un’infanzia in costante movimento, sia la biografia di Martinez che i fondamenti concettuali della sua opera sono in rapporto diretto con la molteplicità di significati suggeriti dal tema di questa Biennale: Stranieri Ovunque. Nato nella base navale di Groton, dove il padre è stato stazionato per un breve periodo, Martinez ha continuato a spostarsi tra zone opposte degli Stati Uniti, rimbalzando da una costa all’altra, spesso venendo sradicato più volte l’anno. Il suo stile “da gazza ladra” – appropriazione di frammenti d’immagini e temi – è risultato diretto di questo nomadismo. Il disegno, pratica iniziata in giovane età, è l’unica costante della sua vita. I materiali facilmente trasportabili l’hanno reso sia una forza radicante sia il motore generativo della sua opera. Le esperienze nomadiche ne hanno alimentato la pulsione a vagare liberamente tra astrazione e figurazione nel corso di una carriera ventennale. Nomader non è un’illustrazione letterale del suo vissuto, ma lo spirito che permea la sua pratica.

PARTECIPAZIONI NAZIONALI

Proprio come il tema di questa Biennale abbraccia la nozione di “Homo Migrans” – il concetto secondo cui essere umani significa migrare, spostarsi fisicamente, cambiare mentalmente e attraversare culture e identità – così fa l’universo visivo dell’opera di Martinez. L’artista ha lasciato che il suo lavoro migrasse formalmente e concettualmente dall’eredità del disegno automatico e dell’astrazione del gruppo CoBrA, al personale approccio alla figurazione fumettistica post-Philip Guston, per arrivare infine all’insolita rivisitazione di vari generi storico-artistici come natura morta e ritrattistica. La sua pratica sperimentale ed eterogenea è in continua evoluzione grazie all’uso di media diversi nel perenne tentativo di rendersi estraneo al proprio linguaggio visivo. Alison M. Gingeras


Nomader

141 Eddie Martinez, Clown Fish, 2024. Olio, acrilico e vernice spray su lino, 152,4 × 182,9 cm. Photo JSP Art Photography. Courtesy l’Artista.

STRANIERI OVUNQUE

Eddie Martinez, Borderlord, 2024. Olio, acrilico e vernice spray su lino, 152,4 × 182,9 cm. Photo JSP Art Photography. Courtesy l’Artista.


142

Arabia Saudita

Commissario Commissione Arti Visive, Ministero della Cultura Curatrici Jessica Cerasi Maya El Khalil Artista Manal AlDowayan Assistente delle curatrici Shadin AlBulaihed

BIENNALE ARTE

2024

L’installazione di Manal AlDowayan, Shifting Sands: A Battle Song, si ispira all’evoluzione del ruolo delle donne nella sfera pubblica dell’Arabia Saudita e al loro costante sforzo di attestare il proprio ruolo e ridisegnare i confini delle limitazioni tradizionali. Si tratta di un’azione simbolica che scandisce ed esamina ciò che significa essere una donna saudita oggi. Sebbene il lavoro di AlDowayan abbia assunto molteplici forme nel corso degli ultimi vent’anni, il suo impegno incessante nel riconoscere e valorizzare la voce delle donne saudite è sempre stato il fulcro della sua attività. Attraverso un ampio corpus di lavori che spaziano dalla fotografia, alla scultura, al video e all’installazione, AlDowayan da tempo documenta con sensibilità e orgoglio l’esperienza personale delle donne del suo Paese. Shifting Sands: A Battle Song rivendica lo spazio del padiglione attraverso la scultura e il suono. I visitatori sono invitati a percorrere un labirinto di sculture di grandi dimensioni realizzate in seta stampata. Simili a petali, le sculture assumono la forma della “rosa del deserto”, un cristallo che si trova comunemente nelle sabbie del deserto vicino alla città natale dell’artista, Dhahran, nella provincia orientale dell’Arabia Saudita. La superficie di questi elementi scultorei è serigrafata con testi sulle donne saudite, una cacofonia di opinioni mediatiche che hanno avuto un profondo impatto sulla loro percezione e hanno oscurato la loro auto-rappresentazione.

PARTECIPAZIONI NAZIONALI

Tuttavia, al centro dell’opera si assiste a un cambiamento. Seguendo la struttura delle danze folcloristiche nazionali storicamente interpretate dagli uomini, le diverse componenti si delineano intorno a uno stimolante elemento centrale. Se nel caso delle danze tradizionali, si tratta di una ballerina o di un poeta, in questo caso si tratta delle voci delle donne saudite che si esprimono coraggiosamente. Attraverso una serie di workshop partecipativi tenuti a Dhahran, Riyadh e Jeddah, AlDowayan ha offerto a donne e ragazze una piattaforma per affermare la propria voce e i propri desideri, sia individualmente sia collettivamente. Shifting Sands: A Battle Song è un appello accorato alla solidarietà e un’esperienza concepita per ispirare coraggio. Nelle parole di AlDowayan: “Spero che quest’opera incoraggi le donne a guardare dentro loro stesse e ad avvalersi della comunità femminile di appartenenza per trovare voce e spazio in questo nuovo capitolo della storia, in gran parte ancora non scritto”.


Shifting Sands: A Battle Song STRANIERI OVUNQUE

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Manal AlDowayan, O Sister | serie The Eternal Return of the Same (particolare), 2021. Seta tussar, inchiostro serigrafico, pittura acrilica. 160 × 195 × 55 cm. Courtesy l’Artista.


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Senegal

Commissario Marième Ba Curatore Massamba Mbaye Artista Alioune Diagne Organizzazione e supporto TEMPLON, Parigi – Bruxelles – New York WE ART PARTNERS Ministero della Cultura, delle Industrie Creative, del Patrimonio Storico e del Tempo Libero del Senegal

BIENNALE ARTE

2024

Il Senegal inaugura il suo primo padiglione alla Biennale Arte con una stella nascente, l’artista francosenegalese Alioune Diagne. Nato a Kaffrine nel 1985 e formatosi all’École des Beaux-Arts di Dakar, Diagne ha sviluppato una tecnica unica in cui piccoli moduli, che lui chiama “segni inconsci”, si raggruppano per formare un’immagine figurativa omogenea. Artista impegnato socialmente, nel corso degli anni ha utilizzato questo complesso processo segnico per creare dipinti dinamici che raffigurano scene di vita quotidiana in Senegal, ma anche le principali sfide che il mondo sta affrontando, dall’ecologia all’uguaglianza di genere, dal razzismo alle nozioni di trasmissione e di eredità. Il progetto, intitolato Bokk Bounds, concepito da Alioune Diagne e dal curatore Massamba Mbaye, è una risposta al tema della 60. Esposizione Internazionale d’Arte, Stranieri Ovunque. In wolof, Bokk significa “ciò che è condiviso”, “tenuto in comune”, così come i legami familiari. Anche il termine Mbokk, linguisticamente correlato a Bokk e che denota parentela e fratellanza, è al centro delle loro riflessioni.

PARTECIPAZIONI NAZIONALI

Una selezione di dipinti, che insieme formano un’esposizione simile a un puzzle di quattro metri per dodici, invita a unirsi e a coltivare legami, alleandosi attraverso sfide e valori universali. Dalle migrazioni clandestine nel Mediterraneo all’escalation della povertà, all’esaurimento delle risorse, al razzismo e alla dipendenza reciproca, queste opere rivelano alcune scene toccanti, facendo luce sui disastri contemporanei che si consumano nella totale indifferenza internazionale. Queste rappresentazioni sconvolgenti sono in netto contrasto con le scene di vita gioiosa raffigurate e che celebrano i valori cari all’artista: l’istruzione infantile, il patrimonio delle tradizioni e il senso della comunità. È nella ritrattistica femminile che Diagne trova l’incarnazione di questi profondi ideali. A collegare ulteriormente le scene attraverso un filo conduttore, sullo sfondo compare una progressione sbiadita e ribaltata, nota in tutto il mondo, una filigrana discreta del diagramma evolutivo, dalla scimmia all’uomo, del naturalista Charles Darwin. Aggiungendo un leggero tocco immersivo alla mostra, Diagne colloca al centro dell’opera una canoa tradizionale avvolta in un tessuto senegalese dipinto dall’artista, riecheggiando così la storia dell’umanità segnata da grandi ondate migratorie, responsabili di una crescente separazione reciproca e presagendo i futuri fenomeni migratori legati al cambiamento climatico.


Bokk – Bounds Alioune Diagne, I can’t Breathe, 2023-2024. Acrilico su tela, 100 × 100 cm. Courtesy l’Artista; TEMPLON, Parigi – Bruxelles – New York. © Laurent Edeline.

STRANIERI OVUNQUE

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Alioune Diagne, Immigrant Children, 2023-2024. Acrilico su tela, 200 × 200 cm. Courtesy l’Artista; TEMPLON, Parigi – Bruxelles – New York. © Laurent Edeline.


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Serbia

Commissario Jelena Medaković Curarice Ksenija Samardžija Artista Aleksandar Denić Produzione del progetto Ivan Milošević Marija Stošić Gestione delle costruzioni CDPC doo Belgrade, Arch. Rade Mihajlović Assistente del dipartimento progetti artistici Danilo Mlađenović Assistente dell’Artista Nebojša Antešević Assistente delle curatrici Ljubica Milovanović Identità visiva Isidora Nikolić Comitato consultivo Radoš Antonijević Nikola Šuica Dragan Zdravković Ivana Bašičević Antić Mileta Poštić Produzione e organizzazione Belgrade City Museum I Muzej grada Beograda Foundation of the Belgrade City Museum I Fondacija Muzeja grada Beograda CDPC doo Belgrade Installazioni e supporto tecnico CDPC doo Belgrade KAI Architecture Interiors Consulenza per i progetti speciali Christopher Yggdre Sotto gli auspici di Ministero della Cultura della Repubblica di Serbia

BIENNALE ARTE

2024

Il titolo della mostra, Exposition Coloniale, rievoca le conseguenze dell’epoca coloniale. A partire da questo contesto storico, Aleksandar Denić esplora le ramificazioni contemporanee del colonialismo e l’impatto continuo della divisione e della sottomissione di popoli e culture. Attraverso la sua esperienza artistica in teatro, Denić ha utilizzato le proprie capacità per approfondire questioni complesse e urgenti. Utilizzando un’inversione simbolica all’interno della mostra, sfida gli spettatori a riesaminare la loro comprensione delle dinamiche di potere, del consumismo e delle molteplici “amare” realtà dello stato attuale delle cose. Nel mondo di oggi, i temi dell’usurpazione, della divisione e del controllo continuano a essere pertinenti, non solo negli ambiti della politica e della finanza, ma anche nella sfera dei valori umani fondamentali. La mostra è situata in un padiglione nazionale che sulla facciata presenta la parola Jugoslavia, il territorio geopoliticamente dissolto a seguito dei conflitti che hanno devastato la regione all’inizio degli anni Novanta. Situato nell’angolo destro dei Giardini, il padiglione incarna la grandiosità e la raffinatezza dell’architettura italiana del Novecento. In questo caso, l’architettura diventa una sequenza emotiva, confermando che non si tratta solo di forma e funzione, ma anche del contesto sociale e culturale in cui esiste. In questo modo, il padiglione nazionale diventa non solo un edificio rappresentativo, ma un monumento vivente del paese frammentato e dell’identità perduta. Questa nota storica serve a sottolineare la complessità e la delicatezza di ogni contesto futuro.

PARTECIPAZIONI NAZIONALI

Evocando l’atmosfera di spazi come camere d’albergo, taverne, saune, bagni pubblici o cabine telefoniche, l’artista invita lo spettatore a considerare la moltitudine di significati sociali aggregati all’interno di questi ambienti. Queste strutture e conglomerati spaziali, come suggerisce Denić, sono intrisi delle ansie della società in cui esistono. Fungono da cimeli sociali, catturando l’essenza del soggiorno umano e riflettendo la sensibilità perduta e l’intimità delle nostre interazioni al loro interno. Ksenija Samardžija


STRANIERI OVUNQUE

Exposition Coloniale

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Repubblica delle Seychelles

Commissario Emmanuel D’Offay, Creative Seychelles Agency Curatore Martin Kennedy Artisti Juliette Zelime (aka Jadez) Danielle Freakley Ryan Chetty Jude Ally Assistente del Curatore Raimundas Malasauskas Partner di mostra European Cultural Centre, Venice Con il supporto di School for Cultural Studies, Venice

BIENNALE ARTE

2024

Il padiglione delle Seychelles presenta il lavoro di quattro artisti locali: Jude Ally, Ryan Chetty, Danielle Freakley e Juliette Zelime (alias Jadez). Il titolo della mostra - Pala fa riferimento alla mitica utopia del romanzo Isola pubblicato da Aldous Huxley nel 1962. In risposta al tema curatoriale di questa Biennale, Stranieri Ovunque, il padiglione delle Seychelles esplora questioni d’identità nazionale, culturale e sociale. Pur analizzando con discrezione questa complessa tematica, gli artisti esprimono la reciprocità in termini di considerazioni generali: il concetto di nazionalità e di “appartenenza”; comunicazione tra nazionalità diverse e per mezzo di diverse modalità; stereotipi e cliché stilistici; categorizzazione e determinazione di status radicate nei sistemi amministrativi delle nazioni (per esempio immigrazione); e, infine, il ruolo dei sistemi linguistici formali e informali nella nostra comprensione e nell’uso che facciamo di quanto sopra. Jude Ally presenta opere a tecnica mista su tela. L’idea di quest’installazione deriva dall’esperienza di persone che si sentono bloccate all’interno della società a causa dei suoi numerosi e rapidi cambiamenti. Gruppi di persone identificati o non identificati si sentono contaminati nella loro rilevanza da queste transizioni e restano, inevitabilmente, alienati.

PARTECIPAZIONI NAZIONALI

Ryan Chetty espone video su pannelli multistrato. Quest’installazione è essenzialmente un messaggio di gratitudine e omaggio alla nazione delle Seychelles e alla sua gente. Celebra la genesi della nazione, che ospita individui vari e straordinari provenienti da una moltitudine di origini etniche e culturali. Danielle Freakley invita a comunicare attraverso una nuova modalità discorsiva sulle sculture del continente sottomarino delle Seychelles. Al pubblico vengono distribuiti nastri con ulteriori istruzioni su come partecipare a questa modalità di conversazione. Freakley ha lavorato con Raimundas Malašauskas alla curatela delle pratiche sociali e con Rory Macbeth alla produzione della performance. Jadez espone video incorporati in un’installazione dalle forme surreali di un’amaca e attraverso l’esplorazione della formula The Piñata Effect – Adapt or Perish, che indaga l’ideologia associata al viaggio, alla migrazione e, essenzialmente, agli spostamenti da un luogo all’altro. Alla ricerca della libertà, della tranquillità e di più verdi pascoli.


Pala

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Jude Ally, Floating Installation, 2022. Tecnica mista. Photo Marsha Dine.

Ryan Chetty, Birth and Death without a Rationale (particolare), 2022. Videoinstallazione interattiva. Photo Marsha Dine.

Juliette Zelime (aka Jadez), One Year One Day, 2022 (particolare). Installazione video. Photo Marsha Dine.

STRANIERI OVUNQUE

Danielle Freakley, Induction. Still da video.


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Singapore

Commissario Low Eng Teong, National Arts Council - Singapore Curatrice Haeju Kim Artista Robert Zhao Renhui Organizzazione Singapore Art Museum Preoduzione associata James Jordan Tay Graphic Design Moonsick Gang Direzione tecnica Nic Tan Progettazione e composizione del suono Jang Young-gyu Sceneggiatura Joel Tan Attori Umi Kalthun Yazid Jalil Montaggio Adeline Chia Unità di produzione audiovisiva Arrvinraj Balasubramaniam Lewis Choo Ge Xiaocong Goh Chun Aik Hong Shuying Carpenteria Teo Teah On Ah Fai Consulenza di progetto SP Tan Con il supporto di Ministero della Cultura, Comunità e Gioventù di Singapore CHARLES & KEITH Group Foundation Monsoon Southeast Asia Collection ShanghART Gallery

BIENNALE ARTE

2024

In Seeing Forest, l’artista Robert Zhao Renhui offre un’evocativa esplorazione delle foreste secondarie, aree boschive ricresciute su terreni già compromessi dall’intervento umano, divenute poi soglia tra foreste primarie indisturbate e ambienti urbani avanzati. Uno dei tratti distintivi dell’opera di Zhao è la paziente osservazione di un qualche mondo naturale, che spesso sfugge alla piena comprensione. Dal 1998, sotto gli auspici del suo fittizio Institute of Critical Zoologists, i suoi molti ed eterogenei progetti sono serviti a evidenziare la resilienza della natura e le sue interazioni con vita e società umane. Questa mostra presenta le osservazioni che l’artista ha accumulato da varie foreste secondarie di Singapore e ne esplora la vita multiforme e i molteplici mondi al loro interno. L’opera centrale, The Owl, The Travellers, and The Cement Drain (2024), mostra scene della foresta secondaria: alberi e animali; tende abbandonate dai lavoratori migranti; uccelli migratori, un racconto instabile e fluttuante di due personaggi umani nella foresta. Con questo video a due canali conversa l’installazione scultorea intitolata Trash Stratum (2023), che consiste di vari schermi che mostrano diverse creature che visitano la foresta con gli oggetti che Zhao ha trovato e raccolto durante queste spedizioni. Disposta attorno a una Wunderkammer decostruita, l’opera richiama e destabilizza i metodi coloniali di classificazione della storia naturale.

PARTECIPAZIONI NAZIONALI

Seeing Forest invita il pubblico a sperimentare le complessità e le realtà stratificate del mondo che ci circonda, e a osservare l’evoluzione dell’isola di Singapore, rivelando alcune influenze dello sviluppo urbano sul mondo naturale e le risposte che la natura ha prodotto. Seeing Forest mostra questi spazi di transizione come punti d’intersezione per la storia, la scoperta e la sostenibilità. I confini di una città – di una pianificata così attentamente – sono probabilmente le frontiere di massima intensità. Haeju Kim


Seeing Forest

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Robert Zhao Renhui, immagine termica di un escursionista nella foresta, still da The Owl, The Travellers, and The Cement Drain, 2024. Courtesy l’Artista. © Robert Zhao Renhui.

STRANIERI OVUNQUE

Robert Zhao Renhui, un’aquila beve da un bidone dell’immondizia in una foresta secondaria , still da The Owl, The Travellers, and The Cement Drain, 2024. Courtesy l’Artista. © Robert Zhao Renhui.


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Repubblica Slovacca

Commissario Monika Krčmárik Curatrice Lýdia Pribišová Artista Oto Hudec Pezzo sonoro e performance Fero Király Performer Eva Šušková Anna Čonková Ivanka Chrapková Peter Mazalán Marek Kundlák Vojtěch Šembera Poeticizzazione delle storie degli alberi Juliana Sokolová Coreografia Petra Fornayová Costumi Michaela Bednárová Identità visiva e Graphic Design Samuel Čarnoký Architettura e allestimento di mostra Tomáš Boroš Costruzione e installazione delle imbarcazioni Róbert Bernáth Sarah Hreščáková Oto Hudec Murale Viktor Fehér Oto Hudec Michal Turkovič

“Il mondo che vogliamo è un mondo in cui si integrano molti mondi.” —Isabelle Fremeaux e Jay Jordan, We Are “Nature” Defending Itself. Le proteste civili hanno fatto la storia e Floating Arboretum si ispira alle contestazioni legate all’abbattimento delle foreste. Oto Hudec ha creato un archivio di storie relative agli sforzi degli attivisti, molti dei quali hanno costruito abitazioni sugli alberi e ci si sono trasferiti. Proprio come Il barone rampante di Italo Calvino, la cui scelta di vita narra la determinazione a lottare per un mondo egualitario. Oto Hudec racconta le fragili storie degli alberi come legami primordiali che si intrecciano con tutte le forme di vita. L’ispirazione per il dipinto degli alberi sulle zattere nasce dalla storia di un politico miliardario georgiano che acquistò gli alberi più belli della Georgia e li trasportò sulla sua isola. L’artista contempla un arboreto, un utopico luogo simbolico, un santuario per gli alberi minacciati dall’attività estrattiva dell’uomo. Il progetto è uno sguardo immaginifico a un futuro distopico in cui gli alberi vengono selezionati, salvati e trasferiti in un arboreto sicuro (immaginario).

Scultura in pietra a forma di pigna Juraj Parák Maroš Parák Assistenza tecnica Peter Beňo Organizzazione Slovak National Gallery Con il supporto di Ministero della Cultura della Repubblica Slovacca In collaborazione con Kunsthalle Bratislava Gandy Gallery

BIENNALE ARTE

2024

PARTECIPAZIONI NAZIONALI

Proteste antideforestazione. Crisi climatica. Migrazione. Il tema della Biennale Arte 2024, Stranieri Ovunque è ricorrente nel lavoro di Hudec. Il suo Floating Arboretum contempla analogamente la migrazione degli alberi in tempi turbolenti, alberi come stranieri nella loro nuova casa. I motivi ricorrenti nel lavoro di Hudec sono la fuga da un mondo di crisi che si intersecano e il desiderio di salvare ciò che è quasi insalvabile. Gli alberi dei Giardini, e Venezia stessa, che in passato ospitava più giardini botanici di qualsiasi altra città, sono minacciati dal cambiamento climatico. L’arboreto è un costrutto di potere ideologico che deve essere visto da una prospettiva decolonizzante. Hudec inverte questo concetto in quello di salvezza dal collasso degli ecosistemi autoctoni. Davanti al padiglione ceco e slovacco, una chiatta galleggia allegoricamente, trasportando una pigna di pino cembro. Lasciatevi coinvolgere dal Floating Arboretum collegandovi al sito https://floatingarboretum.sng.sk. Lýdia Pribišová


Floating Arboretum

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Oto Hudec, Floating Arboretum, 2024. Tessuti, stampa digitale su MDF, pittura acrilica, 390 × 240 cm. Photo Adam Šakový. Courtesy Gandy Gallery.

Oto Hudec, Floating Arboretum, 2024. Dettaglio di un’installazione: legno, compensato, carta, stampa digitale su carta da parati, pittura acrilica, aquerello. Photo l’Artista. Courtesy Gandy Gallery.

STRANIERI OVUNQUE

Oto Hudec, All We Could Do Together, 2024. Full HD video still. Photo l’Artista. Courtesy Gandy Gallery.


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Repubblica di Slovenia

Commissario Martina Vovk Curatore Vladimir Vidmar Artista Nika Špan Organizzazione Moderna galerija, Lubiana Con il supporto di Ministero della Cultura della Repubblica di Slovenia

BIENNALE ARTE

2024

Alla Biennale Arte 2024, la Slovenia presenta Garden Secret for You, un progetto dell’artista concettuale Nika Špan, curato da Vladimir Vidmar. È la prima volta che il padiglione sloveno assume la forma di un progetto in uno spazio pubblico, affrontando così due preoccupazioni di fondo: la mancanza di un padiglione nazionale permanente e il tema curatoriale di questa Biennale Arte, Stranieri Ovunque. Al tempo stesso scultura e architettura, la strana struttura nomade funge sia da padiglione di un Paese sia da straniero paradigmatico, stranamente fuori posto nel paesaggio storico di Venezia. Garden Secret for You si inserisce nel contesto storico di Venezia come un corpo estraneo, un elemento alieno e inaspettato. Un’entità enigmatica di un esterno estremamente specifico, riconoscibile come qualcosa di innominabile, parla di sé, raccontando la storia del suo ingresso nella sfera dell’arte, e al contempo si rivolge (indirettamente) a qualcos’altro. Garden Secret for You è un oggetto di qualità scultorea anche funzionale, un’architettura che agisce come una sorta di padiglione nazionale sloveno clandestino.

PARTECIPAZIONI NAZIONALI

Entità astratta ed estetica ed elemento fruibile, l’oggetto è un nomade paradigmatico, che passa da un registro all’altro, funzionando simultaneamente in diversi sistemi e resistendo alla sua associazione esclusiva a un particolare contesto o significato. In questo modo rappresenta sincronicamente un parallelo insolito con ciò che è al centro del paradigma dell’arte: è un oggetto estraneo a se stesso, alienando di conseguenza l’esperienza di tutti coloro che lo incontrano. Garden Secret for You parla dell’estraneità costitutiva che è al centro della pratica dell’arte, sia nella sua creazione che nella sua esperienza. Per questo motivo, l’esperienza dell’interno replica formalmente l’impressione dell’esterno, cioè l’interno dell’oggetto estrania e confonde il visitatore. Immergendovisi, il visitatore deve diventare qualcosa o qualcuno, proprio come l’oggetto in questione, un estraneo a se stesso/a, in grado di sopportare l’allettante sfida dell’ambivalenza. Vladimir Vidmar


Garden Secret for You STRANIERI OVUNQUE

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Nika Špan, Garden Secret for You, 2024. Tecnica mista, dimensioni variabili. Photo l’Artista. Courtesy l’Artista. © Nika Špan.


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Repubblica del Sudafrica

Commissario Nosipho Nausca – Jean Jezile, Ambasciatore del Sudafrica Curatrice Portia Malatjie Artisti MADEYOULOOK (Molemo Moiloa & Nare Mokgotho) Assistente della curatrice Siwa Mgoboza Collaboratori artistici Nozuko Mapoma Modise Sekgothe João Orecchia Direzione di progetto Institute for Creative Repair Team di progetto Makgati Molebatsi, Veronica King (Direzione di progetto) Dawn Robertson (Gestione eventi) Liesl Potgieter (Cooerdinamento di progetto) Percy Mabandu (PR e comunicazione) Saul Molobi (Relazioni co gli stakeholder) Team di produzione della mostra Office 24|7 Architecture PLNTH eiletz ortigas | architects Identità visiva e Graphic Design softwork studio

Quiet Ground è una meditazione sulle storie politiche, sociali, ontologiche e spirituali della terra e dell’acqua. Sostiene la soggettività e l’intervento della terra attraverso l’invocazione del suo stato contemplativo e silenzioso, all’indomani della lotta. Comprendendo il rapporto con la terra come un modo di essere, il padiglione esplora la vita segreta della terra e dell’acqua, esamina il modo in cui ne siamo plasmati e come, a loro volta, queste vengono condizionate dal nostro clima socio-politico. Radicati nel retaggio costante della migrazione forzata in Sudafrica, siamo invitati a prestare attenzione al modo in cui i diseredati si ricollegano alla terra attraverso molteplici iterazioni di spostamento. Il padiglione presenta la nuova installazione sonora Dinokana (2024) di MADEYOULOOK, che esplora i temi dello spostamento di terra e acqua, della sovranità e della riabilitazione. Concentrandosi sulle strategie perenni di riparazione dei rapporti interrotti con la terra, gli artisti considerano il simbolismo della rosa di Gerico – o pianta della resurrezione, che dopo una morte apparente si rianima quando riceve l’acqua – per attirare l’attenzione sul modo in cui due comunità del Sudafrica settentrionale hanno affrontato i cicli di perdita e riparazione.

Con il supporto di Sappi

BIENNALE ARTE

2024

PARTECIPAZIONI NAZIONALI

MADEYOULOOK mettono in evidenza diverse storie di relazione di neri e indigeni con l’ambiente circostante ed esaminano in che modo il loro accesso alle risorse naturali sia stato strumentalizzato come forma di cattura e alienazione. Contempla la capacità politica e sociale dell’acqua e attinge a essa come infrastruttura di riparazione. Immersiva e multicanale, l’installazione unisce motivi sonori che comprendono canti tradizionali sulla pioggia, il raccolto e la divinazione dell’acqua con frammenti di interviste a coltivatori e braccianti di diverse generazioni e comunità, considerando le cicliche e insistenti forme intergenerazionali di ricostituzione. I visitatori sono invitati a immergersi nell’installazione come un santuario di riposo e rifugio. La mostra ci esorta a chiederci: cosa possono insegnarci la terra e l’acqua sulla riparazione e il risanamento? Quali strategie possiamo impiegare per riconnetterci materialmente, ontologicamente e spiritualmente al nostro ambiente? Quali possibilità future potrebbero emergere dalle pratiche agricole dei nostri antenati? E cosa potrebbe accadere ascoltando i sussurri e i riverberi degli incontri quotidiani con la terra e con l’acqua?


Quiet Ground

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STRANIERI OVUNQUE

MADEYOULOOK, rendering 3D di Dinokana, 2024. Installazione per la 60. Esposizione Internazionale d’Arte, La Biennale di Venezia. Render di 24|7 Architecture. Courtesy l’Artista. © MADEYOULOOK.


