Biennale Arte 2022 - Il latte dei sogni

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MOSTRA





BIENNALE BIENNALEARTE ARTE 2022 2022

EXHIBITION EXHIBITION MOSTRA



LA BIENNALE DI VENEZIA Presidente

Roberto Cicutto Consiglio di Amministrazione

Luigi Brugnaro Vicepresidente Claudia Ferrazzi Luca Zaia Collegio dei revisori dei Conti

Jair Lorenco Presidente Stefania Bortoletti Anna Maria Como Direttore Generale

Andrea Del Mercato Direttrice Artistica del Settore Arti Visive

Cecilia Alemani


LA BIENNALE DI VENEZIA

Direttore Generale

5 9. E S P O S I Z I O N E INTERNAZIONALE D ’A R T E

S T RU T T U RA O R G A N I Z Z AT I VA

Curatrice della 59. Esposizione

S E RV I Z I CENTRALI

Internazionale d’Arte

Andrea Del Mercato

Cecilia Alemani Organizzatrice Artistica

Marta Papini Assistente della Curatrice e Managing Editor

A F FA R I L E G A L I E ISTITUZIONALI, RISORSE UMANE E V I C A R I AT O (DEPUTY) Direttore

Affari Legali e Istituzionali

Ricerca e testi

Stefano Mudu

Martina Ballarin Francesca Oddi Lucrezia Stocco

Staff della Curatrice

Risorse Umane

Liv Cuniberti

Graziano Carrer Luca Carta Giovanni Drudi Antonella Sfriso Alessia Viviani Rossella Zulian

Identità grafica

A Practice for Everyday Life London Consulenti Artistici

Ellen Greig Ranjit Hoskote Venus Lau Alvin Jianhuan Li Júlia Maia Rebouças Guslagie Malanda Camila Marambio Nontobeko Ntombela Kwasi Ohene-Ayeh Marie Hélène Pereira Nora Razian Marina Reyes Franco María Isabel Rueda Joanna Warsza María Wills

Cerimoniale

Francesca Boglietti Lara De Bellis

Responsabile

Flavia Fossa Margutti Giovanni Alberti Roberta Fontanin Giuliana Fusco Silvia Levorato Nicola Monaco Maddalena Pietragnoli

Segreteria Biennale College

Ian Wallace

Formafantasma

Caterina Boniollo Maria Cristina Cinti Elisabetta Mistri Chiara Rossi

Debora Rossi

e ricerca artistica

Exhibition Design

U F F I C I O AT T I V I TÀ EDITORIALI E WEB

Segreteria Generale

Manuela Hansen Assistente della Curatrice

Segreterie

Claudia Capodiferro Giacinta Maria Dalla Pietà

S E RV I Z I O A C Q U I S T I , A P PA LT I E AMMINISTRAZIONE PAT R I M O N I O

Direttore

Fabio Pacifico

Silvia Gatto Silvia Bruni Annamaria Colonna Cristiana Scavone

Linda Baldan Jasna Zoranovic Donato Zotta

Bruna Gabbiato Elia Canal Marco Caruso Martina Fiori Gregorio Granati Elisa Meggiato Manuela Pellicciolli Cristina Sartorel Sara Vianello Sponsorship

Paola Pavan Promozione Pubblico

Caterina Castellani Lucia De Manincor Elisabetta Fiorese Stefania Guglielmo Emanuela Padoan Marta Plevani

Progettazione mostre,

Massimiliano Bigarello Cinzia Bernardi Alessandra Durand de la Penne Jessica Giassi Valentina Malossi Sandra Montagner

Giulio Cantagalli Piero Novello Maurizio Urso Information Tecnology

Amministrazione Patrimonio Controllo di Gestione

Cristiano Frizzele

Facility Management Ufficio Ospitalità

Valentina Borsato Amministrazione, Finanza,

Direttore

eventi e spettacolo dal vivo Direttore

Ufficio Acquisti e Appalti

AMMINISTRAZIONE , F I NA N ZA, C ON T RO L L O DI GESTIONE E S P O N S O R S H I P, P ROM OZ I ON E PUBBLICO

S E RV I Z I TECNICO LOGISTICI

Maurizio Celoni Antonio Fantinelli

Andrea Bonaldo Michele Schiavon Leonardo Viale Jacopo Zanchi

U F F I C I O S TA M PA ISTITUZIONALE E CINEMA

P RO G E T T I S P E C I A L I , P ROM OZ I ON E S E D I

Responsabile

Direttore

Paolo Lughi

Arianna Laurenzi

Francesca Buccaro Michela Lazzarin Fiorella Tagliapietra

Progetti Speciali

Valentina Baldessari Davide Ferrante Elisabetta Parmesan Promozione Sedi

Nicola Bon Cristina Graziussi Alessia Rosada


SETTORE ARTI VISIVE / A RC H I T E T T U RA

SETTORE CINEMA

SETTORE DA N ZA, M US I C A, T E AT R O

A RC H I V I O S T O R I C O DELLA BIENNALE D I V E N E Z I A - A SAC

Dirigente Responsabile

Direttore Generale

Dirigente Responsabile

Dirigente Responsabile

Organizzativo

Andrea Del Mercato

Organizzativo

Organizzativo

Francesca Benvenuti

Debora Rossi

Segreteria

Archivio Storico

Veronica Mozzetti Monterumici

Maria Elena Cazzaro Giovanna Bottaro Michela Campagnolo Marica Gallina Helga Greggio Michele Mangione Adriana Rosaria Scalise Alice Scandiuzzi

Joern Rudolf Brandmeyer Segreteria

Marina Bertaggia Emilia Bonomi Raffaele Cinotti Stefania Fabris Stefania Guerra Francesca Aloisia Montorio Luigi Ricciari Micol Saleri Ilaria Zanella

Mariachiara Manci Alessandro Mezzalira Programmazione della Mostra Internazionale

Programmazione e produzione

d’Arte Cinematografica

Michela Mason Federica Colella Maya Romanelli

Piera Benedetti Silvia Menegazzi Daniela Persi Accrediti Industry/Cinema

U F F I C I O S TA M PA ARTI VISIVE / A RC H I T E T T U RA

Flavia Lo Mastro Biennale College Cinema

U F F I C I O S TA M PA DA N ZA, M US I C A, T E AT R O

Valentina Bellomo Responsabile

Responsabile

Emanuela Caldirola

Maria Cristiana Costanzo Ilaria Grando Claudia Gioia

C O L L A B O R AT O R I P E R L A 5 9. E S P O S I Z I O N E INTERNAZIONALE D ’A R T E Anna Albano Andrea Avezzù Valentina Campana Antonella Campisi Riccardo Cavallaro Gerardo Ernesto Cejas Marzia Cervellin Allison Grimaldi Donahue Francesco di Cesare Francesca Dolzani Lia Durante Andrea Ferialdi Fabrizia Ferragina Giulia Gasparato Nicola Giacobbo Matteo Giannasi Ornella Mogno Camilla Mozzato Daniele Paolo Mulas Luca Racchini Valeria Romagnini Elisa Santoro Marco Tosato Lucia Toso Francesco Zanon

Biblioteca

Valentina Da Tos Erica De Luigi Valentina Greggio Manuela Momentè Elena Oselladore





Grazie a

Cleary Gottlieb Steen & Hamilton LLP



Un ringraziamento a quante e quanti, in qualità di Donor, hanno generosamente contribuito alla realizzazione della nostra Mostra

Main Donor Teiger Foundation

Christian Dior Couture Ford Foundation Ammodo LUMA Foundation V-A-C Foundation, Moscow, Venice Elisa Nuyten Sue & Beau Wrigley Fondazione Sandretto Re Rebaudengo Emilie Pastor and Sibylle Rochat, Founders of Concrete Projects Antonella Rodriguez Boccanelli Charlotte Feng Ford Komal Shah & Gaurav Garg Angela Timashev Beatrice Bulgari, Founder Fondazione In Between Art Film Phileas – A Fund for Contemporary Art VIVE Arts Carlo Bronzini Vender Michelangelo Foundation Margherita Stabiumi Nicoletta Fiorucci Russo, OSI Stavros Niarchos Foundation Luigi Maramotti Unfinished Rennie Collection, Vancouver Henry Moore Foundation Suzanne Syz Lista al 20 febbraio 2022


L E ON I D ’ O RO A L LA C A R R I E RA

K AT H A R I N A F R I T S C H

1956, Essen, Germania Vive a Wuppertal e Düsseldorf, Germania

La prima volta in cui ho visto un’opera di Katharina Fritsch di persona è stato proprio alla Biennale di Venezia, nell’edizione del 1999, curata da Harald Szeemann, la prima Biennale che ho visitato. L’imponente opera che occupava il salone principale del Padiglione Centrale si intitolava Rattenkönig, il re dei topi, una scultura inquietante in cui un gruppo di topi giganteschi è disposto in cerchio, le code annodate, come in uno strano rituale magico. Da quel momento in poi, a ogni incontro con una scultura di Fritsch, ho provato lo stesso senso di stupore e di attrazione vertiginosa. Il contributo di Fritsch nel campo dell’arte contemporanea e, in particolare, in quello della scultura non ha paragoni. Il suo lavoro si distingue per opere figurative al contempo iperrealistiche e fantastiche: copie di oggetti, animali e persone rese nei più minuscoli dettagli ma trasformate in apparizioni perturbanti. Spesso Fritsch modifica le dimensioni e la scala dei suoi soggetti, miniaturizzandoli o ingigantendoli e avvolgendoli in campiture di colori stranianti: è come trovarsi al cospetto di monumenti di civiltà aliene, o di fronte a reperti esposti in uno strano museo postumano. Fritsch ha una lunga frequentazione con la Biennale di Venezia: ha rappresentato la Germania nel 1995; ha esposto Rattenkönig nel 1999 e, più recentemente, ha presentato una serie di sculture al Giardino delle Vergini, nella Biennale Arte 2011 curata da Bice Curiger. Dopo più di venticinque anni dalla sua prima partecipazione, Fritsch torna a Venezia con Elefant / Elephant, la scultura che apre la mostra Il latte dei sogni nella suntuosa Sala Chini del Padiglione Centrale, tra specchi e affreschi ottocenteschi. Una delle prime grandi opere iperrealistiche dell’artista, realizzata nel 1987, la scultura è una replica – allo stesso tempo minuziosa e surreale – di un elefante tassidermizzato, la cui epidermide è resa in una tonalità di verde scuro, quasi a suggerire una superficie di bronzo o una strana colorazione mutante. È una visione al contempo apocalittica e onirica, che racconta di una natura in via di sparizione e di un mondo sempre più artificiale e sintetico, ma è anche una riflessione sul ruolo dei musei e delle esposizioni, sulla loro capacità di preservare e raccontare le storie dell’umanità. E come dimenticare che i branchi di elefanti sono sempre guidati dalle femmine?

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CECILIA VICUÑA

1948, Santiago, Cile Vive a New York City, USA

Uno dei privilegi più grandi dell’essere curatrici è visitare gli studi d’artista. Ricordo ancora con grande intensità la mia prima visita nel loft di Cecilia Vicuña nel quartiere di Tribeca, a New York: appena ha aperto la porta, ho capito che saremmo diventate grandi amiche. Originaria del Cile, Vicuña lascia il suo Paese dopo il golpe di Augusto Pinochet e si trasferisce a New York, dove vive dagli anni Settanta. Vicuña si forma come poetessa e ha dedicato anni a preservare le opere letterarie di molti scrittori e scrittrici dell’America Latina, svolgendo un encomiabile lavoro di traduzione e redazione di antologie di poesie sudamericane che, senza il suo intervento, sarebbero andate perdute. Vicuña è anche un’attivista che da anni lotta per i diritti delle popolazioni indigene in America Latina e in Cile. Nel campo delle arti visive si è distinta per un’opera che spazia dalla pittura alla performance, fino alla realizzazione di assemblage complessi. Al centro del suo linguaggio artistico c’è una forte fascinazione per le tradizioni indigene e per le epistemologie non occidentali. Per decenni ha lavorato in disparte, con precisione, umiltà e ostinazione, anticipando molti dibattiti recenti sull’ecologia e il femminismo e immaginando nuove mitologie personali e collettive. La Mostra Il latte dei sogni include una serie di dipinti di Vicuña e una nuova opera site-specific: un assemblage di frammenti di corde e oggetti trovati, ispirato alla precarietà dell’ecosistema della laguna veneziana, nel quale l’artista legge un fitto intreccio di naturale e artificiale, di umano e non umano. La maestria di Vicuña consiste nel trasformare gli oggetti più modesti in snodi di tensioni e forze. Molte delle sue installazioni sono realizzate con materiali trovati e detriti abbandonati che l’artista intesse in delicate composizioni, nelle quali il microscopico e il monumentale sembrano trovare un fragile equilibrio: un’arte precaria, al contempo intima e potente.

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PREMI

La Giuria Internazionale conferisce: L E ON E D ’ O RO

per la miglior Partecipazione Nazionale L E ON E D ’ O RO

per il miglior partecipante della Mostra Internazionale Il latte dei sogni L E O N E D ’A R G E N T O

per un promettente giovane partecipante della Mostra Internazionale Il latte dei sogni

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GIURIA INTERNAZIONALE

A D R I E N N E E D WA R D S è Engell Speyer Curator e direttrice degli affari curatoriali presso il Whitney Museum of American Art, nonché co-curatrice della Whitney Biennial 2022. In precedenza, è stata curatrice di Performa a New York e curatrice generale del Walker Art Center di Minneapolis. Oltre a incarichi di performance interdisciplinari e progetti curatoriali, Edwards ha insegnato Storia dell’arte e Visual Studies alla New York University e alla New School e scrive per un’ampia gamma di pubblicazioni. L O R E N Z O G I U S T I è direttore della GAMeC di Bergamo. Storico dell’arte e curatore, dal 2012 al 2017 è stato direttore del Museo MAN di Nuoro. Ha organizzato mostre e curato cataloghi dedicati a importanti personalità artistiche del XX secolo nonché ad autrici e autori contemporanei, collaborando con numerose istituzioni italiane e internazionali. È presidente di AMACI – Associazione dei musei d’arte contemporanea italiani. J U L I E TA G O N Z Á L E Z è direttrice artistica dell’Instituto Inhotim in Brasile. Curatrice e ricercatrice, opera all’intersezione tra antropologia, cibernetica, architettura, ecologia, ambiente costruito e arti visive. Ha ricoperto incarichi curatoriali presso importanti istituzioni tra cui Tate Modern, Londra; Museo Tamayo, Città del Messico; Museu de Arte de São Paulo (MASP); The Bronx Museum, New York; e Museo de Bellas Artes de Caracas. Ha organizzato e co-organizzato oltre sessanta mostre e ha pubblicato numerosi saggi in cataloghi di mostre e pubblicazioni periodiche. B O N AV E N T U R E S O H B E J E N G N D I K U N G è curatore free lance,

scrittore e biotecnologo. Fondatore e direttore artistico di SAVVY Contemporary a Berlino, è anche direttore artistico di sonsbeek 20–24, mostra quadriennale di arte contemporanea ad Arnhem, nei Paesi Bassi. Insegna al corso Master of Arts in Strategie spaziali della Weißensee Kunsthochschule di Berlino. Dal 2023 assumerà il ruolo di direttore presso Haus der Kulturen der Welt (HKW) a Berlino. S U S A N N E P F E F F E R è direttrice del MUSEUM MMK FÜR MODERNE

KUNST di Francoforte. È stata direttrice del Fridericianum (2013–2017); curatrice capo del KW Institute for Contemporary Art (2007–2012); curatrice e consigliere del MoMA PS1 di New York; e direttrice artistica della Künstlerhaus Brema (2004–2006). Pfeffer ha curato il padiglione svizzero alla Biennale Arte 2015. Curatrice del padiglione tedesco alla Biennale Arte 2017, ha ricevuto con l’artista Anne Imhof il Leone d’Oro per la migliore Partecipazione Nazionale.

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INDICE DEI CONTENUTI

21

Roberto Cicutto, Introduzione

24

Cecilia Alemani intervistata da Marta Papini, Il latte dei sogni

38

Cecilia Alemani, Ringraziamenti

45

Leonora Carrington, La debuttante

49

PA D I G L I O N E C E N T R A L E , G I A R D I N I

86

LA CULLA DELLA STREGA – CAPSULA STORICA

Alyce Mahon, Figlie del Minotauro: il re-incanto del mondo delle surrealiste

160

C O R P O O R B I TA – C A P S U L A S T O R I C A

Jennifer Higgie, Linguaggio del corpo

SAG G I 209

Marina Warner, Spirale virale, o Sette giravolte nel duello magico

215

Rosi Braidotti, Teoria critica postumana

254

T E C N O L O G I E D E L L’ I N C A N T O – C A P S U L A S T O R I C A

Azalea Seratoni, Sorprendenti

CONVERSAZIONE 320

Silvia Federici e Silvia Rivera Cusicanqui in conversazione moderata da Manuela Hansen, Re-incanto e chi’xi

16


329

366

ARSENALE

UNA FOGLIA UNA ZUCCA UN GUSCIO UNA RETE U NA B O R SA U NA T RAC O L LA U NA B I SAC C I A U N A B O T T I G L I A U N A P E N T O L A U N A S C AT O L A UN CONTENITORE – CAPSULA STORICA

Christina Sharpe, Un contenitore che cosa potrebbe essere?