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Spagna

Commissari AECID (Spanish Agency for lnternational Development Cooperation) AC/E (Acción Cultural Española) Curatore Agustin Pérez Rubio Artista Sandra Gamarra Heshiki

La Migrant Art Gallery è un’installazione site-specific, che trasforma il padiglione spagnolo in un museo storico della pittura occidentale. Il concetto occidentale egemonico di museo viene ribaltato, esponendo una serie di narrazioni che sono state messe a tacere. I protagonisti sono i migranti, sia umani sia non umani, che hanno viaggiato avanti e indietro, spesso sotto costrizione. L’ampia ricerca di Sandra Gamarra Heshiki si estrinseca in nuove opere basate su dipinti che appartengono al patrimonio nazionale delle collezioni d’arte spagnole dall’epoca coloniale all’Illuminismo. All’interno di questo ambito, sociologia, politica, storia dell’arte e biologia si intrecciano per proporre una reinterpretazione, in cui le conseguenze troppo spesso ignorate della storia si collegano al razzismo, alla migrazione e all’estrattivismo odierni, in relazione sia alla crisi ecologica sia a quella museologica.

La Migrant Art Gallery è composta da cinque sale adiacenti che fanno luce sui generi pittorici classici come il paesaggio, la natura morta, l’illustrazione scientifica e la ritrattistica come strumenti con finalità politiche che promuovono costruzioni monolitiche di Statinazione basate sulla distruzione di altre forme di organizzazione sociale. Virgin Land, appropriandosene, interviene nei dipinti paesaggistici con citazioni di teorici ed eco-femministe che sottolineano le conseguenze catastrofiche della malagestione delle risorse primarie – la crisi climatica – evidenziando al contempo le soluzioni correttive offerte dalla cura della terra da parte degli indigeni; Cabinet of Extinction collega il colonialismo alle attività estrattive delle spedizioni botaniche europee; Cabinet of Enlightened Racism racconta come l’antropologia e la scienza siano servite come strumenti di discriminazione razziale per perpetuare una falsa versione della superiorità egemonica rispetto al Sud globale; Miscegenation Masks espone i modi in cui le società collocano o emarginano gli individui in base alle linee di genere; Dying Life Altarpiece è una metafora dell’accelerazione economica e della sovrapproduzione responsabili delle innumerevoli sfide ambientali e umanitarie che ci attendono. Infine, lo spazio aperto Migrant Garden propone una contronarrazione del museo storico: un giardino popolato da copie dipinte di monumenti che non si trovano in Spagna, ma che fanno parte del patrimonio storico delle ex colonie, suggerisce un nuovo modello di istituzionalità che si allontana dalla colonizzazione perpetua a favore di un museo variegato. Agustin Pérez Rubio

BIENNALE ARTE

2024

PARTECIPAZIONI NAZIONALI


Migrant Art Gallery

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Sandra Gamarra Heshiki, Miscegenation Masks I (Portrait of an Indigenous Woman from Quito with Fruit), 2023. Olio, tre maschere in ottone e foglia oro su tela, 185 × 230 cm. Photo Oak Taylor-Smith.

STRANIERI OVUNQUE

Sandra Gamarra Heshiki, The Framing of the Landscape IV (Plastic Waste Landfill in Almería), 2023. Olio e ossido di ferro nero su tela, 175 × 310 cm. Photo Oak Taylor-Smith.


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Svizzera

Commissari Swiss Arts Council Pro Helvetia: Sandi Paucic (Leader di progetto) Rachele Giudici Legittimo (Manager di progetto) Curatore Andrea Bellini Artista Guerreiro do Divino Amor Comitato direttivo Pro Helvetia Philippe Bischof, Direttore Jérôme Benoit, Vicedirettore Anna Arutyunova, Responsabile della rete globale e degli affari internazionali Katharina Brandl, Responsabile arti visive Ines Flammarion, Responsabile della comunicazione Assistenti dei commissari Anita Magni Jacqueline Wolf Produzione esecutiva Larisa Oancea Fundraising Andrea Bellini Marie Debat Manuela Schlumpf Responsabile del padiglione e coordinamento locale Tommaso Rava

Jacopo Povelato, Alessandra Tirel) Masters of Artificial Classicism Rinaldo Rinaldi (Rinaldo Rinaldi, Mariagrazia Rinaldi, Anita Accorsi, Davide Piacentini, Ilaria Piccirillo, Francesca Paltrinieri, Letizia Ballotti) Ologrammi Holovisio Cupola Front Pictures Panorama e Marmi Elio Stile Film e musica Roma Talismano Sceneggiatura, regia, montaggio e animazione Guerreiro do Divino Amor Assistenza alla regia Diego Paulino Direzione musicale Beà Ayòólà Cast Ventura Profana Adriana Carvalho Amanda Seraphico Costumi Andy Roba The Miracle of Helvetia

Consulenza architettonica Alvise Draghi

Sceneggiatura, regia, montaggio e animazione Guerreiro do Divino Amor

Direzione tecnica Pedro Zaz

Assistenza alla regia Natasha Bandeira

Assistenza tecnica Alessandro Vangi

Regia del set in Brasile Lorran Dias

Direzione meccatronica Klaus Kellermann

Cast Jenna Hasse Fleur André Moïra Pitteloup Ventura Profana Gaëlle Deneuvy Charlotte Maas Leticia Ramos Maria Theresa Michelle Wollny Juliette Mancini Sallisa Rosa Maria Sabato Lyz Parayzo Castiel Vitorino Brasileiro

Coproduzione scenografia Giovanna Bellini Configurazione e installazione Julien Girard Rebiennale (Alice Bazzoli, Tommaso Cacciari, Alberto Marsilii, Davide Mozzato, Matteo Pavan, Mirko Pedrotti,

BIENNALE ARTE

2024

Narrazione Christiane Kolla Con il supporto di Archivorum Fluxum Foundation Burger Collection Hong Kong Fondation Jan Michalski Spada Partners République et canton de Genève Stiftung Temperatio Georg e Josi Guggenheim-Stiftung Allianz Coproduzione Centre d’Art Contemporain Genève Arsenic – Centre d’art scénique contemporain Lausanne Patron Anne-Shelton Aaron Leticia Antunes Maciel Ana Barata Antonie e Philippe Bertherat Olivier Bizon e Andrea Preiss Monique Burger Natalie Cohen Laurence e Simon Collins Mario Cristiani Yolande de Ziegler Vanessa e Maurice Ephrati Céline e Charles Fribourg Dominique e Pierre Gillioz Electa e Nasri Nohra Karma Liess-Shakarchi Vera Michalski Pierre Mirabaud Xavier Oberson Cynthia Odier Marilia Razuk Mia Rigo e Alfredo Saitta Senayt e Vito Santoro Roberto Spada Della Tamari Cristina Tolovi Amina Valentini Olivier Varenne Un ringraziamento speciale a Embassy of Foreign Artists Istituto Svizzero di Roma ISR Media partner Il Giornale dell’Arte

PARTECIPAZIONI NAZIONALI

Singolare documentarista dall’immaginazione barocca e straordinario creatore di mondi, l’artista svizzerobrasiliano Guerreiro do Divino Amor realizza per il padiglione svizzero l’installazione più complessa e ambiziosa della sua carriera: Super Superior Civilizations. Divisa in due parti, The Miracle of Helvetia e Roma Talismano – sesto e il settimo capitolo del suo Superfictional World Atlas – la mostra gioca con la logica nazionale di autocelebrazione attraverso la cultura, all’origine stessa della nascita dei padiglioni nazionali ai Giardini della Biennale oltre un secolo fa. Nel 2005, nel corso di un Master in architettura presso l’Università di Bruxelles, Guerreiro realizzò il primo episodio del World Atlas, dedicato alla capitale belga. Usando strumenti pratici e teorici assimilati durante gli studi in architettura sperimentale presso l’Università di Grenoble e grazie al suo Master sulla condizione urbana contemporanea, Guerreiro ha cominciato a interrogarsi sulla relazione tra spazio urbano e immaginario collettivo, architettura e ideologia, propaganda politica e identità nazionale. La sua pratica artistica, basata su un’attività di studio e ricerca e sull’idea di cartografia come strumento di potere, si è inizialmente articolata attraverso complesse installazioni composte di disegni, progetti, fotografie, pubblicazioni e cortometraggi. Nel corso del tempo l’artista ha cominciato a usare animazioni e effetti speciali sempre più complessi, attingendo all’estetica popolare, dalle scuole di samba del carnevale di Rio alle telenovelas, dal rap al punk rock e alla dance music, dalle ricostruzioni storiche ai rituali neo-pentecostali, dalle scienze naturali all’estetica delle grandi multinazionali. I vari episodi del World Atlas sono realizzati secondo i canoni dell’intrattenimento televisivo e del marketing aziendale e quindi accessibili a un pubblico ampio e diversificato, non necessariamente esperto di arte contemporanea. Con una lettura cartografica e allegorica di una civiltà disincantata – tanto fittizia quanto reale – Guerreiro do Divino Amor c’invita a ridere con spirito benevolo del nostro sciovinismo e di quei cliché con cui rappresentiamo noi stessi e il mondo. Atteggiamento, quest’ultimo, che ci sembra di fondamentale importanza in un periodo di crescente polarizzazione politica e di contrapposizioni radicali come quello che stiamo vivendo. Andrea Bellini


Super Superior Civilizations Guerreiro do Divino Amor, Roma Talismano, 2023. Still da video con i performer Ventura Profana, Adriana Carvalho e Amanda Seraphico. Courtesy l’Artista & Diego Paulino.

STRANIERI OVUNQUE

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Guerreiro do Divino Amor, Roma Talismano, 2023. Still da video con i performer Ventura Profana, Adriana Carvalho e Amanda Seraphico. Courtesy l’Artista & Diego Paulino.


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Repubblica Unita della Tanzania

Commissario Leah Elias Kihimbi, Direttrice aggiunta Ministero della Cultura, delle Arti e dello Sport Curatore Enrico Bittoto Artisti Haji Chilonga Naby Happy Robert Lutengano Mwakisopile (Lute) Musica Kuseka - Full Stretch di The Zawose Queens Ideato da Peter Gabriel Prodotto da Katie May Produzione originale, registrata e mixata da Oli Barton-Wood & Tom Excell Scritto da Pendo Zawose, Leah Zawose, Oli BartonWood, Tom Excell Pubblicato da Real World Works Ltd / Domino Publishing/ Faber Alt Music Publishing © 2024 Real World Records Ltd Organizzazione Uf-O Archivio e Collettivo artistico ultimi futuristi

Fotografia Marco Ravenna Con la collaborazione scientifica di Museo degli Sguardi – Raccolte etnografiche di Rimini Con il supporto principale di Ministero della Cultura, Arti e Sport della Repubblica Unita della Tanzania Mahmoud Thabit Kombo Ambasciatore della Repubblica Unita di Tanzania a Roma Consolato Onorario della Repubblica di Tanzania Con il supporto speciale di CEFA ETS Onlus Con il supporto di S.G. C.I.I.P. Cavallari Stefanelli1952 Balboni CICA Consulenze Fondazione Dott. Carlo Fornasini

Il progetto A Flight in Reverse Mirrors (the Discovery of the Other) consiste nella costruzione di quattro stanze immaginarie, rappresentative di quattro epoche della storia della Tanzania – dalla fine dell’Ottocento al primo ventennio del XXI secolo, e in un ipotetico futuro/ presente decontestualizzato – in un confronto speculare e incrociato l’una con l’altra. “Nutrita” da questa visione caleidoscopica e di scambio, l’ultima stanza si auto-ibrida divenendo una sorta di spirito invisibile sotto forma di falena antropomorfa, per visitare, come in un volo metaforico, le altre tre e, raccogliendo sensazioni e stati d’animo, giungerà a una metamorfosi finale dando luogo a un nuovo e ciclico inizio del medesimo percorso. Le opere esposte, pitture, xilografie e installazioni site-specific, si confrontano sui temi del viaggio, sulla migrazione in sensi opposti (colonizzazione contro emigrazione economica), sull’ineluttabilità del nomadismo umano e animale e sulle trasformazioni che i cambiamenti ambientali impongono all’individuo.

Direttore tecnico Giuseppe Rando – Studio Tecnico Rando Collaboratori Jacopo Soranzo Dario De Nicola Massimo Golinelli Jubilata Shao Giancarlo Bittoto Romano Berto Carlo Montanaro Mirko Bizzarri Christian Barbieri Ariberto Carboncini

BIENNALE ARTE

2024

L’idea alla base del padiglione, che abbraccia il tema curatoriale di questa Biennale Arte, è la nascita del concetto di “Altro”, e la Tanzania, come una delle “culle dell’umanità”, ci offre un punto di osservazione privilegiato: ha visto nascere i primi rapporti di scambio uomo-natura e uomo-animale, per mano dei primi “Creativi consapevoli”. La successiva e archetipica figura del trickster, nata per spiegare i fenomeni naturali, diviene però con il tempo il nuovo punto di partenza di questo scambio, assumendo inizialmente, nei vari periodi storici, toni sovrannaturali per poi incarnarsi in esseri “di mezzo”, ibridi tra uomo e Dio, fino a umanizzarsi completamente andando a costituire le “caste” sacerdotali, gli “osservatori” dell’umanità. Da qui la nascita dell’idea di diversità, del conflitto, del senso di appartenenza e dunque di quello di esclusione. Oggi, il compito di spiegare la realtà e di mediare tra istanze comunitarie, di genere, culturali, e così via, può tornare agli Artisti, primigeni Creativi, i quali, attraverso la realizzazione di opere, le più comprensibili e genuine, devono nuovamente assumere la responsabilità di spiegare all’“Altro” il proprio passato, di condividerne il presente e, forse, di predire un comune futuro. Proprio come fecero i nostri antenati all’interno di quei primordiali spazi comuni concepiti come vere e proprie cattedrali laiche. Enrico Bittoto

PARTECIPAZIONI NAZIONALI


A flight in reverse mirrors

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A sinistra: Haji Mussa Chilonga, From dark to the light, 2023. Acrilico su tela, 40 × 40 cm. Courtesy l’Artista. A sinistra: Lutengano Mwakisopile (Lute), Chief Mkwawa, 2024. Xilografia, 64 × 50 cm. Courtesy l’Artista.

A destra: Naby, The everlasting present n. 5, 2023. Plexiglas, carta, 50 × 70 cm. Courtesy l’Artista. Photo Marco Ravenna.

STRANIERI OVUNQUE

A destra: Happy Robert, The story about past life n. 1, 2023. Olio su tela, 40 × 40 cm. Courtesy l’Artista. Photo Marco Ravenna.


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Repubblica Democratica di Timor Leste

Commissario Jorge Soares Cristovão Segretario di Stato per le Arti e la Cultura della Repubblica Democratica di Timor Leste Curatrice Natalie King Artista Maria Madeira Organizzazione Ministero della Gioventù, dello Sport, delle Arti e della Cultura, Repubblica Democratica di Timor Leste Consiglieri Anna Schwartz AM Kim McGrath e Simon Fenby

Tornata in patria dopo che i timoresi avevano votato per l’indipendenza dall’Indonesia nel 1999, l’artista Maria Madeira si è trovata a dormire in una camera da letto caratterizzata dalla presenza di tracce rosse lungo le pareti all’altezza delle ginocchia. Ottenuta la fiducia dei vicini, Madeira scoprì che le tracce rosse erano resti di rossetto. Durante l’occupazione indonesiana (1975-1999), le donne timoresi erano costrette a mettere il rossetto e a baciare le pareti. Madeira dormiva circondata da impronte chiaramente visibili di centinaia di tracce di rossetto, macchie impregnate di tormento. L’artista onora queste donne nella sua installazione site-specific, inzuppando le pareti con gocce di vernice e noce di betel che ricordano il sangue. Lavora con il tais, il tessuto tradizionale realizzato dalle donne di Timor Leste. Pervasa dal dolore e dall’angoscia, Madeira spalma la terra rossa del suo luogo natio a Timor Leste sul tais, sulla tela e sul pavimento, impregnando l’installazione performativa di dolore e ricordi. Le labbra ricamate sono stratificate sulla pittura texturizzata, evidenziando sia la tenerezza sia il trauma, riflessi anche nel titolo poetico di Madeira, Kiss and Don’t Tell. L’intimità di un bacio si contrappone ai segreti, al silenzio e alle storie tenute nascoste, e Madeira fonde abilmente le influenze ancestrali, l’artigianato tradizionale con le preoccupazioni contemporanee per la condizione di chi non ha voce.

Durante l’inaugurazione della Biennale Arte 2024, Madeira bacia le pareti ricoperte da tracce di rossetto, intonando i canti tradizionali del suo villaggio nella lingua indigena Tetun. In particolare, canta una struggente canzone timorese, Ina Lou, che letteralmente significa “Cara Madre Terra”. Si tratta di un canto funerario spirituale conosciuto sia dalle generazioni più giovani sia dai membri più anziani della società, il cui testo rievoca il ciclo della nascita e il viaggio della vita e della morte: Quando nasciamo Chiamiamo la terra Cara Madre Terra Ai lai lai lai Cara Madre Terra Ai Quando nasciamo invochiamo la Terra per la sua responsabilità Lai lai ai lai lai Cara Madre Terra sebbene stanca, non allontanarti dalla responsabilità Ai lai lai lai Cara Madre Terra Ai stanca non allontanarti dalla responsabilità Un filmato della performance di Madeira è presentato insieme al suo grande dipinto che completa il ciclo di Kiss and Don’t Tell. Un atto di resistenza, sopravvivenza e resilienza, l’attivismo culturale di Madeira rende omaggio alle donne di Timor Leste e alla sofferenza delle donne di tutto il mondo. Offre conforto e un barlume di speranza e guarigione. Natalie King

BIENNALE ARTE

2024

PARTECIPAZIONI NAZIONALI


Kiss and Don’t Tell

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STRANIERI OVUNQUE

Maria Madeira, Kiss and Don’t Tell, 2024. Tais (stoffa tradizionale di Timor Est), terra rossa, colla, sigillante su tela. Still della performance. Photo Juventino Madeira. Courtesy l’Artista; Anna Schwartz Gallery, Melbourne, Australia.


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Turchia

Commissario Istanbul Foundation for Culture and Arts (İKSV) Artista Gülsün Karamustafa Manager Duygu Şengünler Architettura di mostra Aslı Esra Kocamaz Coordinamento della sede e del progetto Göksu Aydoğan Consulenza di produzione Ali Uluç Kutal Coordinamento del programma di apertura Tuna Ortaylı Kazıcı Consulenza all’illuminazione Erinç Tepetaş Consulenza per la progettazione del suono Furkan Keçeli Sviluppo web Özhan Binici Assistente all’artista Ceylan Toraman Stage Sude Köseliören Redazione Melis Cankara Graphic Design Esen Karol

Gülsün Karamustafa, una delle artiste più influenti per le giovani generazioni, si concentra sulla modernizzazione della Turchia, lo sradicamento e la memoria, la migrazione, la dimensione locale, l’identità, la differenza culturale e l’identità sessuale lungo un arco temporale di cinquant’anni. Attraverso strumenti diversi come pittura, installazione, fotografia, video e performance, mette in discussione le ingiustizie storiche perpetrate in campo sociale e politico. Alla Biennale Arte 2024, l’artista presenta la sua installazione Hollow and Broken: A State of the World. “Ciò di cui mi occupo”, racconta l’artista a proposito di quest’opera, “è la condizione di un mondo scavato fino al midollo da guerre, terremoti, migrazioni e minacce nucleari innescate di continuo, che incombono sull’umanità, mentre la natura viene incessantemente sfregiata e l’ambiente danneggiato. Cerco di dare voce fisicamente ed emotivamente a questo fenomeno: il vuoto, il nulla, la rottura prodotti dalla devastazione che è ormai all’ordine del giorno, il cui ritmo diventa sempre più arduo sostenere, dal dolore indicibile che continua a colpire ancora e ancora a intervalli incessanti, dall’assenza di valori, dalle lotte di identità e dalla fragilità delle relazioni umane.

Consulenza per la progettazione della mostra Yelta Köm Con il supporto di Ministero della Cultura e del Turismo della Repubblica di Turchia Ministero degli Affari Esteri della Repubblica di Turchia Turkish Airlines SAHA Association

BIENNALE ARTE

2024

PARTECIPAZIONI NAZIONALI

D’altra parte, sono attratta dallo sfondo di questo edificio, un tempo simbolo della potenza militare di Venezia per terra e per mare, da come quasi avvolge la questione in esame e, senza dubbio, sono chiamata a far convergere le due antiche città, Venezia e Istanbul, che ho percorso incessantemente avanti e indietro durante l’intero processo. Le colonne - incarnazioni della ‘forza‘ che, nel contesto dell’architettura, rappresenta la stabilità, la fierezza, la persistenza e la vittoria, la stessa forza che, nel corso dei secoli, ha messo in guardia il mondo a suon di guerre e saccheggi sono sostituite da sagome vuote che si reggono in piedi solo con l’ausilio di sistemi di sostegno. I carrelli su ruote, che scivolano su binari senza inizio né fine, sono stipati di schegge di vetro. I lampadari realizzati con vetri di Venezia in frantumi, illusivi delle tre fedi monoteistiche che nel corso della storia non hanno mai smesso di scontrarsi, sono visibili solo attraverso una cappa di dolore. Il suono che si sprigiona dalle immagini in bianco e nero che scorrono sullo schermo, accompagna in modo persistente ogni passo del visitatore. La luce fatica ad atterrare e a illuminare qualsivoglia elemento in particolare. Il mondo, un campo di battaglia, è un terreno in perenne mutamento”.


Hollow and Broken: A State of the World STRANIERI OVUNQUE

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Gülsün Karamustafa, Sketches for Hollow and Broken: A State of the World, 2023. Courtesy l’Artista; BüroSarıgedik. © Gülsün Karamustafa.


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Uganda

Commissario Juliana Akroyo Naumo Curatrice Acaye Kerunen Artisti Artisan Weavers Collective Sanaa Gateja Jose Hendo Taga Nuwagaba Xenson Ssenkaaba Odur Ronald

BIENNALE ARTE

2024

Wan Acel è un invito a declassificare l’arte attraverso l’opera di un gruppo eterogeneo di trentuno artisti intergenerazionali. Lavorando singolarmente o in collettivo, gli artisti esaminano i propri contesti di produzione, mettendo quindi in discussione le versioni prevalenti servite a costruire e mantenere le gerarchie della creazione artistica. Il titolo, Wan Acel, è in luo, una lingua parlata sia in Uganda sia in altre parti dell’Africa; Tuli Bamu è in oluganda, una lingua bantu parlata in Uganda; Turibamwe, in runyakitara/ nkore, un’altra lingua bantu, parlata nell’Uganda sudoccidentale, in Tanzania, nella Repubblica Democratica del Congo, in Ruanda e in Burundi. Queste lingue rappresentano le origini degli artisti in mostra, che travalicano i confini nazionali. In atti di cadenza visiva ispirati alle principali architetture africane, gli artisti di Wan Acel propongono collettivamente modi radicalmente alternativi di vedere e di essere. Attraverso l’esplorazione della memoria collettiva, Wan Acel rivela e offre un caleidoscopio intimo e multisensoriale di materialità e artigianalità. Un invito a chiedere: “Come stai?” invece di: “Chi sei!? Perché sei qui!?”. Library of Weaving (LOW) è un insieme di lavori di un collettivo di ventisei importanti artigiani tessitori, costituito da modelli e forme usati per stuoie e canestri. La mostra è un catalogo enciclopedico di superfici, colori e forme presenti sia in Uganda che oltreconfine.

PARTECIPAZIONI NAZIONALI

Sanaa Gateja, alias Bead King, espone un trio di illustrazioni circolari di perline di carta montate su tela di corteccia e un’opera performativa di gioielli, in mostra di fronte al progetto di perline di carta del collettivo The Acholi Quarters di Banda. Jose Hendo testimonia la memoria riparatrice attraverso l’uso della tela di corteccia in opere d’arte avanguardistiche e indossabili. Insieme a Sanaa e Xenson Ssenkaaba, le sue opere fanno parte di una parata che si snoda attraverso Venezia con la partecipazione del pubblico prima di essere appese nel Padiglione: opere realizzate con perline di carta riciclata, tela di corteccia, bambù, abiti da sposa riciclati e gomma. Taga Nuwagaba suggerisce alternative alla deforestazione nell’uso del bambù Dendrocalamus Black Asper per incorniciare i suoi acquerelli, con i quali si rivolge all’Artisan Collective - a sua volta simbolo delle donne del mercato che quotidianamente contrattano per lo spazio e per il prezzo delle loro produzioni. Odur Ronald mette in scena il suo ricordo dei tumulti e dei passaggi di confine utilizzando lastre di alluminio riciclate e filo di rame. Con Wan Acel, propongo di dirci l’uno con l’altro, in virtù della nostra comune umanità: Benvenuto! Qui sei a casa tua! Acaye Kerunen


STRANIERI OVUNQUE

Jose Hendo, The Common Threads, 2020. Corteccia, 111,7 × 218 cm.

Wan Acel | Tuli Bamu | Turibamwe | We Are One

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Ucraina

Commissario Taras Shevchenko, Vice Ministro per l’Integrazione Europea Curatori Viktoria Bavykina Max Gorbatskyi Artisti Katya Buchatska Oleksandr Burlaka Andrii Dostliev e Lia Dostlieva Andrii Rachynskyi Daniil Revkovskyi Organizzazione Ministero della Cultura e della Politica dell’Informazione dell’Ucraina NGO Ukrainian Photography Con il supporto di USAID/ENGAGE Bickerstaff.721 Ukrainian Institute Open Eye Gallery Goethe-Institut British Council Galeria Labirynt The University of Liverpool PEN America Artists at Risk Connection Grynyov Art Collection LAW NET Documenting Ukraine Institute for Human Sciences atelienormalno

BIENNALE ARTE

2024

Net Making: in Ucraina e all’estero, persone spesso estranee si ritrovano insieme per intrecciare reti mimetiche. Fare rete è sia una pratica di vita reale che metafora nata dalla tragedia, ma può fungere anche da occasione sociale o terapia: epitome dell’autorganizzazione, dell’orizzontalità e dell’azione congiunta, apre le porte all’emancipazione di tutti i partecipanti. Lavorando con diverse comunità ucraine, con varie esperienze raccolte in patria e altrove, gli artisti hanno fatto da mediatori e facilitatori in questo quadro di azione congiunta. In linea con la sua pratica di lungo corso, Katya Buchatska ha creato Best Wishes con quindici artisti neurodiversi nel tentativo di ripensare le convenzioni dei saluti e degli auguri, cliché più spesso dettati da regole linguistiche che da reali esigenze di comunicazione. L’opera esplora le trasformazioni del linguaggio in condizioni di pericolo di vita, enfatizzando l’imperativo di resistere alla violenza. Work di Oleksandr Burlaka rappresenta le pratiche tradizionali della sartoria domestica, caratteristiche della cultura ucraina, che fanno da sfondo a racconti di esperienze personali e di eventi e cataclismi recenti. Civilians. Invasion di Andrii Rachynskyi e Daniil Revkovskyi utilizza video d’archivio di dominio pubblico, girati da civili prima e durante l’invasione russa. Documenti così precari e autentici rischiano di perdersi nel flusso dei contenuti video; raccolti insieme, questi filmati tentano di comunicare le esperienze delle persone e allo stesso tempo servono a preservare le prove dei crimini.

PARTECIPAZIONI NAZIONALI

Comfort Work di Andrii Dostliev e Lia Dostlieva indaga gli stereotipi e le aspettative imposte ai rifugiati in Europa. Con l’aiuto di attori professionisti locali, l’opera permette giocosamente agli ucraini con esperienza di sfollamento di rivendicare la propria autonomia decisionale e rigettare quegli stereotipi in faccia a coloro che li hanno creati. Questi progetti si rafforzano a vicenda grazie alla combinazione di varie esperienze di alterità. Tutte e quattro le opere sono non tanto il risultato dell’immaginazione artistica quanto manifestazioni della realtà, che è decisamente in grado di esprimersi da sola. Attraverso diverse esperienze personali di guerra, emigrazione e integrazione sociale, il padiglione ucraino affronta il tema dell’alterità in dialogo con Stranieri Ovunque, titolo di questa Biennale Arte. Viktoria Bavykina, Max Gorbatskyi


Andrii Dostliev e Lia Dostlieva, Comfort Work #2, 2023–2024. Still da video. Courtesy gli Artisti.

Net Making STRANIERI OVUNQUE

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Anna Sapon, “Adriano Pedrosa, I congratulate you on the opening of the doors of La Biennale”, dal progetto Best Wishes di Katya Buchatska, 2024. Tappeto, 130 × 200 cm. Photo Oleksandr Popenko. Courtesy l’Artista.


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Emirati Arabi Uniti

Commissario Salama bint Hamdan Al Nahyan Foundation Curatore Tarek Abou El Fetouh Artista Abdullah Al Saadi Assistente del Curatore Masha Refka Progetto di mostra Hussein Baydoun Graphic Design Hani Charaf, Kemistry Design Con il supporto di Ministero della Cultura degli Emirati Arabi Uniti

BIENNALE ARTE

2024

L’artista Abdullah Al Saadi è un viaggiatore, cronista, cartografo, poeta, decifratore, alchimista, dispensatore di memoria e narratore. Per il padiglione degli Emirati Arabi Uniti, la sua personale presenta otto opere d’arte realizzate durante i suoi viaggi nella natura incontaminata e propone di esaminare il suo processo creativo in relazione alle pratiche dei poeti arabi vissuti secoli fa. Durante i suoi viaggi, Al Saadi inizia a disegnare, dipingere o scrivere quando si sente immerso nella natura. Analogamente, i poeti arabi classici attribuivano l’ispirazione per la composizione delle loro poesie proprio a questo processo d’immersione. Viaggia da solo, con la compagnia di un libro, della musica, di un animale domestico o di un mezzo di trasporto. La presenza di questi compagni di viaggio ha un impatto significativo sulle sue opere, in quanto si uniscono a lui nell’esplorazione della terra e del posto dell’uomo in essa. Simili a mappe, i disegni e i dipinti di Al Saadi non includono tutti i componenti spaziali dei paesaggi che ritrae, né escludono elementi della vita contemporanea. Sceglie i siti da ricordare e quelli da dimenticare, in un processo creativo che è contemporaneamente intellettuale ed estetico, sensoriale e affettivo, ed è il territorio dell’arte per eccellenza. I siti della memoria sono essenzialmente abbinati ai siti dell’amnesia, entrambi necessari al processo di formazione della memoria individuale e collettiva, rappresentando storie parallele accanto a quelle ufficialmente documentate.

PARTECIPAZIONI NAZIONALI

Da oltre quarant’anni, Al Saadi crea narrazioni fortemente soggettive e, attraverso un assiduo processo di archiviazione, conserva le sue mappe, pietre, pergamene e disegni in scatole di latta di varie forme e dimensioni, che a loro volta sono raccolte in grandi casse di metallo come scrigni del tesoro, numerati, datati e codificati, come se stesse creando e preservando una memoria collettiva per il futuro. La mostra è un invito a entrare nel singolare mondo di Abdullah Al Saadi e a vagare tra le sue caratteristiche uniche e preziose. Si tratta di un viaggio in cui i visitatori si avventurano lungo un percorso alla scoperta sia delle opere d’arte esposte sia di quelle celate nelle casse di metallo. In una rievocazione del rituale dell’artista con i visitatori nel suo studio, le opere nascoste vengono rivelate da interpreti che sono costantemente presenti nello spazio. Interagiscono con i visitatori, raccontando loro storie e fornendo indizi sui viaggi dell’artista e sulla memoria collettiva che Al Saadi evoca nel presente e conserva meticolosamente per il futuro.


Abdullah Al Saadi: Sites of Memory, Sites of Amnesia

Abdullah Al Saadi, The Sufi’s Journey by Bicycle, Tin 67, 2019. Matita di grafite su rotolo di tela, scatola di latta, 17 × 13 × 5 cm. Photo Roman Mensing. Courtesy padiglione nazionale degli Emirati Arabi Uniti – La Biennale di Venezia.

Abdullah Al Saadi, The Slipper’s Journey, Rock 24.1, 2015. Pittura acrilica su roccia, 33 × 17 × 6 cm. Photo Roman Mensing. Courtesy padiglione nazionale degli Emirati Arabi Uniti – La Biennale di Venezia.

STRANIERI OVUNQUE

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Abdullah Al Saadi, A Journey in the Footsteps of Camar Cande by Car, Box 16, 2017. Contenitore di latta, matita di grafite e vernice a olio su tela, 28 (d) × 6 cm (h). Photo Roman Mensing. Courtesy padiglione nazionale degli Emirati Arabi Uniti – La Biennale di Venezia.


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Stati Uniti d’America

Commissari Kathleen Ash-Milby Louis Grachos Abigail Winograd Curatrici Kathleen Ash-Milby Abigail Winograd Artista Jeffrey Gibson Organizzazione Portland Art Museum, Portland, Oregon SITE Santa Fe, Santa Fe, New Mexico Partner didattici Institute of American Indian Arts, Santa Fe, New Mexico Bard College, Annandale-onHudson, New York In partnership con Ufficio Affari Educativi e Culturali del Dipartimento di Stato degli Stati Uniti d’America Peggy Guggenheim Collection, Venezia Supporto alla presentazione Ford Foundation Andrew A. Mellon Foundation Supporto alla leadership The John D. and Catherine T. MacArthur Foundation Con il supporto principale di Agnes Gund Arison Arts Foundation Carl & Marilynn Thoma Foundation Crystal Bridges Museum of American Art The Hearthland Foundation Henry Luce Foundation Sotheby’s Terra Foundation for American Art Il team di progetto e l’artista sono grati alle numerose e generose fondazioni e ai sostenitori privati di questo progetto qui non elencati.

BIENNALE ARTE

2024

The space in which to place me di Jeffrey Gibson combina sculture multimediali, dipinti a tecnica mista, murales site-specific, un’installazione video multicanale e una grande installazione esterna per trasformare il padiglione degli Stati Uniti in un’incarnazione della sua visione radicalmente inclusiva per il futuro: uno spazio in cui l’arte indigena e un ampio spettro di espressioni e identità culturali sono al centro dell’esperienza umana. Membro della Mississippi Band of Choctaw Indians e di origine Cherokee, Gibson è un artista interdisciplinare la cui pratica è influenzata da un’educazione internazionale in Corea del Sud, Germania e Stati Uniti. Il suo linguaggio visivo ibrido attinge alla storia americana, indigena e queer, con riferimenti alle sottoculture popolari, alla letteratura e alle tradizioni artistiche globali. Gibson rivela come il gusto, le nozioni di autenticità e gli stereotipi dominanti nei confronti delle persone indigene e queer siano usati per delegittimare le espressioni culturali che esistono al di fuori del mainstream. Nell’ambito del suo lavoro multimediale, l’estetica intertribale, la tecnica delle perline, i tessuti e i ready-made degli ultimi due secoli si mescolano con i linguaggi visivi del Modernismo globale. Ampliando le tradizioni indigene di pittura e tessitura, il suo uso di motivi e geometrie astratte affronta la cromofobia dell’arte contemporanea. Combina queste miriadi di influenze in opere d’arte che riflettono le realtà pulsanti delle comunità indigene negli Stati Uniti, una forma di critica culturale che si rapporta a storie complesse piuttosto che cancellarle.

PARTECIPAZIONI NAZIONALI

La mostra celebra questa complessità incorporando le voci di scrittori, poeti e cantautori, oltre a stralci dei documenti costitutivi degli Stati Uniti. Gibson sonda la distanza tra gli ideali della democrazia e i modi in cui è stata promulgata. Nel farlo, lotta con il suo complicato rapporto con l’identità americana di persona queer e indigena. Allestendo il palcoscenico per un coinvolgimento gioioso e partecipativo, l’installazione di Gibson incarna il suo ethos di accettazione e amore estendendo lo spazio della catarsi a tutti noi. Kathleen Ash-Milby, Abigail Winograd


Jeffrey Gibson: the space in which to place me STRANIERI OVUNQUE

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Jeffrey Gibson, if there is no struggle there is no progress (particolare), 2024. Perle di vetro, quarzo rosa, filo di nylon, feltro acrilico, imbottitura in poliestere, acciaio laminato a freddo, 58,4 × 88,9 × 45,7 cm. Photo Brian Barlow. Courtesy Jeffrey Gibson Studio. © Jeffrey Gibson.


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Uruguay

Commissario Facundo de Almeida Curatore Elisa Valerio Artista Eduardo Cardozo Organizzazione Ministero dell’Educazione e della Cultura dell’Uruguay Direzione Nazionale della Cultura dell’Uruguay Uruguay Culture Foundation National Institute of Visual Arts Collaborazione, progettazione dell’illuminazione, movimentazione delle opere d’arte e fotografia Álvaro Zinno Consulenti per il restauro Mechtild Endhardt Claudia Frigerio Collaboratori Ministero degli Affari Esteri Ambasciata dell’Uruguay in Italia Consolato onorario dell’Uruguay a Venezia Agency Uruguay XXI Fondos de Incentivo Cultural

Latent è un’installazione immersiva che crea un processo interpersonale tra due pittori a distanza: l’uruguaiano Eduardo Cardozo e il veneziano Tintoretto. Questo dialogo si compone di tre momenti: il “nudo”, la parete dello studio di Cardozo, trasferita a Venezia attraverso la tecnica dello stacco; il “paramento”, un’interpretazione da parte di Cardozo di uno degli schizzi del Paradiso di Tintoretto; e il “velo”, un tessuto cucito dai ritagli di garza utilizzati per trasferire la parete dello studio. Per prima cosa, Cardozo scopre la pelle del suo laboratorio e rimuove gli strati superficiali delle pareti del suo studio attraverso lo stacco. Mostra la sua parte più intima di artista, il nudo, lo spazio in cui concepisce e produce le sue opere. Questa parete scrostata evidenzia la fragilità dell’artista e del suo lavoro, espone la sua assenza di radici; l’artista non esiste al di fuori del suo contesto o di una cornice che lo contenga. In questa stanza prismatica dalle linee pure e fredde, le pareti dello studio smettono di essere rivestite e diventano un innesto su un’unico fronte lineare. Spiccano nella loro alterità quando cambiano posizione. Il muro diventa un atto di estraneità a Venezia: un muro uruguaiano che abita un muro veneziano.

In secondo luogo, Cardozo si muove nello spazio e nel tempo per esplorare Venezia, trovando nella sua ricerca uno degli schizzi del Paradiso di Tintoretto. Questa grande tela, conservata al Museo ThyssenBornemisza, è stata sottoposta a un minuzioso restauro tra il 2012 e il 2013. Il processo di restauro ha affascinato Cardozo, che ha deciso di ricreare l’abbigliamento dei personaggi del dipinto, realizzando una reinterpretazione volumetrica modellata in cotone leggero sbiancato, tela e lino. La sua interpretazione non cerca di imitare l’originale trasponendolo in un altro formato, ma vuole piuttosto far emergere questi tessuti, che appaiono come ammassi fluttuanti dotati di grande fluidità e armonia. I colori veneziani danzano in un dialogo di forme organiche. Infine, il velo è appeso al centro della stanza. Un tessuto leggero e traslucido composto dai pezzi di garza cuciti utilizzati per trasferire le pareti dello studio. Prevale un’atmosfera vaporosa che lascia intravedere e al contempo occulta. Propone un gioco di seduzione tra le altre due parti dell’opera, permettendoci di svelarle sotto una luce diffusa. Questa membrana semi-permeabile ci invita a conoscere l’artista e noi stessi nel suo riflesso. In questo processo interpersonale, Cardozo impara tanto su Tintoretto e Venezia quanto su se stesso. Elisa Valerio

BIENNALE ARTE

2024

PARTECIPAZIONI NAZIONALI


Latent

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Eduardo Cardozo, schizzo dell’installazione Latent, 2024. Tecnica mista. Photo Álvaro Zinno. Courtesy Álvaro Zinno. © Álvaro Zinno.

STRANIERI OVUNQUE

Eduardo Cardozo, schizzo dell’interpretazione dei Paramenti del Paradiso di Tintoretto, 2024. Tessuti tinti e modellati con colori acrilici e a olio. Photo montage Álvaro Zinno. Courtesy Museo Nacional ThyssenBornemisza.


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Repubblica dell’Uzbekistan

Commissario Gayane Umerova, Presidente della Fondazione uzbeca per lo sviluppo dell’arte e della cultura presso il Gabinetto dei ministri della Repubblica dell’Uzbekistan Curatore Centre for Contemporary Art Tashkent Artista Aziza Kadyri Artisti associati Qizlar collective Responsabili di progetto Laziza Akbarova, Fondazione uzbeca per lo sviluppo dell’arte e della cultura Malika Zayniddinova Bekzod Ulmasov, Centre for Contemporary Art Tashkent Graphic Design Francesca Biagiotti Pupilla Grafik Progetto di mostra Sofia Bengebara Adra Studio Realizzazione di mostra We Exhibit Collaboratori Elmurod Najimov Svetlana Chistiakova Anastasia Sinitsyna Con lo speciale supporto di Saida Mirziyoyeva, Assistente del Presidente della Repubblica di Uzbekistan

BIENNALE ARTE

2024

Come si mette in scena il senso d’appartenenza? Come ci si cala nei panni di uno “straniero”? Aziza Kadyri, artista della diaspora uzbeka, attira l’attenzione sulle esperienze delle donne dell’Asia centrale e su come queste costruiscono e ricostruiscono le proprie identità durante il processo di migrazione, sia interno che esterno. Sviscerando ricordi visivi e corporei, l’artista attinge sia alla propria memoria personale, sia a quella collettiva delle donne nella comunità uzbeka contemporanea ed esplora tutto il repertorio di accorgimenti e trucchi culturali e sessuali utilizzato per costruire l’identità femminile centroasiatica, che si manifesta attraverso la polivocalità, l’ibridità e la mitopoiesi. Oscillando tra visibilità estrema e totale invisibilità – spettro amplificato nell’era dei media digitali – le donne diventano sia spettacolo sia spettatrici della propria vita. Il progetto immerge i visitatori in una quinta teatrale decostruita, che ricorda le Case della Cultura presenti in tutto l’ex blocco sovietico all’inizio del Novecento. I costumi si trasformano in sculture, integrate con materiale audiovisivo frutto della collaborazione con Qizlar, un collettivo con sede a Tashkent co-fondato dall’artista. Basato sulle narrazioni femminili, il lavoro esplora le memorie fisiche, le pratiche collettive e la relazione tra il corpo e il suo ambiente.

PARTECIPAZIONI NAZIONALI

L’installazione mette in relazione il ricamo centroasiatico, comunemente chiamato Suzani, e un generatore d’immagini IA ottimizzato che, nel reinventare i motivi Suzani, porta alla luce i pregiudizi presenti nella tecnologia, incapaci di riconoscere le complessità della cultura dell’Asia centrale. Il padiglione incoraggia a interrogarsi sull’impatto dello sviluppo dell’intelligenza artificiale sulla creazione di memorie collettive in un mondo globalizzato. Siamo ancora noi che ricordiamo, o c’è ormai qualcos’altro che ricorda per noi? L’installazione sfida gli spettatori a far proprio il potenziale disagio e a interpretare sia l’osservatore che l’osservato, spostandosi tra gli stati di esposizione: cambiamenti percepibili solo da chi si trova al di fuori di questo spazio di performance accidentale. Centre for Contemporary Art Tashkent


Don’t miss the cue

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STRANIERI OVUNQUE

Aziza Kadyri, sequenza di trasformazione del ricamo Suzani creata da un modello generativo, parte di Don’t Miss the Cue, 2024. Tecnica mista. Courtesy l’Artista; Fondazione uzbeca per lo sviluppo dell’arte e della cultura; Uzbekistan State Museum of Arts.


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Repubblica Bolivariana del Venezuela

Commissario Reinaldo J Landaeta Díaz Curatore Edgar Ernesto González Artista Juvenal Ravelo Commissari aggiunti Paola Posani Urdaneta Daniel Suárez Bustamante Curatrice aggiunta Tarím Susana Goís Cárdenas Coordinamento stampa Mary Pemjean Graphic Designer Tatum Goís Cárdenas Álvaro Arocha Infografica di mostra Juan Carlos Hernández Museografi Edgar Ernesto González Daniel Suárez Bustamante Fotografia Roiner Ross Ricerche Tarím Goís Edgar Ernesto González Daniel Suárez Reinaldo Landaeta

BIENNALE ARTE

2024

Animazione digitale Daniela Tovar Daniel Jiménez Juvenal Ravelo Edgar Ernesto González Eduardo León Daniel Suárez Concettualizzazione artistica Ingeniería Creativa Global Art & Construction OBA art Con il supporto di Ministero del Potere Popolare della Cultura Ministero del Potere Popolare degli Affari Esteri Banco de Desarrollo Social y Económico de Venezuela (Bandes) Banco Central de Venezuela (BCV) Banco de Desarrollo de América Latina y el Caribe (CAF) Industria Venezolana de Aluminio C.A (CVG VENALUM) Fundación Daniel Suárez Centro de Arte

Questo progetto è un omaggio al maestro dell’arte cinetica che, nel 1965, iniziò i suoi studi in sociologia dell’arte alla Sorbona, dove ebbe come professori gli storici e ricercatori Pierre Francastel e Jean Cassou. Juvenal Ravelo, come altri artisti stranieri, giunse a Parigi per consolidare gli studi in un ambiente effervescente, ricco di cambiamenti sociopolitici e culturali. Il suo rapporto con pensatori e teorici dell’arte, come Frank Popper, gli diede l’opportunità di riconoscere i fattori sociali che intervengono nella creazione come parte fondamentale del pensiero artistico contemporaneo. Le sue abilità e le nuove conoscenze lo portano a focalizzare la propria ricerca sulle esperienze della percezione visiva, che Ravelo definisce “frammentazione della luce e del colore”. L’artista vanta una vasta e poliedrica carriera con oltre settant’anni di studi e produzione nazionale e internazionale. Su un piano bidimensionale, la sua proposta s’incentra sulla scomposizione della luce, attraverso illusioni ottiche in tempo reale grazie all’interrelazione tra colore e apparenze visive. Le opere presenti nel padiglione del Venezuela sono installazioni concepite e progettate ad hoc. Ogni opera integra la frammentazione della luce e l’arte partecipativa, attraverso la quale l’artista propone azioni di attivazione dello spazio urbano risultante dalla collaborazione della comunità nella costruzione dell’opera d’arte; un concetto nato nel 1975 nella sua città natale, Caripito. È così che un murale invita i visitatori a creare collettivamente un’opera d’arte in corso, utilizzando i colori degli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile.

PARTECIPAZIONI NAZIONALI

Juvenal presenta un allestimento cinetico nella sala maggiore e, analogamente, propone un percorso immersivo, partecipativo e sensoriale in cui il visitatore sperimenta la rappresentazione tridimensionale dell’opera. Nella sala minore l’artista usa le nuove tecnologie per mettere a confronto l’arte digitale con concetti sviluppati tra il 1965 e il 2024: l’effetto della doppia esposizione; l’instabilità ottica; la luce frammentata; l’ambiente dell’attività cromatica; la luce e il colore del nuovo millennio. La mostra è un incontro con l’esperienza fisica della luce e del colore attraverso interazioni dinamiche che fanno percepire l’arte non come oggetto contemplativo ma come evento sociale ed estetico. Edgar Ernesto González


Participatory Experience. Juvenal Ravelo.

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Juvenal Ravelo, Participation Art, 2024. Pittura acrilica su tela, 240 × 960 cm. Courtesy Fundación Daniel Suárez Centro de Arte (CADS). © Juvenal Ravelo.

STRANIERI OVUNQUE

Juvenal Ravelo, Chromatic activation environment, 2024. Vernice acrilica per autoveicoli su alluminio con elementi riflettenti, 3400 (lineare) × 200 cm. Courtesy Fundación Daniel Suárez Centro de Arte (CADS). © Juvenal Ravelo.


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Repubblica dello Zimbabwe

Commissario Raphael Chikukwa, National Gallery of Zimbabwe Curatrice Fadzai Veronica Muchemwa Artisti Komborerai Chapfika Sekai Machache Troy Makaza Victor Nyakauru Gillian Rosselli Moffat Takadiwa Assistente della Curatrice F. Zvikomborero Mandangu Con il supporto di Governo della Repubblica dello Zimbabwe Ministero dello Sport, della Ricreazione, delle Arti e della Cultura

BIENNALE ARTE

2024

Il padiglione che ospita lo Zimbabwe alla 60. Esposizione Internazionale d’Arte della Biennale di Venezia è incentrato sul concetto di kududunuka: un’esplorazione delle idee che indicano il disfacimento del mondo. La mostra può essere letta come una riflessione sulla reimmaginazione di un futuro potenziale e richiama l’infedeltà nei confronti delle concezioni imposte di tempo, geografia, spazio, identità, nazione, umanità, migrazione e duttilità del paesaggio in continua evoluzione che chiamiamo casa. Ci troviamo al limite dell’impatto secolare dell’azione umana. Questa mostra offre uno spazio di riflessione, costruendo ciò che non esiste ancora e proiettandosi verso un nuovo orizzonte. La speranza è creare dei costrutti intorno a una cartografia inventata e di rendere omaggio a figure storiche, alimentare la discussione e di interrogare lo stato del mondo, rendere fisicamente presenti informazioni storiche spesso andate perdute o rimosse e presentarle in modi nuovi e stimolanti, nonché ripensare la politica globale dell’estetica e dell’epistemologia. I sei artisti, Komborerai Chapfika, Sekai Machache, Troy Makaza, Victor Nyakauru, Gillian Rosselli e Moffat Takadiwa, elaborano un orientamento capace di diagnosticare, cancellare e proporre modi diversi di governare, vivere e fare le cose.

PARTECIPAZIONI NAZIONALI


Undone STRANIERI OVUNQUE

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Gillian Rosselli, Heritage is a Pattern, 2024. 150 × 200 cm. Photo David Brazier.


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Padiglione Venezia

Commissario Maurizio Carlin Curatrice Giovanna Zabotti Artisti Safet Zec Pietro Ruffo Vittorio Marella Franco Arminio Accademia di Belle Arti (Gaia Agostini Besnik Lushtaku) Artefici del Nostro Tempo Organizzazione Comune di Venezia, Direzione Sviluppo, Promozione della Città Tutela delle Tradizioni e del Verde Pubblico Fondaco Italia Partner principali BPER Banca La Galleria Corporate Collection Partner istituzionali Fondazione Musei Civici di Venezia Fondazione Teatro La Fenice Università Ca’ Foscari Venezia Iuav, Università Iuav di Venezia Accademia di Belle Arti di Venezia ITS Academy Marco Polo Nonsoloverde Venezia Ve.La, gruppo AVM Venis Comitato scientifico Marco Mastroianni Chiara Squarcina Elisabetta Barisoni Riccardo Caldura Valentina Galeotti Chiara Grandesso Alessandro Pedron Marco Tosato

BIENNALE ARTE

2024

Abbiamo bisogno di un luogo: ci vuole una mano, una casa, un sorriso, qualcosa che ci faccia da perimetro. —F. Arminio Il Padiglione Venezia vuole essere questo: l’esplorazione di una condizione non geografica, non di lingua, non sociale ma affettiva, di ricerca di sé e della propria completezza emotiva e sentimentale. Il sentirsi a casa è senza dubbio una sensazione, ma spesso, nell’immaginario comune, è unicamente legato a un luogo o diversi luoghi in cui ci sentiamo liberi di essere noi stessi. La casa è l’evento morale per eccellenza. Prima che un artefatto architettonico, secondo il filosofo Emanuele Coccia è un artefatto psichico, che ci fa vivere meglio di quanto la natura consentirebbe. È lo sforzo di adeguare noi stessi a ciò che ci circonda e viceversa, una forma di addomesticamento reciproco tra cose e persone. È l’estensione di ciò che cominciamo a fare nascendo: costruire intimità con quel che ci sta accanto. Ecco perché coincide con l’io, e ci dimostra che per dire “io” abbiamo, comunque, bisogno degli altri. Il progetto affronta questa dinamica in maniera intima scegliendo i linguaggi della poesia e della pittura in cui il visitatore può immergersi: come nella vita reale, ogni particolare ha il suo perché. Entrare nello spazio espositivo significa penetrare nelle radici della propria natura, per cercare una consapevolezza anche di ciò che non può rappresentare “casa” perché lontano ed estraneo.

PARTECIPAZIONI NAZIONALI

Sestante domestico è, quindi, uno strumento di ricerca attraverso la storia e il nostro io, la natura e l’amore, tra le opere di Pietro Ruffo, di Safet Zec, di Vittorio Marella, dei giovani artisti dell’Accademia di Belle Arti di Venezia, con un osservatorio particolare grazie agli “artisti in partenza” ospiti del padiglione attraverso il concorso Artefici del Nostro Tempo e quella di Koen Vanmechelen ospitata all’esterno. Sestante domestico vuole essere un contrappunto di vedute. L’arte, che ricostruisce il tempo e lo spazio, ci porta a trovare il punto fermo nel nostro “sestante domestico”: lavorare con sentimento, trattare qualcosa con amore lo trasforma in “casa”, qualunque essa sia. Giovanna Zabotti


Sestante domestico

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STRANIERI OVUNQUE

Franco Arminio, Auguri e gratitudine (verso), 2024. Inchiostro su carta. © Franco Arminio.


186 BIENNALE ARTE

2024

PARTECIPAZIONI NAZIONALI

Pietro Ruffo, L’immagine del Mondo (particolare), 2024. Inchiostro su carta posata su tela, 700 × 2500 cm. © Pietro Ruffo.


Sestante domestico

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Vittorio Marella, studio per la serie Il ritrovamento, Under the weight of a heavy sun, 2023-2024. Tecnica mista su carta, 19 × 27 cm. © Vittorio Marella.

STRANIERI OVUNQUE

Safet Zec, Tavolo dell’artista, 2007. Tempera e collage su carta, 220 × 160 cm. © Safet Zec.



Eventi Collaterali


190 BIENNALE ARTE

2024

Yoo Youngkuk, Work, 1975. Olio su tela, 32 × 41 cm. Collezione privata. © Yoo Youngkuk Art Foundation.


Pur inizialmente attratto dai concetti fondamentali dell’arte astratta provenienti dall’Europa e dal Giappone, Yoo Youngkuk in ultima analisi ha cercato di trovare un proprio approccio originale attingendo soprattutto dall’esperienza personale e di sviluppare così la propria idea di “ordine della natura”, a sua volta radicata nella visione coreana del mondo naturale. Nei suoi lavori si ispira in particolare ai paesaggi della propria città natale, Uljin, con le sue montagne imponenti e il mare profondo. Per Yoo Youngkuk la natura non è potenziale conquista, bensì misteriosa e ineffabile fonte di sublimità. Questo atteggiamento decisamente orientale è particolarmente evidente nelle sue opere degli anni Sessanta e Settanta, esposte in questa mostra, che rivelano la sua impareggiabile capacità di catturare la bellezza mutevole della “montagna” per eccellenza tramite diversi linguaggi pittorici. Questa è la prima mostra speciale al di fuori dei confini coreani a presentare una collezione completa dei dipinti di Yoo Youngkuk appartenenti al suo periodo di massimo splendore, accompagnata da una grande quantità di materiali d’archivio che ne rivelano i pensieri e la vita personale.

Curatore Inhye Kim Artista Yoo Youngkuk Coordinamento Myeong-jee Kim Soohyun Park Rebecca Riegelhaupt Supporto ai Media Brunswick Group Progetto di mostra Jiyo Architects Graphic Design Byul.org

Yoo Youngkuk Art Foundation

Yoo Youngkuk (1916-2002) nasce nel villaggio di Uljin nel 1916, quando la Corea era sotto il dominio coloniale giapponese. Dopo aver lasciato la scuola superiore di Seoul, a causa del trattamento ingiusto riservatogli da un insegnante giapponese, si trasferisce a Tokyo dove studia arte all’Università Bunka Gakuin, un’istituzione che accoglieva studenti stranieri provenienti dalla Corea o da altre aree colonizzate dal Giappone e adottava un sistema educativo che incoraggiava forme libere e diverse di espressione artistica. Durante il suo periodo studentesco, Yoo Youngkuk è fortemente influenzato dalle opere di Piet Mondrian e si impegna attivamente con vari artisti e gruppi artistici giapponesi. In questo ambiente, Yoo diventa uno dei primi artisti coreani a esplorare l’arte astratta. Dopo l’esperienza della Prima guerra mondiale, Mondrian si era persuaso che le narrazioni e il romanticismo che gli esseri umani creavano per se stessi portassero solo alla guerra e al caos. Riteneva pertanto che l’arte dovesse abbandonare questo genere di narrazioni ed esprimere invece l’ordine della natura attraverso puri principi formali. Simpatizzando con le idee radicali di Mondrian, Yoo Youngkuk affermò che “L’astrazione andava bene perché non aveva parole”.