SAG G I 417

Ursula K. Le Guin, La sporta: una teoria della narrazione

422

Donna J. Haraway, Un sacchetto di semi per la terraformazione con gli altri della Terra

429

Mel Y. Chen, It Misses You

498

LA S E D U Z I ON E D E L C Y B O RG – C A PS U LA S T O R I C A

Matthew Biro, Le produttrici cyborg

SAG G I 545

Achille Mbembe, Meditazione sulla seconda creazione

549

N. Katherine Hayles, Il nuovo Corona: un virus postumano

553

Yuk Hui e Anders Dunker in conversazione, Sulla tecnodiversità

657

Jack Halberstam, Dei gufi e delle cose

661

Chiara Valerio, Glossario. Lacunoso e in ordine di apparizione, dal 9 marzo 2020 al 26 aprile 2021, parziale e sentimentale, come la memoria

665

Igiaba Scego, Il lungo viaggio della Signorina Clara (monologo quasi teatrale di un rinoceronte in cattività)

711

Padiglione delle Arti Applicate Progetto Speciale

715

Forte Marghera Progetto Speciale

719

Elenco delle opere

745

Biennale College Arte

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ARTISTE E ARTISTI

532

Noor Abuarafeh

522

Anna Coleman Ladd

234

244

Carla Accardi

114

Ithell Colquhoun

524

Hannah Höch

490

Igshaan Adams

388

Myrlande Constant

478

Jessie Homer French

112

Eileen Agar

294

June Crespo

524

Rebecca Horn

628

Monira Al Qadiri

267

Dadamaino

181

Georgiana Houghton

712

Sophia Al-Maria

466

Noah Davis

144

Sheree Hovsepian

566

Özlem Altın

186

Lenora de Barros

636

Tishan Hsu

267

Marina Apollonio

114

Valentine de Saint-Point

618

Marguerite Humeau

112

Gertrud Arndt

114

Lise Deharme

240

Jacqueline Humphries

381

Ruth Asawa

252

Sonia Delaunay

80

Kudzanai-Violet Hwami

72

Shuvinai Ashoona

276

Agnes Denes

534

Tatsuo Ikeda

334

Belkis Ayón

115

Maya Deren

406

Saodat Ismailova

450

Firelei Báez

268

Lucia Di Luciano

381

Aletta Jacobs

392

Felipe Baeza

470

Ibrahim El-Salahi

640

Geumhyung Jeong

112

Josephine Baker

238

Sara Enrico

280

Charlotte Johannesson

179

Djuna Barnes

152

Chiara Enzo

116

Loïs Mailou Jones

381

Mária Bartuszová

700

Andro Eradze

574

Jamian Juliano-Villani

113

Benedetta

438

Jaider Esbell

306

Birgit Jürgenssen

179

Mirella Bentivoglio

130

Jana Euler

117

Ida Kar

in collaborazione con

180

Minnie Evans

570

Allison Katz

Annalisa Alloatti

523

Alexandra Exter

192

Bronwyn Katz

68

Merikokeb Berhanu

226

Jadé Fadojutimi

528

Kapwani Kiwanga

180

Tomaso Binga

630

Jes Fan

524

Kiki Kogelnik

314

Cosima von Bonin

410

Safia Farhat

652

Barbara Kruger

598

Louise Bonnet

82

Simone Fattal

578

Tetsumi Kudo

521

Marianne Brandt

386

Célestin Faustin

76

Gabrielle L’Hirondelle Hill

606

Kerstin Brätsch

115

Leonor Fini

200

Louise Lawler

626

Dora Budor

523

Elsa von Freytag-Loringhoven

590

Carolyn Lazard

362

Eglė Budvytytė in collaborazione

50

Katharina Fritsch

610

Mire Lee

con Marija Olšauskaitė

181

Ilse Garnier

330

Simone Leigh

e Julija Steponaitytė

462

Aage Gaup

296

Hannah Levy

538

Liv Bugge

181

Linda Gazzera

494

Tau Lewis

698

Simnikiwe Buhlungu

342

Ficre Ghebreyesus

300

Shuang Li

148

Miriam Cahn

644

Elisa Giardina Papa

525

Liliane Lijn

113

Claude Cahun

412

Roberto Gil de Montes

458

Candice Lin

302

Elaine Cameron-Weir

142

Nan Goldin

182

Mina Loy

180

Milly Canavero

116

Jane Graverol

602

LuYang

113

Leonora Carrington

268

Laura Grisi

117

Antoinette Lubaki

521

Regina Cassolo Bracchi

523

Karla Grosch

622

Zhenya Machneva

312

Ambra Castagnetti

676

Robert Grosvenor

117

Baya Mahieddine

684

Giulia Cenci

290

Aneta Grzeszykowska

382

Maruja Mallo

522

Giannina Censi

442

Sheroanawe Hakihiiwe

182

Joyce Mansour

338

Gabriel Chaile

116; 524

Florence Henri

358

Britta Marakatt-Labba

474

Ali Cherri

648

Lynn Hershman Leeson

674

Diego Marcon

18

Charline von Heyl


282

Sidsel Meineche Hansen

121

Augusta Savage

382

Maria Sibylla Merian

526

Lavinia Schulz e Walter Holdt

248

Vera Molnár

270

Lillian Schwartz

434

Delcy Morelos

196

Amy Sillman

182

Sister Gertrude Morgan

540

Elias Sime

614

Sandra Mujinga

582

Marianna Simnett

64

Mrinalini Mukherjee

184

Hélène Smith

118

Nadja

188

Sable Elyse Smith

525

Louise Nevelson

562

Teresa Solar

118

Amy Nimr

184

Mary Ellen Solt

402

Magdalene Odundo

310

P. Staff

680

Precious Okoyomon

383; 526

Sophie Taeuber-Arp

118

Meret Oppenheim

382

Toshiko Takaezu

156

Ovartaci

446

Emma Talbot

688

Virginia Overton

121

Dorothea Tanning

74

Akosua Adoma Owusu

383

Bridget Tichenor

486

Prabhakar Pachpute

383

Tecla Tofano

183

Eusapia Palladino

184

Josefa Tolrà

408

Violeta Parra

696

Tourmaline

350

Rosana Paulino

121

Toyen

119

Valentine Penrose

52

Rosemarie Trockel

286

Elle Pérez

692

Wu Tsang

634

Sondra Perry

138

Kaari Upson

482

Solange Pessoa

56

Andra Ursuţa

354

Thao Nguyen Phan

268

Grazia Varisco

230

Julia Phillips

122

Remedios Varo

586

Joanna Piotrowska

454

Sandra Vásquez de la Horra

204

Alexandra Pirici

526

Marie Vassilieff

525

Anu Põder

60

Cecilia Vicuña

183

Gisèle Prassinos

269

Nanda Vigo

134

Christina Quarles

706

Marianne Vitale

114

Rachilde

594

Raphaela Vogel

646

Janis Rafa

122

Meta Vaux Warrick Fuller

119; 183

Alice Rahon

123

Laura Wheeler Waring

119

Carol Rama

272

Ulla Wiggen

124

Paula Rego

123

Mary Wigman

120

Edith Rimmington

318

Müge Yilmaz

120

Enif Robert

384

Frantz Zéphirin

396

Luiz Roque

464

Zheng Bo

120

Rosa Rosà

185

Unica Zürn

364

Niki de Saint Phalle

346

Portia Zvavahera

183

Giovanna Sandri

398

Pinaree Sanpitak

702

Aki Sasamoto

19



I N T RO D U Z I ON E Roberto Cicutto Presidente de La Biennale di Venezia

Provo a mettermi nei panni di Cecilia Alemani, Curatrice della 59. Esposizione Internazionale d’Arte della Biennale di Venezia. Ci siamo incontrati per quasi due anni attraverso Internet, inquadrati dallo schermo di un computer, ed è sempre attraverso quello schermo che Cecilia ha visitato centinaia di atelier di artisti in tutto il mondo, navigando fra quadri, sculture, video, installazioni e performance che devono averle dato una percezione molto diversa da quella che avrebbe provato dal vivo. Se tutto ciò abbia fortemente influenzato lo spirito della sua mostra, non saprei dire. Ma guardare dall’oblò dell’astronave/computer così tanti mondi fantastici, con l’obiettivo di portarli fisicamente a Venezia per esporli al mondo, ha certamente rappresentato un’esperienza unica. Cecilia Alemani (come spesso fanno le curatrici e i curatori, soprattutto alla Biennale) pone alcune domande alla base della sua ricerca. Fra queste, una in particolare mi sembra riassumerle: “Come sta cambiando la definizione di umano?”. Il suo lavoro comincia con l’individuazione di un’ispiratrice, Leonora Carrington, dalla cui arte sviluppa filoni e temi interpretati dagli artisti, che raccontano “la rappresentazione dei corpi e le loro metamorfosi; la relazione tra gli individui e le tecnologie; i legami che si intrecciano tra i corpi e la Terra”. Le opere in mostra si specchiano con alcuni loro “antenati” presentati in spazi dedicati, che ci raccontano da dove gli artisti di oggi hanno tratto ispirazione.

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Un modo di unire le diverse contemporaneità che la Biennale Arte ha raccontato in centoventisette anni di vita, un approccio già presente nella mostra Le muse inquiete. La Biennale di Venezia di fronte alla storia, realizzata dall’Archivio Storico delle Arti Contemporanee (ASAC) nel Padiglione Centrale ai Giardini, curata da tutti i Direttori dei sei Settori Artistici della Biennale (Architettura, Arte, Cinema, Danza, Musica, Teatro) e coordinata dalla stessa Cecilia Alemani nel 2020, anno orfano della Mostra Internazionale di Architettura a causa della pandemia. Un viaggio, dicevamo, visto dall’interno di una navicella. Un’immagine che richiama film di fantascienza, pieni di effetti speciali e popolati da creature ibride che quasi sempre raccontano l’eterna lotta fra il bene e il male. Invece la Mostra di Cecilia immagina nuove armonie, convivenze finora impensabili e soluzioni sorprendenti, proprio perché prendono le distanze dall’antropocentrismo. Un viaggio alla fine del quale non ci sono sconfitti, ma si configurano nuove alleanze generate dal dialogo fra esseri diversi (alcuni forse prodotti anche da macchine) con tutti gli elementi naturali che il nostro pianeta (e forse anche altri) ci presenta. I compagni di viaggio (le artiste e gli artisti) che si aggregano alla Curatrice provengono da mondi molto diversi fra loro. Cecilia ci dice che c’è una maggioranza di artiste donne e soggetti non binari, una scelta che condivido perché riflette la ricchezza della forza creativa dei nostri giorni. L’augurio per questa 59. Esposizione Internazionale d’Arte è che con essa ci si possa immergere nel “re-incantesimo del mondo” evocato da Cecilia nella sua introduzione. Forse un sogno, che è un altro degli elementi costitutivi della Mostra. Molte opere sono nuove produzioni appositamente create per questa edizione. Un segno importante e la prova di una grande attenzione alle nuove generazioni di artiste e artisti. Non a caso la Curatrice ha accettato di studiare e realizzare il primo College Arte nella storia della Biennale, che si affianca a quelli di Cinema, Danza, Teatro e Musica. I risultati dei College degli ultimi anni, sotto la diretta responsabilità dei Direttori Artistici coadiuvati da tutor, sono stati molto positivi. I College, frequentati da giovani che hanno già capito e deciso che la loro vita sarà dedicata a una qualche forma d’arte, sono laboratori impegnativi diventati nel tempo uno strumento unico di perfezionamento della propria formazione. Il frutto delle attività dei College è il riconoscimento sui palcoscenici e sugli schermi della Biennale del valore di chi vi partecipa, che spesso viene ricompensato da un inserimento stabile nel mondo del lavoro. Sembrava difficile realizzarlo anche per Arte. Ma invece tre artiste e un artista, scelti fra i molti candidati da tutto il mondo, vedono le loro opere presentate fuori concorso nell’Esposizione Internazionale, con uguale dignità rispetto ai loro colleghi già affermati, selezionati dalla Curatrice. Una tappa importante per La Biennale di Venezia che sempre di più, attraverso le attività del proprio Archivio Storico e la costituzione di un Centro Internazionale della Ricerca sulle Arti Contemporanee, si fa strumento di crescita per artiste e artisti, arricchendo la propria funzione storica di produzione di mostre e festival.

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Si ringraziano tutti i Paesi partecipanti e le nuove Partecipazioni Nazionali. Si ringrazia il Ministero della Cultura, le Istituzioni del territorio che in vario modo sostengono La Biennale, la Città di Venezia, la Regione del Veneto, la Soprintendenza Archeologia, belle arti e paesaggio per il Comune di Venezia e Laguna, la Marina Militare. Un ringraziamento va al nostro Partner Swatch, al Main Sponsor illycaffè e agli Sponsor Bloomberg Philanthropies, kvadrat, Vela-Venezia Unica e al nostro Media Partner Rai Cultura. Si ringraziano i Donor, gli Enti e Istituzioni Internazionali importanti nella realizzazione della Biennale Arte 2022. In particolare, i ringraziamenti vanno a Cecilia Alemani e a tutto il suo team. Grazie, infine, a tutte le grandi professionalità della Biennale applicate con straordinaria dedizione alla realizzazione e alla gestione della Mostra.

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I L L AT T E D E I S O G N I Cecilia Alemani intervistata da Marta Papini

La Mostra Il latte dei sogni è stata concepita e realizzata in un periodo di grande instabilità e incertezza. La sua genesi ed esecuzione hanno coinciso con l’inizio e il continuo protrarsi della pandemia da Covid-19, che ha costretto La Biennale di Venezia a posticipare questa edizione di un anno, evento che, sin dal 1895, si era verificato soltanto durante la Prima e la Seconda guerra mondiale. Che cosa ha significato per te organizzare una Biennale Arte in questo momento storico? Sono stata nominata Curatrice della 59. Esposizione Internazionale d’Arte nel gennaio del 2020, poche settimane prima che il virus si diffondesse globalmente e cambiasse per sempre le nostre vite. L’Italia sarebbe entrata in lockdown già nei primissimi giorni di marzo. Ci ricordiamo tutti le immagini terribili delle strade deserte e quelle degli ospedali di Bergamo con i camion militari, la paura, i dubbi e la confusione. A pochi mesi dalla mia nomina, la Mostra – che avrebbe dovuto aprire a maggio 2021 – è stata posticipata ad aprile 2022, poiché sarebbe stato praticamente impossibile inaugurare l’edizione della Biennale Architettura curata da Hashim Sarkis, che avrebbe dovuto precedere nella primavera del 2020. Questo concatenamento di eventi ha segnato la genesi alquanto vorticosa della Mostra, che aprirà con un anno di ritardo e che, a quattro mesi dalla data di inaugurazione, si trova a fare i conti con la diffusione della variante Omicron… Per mesi ho fantasticato che questa sarebbe stata la Biennale della rinascita, la celebrazione della fine della pandemia, e ora è difficile essere così

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ottimisti. Che la Mostra possa aprire oggi è comunque di per sé un fatto straordinario: non tanto il simbolo di una ritrovata normalità, quanto piuttosto il segno di uno sforzo collettivo che ha qualcosa di miracoloso. In questi interminabili mesi passati di fronte allo schermo del computer mi sono chiesta più volte quale fosse la responsabilità di una Biennale in questo momento storico e la risposta più semplice e sincera che sono riuscita a darmi è che la Biennale Arte assomiglia a tutto ciò di cui ci siamo dolorosamente privati: la libertà di incontrarsi con persone da tutto il mondo, la possibilità di viaggiare, la gioia di stare insieme, la pratica della differenza, della traduzione, dell’incomprensione e quella della comunicazione e della condivisione. Il latte dei sogni non è una mostra sulla pandemia, ma registra inevitabilmente le convulsioni dei nostri tempi. In questi momenti, come insegna la storia della Biennale di Venezia, l’arte e gli artisti ci aiutano a immaginare altre forme di coesistenza e nuove, infinite possibilità di trasformazione. Abbiamo iniziato a lavorare insieme a New York all’inizio del 2020, subito dopo la tua nomina. Ricordo che per la prima parte dell’anno avevamo programmato visite e viaggi in diverse parti del mondo. Di lì a poco siamo state costrette a rivedere tutto il calendario, e organizzare studio visit online invece che dal vivo. In che modo pensi che questo cambiamento abbia influito sulla ricerca? Il latte dei sogni è nata da centinaia di conversazioni tenutesi con artiste e artisti dal gennaio 2020 al dicembre 2021, due anni che sono sembrati una vera eternità, non solo per gli stravolgimenti che si sono abbattuti sul mondo intero, ma anche perché tutta la fase di ricerca e studio, che di solito arricchisce il progetto espositivo e porta la curatrice o il curatore a girare il mondo per conoscere le nuove scene artistiche, l’ho passata – a eccezione di un viaggio in Scandinavia nel marzo 2020 e uno a Berlino nel settembre dello stesso anno – seduta alla scrivania in una specie di sgabuzzino nel mio appartamento di New York, sommersa da libri e cataloghi, connessa per ore su Zoom. Gli studio visit online non possono certo sostituire la presenza fisica nello studio di un’artista e tutto il contesto di conoscenze ed esperienze nel quale si sviluppa e cresce la sua opera, ma, d’altra parte, molte delle conversazioni che ho avuto in questi mesi hanno assunto un carattere quasi confessionale, con quel misto perverso di ipercomunicazione e improvviso senso di intimità, degno di un reality show, al quale ci siamo via via abituati nel corso del tempo. Da questa strana prossimità emotiva, amplificata dal clima di incertezza e paura e dai numerosi stravolgimenti che hanno segnato le nostre vite, sono scaturite molte conversazioni di rara profondità esistenziale, nate in uno strano contrasto tra la distanza fisica – rafforzata dalla presenza dello schermo – e la vicinanza improvvisa, di chi non ha tempo da perdere. Trovi che ci fosse un filo conduttore negli scambi che hai avuto con le artiste e gli artisti in quel periodo? Diciamo che sono emerse con insistenza una serie di domande che non solo evocano questo preciso momento storico, in cui la sopravvivenza stessa dell’umanità è minacciata, ma che riassumono molte altre questioni che

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hanno dominato le scienze, le arti e i miti del nostro tempo. Come sta cambiando la definizione di umano? Quali sono le differenze che separano l’animale, il vegetale, l’umano e il non umano? Che responsabilità abbiamo nei confronti dei nostri simili, delle altre forme di vita e del pianeta che abitiamo? E come sarebbe la vita senza di noi? Queste sono le domande che hanno plasmato la Mostra: preoccupazioni che da tempo agitavano la fantasia di artisti e filosofi, ma che hanno trovato un nuovo senso di urgenza e diffusione nello stato di emergenza nel quale continuiamo a vivere dal 2020. Quelle che fino a qualche tempo fa ci apparivano come domande astratte si sono caricate di una fisicità quanto mai concreta negli ultimi ventiquattro mesi. Tutto questo per dire che Il latte dei sogni è inevitabilmente figlia di questi tempi, se non altro nelle decisioni più semplici e pratiche, come le scadenze per le spedizioni delle opere d’arte – completamente stravolte dalla crisi dei trasporti internazionali –, o la difficoltà di reperire la carta per il catalogo, conseguenza della crisi della supply chain globale, che investe la completa realizzazione della Biennale Arte. È una Esposizione che nasce in un paesaggio completamente trasformato e ancora in fase di cambiamento: mentre registriamo questa conversazione, ancora non so se l’opera per la prima sala dell’Arsenale arriverà in tempo per l’inaugurazione… Le Biennali del passato hanno spesso rifiutato impostazioni tematiche. Questa Biennale Arte invece riunisce artiste e artisti in un perimetro coerente dal punto di vista tematico. Qual è stato il processo per arrivare alla definizione dei temi sviluppati? Per me è importante sottolineare che i temi sono emersi dagli artisti e dalle opere. Ho cercato di seguire un metodo induttivo piuttosto che imporre una teoria a priori, anche perché mi sembra che molte delle artiste e degli artisti di oggi procedano seguendo un simile approccio, che è più locale, più “debole” se vogliamo, meno ideologico e più aperto alla differenza, un “sapere situato”, come lo chiamerebbe Donna Haraway1. Per riassumere, si può dire che la Mostra si articola attorno a tre aree tematiche principali: la rappresentazione dei corpi e le loro metamorfosi; la relazione tra gli individui e le tecnologie; i legami che si intrecciano tra i corpi e la Terra. O, come dice in modo sintetico Rosi Braidotti, i cui scritti sul postumano sono stati fondamentali nelle mie ricerche, la fine della centralità dell’uomo, il divenire-macchina e il divenire-terra. Molte artiste e pensatori contemporanei hanno immaginato una nuova condizione “postumana”, che Rosi Braidotti definisce come “un fenomeno di convergenza tra post-umanesimo e post-antropocentrismo, cioè la critica dell’ideale universale dell’Uomo di ragione da un lato e il rifiuto della supremazia di specie dall’altro”2. All’idea rinascimentale e illuminista dell’Uomo moderno – in particolare del soggetto maschile, bianco ed europeo – come fulcro immobile dell’universo e misura di tutte le cose, contrappongono mondi fatti di nuove alleanze tra specie diverse e abitati da esseri permeabili, ibridi e molteplici. Sotto la pressione di tecnologie sempre più invasive, i confini tra corpi e oggetti sono stati completamente trasformati, imponendo profonde