Film documentario image Joom Supporto per le apparecchiature LG Electronics

Inhye Kim

EVENTI COLLATERALI

STRANIERI OVUNQUE

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A Journey to the Infinite: Yoo Youngkuk


192 BIENNALE ARTE

2024

Trevor Yeung, Night Mushroom Colon (Five), 2020. Lampada notturna, adattatori di spina, 14 × 15 × 13 cm. Courtesy l’Artista e Blindspot Gallery.


A World of Many Worlds risponde al tema Stranieri Ovunque, per riflettere su che cosa significhi riconoscere l’esistenza di molteplici mondi, non solo di molteplici soggetti, e che cosa possa significare metterli in relazione. Questo discorso ci chiede di prendere coscienza di una molteplicità di geografie sociali, posizioni politiche, cosmologie, prospettive estetiche e collocazioni temporali, vedendole al contempo non come incommensurabili, non come universali, bensì come pluriversali. Così facendo, rifiutiamo i falsi concetti di universalismo che mettono al centro l’Occidente e si limitano a includere altre narrazioni, altre politiche e altre modalità di espressione. I flussi delle nostre voci sono invece multipli, collegano le geografie e articolano nuovi modi di essere e di conoscere correlati tra loro.

Sono flussi che scaturiscono da e attraverso le Asie. Non un’Asia spettacolarizzata per il consumo globale, ma una costellazione introspettiva di Asie globali che osserva in profondità le sue difficili storie di colonizzazione, genocidio, devastazione ambientale, spostamento, diaspora, espropriazione e guerra, e cerca di immaginare in vita nuovi mondi attraverso una molteplicità di posizioni, connessioni, diaspore e solidarietà. Attraverso un coinvolgente programma di presentazioni, tavole rotonde, animazioni e proiezioni, A World of Many Worlds propone un portale di accesso a diverse temporalità, lasciando intravedere una trasformazione piena di speranza, la sorpresa e degli incontri felici.

EVENTI COLLATERALI

Curatori Annie Jael Kwan Michèle Ruo Yi Landolt Hammad Nasar John Tain Ming Tiampo Nick Yu Artisti Isaac Chong Wai Sandra Gamarra Heshiki Lap-See Lam Subash Thebe Limbu Vidha Saumya Joshua Serafin Yao Qingmei Trevor Yeung Con il supporto di Asymmetry Art Foundation Bagri Foundation

Asia Forum & Asymmetry Art Foundation

Molte parole camminano nel mondo. Molti mondi si fanno. Molti mondi ci fanno. […] Nel mondo del potente c’è spazio solo per i grandi e i loro servitori. Nel mondo che desideriamo tutti hanno spazio. Desideriamo un mondo che contenga molti mondi. Quarta dichiarazione della selva Lacadona

STRANIERI OVUNQUE

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A World of Many Worlds


194 BIENNALE ARTE

2024

Wong Weng Cheong, Wandering in Wilderness #2, 2024. Stampa su carta, 42 × 52 cm. Courtesy l’Artista.


Above Zobeide si colloca tra le dilaganti “esclusioni inclusive” (per usare l’espressione di Giorgio Agamben) che il soggetto della migrazione di massa deve affrontare sia all’interno sia all’esterno di confini, territori e culture. In Above Zobeide, il virtuale e il reale coesistono senza alcun confine chiaro, il nativo e l’estraneo contemporaneamente definiti e indistinguibili. In quanto tale, il luogo “al di sopra di Zobeide” costituisce ciò che Roland Barthes ha teorizzato come atopia: uno spazio che non può essere descritto, classificato o paragonato, un qualche luogo completamente Altro. In un viaggio di autoesplorazione e autoproiezione le cui dimensioni e la cui portata continuano a evolversi, l’artista lavora a questa serie di opere dal 2018. Above Zobeide si immerge ancor di più nell’autoanalisi. Wong scava nel proprio habitat familiare, esaminandolo e riformulandolo da una prospettiva impersonale. Attraverso un processo di decostruzione, il sé diventa altro. Come tutti, l’artista stesso diventa uno straniero nel proprio mondo fittizio.

Curatore Chang Chan Artista Wong Weng Cheong

Coordinamento a Venezia Carlotta Scarpa, PDG Arte Communications

Macao Museum of Art

Le città invisibili di Italo Calvino racconta la storia di Zobeide e della sua fondazione. Uomini di diverse nazioni fanno tutti l’identico sogno di una donna nuda che corre in una città sconosciuta. La inseguono senza tuttavia raggiungerla, così al risveglio provano a cercare la città ma non riescono a ritrovarla. Insieme decidono di ricostruirla, modificando i percorsi alla ricerca della donna in modo che la prossima volta non possa sfuggire loro. Zobeide, come molti luoghi nati dai processi di colonizzazione e globalizzazione, è una città del desiderio. Cresciuto a Macao, una città eretta da ondate di “stranieri” provenienti da varie nazioni, Wong Weng Cheong costruisce all’interno della propria arte una sorta di strana pastorale analoga all’onirica costruzione urbanistica di Calvino. Selvaggi e allo stesso tempo addomesticati, gli unici abitanti dei suoi paesaggi sono erbivori mutanti con zampe stranamente allungate che tengono i loro corpi lontano dall’erba, loro unica fonte di cibo. I corpi disfunzionali si tendono verso il cielo come una contraddizione vivente. Il paesaggio rivela ovunque le tracce dell’attività umana, a indicare lo stretto legame tra civiltà e mutazione. Wong costruisce un paesaggio mentale che allude al proliferare delle dislocazioni psichiche, fisiche ed esistenziali della nostra epoca. Allo stesso tempo, la sua opera è in sintonia con le implicazioni del titolo della Biennale Arte, Stranieri Ovunque.

Commissario Paolo De Grandis Graphic Design Steven Wu Con il supporto tecnico di Lu Shixiao Ieong Ngai Ian Celestino Maria MG Cordova Leong Chi Ian

Chang Chan

EVENTI COLLATERALI

STRANIERI OVUNQUE

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Above Zobeide, Exhibition from Macao, China


196 BIENNALE ARTE

2024

Dread Scott, All African People’s Consulate, 2024, dettaglio dell’interno del passaporto. Installazione partecipativa, dimensioni variabili. Courtesy l’Artista e Cristin Tierney Gallery, New York.

Dread Scott, All African People’s Consulate, 2024, dettaglio del partecipante con passaporto. Installazione partecipativa, dimensioni variabili. Courtesy l’Artista e Cristin Tierney Gallery, New York.


Dread Scott All African People’s Consulate [Il consolato di tutti i popoli africani] è un’opera d’arte concettuale di Dread Scott. Si tratta di un vero e proprio consolato per un’immaginaria unione panafricana e afrofuturista di paesi, che promuove relazioni culturali e diplomatiche. Presso il consolato i visitatori possono richiedere un passaporto o un visto per la All African People’s Community [la comunità dell’intero popolo africano]. Avranno un colloquio con il personale addetto, durante il quale discuteranno del proprio rapporto con l’Africa, della loro storia familiare di migrazione e altro ancora. Il consolato facilita la cittadinanza per le persone di origine africana in una comunità futurista e globalista, consegnando loro un passaporto personalizzato, mentre gli altri ricevono un visto di ingresso.

La premessa del consolato è l’opposto di quella alla base della maggior parte degli esistenti checkpoint di controllo immigrazione: laddove questi spesso funzionano per limitare l’ammissione e il movimento, il consolato facilita le modalità di entrata. Tutti sono invitati a restare in questo ambiente conviviale, a conversare e a interagire in maniera spontanea e naturale. Con la creazione di All African People’s Consulate, Dread Scott compie un atto di inversione. I feed dei media americani ed europei sono saturi di immagini di persone nere colpite dalla violenza, in disperate migrazioni attraverso luoghi caldi e aridi, o in situazioni spesso disastrose a bordo di fatiscenti zattere sovraffollate. Il consolato ribalta questa visione del continente e dei suoi popoli. E se invece di essere visto come luogo da cui fuggire, esistesse una comunità africana di nazioni che fosse una calamita, un rifugio dal colonialismo e dall’oppressione, una destinazione per l’immigrazione e la visita? Il consolato realizza questa visione, a lungo auspicata da combattenti e attivisti per la libertà: uno Stato libero per gli “africani”, veramente indipendente e democratico. Per usare le straordinarie parole del visionario afrofuturista e musicista Sun Ra, “lo spazio è il luogo”, il luogo in cui i neri liberi della diaspora possono riunirsi. Ma se non fosse necessario andare così lontano? Se l’Africa fosse già quel luogo? E se lo fosse sempre stato?

Curatore Paul Bright, Hanes Art Gallery, Wake Forest University Artista Dread Scott Con il supporto di Wake Forest University Cristin Tierney Gallery Ford Foundation Mellon Foundation

The Africa Center and Open Society Foundations

“Creare un consolato nel bel mezzo di questa importante mostra d’arte ribalta la logica per cui il movimento del popolo africano viene controllato e limitato. Il progetto creerà una comunità tra le persone che vengono a Venezia, soprattutto se nere. Se sono africane o di origine africana, sarà come un benvenuto e un ritrovo. Sarà divertente, sarà cool e sarà un luogo in cui pensare al presente e al futuro.”

Paul Bright

EVENTI COLLATERALI

STRANIERI OVUNQUE

197

All African People’s Consulate


198 BIENNALE ARTE

2024

Andrzej Wróblewski, Wedding Photograph (Married Couple with a Bouquet), 1949. Olio su tela, 119 × 69 cm. Sul retro: (Abstraction), [Geometric Abstraction], undated [1948]. Collezione Starak. Courtesy Andrzej Wróblewski Foundation / www.andrzejwroblewski.pl. © Andrzej Wróblewski Foundation.


La mostra In the First Person racconta l’arte in tempi di soggiogamento, di stretto controllo e di ordini paralizzanti. È un dialogo con i contemporanei sul prezzo e le conseguenze delle proprie scelte. È una lezione d’arte sospesa tra astrazione e figurazione. È la storia di un outsider, un fuorilegge, che mirava a una libertà creativa senza limiti. È il grido post mortem di un giovane artista che chiede coraggio, intransigenza e responsabilità sociale. Si tratta della seconda presenza dell’opera di Andrzej Wróblewski a Venezia. La prima fu la Mostra di pittura polacca contemporanea, esposizione collettiva nella Sala Napoleonica (ora parte del Museo Correr) del 1959, curata dall’eminente storico dell’arte e curatore polacco Ryszard Stanisławski (1921-2000) e dallo storico e critico d’arte veneziano Guido Perocco (1916-1997).

Curatrice Ania Muszyńska Artista Andrzej Wróblewski

Team Magda MarczakCerońska Kama Kieremkampt

Starak Family Foundation

Andrzej Wróblewski – uno dei più importanti pittori polacchi della seconda metà del XX secolo – nasce nel 1927 ma scompare prematuramente prima di compiere trent’anni. La sua esperienza è segnata dalle estreme difficoltà della guerra, dalla morte di persone care, dalla brutalità, dallo sterminio degli esclusi, nonché dall’inferno del dopoguerra, dallo sfollamento e dal senso di perdita. Vagando costantemente al confine tra vita e arte, Wróblewski sfugge a facili definizioni e categorie. La sua opera, sebbene storicamente conclusa, rimane attuale e, generazione dopo generazione, molti giovani artisti si sono identificati come suoi eredi, vedendo in lui non solo un classico, ma un sostenitore autentico e simbolico. Andrzej Wróblewski ha rappresentato la pittura moderna di derivazione realista, la cui nuova formula si era fatta facilmente carico del peso del contenuto astratto e ambiguo, mentre la forma non mancava mai di rispettare le conquiste dell’avanguardia. Ha lasciato un’eredità coraggiosa, rivoluzionaria e audace che comprende opere innegabilmente assimilabili a monumenti dell’arte contemporanea polacca rappresentati da serie quali Executions, Chauffeurs, Queues, Chairings, Tombstone. Andrzej Wajda (1926-2016), eminente regista polacco e suo amico, lo considerava l’artista più eccezionale della loro generazione e ha spesso reso omaggio al suo genio nei propri film.

La mostra presenta opere provenienti dalla collezione di Anna e Jerzy Starak, da altre collezioni private e dalle collezioni dei musei nazionali polacchi.

Ania Muszyńska

EVENTI COLLATERALI

STRANIERI OVUNQUE

199

Andrzej Wróblewski (1927–1957). In the First Person


200 BIENNALE ARTE

2024

Berlinde De Bruyckere, Arcangelo II (San Giorgio), 2023-2024, in corso d’opera, 2024. Cera, pelo animale, silicone, ferro, resina epossidica, 251 × 82 × 105 cm. Photo Mirjam Devriendt. Courtesy l’Artista e Hauser & Wirth. © Berlinde De Bruyckere


Nella sacrestia, Berlinde De Bruyckere espone un’installazione di tavoli da saldatura in metallo con tronchi d’albero ricoperti e circondati da una colata di cera. L’installazione richiama uno scenario post-apocalittico in cui frammenti di natura morta subiscono un ulteriore congelamento, aprendo al contempo un orizzonte salvifico di rigenerazione e rinascita, conferendo così alla scena un potenziale di crescita. Interagendo con la boiserie della sacrestia, l’installazione arborea suggerisce un ambiente avventuroso e precario al dipinto sull’altare di Giuseppe Porta (detto il Salviati) con Maria e Giuseppe che presentano Gesù al tempio di Gerusalemme. Un terzo gruppo di sculture prende spunto dagli eccezionali intagli dell’artista cinquecentesco Albert van den Brulle, che decorò il coro della basilica con bassorilievi in noce raffiguranti la vita di San Benedetto. Nell’atrio della galleria del monastero, De Bruyckere ha montato una sequenza di vetrine a parete in cui i motivi dei bassorilievi del coro vengono elaborati, simultaneamente rianimati e pietrificati.

Curatori Carmelo A. Grasso Ory Dessau Peter Buggenhout Artista Berlinde De Bruyckere Con il supporto di Hauser & Wirth

Abbazia di San Giorgio Maggiore - Benedicti Claustra Onlus

City of Refuge III è stata concepita specificamente per gli spazi sacri dell’abbazia di San Giorgio Maggiore, rispondendo ai principi architettonici, alla funzione, al simbolismo e alla storia del luogo. La mostra, che prende il titolo dall’omonima canzone di Nick Cave, è la terza di una serie che tematizza l’arte come luogo di rifugio e riparo, tema qui rafforzato dall’intensità spirituale del luogo. Oscillando fra trascendenza e immanenza materiale, la mostra è composta da tre nuovi gruppi di opere a cui si aggiunge una selezione di lavori recenti nelle sale della galleria del monastero. Il primo gruppo di opere, che occupa la basilica, mette in evidenza l’archetipo dell’arcangelo, che appare come una velata figura ibrida che giustappone l’umano al divino e allo spirituale, il terreno al celeste e il temporale all’eterno. Si tratta di quattro nuovi arcangeli, ognuno dei quali emerge all’interno di un gruppo scultoreo modulare composto da un alto piedistallo irregolare con una patina d’argento, uno schermo a specchio inclinato che moltiplica la figura dell’arcangelo e l’ambiente circostante e uno stendardo monumentale che accentua l’aspetto rituale dell’ambiente e delle opere.

Ory Dessau

EVENTI COLLATERALI

STRANIERI OVUNQUE

201

Berlinde De Bruyckere: City of Refuge III


202 Carlos Casas, Bestiari, 2024. Batvision, still. Courtesy l’Artista © Carlos Casas.

Carlos Casas, Bestiari, 2024. Snakevision, still. Courtesy l’Artista © Carlos Casas.

BIENNALE ARTE

2024


Bestiari rende omaggio agli animali della Disputa presentando suoni e immagini oniriche di pipistrelli, api, delfini, asini, elefanti e altre creature, tutti registrati nel loro habitat naturale. Con un sistema di spazializzazione infrasonica Ambisonics 3D, Bestiari propone delle frequenze estranee al sistema sensoriale umano, generando una percezione di vicinanza fisica con questi animali e con i paesaggi in cui sono immersi, nonché offrendo modi sensoriali di scoperta interspecie. Inoltre, la proiezione di un film legato allo spettro visivo di ogni specie crea incontri ipnotici con gli animali e i loro habitat, sfumando ulteriormente i confini tra sogno e realtà. Carlos Casas realizza film, installazioni e ambienti sonori attenti a luoghi e comunità che esistono in simbiosi, rappresentando la relazione tra gli esseri viventi e gli spazi che li circondano. Con Bestiari, propone il sogno come forma di comunicazione interspecie, evidenziando la necessità di considerare molteplici prospettive, sensi e modalità di azione. Bestiari è un progetto che indaga su dove si possa trovare la speranza oggi, osservando gli elementi che accomunano il presente e il passato, analizzando il ruolo dell’inconscio nell’ecologia e suggerendo metodi di connettersi ad altre vite e ad altri modi di vivere. Filipa Ramos

EVENTI COLLATERALI

Curatrice Filipa Ramos Artista Carlos Casas Immagine Carlos Casas

Institut Ramon Llull

Ispirato a un testo medievale in cui degli animali parlanti esigono una giustizia interspecie, Bestiari è un ambiente ipnagogico popolato di suoni e immagini di creature che provengono da paesaggi catalani naturali e immaginari. Questa installazione di Carlos Casas si lega ai primi compendi di storia naturale, in cui si trovava la descrizione di ogni sorta di animale, e prende le mosse dalla Disputa de l’ase (Disputa dell’asino), scritta nel 1417 da Anselm Turmeda, tra i fondatori della letteratura catalana. Il testo narra la storia di un uomo che si risveglia da un sogno con la capacità di capire ciò che dicono gli animali. L’uomo affronta dunque un processo condotto dal portavoce degli animali, un asino dalla lunga coda, che lo interroga in merito alla superiorità degli umani sugli altri esseri viventi. Con l’ausilio di diciannove argomentazioni, l’asino confuta l’antropocentrismo in questioni come l’orientamento spaziale, i legami di parentela e l’organizzazione politica. La coscienza ambientale pionieristica di Turmeda lo rende un precursore della difesa dei diritti della natura e i suoi racconti espandono il concetto di straniero, trasportandolo da una prospettiva antropocentrica a un’ottica di correlazione che unisce gli umani agli altri esseri del pianeta.

Suono Chris Watson Carlos Casas Ingegneria audio e spazializzazione Tony Myatt Missaggio del suono Armand Leseq Marc Parazon Voce e ospite speciale Marina Herlop Produzione di mostra Marta Millet Agustí Curatore dei programmi pubblici Pol Capdevila Identità visiva Phantasia Collaboratori àngels barcelona Barcelona Provincial Council, Department of Natural Spaces and Green Infrastructure Batalha Centro de Cinema, Porto; Ca’ Foscari University of Venice, Department of Linguistics and Comparative Cultural Studies; Department of Climate Action, Food and Rural Agenda, Government of Catalonia; University of Surrey Centre for Vision, Speech and Signal Processing (CVSSP); Institute Art Gender Nature – HGK FHNW, Basel IUAV Arti Visive, SSH! Sound Studies Hub, Venice; Universitat Pompeu Fabra, Barcelona L’Institut Ramon Llull è un consorzio formato dal Governo della Catalogna, dal Governo delle Isole Baleari, dal Comune di Barcellona e dal Comune di Palma.

STRANIERI OVUNQUE

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Catalonia in Venice | Bestiari | Carlos Casas


204 Madhvi Parekh, Karishma Swali e Chanakya School of Craft, Devi and Asura, 2023. Filo di juta, cotone, lino e seta grezza biologici su tessuto di cotone, 292 × 378 cm. Photo Abner Fernandes. Courtesy Chanakya Foundation.

Manu Parekh, Karishma Swali e Chanakya School of Craft, Temple of Goddess, 2023. Filo di juta, cotone, lino e seta grezza biologici su tessuto di cotone, 282 × 412 cm. Photo Abner Fernandes. Courtesy Chanakya Foundation.

BIENNALE ARTE

2024


Alcune loro opere prendono nuova vita attraverso i minuziosi ricami e le tecniche artigianali dell’India e vengono realizzate utilizzando esclusivamente materiali naturali che meglio rispondono alla comune sensibilità degli artisti e degli artigiani, come lino grezzo, iuta, seta e cotone. Questi lavori tridimensionali diventano manifestazione di una vera e propria dichiarazione d’intenti artistici: l’affermazione di una pratica innovativa che, facendo leva su un approccio multidisciplinare, aspira a scardinare ogni presupposta gerarchia tra arti, generi e ruoli. Reinventando la relazione tra artista e artigiano, si dà vita a un nuovo linguaggio che esalta il ruolo delle comunità nella valorizzazione delle tradizioni autoctone e si celebra al contempo l’energia trasformativa femminile, capace di creare il nuovo a partire da ciò che già esiste. Maria Alicata Paola Ugolini

EVENTI COLLATERALI

Curatrici Maria Alicata Paola Ugolini Artisti Madhvi Parekh Manu Parekh Karishma Swali Chanakya School of Craft

Chanakya Foundation

Cosmic Garden nasce dalla collaborazione tra gli artisti indiani Madhvi Parekh e Manu Parekh con Karishma Swali e Chanakya School of Craft di Mumbai, istituzione non profit impegnata nel favorire l’emancipazione sociale delle donne attraverso l’artigianato. Omaggio alla bellezza pluralistica del patrimonio culturale dell’India, la mostra si articola in una serie di dipinti e sculture di Madhvi Parekh e Manu Parekh, e nella loro metamorfosi in un ulteriore mezzo espressivo interdisciplinare, il ricamo, che si manifesta nelle opere create da Karishma Swali e Chanakya School of Craft. Il progetto si prefigge di rivalutare la relazione tra donne e ricamo, portando questa pratica fuori dalla sfera della domesticità nello spazio pubblico. I dipinti e le sculture di Madhvi Parekh traggono ispirazione dalle storie sulle divinità femminili indiane che celebrano il potere della trasformazione interiore. Queste opere si contrappongono solo da un punto di vista formale a quelle di Manu Parekh che, ispirandosi alle tradizioni culturali indiane, abbracciano al contempo elementi tipici del Modernismo occidentale e dell’Espressionismo astratto. Così come i lavori di questi artisti celebrano i miti tradizionali indiani – in cui la dimensione spirituale è anche un potente dispositivo immaginativo e creativo – allo stesso modo i lavori realizzati da Chankya School of Craft con la direzione artistica di Karishma Swali trascendono i confini convenzionali delle arti applicate per creare un linguaggio artistico originale, ma fermamente radicato nella storia culturale indiana.

Assistente delle curatrici Giulia Mastropietro Progetto di mostra Gerardo Cejas, InMovimento Design Grafica Elisa Calore Produzione di mostra A Consulting Stampa e PR Pickles PR Partner tecnico ILTI Luce (Nemo Group) Un ringraziamento speciale a Delphine Arnault Maria Grazia Chiuri Olivier Bialobos e Rachele Regini di Dior

STRANIERI OVUNQUE

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Cosmic Garden


206 Dana Kavelina, It Cannot Be That Nothing That Can’t Be Returned, 2022. Animazione 3D, 52‘02”. Prodotta da PinchukArtCentre. Courtesy l’Artista.

Allora & Calzadilla, Graft (Baobab), 2024. Cloruro di polivinile riciclato e vernice, dimensioni variabili. Coprodotto da PinchukArtCentre. Courtesy l’Artista.

BIENNALE ARTE

2024


Curatori Björn Geldhof Ksenia Malykh Oleksandra Pogrebnyak Artisti Kateryna Aliinyk Allora & Calzadilla Alex Baczyński-Jenkins Fatma Bucak David Claerbout Shilpa Gupta Oleg Holosiy Nikita Kadan Zhanna Kadyrova, Dana Kavelina Nikolay Karabinovych Lesia Khomenko Yana Kononova Kateryna Lysovenko Otobong Nkanga Wilfredo Prieto Oleksiy Sai Anton Saenko Fedir Tetianych Anna Zvyagintseva Roman Khimei e Yarema Malashchuk Daniil Revkovskiy e Andriy Rachinskiy

Victor Pinchuk Foundation

Il mondo ha raggiunto un punto di svolta. Le tempeste e i cambiamenti climatici devastano le terre in lungo e in largo. Gli estremismi politici avanzano. La vicenda dell’Ucraina ha fatto emergere una lotta di potere globale che ha riportato la guerra in Europa. Viviamo un momento cruciale in cui il futuro rimane incerto. Quali cambiamenti ci aspettano? Siamo in grado di immaginare il futuro in un clima di incertezza esistenziale? Abbiamo il coraggio di sognare? La mostra tesse un arazzo di storie vissute, immaginate e sognate: prende le mosse dalla situazione in Ucraina ed è organizzata dall’Ucraina, ma trascende i confini della sua lotta per costruire nuovi legami con altre situazioni, affrontando inoltre il disastro ecologico e cercando di immaginare una nuova utopia. La devastazione del paesaggio documenta la violenza umana, dalle economie di estrazione alle crude realtà della guerra, ma forse porta anche con sé i semi di un nuovo inizio. Le voci sommesse divengono canti di resistenza e resilienza. Potranno le lotte nel mondo attuale creare un futuro migliore? E nelle zone liberate dalla guerra, potranno le ex vittime coesistere con gli ex aggressori? E infine, potrà l’empatia offrire modi di essere condivisi, sarà sufficiente a costruire un comune sentire in uno spazio di memoria conflittuale?

Assistente curatrice Oksana Chornobrova Commissionato da Victor Pinchuk Foundation Con il supporto di PinchukArtCentre

EVENTI COLLATERALI

STRANIERI OVUNQUE

207

Daring to Dream in a World of Constant Fear


Awilda Sterling-Duprey, Blindfolded Performance, 2022. Pastelli a olio su tela, dimensioni variabili. Biennale di Whitney 2022. Courtesy l’Artista.

BIENNALE ARTE

2024


Al cuore della mostra si trova la scultura monumentale di Yola di Celso González, San Juan Bautista, un potente simbolo dello spirito tenace di Porto Rico. Questa installazione site-specific sfida i vincoli del suo status politico, rendendo omaggio al ricco patrimonio marittimo dell’isola. Desde San Juan Bautista... non è una semplice mostra, bensì una nuova testimonianza dello spirito indomito dell’arte visiva portoricana. Consolato invita il pubblico a confrontarsi con le complessità dell’identità portoricana e con la lotta in corso per la sovranità culturale.

Curatori Anabelle RodríguezGonzález Chiara Boscolo REM - Roberto Escobar Molina Artisti Awilda Sterling-Duprey Celso González Chemi Rosado-Seijo Daniel Lind-Ramos

Consolato REM Brega

Desde San Juan Bautista... è una mostra collettiva che presenta azioni, opere d’arte, materiali documentali e d’archivio, fotografie, ephemera, interventi e performance nuove e recenti a cura di quattro rinomati espositori interdisciplinari di Porto Rico: Awilda Sterling-Duprey, Celso González, Chemi Rosado-Seijo e Daniel Lind-Ramos. I quattro hanno viaggiato in lungo e in largo per il mondo, affermandosi in una varietà di ambienti artistici che abbracciano percorsi internazionali di ampio respiro. Il titolo della mostra è un riferimento diretto al primo nome dato all’isola nel corso della sua colonizzazione, durata più di mezzo millennio e caratterizzata da diverse e continue manifestazioni di violente forme di estrazione. La prima ondata si verificò con l’arrivo degli spagnoli, che intrapresero quella che sarebbe diventata la saga genocida della Conquista del Nuevo Mundo. In seguito alla guerra ispano-americana del 1898, l’isola divenne un territorio coloniale degli Stati Uniti, insieme alle Filippine e a Guam. Questa è la prima volta nella storia de La Biennale di Venezia che un gruppo di espositori e curatori portoricani presenta una proposta collettiva per rappresentare l’isolanazione di Porto Rico. L’evento collaterale prevede diversi contributi interdisciplinari da parte degli espositori selezionati. La mostra riflette la dissociazione e lo sfruttamento di un sistema politico coloniale che ha tentato di dipanare la travagliata complessità delle odierne identità portoricane. Lo straniamento inerente allo status coloniale si configura come un atto di violenza prolungato, che si traduce in un malessere psichico a seguito di ciò che Anibal Quijano ha opportunamente descritto e definito come “la colonialità del potere”.

Collaboratori 10 & Zero Uno Gallery The ~curARTorial LAB Fundación Cultural García (FunCuGar) REM Project Architetto MilleEventi Installazione tecnica Arken Design + Build Produzione dell’evento SIEMPRE Media e comunicazione Medi@ Presse Swiss Louvier Art Con il supporto di Museo de Arte de Puerto Rico Tristan Schukraft REM Project Latitude 18 Films, Santos Rivera Montero Armando Muñoz, MD Luis Cotto Román, Esq. Ricardo J. GarciaNegron, Esq. REM Art Advisory MASTERS Puerto Rico

EVENTI COLLATERALI

STRANIERI OVUNQUE

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Desde San Juan Bautista...