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mutazioni che ridisegnano nuove forme di soggettività e riconfigurano gerarchie e anatomie. Come sottolinea Judith Butler: “I corpi nascono e cessano di esistere: in quanto organismi fisicamente persistenti, sono soggetti a incursioni e a malattie che ne mettono a repentaglio la possibilità di persistere. Queste sono caratteristiche necessarie dei corpi – non possono ‘essere’ pensati senza la loro finitezza e dipendono da ciò che è ‘fuori di sé’ per essere sostenuti – caratteristiche che riguardano la struttura fenomenologica della vita corporea”3. Oggi il mondo appare drammaticamente diviso tra un ottimismo tecnologico che promette il perfezionamento infinito del corpo umano attraverso la scienza, e lo spettro di una totale presa di controllo da parte delle macchine per mezzo dell’automazione e dell’intelligenza artificiale. Questa frattura è stata ulteriormente acuita dalla pandemia, che ha intrappolato gran parte delle interazioni umane dietro la superficie di schermi e computer e ha intensificato ulteriormente le distanze sociali. In questi mesi la fragilità del corpo umano è diventata tragicamente protagonista, ma allo stesso tempo è stata tenuta a distanza, filtrata dalla tecnologia, disincarnata, resa quasi immateriale. La pressione tecnologica, lo scoppio della pandemia, l’acuirsi di tensioni sociali e la minaccia di incipienti disastri ambientali ci ricordano ogni giorno che, in quanto corpi mortali, non siamo né invincibili né autosufficienti, piuttosto siamo parte di un sistema di dipendenze simbiotiche che ci legano gli uni agli altri, ad altre specie e all’intero pianeta. Molti artisti ritraggono la fine dell’antropocentrismo celebrando una nuova comunione con il non umano, con l’animale, con la Madre Terra e con l’inorganico, esaltando un senso di connettività fra specie e fra soggetti animati e inanimati. Altri reagiscono alla dissoluzione di presunti sistemi universali, riscoprendo forme di conoscenza locali e nuove politiche identitarie. Altri ancora, mescolando saperi indigeni e mitologie individuali, praticano ciò che l’antropologa Silvia Federici descrive come il “re-incantesimo del mondo”, il quale “implica ricollegare ciò che il capitalismo ha diviso: il nostro rapporto con la natura, con gli altri e con i nostri corpi, consentendoci non solo di sfuggire all’attrazione gravitazionale del capitalismo, ma di ritrovare un senso di integrità nelle nostre vite”4. Come sei arrivata a Il latte dei sogni? Perché Leonora Carrington è una figura centrale per questa tua ricerca? Spesso nel mio lavoro di curatrice ho attinto alla letteratura come fonte di ispirazione per scegliere i titoli e descrivere le atmosfere delle mie mostre. Ho sempre fatto fatica a partorire titoli altisonanti come Fare Mondi o All the World’s Futures – anzi, mi ero proprio imposta sin dall’inizio che non ci dovesse essere la parola “mondo” nel mio titolo, un vezzo che mi sembra un po’ troppo maschile, devo dire, da curatori-demiurghi, tutti presi come sono dai loro mondi e palazzi… Preferisco rivolgermi a chi ha più maestria e abilità con le parole, considerato poi che nella letteratura si trova quella combinazione di precisione, individualità e vaghezza che penso sia importante seguire anche per lasciare all’arte e agli artisti la libertà di essere se stessi, senza bisogno di metterli nella posizione di dover illustrare teorie curatoriali astruse.

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Carrington è un’artista fondamentale nella storia dell’arte del Novecento, ma è stata a lungo meno apprezzata dei suoi colleghi uomini. Nella sua biografia, nella sua incredibile avventura esistenziale, c’è l’intera storia del Novecento: la Seconda guerra mondiale, con l’esilio e la fuga, il nazismo, la follia, i manicomi, l’ospedalizzazione, l’elettroshock e il cardiazol… E poi c’è il fatto che le donne surrealiste pagavano le loro scelte rivoluzionarie a caro prezzo – o comunque più dei loro colleghi uomini – e mentre Carrington finiva in manicomio, il bel Max Ernst si rifaceva una vita con Peggy Guggenheim. Nell’opera e nella biografia di Carrington, arte e vita si intrecciano indissolubilmente, aspetto quanto mai attuale, al quale è importante ripensare oggi, in un momento in cui le opere d’arte sono ridotte sempre più spesso a prodotti e in cui molti dei discorsi culturali tendono a condensare definizioni di identità molto rigide. La vita di Leonora Carrington è essa stessa l’incarnazione di radicali politiche di genere vissute sullo sfondo di un intero secolo che pone sull’identità un peso quasi insostenibile, intrappolando la soggettività nelle regole normative della razza, della sessualità, dell’individualità… A tali costrizioni Carrington risponde reinventandosi in una serie infinita di trasformazioni e figure dell’immaginazione: strega, sacerdotessa, divinità visionaria, animale totemico, una metamorfosi continua che finisce con il manicomio prima, l’esilio e la fuga poi. Oltre a essere stata una grande artista, Carrington è stata anche una scrittrice formidabile, autrice di racconti e novelle che mischiano ironia, mistero e una carica sociale dirompente. All’inizio delle mie ricerche ho letto molti scritti d’artista, perché volevo partire dalla loro voce. Di Carrington conoscevo solo i racconti brevi e l’autobiografia romanzata Giù in fondo, la drammatica storia della sua discesa negli inferi degli ospedali psichiatrici nella Spagna del 1939. Quando ho iniziato a lavorare all’Esposizione Internazionale d’Arte ho letto prima Il cornetto acustico, l’esilarante racconto di una comunità di vecchiette che si ribellano al sistema dell’ospizio, e poi sono incappata nel libro di storie per bambini intitolato Il latte dei sogni: una raccolta di fiabe allucinate che Carrington aveva originariamente scritto e illustrato sui muri della camera dei figli a Città del Messico – ancora arte e vita, per giunta nello spazio più privato e tradizionalmente femminile della casa. Sono storie di una straordinaria forza immaginifica, sia nei racconti, sia nei disegni, favole che pare terrorizzassero i più con le avventure di bambini senza teste, avvoltoi in gelatina e macchine carnivore. Come molte delle sue opere, questo libro descrive un mondo libero, senza gerarchie, dove è sempre possibile diventare altro da sé, trasformarsi, cambiare, dove l’umano convive con animali e macchine in una comunione simbiotica a tratti gioiosa e altre volte inquietante. Nelle figure della trasformazione di Carrington ho trovato una sintesi che mi sembrava potesse riassumere le preoccupazioni di molte artiste contemporanee. A chi le chiedeva dove fosse nata, Carrington pare rispondesse dicendo che era il prodotto dell’incontro tra sua madre e una macchina, secondo quella combinazione di organico e artificiale che contraddistingue molte delle sue opere, in una riflessione che sembra essere lo spunto alla base della ricerca della stessa Haraway, che parlando del cyborg dice: “Cyborg e specie compagne riuniscono ciascuno l’umano e il non umano, l’organico e il tecnologico,

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il carbonio e il silicio, la libertà e la struttura, storia e mito, ricchi e poveri, Stato e suddito, diversità e impoverimento, modernità e postmodernità, natura e cultura in modi inaspettati”5. Che cosa ti lega al Surrealismo e quale pensi sia il ruolo di questo movimento oggi? Come per molti, il Surrealismo è stato il movimento che mi ha avvicinato all’arte contemporanea. Inizialmente mi sono appassionata alla letteratura surrealista, poi ho dedicato la mia tesi di laurea in Filosofia a Georges Bataille e a “Documents”, la rivista di Surrealismo dissidente che il filosofo dirigeva a Parigi alla fine degli anni Venti. Nel tempo ho continuato a interessarmi a linguaggi artistici che aprissero – come il Surrealismo – all’irrazionale e all’inconscio e nel 2017 ho curato il Padiglione Italia nell’ambito della 57. Esposizione Internazionale d’Arte, con il titolo Il mondo magico (temo di essere anch’io una demiurga, in un certo senso), un progetto che ha presentato la ricerca di tre artisti italiani – Giorgio Andreotta Calò, Roberto Cuoghi e Adelita Husni-Bey – il cui lavoro proponeva una rinnovata fiducia nel potere trasformativo dell’immaginazione e un interesse nei confronti del magico, temi ancora legati all’universo surrealista. Al di là del mio interesse personale, credo sia molto più stimolante notare come negli ultimi anni la storiografia del Surrealismo – e anche quella del Dadaismo, del Futurismo e della Bauhaus – abbia fatto nuova luce sul ruolo delle donne e della sessualità all’interno dei movimenti d’avanguardia. Basti pensare agli studi fondamentali di Whitney Chadwick prima e a quelli di Dawn Adès, Mirella Bentivoglio, Ruth Hemus, Renee Riese Hubert, Amelia Jones, Maud Lavin, Alyce Mahon, Elizabeth Otto, Lucia Re, Claudia Salaris, Naomi Sawelson-Gorse, Marina Warner, per citare solo alcune delle autrici che hanno ispirato la mia ricerca e alle quali bisogna riconoscere un grandissimo debito, o ricordare le recenti mostre Fantastic Women al Louisiana Museum of Modern Art o Surrealismo e magia. La modernità incantata alla Collezione Peggy Guggenheim (in concomitanza con la Biennale Arte 2022), e le numerose retrospettive dedicate a figure femminili del movimento come Meret Oppenheim e Toyen, per citare solo alcune delle più recenti. Negli ultimi anni sono emersi anche importanti contributi focalizzati in particolare sul carattere internazionale del Surrealismo e sulle sue posizioni rispetto al colonialismo e alle culture non europee – argomenti esplorati in mostre come Art et liberté al Centre Pompidou di Parigi e al Museo Reina Sofía di Madrid, o Surrealism Beyond Borders al Metropolitan Museum di New York e alla Tate Modern di Londra. L’autrice caraibica Suzanne Césaire, parlando del Surrealismo, lo descriveva così: “Un dominio dello straordinario, del meraviglioso e del fantastico… ecco il poeta, il pittore e l’artista, a presiedere le metamorfosi e l’inversione del mondo, sotto il segno delle allucinazioni e della follia”6, una descrizione che si estende fino ai nostri giorni e continua a ispirare molte artiste di oggi. Il fulcro de Il latte dei sogni al Padiglione Centrale è una presentazione di varie artiste attive negli anni Trenta vicine alle atmosfere del Surrealismo, tra cui Eileen Agar, Claude Cahun, Leonor Fini, Ithell Colquhoun, Carol Rama, Dorothea Tanning e Remedios Varo. È la prima delle capsule tematiche che punteggiano l’Esposizione. Dalle opere raccolte in questa presentazione

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emerge l’idea che i corpi e le identità possano essere reinventati per seguire nuove anatomie del desiderio, un approccio che guida molte artiste di oggi. La politicizzazione dell’identità e della sessualità esibita in queste opere è quanto mai attuale, mentre l’idea di una comunione tra il sé e l’universo anticipa discussioni più recenti su ecologia e femminismo, così come l’importanza di saperi locali e indigeni. Le combinazioni di umano, animale e meccanico che informano l’opera di Carrington, Varo o Jane Graverol trovano più di un corrispettivo nelle opere di molte artiste contemporanee esposte nelle sale del Padiglione Centrale: corpi postumani, ibridi e disubbidienti sono messi in scena da Sara Enrico, Aneta Grzeszykowska, Birgit Jürgenssen, Ovartaci, Julia Phillips, Christina Quarles, Shuvinai Ashoona e Andra Ursuţa, che immaginano nuove combinazioni di organico e artificiale, concepite sia come possibilità di reinvenzione del sé sia come premonizioni di un futuro sempre più disumanizzato. Allo stesso modo non possono sfuggire certe inquietanti simmetrie tra i primi decenni del secolo scorso e quelli di questo millennio, tra accelerazioni tecnologiche, pandemie, crisi sociali e nuovi autoritarismi. Citavi poco fa la “comunione tra il sé e l’universo”, di matrice surrealista, come fondamentale per le riflessioni sull’ecologia nell’arte contemporanea. Molte artiste e artisti esposti si concentrano sulla relazione tra corpi e natura oggi, con risultati diversi e a volte sorprendenti… Molte opere selezionate esaminano nuovi e complessi rapporti con la Terra e la natura, ipotizzando inedite possibilità di convivenza con altre specie e con l’ambiente. Il lavoro di Eglė Budvytytė descrive un gruppo di giovani perso nelle foreste della Lituania, mentre i personaggi nel nuovo video di Zheng Bo vivono in una comunione totale – e sessuale – con la natura. Un simile senso di incanto meraviglioso ritorna nelle vedute innevate ricamate dall’artista Sami Britta Marakatt-Labba. La riscoperta di tradizioni millenarie si sovrappone a nuove forme di attivismo ecologista anche nelle opere di Sheroanawe Hakihiiwe e nelle composizioni oniriche di Jaider Esbell. I quadri e gli assemblage di Paula Rego inventano nuove simbiosi tra animali ed esseri umani, mentre Merikokeb Berhanu, Simone Fattal e Alexandra Pirici intessono narrazioni nelle quali preoccupazioni ambientaliste e antiche divinità ctonie si combinano per creare nuove mitologie. All’Arsenale la Mostra si apre con una presentazione dell’opera dell’artista Belkis Ayón che, influenzata da tradizioni afrocubane, ha descritto un’immaginaria comunità matriarcale in una serie di intricate opere in bianco e nero. La riscoperta della dimensione mitopoietica dell’arte è apparente anche nelle grandi tele di Ficre Ghebreyesus e nelle visioni allucinate di Portia Zvavahera, nonché nelle composizioni allegoriche di Frantz Zéphirin e di Thao Nguyen Phan, che nelle loro opere intrecciano storia, sogno e religione. Attingendo a saperi indigeni e sovvertendo stereotipi coloniali, l’artista argentino Gabriel Chaile presenta una nuova serie di sculture monumentali in argilla cruda che si ergono come idoli di una civiltà mesoamericana fantastica. Parlando di Carrington e Surrealismo hai citato la prima “capsula” al Padiglione Centrale, mi racconti meglio com’è nata l’idea delle capsule e dove ti ha portato?

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Oltre a numerosi lavori realizzati negli ultimi anni e a nuove produzioni concepite appositamente per l’Esposizione, Il latte dei sogni include anche molte opere storiche e manufatti realizzati nel corso del Novecento. Distribuite lungo il percorso espositivo al Padiglione Centrale e alle Corderie, cinque piccole mostre tematiche a carattere storico costituiscono una serie di costellazioni nelle quali opere d’arte, oggetti trovati, manufatti e documenti sono raccolti per affrontare alcuni dei temi fondamentali di questa edizione. Concepite come delle capsule del tempo, forniscono strumenti di approfondimento e introspezione, intessendo rimandi e corrispondenze tra opere storiche – con importanti prestiti museali e inclusioni inusuali – e le esperienze di artiste e artisti contemporanei esposte negli spazi limitrofi. Le capsule tematiche arricchiscono la Biennale Arte con un approccio trans-storico e trasversale che traccia somiglianze ed eredità tra metodologie e pratiche artistiche simili, anche a distanza di generazioni, creando nuove stratificazioni di senso e cortocircuiti tra presente e passato: una storiografia che procede non per filiazioni e conflitti ma per rapporti simbiotici, simpatie e sorellanze. Attraverso una precisa coreografia architettonica sviluppata in collaborazione con i designer Formafantasma, queste sezioni instaurano anche una riflessione sulle modalità con cui la storia dell’arte è costruita attraverso dispositivi museali che stabiliscono gerarchie di gusto e meccanismi di inclusione ed esclusione. Queste presentazioni partecipano così a quel complesso processo di riscrittura della storia che ha segnato profondamente gli ultimi anni, nei quali è apparso quanto mai evidente che nessuna narrazione può essere considerata definitiva. Le capsule tematiche raccontano pertanto storie che possono apparire a prima vista minori o meno note, ma che hanno anticipato in maniera profonda gli eventi degli ultimi decenni e che possono servire da interessanti modelli per il presente. Le Biennali degli ultimi anni si sono spesso concentrate sul restituire una fotografia del presente. Tu hai deciso di mettere insieme passato e presente, accostando opere di epoche molto diverse. Quali sono le motivazioni che ti hanno spinto a questa prospettiva trasversale? Il latte dei sogni è come detto un’esposizione trans-storica, che re-interpreta il passato alla luce della contemporaneità. Bisogna dire che è un’idea piuttosto recente e quanto mai parziale che la Biennale Arte debba essere tutta appiattita sul presente. Nei suoi oltre cent’anni di attività, in tantissime edizioni l’Esposizione Internazionale d’Arte ha svolto un importante ruolo di revisione della storia dell’arte e rivalutazione del passato: basti pensare, tra tutte, all’edizione del 1948, che segue gli anni del fascismo. Proprio perché si rinnova a ogni edizione, la Biennale è uno strumento ideale per affrontare il passato sotto nuova luce. Non è appesantita da bagagli istituzionali ingombranti, come i musei con le loro collezioni, e più ancora di documenta o di altre biennali e mostre periodiche, la Biennale Arte esiste in una traiettoria di continuità con il passato. Per ogni stanza del Padiglione Centrale è possibile elencare con precisione chi ha esposto in quegli spazi, da Gustav Klimt nel 1899 o Vasilij Kandinskij nel 1905 o Alberto Giacometti nel 1964, per citare a caso: insomma, la presenza

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del passato è sempre molto forte. I corridoi e le gallerie di questi spazi espositivi sono sempre abitati dalle presenze – ma anche dalle assenze e dalle esclusioni – delle edizioni passate. La storia è sempre riscritta dalla prospettiva del presente e ogni nuova generazione artistica cerca i propri antecedenti rivisitando e reinventando il passato. Ho pensato a questa edizione come a un palinsesto che ci ricorda che non esiste mai una storia oggettiva e che ogni narrazione si sviluppa da un particolare punto di vista. Le capsule tematiche che attraversano Il latte dei sogni si soffermano su vari momenti dell’arte del Novecento e, in alcuni casi, sulla storia stessa della Biennale Arte, per raccontare pratiche artistiche e voci purtroppo non ancora assimilate nei canoni ufficiali. L’Esposizione così è attraversata dalla presenza quasi fantasmatica del passato. A proposito di storie non ancora assimilate dal canone, hai deciso di dare grande spazio ad artiste donne e artiste e artisti gender nonconforming, una scelta che, personalmente, spero sia uno spartiacque. Perché è importante oggi? Per la prima volta nei centoventisette anni di storia dell’istituzione veneziana, la Mostra Internazionale include una maggioranza preponderante di artiste donne e persone non binarie, una scelta che non solo riflette un panorama internazionale di grande fermento creativo, ma anche un deliberato ridimensionamento della centralità del ruolo maschile nella storia dell’arte e della cultura contemporanee. Si tratta di una posizione che mi sta a cuore personalmente e che ha formato molto del mio lavoro curatoriale negli anni passati. Ovviamente fare una mostra con tante donne non significa certo risolvere questi problemi in maniera definitiva, ma può avere una funzione correttiva – o anche solo un importante valore simbolico – in particolare nel contesto di un’istituzione che, nata nel 1895 e giunta alla sua cinquantanovesima manifestazione, solo nella precedente edizione a cura di Ralph Rugoff ha dato lo stesso spazio ad artisti e artiste. Dalla sua fondazione alla fine del secolo scorso, la media della partecipazione femminile alla Biennale non ha raggiunto il 10 per cento. Negli ultimi vent’anni è salita al 30 per cento, dato che non solo non riflette le ripartizioni demografiche in Italia o nel mondo, ma che ignora completamente il fondamentale contributo di centinaia di artiste contemporanee. Ci sono stati precedenti nella storia della Biennale che ti hanno ispirato in questa riflessione? Una delle capsule tematiche è ispirata alla mostra Materializzazione del linguaggio, curata dall’artista Mirella Bentivoglio per la Biennale Arte 1978. Invitata dall’allora Presidente Carlo Ripa di Meana per contrastare la stragrande maggioranza maschile in tutte le manifestazioni organizzate dalla Biennale di Venezia di quell’anno, Bentivoglio cura ai Magazzini del sale una rassegna di Poesia Visiva e Concreta di sole artiste donne, che qualcuno non esita a definire “the pink ghetto”. Bentivoglio è molto pragmatica a riguardo: il campo della Poesia Visiva e Concreta, nato negli anni Cinquanta e sbocciato con preponderanza negli anni Sessanta e Settanta, era dominato ufficialmente solo da voci maschili, mentre le colleghe donne, per quanto attivissime, non venivano invitate alle grandi manifestazioni.

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All’inizio degli anni Settanta, la percentuale di donne selezionate nelle grandi rassegne antologiche di Poesia Concreta, come la celebre Sound Texts, Concrete Poetry, Visual Texts allo Stedelijk di Amsterdam nel 1971, era del 2 per cento. Dopo il lavoro fatto da Bentivoglio con questa e molte altre mostre, il tasso sarebbe salito al 20 per cento. Come dice la stessa Bentivoglio: “Dunque ciò che prima mancava non era la qualità, bensì soltanto l’informazione” 7. Ahimè, la situazione non è cambiata molto da quegli anni: basta scorrere le riviste di settore, con pubblicità di mostre di soli uomini, gallerie che rappresentano solo il 10 per cento di artiste donne e intere programmazioni museali completamente al maschile. Penso sia parte della nostra responsabilità di professioniste e di cittadine evidenziare questi comportamenti ed elaborare una pratica di revisione e riparazione. Ho voluto perciò rendere omaggio a Materializzazione del linguaggio in una delle capsule al Padiglione Centrale. Qui la scrittura visiva e le poesie concrete di Mirella Bentivoglio, Tomaso Binga, Ilse Garnier, Giovanna Sandri e Mary Ellen Solt sono messe in dialogo con gli esperimenti di automatismo e scrittura medianica di figure come Eusapia Palladino, Georgiana Houghton e Josefa Tolrà, e altre forme di quella che una volta si chiamava écriture féminine, spaziando dagli arazzi di Gisèle Prassinos alle micrografie di Unica Zürn. Segni e linguaggi affiorano anche in altre sezioni, in particolare nelle opere di diverse artiste contemporanee quali Bronwyn Katz, Sable Elyse Smith, Amy Sillman e Charline von Heyl, mentre i quadri tipografici di Jacqueline Humphries dialogano con i grafemi di Carla Accardi e con il linguaggio-macchina che definisce le opere di Charlotte Johannesson, Vera Molnár e Rosemarie Trockel. Tante volte in questi mesi abbiamo cercato di immaginarci come sarebbe stata letta questa scelta, specialmente in Italia. Pensi che la Mostra sarà etichettata come “politicamente corretta”? Non mi interessa molto come la si voglia definire. Ci sarà anche chi la descriverà come “la Biennale delle donne”, mentre nessuno pare si sia mai sognato di descrivere cento anni di mostre con il 90 per cento di partecipazioni maschili come “la Biennale degli uomini”. Evidentemente soltanto all’uomo è concesso il lusso di passare sempre per l’universale: grazie al cielo, molte delle artiste ne Il latte dei sogni non sembrano condividere questa visione del mondo. Ti faccio una domanda che ti ho fatto altre volte: diresti che è una mostra femminista? Sono sempre un po’ esitante a usare l’etichetta “femminismo” per una mostra, soprattutto per un’esposizione così vasta come la Biennale Arte, perché ormai il termine “femminismo” vuol dire tante cose diverse e assume valenze e significati differenti a seconda delle nazionalità e dei contesti culturali. Sono sicuramente esposte molte pratiche che si dichiarano esplicitamente femministe, come nelle opere di Barbara Kruger, Birgit Jürgenssen, Simone Leigh, Rosana Paulino, Niki de Saint Phalle o Sandra Vásquez de la Horra. Ma ci sono anche artiste e artisti che probabilmente rifiuterebbero questa etichetta. Invece di pensare all’Esposizione come espressione di una

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posizione femminista unitaria, mi piace interpretarla come un contenitore di voci e visioni che convergono in molti punti, senza mai finire assoggettate a un’unica etichetta. Ad esempio, ci sono artiste le cui opere potrebbero essere definite “ecofemministe”: penso a Delcy Morelos, Mrinalini Mukherjee, Solange Pessoa, Pinaree Sanpitak e Cecilia Vicuña, che condividono anche riferimenti a miti antichi e immagini archetipiche. Ma ci sono anche artiste come Teresa Solar e Marguerite Humeau che, pur interessate all’ecologia, affrontano il loro lavoro da una prospettiva più futurista, e non credo descriverebbero la loro poetica come femminista. E poi ci sono anche artiste stanche di dover sempre essere contrapposte ai colleghi maschi, e che rifiutano l’etichetta di artiste “donne” in generale, immaginando altre forme di soggettività radicale. Riassumendo, per tornare alla domanda iniziale, se per femminismo intendiamo un approccio al mondo che sottolinea la relazione e l’interdipendenza, allora sì, è una mostra femminista. E poi, di nuovo, per simmetria, non dovremmo chiederci se le edizioni precedenti fossero “maschiliste”? Forse, allora, sarebbe più corretto dire che questa Esposizione testimonia i diversi femminismi, rispettandone le complessità e le differenti definizioni. Credo che la Mostra sia soprattutto spinta da un senso di curiosità e dal desiderio di preservare una complessità ricca di molteplici punti di vista. Un’altra capsula storica è ispirata agli scritti dell’autrice di fantascienza Ursula K. Le Guin e alla sua teoria della narrazione, che identifica la nascita della civiltà non nell’invenzione delle armi ma negli oggetti utili alla raccolta, al sostentamento e alla cura: borse, sacche e contenitori. In questa presentazione, i carapaci ovoidali dell’artista surrealista Bridget Tichenor sono accostati alle delicate ceramiche di Mária Bartuszová, alle sculture sospese di Ruth Asawa e alle creature ibride di Tecla Tofano. Queste opere storiche convivono accanto ai vasi antropomorfi di Magdalene Odundo e ai quadri di fisionomie ibride di Felipe Baeza, mentre la videoartista Saodat Ismailova racconta di celle di isolamento sotterranee che fungono da luoghi di fuga e spazi di meditazione. Questa costellazione di opere si interroga anche su quello che una volta si chiamava il “central core imagery”, ovvero se ci sia o meno un’iconografia femminile o femminista e su come utilizzare la rappresentazione del corpo a fini politici. Non sono solo le donne a occuparsi di corpi e politica… Molti altri artisti combinano posizioni politiche e ricerca sociale con progetti che rivisitano le tradizioni locali, come nel video di Ali Cherri sulle dighe costruite sul Nilo. Igshaan Adams infonde nell’astrazione delle sue composizioni in tessuto significati che spaziano da una riflessione sull’apartheid alla condizione di genere in Sudafrica, mentre, attraverso una pratica meditativa di disegni minuziosi e quotidiani, Ibrahim El-Salahi racconta la sua esperienza con la malattia e la farmacologia. A proposito di malattia e farmacologia, il rapporto tra corpo e biotecnologia è un tema che ritorna, declinato in modi molto diversi. Mi racconti come le ultime due capsule affrontano questi temi?

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I rapporti che legano esseri umani e macchine sono al centro di molte delle opere; ad esempio, negli esperimenti di Agnes Denes, Lillian Schwartz e Ulla Wiggen o nelle superfici-schermo di Dadamaino, Laura Grisi e Grazia Varisco, le cui opere sono raccolte in un’altra capsula dedicata all’Arte Programmata e all’Astrazione Cinetica degli anni Sessanta. Queste e molte altre artiste presentano un’immagine della tecnologia come “incarnata”, fatta corpo. La relazione polarizzata e polarizzante tra individui e tecnologia mi ricorda le parole di Paul B. Preciado: “Nella società contemporanea, la produzione tecnopolitica del corpo sembra dominata da una serie di nuove tecnologie del corpo (biotecnologie, chirurgia, endocrinologia, ingegneria genetica…) e di rappresentazione (fotografia, cinema, televisione, Internet, videogiochi…) che si infiltrano e penetrano la vita quotidiana come mai prima d’ora”8. La sezione finale all’Arsenale è introdotta dalla quinta – e ultima – capsula storica, dedicata alla figura del cyborg. Questa presentazione riunisce artiste che nel corso del Novecento hanno disegnato nuove combinazioni tra l’umano e l’artificiale, creando avatar di un futuro postumano e postgender. Questa capsula include opere d’arte, artefatti e documenti di artiste di inizio Novecento tra cui la dadaista baronessa Elsa von Freytag-Loringhoven, le fotografe Bauhaus Marianne Brandt e Karla Grosch e le futuriste Alexandra Exter, Giannina Censi e Regina. Le sculture delicate di Anu Põder rappresentano corpi frammentati che contrastano con i monoliti di Louise Nevelson, le figure totemiche di Liliane Lijn, le macchine di Rebecca Horn e i robot dipinti dall’austriaca Kiki Kogelnik. Dopo l’avvento delle macchine, si respira un’atmosfera diversa, che sembra estendere alcune delle atmosfere del Padiglione Centrale. Sì, da questa capsula si entra nella grande installazione diafana di Kapwani Kiwanga e la Mostra prosegue su tonalità fredde e sintetiche, nelle quali la presenza umana appare come sempre più evanescente, sostituita da animali e creature ibride e robotiche. Se Raphaela Vogel descrive un mondo in cui gli animali prendono il sopravvento sull’uomo, le sculture di Jes Fan usano materiali organici per creare nuove colture batteriologiche. Scenari apocalittici di cellule impazzite e incubi nucleari affiorano anche nei disegni di Tatsuo Ikeda e nelle installazioni di Mire Lee, animate dai movimenti concitati di una macchina che ricorda il sistema digestivo di un animale. Il nuovo video della pioniera del postumano Lynn Hershman Leeson celebra la nascita di organismi artificiali, mentre la coreana Geumhyung Jeong gioca con corpi ormai completamente robotici assemblabili a piacere. Altre opere oscillano tra tecnologie obsolete e nuovi miraggi futuri. Le fabbriche abbandonate e i macchinari fatiscenti di Zhenya Machneva trovano nuova vita nelle installazioni di Monira Al Qadiri e Dora Budor, che vibrano e roteano come macchine celibi. A chiudere questa infilata di meccanismi impazziti, una grande installazione di Barbara Kruger, concepita appositamente per gli spazi delle Corderie, combina slogan, poesia e linguaggi-oggetto in un crescendo di ipercomunicazione al quale fanno da contrasto le sculture silenziose di Robert Grosvenor, che evocano un mondo senza presenze umane. Al di là di questo universo immobile cresce il grande giardino entropico di Precious Okoyomon, brulicante di nuova vita, con il quale si conclude il percorso negli spazi delle Artiglierie.

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Il progetto del catalogo è andato di pari passo con la costruzione della Mostra e in qualche modo l’ha nutrita. Mi racconti com’è nato? Amo moltissimo la carta stampata: la mia casa è così piena di libri che in alcuni periodi si fa fatica a camminare da una stanza all’altra. Dal momento in cui ho saputo che la Biennale Arte sarebbe stata posticipata, ho deciso di usare il tempo in più per fare un libro che potesse arricchire l’esperienza dell’Esposizione e catturare il contesto eccezionale in cui era nata, considerando anche l’eventualità che non si riuscisse a visitarla di persona per via della pandemia. Il fatto che l’apertura fosse rinviata di un anno ha reso possibile commissionare testi originali, stimolare conversazioni e ricercare saggi critici che catturassero molte delle riflessioni sollevate, ampliando la prospettiva e contestualizzando la Mostra in conversazioni più vaste. In questo volume, Rosi Braidotti introduce la svolta femminista postumana, Silvia Federici e Silvia Rivera Cusicanqui dialogano attorno all’idea del “re-incanto”, Marina Warner presenta sette storie di metamorfosi e testimonianze ispirate dalla pandemia. Scrivendo sull’“altro” dall’umano, Mel Y. Chen, Jack Halberstam e Igiaba Scego riflettono su forme di pensiero non antropocentrico all’interno delle relazioni tra specie. Yuk Hui e Achille Mbembe ci invitano a ripensare il nostro rapporto con le tecnologie e con la Terra, mentre Chiara Valerio costruisce un personale glossario di termini ispirati dalla pandemia. A Mostra conclusa, il catalogo sarà lo strumento d’elezione con cui ricordare, interpretare e forse esorcizzare due anni passati davanti al computer. Per me era molto importante che il libro fosse un oggetto, fatto di inchiostro, immagini e pensieri fissati su carta. Che testimonianza vorresti lasciare con la Mostra? Se gli eventi degli ultimi mesi hanno dato forma a un mondo lacerato e diviso, Il latte dei sogni prova a immaginare altre forme di coesistenza. Per questo, a dispetto del clima in cui è nata, Il latte dei sogni è una mostra ottimista, che celebra l’arte e la sua capacità di creare cosmologie alternative e nuove condizioni di esistenza. Con le parole di Rosi Braidotti, potremmo dire che: “Viviamo in processi permanenti: processi di transizione, ibridazione e nomadizzazione, e questi stati e fasi intermedi sfidano le modalità stabilite di rappresentazione teorica”9. L’Esposizione guarda agli artisti non come coloro che ci rivelano chi siamo, ma come coloro che sanno assorbire le inquietudini e le preoccupazioni di questi tempi per mostrarci chi e che cosa possiamo diventare. Una delle edizioni della Biennale Arte cui ripenso più spesso è quella del 1948, che in molti considerano la Biennale della rinascita dopo gli anni oscuri del Ventennio fascista: una Biennale che da un lato introduce nuove tendenze e linguaggi artistici contemporanei, e dall’altro si volta indietro a “riabilitare” tutti quei movimenti e forme d’arte che erano stati censurati o dimenticati negli anni precedenti. La mia copia del catalogo della 24. Esposizione Internazionale d’Arte del 1948 l’ho acquistata online qualche anno fa. Era appartenuta a una ragazza di nome Lucia, che firma in corsivo la prima pagina e lascia l’indirizzo del suo soggiorno a Venezia, presso la “Foresteria studenti, Scuola Giustina Renier Michiel 1884”, non lontana dalle Gallerie dell’Accademia. Era andata

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da sola o con un’amica? Quanti giorni si era fermata? Aveva segnato l’indirizzo sul volume per paura di perderlo ai Giardini? Sulle pagine del catalogo Lucia ha lasciato i suoi commenti. La Sala 31 le sembra “spaventosa”, mentre quella dedicata a Marino Marini addirittura “arresta la digestione”. Paul Klee le appare “morbosamente strano”, mentre di Scipione apprezza le “sinfonie di bruni”. Poco più in là si appassiona alle opere di Carlo Corsi, che glorifica con l’appellativo di “Mondiale!”, per i suoi quadri fatti con “buste usate e biglietti di tramvie”. Della Sala personale di Pablo Picasso – diventata leggendaria – dice solo che le “sembra una nave da guerra”. I commenti più fitti sono quelli scribacchiati sulle pagine dedicate alle opere degli impressionisti, esposte a centinaia nelle stanze del padiglione della Germania, lasciato disabitato dalla guerra e dal nazismo. Monet le pare “caldo e vivo”. Manet è “morbido e vivido”. Di van Gogh cita “l’intensità” e il senso di “infinito”. E poi le piacciono Marc Chagall e Georges Braque al padiglione della Francia e Henry Moore e William Turner al padiglione della Gran Bretagna. Al padiglione degli Stati Uniti dà una stella a Georgia O’Keeffe e poi corre di là dal ponte per ammirare la personale di Oskar Kokoschka, di cui apprezza “il movimento e la vita”. Stranamente non lascia alcun commento sulle pagine dedicate alla collezione di Peggy Guggenheim, che quell’anno espone al padiglione della Grecia, presentando i suoi Duchamp, Picabia, Max Ernst, Pollock e Rothko e celebrando in laguna il trionfo dell’astrazione e dell’arte americana.

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Cfr. Donna Haraway, Situated Knowledges: The Science Question in Feminism and the Privilege of Partial Perspective, in “Feminist Studies”, 14(3), autunno 1988, 575–599. Rosi Braidotti, Preface: The Posthuman as Exuberant Excess, in Francesca Ferrando, Philosophical Posthumanism, London, Bloomsbury Academic, 2019, XI. Judith Butler, Frames of War: When Is Life Grievable?, London, Verso, 2009, 30. Silvia Federici, Re-Enchanting the World: Feminism and the Politics of the Commons, Oakland (CA), PM Press, 2018 (tr. it. Re-incantare il mondo. Femminismo e politica dei commons, a cura di Anna Curcio, Verona, Ombre Corte, 2021). Donna Haraway, The Companion Species Manifesto: Dogs, People, and Significant Otherness, Chicago, Prickly Paradigm Press, 2003, 4 (tr. it. Compagni di specie. Affinità e diversità tra esseri umani e cani, Milano, Sansoni, 2003). Suzanne Césaire, The Domain of the Marvellous, in “View”, 1, 1941; il testo si trova anche in Surrealist Painters and Poets: An Anthology, a cura di Mary Ann Caws, Cambridge (MA), The MIT Press, 2002, 157. Mirella Bentivoglio, I segni del femminile, in Poesia visiva. La donazione di Mirella Bentivoglio al Mart, catalogo della mostra (Rovereto, 19 novembre 2011 – 22 gennaio 2012), a cura di Daniela Ferrari, Cinisello Balsamo, Silvana Editoriale, 2011, 18. Paul B. Preciado, Testo Junkie: Sex, Drugs, and Biopolitics in the Pharmacopornographic Era, New York, The Feminist Press at the City University of New York, 2013, 77 (tr. it. Testo tossico. Sesso, droghe e biopolitiche nell’era farmacopornografica, Roma, Fandango, 2015). Rosi Braidotti, Metamorphoses: Towards a Materialist Theory of Becoming, Malden (MA), Polity Press, 2002, 1.