210

Elias Sime, THE EARTH (ምድር) III, 2023–2024. Fili elettrici intrecciati e componenti elettronici su pannello, 185,4 × 280,7 × 26,7 cm. Courtesy l’Artista e James Cohan, New York. © l’Artista e James Cohan, New York.

BIENNALE ARTE

2024

Elias Sime, Tightrope: It is Green 8, 2023. Fili elettrici su pannelli, 251,5 × 318,8 × 8,9 cm. Courtesy l’Artista and James Cohan, New York. © l’Artista and James Cohan, New York.


Eppure, la fonte di energia nascosta al suo interno comprende metalli preziosi come il rame, l’argento e il cobalto, estratti dalla terra in condizioni drammatiche. A causa della loro scarsità geologica e della geopolitica a essa associata, l’uso di questi materiali solleva serie preoccupazioni etiche ed ecologiche. DICHOTOMY parla dei desideri e delle contraddizioni del genere umano, in relazione alla sottile linea di demarcazione esistente tra privato e pubblico, veloce e lento, raro e abbondante.

EVENTI COLLATERALI

Curatori Meskerem Assegued Felicity Korn Artista Elias Sime Produzione D.H. Office

Kunstpalast Düsseldorf

Per Elias Sime, l’arte è uno sconfinato processo creativo in cui dimensione temporale e dimensione spaziale si fondono. “Credo di essere nato artista”, dice, “ma mi esercito per essere perfetto. Mi piace condividere le mie osservazioni, suggestioni e paure utilizzando materiali specifici che colleziono. Come la pittura a olio, l’acrilico o l’acquerello, i materiali che scelgo parlano della nostra condizione moderna”. Nato ad Addis Abeba, la capitale diplomatica e una delle città africane dove si registra il più rapido sviluppo, fin dalla più tenera età Sime è stato a contatto con persone provenienti da tutto il mondo. Osservatore attento, è stato sempre affascinato dalla natura dicotomica della psiche umana. DICHOTOMY affronta le dualità private e pubbliche dell’umanità. Profondamente in sintonia con la complessità dei sentimenti privati e delle espressioni pubbliche, Sime utilizza materiali che costituiscono la struttura portante di tutte le comunicazioni digitali ed elabora meticolose meditazioni dimensionali che invitano a un’intensa contemplazione in un mondo frenetico. Sime reputa che la fiducia che riponiamo nei nostri segreti e nelle nostre fragilità sia protetta in privato, mentre in pubblico esibiamo identità artefatte. L’elegante smartphone, che Sime chiama “La Macchina”, non solo è diventato una parte integrante della nostra vita, ma svolge anche la funzione di status symbol con cui comunichiamo il nostro successo socioeconomico al mondo circostante.

Con il supporto di The Carl & Marilynn Thoma Foundation Daniel & Rosy Levy Marguerite Steed Hoffman James Cohan Gallery

STRANIERI OVUNQUE

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Elias Sime: Dichotomy ፊት አና jerba


212 BIENNALE ARTE

2024

Ernest Pignon-Ernest, Pasolini assassiné – Si je reviens. Roma, 2015. Photo courtesy Galerie Lelong & Co. © Ernest Pignon-Ernest/Adagp, Parigi 2024.


Nel percorso espositivo, questi ritratti sono affiancati da quelli di Jacques Stephen Alexis, Antonin Artaud, Gérard de Nerval, Robert Desnos, Jean Genet, Édouard Glissant, Pablo Neruda e Arthur Rimbaud. All’inizio della sua carriera, l’approccio artistico di Pignon-Ernest ha rappresentato un unicum nel mondo dell’arte. Il suo studio parigino rimane a La Ruche, la residenza fondata nel 1904 per accogliere gli artisti stranieri provenienti da tutto il mondo, tra cui la stessa Akhmatova nel 1910-1911. Le creazioni di Pignon-Ernest hanno un’ampia risonanza, a partire dalla sfera occidentale fino al Sud globale. La sua opera ha suscitato l’interesse di artisti del calibro di Francis Bacon – che ha iniziato a creare un dossier sul lavoro dell’artista nel 1976 –, Dominique GonzalezFoerster e persino Barthélémy Toguo, che ha presentato il suo lavoro in tutto il continente africano nell’ambito di mostre organizzate dalla sua fondazione. Il fotografo e street artist francese JR lo considera “la [sua] fonte di ispirazione”. In Francia, Pignon-Ernest è stato il primo a essersi appropriato dei muri delle città utilizzandoli come tele e ad aver mescolato disegno e fotografia trent’anni prima che la street art iniziasse la sua ascesa.

EVENTI COLLATERALI

Curatori Suzanne Pagé Hans Ulrich Obrist Artista Ernest Pignon-Ernest

Fondation Louis Vuitton

Fin dagli anni Sessanta il concetto di “straniero” ha svolto un ruolo importante nel lavoro di Ernest Pignon-Ernest. Da Napoli a Roma, da Soweto ad Haiti, da Parigi ad Algeri – i suoi interventi artistici sui muri urbani evidenziano e trasformano le tensioni e i drammi dei luoghi designati a esprimere la sua visione. All’ingresso della mostra si trovano due opere, create appositamente per la Biennale Arte, intese a celebrare due esponenti di spicco della poesia universale guidate da una scrittura fortemente emotiva e da un impegno incrollabile. La prima è un ritratto della russa Anna Achmatova, nata a Odessa nel 1889 e deceduta a Mosca nel 1966, dopo una vita travagliata all’insegna della censura e della persecuzione da parte del regime sovietico; la seconda rappresenta il ritratto di Forough Farrokhzad, nata a Teheran nel 1934 e deceduta nella stessa città nel 1967, una figura chiave nella rinascita della poesia persiana, il cui spirito libero e la profondità di pensiero risuonano fortemente ancora oggi. I nuovi ritratti delle due poetesse realizzati da Pignon-Ernest vibrano come “presenze” nell’Espace Louis Vuitton Venezia come se fossero per strada. Al centro del percorso espositivo svetta l’immagine di Pier Paolo Pasolini creata da PignonErnest nell’atto di sorreggere il proprio cadavere come una Pietà, un estraneo nei confronti di se stesso un’immagine esposta a Roma, Matera e Napoli per riecheggiare l’opera, la vita e la morte di questa grandissima figura italiana.

STRANIERI OVUNQUE

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Ernest Pignon-Ernest: Je Est Un Autre


214 BIENNALE ARTE

2024

Ewa Juszkiewicz, Untitled (after Élisabeth Vigée Le Brun), 2020. Olio su tela, 160 × 120 cm. Collezione Fundación Almine y Bernard Ruiz-Picasso. Courtesy l’Artista e Almine Rech.


Nelle sue versioni di ritratti antichi, Juszkiewicz coltiva un’arte pittorica tradizionale, dipingendo a strati, con molte velature, rifacendosi alle pennellate dell’opera originale. Tuttavia, questo suo virtuosismo tecnico sarebbe vano se non fosse anche al servizio di un progetto trasgressivo. Celando il volto dei ritratti storici, Juszkiewicz sfida l’essenza stessa di questo genere: distrugge il ritratto in quanto tale. I suoi dipinti non sono più ritratti di un soggetto in particolare, ma rappresentazioni della condizione delle donne vittime del patriarcato. E, come lei stessa sottolinea, il ritratto alterato conficca un paletto anche nel cuore di un altro genere: la natura morta, alla quale appartengono i tessuti, i fiori, i frutti e gli altri oggetti che l’artista utilizza come maschere, sovvertendo la tradizionale gerarchia dei generi e la dicotomia cultura/natura.

EVENTI COLLATERALI

Curatore Guillermo Solana, Direttore artistico presso il ThyssenBornemisza Museum, Madrid Artista Ewa Juszkiewicz

Con il supporto di Almine Rech

Fundación Almine y Bernard Ruiz-Picasso

Da oltre un decennio, Ewa Juszkiewicz realizza dipinti basati su ritratti di donne eseguiti da artisti europei, in particolare quelli del XVIII e XIX secolo. Nel 2010, Juszkiewicz dipinge una serie di personaggi mascherati, in cui l’abbigliamento marcatamente femminile contrasta con la violenza evocata dalla maschera. La maschera profisionomia celava un volto per proporne un altro, simbolico o fantastico, animale o soprannaturale; la maschera anti-fisionomia, invece, occulta il primo volto e impedisce la comparsa di un secondo, precludendo qualsiasi riproduzione della fisionomia. Arrivati al 2013-2014, la centralità della maschera antifisionomia si era ormai consolidata nel lavoro di Juszkiewicz, che utilizzava qualsiasi oggetto o materiale in grado di sostituire o avvolgere la testa: funghi ipertrofici, un bouquet di fiori, un groviglio di rami e foglie, una chioma di capelli pettinata o intrecciata, una benda fatta di tessuti lussuosi... Quando questi oggetti e materiali appaiono al posto del viso, lo spettatore cerca di ravvisare le tracce di un occhio, di un naso, di una bocca, di un profilo; a volte, per un istante, crede di averli identificati, ma la sua interpretazione è immediatamente vanificata. La maschera antifisionomia resiste attivamente al nostro desiderio di decifrare in essa un volto.

STRANIERI OVUNQUE

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Ewa Juszkiewicz: Locks With Leaves And Swelling Buds


216 BIENNALE ARTE

2024

Jim Dine, Venice Cry, the poems, 2024. Acrilico su resina polimerica con tubo di rame, 220 × 200 × 100 cm. Courtesy Galerie Templon. © Jim Dine Studio.


Curatore Gerhard Steidl Artista Jim Dine Con il supporto di TEMPLON

EVENTI COLLATERALI

Kunsthaus Göttingen

Jim Dine è un artista straordinario la cui opera attraversa uno spettro di tecniche apparentemente illimitato: pittura, stampa (acquaforte, litografia, incisioni in linoleum, serigrafia...), disegno, scultura, fotografia, poesia, performance art e creazione di libri. A differenza di artisti concentrati su un unico mezzo espressivo, Dine ha continuato a esplorare i materiali con la stessa rispettosa irriverenza per ben sette decenni, sin dai tempi delle superiori. Nella mostra Dog on the Forge a Palazzo Rocca, evento collaterale della sessantesima Biennale Arte, quest’approccio raggiunge un’intensità nuova. Dine qui reinventa alcuni dei suoi motivi più amati – tra cui Pinocchio, le scultura antica, i cuori e gli strumenti da lavoro – il tutto in combinazioni eclettiche che spaziano dal bronzo dipinto al collage su tela. I risultati, vibranti di un’energia irrequieta quando non frebbrile, sono un salto trascendente nel futuro imprevedibile dell’incessante creatività di Jim Dine.

STRANIERI OVUNQUE

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Jim Dine – Dog on the Forge


218 Josèfa Ntjam, swell of spaec(i)es, 2024. Film rendering, commissionato da LAS Art Foundation. Courtesy l’Artista; LAS Art Foundation; Galerie Poggi, Parigi; Nicoletti, Londra. © ADAGP, Parigi, 2024.

Josèfa Ntjam, swell of spaec(i)es, 2024. Film rendering, commissionato da LAS Art Foundation. Courtesy l’Artista; LAS Art Foundation; Galerie Poggi, Paris; Nicoletti, London. © ADAGP, Parigi, 2024. BIENNALE ARTE

2024


swell of spæc(i)es dispiega un nuovo mito della creazione plasmato da modi antichi e appena nati di concepire il mondo (i mondi). All’interno di questo immaginario, il plancton è un punto di convergenza tra oceano profondo e spazio cosmico, regni biologici e regni mitici, passati possibili e futuri alternativi. Commissionata dalla LAS Art Foundation e ospitata in un padiglione appositamente progettato dallo studio di architettura UNA / UNLESS dell’Accademia di Belle Arti di Venezia, l’installazione di Josèfa Ntjam assume la forma di un ambiente ultraterreno. I paesaggi spaziali di un film ciclico sono arricchiti da un paesaggio sonoro composto da Fatima Al Qadiri. Docce sonore di meduse sospese, realizzate con biomateriali, emanano frammenti di narrazione, mentre una sorta di membrana emerge dal terreno, diffondendo frequenze elettroacustiche e offrendo uno spazio di riposo. Dando forma a una poetica dell’alterità, l’installazione abbraccia molteplici cosmogeografie ed epistemologie, fondendo prospettive e sistemi di conoscenza.

Il filmato unisce la cosmogonia dogon e le recenti indagini scientifiche sui cicli di creazione, trasformazione e rinascita. Presenta un cast di personaggi interspecie sintetizzati utilizzando l’intelligenza artificiale e strumenti digitali provenienti da varie fonti, tra cui modelli 3D di vita marina, immagini di statue dell’Africa occidentale conservate in collezioni occidentali e fotografie che testimoniano movimenti di indipendenza decoloniale. Questi avatar incorporano storie e memorie soggette a cancellazione egemonica all’interno di paesaggi marini e cosmici, e rivelano l’influenza di Drexciya, la cui mitologia narra di una popolazione sottomarina nata dai relitti del commercio umano atlantico, e di Sun Ra, che immaginava Saturno come un pianeta ospite per le popolazioni afro-diasporiche. In uno spazio satellite a Palazzina Canonica – CNR ISMAR (Istituto di Scienze Marine), Ntjam invita il pubblico a unirsi al suo processo di moltiplicazione degli avatar di queste storie per espandere la sua mitologia, creando le proprie specie ibride generate dall’intelligenza artificiale. Le creature risultanti abitano un ecosistema virtuale all’interno del ventre del serpente astrale visto nel film, simulato sul posto su uno schermo LED. swell of spæc(i)es è completato da un programma pubblico organizzato con Ocean Space, CNR ISMAR e Accademia di Belle Arti.

Curatori Carly Whitefield with Sophie Korschildgen e Zoe Büchtemann Artista Josèfa Ntjam

LAS Art Foundation

“swell of spæc(i)es è un processo alchemico in perpetua agitazione, la combinazione di genesi ancestrali con nuove tecnologie di creazione di immagini.” —Josèfa Ntjam

Artista consulente e scrittore Mawena Yehouessi Responsabile di progetto Ghost House Produzione del film Aquatic Invasion Composizione del suono per il film Fatima Al Qadiri Realizzazione delle sculture Förma Productions Scultura sonora Hugo Mir-Valette LAS Art Foundation Direttori Jan Fischer Bettina Kames Kristina Leipold Responsabile di progetto Alexis Convento, Harriet Collins Progetto del padiglione di mostra UNA / UNLESS Produzione D.H. office Produzione tecnica FAXstudio Mote Studio Progetto dell’illuminazione Studio Barthelmes Collaboratori Accademia di Belle Arti di Venezia CNR ISMAR (Istituto di Scienze Marine) Ocean Space

EVENTI COLLATERALI

STRANIERI OVUNQUE

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Josèfa Ntjam: swell of spæc(i)es


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2024

Lee Bae, Oblique, 2022. Inchiostro a carboncino su carta. Photo Sangtae Kim. Courtesy l’Artista; Johyun Gallery. © Lee Bae.


Coinvolgendo la comunità globale in un rito condiviso, i messaggi di speranza raccolti online sono stati trascritti su carta hanji per il Daljip Teugi, che si è tenuto alla fine di febbraio del 2024 a Cheongdo. La cerimonia registrata è diventata l’opera di videoarte Burning (2024), proiettata sulle pareti del corridoio d’ingresso della Fondazione Wilmotte. All’interno della sala espositiva – le cui pareti e il pavimento sono rivestiti di carta con una tecnica chiamata marouflage – si sviluppano tre installazioni intitolate Brushstrokes (2004), dipinte con il carbone della combustione della “casa della luna”. Un monolite di granito nero dello Zimbabwe, dal titolo Meok (2024), invita alla contemplazione ed è completato da Issu du Feu (2024), un’opera che trasforma il carbone in tele-mosaico. Uscendo dalla sala, Moon (2024), una struttura effimera, conduce alle acque veneziane. Il soffitto di vetro lascia trasparire la luce della luna, collegandosi simbolicamente a Cheongdo. In un’epoca di complessità e di distacco dalla natura, La Maison de la Lune Brûlée trasmette un potente messaggio di riconnessione con i ritmi naturali, con un’umanità condivisa e con la conoscenza del folklore, attraverso una sintesi di arte e rito.

Curatrice Valentina Buzzi Artista Lee Bae

Direttore della mostra Jaeho Jung Responsabile della Wilmotte Foundation Silvia Gravili Curatore senior del Museum SAN Nayoung Cho Collegamento con l’artista Sun Kyung Jung Coordinamento di progetto e di logistica Hyung-Jung Suh Assistenti dell’artista Seung Soo Back Ho In Kim Jeong Hwa Min Da An Han Gi Jin Park Con il supporto di Johyun Gallery Italian Cultural Institute in Seoul Ambasciata coreana in Itaia Korean Cultural Institute in Italia Perrotin Esther Schipper Gallery City of Cheongdo

Fondation d’Entreprise Wilmotte and Hansol Foundation of Culture

La mostra La Maison de la Lune Brûlée, una personale dell’artista coreano Lee Bae, rende omaggio alla secolare cerimonia del Daljip Teugi, una celebrazione annuale che si svolge a Cheongdo, un villaggio rurale nel sud-est della campagna coreana, dove l’artista è nato. In coincidenza con il primo plenilunio del calendario lunare, tutti i membri della comunità si riuniscono per accendere il falò della “casa della luna”: i desideri per il nuovo anno, scritti su carta hanji, vengono appesi a una struttura di legno che viene poi incendiata al sorgere della luna piena. Una volta spentosi il fuoco, il carbone prodotto dalla combustione viene raccolto in piccoli recipienti e conservato come latore di buona fortuna. Profondamente influenzata dal Daljip Teugi, in questi ultimi trent’anni l’intera opera di Lee Bae si è basata su due elementi: l’uso del carbone come materiale e l’idea di circolarità e ripetizione, profondamente legata alle cosmologie lunari. Queste stesse caratteristiche sono al centro della mostra presentata negli spazi della Fondazione Wilmotte.

La mostra fa parte della programmazione speciale dell’Ambasciata di Corea in Italia, dell’Ambasciata d’Italia in Corea, l’Italian Cultural Institute a Seoul e il Korean Cultural Institute in Italia. Technical Partner Fabriano

EVENTI COLLATERALI

STRANIERI OVUNQUE

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Lee Bae — La Maison de La Lune Brûlée


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Nam June Paik, Dolmen, 1995. Tecnica mista, dimensioni variabili. Courtesy Gwangju Biennale Foundation.

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Kcho (Alexis Leyva Machado), Para olvidar (To Forget), 1995. Una barca di legno e bottiglie di birra, dimensioni variabili, veduta dell’installazione alla prima Biennale di Gwangju. Courtesy l’Artista; Gwangju Biennale Foundation.


Madang: Where We Become Us, una speciale mostra d’archivio, commemora il trentesimo anniversario della Biennale di Gwangju, riflette sulla sua storia e ne immagina il futuro. La mostra, composta da materiali d’archivio, opere d’arte della collezione della stessa Biennale, un manufatto degli Archivi della Rivolta Democratica del 18 maggio e le opere di tre artiste – Ayoung Kim, Sojung Jun e Sylbee Kim – non vuole semplicemente ripercorrere la storia della Biennale di Gwangju, bensì proporre una prospettiva che contempli lo spirito di Gwangju, riaffermando il valore contemporaneo della sua Biennale. Il titolo della mostra include la parola madang, che in italiano può essere letteralmente resa con “cortile” e che in coreano indica uno spazio fondamentale. Nelle tradizionali abitazioni coreane, il cortile funge da “faccia” della casa, da spazio di comunicazione, da luogo in cui si prendono decisioni, sia quelle importanti che secondarie, all’interno del villaggio e in cui si tengono le feste, in sostanza da luogo in cui le persone vanno e vengono senza posa. La mostra intende presentare le precedenti esposizioni della Biennale di Gwangju attraverso quattordici madang, ognuno dei quali rappresenta delle Biennali passate.

Se si considera che il cortile è uno spazio esterno che al contempo fornisce una certa protezione alla casa, si può sostenere che il madang della Biennale di Gwangju si sviluppa come un campo tra queste forze centrifughe e centripete: se da un lato la Biennale di Gwangju esplora temi quali crisi climatica, razza, genere e democrazia, cercando di trascendere i confini geografici e di osservare l’epoca da una prospettiva planetaria, dall’altro il discorso legato alla comunità, parte integrante della Biennale fin dal suo inizio, cerca la multiformità in varie forme, da Gwangju all’esperienza globale. In questa mostra sono presentati Dolmen (1995) di Nam June Paik e To Forget (1995) di Kcho, entrambi provenienti dalla collezione della Biennale di Gwangju. Queste opere esaminano il significato di comunità. Dolmen di Paik è stato creato per rendere omaggio alla comunità di Gwangju e alle vite sacrificate nel Massacro del 18 maggio, mentre To Forget di Kcho approfondisce la vita dei rifugiati fuggiti in barca da Cuba. La Biennale di Gwangju afferma ancora una volta il potere dell’arte come madang, simbolo di diversità e inclusione.

EVENTI COLLATERALI

Curatore Dusu Choi (Responsabile del Dipartimento Mostre) con Jaehee Kim Jihyoun Han Nahyun Kim Sujin Jung Yeoreum Lim Artisti Nam June Paik Kcho (Alexis Leiva Machado) Ayoung Kim Sojung Jun Sylbee Kim

Gwangju Biennale Foundation

“Alcuni ricordi non cicatrizzano mai. Invece di sbiadire con il passare del tempo, sono gli unici a sopravvivere quando tutti gli altri si sono cancellati.” —Han Kang, Atti umani, traduzione di Milena Zemira Ciccimarra, Adelphi, Milano 2017

Curatore del programma Juri Cho, Capo del team espositivo Presidente della Fondazione della Biennale di Gwangju Yang-woo Park Con il supporto di Città metropolitana di Gwangju May 18 Democratic Uprising Archive

STRANIERI OVUNQUE

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Madang: Where We Become Us


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Joana Choumali, It Is Time to Be Alive, 2024. Tecnica mista, 160 × 180 cm. © Joana Choumali.

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Thandiwe Muriu, Camo 16, 2021. Fotografia su carta Fine Art Baryta 325g, 90 × 70 cm. @Thandiwe Muriu.


Passengers in Transit deve il titolo a un libro di racconti dello scrittore angolano José Eduardo Agualusa. Storie sconnesse con personaggi che viaggiano in ambienti indistinti ci trasportano da un luogo all’altro alla scoperta del mondo. Questa inquietudine di latitudini diverse, la nostalgia della “partenza” e la ricerca di chi siamo veramente rimandano alla difficoltà dell’essere stranieri in una società globale nonché alle forze soggettive che amplificano questa sensazione. In un’epoca di sfide – discriminazione crescente, riscaldamento globale, guerre e un momento storico in cui la sfera individuale ha spesso il sopravvento su quella collettiva – il concetto di straniero fa emergere motivazioni politiche, ideologiche e religiose, innescando al contempo un ampio spettro di discussioni pregnanti sull’identità e sull’appartenenza. La modalità alla base della comprensione di questo concetto varia a seconda di chi parla e del luogo: chi è straniero in relazione a chi? Chi ha il potere di decidere? Straniero in relazione a cosa? L’alterità è al di là della portata dell’io. È una forma di relazione che esige il rispetto e il riconoscimento dell’individualità. L’identità sfugge all’analisi. In fase di costruzione, si traduce in un processo costante del divenire.

Tuttavia, questa difficoltà nel cogliere l’estraneità degli altri schiude uno spazio per la comprensione dell’alterità. Ispirato da Levinas e Waldenfels, e dal diritto all’opacità postulato da Edouard Glissant, il progetto Passengers in Transit ci invita a riflettere sul viaggio infinito che ci conduce a ciò che siamo come esseri sociali. Le pratiche interdisciplinari delle cinque artiste selezionate esplorano la convergenza tra identità, genere, memoria e luogo. Navigando tra storia e finzione, lavorando a partire dagli archivi e al loro interno, le artiste in questione riflettono sulla rappresentazione dei corpi neri (femminili) nel mondo contemporaneo ipotizzando futuri possibili. Joana Choumali, April Bey, Thandiwe Muriu, Christa David ed Euridice Zaituna Kala propongono una conversazione sull’appartenenza e sulla costruzione dell’identità, e sull’accettazione delle complessità dell’esistenza interculturale in contrapposizione alla normalizzazione e all’assimilazione delle differenze culturali. Il progetto delinea diverse prospettive ed esplora differenti modi di concepire la soggettività umana, il linguaggio e la politica, in dialogo con questo tema della Biennale Stranieri Ovunque.

EVENTI COLLATERALI

Curatori Paula Nascimento, Oyindamola Faithful Roger Niyigena Karera Artisti April Bey Joana Choumali Thandiwe Muriu Christa David Euridice Zaituna Kala Con il principale supporto di 193 Gallery Venice & Paris Con il supporto di Dominique Louis Fondation H Myriam Venneschi Benoit Manuel Kenzah Baddou

CCA Lagos, (Centre For Contemporary Art)

“Sull’isola del Mozambico, uno straniero cerca di dimenticare chi è per essere meglio dimenticato. Riuscirà a sfuggire al passato?” —J.E.A.

STRANIERI OVUNQUE

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Passengers In Transit


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Karine N’guyen Van Tham, Larmes de guerre, 2021-2022. Lino, seta, tintura vegetale (robbia), scaglie di pigna, inchiostro di china, carta, 110 × 80 cm. Collezione l’Artista. Courtesy l’Artista. © Karine N’guyen Van Tham.

Parul Thacker, The Book of the TimeTravellers of the Worlds: the Forms of Time: Earth and Sky. Stitched Drawing 03, 2023. Disegno cucito a mano su due lati, cotone, poliestere, seta, 100 × 80 cm. Collezione l’Artista, Mumbay. Courtesy l’Artista. © Parul Thacker.

BIENNALE ARTE

2024


Nel lavoro delicatamente poetico, intimo e frugale dell’artista franco-vietnamita Karine N’guyen Van Tham si percepisce la sua profonda connessione con la Natura e l’importanza della scrittura, quasi una tessitura di parole, per la comprensione delle sue creazioni. Le opere dell’artista indiana Parul Thacker, strutture complesse e multimateriche, sono ispirate dalle sculture che adornano i templi indiani, dalla cosmologia tantra e dalla fisica quantistica. Esse ne rivelano la profonda spiritualità e il radicamento nella propria cultura. Entrambe le artiste hanno concepito e realizzato opere site-specific ispirate dal contesto veneziano, dagli spazi e dalle collezioni del palazzo.

EVENTI COLLATERALI

Curatrice Daniela Ferretti Artisti Karine N’guyen Van Tham Parul Thacker Segreteria generale Béatrice de Reyniès Organizzazione Dario Dalla Lana Antonella Mazza Camilla Sironi Anna Mistrorigo

Fondazione dell’Albero d’Oro

Karine N’guyen Van Tham e Parul Thacker, due artiste diverse per origine, formazione, sensibilità e modalità espressive, si confrontano con gli spazi di un palazzo veneziano: palazzo Vendramin Grimani a San Polo. Tema privilegiato, ma non unico, è il filo, assunto come medium, fonte di ispirazione, metafora che allude alla traccia, al principio ordinatore, alla scrittura, e si sviluppa nell’intreccio, nella tessitura, nell’arte del ricamo. Lo sguardo si allarga, dal particolare al generale, e si prende coscienza di come il tessuto accompagni l’esistenza della singola persona e sia in grado d’influenzare i meccanismi basilari della convivenza civile. Come afferma il teologo Vito Mancuso, “pensare e operare per fili significa pensare rapporti e originare rapporti […], significa concepire il mondo come work in progress e agire al suo interno in modo da incrementare armonia e razionalità”. Le due artiste, accomunate dall’uso della tessitura e da un’intensa spiritualità, sviluppano visioni apparentemente lontane tra loro ma in grado di dialogare efficacemente con accostamenti inediti o assonanze insperate tra arcaico e contemporaneo, tra memoria collettiva e mitologie private, tra usi locali e scambio internazionale. Le radici culturali si trasformano con il viaggio, le culture si espandono con la migrazione dei popoli, si arricchiscono con lo scambio vicendevole: è un meccanismo che sembra rispondere a leggi biologiche immanenti, proprio come avviene con la molteplicità e la diversità delle interazioni tra tutti gli esseri viventi.

Progetto di mostra Daniela Ferretti Graphic Design Sebastiano Girardi Studio Con il supporto di Fondation Etrillard

STRANIERI OVUNQUE

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Per non perdere il filo. Karine N’guyen Van Tham – Parul Thacker


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Peter Hujar, Self-Portrait Lying Down, 1975. Stampa a inchiostro pigmentato, 55,8 × 40,64 cm. Courtesy The Peter Hujar Archive.