Nell’introduzione del Presidente Giovanni Ponti si leggono parole che sembrano perfettamente attuali: “L’umanità ancora stordita dalle angosce e dai tormenti patiti, accolga l’invito che le viene da questo convegno di artisti di ogni parte del mondo: e si avveri il nostro auspicio che […] il mondo possa convenire da ogni parte nell’oasi verde della nostra isola dell’arte e dei sogni”. Il segretario generale Rodolfo Pallucchini, invece, insiste sull’importanza che la Biennale fornisca un contesto storico, nel quale si possa apprezzare ancor meglio la novità delle proposte più radicali degli artisti contemporanei. Il critico Giuseppe Marchiori, introducendo il gruppo del Fronte Nuovo delle Arti, sottolinea che, dopo la pausa della guerra, gli artisti e il pubblico sono mossi dalla “ricerca di nuovi rapporti tra gli uomini”. Qualche pagina più in là, Lucia lascia due appunti curiosi. “La carne maledetta”, recita uno, mentre l’altro è quanto mai chiaro e spietato: “Dove sono le donne?”.

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RINGRAZIAMENTI

Cecilia Alemani

Vorrei innanzitutto ringraziare le artiste e gli artisti ne Il latte dei sogni: le loro voci creative e il loro infinito entusiasmo sono per me fonte di costante meraviglia. Desidero ringraziare il Presidente della Biennale di Venezia Roberto Cicutto, che in questi tempi senza precedenti ha supportato con entusiasmo e incoraggiamento la mia visione per la Mostra Il latte dei sogni. Vorrei inoltre ringraziare il Presidente Paolo Baratta, che mi ha nominato nel gennaio 2020: gli sono debitrice per avermi affidato un compito tanto prestigioso e per avermi offerto molti impagabili suggerimenti. La Biennale di Venezia ha compiuto i suoi primi centoventisette anni: il suo successo e il ruolo esemplare che detiene nel campo delle arti contemporanee globali sono dovuti al suo eccelso team. Sono grata all’intero team della Biennale di Venezia per la competenza, la professionalità e per aver lavorato con me in grande sinergia. Sarò per sempre in debito con il mio piccolo ma eccellente team curatoriale, e soprattutto con l’Organizzatrice Artistica Marta Papini, assieme alla quale ho già organizzato il Padiglione Italia alla 57. Esposizione Internazionale d’Arte. In questi due lunghi anni trascorsi insieme, principalmente su Zoom, collegandoci dai luoghi più privati delle nostre vite e delle nostre case, abbiamo lavorato come partner, colleghe e amiche, sempre motivate dal rispetto e dall’ammirazione reciproci. La sua competenza curatoriale, professionalità e senso dell’ironia mi hanno sostenuto in questo lungo viaggio e hanno enormemente contributo a questa Mostra. Non vedo l’ora di seguire la sua brillante carriera curatoriale negli anni a venire. Sono anche grata a Manuela Hansen, Assistente della Curatrice e Managing Editor, che ha seguito il ricco contenuto di questo volume, ha gestito i contributi testuali e visivi di tutti i duecentotredici artisti in mostra e ha commissionato nuovi saggi critici. Non è stato un compito da poco, e ha tutta la mia ammirazione per le sue incredibili capacità organizzative, per il suo rigore accademico e, soprattutto, per il suo perenne sorriso. Questa Mostra è il risultato di un’approfondita ricerca storico-culturale: voglio ringraziare Stefano Mudu per aver portato alla mia attenzione molti artisti trascurati, oggetti unici e storie di individui eccezionali: queste scoperte sono il risultato della sua vivace curiosità intellettuale. Grazie mille anche a Liv Cuniberti, Lara Facco, Paul Heckler, Melissa Parsoff e Ian Wallace per avermi aiutato in questi lunghi mesi di lavorazione.

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Andrea Trimarchi e Simone Farresin di Formafantasma, insieme a Gabriele Milanese e Ibrahim Kombarji sono stati preziosi collaboratori e partner creativi per l’allestimento della Mostra. Emma Thomas e Kirsty Carter di A Practice for Everyday Life, insieme al loro talentuoso team, composto da Olivia Diaz, Daniel Griffiths ed Eugenia Luchetta, hanno progettato un libro meraviglioso e una straordinaria immagine grafica. Un ringraziamento speciale alle artiste e agli artisti che hanno prestato i loro splendidi occhi all’immagine grafica: Belkis Ayón, Felipe Baeza, Tatsuo Ikeda e Cecilia Vicuña. Desidero ringraziare Leonora Carrington e le sue creature fantastiche per avermi accompagnato in questo viaggio. Un ringraziamento personale a Gabriel Weisz Carrington, Patricia Argomedo, Daniel Weisz, alla Fundación Leonora Carrington e a Paul De Angelis per il loro sostegno ed entusiasmo sin dall’inizio. Sono grata a Teresa Arcq per la sua competenza in merito a Leonora Carrington e a molte altre artiste surrealiste, e a Wendi Norris e Melanie Cameron per aver contribuito a individuare così tante opere d’arte inestimabili. La mia gratitudine va anche ai tanti amici che mi hanno accompagnato in questa lunga avventura, offrendomi guida, amore e conforto: Massimiliano Gioni, per avermi esortato a non mollare mai, e anche Giacomo Alemani Gioni, che, pur alla tenera età di sei anni, dice sempre ai suoi amici quanto sia orgoglioso che la sua mamma stia curando la “Bignale” di Venezia. Vera Alemani, non solo per averci aiutato a localizzare alcune di queste opere, quasi irreperibili, ma anche per essermi sempre stata di supporto. E ancora: Fabrizio Alemani e Mariateresa Marietti, Paololuca Barbieri, Francesco Bonami, Carlo Bronzini Vender e Tanya Traykovski, Valentina Castellani e Gianluca Violante, Maurizio Cattelan, Giacomo Donati, Nuccia e Giovanni Gioni, Noah Horowitz e Louise Sørensen, Dakis e Lietta Joannou, Valentina Mazza, Jenny Moore, Tony ed Elham Salamé, Nick Simunovic, Simone Subal, Ali Subotnick, András Szántó. Voglio ringraziare la High Line, e in particolare Robert Hammond, Joshua David, Mauricio Garcia, Tara Morris e Gail Beltrone per aver creduto in me e per avermi concesso la libertà di intraprendere questo progetto. Sono estremamente grata a Don Mullen, così come a Shelley e Phil Aarons, Tom Hill, Catie Marron, Mario Palumbo, Sue Viniar e all’intero Board of Directors di Friends of the High Line per essere sempre stati i miei più grandi sostenitori. Un grande ringraziamento al mio eccezionale team, Jordan Benke, Janelle Grace, Melanie Kress e Constanza Valenzuela, da cui ogni giorno imparo qualcosa di nuovo. La mia più profonda gratitudine va a tutte le persone che hanno creduto nella mia visione e nelle artiste e negli artisti, e che ci hanno aiutato a rendere possibili molti di questi progetti. Vorrei ringraziare la Teiger Foundation e il suo Board of Trustees con Gary Garrels, Kati Lovaas, John Silberman e Joel Wachs, oltre a Larissa Harris e Andrea Escobedo, e soprattutto David Teiger, che ricordo ancora con gioia e affetto a Venezia, seduto a un tavolo del ristorante Il Nuovo Galeon in via Garibaldi, sempre così incredibilmente curioso di conoscere nuovi artisti.

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Un enorme grazie a Pietro Beccari, Olivier Bialobos e alla famiglia Dior per aver sostenuto questo progetto e un sentito ringraziamento a Maria Grazia Chiuri, il cui amore per le artiste donne è stato grande fonte di ispirazione. Sono grata a Darren Walker e alla Ford Foundation, che mi hanno aiutato a portare a Venezia tanti progetti dal Sud del mondo. Un ringraziamento speciale a Jemma Read, Kate Levin e Anita Contini di Bloomberg Philanthropies per aver reso la Mostra più accessibile attraverso Bloomberg Connects. Rachel Rees, Audrey Teichmann e Denis Pernet di Audemars Piguet Contemporary sono stati partner e collaboratori in una delle opere d’arte più complesse della Mostra. Grazie per averlo reso possibile. Un sentito ringraziamento a Marc Payot e Ivan Wirth, nonché a Tamar Nahmias e Joelle Griesmaier di Hauser & Wirth per aver portato Brick House di Simone Leigh a Venezia. C’è un gruppo di donne visionarie che sono state incredibilmente generose con il loro sostegno e il loro tempo, e vorrei ringraziarle tutte: Beatrice Bulgari, Charlotte Feng Ford, Nicoletta Fiorucci, Maja Hoffmann, Teresa Mavica, Victoria Mikhelson, Elisa Nuyten, Emilie Pastor and Sibylle Rochat, Antonella Rodriguez Boccanelli, Komal Shah, Margherita Stabiumi, Patrizia Sandretto Re Rebaudengo, Angela Timashev, Sue Wrigley.

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CONSULENTI

Un gruppo di consulenti mi ha aiutato nella mia ricerca, soprattutto in relazione a quelle parti del mondo in cui non potevo recarmi. Molti degli artisti e delle artiste da loro consigliati sono inclusi ne Il latte dei sogni. Grazie a Venus Lau, Alvin Li, Ranjit Hoskote, Marie Hélène Pereira, Kwasi Ohene-Ayeh, Nontobeko Ntombela, Guslagie Malanga, Ellen Greig, Nora Razian, Júlia Rebouças, Marina Reyes Franco, María Isabel Rueda, María Wills, Camila Marambio e Joanna Warsza per i loro preziosi suggerimenti. AUTRICI E AUTORI

Un grazie di cuore alle autrici e agli autori dei testi di questo catalogo per avere arricchito la Mostra con saggi storico-artistici e con scritti creativi: Matthew Biro, Rosi Braidotti, Leonora Carrington, Mel Y. Chen, Silvia Federici, Silvia Rivera Cusicanqui e Manuela Hansen, Jack Halberstam, Donna Haraway, N. Katherine Hayles, Jennifer Higgie, Yuk Hui e Anders Dunker, Ursula K. Le Guin, Alyce Mahon, Achille Mbembe, Marta Papini, Igiaba Scego, Azalea Seratoni, Christina Sharpe, Chiara Valerio e Marina Warner. Un grande ringraziamento alle autrici e agli autori delle biografie delle artiste e degli artisti: Isabella Achenbach, Liv Cuniberti, Manuela Hansen, Melanie Kress, Stefano Mudu, Ian Wallace e Madeline Weisburg. Un ringraziamento speciale al team di editor e di traduttrici, tra cui Teresa Albanese, Johanna Bishop, Nicola Giacobbo, Allison Grimaldi Donahue e Camilla Mozzato, che hanno curato, tradotto e supervisionato centinaia di testi in italiano e in inglese. GIURIA

La Giuria ha una grande responsabilità, una responsabilità che può cambiare per sempre la vita di alcuni di questi artisti e artiste. Ringrazio Adrienne Edwards, Presidente della Giuria, Lorenzo Giusti, Julieta González, Bonaventure Soh Bejeng Ndikung e Susanne Pfeffer per la loro attenta valutazione. COLLEGE

Un grazie di cuore ai tutor della prima edizione della Biennale College Arte: Barbara Casavecchia, Gianni Jetzer, Yasmil Raymond, Francesco Stocchi e Roberta Tenconi per aver fornito guida e supporto a questi talenti emergenti.

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Vorrei ringraziare tutti i prestatori, inclusi musei, fondazioni, archivi e collezionisti privati per essersi separati dalle loro amate opere d’arte per quasi nove mesi, nonché tutte le persone che hanno facilitato questi prestiti. Sono anche grata ai tanti colleghi, curatori e amanti dell’arte che mi hanno aiutato in questi due anni.

Shelley e Phil Aarons Miguel Abreu Rebecca Adib Vera Alemani Barbara Alesci Patrick H. Alexander Anthony Allen Giuseppe Alleruzzo Claudia Altman Siegel Brooke Anderson Yesaki Kaory Araiza Maria Arusoo Fernanda Arruda Meskerem Assegued Francesca Astesani Ninagawa Atsuko Jennifer Augustyniak Defne Ayas Belkis Ayón Estate Giovanni B. Martini Olivier Babin Cristina Baldacci Alberto Barbera Ludovica Barbieri Sam Bardaouil Simone Battisti Pietro Beccari Andrea Bellini Mathilde Belouali-Dejean Myriam Ben Salah Michael Benevento Jordan Benke Adrienne Bennett Ruth Beraha Allison e Larry Berg Claude Bernés Olivier Bialobos Jennifer Bibb Leonardo Bigazzi Joaquin Biglione Taciana Birman Daniel Birnbaum Tim Blum Natasha Boas Francesco Bonami Edoardo Bonaspetti Pilar Bonet Julve Joe Borelli Stefania Bortolami Isabella Bortolozzi Anne Boschmans Stella Bottai Amy Bouhassan James Brett Brian Briggs Gavin Brown Laurel Brown Elena Brugnano Daniel Buchholz Beatrice Bulgari Ane Bülow Natascha Burger Carolyn Burke Lucrezia Calabrò Visconti Gisela Capitain Paolo Carli Andrea Cashman

Gabriel Catone Germano Celant Aaron Cesar Delphine Charpentier Stephen Cheng Jennifer Chert Rowena Chiu Maria Grazia Chiuri Chris von Christierson Helga Christoffersen Ella Christopherson Carolyn Christov-Bakargiev Cristina Cilli Toby Clarke James Cohan Simon Cole Tine Colstrup Roger Conover Eduardo Constantini Anita Contini Luca Cooper Paula Cooper Fiona Corridan Paolo Cortese Micaela Costa Eduardo Costantini Jacopo Crivelli Visconti Bice Curiger Deborah D’Ippolito Lisa Dahl Karin Dammann Lindsay Macdonald Danckwerth Carolina Dankow Joshua David Karon Davis Camille de Alencastro Massimo De Carlo María de Corral Antoine de Galbert Pablo León de la Barra Haco de Ridder Pierre Floriane de Saint Marco De Scalzi Sigismond de Vajay Bruno Decharme Jeffrey Deitch Flavio del Monte Ignacio del Real Mme Marie-Gilberte Devise Tiziana Di Caro Maria Cristina Didero Arjen Dijkstra Andrei Dinu Ivana Dizdar Bridget Donahue Carla Donhauer Stephanie Dorsey Lilah Dougherty Daniel Dulière Lia Durante Kristine E. Santos Line Ebert Fusun Eczacibasi Emma Enderby Okwui Enwezor Christopher Eperjesi Andrea Escobedo Bridgitt Evans Cecilia Fajardo-Hill Max Falkenstein Luis Felipe Farias Till Fellrath Charlotte Feng Ford Gaetano Fermani Zoe Fermani Lourdes Fernández

Melina Fernández Marco Ferraris Aicha Filal Elena Filipovic Nicoletta Fiorucci Don Fletcher Marina Fokidis Patrick Foret Kristen Gallerneaux Mauricio Garcia César García-Alvarez Katya Garcia-Antón Violette Garnier Gary Garrels Richard Gault Libby Gavin Kendy Genovese Candida Gertler François Ghebaly Tobin Gibson Natasha Ginwala Andrea Giunta Barbara Gladstone Marc Glimcher Mark Godfrey Slim Gomri Janelle Grace Maxwell Graham Peter Granados Jacqueline Grandjean Claire Greenaway Jeanne Greenberg Rohatyn Rachel Greene Joelle Griesmaier Salomon Grimberg Jeremy Grosvenor Elmar R. Gruber Hannah Gruy Robert Hammond Quinn Harrelson Larissa Harris Stephen Hepworth Orlando Hernández Sofia Hernandez Tom Hill Maja Hoffmann Max Hollein Nina Hollein Noah Horowitz Christine Hourde Bellatrix Hubert Thelma e AC Hudgins William Huffman Çağla Ilk e Misal Adnan Carolina Italiano Daniel Jabra Jamillah James Amrita Jhaveri Priya Jhaveri Shanay Jhaveri Pam Johnson Adina Kamien Casey Kaplan Francesca Kaufmann Beth Kearney Seth Kelly Jamie Kenyon Esther Kim Varat Natalie King Kaarin Kivirähk Becky Koblick Amber Marie Kohl Satoshi Kondo Sylvia Kouvali Melanie Kress Mathias Kryger

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Kersti Kuldna-Türkson José Kuri Cyrill Lachauer João Laia Jonathan Laib Rebecca Lamarche-Vadel Christophe Langois Rose Leadem Hena Lee Lorraine Lee Tet Rachel Lehmann Mia Lejsted Bonde Tracey Leming Lottie Leseberg Smith Radu Lesevschi Ruben Levi Kate Levin Arthur Lewis e Hua Nguyen Yadira Leyva Ayón Wolf Lieser Inti Ligabue Audun Lindholm Maira Liriano Kati Loovas Rose Lord Manuela Lucà-Dazio Florian Lüdde Francesca Luise Isaac Lyles Christine Macel Philomene Magers Michael Maharam Diego Majorana Ikenna Malbert Florencia Malbrán Lena Malm Chiara Mannarino Erin Manns Mónica Manzutto Luigi Maramotti Gió Marconi Catie Marron Chus Martínez Rosa Martínez Vittoria Matarrese Gill Matini Teresa Mavica Emanuela Mazzonis Fergus McCaffrey Jeremie McGowan Calla McInnes Giulia Migliori Leonid Mikhelson Victoria Mikhelson Victoria Miro Paulo Miyada Helen Molesworth Joanna Moorhead Manuela Moscoso Rodrigo Moura Ananya Mukhopadhyay Don Mullen Kenta Murakami Tamar Nahmias Yuta Nakajima Francis Naumann Iñigo Navarro Val Nelson e Helena Kergozou Henricks Netherlands Kim Nguyen Margot Norton Elisa Nuyten Natsuko Odate Robert Ortega Rosine Ortmans Richard Oversteet

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Sheikh Hassan M. A. Al-Thani Alexandra Shtarkman Victoria Siddall John Silberman Raf Simons Adrien Sina Anthony Slayter-Ralph Matthew Slotover Marsha Soffer Diane Solway Arlette Souhami Allyson Spellacy Marc Spiegler Monika Sprüth Margherita Stabiumi Malin Ståhl Polly Staple Angela Steinmetz Jo Stella Fabienne Stephan Grazina Subelyte Ali Subotnick Valentina Suma Susan Swiatosz András Szántó Rafaella Tamm Chris Taylor Audrey Teichmann David Teiger Andrea Teschke Jana Teuscher The Underground Museum Chiara Tiberio Sarah Tignor Leslie Tonkonow Arthur Toqué Emmanuelle Toulet Jacqueline Tran Jasmin Tsou Christopher Turner Pelin Uran Constanza Valenzuela Roel Van Nunen Luc Volatier Helen Volber Jochen Volz Rodolphe von Hofmannsthal Joel Wachs Jan Waling Huisman Darren Walker Madeline Warren Melanie Weber Rowland Weinstein Carol Weisman Lisa Wenger Jo Widoff Nick Willing Hubert Winter Ivan Wirth Debi e Steven Wisch Jocelyn Wolff Matthew Wood Sue Wrigley Can Yavuz Celina Yeh Sanada Yoshimi Shani Zahavi Anna Zepp Bree Zucker David Zwirner Marlene Zwirner

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L A D E B U T TA N T E Leonora Carrington

Quando ero una debuttante andavo spesso al giardino zoologico. Ci andavo così spesso che conoscevo di più gli animali che le ragazze della mia età. Era per fuggire la gente che mi ritrovavo ogni giorno allo zoo. La bestia che ho conosciuto meglio era una giovane iena. Anche lei mi conosceva. Era molto intelligente, le insegnai il francese e in cambio lei mi insegnò la sua lingua. Passammo così molte ore piacevoli. Per il primo maggio, mia madre aveva organizzato un ballo in mio onore. Soffrii per notti intere. Ho sempre detestato i balli, soprattutto quelli dati in mio onore. La mattina del primo maggio 1934, molto di buon’ora, feci visita alla iena. “Che seccatura” le dissi “devo andare al mio ballo questa sera”. “Sei fortunata” mi rispose “io ci andrei molto volentieri. Non so ballare ma, dopotutto, posso sempre fare conversazione”. “Ci sarà un sacco di roba da mangiare. Ho visto arrivare a casa interi camion carichi di cibo”. “E ti lamenti” esclamò la iena con aria di riprovazione. “Io mangio una sola volta al giorno, e dovresti vedere che porcherie mi rifilano!”. Ebbi un’idea temeraria, e per poco non mi misi a ridere. “Non hai che da andare al posto mio”.