Peter Hujar, Susan Sontag, 1975. Stampa a inchiostro pigmentato, 55,8 × 40,64 cm. Courtesy The Peter Hujar Archive.

BIENNALE ARTE

2024


Questa mostra riunisce tutte le quarantuno fotografie che Hujar aveva incluso nel libro Portraits in Life and Death, pubblicato nel 1976, unico libro di fotografia da lui prodotto in vita. La mostra unisce due gruppi di opere. Il primo consiste in ritratti di personaggi famosi della cultura newyorkese all’inizio degli anni Settanta, tra cui la critica Susan Sontag, il drammaturgo Robert Wilson, la scrittrice Fran Lebowitz, il regista John Waters e l’artista Paul Thek. Queste immagini si alternano alle fotografie dei cadaveri conservati nelle catacombe dei Cappuccini di Palermo, che Hujar ritrasse durante un viaggio con Paul Thek nel 1963. Ecco, dunque, i ritratti “nella vita e nella morte”.

EVENTI COLLATERALI

Curatore Grace Deveney (Curatore associato di Fotografia e media “David C. e Sarajean Ruttenberg”, Art Institute of Chicago) Artista Peter Hujar

Peter Hujar Foundation

Peter Hujar (1934-1987) è uno dei più importanti fotografi americani del XX secolo, figura chiave nella comunità d’avanguardia di New York negli anni Sessanta, Settanta e Ottanta, quando documentava la vita artistica della città. Molti dei più noti scrittori, artisti, poeti, attori e intellettuali dell’epoca sono raffigurati nei suoi ritratti. Le opere di Hujar sono state spesso paragonate a quelle dei suoi contemporanei Diane Arbus e Robert Mapplethorpe, ma il suo lavoro si distingue per una sensibilità poetica e una straordinaria empatia. È stato solo dopo la morte per AIDS nel 1987 all’età di 53 anni che Hujar ha iniziato a conquistarsi un consenso più ampio.

La mostra è supportata da Pace Gallery Fraenkel Gallery Mai 36 Galerie Maureen Paley

STRANIERI OVUNQUE

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Peter Hujar: Portraits in Life and Death


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Rebecca Ackroyd, High Priestess, 2023. Dipinto, olio su lino, 250 × 250 cm. Courtesy Peres Projects. © Peres Projects.


Ackroyd riflette sul sito del Fondaco Marcello – originariamente progettato per conservare ed essiccare le foglie di tabacco –, sulla sua architettura aperta e sul suo rapporto viscerale con l’acqua. Immagina un ambiente popolato da apparizioni infantili e personaggi femminili, ruote di motori, parti del corpo e grafici. Lavorando sull’idea di familiarità – perseguita attraverso la fusione delle stesse figure o parti del corpo – oggetti e mobili vengono decostruiti e abbinati in nuove configurazioni, abbandonandosi alla possibilità di nuovi significati. Attraverso la reiterazione, l’opera intreccia diverse temporalità, come qualcosa che abbiamo già vissuto, sospendendo la nostra percezione del presente in un’esperienza delicata e semi-allucinata. Creando una realtà sensoriale a cavallo tra l’immaginario reale e quello simbolico, prendendo in prestito il linguaggio visivo destabilizzante e surreale dei sogni, gli spettatori sono invitati a interpretare gli indizi offerti della mostra.

EVENTI COLLATERALI

Curatrice Attilia Fattori Franchini Artista Rebecca Ackroyd Produzione D.H. Office

Kestner Gesellschaft

La pratica di Rebecca Ackroyd combina opere pittoriche e scultoree in paesaggi onirici e immaginari. Unendo meditazioni personali e fantasie post-umane, il suo lavoro indaga il corpo, la memoria, la femminilità, la sessualità e la domesticità, temi che l’artista intreccia a formare riferimenti stratificati e schemi e motivi ricorrenti. Concepita appositamente per gli spazi del Fondaco Marcello di Venezia in occasione della Biennale Arte 2024, la mostra Rebecca Ackroyd: Mirror Stage, curata da Attilia Fattori Franchini, nasce dalla collaborazione con la Kestner Gesellschaft di Hannover e si sviluppa come installazione composta da una serie di dipinti di grandi dimensioni, disegni, sculture in fusione e oggetti ready-made. Mutuando il titolo dal concetto lacaniano che descrive una tappa fondamentale dello sviluppo del bambino nella distinzione tra il sé e gli altri, la mostra gioca ambiguamente con la figura dello specchio come strumento di riflessione – attraverso lo specchio ci inseriamo nel mondo circostante – e come simbolo della divisione tra stati consci e inconsci. Rebecca Ackroyd: Mirror Stage esplora l’iconografia e la rappresentazione, il desiderio e il disgusto, la ripetizione e la frammentazione, utilizzando la replica e la fusione come mezzo per distorcere un’idea di realtà percepita.

Coordinamento del progetto dell’istituzione organizzatrice Alexander Wilmschen Architettura espositiva Rebecca Ackroyd, Peres Projects Graphic Design Peres Projects Consigliere strategico Pia Capelli Con il supporto principale Peres Projects

STRANIERI OVUNQUE

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Rebecca Ackroyd: Mirror Stage


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Robert Indiana, Love Is God, 1964. Olio su tela, 172,7 × 172,7 cm, diamante. Collezione privata. Courtesy The Robert Indiana Legacy Initiative. © 2024 Morgan Art Foundation LLC/Artists Rights Society (ARS), NY/SIAE, Italy.

Robert Indiana, Eat/Die, 1962. Olio su tela, Dittico, ciascun pannello: 182,9 × 152,4 cm. Collezione privata. Courtesy The Robert Indiana Legacy Initiative. © 2024 Morgan Art Foundation LLC/Artists Rights Society (ARS), NY/SIAE, Italy.

BIENNALE ARTE

2024


All’inizio degli anni Sessanta, Indiana produce tele coraggiose, composte da geometrie pure, testi e numeri in colori non omogenei, rispondendo alla cultura visiva di un consumismo sempre più pervasivo. Intrise di ricordi personali e dettagli biografici, le sue opere rimandano a domande universali sulla condizione umana e sulla fede in tempi turbolenti, elaborando anche questioni di identità queer e del sé. La sua particolare forma di Pop Art approfondisce un filone del radicalismo americano che affonda le sue radici nei trascendentalisti del XIX secolo e nella sperimentazione formale dei primi modernisti. Attraverso una selezione mirata che abbraccia più di cinquant’anni di produzione artistica, comprese molte opere giovanili raramente esposte, The Sweet Mystery presenta Indiana a un nuovo pubblico perché possa contemplare la metafisica alla luce delle pressanti questioni sulla vita nel ventunesimo secolo.

EVENTI COLLATERALI

Curatore Matthew Lyons Artista Robert Indiana Direttore della mostra Simon Salama-Caro (Founder of The Robert Indiana Legacy Initiative)

Yorkshire Sculpture Park

Robert Indiana: The Sweet Mystery segna una delle più significative presentazioni mai allestite in Italia dell’opera del celebre artista Robert Indiana (1928-2018). Dopo un’infanzia itinerante nel Midwest americano e una formazione artistica a Chicago e in Europa, l’artista approda a New York nel 1954, utilizzando ancora il suo nome di battesimo, Robert Clark. Due anni dopo, l’incontro fortuito con Ellsworth Kelly rivoluziona la traiettoria personale e professionale della sua giovane vita. Ben presto si ritrova a vivere in un loft a Coenties Slip, una zona dimenticata di Lower Manhattan, dove le vestigia di un fiorente passato marittimo si scontrano con il nascente settore finanziario. Con pochi fondi a disposizione per acquistare materiali artistici, Indiana crea assemblaggi utilizzando gli scarti dell’attività portuale circostante, elaborando allo stesso tempo il suo linguaggio pittorico bidimensionale in dialogo con l’affiatata comunità di vicini, tra cui avanguardisti come lo stesso Kelly, Agnes Martin, James Rosenquist e Jack Youngerman. In un atto di reinvenzione nel corso di questo periodo di grande fermento, si ribattezza prendendo spunto dal suo Stato di origine, l’Indiana.

Produzione D.H. office The Museum Box Consulente curatoriale Suzanne Geiss Architettura espositiva Philipp Krummel Graphic Design A.M. Con il principale supporto di The Robert Indiana Legacy Initiative

STRANIERI OVUNQUE

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Robert Indiana: The Sweet Mystery


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Seundja Rhee, A Pearl of Sap, 1959. Olio su tela, 81 × 65 cm. Courtesy Seundja Rhee Foundation.

BIENNALE ARTE

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Seundja Rhee, A World Without Obstacle, 1968. Olio su tela, 116 × 89 cm. Courtesy Seundja Rhee Foundation.


L’opera di Rhee è suddivisa in periodi tematici ed estetici che ruotano intorno alla condizione femminile e al relativo rapporto con la Terra. Classificata dall’artista stessa, l’opera viene qui presentata come sintesi che comprende i momenti migliori della sua produzione, con dipinti di periodi emblematici intitolati Woman and Earth, Superimposition, City, Nature, and Road to the Antipodes. L’opera di Seundja Rhee può essere oggi vista come espressione di un Modernismo alternativo e paradossale, in cui i linguaggi del progresso promessi dalla tabula rasa della rivoluzione industriale si confrontano con atteggiamenti non depredatori nei confronti dell’universo. La mostra evidenzia come Rhee appartenga alla propria epoca e allo stesso tempo sfugga a qualsiasi associazione con un singolo periodo storico. Il suo lavoro è diventato un eterno documento non del tempo andato, ma del futuro.

EVENTI COLLATERALI

Curatore Bartomeu Marí Artista Seundja Rhee Con il supporto di Seundja Rhee Foundation Gallery Hyundai

KoRICA (Korean Research Institute of Contemporary Art)

Pioniera dell’arte moderna in Asia, con la propria opera Seundja Rhee (1918-2009) ha creato una triplice struttura estetica e intellettuale che collega più mondi: l’Oriente e l’Occidente, l’Asia e l’Europa, la Francia e la Corea. Il consolidamento dell’astrazione come emblema dell’arte moderna all’indomani della seconda guerra mondiale; la coltivazione dell’identità coreana all’interno della propria dislocazione geografica e culturale in Europa e la forte affermazione di sé in un ordine che è patriarcale in tutti gli aspetti della società: questi sono i fondamenti del modo in cui l’artista ha costruito la propria opera e vissuto la propria vita. È stata una madre e un’artista che rifiutava di adeguarsi ai principi o all’obbedienza estetica nei confronti delle mode dominanti dell’epoca. È stata una delle prime artiste coreane a stabilire, con la sua autonomia visiva, un paradigma artistico unico e irripetibile, dalla seconda metà del XX secolo all’inizio del XXI. Separata dalla famiglia, emigra in Francia nel 1951 allo scoppio della guerra di Corea. Dopo essersi formata artisticamente a Parigi, nell’ambiente dell’arte moderna allora predominante, a partire dal 1965 Rhee inizia a tornare in Corea e a esplorare la creazione di immagini che parlassero a entrambi i mondi. Con un’attenzione chiaramente precoce per questi temi, l’opera di Rhee esprime la consapevolezza della dipendenza dell’umanità dalla terra e dalla natura. In quanto donna sola che inizia una nuova vita da artista in terra straniera, Rhee trova nell’arte la propria motivazione vitale. Per dirla con parole sue: “Io sono una donna, una donna è una madre e una madre è la Terra”.

STRANIERI OVUNQUE

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Seundja Rhee: Towards the Antipodes


236 Shahzia Sikander, A Slight and Pleasing Dislocation, 1993. Guazzo e gesso su tavola. Cincinnati Art Museum, Alice Bimel Endowment for Asian Art, 2019. © Shahzia Sikander.

BIENNALE ARTE

2024


Shahzia Sikander: Collective Behavior rivela l’evoluzione della pratica dell’artista a partire da The Scroll, comprese nuove opere sitespecific. Invece di seguire un percorso cronologico, questa mostra ripercorre le principali idee e ricerche, così come hanno preso vita nel corso del suo lavoro. Tre sezioni tematiche esplorano il suo interesse per le illustrazioni di manoscritti storici dell’Asia Meridionale e della Persia, evidenziando il suo trattamento dinamico del genere nonché la sua risposta alle complesse vicende del colonialismo e la loro eredità nella lingua, nel commercio e nei modelli migratori contemporanei. La mostra inquadra Shahzia Sikander come artista americana, pakistana, musulmana, femminista e, in modo ancora più significativo, come cittadina globale che scava nel passato per portare alla luce nuove possibilità per il futuro. Dopo Venezia, nel 2025 Shahzia Sikander: Collective Behavior si sposterà al Cincinnati Art Museum e al Cleveland Museum of Art.

EVENTI COLLATERALI

Curatrici Ainsley M. Cameron Emily Liebert Artista Shahzia Sikander Produzione D.H. office Architettura di mostra Philipp Krummel Graphic Design Sebastiano Girardi Studio Con il supporto principale di Terra Foundation for American Art The Andy Warhol Foundation for the Visual Arts Kenneth J. Birdwell Rebecca and Irad Carmi Lauren Rich Fine Con il supporto aggiuntivo di Sean Kelly Gallery The CMA Fund for Exhibitions

The Cincinnati Art Museum and The Cleveland Museum of Art

Nata in Pakistan nel 1969, da oltre tre decenni Shahzia Sikander anima le cronache visive dell’Asia meridionale con una prospettiva contemporanea. Il suo lavoro reimmagina il passato in funzione del nostro presente, proponendo nuovi inquadramenti culturali che attraversano il tempo e i luoghi. Avvalendosi di molteplici strumenti – quali pittura, disegno, stampe, animazioni digitali, mosaici, scultura e manufatti in vetro – Sikander analizza le relazioni tra il mondo occidentale e il Sud globale e il mondo islamico in generale, spesso attraverso la lente della politica di genere e del corpo. Il suo lavoro è radicato in un lessico di motivi ricorrenti che dà visibilità ai soggetti emarginati. A volte, rivolgendo la lente verso se stessa, Sikander riflette sulla propria esperienza di artista immigrata e diasporica che lavora negli Stati Uniti. La sua formazione artistica inizia a Lahore, Pakistan, dove studia presso il National College of Arts (NCA). Dopo l’acclamato progetto di tesi di laurea, The Scroll (1989-1990), diventa la prima donna a insegnare nel prestigioso dipartimento di pittura miniaturistica del NCA. Nel 1993 lascia Lahore per trasferirsi a Providence, Rhode Island, dove prosegue gli studi di specializzazione presso la Rhode Island School of Design (RISD). Dopo aver completato il suo MFA, tra il 1995 e il 1997 vive a Houston, Texas, partecipando al Core Residency Program presso la Glassell School of Art del Museum of Fine Arts di Houston. Successivamente si trasferisce a New York City, dove vive attualmente.

STRANIERI OVUNQUE

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Shahzia Sikander: Collective Behavior


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2024

Adam Broomberg with Rafael González, Anchor in the Landscape, 2022. Fotografia dell’ulivo di Al-Badawi, Palestina, 190 × 152 cm. Courtesy gli Artisti. © Adam Broomberg and Rafael González.


La mostra mette in evidenza le narrazioni sonore che manifestano la simbiosi tra vegetazione e natura. Comprende fotografie, sculture, immagini d’archivio e video di diversi progetti avviati dagli artisti sul territorio; i lavori legati a un’iniziativa di conservazione dei semi; un progettista e istruttore di permacultura; la documentazione della vita e delle pratiche rurali; la coltivazione, l’abbandono e la distruzione degli oliveti tradizionali; i dibattiti sulla biodiversità e sulle varietà di beni ereditati. Concentra inoltre l’attenzione sulla scrittura e sulla documentazione letteraria, sulla danza come forma di creazione collettiva ispirata da elementi direttamente collegati ad agricoltura e lavorazione della terra, e su altri lavori che pongono una forte enfasi sulla produzione di suoni. Al centro del lavoro degli artisti presentati da Dar Jacir for Art and Research sono danza, piantumazione, musica e ritmo in quanto forma di di poesia, resistenza e sostentamento. Al contempo, Artists + Allies x Hebron mira a richiamare l’attenzione della comunità internazionale sulla situazione di Hebron H2, dove Israele esercita un controllo militare per monitorare ogni aspetto della vita dei palestinesi in tutta la Cisgiordania e si concentra sull’impegno per ottenere una comprensione autentica e di prima mano della situazione sul campo. Le opere esposte esprimono un Antropocene radicato nell’espropriazione e nell’occupazione forzata.

EVENTI COLLATERALI

Curatore Jonathan Turner Artisti Samer Barbari Adam Broomberg Duncan Campbell Rafael González Isabella Hammad Shayma Hammad Chris Harding Baha Hilo Emily Jacir Sebastián Jatz Rawicz Benjamin Lind Jumana Manna Sari Khoury Jasbir Puar Michael Rakowitz Adam Rouhana Mohammad Saleh Vivien Sansour Andrea de Siena Dima Srouji

Artists + Allies x Hebron

South West Bank – Landworks, Collective Action and Sound si concentra sulle opere prodotte da artisti, collettivi e alleati della Cisgiordania meridionale in Palestina. Gli artisti partecipanti esaminano gli aspetti della terra, dell’agricoltura e del patrimonio in una topografia in continuo e rapido mutamento. Condividono una voce incentrata sulla trasmissione storica della memoria e della collettività. Le opere incarnano l’idea che la “casa” è fortemente radicata in molte pratiche tradizionali e consolidano così il tema degli Stranieri Ovunque della Biennale Arte 2024. E rafforzano inoltre il legame tra espressioni e identità culturali all’interno dei mutevoli paesaggi urbani e agricoli. Comunicano, come resistenza sensoriale, le pratiche agricole, i metodi locali di coltivazione e raccolta e le pratiche dei ritmi umani e non umani. La danza, la musica e il ritmo sono considerati una forma di poesia, resistenza e sostentamento.

La mostra è una collaborazione tra Artists + Allies x Hebron & Dar Jacir for Art and Research

STRANIERI OVUNQUE

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South West Bank Landworks, Collective Action and Sound


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Betsabeé Romero, The Endless Spiral, Rolling Totem, 2024. Installazione di 45 ruote di go-kart incise a mano e dipinte in foglia d’oro, appoggiate a terra con le impronte dell’incisione dei pneumatici su 18 lacci neri serigrafati in oro. Dimensioni variabili. Courtesy l’Artista. © Betsabeé Romero.

BIENNALE ARTE

2024

Betsabeé Romero, The Endless Spiral, Identities, 2024. 45 specchi di sicurezza in policarbonato, rivestiti in vinile e tagliati con il bordo, con cornici in MDF, per dare 20 cm di separazione dalla parete e illuminazione con strisce LED, dimensioni variabili. Courtesy l’Artista. © Betsabeé Romero.


The Endless Spiral comprende un’ampia varietà di opere che abbracciano la lunga carriera di Betsabeé Romero ed entra in dialogo con nuovi lavori che toccano questioni contemporanee. Tutte le opere sono collegate a commenti storici e tradizioni del Messico che vanno dall’epoca precoloniale a quella attuale, da sempre nodo di cultura e pensiero internazionale. La mostra presenta un approccio diversificato a questo tema cruciale, aprendo idee e concetti e rendendo visibili le dualità, le tensioni, i conflitti e le fratture della nostra cultura e della nostra storia.

EVENTI COLLATERALI

Curatrice Gabriela Urtiaga Artista Betsabeé Romero Consiglio di amministrazione e staff MOLAA Fondazione Bevilacqua La Masa Art Studio Betsabeé Romero Collaborazione Massimo Scaringella Con il supporto di William S. & Michelle Ciccarelli Lerach Santiago García Galván ITACA Films

Museum of Latin American Art (MOLAA)

The Endless Spiral, presso la Fondazione Bevilacqua La Masa, è un progetto di ricerca e una mostra personale dell’artista messicana Betsabeé Romero, curata dalla storica dell’arte e ricercatrice argentina Gabriela Urtiaga, curatrice capo del Museum of Latin American Art. Questa presentazione esplora le pratiche artistiche di Romero tramite opere commissionate e nuove installazioni ed è il risultato del lungo rapporto tra l’artista e il MOLAA, l’unico museo statunitense interamente dedicato all’arte moderna e contemporanea latinoamericana e latinx. Le sue opere fanno parte della collezione permanente del MOLAA e, al termine della sua presenza come Evento Collaterale della Biennale Arte 2024, il MOLAA presenterà questa mostra nel 2025, a Long Beach, in California. Betsabeé Romero è un’artista che ha avuto l’opportunità di vivere e produrre il proprio lavoro in paesi, culture e contesti diversi. Nella dichiarazione curatoriale, Gabriela Urtiaga scrive: “Betsabeé è uno spirito nomade, sempre alla ricerca di nuove esperienze e prospettive con un’attenzione particolare ai diversi temi cruciali e urgenti per un pubblico internazionale. Lavora con una forte consapevolezza di questioni quali migrazione, gender roles, tradizioni culturali, religiosità, mescolanza etnica e memoria individuale e collettiva. La sua modalità di infrangere i limiti delle diverse categorie prestabilite e di rendere visibile l’ingiustizia nel mondo come punto di esame e invito all’azione viene ridefinita in impegno comunitario attraverso il dialogo tra arte, giustizia sociale e patrimonio culturale che interagiscono per il bene comune. L’artista ha sviluppato una solida architettura narrativa di partenza concentrata sull’esperienza di essere straniera nel mondo e dal punto di vista dei molti che non hanno un territorio dove rifugiarsi e sopravvivere”.

STRANIERI OVUNQUE

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The Endless Spiral: Betsabeé Romero


242 The Spirits of Maritime Crossing, 2022. Proiezione singola, interpretata da Marina Abramović e Pichet Klunchun, regia di Apinan Poshyananda, stereo, 34:27 min. Still da video. Commissionato da Bangkok Art Biennale Foundation. Courtesy gli Artisti. © Bangkok Art Biennale Foundation. Jompet Kuswidananto, Terang Boelan (Moonshine), 2022. Bicchieri rotti, lampadari di vetro, ferro, legno, componenti di pianoforti verticali, elettronica, 200 × 150 × 200 cm. Photo Bangkok Art Biennale. Collection of Bangkok Art Biennale Foundation. Courtesy l’Artista; Bangkok Art Biennale. © Jompet Kuswidananto.

BIENNALE ARTE

2024


I danzatori mitologici di Khvay Samnang, ispirati al Ramayana, parlano di egemonia e deforestazione. La danza della pioggia si intreccia con il culto locale per alimentare il raccolto e allontanare la minaccia straniera del drago di fuoco. Yee I-Lann e le comunità di mare esplorano le storie marine per far rivivere le conoscenze ancestrali. Stuoie cucite con rifiuti portati a riva dalle correnti collegano Venezia e il Borneo. Le zucche di Truong Cong Tung sono analoghe agli spiriti del Vietnam. Gocce d’acqua e bolle simboleggiano il tempo e la decadenza condivisi dall’umanità. I ricami di Jakkai Siributr evocano la condizione degli apolidi. La collaborazione artistica con i richiedenti asilo riflette sulla pulizia etnica. La performance video di Moe Satt, ispirata alla danza e alla caccia tribale, suggerisce la sopravvivenza alla violenza settaria nella sua terra d’origine. Il video di Priyageetha Dia sulle profondità marine riguarda i movimenti migratori ancestrali dall’India alla penisola malese. Le correnti marittime intrecciano la cultura subalterna con le storie diasporiche. Kawita Vatanajyankur si esibisce in una spumeggiante tintura blu proveniente dall’industria tessile. Il lavoro femminile, il femminismo e la violenza fanno parte dell’essere stranieri.

EVENTI COLLATERALI

Curatore Apinan Poshyananda Artisti Marina Abramović Priyageetha Dia Chitti Kasemkitvatana Khvay Samnang Pichet Klunchun Jompet Kuswidananto Nakrob Moonmanas Bounpaul Phothyzan Alwin Reamillo Moe Satt Jakkai Siributr Truong Cong Tung Natee Utarit Kawita Vatanajyankur Yee I-Lann

Bangkok Art Biennale Foundation

Un percorso dal Sudest asiatico a Venezia con scorci di seduzione ed esperienze diasporiche. Stranieri dispersi dalla loro patria fisicamente e spiritualmente. Marina Abramović, icona della diaspora, viaggia da Venezia a Bangkok. Il suo spirito incontra il Re Scimmia, interpretato da Pichet Klunchun con sacerdoti e talismani. Nei mondi paralleli dell’Italia e del Siam, Chitti Kasemkitvatana e Nakrob Moonmanas creano montaggi fantasmagorici di stranieri e gente comune che sussurrano in lingue diverse. Colonizzatori e missionari hanno introdotto una nuova fede e lasciato dietro di sé ricordi dolorosi. I frammenti scintillanti di Jompet Kuswidananto evocano vascelli sfasciati e sogni infranti in un vasto oceano. In tutto l’arcipelago, il cristianesimo si è intrecciato con la realtà locale. Le 14 stazioni della via crucis di Alwin Reamillo scrostano strati di colonialismo e di iconografia cristiana attraverso i temi della migrazione, del Nuovo Disordine Mondiale e della globalizzazione. I dipinti di Natee Utarit fondono la filosofia buddhista con la storia dell’arte occidentale, trasmettendo contraddizioni e assurdità. Gli incontri tra Oriente e Occidente ritraggono stranieri ovunque nei templi e nelle piazze. Per Bounpaul Phothyzan, i resti dell’occupazione americana nell’Asia sudorientale hanno lasciato cicatrici e traumi. Le bombe abbandonate nelle risaie sono scolpite per registrare le vittime storpiate e uccise dai potenti stranieri.

Con il supporto di Thai Beverage Public Company Limited One Bangkok C asean

STRANIERI OVUNQUE

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The Spirits of Maritime Crossing


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Trevor Yeung, Cave of Avoidance (Not Yours), 2024 (particolare). Vasche per pesci, attrezzature per acquari, ceramica, contenitori di plastica, lampade, rastrelliere di metallo, scarti di pesce e acqua, dimensioni variabili. Commissionato da M+, 2024. Photo South Ho. © Trevor Yeung.

Trevor Yeung, Night Mushroom in shade (Teak Cabinet), 2024 (particolare). Lampade notturne, piante artificiali e adattatori di spina, dimensioni variabili. Commissionato da M+, 2024. Photo South Ho. © Trevor Yeung.

BIENNALE ARTE

2024


Nei suoi paesaggi di acquari senza pesci, Yeung articola la propria fascinazione per l’artificialità della natura e dello spazio urbano. L’artista mette in evidenza la relazione sfumata tra i pesci, chi se ne prende cura e un acquario controllato in modo meticoloso. Sia che siamo i pesci, i loro guardiani o una parte inanimata del paesaggio, sorge sempre un attaccamento. Si tratta dell’anelito a essere una parte insostituibile e ben definita di qualcosa di più grande di noi, una brama di amare e di essere amati.

EVENTI COLLATERALI

Curatrice Olivia Chow Artista Trevor Yeung Commissari Bernard Charnwut Chan Kenneth Fok Kai-kong Co-presentato da M+, West Kowloon Cultural District Authority and Hong Kong Arts Development Council Coordinamento a Venezia PDG Arte Communications

M+, West Kowloon Cultural District Authority and Hong Kong Arts Development Council

In questa mostra, Trevor Yeung ci invita a riflettere sulle aspettative e sui codici sociali che condizionano le nostre relazioni. Le convenzioni sociali sono un prodotto naturale del nostro desiderio di ordine, efficienza e controllo. I nostri sentimenti, tuttavia, rendono vani i tentativi di un calcolo preciso e razionale. Per Yeung, questa complessità emotiva non si limita a includere le relazioni umane, ma si estende anche alle piante e agli animali, che fanno parte della nostra ecologia in senso lato. Grazie alla sua profonda conoscenza della botanica, dell’orticoltura e degli ecosistemi acquatici, Yeung intreccia incontri profondamente personali e astute osservazioni sociali fino a dar vita a intricate sculture, fotografie e installazioni. Hong Kong è un riferimento costante nonché continua fonte di materiale per Yeung, ma la risonanza emotiva del suo lavoro e la sua preoccupazione per le dinamiche di potere hanno uno scopo universale. Yeung esplora il sentimentalismo, il desiderio e le relazioni di potere attraverso il concetto di attaccamento, che in questo caso si manifesta tramite sentimenti di connessione con gli oggetti e con lo struggimento per una persona speciale. La mostra, strutturata in quattro installazioni, articola le esperienze intime dell’artista e le sue acute osservazioni sulle relazioni tra gli esseri umani e i sistemi acquatici facendo riferimento, tra gli altri, al ristorante di pesce del padre, ai negozi di animali, alle disposizioni feng shui e ai pesci che teneva in casa da bambino. Ogni installazione presenta acquari perfettamente funzionanti, completi di filtri e accessori, ma senza alcun pesce dentro. Il senso palpabile di assenza che satura la mostra evoca la natura ciclica della vita oltre che il delicato equilibrio dell’ecologia sociale, sempre suscettibile di disordine.