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“Non ci somigliamo abbastanza, altrimenti ci andrei con piacere” disse la iena tristemente. “Ascolta, con le luci della sera non ci si vede tanto bene. Se ti mascheri un po’, nessuno ti noterà in quella folla. E poi, abbiamo quasi le stesse misure. Ti supplico, sei la mia unica amica, fallo per me”. Ci pensò su, e capii che aveva intenzione di accettare. “D’accordo” disse a un tratto. A quell’ora del mattino non c’erano molti guardiani in giro. Rapida, aprii la gabbia e in un attimo fummo in strada. Fermai un taxi. A casa erano ancora tutti a letto. Una volta in camera mia, tirai fuori il vestito che dovevo indossare la sera. Era un po’ lungo e la iena aveva difficoltà a camminare con le mie scarpe dai tacchi alti. Trovai dei guanti per nascondere le sue mani, troppo pelose per somigliare alle mie. Quando il sole illuminò la camera, era ormai in grado di fare parecchie volte il giro della stanza, camminando più o meno dritta. Eravamo talmente indaffarate che mia madre, venendo a darmi il buongiorno, per poco non aprì la porta prima che la iena si fosse nascosta sotto il mio letto. “C’è un cattivo odore in camera tua” osservò aprendo la finestra “prima di sera sarà bene che tu faccia un bagno con i miei nuovi sali profumati”. “Certo” risposi. Non restò a lungo. Credo che l’odore fosse davvero troppo forte per lei. “Non fare tardi per colazione” disse lasciando la stanza. La difficoltà maggiore fu quella di trovare una maschera per il viso della iena. Cercammo per ore e ore una soluzione, ma lei rifiutava ogni mia proposta. Alla fine disse: “Credo di aver trovato come fare. Hai per caso una cameriera?”. “Sì” risposi perplessa. “Bene, allora. Suonerai alla cameriera e, quando entrerà, ci getteremo su di lei e le strapperemo la faccia. Porterò quella al posto della mia, stasera”. “Non è molto pratico” risposi “quando non avrà più la faccia probabilmente morirà, qualcuno di sicuro troverà il cadavere e finiremo in prigione”. “Ho abbastanza fame per mangiarla” replicò la iena. “E le ossa?”. “Anche quelle” disse. “Allora, intesi?”. “Solo se mi prometti di ucciderla prima di strapparle il viso. Altrimenti le farà troppo male”.

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“Va bene, per me è lo stesso”. Non senza un certo nervosismo suonai a Mary, la mia cameriera. Non avrei mai agito così se non detestassi tanto i balli. Quando entrò, mi girai verso il muro per non vedere. Riconosco che non ci volle molto. Un breve grido e tutto era finito. Mentre la iena mangiava, io guardavo fuori dalla finestra. Qualche minuto dopo disse: “Non ce la faccio più, restano ancora i piedi, ma se hai un sacchetto dove metterli, li mangerò più tardi, in giornata”. “Nell’armadio troverai una borsa ricamata con dei gigli. Togli i fazzoletti che ci sono dentro e prendila”. Fece come le avevo indicato, poi disse: “Ora girati, e guarda come sono bella!”. Davanti allo specchio la iena si ammirava con la faccia di Mary. Aveva rosicchiato accuratamente tutto intorno al viso, in modo che restasse giusto quello che occorreva. “Non c’è che dire, hai fatto davvero un bel lavoro” dissi. Verso sera, quando la iena fu tutta abbigliata, dichiarò: “Mi sento proprio in forma. Ho l’impressione che avrò un gran successo stasera”. Dopo essere rimaste per un po’ ad ascoltare la musica che arrivava dal piano di sotto, le dissi: “Ora vai, e ricorda di non metterti accanto a mia madre, si accorgerebbe sicuramente che non sono io. Quanto agli altri, non conosco nessuno. Buona fortuna” e la lasciai con un bacio. Aveva un odore terribile. Era scesa la notte. Esausta per le emozioni di quella giornata, presi un libro e mi sedetti vicino alla finestra aperta, finalmente in pace. Ricordo che leggevo I viaggi di Gulliver di Jonathan Swift. Fu forse un’ora dopo che il primo segno di sciagura si annunciò. Un pipistrello entrò dalla finestra, emettendo i suoi piccoli squittii. Io ho una paura tremenda dei pipistrelli e mi nascosi dietro una sedia, battendo i denti. Ma non feci in tempo ad inginocchiarmi che il suono di quelle ali fu soffocato da un rumore ancora più forte, proveniente dalla porta. Mia madre entrò, pallida di furore. “Ci eravamo appena messi a tavola” disse “quando quella cosa che sedeva al tuo posto, si è alzata gridando: ‘Ho un odore un po’ forte, vero? Be’, io non mangio dolci!’. E così dicendo, si è strappata la faccia e l’ha divorata. Un gran salto ed è scomparsa dalla finestra”. (1937–1938) Il racconto è tratto dalla raccolta La debuttante, traduzione di Nancy Marotta e Mariagrazia Gini (Adelphi, 2018, 11–14). Ristampato per concessione di The Estate of Leonora Carrington e Adelphi Edizioni S.P.A. Milano. Copyright originale © 2017 The Estate of Leonora Carrington. Copyright della traduzione © 2018 Adelphi Edizioni S.P.A. Milano.

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K AT H A R I N A F R I T S C H

1956, Essen, Germania Vive a Wuppertal e Düsseldorf, Germania

Da santi, galli, modelli architettonici e barboncini, a mosche, conchiglie, figure umane, teschi e oggetti della vita quotidiana: il singolare realismo di Katharina Fritsch dissolve i confini tra l’ordinario e il perturbante, smuovendo i nostri sogni e incubi più profondi e risvegliando al contempo ricordi infantili di racconti religiosi, favole e miti. Nel complesso, le opere di Fritsch, che possono assumere la forma di imponenti progetti di arte pubblica dai colori audaci, sculture in scale insolite, intime opere sonore e multipli d’arte, proiettano una sicurezza che può essere interpretata, a seconda dei casi, come rassicurante o minacciosa, qualità che, come nelle allegorie riscontrate in fiabe, chiese o templi, possono risultare contemporaneamente vere. Fritsch è salita alla ribalta internazionale come precorritrice di una nuova tendenza della scultura europea negli anni Ottanta, per poi rappresentare la Germania alla Biennale Arte 1995. Nuovamente alla Biennale nel 1999, vi espone l’impressionante Rattenkönig (1993), un’enorme installazione che mette in scena il fenomeno citato nel titolo dell’opera – il re dei topi – mediante sedici ratti dipinti di nero opaco alti tre metri disposti in cerchio, con le code ingarbugliate al centro a formare un gomitolo. In quest’opera, come in molte altre sculture di Fritsch, la profonda inquietudine non è generata solamente dalla radicale distorsione del quotidiano, ma anche dalla tecnica adottata dall’artista. Spesso plasmate a mano, fuse in poliestere e rifinite con vernici opache, le sue sculture conservano un naturalismo formale reso insolito dall’assorbimento della luce da parte della vernice, che conferisce un carattere mistificante. L’imponente scultura intitolata Elefant / Elephant (1987) è una delle prime opere di grandi dimensioni create da Fritsch. Realizzata in poliestere ossido di cromo verde scuro dal calco di un elefante impagliato di nome Bibi conservato presso il Zoologisches Forschungsmuseum Alexander Koenig, la scultura riproduce con sorprendente esattezza ogni piega e ruga del corpo dell’animale. Dall’alto del massiccio piedistallo, le dimensioni, la nitidezza del dettaglio anatomico e il profilo cromatico generano un effetto sovrannaturale, la cui drammaticità è amplificata dalle associazioni del pubblico con le rappresentazioni degli elefanti nell’immaginario comune. Fissandosi nella mente dell’osservatore, Elefant / Elephant assume le vestigia di favole di magnificenza, intelligenza, cattività, nonché di società matriarcali, alla base della struttura famigliare di questa specie animale. Persino Venezia non è estranea all’iconografia degli elefanti: alla fine del XIX secolo, in un tempo di poco precedente l’organizzazione della prima Biennale, l’elefante Toni viveva proprio nel parco di Castello, conosciuto come il “prigioniero dei Giardini”. – MW

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Katharina Fritsch, Elefant / Elephant, 1987. Poliestere, legno, vernice, 420 × 160 × 380 cm. Photo Thomas Ruff. Courtesy l’Artista; Matthew Marks Gallery. © Katharina Fritsch / VG Bild-Kunst, Bonn

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RO S E M A R I E T RO C K E L

1952, Schwerte, Germania Vive a Berlino, Germania

La pratica polivalente di Rosemarie Trockel ottiene fama internazionale fin dagli anni Ottanta, quando l’artista esordisce all’interno di una nuova e radicale scena creativa a Colonia, in Germania. Caratterizzati da una convergenza di acute provocazioni femministe e da una propensione estetica all’ironia, i suoi film e video, “quadri a maglia”, ceramiche, disegni, collage e progetti per bambini sono celebrati ovunque per la loro critica pungente, soprattutto in un contesto a predominanza maschile. Come altre artiste della sua generazione, quali Barbara Kruger, Cindy Sherman e Jenny Holzer, nelle sue prime opere Trockel trasmette il proprio atteggiamento femminista controcorrente, chiamando in causa l’essenzialismo femminista degli anni Settanta tramite l’uso della produzione industriale e del design, offrendo insieme una nuova, destabilizzante modalità di percepire la politica e la cultura. Nei primi anni Ottanta, Trockel inizia a creare i suoi “quadri a maglia”, con filati multicolore realizzati con una macchina computerizzata e poi stesi su tele come fossero dipinti. Queste opere esprimono l’intenso coinvolgimento dell’artista nelle questioni relative al “lavoro delle donne” e alla svalutazione dell’artigianato in una società sempre più meccanizzata e satura di mezzi di comunicazione. Nell’includere la ripetizione di motivi geometrici, loghi, simboli politici e riferimenti alla storia tedesca, queste opere imitano le forme dei dipinti astratti ed enfatizzano i cliché di genere legati al lavoro. Per Il latte dei sogni, Trockel presenta una selezione di opere in lana preesistenti e finora inedite. Le sottili variazioni delle impunture monocrome in lana – tutte fatte a maglia da Helga Szentpétery, storica collaboratrice di Trockel – rivelano la loro natura di manufatti, ricordando talvolta la fascinazione modernista per la pittura monocromatica, talvolta disegni su stoffa convenzionali, e giocano con le aspettative sulla qualità gestuale della pittura astratta e sulla qualità visiva del disegno tessile. Tale ambivalenza tra lavoro manuale e meccanico viene ulteriormente amplificata dalla scelta di Trockel di mostrare alcune di queste opere accanto ai relativi studi preliminari. Nell’evocare le forme dell’Arte Minimalista, della Pop e dell’Optical Art, queste opere offrono un giudizio pungente sulla soggettività della rappresentazione visiva e sulla mercificazione dell’arte. – MW

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Rosemarie Trockel, Fraction Bars, 2021. Lana acrilica su tela, 50,2 × 100,8 × 2,2 cm. Photo Ingo Kniest. Courtesy Sprüth Magers. © Rosemarie Trockel / VG Bild Kunst, Bonn

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Rosemarie Trockel, Till the Cows come Home, 2016 e Study for Till the Cows come Home, 2016. Lana blu scuro su tela, legno, 296 × 296 cm e 100 × 100 cm. Photo Mareike Tocha. Courtesy Sprüth Magers. © Rosemarie Trockel / VG Bild Kunst, Bonn

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Rosemarie Trockel, The Same Different, 2013 e Study for The Same Different, 2013. Lana gialla su tela, legno, 296 × 296 cm e 100 × 100 cm. Photo Mareike Tocha. Courtesy Sprüth Magers. © Rosemarie Trockel / VG Bild Kunst, Bonn

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A ANDRA URSUT

1979, Salonta, Romania Vive a New York City, USA

Seducenti e inquietanti allo stesso tempo, le sculture formalmente innovative di Andra Ursuţa – spesso realizzate a partire da calchi del suo stesso corpo – sono esseri ibridi radicali. Memori sia di film d’azione/horror fantascientifico americani come Predator e la saga di Alien, sia delle visionarie opere di artiste polacche ed estoni di generazioni precedenti come Alina Szapocznikow e Anu Põder, che rappresentano anch’esse corpi di donne in stati di frammentazione e trasformazione, il lavoro di Ursuţa evoca la vulnerabilità della forma umana e la complessità del desiderio. In anni recenti, Ursuţa inizia a sperimentare con sculture in cristallo colato, fondendo direttamente calchi di parti del proprio corpo con oggetti di uso quotidiano, rifiuti recuperati ed elementi di scena, tra cui bottiglie di vetro, tubi in plastica, carta da imballo e riempimento, vestiti vecchi, indumenti BDSM e costumi di Halloween a buon mercato. Per creare le sue figure, Ursuţa combina la tecnica tradizionale della fusione a cera persa con la scansione e la stampa 3D. In questo senso, un po’ come i corpi ibridi che contraddistinguono la sua intera pratica, le sue sculture subiscono un intenso processo di trasformazione fisica. Sebbene incapsulati in variopinti contorni vitrei semitrasparenti, i motivi vorticosi e le superfici ruvide generate dal suo processo di produzione rivelano una collisione di forme organiche e inorganiche che fluttuano tra questi oggetti distorti, fantascientifici. La donna semidistesa di Predators ’R Us (2020), come in molte sculture di Ursuţa, è parzialmente priva di parti del corpo e sviluppa insolite appendici, quali un paio di pantofole tentacoliformi ispirate all’alieno tecno-futurista del film con Arnold Schwarzenegger Predator. Il fisico alieno raffigurato in Impersonal Growth (2021) è invece ispirato ai mostruosi “xenomorfi” di Alien. Nell’assolvere la funzione di contenitori, in senso sia metaforico sia concreto (alcune sculture di Ursuţa contengono alcol; in molte opere, tra cui Predators ’R Us, Half-Drunk Mummy [2019] e Succubustin’ Loose [2021] si vede il collo di una bottiglia sporgere da una cavità nella bocca o nella spalla), questi lavori sono ammiccanti allusioni e più astratti recipienti per la soggettività dell’esperienza e della memoria corporea della stessa artista. Nelle più recenti sculture di Ursuţa, tra cui Phantom Mass dalle increspature viola-bianco-verde e Terminal Figure dal colore verde acido (entrambe del 2021), il corpo è sempre più costretto nella sua posa. Presentate come creature fabbricate con pezzi rigidi, elementi come corsetti puntuti, fibbie e ossa, le forme evolvono progressivamente nei componenti tecnici di un corpo cyborg in continuo mutamento. – MW

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Andra Ursuţa, Predators ’R Us, 2020. Cristallo, 73,7 × 68,6 × 132,1 cm. Courtesy l’Artista; David Zwirner; Ramiken, New York. © Andra Ursuţa

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Andra Ursuţa, Yoga Don’t Help, 2021. Cristallo, vetro sodico-calcico, 130,2 × 60,3 × 52,7 cm. Courtesy l’Artista; David Zwirner; Ramiken, New York. © Andra Ursuţa

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Andra Ursuţa, Half-Drunk Mummy, 2019. Cristallo, 160 × 85,1 × 48,3 cm. Courtesy l’Artista; David Zwirner; Ramiken, New York. © Andra Ursuţa

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CECILIA VICUÑA

1948, Santiago, Cile Vive a New York City, USA

Sin dall’adolescenza trascorsa a Santiago, in Cile, Cecilia Vicuña si dedica a una pratica estetica e letteraria eclettica, tra performance, poesie, disegni, film, dipinti e sculture, con opere impregnate di interrogativi su corpo, ecologia, genere e cultura, nonché sulle colpe del sessismo e del colonialismo. Esule in seguito al violento colpo di stato militare contro Salvador Allende, sostenuto dalla CIA e guidato da Pinochet nei primi anni Settanta, Vicuña lavora a Londra, in Colombia e a New York, creando opere che si contraddistinguono per il chiaro senso di caducità, spesso espresso attraverso lavori astratti ed effimeri realizzati con materiali di recupero. Il 1966 vede l’avvio del progetto, tuttora in corso, che comprende assemblage provvisori e antimonumentali chiamati precarios: delicate composizioni di pietre, pezzi di legno levigati dalle acque, fili e rifiuti raccolti nel corso di passeggiate sulla costa. Queste sculture sono spesso lasciate intatte, esposte agli agenti atmosferici e alle maree. Persino oggi, in nuovi precarios come NAUfraga (2022), composto da corde e detriti raccolti a Venezia, la potenza della politica di opposizione di Vicuña rimane vigorosa: a differenza delle forze coloniali che degradano l’ambiente e hanno annientato o oscurato la cultura dei suoi antenati attraverso forme fisse come l’architettura, l’astratto e l’impermanente recuperano linguaggi e memorie con altri mezzi. NAUfraga, il cui titolo deriva dalle parole latine navis (nave) e frangere (rompere), evoca il tragico sfruttamento della Terra, che sta lentamente facendo affondare Venezia. Come i precarios, anche i dipinti di Vicuña testimoniano il suo debito nei confronti del pensiero indigeno, che viene articolato senza soluzione di continuità in forme artistiche contemporanee. Leoparda de Ojitos (1977) e La Comegente (1971), esempi di ritratti piatti di Vicuña degli anni Settanta, si ispirano ai dipinti del XVI secolo realizzati dagli artisti inca di Cuzco, in Perù, che furono costretti a convertirsi al cattolicesimo e a dipingere e adorare icone religiose spagnole. Pur costituendo un simbolo concreto della somministrazione forzata dell’ideologia coloniale, questi dipinti erano comunque segnati da gesti di ribellione, spesso nella forma di simbologie locali deliberatamente inserite dagli artisti nel proprio lavoro. Ugualmente, nei suoi quadri, Vicuña adotta le forme della ritrattistica coloniale, integrandole con un’iconografia personale, rivoluzionaria e mitologica. Circondata da paesaggi in cupole di vetro, la figura centrale para-divina della Comegente ritrae una donna nell’atto di ingerire una fila di persone. Nel dipinto dai toni fantastici Leoparda de Ojitos, la felina del titolo è raffigurata in piedi tra due alberi, uno rosa e uno verde, la pelliccia costellata di occhi e i genitali in mostra. Espressione di una metodologia decoloniale del ritratto, i dipinti di Vicuña si ribellano alla forma, mettendo al centro l’immaginazione di una donna indigena. – MW

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Cecilia Vicuña, Pueblo de altares, 2019. Dimensioni variabili. Veduta della mostra, Cecilia Vicuña: About to Happen, Institute of Contemporary Art, University of Pennsylvania, Philadelphia, 2019. Photo Constance Mensh

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Cecilia Vicuña, Bendígame Mamita, Bogotá, 1977. Olio su tela, 140 × 120 cm. Courtesy l’Artista; Lehmann Maupin, New York, Hong Kong, Seoul, London. © 2022, Cecilia Vicuña

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Cecilia Vicuña, Leoparda de Ojitos, 1977. Olio su tela, 140 × 89,5 cm. Collezione Beth Rudin DeWoody. Courtesy l’Artista; Lehmann Maupin, New York, Hong Kong, Seoul, London. © 2022, Cecilia Vicuña

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MRINALINI MUKHERJEE

1949, Bombay (attuale Mumbai), India – 2015, Nuova Delhi, India

Durante la sua quarantennale carriera, l’artista indiana Mrinalini Mukherjee lavora assiduamente con la fibra di canapa, dando vita a un corposo gruppo di opere in cui astrazione e figurazione si fondono con influenze derivate dalla natura, dall’antica scultura indiana, dal design moderno, nonché dall’artigianato e dalla tradizione tessile locale. Figlia di artisti, nata a Bombay nel periodo successivo alla partizione dell’India e cresciuta a Santiniketan, comunità utopistica nel Bengala Occidentale, Mukherjee realizza le sue prime opere all’inizio degli anni Settanta: arazzi ispirati al mondo botanico e realizzati in corda naturale, senza l’impiego delle tradizionali armature tessili né disegni preparatori. Sperimenta, invece, in maniera intuitiva l’antica tecnica araba di tessitura a mano del macramè, tecnica che continuerà a usare lungo il corso di tutta la sua vita per creare sculture morbide, sempre più audaci e monumentali, che si ergono imponenti come divinità. Mukherjee lavora la fibra e, in seguito, il bronzo e la ceramica, in relativo isolamento dalle altre artiste che seguivano tradizioni parallele in Europa e negli Stati Uniti negli anni Sessanta, Settanta e Ottanta, come Magdalena Abakanowicz, Sheila Hicks e Lenore Tawney, riuscendo a forgiare un proprio percorso radicale poco riconosciuto dalla critica occidentale fino agli anni Novanta del secolo scorso. Nel corso degli anni Settanta, Mukherjee perfeziona il metodo di lavorazione dei materiali; un lavoro faticoso, tutto realizzato a mano, che parte dalla cernita dei fasci di corde eccezionalmente pesanti e venduti alla rinfusa nei mercati di Nuova Delhi. Le corde devono essere poi srotolate, raddrizzate, separate per colore e spessore, e infine tinte con un procedimento chimico. In tal modo, Mukherjee concettualizza un approccio sempre più organico alle sue forme. A volte appese al soffitto, altre volte autoportanti o appoggiate contro un muro, le sculture imponenti di Mukherjee assumono caratteristiche proprie degli esseri viventi: tinte con pigmenti vegetali arancioni, gialli e viola, le opere voluttuose come Rudra, Devi (entrambe del 1982) e Vanshree (1994), trasmettono una sensualità umana, con pieghe e rigonfiamenti che ricordano gli organi sessuali umani. Pur traendo ispirazione prevalentemente dalla natura, agli inizi degli anni Ottanta l’artista viene influenzata dall’interesse verso la personificazione delle divinità dell’induismo, le cui rappresentazioni vede spesso nei templi visitati durante i suoi viaggi per l’India. Sebbene Mukherjee citi queste divinità antropomorfe, il suo uso dei linguaggi religiosi è, come lei stessa afferma, “de-convenzionalizzato” e “personale”, tanto quanto lo sono i suoi metodi e i suoi materiali1. – MW

1

Chrissie Iles, An Interview with Mrinalini Mukherjee, in Mrinalini Mukherjee: Sculpture, Oxford, Museum of Modern Art, 1994, 12; ripubblicato in Mrinalini Mukherjee, a cura di Shanay Jhaveri, Mumbai, Shoestring Publisher, 2019, 27.

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Mrinalini Mukherjee, Vanashree, 1994. Canapa tinta, 250 × 130 × 90 cm. Photo Avinsh Pasricha. Collezione Jayashree Bhartia. Courtesy Fondazione Mrinalini Mukherjee Pagine successive: veduta della mostra, Phenomenal Nature: Mrinalini Mukherjee, The Metropolitan Museum of Art, The Met Breuer, 2019, New York City, 2019. © Foto Scala Firenze / © 2022. Image copyright The Metropolitan Museum of Art/ Art Resource/Scala, Firenze

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M E R I KO K E B B E R H A N U

1977, Addis Abeba, Etiopia Vive a Silver Spring, USA

Nei dipinti di Merikokeb Berhanu abbondano i “mondi della vita”. Emblematici della sua pratica sono i cerchi concentrici, le linee fluide e le preziose sfumature di rosso, azzurro e ocra; le sue tele traboccanti di forme astratte si trasformano rapidamente in cosmologie e topografie riconoscibili che portano con sé richiami alla natura e ai suoi ritmi universali. Il sorgere e il calare del sole, l’attrazione magnetica esercitata dalla luna sull’eterno moto delle maree, la rivoluzione delle stagioni: questi cicli intensamente familiari sono parte del lavoro di Berhanu, influenzano le pennellate e trovano voce nella composizione organica di ciascun dipinto. Nella sua opera è presente anche un elemento profondamente antropico. Dalle sagome avvolgenti sembrano materializzarsi geografie che rimandano a città, fattorie e strade viste dall’alto; ne emergono forme anatomiche, e le tele diventano portali verso i complessi meccanismi interni del corpo. La serie intitolata Cellular Universe rende omaggio a queste forme corporee e, in particolare, alla composizione cellulare e agli organi riproduttivi comuni a molte specie. Anelli degli alberi, embrioni, baccelli dai colori vivaci, cervelli, tube di Falloppio e altre simili, riconoscibili forme trovano spazio nell’opera dell’artista. Berhanu, che proviene da Addis Abeba, ha raccolto molto del lascito del Modernismo etiope. Le sue opere sono caratterizzate da uno spazio senza profondità, con figure e fasce geometriche di colore uniforme che fluttuano sovrapponendosi e mescolandosi le une alle altre. Così è in tutti i sei nuovi acrilici su tela realizzati per la Biennale. Nelle sue opere più recenti, Berhanu approfondisce la sua indagine sulla specie umana mediante una maggiore inclusione di oggetti tecnologici, come circuiti stampati e microchip. In Untitled LXX (2021), una mucca galleggia in uno degli uteri ellittici caratteristici dell’artista e un’altra, all’esterno, la guarda dall’alto: forse una madre che vigila sul suo piccolo. Sotto il vitello si estende, come un liquido amniotico digitale e distopico, la trama verde di una scheda madre. Questa commistione, però, non implica una facile coalescenza della vita con la tecnologia e il progresso scientifico; piuttosto, Berhanu incorpora la tecnologia nei paesaggi e negli organismi naturali per trasmettere un senso di urgenza, evocando l’esperienza di rapida urbanizzazione che sta prendendo piede nel suo Paese e nel suo continente di origine e lo sfrenato consumismo della società occidentale. – IA

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Merikokeb Berhanu, Untitled LVI, 2021. Acrilico su tela, 172,7 × 172,7 cm. Courtesy l’Artista; Addis Fine Art. © Merikokeb Berhanu

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Merikokeb Berhanu, Untitled LIX, 2021. Acrilico su tela, 152,4 × 122 cm. Courtesy l’Artista; Addis Fine Art. © Merikokeb Berhanu

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Merikokeb Berhanu, Untitled LVII, 2021. Acrilico su tela, 183 × 122 cm. Courtesy l’Artista; Addis Fine Art. © Merikokeb Berhanu

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SHUVINAI ASHOONA

1961, Kinngait Vive a Kinngait, Nunavut

L’artista inuk Shuvinai Ashoona realizza disegni fantastici che uniscono visioni surreali a rappresentazioni della vita contemporanea degli Inuit, rovesciando gli stereotipi culturali e cogliendo i drammatici cambiamenti vissuti recentemente dalla comunità. Nata a Kinngait, Nunavut – un tempo parte dei Territori del Nord del Canada, restituito agli Inuit nel 1999 –, è figlia di Kiawak Ashoona e Sorosilutu, figure di spicco della comunità artistica locale. Dopo aver frequentato le scuole superiori a Iqaluit, torna a Kinngait e vive con la figlia e parte della famiglia in avamposti artici, come Kangiqsualujjuaq e Luna Bay. Queste esperienze influenzano la sua attenzione per le scene di vita contemporanea nella terra ancestrale degli Inuit Nunangat. Ashoona crea i propri lavori ai Kinngait Studios, cooperativa di artisti gestita dalla comunità locale, fondata nel 1959 come ramo artistico della West Baffin Eskimo Cooperative. Le opere delle zie e colleghe Napachie Pootoogook, Mayoreak Ashoona e Kenojuak Ashevak esercitano una profonda influenza sulla sua pratica. I suoi disegni a penna e matita fondono passato e presente in un futuro divinatorio. Qui, esseri umani che popolano scene domestiche e ordinarie sono accompagnati da sirene, ibridi umano-animale e creature marine fantastiche. I dettagli surreali – il seno di una madre trasformato nella Terra, i volti simili a maschere incappucciate, l’arancione fluorescente di una piovra gigante – accennano a forze spirituali, cosmologiche e fantasmatiche che coesistono in un delicato equilibrio con il quotidiano. Ricorrenti nell’opera di Ashoona sono i pianeti simili alla Terra e gli animali umanoidi dai colori vivaci, spesso contorti oppure uniti in creature ibride, o disposti in composizioni quasi schematiche. Altrettanto ricorrenti sono i supereroi e altri personaggi dei fumetti, segno dell’influenza della cultura pop sperimentata dagli Inuit nella transizione dalla vita seminomade agli insediamenti stabili. Nei due nuovi lavori qui presentati (entrambi del 2021), umani e animali convivono e si fondono insieme: in un disegno, una donna con becco e mani palmate da ornitorinco è sdraiata sulla banchisa mentre un tricheco munito di tentacoli e con addosso un poncho fronteggia la sua immagine riflessa; nell’altro, figure umane appaiono ambigue, mentre passeggiano accanto a creature chimeriche o ne assumono il travestimento, o ne sono avvolte. La fusione di esperienza sociale, iconografia fantastica e composizione narrativa realizzata da Ashoona rimanda all’orientamento sociale della pittura realistica di metà secolo, permeata dallo scavo surrealista del subconscio, offrendo una visione vivida e fantasmagorica della vita nella comunità dell’artista. – IW

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Shuvinai Ashoona, Untitled, 2021. Grafite, matita colorata, inchiostro su carta, 128 × 244,5 cm. Courtesy West Baffin Eskimo Cooperative. © Shuvinai Ashoona Shuvinai Ashoona, Untitled 2021. Grafite, matita colorata, inchiostro su carta, 128 × 249,5 cm. Courtesy West Baffin Eskimo Cooperative. © Shuvinai Ashoona

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A KO S UA A D O M A OW U S U

1984, Alexandria, USA Vive a New York City e Cambridge, USA

Le pellicole surreali e sovversive della regista Akosua Adoma Owusu sono ibridi poetici realizzati con modalità documentaristica, narrativa e sperimentale che includono affascinanti filmati folcloristici, di repertorio e found footage, icone della cultura pop nera, scene di vita quotidiana, storie tramandate oralmente ed esperienze semiautobiografiche. Incentrata sulle declinazioni di razza, nazionalità, genere e identità sessuale, l’opera di Owusu, ghanese-americana di prima generazione, esplora le spinose questioni della memoria culturale e dei processi di assimilazione dei membri della diaspora africana, includendo coloro che come lei sono nati negli Stati Uniti. Teorizzando una posizione di esistenza a cavallo tra identità multiple, Owusu applica la nozione di “doppia coscienza” formulata dallo studioso e attivista per i diritti civili W.E.B. Du Bois – il concetto di ideali “bellicosi” e inconciliabili negoziati all’interno delle identità afroamericane – per comprendere quelle categorie identitarie che egli aveva escluso. Definendola “tripla coscienza” o “terzo spazio cinematico”, Owusu amplia questa idea per combattere i conflitti e le difficoltà vissute dagli immigrati africani, dalle donne o dalle persone queer che vivono confrontandosi con coscienze mutevoli nel momento in cui queste incrociano gli spazi culturali dei neri americani e dei bianchi americani. Nel cortometraggio Kwaku Ananse (2013), Owusu espone la propria prospettiva teorica, rappresentando congiuntamente la storia del malizioso eroe Ananse, tratto da una serie di racconti popolari, e la testimonianza semi-autobiografica di una giovane donna alle prese con la propria famiglia, una crisi esistenziale, la morte di un padre estraneo e la sua doppia vita negli Stati Uniti. Nelle storie di Ananse, celebrate in Africa, nei Caraibi e in alcune zone del Sudamerica, il protagonista viene raffigurato come un essere metà ragno e metà uomo. Attraverso sorprendenti colpi di scena determinati dal destino, Ananse ci insegna che nulla può essere dato per scontato. Nell’interpretazione di Owusu, una giovane donna in cerca del consiglio di Ananse tenta di preservare le tradizioni popolari, ma allo stesso tempo è costretta a scontrarsi con la verità per cui l’identità di ogni persona presenta molteplici sfaccettature, potenzialmente in conflitto tra loro. – MW

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Akosua Adoma Owusu, Kwaku Ananse (still), 2013. Video, 26 min. Photo Pedro Gonzalez-Rubio. Courtesy l’Artista; Obibini Pictures. © Akosua Adoma Owusu

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GA B R I E L L E L’ H I RON D E L L E H I L L

1979, Comox, Canada Vive nei territori non ceduti delle Prime Nazioni Musqueam, Squamish e Tsleil-Waututh

L’opera dell’artista e scrittrice métis Gabrielle L’Hirondelle Hill sfida l’idea di città come luogo di insediamento “stabilizzato”, cercando i punti deboli presenti nella concezione dello spazio urbano definito dalla proprietà privata, mettendo al contempo a nudo la storia materiale della colonizzazione. Passeggiando per le strade nei dintorni del suo studio, Hill raccoglie residui e rifiuti, come linguette di lattine di birra, ciondoli senza valore e fiori selvatici: reliquie di uno spazio urbano che, per l’artista, diventano souvenir simbolici del quartiere e delle sue comunità in mutamento. Hill incorpora questi oggetti di recupero in sculture e opere su carta che dal 2018 chiama Spell (incantesimi), come ornamento agli strati di colore a olio a lenta essiccazione da lei meticolosamente applicati. Per l’artista, questa pratica mette in primo piano gli oggetti eliminati e insieme avvia una discussione sull’illegalità della violazione della proprietà privata e la rivendita di beni. Molte delle sue sculture assumono la forma di un coniglio e sono realizzate imbottendo dei collant con tabacco trinciato, prodotto storicamente importante per le economie indigene e coloniali. Prima della colonizzazione, il tabacco era uno dei beni di scambio più usati nelle Americhe; nelle comunità indigene, è tuttora un elemento condiviso nell’ambito di una complessa economia della reciprocità. Sculture come Kiss, Sonshine, e Cousin (tutte del 2019), pur disarmanti nell’aspetto, fungono da simbolo dell’imposizione del capitalismo sulle popolazioni indigene da parte dei governi coloniali e da promemoria della resistenza esercitata dalle culture indigene oggi. Analogamente, Disintegration e Dispersal (entrambe del 2019) suggeriscono in modo simbolico il riconoscimento della sovranità indigena. Le proporzioni delle bandiere di Hill, confezionate a partire da foglie di tabacco essiccate, si basano su quelle delle banconote statunitensi e richiamano alla mente le tobacco notes, che furono tra le prime forme di cartamoneta nelle colonie britanniche in Nord America. Anche i disegni della serie Spell sono permeati della presenza simbolica del tabacco, ricoperti con grasso vegetale da cucina infuso di questa sostanza e decorati con oggetti recuperati. L’artista ha donato alcune di queste opere ad amici e ne ha usate altre come moneta di scambio. Rimaneggiando materiali e forme intrisi di significati culturali, spirituali, storici ed economici, Hill critica il colonialismo mentre rende omaggio ai modelli economici espansivi che traggono forza dalla reciprocità. – IW

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Gabrielle L’Hirondelle Hill, Spell #10, for unsticking, 2019. Tabacco infuso di olio Crisco, pittura a olio, ritagli di riviste, ciondolo a forma di serpente, fiore di tabacco, linguetta di lattina di birra, filo, 34,3 × 33 cm (incorniciato). Courtesy l’Artista; Unit 17, Vancouver. © Gabrielle L’Hirondelle Hill

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Gabrielle L’Hirondelle Hill, Mint, 2019. Collant, linguette di lattine di birra, tabacco, pelliccia di coniglio, filo, 14 × 17,9 × 24,1 cm. Photo Cemrenaz Uyguner. Courtesy l’Artista; Unit 17, Vancouver. © Gabrielle L’Hirondelle Hill

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Gabrielle L’Hirondelle Hill, Exchange, 2019. Collant, tabacco, sigarette, filo, fiori di tabacco, linguette di lattine in alluminio, ciondolo a forma di ragno, fermaglio per capelli in metallo trovato, 43,9 × 51,3 × 79,7 cm. Photo Cemrenaz Uyguner. Courtesy l’Artista; Unit 17, Vancouver. © Gabrielle L’Hirondelle Hill

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K U D Z A N A I -V I O L E T H WA M I

1993, Gutu, Zimbabwe Vive a Londra, UK

I dipinti di Kudzanai-Violet Hwami rivelano una visione profondamente personale della vita in Sudafrica. Le sue tele, traboccanti di colori a olio, pastelli e inchiostri serigrafici dai pigmenti vibranti, si ispirano agli anni passati in Zimbabwe e in Sudafrica, oltre che alla generale esperienza contemporanea del vedere se stessi e le proprie influenze riflessi attraverso lo schermo. Grazie all’uso sapiente del collage, i dipinti di Hwami sono coerenti per composizione e gamma cromatica e analizzano i modi in cui coesistiamo e viviamo il nostro rapporto con gli altri in un mondo sempre più digitale. I suoi dipinti esprimono un’interiorità esplorativa, nella fusione di fotografie di amici e famigliari con immagini prese da Internet. Nelle sue tele Hwami integra diversi frammenti visivi a partire da una varietà di fonti: ritratti, autoritratti, gruppi di persone accompagnati da piante in vaso e altri oggetti. Gli elementi si ripetono proprio come in un nostalgico album di famiglia, o come quando scorriamo il feed dei social media. Tra le sue prime influenze ci sono i manga e le graphic novel, lo zamrock e la scena musicale zim heavy, i generi post-rock e la musica classica, oltre a pensatori quali Alain de Botton, Alan Watts e Terence McKenna. L’installazione di Hwami per Il latte dei sogni prevede una sala rivestita dal pavimento al soffitto di una serie di fotografie in bianco e nero su vinile, ciascuna con un dipinto accompagnato da una traccia audio. L’installazione è ispirata a The Wedding of the Astronauts (1983–1994) dello scultore zimbabwese Henry Munyaradzi (1931–1988), una scultura su tre lati intagliata nella pietra saponaria. L’opera rappresenta una cerimonia nuziale del popolo degli Shona, con un predicatore, la benedizione degli uccelli e la coppia che esplora i cieli. Queste scene sono riproposte nei dipinti di Hwami attraverso le fotografie scattate dalla stessa artista durante i suoi recenti viaggi in Zimbabwe e in Sudafrica, con registrazioni sonore prese durante la cerimonia della Bira, una processione funebre in Zimbabwe. L’opera riflette l’espressione dell’ontologia shona secondo Munyaradzi e il coinvolgimento personale di Hwami nel realismo magico e nell’Afrofuturismo. Per Hwami l’installazione persegue il sincretismo come fonte di guarigione, in equilibrio tra cosmologia shona e cristianesimo, individualismo e comunità, natura e umanità. – MK

Kudzanai-Violet Hwami è tra i quattro beneficiari della borsa di studio per l’edizione inaugurale della Biennale College Arte, un’iniziativa lanciata nel 2021. Quest’opera è fuori concorso.