STRANIERI OVUNQUE

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Trevor Yeung: Courtyard of Attachments, Hong Kong in Venice


246 Ydessa Hendeles, Grand Hotel, 2022 (particolare). Fotografia dell’album di famiglia, “Sommer 1946”, stampa alla gelatina d’argento, con annotazione manoscritta a inchiostro sul recto, stampa originale: 5,9 × 8,9 cm. Collezione Ydessa Hendeles. Courtesy l’Artista. © Ydessa Hendeles.

BIENNALE ARTE

2024

Ydessa Hendeles, Grand Hotel (detail), 2022. “Grand Hotel” (modello architettonico), legno, carta pressata, vetro, ferro, XIX secolo, 147,6 × 147,6 × 108,0 cm. Photo Robert Keziere. Courtesy l’Artista. © Ydessa Hendeles.


Gli spettatori partono da un passato apparentemente benigno: una foto del dopoguerra tratta dall’album di famiglia dell’artista, un filmato d’archivio dell’Europa orientale, un dipinto di mercanti ebrei in un villaggio dell’Ucraina, i ritratti di reali russi ingioiellati e un’automobile progettata per far sentire più forte l’uomo comune tedesco. Questi oggetti sono punti di partenza per una storia di rifiuto, dislocamento e aspirazione. I bauli da viaggio simili a sepolcri, reliquie degli albori dei moderni viaggi di lusso, assumono un significato più oscuro nel contesto dell’ambiguo punto di partenza dell’installazione. Il luogo, l’architettura e la dimensione dello Spazio Berlendis danno vita ai vari elementi dell’opera. La metafora del “viaggio” è centrale nel lavoro di Ydessa Hendeles. L’artista invita gli spettatori a rispondere alle disparate parti in sequenza che culminano in un vicolo cieco, ma poi a tornare sui propri passi. L’intera esperienza artistica nasce dalla revisione, dal riesame e dalla riflessione sul cammino di ritorno.

Curatore Wayne Baerwaldt Artista Ydessa Hendeles Direttore esecutivo Barbara Fischer (Art Museum at the University of Toronto) Produzione del progetto Barbara Edwards Con il supporto di Canada Council for the Arts The Flanagan Foundation Campbell Family Holdings Ronald and Bunnie Appleby Cowley Abbott Hart Lambur Contemporary Calgary Rosamond Ivey Mats Nordstrom e Susanne Niwong Anonymous The Phyllis Lambert Foundation The Schulich Foundation Jay Smith e Laura Rapp Hartel Holding Company Ltd. Vincent Tangredi e Siu Lan Ko Hill & Schumacher Denis Walz MNP LLP – Chris Joakim, Partner Scott Shields Architects Inc. Zachari Logan David Candler Daniel Friedman e Rob Dalgliesh Danny Shapiro e Marie Lannoo Margaret Swaine e William Siegel Mary Montanari Marlene Stern e Peter Rae Rahmi Emin Stephen Smart e Juan Pablo Francisconi

Art Museum at the University of Toronto

La pratica di Ydessa Hendeles ambisce da sempre a dare espressione artistica agli effetti multigenerazionali della migrazione traumatica e alle conseguenti barriere psicologiche e fisiche che impediscono di ricostruire una comunità e un senso di appartenenza. La propria storia di figlia unica di sopravvissuti ad Auschwitz, che hanno attraversato frontiere e oceani per ricostruirsi una vita, influenza inevitabilmente le sue opere. Pur essendo nata in Germania, gode di doppia cittadinanza polaccocanadese e ha profonde radici familiari in Polonia in quanto discendente di una stirpe di rabbini e studiosi talmudici. Il programma nazista di eliminazione degli ebrei ha reso la sua una generazione senza nonni. Dopo la Seconda guerra mondiale, non c’era più una “casa” a cui tornare. Le opere di Hendeles sono documenti post-Olocausto che non solo aspirano a plasmare legami creativi tra passato e presente, ma altresì utilizzano metafore visive evocative e a tratti provocatorie per ritrarre il tono e il tenore dei nostri tempi. Grand Hotel mette in scena oggetti da collezione, prodotti fatti a mano e a macchina, oggetti vernacolari e filmati recuperati in una narrazione assemblata per provocare delle reazioni a partire dall’esperienza di vita dello spettatore. Grand Hotel è ambientato in un paese che sta uscendo dalle macerie della guerra. Lo scenario prevede una famiglia o un gruppo di amici intimi che sono in viaggio come turisti. Ma in quali circostanze? La spensierata transitorietà del viaggio di piacere nasconde forse un’odissea irta di difficoltà per raggiungere la sicurezza e la protezione emotiva? E la fine di questo viaggio è costruita su sogni di nuovi inizi o su incubi di traumi passati?

Con uno speciale ringraziamento a Wolodymyr George Danyliw Foundation

EVENTI COLLATERALI

STRANIERI OVUNQUE

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Ydessa Hendeles: Grand Hotel


248 Yuan Goang-Ming, Everyday Maneuver, 2018. Video a canale singolo, 5’57”. Courtesy l’Artista. © Yuan Goang-Ming.

BIENNALE ARTE

2024

Yuan Goang-Ming, The 561st Hour of Occupation, 2014. Video a canale singolo, 5’56”. Courtesy l’Artista. © Yuan Goang-Ming.


Cercando di immaginare una via di fuga in tempi così imprevedibili, Yuan presenta anche il suo ultimo film Flat World (2023). Montato esclusivamente con filmati provenienti da Google Street View, segna la sua prima incursione nel mondo virtuale, immaginandolo come un nuovo tipo di road movie, generato da algoritmi. Contrariamente ai classici road movie – l’andarsene di casa come fuga, scoperta e ribellione – Flat World dimostra che l’informazione non equivale all’esperienza. Il libero accesso alle informazioni visive di un luogo lo trasforma in nonluogo. Un senso di uniformità è la caratteristica dominante di un globo appiattito in cui manca la distinzione tra interno ed esterno. La partenza e il ritorno, un tempo romanticizzati, sono ora intrappolati nell’assenza di curiosità, illuminazione ed esplorazione. Il movimento tra origine e destinazione non ha senso senza l’orientamento del corpo tra chi osserva e chi viene osservato. Il tracollo del tempo riduce qualsiasi luogo che possa proteggere i propri oggetti personali a un semplice punto su una mappa. Come molti taiwanesi nati dopo la seconda guerra mondiale, Yuan è cresciuto trai tormentosi e traumatici ricordi paterni della guerra e dello sfollamento. L’immaginata invasione violenta dello spazio privato, che mette in primo piano la tensione generazionale, non riguarda solosua personale battaglia, ma risuona anche di un senso di catastrofe imminente condiviso all’interno della società taiwanese.

EVENTI COLLATERALI

Curatrice Abby Chen Artista Yuan Goang-Ming Con il supporto ufficiale di Ministero degli Affari Esteri e il Ministero della Cultura della Repubblica di Cina (Taiwan), il Governo della città di Taipei e il Dipartimento degli Affari Culturali del Governo della città di Taipei

Taipei Fine Arts Museum of Taiwan

Everyday War è un’efficace introduzione a cosa significhi vivere con la costante minaccia dell’apocalisse nel pieno di una transizione sociale radicale. La mostra sintetizza l’ansia e la speranza dell’artista, richiamando il concetto di casa e la ricerca della “dimora poetica”, il luogo heideggeriano di pace, sicurezza e libertà. Il pubblico può accedere alle storie poco note della vita quotidiana dell’artista: come la paura, che per l’individuo è rievocazione angosciosa, viene rielaborata pubblicamente dalla collettività. Everyday War presenta cinque video e un’installazione cinetica. L’opera omonima raffigura un attacco militare che distrugge un monolocale, realizzata con la nota tecnica cinematografica dell’artista. Anche due opere del 2014, Dwelling e Prophecy, esplorano l’irrisolvibile ansia domestica di Yuan. Everyday Maneuver (2018), girato durante Wanan (“pace perpetua”), l’esercitazione annuale taiwanese di difesa antiaerea, conferisce il tono all’intera mostra. L’artista descrive la vita a Taiwan come “perturbante”, uno stato di sinistra suspense dovuta all’escalation della tensione al di là dello stretto.

STRANIERI OVUNQUE

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Yuan Goang-Ming: Everyday War



Lista dei Partecipanti


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Albania Iva Lulashi Tirana, Albania, 1988. Vive e lavora a Milano, Italia

Argentina Luciana Lamothe Buenos Aires, Argentina, 1975. Vive e lavora a Buenos Aires

Repubblica di Armenia Nina Khemchyan Yerevan, Armenia, 1964. Vive e lavora a Parigi, Francia

Australia

LISTA DEI PARTECIPANTI

Archie Moore Toowoomba, Australia, 1970. Vive e lavora a Redland, Australia

Austria Anna Jermolaewa Leningrado, USSR, 1970. Vive e lavora a Vienna, Austria

Repubblica dell’Azerbaigian Vusala Agharaziyeva Baku, Repubblica dell’Azerbaigian, 1990. Vive e lavora a Baku, Repubblica dell’Azerbaigian Rashad Alakbarov Baku, Repubblica dell’Azerbaigian, 1979. Vive e lavora a Baku, Repubblica dell’Azerbaigian Irina Eldarova Mosca, Russia, 1955. Vive e lavora a Baku, Repubblica dell’Azerbaigian

Repubblica Popolare del Bangladesh Shahid Kabir Barishal, Bangladesh, 1947. Vive e lavora a Dacca, Repubblica Popolare del Bangladesh

BIENNALE ARTE

2024

Syeda Mahbuba Karim Dacca, Bangladesh, 1962. Vive e lavora a Dacca, Repubblica Popolare del Bangladesh Abdur Rab Dacca, Bangladesh, 1966. Vive e lavora a Dacca, Repubblica Popolare del Bangladesh Shahjahan Ahmed Bikash Jamalpur, Bangladesh, 1972. Vive e lavora a Dacca, Repubblica Popolare del Bangladesh DoJoong Jo Jeonju, Repubblica di Corea, 1948. Vive e lavora a Jeonju Claudia De Leonardis Mosciano Sant’Angelo, Italia, 1955. Vive e lavora a San Benedetto del Tronto, Italia Franco Marrocco Rocca d’Evandro, Caserta, Italia, 1956. Vive e lavora tra Saronno e Milano, Italia Anna Carla De Leonardis Mosciano Sant’Angelo, Italia, 1960. Vive e lavora a San Benedetto del Tronto, Italia Jiyoon Oh Boryeong, Repubblica di Corea, 1962. Vive e lavora a Seul, Repubblica di Corea Roberto Saglietto Loano, Italia, 1967. Vive e lavora tra Roma e Finale Ligure, Italia Patrizia Casagranda Stuttgart, Germania, 1979. Vive e lavora a Krefeld, Germania Natalia Revoniuk Leopoli, Ucraina, 1980. Vive e lavora a Ilkley, Regno Unito Marco Nereo Rotelli Venezia, Italia, 1955. Vive e lavora a Venezia, Italia Mirko Demattè Trento, Italia, 1975. Vive e lavora a Zivignano di Pergine, Italia

Belgio Sophie Boiron Oullins, Francia. 1987. Vive e lavora a Bruxelles, Belgio

Valentin Bollaert Saint Lo, Francia, 1986. Vive e lavora a Bruxelles, Belgio Simona Denicolai Milan, Italia, 1972. Vive e lavora a Bruxelles, Belgio Pauline Fockedey Mouscron, Belgio, 1988. Vive e lavora a Bruxelles, Belgio

Ines Fontenla Buenos Aires, Argentina, 1950. Vive e lavora tra Roma, Italia, e Buenos Aires, Argentina Ronald Moran Chalchuapa City, El Salvador, 1972. Vive e lavora a San Salvador, El Salvador

Pierre Huyghebaert Leuven, Belgio, 1969. Vive e lavora a Bruxelles, Belgio

Humberto Vélez Panama City, Republic of Panama, 1965.Vive e lavora tra Panama e Manchester, Regno Unito

Antoinette Jattiot Nancy, Francia, 1989. Vive e lavora a Bruxelles, Belgio

BosniaErzegovina

Ivo Provoost Diksmuide, Belgio, 1974. Vive e lavora a Bruxelles, Belgio

Repubblica del Benin

Stjepan Skoko Ljubuški, BosniaErzegovina, 1959. Vive e lavora a Ljubuški, Bosnia-Erzegovina

Brasile

Moufouli Bello Porto Novo, Benin, 1987. Vive e lavora a Cotonou, Repubblica del Benin

Glicéria Tupinambá Serra do Padeiro, Tupinambá de Olivença Terre indigene, Bahia, Brasile, 1982

Chloé Quenum Parigi, Francia in 1983. Vive e lavora a Parigi, Francia

Olinda Tupinambá Bahia, Brasile, 1989. Vive e lavora a Pau Brasil, Bahia, Brasile

Ishola Akpo Yopougon, Costa d’Avorio, 1983. Vive e lavora ad AbomeyCalavi, Benin, e a Parigi, Francia

Ziel Karapotó Terra Nova, Alagoas, Brasile, 1994. Vive e lavora a Recife, Brasile

Romuald Hazoumè Porto Novo, 1962. Vive e lavora a Porto Novo e Cotonou, Repubblica del Benin

Stato Plurinazionale della Bolivia Maria Alexandra Bravo Cladera Oruro, Stato plurinazionale della Bolivia, 1950. Vive e lavora a La Paz, Stato plurinazionale della Bolivia Lorgio Vaca Duran Santa Cruz de la Sierra, Stato plurinazionale della Bolivia, 1930. Vive e lavora a Santa Cruz de la Sierra, Stato plurinazionale della Bolivia

Bulgaria Krasimira Butseva Asenovgrad, Bulgaria, 1994. Vive e lavora tra Sofia, Bulgaria, e Londra, Regno Unito Julian Chehirian Brooklyn, New York, USA,1991. Vive e lavora tra Sofia, Bulgaria, e Filadelfia, USA Lilia Topouzova Plovdiv, Bulgaria, 1979. Vive e lavora a Toronto, Canada

Repubblica del Camerun Jean Michel Dissake Douala, Camerun, 1983. Vive e lavora a Yaoundé, Repubblica del Camerun

Hako Hankson Bafang, Repubblica del Camerun, 1968. Vive e lavora a Douala, Repubblica del Camerun Kendji & Ollo Arts Gruppo di tre artisti: Yaoundé, Repubblica del Camerun, 1982, 1986 e 1990. Vivono e lavorano a Yaoundé, Repubblica del Camerun Patrick-Joël Tatcheda Yonkeu Douala, Camerun, 1985. Vive e lavora a Bologna, Italia Guy Wouete Douala, Repubblica del Camerun, 1980. Vive e lavora ad Antwerp e Bruxelles, Belgio, Douala and Penja, Repubblica del Camerun Angelo Accardi Sapri, Italia, 1964. Vive e lavora a Sapri, Italia Julia Bornefeld Kiel, Germania, 1963. Brunico, Italia, e Berlino, Germania Cesare Catania Milano, Italia, 1979. Vive e lavora a Milano, Italia Adélaïde LaurentBellue Parigi, Francia, 1989. Vive e lavora a Parigi Franco Mazzucchelli Milano, Italia, 1939. Vive e lavora a Milano, Italia Rex Volcan Eindhoven, Paesi Bassi, 1973. Vive e lavora nei Paesi Bassi e a Londra, Regno Unito Edna Volcan Colombia, 1990 Vive e lavora nei Paesi Bassi e a Londra, Regno Unito Giorgio Tentolini Casalmaggiore, Italia, 1978. Vive e lavora a Casalmaggiore, Italia Liu Youju Jiexi, Guangdong, Repubblica Popolare Cinese, 1955. Vive e lavora a Guangzhou, Guangdong, Repubblica Popolare Cinese

Canada Kapwani Kiwanga Hamilton, Canada, 1978. Vive e lavora a Parigi, Francia


Valeria Montti Colque Stoccolma, Svezia, 1978. Vive e lavora a Stoccolma, Svezia

Repubblica Popolare Cinese Project team of A Comprehensive Collection of Ancient Chinese Paintings Fondato nel 2005 a Hangzhou, Zhejiang, Repubblica Popolare Cinese Zhu Jinshi Pechino, Zhejiang, 1954. Vive e lavora a Pechino, Repubblica Popolare Cinese Che Jianquan Tianjin, Repubblica Popolare Cinese, 1967. Vive e lavora a Guangzhou, Repubblica Popolare Cinese Jiao Xingtao Chengdu, Repubblica Popolare Cinese, 1970. Vive e lavora a Chongqing, Repubblica Popolare Cinese Wang Shaoqiang Shantou, Guangdong, Repubblica Popolare Cinese, 1969. Vive e lavora a Guangzhou, Repubblica Popolare Cinese Shi Hui Shanghai, Repubblica Popolare Cinese, 1955. Vive e lavora a Hangzhou, Repubblica Popolare Cinese Qiu Zhenzhong Nanchang, Jiangxi, Repubblica Popolare Cinese, 1947. Vive e lavora a Beijing, Repubblica Popolare Cinese Wang Zhenghong Shanghai, Repubblica Popolare Cinese, 1973. Vive e lavora a Hangzhou, Zhejiang, Repubblica Popolare Cinese

Repubblica Democratica del Congo Aimé Mpane Kinshasa, Repubblica Democratica del Congo, 1968. Vive e lavora a Kinshasa, Repubblica Democratica del Congo e Bruxelles, Belgio

Eddy Kamuanga Ilunga Kinshasa, Repubblica Democratica del Congo, 1991. Vive e lavora a Kinshasa, Repubblica Democratica del Congo Eddy Ekete Mombesa Kinshasa, Repubblica Democratica del Congo, 1978. Vive e lavora a Kinshasa, Repubblica Democratica del Congo Jean Katambayi Mukendi Lubumbashi, Repubblica Democratica del Congo, 1974. Vive e lavora a Lubumbashi, Repubblica Democratica del Congo Cédric Sungo Mome Kinshasa, Repubblica Democratica del Congo, 1992. Vive e lavora a Kinshasa, Repubblica Democratica del Congo Steve Bandoma Kinshasa, Repubblica Democratica del Congo, 1981. Vive e lavora a Kinshasa, Repubblica Democratica del Congo Eléonore Hellio Parigi, Francia, 1966. Vive e lavora a Kinshasa, Repubblica Democratica del Congo Michel Ekeba Kinshasa, Repubblica Democratica del Congo, 1984. Vive e lavora a Kinshasa, Repubblica Democratica del Congo

Croazia Vlatka Horvat Čakovec, Croazia, 1974. Vive e lavora a Londra, Regno Unito

Cuba Wilfredo Prieto Sancti Spiritus, Cuba, 1978. Vive e lavora a L’Avana, Cuba

Repubblica di Cipro Haig Aivazian Beirut, Libano, 1980. Vive e lavora a Beirut, Libano Andreas Andronikou Nicosia, Cipro, 1998. Vive e lavora a Nicosia, Cipro, e Londra, Regno Unito

Marina Ashioti Nicosia, Cipro, 1997. Vive e lavora a Nicosia, Cipro, Londra, Regno Unito Niki Charalambous Nicosia, Cipro, 1997. Vive e lavora a Nicosia, Cipro Doris Mari Demetriadou Nicosia, Cipro, 1997. Vive e lavora a Nicosia, Cipro, e Amsterdam, Paesi Bassi Peter Eramian Nicosia, Cipro, 1984. Vive e lavora a Nicosia, Cipro Irini Khenkin Nicosia, Cipro, 1997. Vive e lavora a Nicosia, Cipro Rafailia Tsiridou Nicosia, Cipro, 1998. Vive e lavora a Nicosia, Cipro Emiddio Vasquez Santo Domingo, Repubblica Dominicana, 1986. Vive e lavora a Limassol, Cipro, e Phoenix, USA Alexandros Xenophontos Nicosia, Cipro, 1996. Vive e lavora a Nicosia, Cipro, e Londra, Regno Unito

Repubblica Ceca Eva Kot’átková Praga, Repubblica Ceca, 1982. Vive e lavora a Praga, Repubblica Ceca

Egitto

Germania

Wael Shawky Alessandria, Egitto, 1971. Vive e lavora ad Alessandria, Egitto, e Filadelfia, USA

Ersan Mondtag Berlino, Germania, 1987. Vive e lavora a Berlino, Germania

Estonia Edith Karlson Tallinn, Estonia, 1983. Vive e lavora a Tallinn, Estonia

Etiopia

Robert Lippok Berlino, Germania, 1966. Vive e lavora a Berlino, Germania

Tesfaye Urgessa Addis Abeba, Etiopia, 1983. Vive e lavora a Addis Abeba, Etiopia

Nicole L’Huillier Santiago del Cile, Cile, 1985. Vive e lavora a Berlino, Germania

Finlandia Pia Lindman Espoo, Finlandia, 1965. Vive e lavora a Inkoo, Finlandia Vidha Saumya Patna, India, 1984. Vive e lavora a Helsinki, Finlandia Jenni-Juulia Wallinheimo-Heimonen Helsinki, Finlandia, 1974. Vive e lavora a Nurmijärvi, Finlandia

Michael Akstaller Regensburg, Germania 1992. Vive e lavora a Nuremberg, Germania, e Berlino, Germania

Gran Bretagna John Akomfrah Accra, Ghana, 1957. Vive e lavora a Londra, Regno Unito

Grecia

Julien Creuzet Blanc-Mesnil, Francia, 1986. Vive e lavora a Montreuil, Francia

Thanasis Deligiannis Larissa, Grecia, 1983. Vive e lavora ad Amsterdam, Paesi Bassi

Georgia

Yannis Michalopoulos Atene, Grecia, 1982. Vive e lavora a Parigi, Francia

Juliette George Parigi, Francia, 1992. Vive e lavora ad Arles, Francia

David Soin Tapesser Germania 1985. Vive e lavora a New Delhi, India, e Londra, Regno Unito

Rodrigue De Ferluc Talence, Francia, 1987. Vive e lavora ad Arles, Francia

Inuuteq Storch Sisimiut, Grenland, Norvegia, 1989. Vive e lavora a Sisimiut, Norvegia

Jan St. Werner Nuremberg, Germania, 1969. Vive e lavora a Berlino, Germania

Francia

Himali Singh Soin India, 1987. Vive e lavora a New Delhi, India, e Londra, Regno Unito

Danimarca

Yael Bartana Kfar Yehezkel, Israele, 1970. Vive e lavora a Roma, Italia, Berlino, Germania, e Amsterdam, Paesi Bassi

Nikoloz Koplatadze Tbilisi, Georgia, 1997. Vive e lavora a Tbilisi, Georgia Grigol Nodia Tbilisi, Georgia, 1994. Vive e lavora a Tbilisi, Georgia

Elia Kalogianni Atene, Grecia, 1995. Vive e lavora ad Amsterdam, Paesi Bassi, e Atene, Grecia Yorgos Kyvernitis Atene, Grecia, 1988. Vive e lavora ad Atene, Grecia Kostas Chaikalis Atene, Grecia, 1980. Vive e lavora ad Atene, Grecia Fotis Sagonas Thermo, Grecia, 1983. Vive e lavora a Salonicco, Grecia STRANIERI OVUNQUE

253

Cile


254

Grenada Frederika Adam New York, USA, 1970. Vive e lavora a Grenada, New York, USA, Londra, Regno Unito, West Indies, California, USA

Costa d’Avorio

Kenya

Jems Robert Koko Bi Sinfra, Costa d’Avorio, 1966. Vive e lavora in Costa d’Avorio

Peter Kenyanya Oendo Tabaka, Kisii, Kenya, 1977. Vive e lavora a Kisii County, Kenya

Jason deCaires Taylor Regno Unito, 1974. Vive e lavora nel Regno Unito

Zoe Saldana Passaic, USA, 1978. Vive e lavora a Los Angeles, USA

Sadikou Oukpedjo Ketao, Togo, 1975. Vive e lavora in Costa d’Avorio

Mzee Elkana Ong’esa Tabaka, Kisii, Kenya, 1944. Vive e lavora a Tabaka

Suelin Low Chew Tung Port of Spain, Trinidad, 1965. Vive e lavora a St. George’s, Grenada

LISTA DEI PARTECIPANTI

Massimo Bartolini Cecina, Italia, 1962. Vive e lavora a Cecina, Italia

Sergey Maslov Samara, Russia, 1952. Ha vissuto e lavorato ad Almaty, Repubblica del Kazakistan – 2002

Marco Perego Salò, Italia, 1979. Vive e lavora a Los Angeles, USA

Alma Fakhre Grenada, 1961. Vive e lavora a Grenada

Gabriele Maquignaz Aosta, Italia, 1972. Vive e lavora a Valtournenche, Italia Lorenzo Marini Monselice, Italia, 1956. Vive e lavora a Milano, Italia Benaiah Matheson Regno Unito, 1985. Vive e lavora nel Regno Unito The Perceptive Group, collettivo internazionale Fondato in Italia con sede a Grenada e in Italia Nello Petrucci Castellammare di Stabia, Italia, 1981. Vive e lavora a Pompei, Italia

Santa Sede Maurizio Cattelan Padova, Italia, 1960. Vive e lavora tra New York, USA, e Milano, Italia Bintou Dembélé Brétigny-sur-Orge, Francia, 1975. Vive e lavora nell’Île de France, Francia Simone Fattal Damasco, Siria, 1942. Vive e lavora tra Parigi, Francia, e Beirut, Libano Claire Fontaine Collettivo fondato da Fulvia Carnevale e James Thornhill, Parigi, Francia, 2004. Con sede a Palermo, Italia 2024

Corita Kent Iowa, USA, 1918 – Boston, USA, 1986

Italia

Breakfast Connecticut, USA, 1980. Vive e lavora a Brooklyn, New York, USA

ADGART (Antonello Diodato Guardigli) Salerno, Italia, 1962. Vive e lavora a Bergamo, Italia

BIENNALE ARTE

Sonia Gomes Caetanópolis, Brasile, 1948. Vive e lavora a San Paolo, Brasile

Claire Tabouret Pertuis, Francia, 1981. Vive e lavora a Los Angeles, USA

Ungheria Márton Nemes Székesfehérvár, Ungheria, 1986. Vive e lavora a New York, USA, e Budapest, Ungheria

Islanda Hildigunnur Birgisdóttir Reykjavík, Islanda, 1980. Vive e lavora a Reykjavík, Islanda

Repubblica Islamica dell’Iran Abdolhamid Ghadirian Teheran, Iran, 1960. Vive e lavora a Teheran, Iran Gholamali Taheri Teheran, Iran, 1957. Vive e lavora a Teheran, Iran Kazem Chalipa Teheran, Iran, 1958. Vive e lavora a Teheran, Iran Morteza Asadi Teheran, Iran, 1957. Vive e lavora a Teheran, Iran Mostafa Goudarzi Teheran, Iran, 1960. Vive e lavora a Teheran, Iran

Irlanda Eimear Walshe Longford, Irlanda, 1992. Vive e lavora in Irlanda

Israele Ruth Patir New York, USA, 1984. Vive e lavora a Tel Aviv, Israele

François-Xavier Gbré Lille, Francia, 1978. Vive e lavora tra La Rochelle, Francia, e Abidjan, Costa d’Avorio Franck Abd-Bakar Fanny Abidjan, Costa d’Avorio, 1970- 2021 Marie Claire Messouma Malambien Parigi, Francia, 1990.

Gerald Oroo Motondi Tabaka, Kisii, Kenya, 1965. Vive e lavora a West Pokot County, Kenya Robin Okeyo Mbera Tabaka, Kisii, Kenya, 1982. Vive e lavora a Kajiado County, Kenya

Giappone

Charles Duke Kombo Tabaka, Kisii, Kenya, 1955. Vive e lavora a Nairobi, Kenya

Yuko Mohri Kanagawa, Giappone, 1980. Vive e lavora a Tokyo, Giappone

John Tabule Ogao Abuya 1963. Vive e lavora a Tabaka, Kisii, Kenya

Repubblica del Kazakistan

Repubblica di Corea

Eldar Tagi Almaty, Repubblica del Kazakistan, 1987. Vive e lavora a Berlino, Germania

Koo Jeong A Seoul, Repubblica di Corea, 1967. Vive e lavora in tutto il mondo.

Lena Pozdnyakova Almaty, Repubblica del Kazakistan, 1985. Vive e lavora a Berlino, Germania Yerbolat Tolepbay Sud Kazakistan, 1955. Vive e lavora ad Almaty, Repubblica del Kazakistan Kamil Mullashev Ürümqi, Repubblica Popolare Cinese, 1944. Vive e lavora ad Astana, Repubblica del Kazakistan Anvar Musrepov Almaty, Repubblica del Kazakistan, 1994. Vive e lavora ad Astana, Repubblica del Kazakistan Saken Narynov Issyk, Repubblica del Kazakistan, 1946. Ha vissuto e lavorato ad Almaty, Repubblica del Kazakistan – 2023

Repubblica del Kosovo Doruntina Kastrati Prizren, Repubblica del Kosovo, 1991. Vive e lavora a Pristina, Repubblica del Kosovo

Lettonia Amanda Ziemele Riga, Lettonia, 1990. Vive e lavora a Riga, Lettonia

Libano Mounira Al Solh Beirut, Libano, 1978. Vive e lavora tra Beirut, Libano e Amsterdam, Paesi Bassi

Lituania Pakui Hardware (Neringa Černiauskaitė e Ugnius Gelguda) Klaipėda, Lituania 1984 e Vilnius, Lituania 1977. Vivono e lavorano a Vilnius, Lituania Teresė Marija Rožanskaitė Linkuva, Lituania, 1933 – Vilnius, Lituania, 2007

Granducato del Lussemburgo Andrea Mancini Lussemburgo, 1989. Vive e lavora a Bruxelles, Belgio Every Island (Alessandro Cugola, Caterina Malavolti, Damir Draganic, Juliane Seehawer, Martina Genovesi) Ha sede a Bruxelles, Belgio

Malta Matthew Attard Rabat, Malta, 1987. Vive e lavora a Malta

Messico Erick Meyenberg Città del Messico, Messico, 1980. Vive e lavora a Città del Messico, Messico

Mongolia Ochirbold Ayurzana Sukhbaatar, Mongolia,1976. Vive e lavora a Ulaanbaatar, Mongolia

Montenegro Darja Bajagić Podgorica, Montenegro, 1990. Vive e lavora a Luštica, Montenegro and Chicago, USA

Paesi Bassi Djonga Bismar Kinshasa, Repubblica Democratica del Congo, 1978. Vive e lavora a Lusanga, Repubblica Democratica del Congo


Jérémie Mabiala Kiyenge Nkiama, Repubblica Democratica del Congo, 1950. Vive e lavora a Lusanga, Repubblica Democratica del Congo

Irène Kanga Kwenge Repubblica Democratica del Congo, 1994. Vive e lavora a Lusanga, Repubblica Democratica del Congo

Plamedi Makongote Idiofa, Repubblica Democratica del Congo, 2001. Vive e lavora a Lusanga, Repubblica Democratica del Congo

Muyaka Kapasa Lwayi, Repubblica Democratica del Congo, 1963. Vive e lavora a Lusanga, Repubblica Democratica del Congo

Blaise Mandefu Kikwit, Repubblica Democratica del Congo, 1968. Vive e lavora a Lusanga, Repubblica Democratica del Congo

Matthieu Kasiama Lusanga, Repubblica Democratica del Congo, 1987. Vive e lavora a Lusanga, Repubblica Democratica del Congo

Daniel Manenga Lusanga, Repubblica Democratica del Congo, 1974. Vive e lavora a Lusanga, Repubblica Democratica del Congo

Jean Kawata Lusanga, Repubblica Democratica del Congo, 1980. Vive e lavora a Lusanga, Repubblica Democratica del Congo

Mira Meya Kikwit, Repubblica Democratica del Congo, 1983. Vive e lavora a Lusanga, Repubblica Democratica del Congo

Huguette Kilembi Kwenge, Repubblica Democratica del Congo, 1993. Vive e lavora a Lusanga, Repubblica Democratica del Congo

Emery Muhamba Kikwit, Repubblica Democratica del Congo, 1970. Vive e lavora a Lusanga, Repubblica Democratica del Congo

Mbuku Kimpala Yasa Bonga, Repubblica Democratica del Congo, 1986. Vive e lavora a Lusanga, Repubblica Democratica del Congo

Tantine Mukundu Lusanga, Repubblica Democratica del Congo, 1985. Vive e lavora a Lusanga, Repubblica Democratica del Congo

Athanas Kindendi Soa, Repubblica Democratica del Congo, 1970. Vive e lavora a Lusanga, Repubblica Democratica del Congo

Olele Mulela Malundu, Repubblica Democratica del Congo, 1952. Vive e lavora a Lusanga, Repubblica Democratica del Congo

Felicien Kisiata Lusanga, Repubblica Democratica del Congo, 1945. Vive e lavora a Lusanga, Repubblica Democratica del Congo

Daniel Muvunzi Lusanga, Repubblica Democratica del Congo, 1981. Vive e lavora a Lusanga, Repubblica Democratica del Congo

Charles Leba Lusanga Repubblica Democratica del Congo, 1992. Vive e lavora a Lusanga, Repubblica Democratica del Congo

René Ngongo Goma, Repubblica Democratica del Congo, 1961. Vive e lavora a Kinshasa and Lusanga, Repubblica Democratica del Congo

Philomène Lembusa Lusanga, Repubblica Democratica del Congo, 1989. Vive e lavora a Lusanga, Repubblica Democratica del Congo Richard Leta Nioka, Repubblica Democratica del Congo, 1964. Vive e lavora a Lusanga, Repubblica Democratica del Congo

Alvers Tamasala Likasi, Repubblica Democratica del Congo, 1990. Vive e lavora a Lusanga, Repubblica Democratica del Congo

Ced’art Tamasala Likasi, Repubblica Democratica del Congo, 1983. Vive e lavora a Lusanga, Repubblica Democratica del Congo

Nigeria Tunji Adeniyi-Jones Londra, Regno Unito, 1992. Vive e lavora a New York, USA Ndidi Dike Londra, Regno Unito. Vive e lavora a Lagos, Nigeria Onyeka Igwe Londra, Regno Unito, 1986. Vive e lavora a Londra, Regno Unito Toyin Ojih Odutola Ile-Ife, Nigeria, 1985. Vive e lavora a New York, USA Abraham O. Oghobase Lagos, Nigeria, 1979. Vive e lavora a Toronto, Canada Precious Okoyomon Londra, Regno Unito, 1993. Vive e lavora a New York, USA

Essa al Mufarji Bahla, Sultanato dell’Oman, 1981. Vive e lavora a Muscat, Sultanato dell’Oman Adham al Farsi Muscat, Sultanato dell’Oman, 1983. Vive e lavora a Muscat

Repubblica di Panama

Vânia Gala Coimbra, Portogallo, 1972. Vive e lavora a Londra, Regno Unito

Romania Șerban Savu Sighișoara, Romania, 1978. Vive e lavora a Cluj-Napoca, Romania. Atelier Brenda Bruxelles, Belgio

Brooke Alfaro Panama, 1949. Vive e lavora nella città di Panama

Repubblica di San Marino

Isabel De Obaldía Washington D.C., USA, 1957. Vive e lavora nella città di Panama

Eddie Martinez Groton Naval Base, USA, 1977. Vive e lavora a New York, USA

Cisco Merel Panama, 1981. Vive e lavora nella città di Panama Giana De Dier Panama, 1980. Vive e lavora nella città di Panama

Perù

Arabia Saudita Manal AlDowayan Riyadh, Arabia Saudita, 1973. Vive e lavora tra Londra, Regno Unito e Dhahran, Arabia Saudita

Senegal

Roberto Huarcaya Lima, Perù, 1959. Vive e lavora a Lima, Perù

Alioune Diagne Kaffrine, Senegal, 1985. Vive e lavora a Dakar, Senegal

Filippine

Serbia

Fatimah Tuggar Kaduna, Nigeria, 1967. Vive e lavora a Gainesville, USA

Mark Salvatus Lucban, Filippine, 1980. Vive e lavora a Quezon City, Filippine

Aleksandar Denić Belgrado, Serbia, 1963. Vive e lavora a Belgrado, Serbia

Repubblica di Macedonia del Nord

Polonia

Repubblica delle Seychelles

Yinka Shonibare CBE RA Londra, Regno Unito, 1962. Vive e lavora a London

Slavica Janešlieva Skopje, Jugoslavia, 1973. Vive e lavora a Skopje, Repubblica di Macedonia del Nord

Sultanato dell’Oman Ali al Jabri Sohar, Sultanato dell’Oman, 1980. Vive a Sohar e lavora a Muscat, Sultanato dell’Oman Alia al Farsi Muttrah, Sultanato dell’Oman, 1972. Vive e lavora a Muscat. Sarah al Olaqi Londra, Regno Unito, 1984. Vive e lavora a Muscat, Sultanato dell’Oman

Open Group Fondato a Leopoli, Ucraina, 2012 Yuriy Biley Uzhhorod, Ucraina, 1988 Anton Varga Uzhhorod, Ucraina, 1989 Pavlo Kovach Uzhhorod, Ucraina, 1987 Vivono e lavorano a Breslavia, Polonia, Berlino, Germania, Leopoli, Ucraina e New York, USA

Portogallo Mónica de Miranda Porto, Portogallo, 1976. Vive e lavora a Lisbona, Portogallo Sónia Vaz Borges Lisbona, Portogallo, 1980. Vive e lavora a Filadelfia, USA

Jude Ally Repubblica delle Seychelles, 1979. Vive e lavora nella Repubblica delle Seychelles Ryan Chetty Repubblica delle Seychelles, 1989. Vive e lavora nella Repubblica delle Seychelles Danielle Freakley Australia, 1982. Vive e lavora in Australia Juliette Zelime (aka Jadez) Repubblica delle Seychelles, 1984. Vive e lavora nella Repubblica delle Seychelles

STRANIERI OVUNQUE

255

Alphonse Bukumba Lubami-Manga, Repubblica Democratica del Congo, 1994. Vive e lavora a Lusanga, Repubblica Democratica del Congo


256

Singapore Robert Zhao Renhui Singapore, 1983. Vive e lavora a Singapore

Repubblica Slovacca Oto Hudec Košice, Repubblica Slovacca, 1981. Vive e lavora in Košice, Repubblica Slovacca

Repubblica della Slovenia Nika Špan Lubiana, Repubblica della Slovenia, 1967. Vive e lavora a Düsseldorf, Germania e Lubiana, Repubblica della Slovenia

LISTA DEI PARTECIPANTI

Repubblica del Sudafrica Molemo Moiloa Vive e lavora a Johannesburg, Repubblica del Sudafrica Nare Mokgotho Vive e lavora a Johannesburg, Repubblica del Sudafrica

Spagna Sandra Gamarra Heshiki Lima, Perù, 1972. Vive e lavora a Lima e Madrid, Spagna

Svizzera Guerreiro do Divino Amor Ginevra, Svizzera, 1983. Vive e lavora a Rio de Janeiro, Brasile

Repubblica Unita della Tanzania Lutengano Mwakisopile Dar es Salaam, Repubblica Unita della Tanzania, 1976. Vive e lavora a Dar es Salaam, Repubblica Unita della Tanzania

Haji Mussa Chilonga Masasi, Repubblica Unita della Tanzania, 1969. Vive e lavora a Dar es Salaam, Repubblica Unita della Tanzania Naby Bologna, Italia, 1968. Vive e lavora a Bologna, Italia Happy Robert Songea, Repubblica Unita della Tanzania. Vive e lavora a Dar es Salaam, Repubblica Unita della Tanzania

Repubblica Democratica di Timor Leste Maria Madeira Geno, Repubblica Democratica di Timor Leste, 1966. Vive e lavora a Dili, Repubblica Democratica di Timor Leste e Perth, Australia

Turchia Gülsün Karamustafa Ankara, Turchia, 1946. Vive e lavora a Istanbul, Turchia e Berlino, Germania

Uganda Artisan Weavers Collective è un collettivo di 25 tessitori artigiani leader e intergenerazionali Odur Ronald Uganda, 1992. Vive e lavora a Kampala, Uganda Sanaa Gateja Kisoro, Uganda, 1950 Vive e lavora a Kampala, Uganda Jose Hendo Kagango, Uganda, 1966. Vive e lavora nel Regno Unito e in Uganda Xenson Ssenkaaba Wakiso, Uganda, 1976. Vive e lavora a Kampala, Uganda Taga Nuwagaba Kitante, Uganda, 1968. Vive e lavora a Kampala, Uganda

Ucraina Katya Buchatska Kiev, Ucraina, 1987. Vive e lavora a Kiev, Ucraina

BIENNALE ARTE

2024

Oleksandr Burlaka Kiev, Ucraina, 1982. Vive e lavora a Kiev, Ucraina Andrii Dostliev Brianka, Ucraina, 1984. Vive e lavora a Poznań, Polonia Lia Dostlieva Donetsk, Ucraina, 1984. Vive e lavora a Poznań, Polonia Andrii Rachynskyi Kharkiv, Ucraina, 1990. Vive e lavora a Kharkiv e Leopoli, Ucraina Daniil Revkovskyi Kharkiv, Ucraina, 1993. Vive e lavora a Kiev, Ucraina

Emirati Arabi Uniti Abdullah Al Saadi Khor Fakkan, Emirati Arabi Uniti, 1967. Vive e lavora a Khor Fakkan, Emirati Arabi Uniti

Uruguay Eduardo Cardozo Montevideo, Uruguay, 1965. Vive e lavora a Montevideo, Uruguay

Stati Uniti d’America Jeffrey Gibson Colorado Springs, USA, 1972. Vive e lavora a Hudson, USA

Repubblica dell’Uzbekistan Aziza Kadyri Mosca, Russia, 1994. Vive e lavora tra Tashkent, Repubblica dell’Uzbekistan e Londra, Regno Unito

Repubblica Bolivariana del Venezuela Juvenal Ravelo Caripito, Repubblica Bolivariana del Venezuela, 1932. Vive e lavora a Caracas e Caripito, Repubblica Bolivariana del Venezuela

Repubblica dello Zimbabwe Gillian Rosselli Masvingo, Repubblica dello Zimbabwe, 1962. Vive e lavora tra Harare e Masvingo, Repubblica dello Zimbabwe Viktor Nyakauru Harare, Repubblica dello Zimbabwe, 1977. Vive e lavora a Harare, Repubblica dello Zimbabwe Kombo Chapfika Harare, Repubblica dello Zimbabwe, 1981. Vive e lavora a Harare, Repubblica dello Zimbabwe Troy Makaza Harare, Repubblica dello Zimbabwe, 1995. Vive e lavora tra Harare e Marondera, Repubblica dello Zimbabwe Moffat Takadiwa Karoi, Repubblica dello Zimbabwe, 1983. Vive e lavora a Harare, Repubblica dello Zimbabwe Sekai Machache Harare, Repubblica dello Zimbabwe, 1989. Vive e lavora a Glasgow, Regno Unito

Padiglione Venezia Franco Arminio Bisaccia, Italia, 1960. Vive e lavora a Bisaccia, Italia Vittorio Marella Venezia, Italia, 1997. Vive e lavora a Venezia, Italia Pietro Ruffo Roma, Italia, 1978. Vive e lavora a Roma, Italia Safet Zec Rogatica, BosniaErzegovina, 1943. Vive e lavora tra Venezia, Italia, Sarajevo e Počitelj, Bosnia-Erzegovina


All African People’s Consulate

Yoo Youngkuk Uljin, Repubblica di Corea, 1916–2002

Dread Scott Chicago, USA, 1965. Vive e lavora a Brooklyn, New York, USA

A World of Many Worlds Isaac Chong Wai Guangdong, Repubblica Popolare Cinese, 1990. Vive e lavora a Berlino, Germania Sandra Gamarra Heshiki Lima, Perù, 1972. Vive e lavora a Lima, Perù e Madrid, Spagna Lap-See Lam Stoccolma, Svezia, 1990. Vive e lavora a Stoccolma, Svezia Subash Thebe Limbu Yakthung Nation (known as Eastern Nepal), 1981. Vive e lavora a Newa Nation (Kathmandu, Nepal), e Londra, Regno Unito Vidha Saumya Patna, India, 1984. Vive e lavora a Helsinki, Finlandia Joshua Serafin Filippine, 1995. Vive e lavora a Bruxelles, Belgio Qingmei Yao Zhejiang, Repubblica Popolare Cinese, 1984. Vive e lavora a Wenzhou, Repubblica Popolare Cinese, e Parigi, Francia Trevor Yeung Guangdong, Repubblica Popolare Cinese, 1988. Vive e lavora a Hong Kong, Repubblica Popolare Cinese

Above Zobeide, Exhibition from Macao, China Wong Weng Cheong Macao, Regione Amministrativa speciale della Repubblica Popolare Cinese. Vive e lavora a Macao, Regione Amministrativa speciale della Repubblica Popolare Cinese

Andrzej Wróblewski (1927–1957). In the First Person Andrzej Wróblewski Wilno, Polonia, 1927 – Tatra Mountains, Slovacchia/Polonia, 1957

Berlinde De Bruyckere: City of Refuge III Berlinde De Bruyckere Gand, Belgio, 1964. Vive e lavora a Gand, Belgio

Catalonia in Venice | Bestiari | Carlos Casas Carlos Casas 1974, Barcellona, Spagna. Vive e lavora a Londra, Regno Unito e Basilea, Svizzera

Guillermo Calzadilla Havana, Cuba, 1971. Vive e lavora a San Juan, Porto Rico

Anton Saenko Sumy, Ucraina, 1989. Vive e lavora a Kiev, Ucraina

Ernest PignonErnest: Je Est Un Autre

Alex Baczyński-Jenkins Londra, Regno Unito, 1987. Vive e lavora a Varsavia, Polonia, e Londra, Regno Unito

Michal Rovner Tel Aviv, Israele, 1957. Vive e lavora a Tel Aviv, Israele, e New York, USA

Ernest Pignon-Ernest Nizza, Francia, 1942. Vive e lavora a Parigi, Francia

Fatma Bucak Iskenderun, Turchia, 1984. Vive e lavora a Londra, Regno Unito e Istanbul, Turchia David Claerbout Kortrijk, Belgio, 1969. Vive e lavora ad Anversa, Belgio Shilpa Gupta Mumbai, India, 1976. Vive e lavora a Mumbai, India Oleg Holosiy Dnipro, Ucraina, 1965 – Kiev, Ucraina, 1993

Jim Dine – Dog on the Forge Jim Dine Cincinnati, Ohio, 1935. Vive e lavora a negli USA e in Europa

Andriy Rachinskiy Kharkiv, Ucraina, 1990. Vive e lavora a Leopoli, Ucraina

Josèfa Ntjam: swell of spæc(i)es

Desde San Juan Bautista...

Josèfa Ntjam Metz, Francia, 1992. Vive e lavora a Saint-Étienne, Francia

Dana Kavelina Melitopol, Ucraina, 1995. Vive e lavora a Leopoli, Ucraina, e Berlino, Germania

Lesia Khomenko Kiev, Ucraina, 1980. Vive e lavora a New York, USA

Manu Parekh Gujarat, India, 1939. Vive e lavora a New Delhi, India

Yana Kononova Isola di Pirallahi, Repubblica dell’Azerbaigian, 1977. Vive e lavora a Kiev oblast e Cercasy oblast, Ucraina

Jennifer Allora Filadelfia, USA, 1974. Vive e lavora a San Juan, Porto Rico

Yarema Malashchuk Kolomyya, Ucraina, 1993. Vive e lavora a Kiev, Ucraina

Ewa Juszkiewicz Gdansk, Polonia, 1984. Vive e lavora a Varsavia, Polonia

Zhanna Kadyrova Brovary, Ucraina, 1981. Vive e lavora a Kiev, Ucraina

Madhvi Parekh Gujarat, India, 1942. Vive e lavora a New Delhi, India

Kateryna Aliinyk Luhansk, Ucraina, 1998. Vive e lavora a Kiev, Ucraina

Roman Khimei Kolomyya, Ucraina, 1992. Vive e lavora a Kiev, Ucraina

Nikita Kadan Kiev, Ucraina, 1982. Vive e lavora a Kiev, Ucraina

Cosmic Garden

Daring to Dream in a World of Constant Fear

Anna Zvyagintseva Dnipro, Ucraina, 1986. Vive e lavora a Kiev, Ucraina

Ewa Juszkiewicz: Locks With Leaves And Swelling Buds

Daniil Revkovskiy Kharkiv, Ucraina, 1993. Vive e lavora a Kiev, Ucraina

Nikolay Karabinovych Odessa, Ucraina, 1988. Vive e lavora ad Amsterdam, Paesi Bassi, e Anversa, Belgio

Karishma Swali Mumbai, India, 1977. Vive e lavora a Mumbai, India

Fedir Tetianych Kniazhychi, Ucraina, 1942 – Kiev, Ucraina, 2007

Kateryna Lysovenko Odessa, Ucraina, 1989. Vive e lavora a Vienna, Austria Otobong Nkanga Kano, Nigeria, 1974. Vive e lavora ad Anversa, Belgio Wilfredo Prieto García Province of Sancti Spíritus, Cuba, 1978. Vive e lavora a Barcellona, Spagna Oleksiy Sai Kiev, Ucraina, 1975. Vive e lavora a Kiev, Ucraina

Awilda Sterling-Duprey San Juan, Porto Rico, 1947. Vive e lavora a San Juan, Porto Rico Celso González San Juan, Porto Rico, 1973. Vive e lavora a San Juan, Porto Rico Chemi Rosado-Seijo Vega Alta, Porto Rico, 1973. Vive e lavora a Naranjito e a San Juan, Porto Rico Daniel Lind-Ramos Loíza, Porto Rico, 1953. Vive e lavora tra Loíza e San Juan, Porto Rico

Elias Sime: Dichotomy ፊት አና jerba Elias Sime Addis Abeba, Etiopia, 1968. Vive e lavora a Addis Abeba, Etiopia

Lee Bae — La Maison de La Lune Brûlée Lee Bae Cheongdo, Repubblica di Corea, 1956. Vive e lavora a Cheongdo, Repubblica di Corea e Parigi, Francia

Madang: Where We Become Us Nam June Paik Seoul, Repubblica di Corea, 1932 – Miami, USA, in 2006 Kcho (Alexis Leiva Machado) Isla de la Juventud, Cuba, 1970. Vive e lavora a L’Avana, Cuba Ayoung Kim Seoul, Repubblica di Corea, 1979. Vive e lavora a Seoul, Repubblica di Corea

STRANIERI OVUNQUE

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A Journey to the Infinite: Yoo Youngkuk


258

Sojung Jun Busan, Repubblica di Corea, 1982. Vive e lavora a Seoul, Repubblica di Corea Sylbee Kim Seoul, Repubblica di Corea, 1981. Vive e lavora a Berlino, Germania e Seoul, Repubblica di Corea

Passengers In Transit Joana Choumali Abidjan, Costa d’Avorio, 1974. Vive e lavora ad Abidjan, Costa d’Avorio April Bey New Providence, Bahamas, 1987. Vive e lavora a Los Angeles, USA

LISTA DEI PARTECIPANTI

Thandiwe Muriu Nairobi, Kenya, 1991. Vive e lavora a Nairobi, Kenya Christa David New York, USA, 1979. Vive e lavora ad Atlanta, USA Euridice Zaituna Kala Maputo, Mozambico, 1987. Vive e lavora a Parigi, Francia

Per non perdere il filo. Karine N’guyen Van Tham – Parul Thacker Karine N’guyen Van Tham Marsiglia, Francia, 1988. Vive e lavora a Brittany, Francia Parul Thacker Mumbai, India, 1973. Vive e lavora a Mumbai

Peter Hujar: Portraits in Life and Death Peter Hujar Trenton, USA, 1934 – New York, USA, 1987

Rebecca Ackroyd: Mirror Stage

BIENNALE ARTE

2024

Rebecca Ackroyd Cheltenham, Regno Unito, 1987. Vive e lavora tra Londra, Regno Unito, e Berlino, Germania

Robert Indiana: The Sweet Mystery Robert Indiana New Castle, USA, 1928 – Vinalhaven, USA, 2018

Seundja Rhee: Towards the Antipodes Seundja Rhee Jinju, Repubblica di Corea, 1918. Ha vissuto tra Parigi e Tourettes, Francia – Parigi, Francia, 2009

Shahzia Sikander: Collective Behavior Shahzia Sikander Lahore, Pakistan, 1969. Vive e lavora a New York, USA

South West Bank Landworks, Collective Action and Sound Samer Barbari Palestina, 1983. Vive e lavora ad ‘Azza Betlemme, Palestina Adam Broomberg Lituania, 1970. Vive e lavora a Berlino, Germania Duncan Campbell Irlanda, 1972. Vive e lavora a Glasgow, Regno Unito Rafael Gonzáles Germania, 1997. Vive e lavora a Berlino, Germania e New York, USA Isabella Hammad Regno Unito, 1991. Vive e lavora in Grecia Shayma Hammad Palestina, 1997. Vive e lavora a Ramallah, Cisgiordania, Palestina Chris Harding Regno Unito, 1996. Vive e lavora a New York, USA

The Endless Spiral: Betsabeé Romero Betsabeé Romero Città del Messico, Messico, 1963. Vive e lavora a Città del Messico, Messico

The Spirits of Maritime Crossing Marina Abramović Belgrado, Serbia, 1946. Vive e lavora a New York, USA Priyageetha Dia Singapore, 1992. Vive e lavora a Singapore Chitti Kasemkitvatana Bangkok, Thailandia, 1969. Vive e lavora a Bangkok, Thailandia Khvay Samnang Svay Rieng, Cambogia, 1982. Vive e lavora a Phnom Penh, Cambogia Pichet Klunchun Bangkok, Thailandia, 1971. Vive e lavora a Bangkok, Thailandia Jompet Kuswidananto Yogyakarta, Indonesia, 1976. Vive e lavora a Yogyakarta e Bali, Indonesia Nakrob Moonmanas Bangkok, Thailandia, 1990. Vive e lavora a Bangkok, Thailandia Bounpaul Phothyzan Champasak Province, Laos, 1979. Vive e lavora a Vientiane, Laos Alwin Reamillo Manila, Filippine, 1964-2023. Ha vissuto e lavorato a Manila e a Perth, Australia Moe Satt Yangon, Myanmar, 1983. Vive e lavora ad Amsterdam, Paesi Bassi Jakkai Siributr Bangkok, Thailandia, 1969. Vive e lavora a Bangkok, Thailandia Truong Cong Tung Dak Lak, Vietnam, 1986. Vive e lavora a Ho Chi Minh City, Vietnam Natee Utarit Bangkok, Thailandia. 1970. Vive e lavora a Bangkok, Thailandia

Kawita Vatanajyankur Bangkok, Thailandia, 1987. Vive e lavora a Bangkok, Thailandia Yee I-Lann Kota Kinabalu, Malesia, 1971. Vive e lavora a Kota Kinabalu, Malesia

Trevor Yeung: Courtyard of Attachments, Hong Kong in Venice Trevor Yeung Dongguan, Repubblica Popolare Cinese, 1988. Vive e lavora a Hong Kong

Ydessa Hendeles: Grand Hotel Ydessa Hendeles Marburg, Germania, 1948. Vive e lavora a Toronto, Canada e New York, USA

Yuan GoangMing: Everyday War Yuan Goang-Ming Taipei, Taiwan, 1965. Vive e lavora a Taipei, Taiwan



STRANIERI OVUNQUE – FOREIGNERS EVERYWHERE LA BIENNALE DI VENEZIA Attività Editoriali e Web Responsabile Flavia Fossa Margutti Vol. 2 Coordinamento Editoriale Maddalena Pietragnoli ��itin� e s��er�isione testi ������������������� �������������� In collabora�ione con� �������������

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© La Biennale di Venezia 2024 Tutti i diritti riservati in base alle convenzioni internazionali. Nessuna parte di questo libro può essere riprodotta o trasmessa in qualsiasi forma o con qualsiasi mezzo elettronico, meccanico o altro senza l’autorizzazione scritta dei proprietari dei diritti e dell’editore. Le didascalie e i crediti delle immagini in questa pubblicazione sono stati compilati con la massima cura. Eventuali errori o omissioni non sono intenzionali e saremo lieti di includere crediti appropriati e risolvere eventuali problemi relativi al copyright nelle edizioni future se nuove informazioni saranno portate all’attenzione de La Biennale di Venezia. ISBN 9788898727872 La Biennale di Venezia Prima edizione aprile 2024

La Biennale di Venezia

60. Esposizione Internazionale d’Arte



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