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Kudzanai-Violet Hwami, A theory on Adam, 2020. Olio su tela, serigrafia, 200 × 200 cm. Courtesy l’Artista; Vittoria Miro. © Kudzanai-Violet Hwami

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S I M O N E FAT TA L

1942, Damasco, Siria Vive a Parigi ed Erquy, Francia

Simone Fattal è un’artista e scrittrice nota per le sue sculture in ceramica, i dipinti astratti e i disegni raffiguranti paesaggi, amici e personaggi letterari. Nata a Damasco, Fattal è cresciuta in Libano. Dopo aver completato gli studi in filosofia presso l’École des lettres di Beirut, frequenta la Sorbona di Parigi. Ritornata a Beirut nel 1969, si trasferisce in un piccolo atelier dove vive e si dedica alla pratica artistica realizzando dipinti e sculture. Nel 1980, mentre in Libano imperversa la Guerra civile, Fattal lascia Beirut e si trasferisce a Sausalito, in California, insieme alla compagna Etel Adnan, poetessa e pittrice. Qui fonda la Post-Apollo Press, una casa editrice che, traendo ispirazione dallo spirito del programma spaziale Apollo, si dedica a opere letterarie innovative e sperimentali. Nel 1988 Fattal torna nuovamente a dedicarsi all’arte realizzando sculture in ceramica nell’ambito di un corso all’Art Institute di San Francisco. Le creazioni scultoree di Fattal spesso si configurano in serie di figure o scene in miniatura che appaiono come appena rinvenute da un antico sito archeologico. Esse rivelano un’esigua quantità di dettagli, o un’assenza di caratterizzazione, tali da non renderle riconoscibili: due grandi colonne rappresentano le gambe, un elemento di raccordo in argilla diventa il busto o la testa, mentre una leggera inclinazione laterale accenna o allude al legame con una delle altre figure. Per molti aspetti, le sue sculture obbediscono a una trasformazione dello spirito umano in una forma materiale, allo stesso tempo inseguendo e negando un’essenza di fondo. Per Il latte dei sogni, Fattal presenta un’installazione nel Giardino delle Sculture progettato dal celebre architetto Carlo Scarpa e situato all’interno del Padiglione Centrale. L’installazione include Adam and Eve (2021), la fusione in bronzo di una delle sue prime sculture in ceramica che consiste di due figure: una, caratterizzata da lunghe gambe sottili, sembra trasportare un sacco sulla schiena, un gesto suggerito dall’asimmetria del busto; la seconda, più bassa e dal tronco appena delineato, pare seguire la prima, come se, entrambe chinate nella stessa posizione, stessero intraprendendo un lungo viaggio insieme. Per la Biennale Arte 2022 Fattal ha anche realizzato tre nuove sculture: due in ceramica e una fusione in bronzo, nella quale convivono motivi astratti e forme umane. – MK

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Simone Fattal, Adam and Eve, 2019. Bronzo, Adam: 73 × 22,5 × 39,5 cm; Eve: 47,3 × 26 × 19,5 cm. Photo Andrea Rossetti. Courtesy l’Artista. © Simone Fattal

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Simone Fattal, Herald II, 2021. Grès smaltato, 36 × 12,5 × 5 cm. Photo Andrea Rossetti. Courtesy l’Artista; kaufmann repetto, Milano / New York; Fondazione ICA Milano; Pompeii Commitment, Archaeological Matters. © Simone Fattal

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Simone Fattal, Ra with Iside, 2021. Grès smaltato, figura smaltata cangiante, 44 × 34,5 × 23 cm e figura nera, 40 × 8 × 8 cm. Photo Andrea Rossetti. Collezione Nicoletta Fiorucci Russo. Courtesy l’Artista; Fondazione ICA Milano; Pompeii Commitment, Archaeological Matters. © Simone Fattal

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LA

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E I L E E N AGA R G E RT RU D A R N D T JOSEPHINE BAKER B E N E D E T TA CLAUDE CAHUN LEONORA CARRINGTON ITHELL COLQUHOUN VA L E N T I N E D E S A I N T - P O I N T LISE DEHARME M AYA D E R E N LEONOR FINI J A N E G R AV E R O L FLORENCE HENRI LOÏS MAILOU JONES I DA KA R ANTOINET TE LUBAKI B AYA M A H I E D D I N E

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NADJA AMY NIMR MERET OPPENHEIM VA L E N T I N E P E N R O S E RAC H I L D E ALICE RAHON C A RO L RA M A EDITH RIMMINGTON E N I F RO B E RT RO SA RO SÀ A U G U S TA S AVA G E D O R O T H E A TA N N I N G T OY E N R E M E D I O S VA R O M E TA VA U X WA R R I C K F U L L E R L A U R A W H E E L E R WA R I N G M A RY W I G M A N


Nella prima metà del XX secolo, il concetto illuministico dell’“io” come corpo isolato e unitario viene superato dall’emergere di tecnologie che sfumano la distinzione tra umano e macchina, dai modelli psicoanalitici che svelano l’influenza dell’inconscio, e dall’ideale femminista della Neue Frau, la “Donna nuova”, indipendente e autonoma. Questo cambiamento compromette antichi e pervasivi dualismi, come quello tra essere umano e natura, tra animato e inanimato, tra corpo e mente, tra femminile e maschile, in favore di un ibridismo e di una relazionalità fluttuanti. Le artiste, danzatrici, scrittrici e intellettuali qui riunite adottano i temi della metamorfosi, dell’ambiguità e della frammentazione per contrastare il mito dell’io cartesiano unitario – e de facto maschile –, respingendo con decisione l’idea rinascimentale dell’Uomo come centro del mondo e misura di tutte le cose. Queste artiste, provenienti da diverse parti del mondo – Europa, Africa e Americhe –, sono vicine ai principali movimenti di avanguardia del loro tempo – in particolare, l’esplorazione surrealista del corpo dall’interno, la fusione di umano e macchina in Futurismo e Bauhaus, la rivalutazione dell’identità culturale nei movimenti dell’Harlem Renaissance e della Négritude –, pur mantenendo un notevole grado di indipendenza. Spesso emarginate dalla storia dell’arte, condividono il rifiuto della visione patriarcale ed eteronormativa di genere e identità, ed esercitano il controllo sui loro corpi con una complessità e ambiguità, a volte persino ironia, assenti nel lavoro dei colleghi uomini. I manichini, gli automi, le bambole, le marionette e le maschere che popolano i loro quadri, disegni, fotografie, sculture e illustrazioni sovvertono i luoghi comuni sessisti della femme fatale o della femme enfant; la metamorfosi diventa uno strumento politico, erotico e poetico teso a plasmare nuove, sfaccettate visioni della soggettività. Che facciano parodia dell’immagine della donna eroticizzata – come Gertrud Arndt, Leonor Fini, Josephine Baker e Rosa Rosà – o usino l’androginia per conquistare l’emancipazione e l’autodeterminazione dell’io femminile – come Claude Cahun e Florence Henri –, queste artiste, ognuna a proprio modo, convertono le concezioni tradizionali dell’individualità di genere in materiale di fabulazione. Alcune – Jane Graverol, Meta Vaux Warrick Fuller, Laura Wheeler Waring e Mary Wigman – reinterpretano antichi miti del meraviglioso attraverso figure-archetipo come la sfinge, la femme arbre, la strega, rappresentando le donne come guaritrici ed esseri ibridi che fondono umano, animale, macchina e mostro. Altre – come Baya Mahieddine, Toyen, Loïs Mailou Jones e Antoinette Lubaki – usano la natura come metafora della realtà femminile, evocando dee madri, divinità antropomorfe e scene fiabesche, anticipando preoccupazioni ecofemministe. In Alice Rahon e Valentine de Saint-Point, invece, l’astrazione diventa un mezzo per plasmare la forma o le capacità di corpi nuovi. Che sia evocando la natura, evadendo nel fantastico o usando il proprio corpo per modellare nuove possibilità, ognuna di queste artiste utilizza la propria metamorfosi come risposta ai costrutti di impronta maschile che governano l’identità.

Claude Cahun, Hands and Table (untitled), 1936. Courtesy the Jersey Heritage Collections

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F I G L I E D E L M I N O TA U R O : IL RE-INCANTO DEL MONDO DELLE SURREALISTE Alyce Mahon

Nelle Metamorfosi Ovidio racconta la storia dello scultore Pigmalione, tanto disilluso dalle donne reali da plasmarne una perfetta per sé: una nuda statua d’avorio. L’ossessione per la sua opera d’arte è tale che durante la festa di Venere implora la dea dell’amore di darle vita. Quando il suo desiderio viene esaudito, per la sua “fanciulla […] a quel tocco l’avorio si fa molle, perso il rigore, cede alla pressione, come al calore dei raggi del sole la cera dell’Imetto torna morbida e, plasmata dal pollice, si piega per assumere tutte quelle forme che più la tratti più riesce a prendere” 1. Il racconto di Ovidio ci ricorda il forte potenziale della metamorfosi nel trasformare le esperienze individuali e collettive del mondo, nonché la materialità della persona, dell’animale, della pianta o della cosa. Nella cultura occidentale – da Ovidio a Madame d’Aulnoy, ai fratelli Grimm, a Mary Shelley, Hans Christian Andersen, Lewis Carroll e Walt Disney – il mutamento di forma è stato al centro della nostra idea collettiva di regni primordiali e magici. Dagli anni Venti agli anni Sessanta del Novecento, espandendosi dall’Europa alle Americhe, i surrealisti attinsero a questo canone, oltre a guardare alla mitologia nativa americana, oceanica e afro-brasiliana, per portare l’idea della metamorfosi verso nuove provocatorie direzioni. Adottarono la metamorfosi come mezzo per promuovere il loro convincimento che il reale e il surreale fossero inseparabili, che un offuscamento degli stati di veglia e di sogno fosse necessario, se non addirittura urgente, per la creatività e l’umanità. I surrealisti furono anche ispirati dalla metamorfosi come mezzo per il ritorno del rimosso, accelerato dalla lettura di Sigmund Freud e dall’esplorazione della “bellezza convulsiva” e dell’“amore folle” (amour fou) 2.

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André Masson, Pygmalion, 1938. © SIAE

Come scrisse Robert Desnos nel 1930, “certamente Pigmalione è morto, se mai è esistito. Ma l’esempio di questo Narciso dell’arte non è destinato a tentarci. Ciò che amiamo è la vita, con il suo corteo di strane manifestazioni, miracoli, sguardi profondi, insulti, caldi abbracci” 3. Questa posizione era sia poetica che politica, e il tema della metamorfosi divenne centrale per l’esplorazione surrealista della soggettività in un mondo sempre più disumanizzato e devastato dalla guerra. Nato dalla Prima guerra mondiale, il Surrealismo prosperò e si espanse a livello globale tra le due guerre, durante e dopo il secondo conflitto mondiale. La sua reinterpretazione collettiva della mitologia antica e dei racconti popolari di metamorfosi permise a un gruppo eterogeneo di artisti e scrittori di trascendere il sempre più minaccioso XX secolo, di sfatare il pensiero razionalista e la moralità ipocrita in un momento di conflitto e terrore. In particolare, il fascismo europeo portava all’obbedienza meccanica, al militarismo e ai miti della purezza razziale. Contro tutto ciò, i surrealisti invocarono un nuovo “mito collettivo”, contro “il meccanismo d’oppressione basato sulla famiglia, la religione e la patria”, come dichiarò André Breton in una conferenza del 1935 4. Le donne surrealiste aprirono la strada alla creazione di questa mitologia collettiva. Offrendo quelle che potremmo descrivere come fiabe surrealiste, utilizzarono la metamorfosi per tracciare un paesaggio erotico che sovvertiva l’eteronormatività, esplorando una visione radicalmente nuova dell’identità umana fluida, liberata da categorie biologiche e sociali come il sesso e il genere. Anticipando Angela Carter e altre femministe successive, le surrealiste miravano a rieducare attraverso il re-incanto, appropriandosi di personaggi fiabeschi come la vecchia, la sirena, la sfinge, l’eremita o la femme arbre (donna albero), oltre a offrire una nuova imago maschile, Monsieur Vénus. Collettivamente, i loro racconti e le loro immagini di metamorfosi davano testimonianza del convincimento di Leonora Carrington, una delle più importanti donne surrealiste, secondo la quale “ci sono così tanti interrogativi e così tante “dogmaggini” da eliminare prima che tutto abbia senso […] la curiosità può essere soddisfatta solo capovolgendo i millenni di falsi dati accumulati. Il che significa mutare completamente e cominciare a non disprezzare nulla, a non ignorare nulla” 5. Sia nel testo sia nell’immagine, Carrington risveglia la nostra curiosità, mettendo in scena bizzarre creature metamorfiche all’interno del familiare; lo spazio domestico, come la cucina o la cameretta, diventa un luogo misterioso di emancipazione, astuzia e sciamanesimo femminile. Come spiega la protagonista del suo romanzo Il cornetto acustico (1974): “Le case sono proprio dei corpi. Noi siamo attaccati ai muri, ai tetti e agli oggetti esattamente come al nostro fegato, allo scheletro, alla carne e al flusso sanguigno” 6. Carrington fonde questa architettura surrealista con i racconti della “tribù degli dèi” irlandese, i Túatha Dé Danann, e del popolo fatato gaelico, i Sidhe, che le erano stati raccontati da bambina, incorporandovi inoltre il folclore messicano e la propria straziante esperienza di crollo mentale occorsa durante la Seconda guerra mondiale (intensamente documentata in Giù in fondo, 1944). L’arte di Carrington ci trascina in un’esplorazione di quella che lei definiva “energia cosmica”, che poteva essere “maschile e femminile, microcosmica e macrocosmica” allo stesso tempo 7. La sua è un’arte popolata da creature meravigliosamente ibride colme di questa energia, che incrociano donne con cavalli, uomini con uccelli e flora con fauna. L’ibrido abbonda nel dipinto The House Opposite (1945), soprattutto nel particolare della bambina nella metà inferiore della

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composizione, le cui ali rimandano al mito di Psiche, tradizionalmente rappresentata da una farfalla. La bambina regge anche una ciotola d’oro in cui è posata una pernice, uccello che, nei testi mitologici e cristiani, simboleggia la rigenerazione spirituale e la Resurrezione. Il simbolismo animale è centrale nell’opera di Carrington e l’uccello (e l’uovo) denota fertilità, creatività e saggezza femminili, come si vede anche in Portrait of the Late Mrs Partridge (1947).

Leonora Carrington, And Then We Saw the Daughter of the Minotaur, 1953. © 2022 Leonora Carrington / Artists Rights Society (ARS), New York / SIAE

Ithell Colquhoun, Gouffres amers, 1939. Photo e courtesy The Hunterian, University of Glasgow. © The Artist’s Estate

Carrington offre una variante sovversiva delle Metamorfosi di Ovidio nel dipinto And Then We Saw the Daughter of the Minotaur (1953), raffigurante il Minotauro non come mezzo uomo e mezzo toro, bensì per metà donna e per metà toro. Questa femmina Minotauro ha occhi azzurri e mani delicate, e indossa un mantello rosso sulfureo, il cui colore simboleggia la rubedo, il compimento finale delle trasmutazioni chimiche culminanti nella realizzazione della pietra filosofale. È seduta a un tavolo con una sfera di cristallo, mentre nutre i due bambini ammantati in piedi davanti a lei, invece di divorarli. Carrington ha modellato i bambini sui propri figli e il titolo, “And Then…”, suggerisce che sta costruendo la propria storia attorno al popolare mito zoomorfo come artista e come madre. Questi vari elementi illustrano la combinazione di diversi riferimenti nel suo lavoro – cattolicesimo, alchimia, Popol Vuh (un’epopea della mitologia Maya), mito celtico e Kabbalah – al fine di creare racconti ammalianti per il mondo moderno. Tuttavia, è sempre la donna, definita da Carrington “femminauomo-animale”, a intrecciare questi fili culturali 8. Ciò riflette la sua insistenza sul fatto che i diritti della donna dovevano essere “riconquistati, compresi i misteri che erano nostri e che sono stati violati, rubati o distrutti” 9. Gouffres amers (1939) appartiene alla serie di dipinti Méditerranée di Ithell Colquhoun, in cui il corpo gradualmente si trasforma in scoscesi paesaggi d’azzurro mediterraneo. La figura del dio del fiume viene ridicolizzata mentre si trasforma in un paesaggio marino femminilizzato: le membra sono un collage di coralli, alghe e conchiglie e il suo fallo è una conchiglia da cui germoglia il fiore di un’alga. Analogamente, in Tree Anatomy (1942) Colquhoun presenta la figura mitologica di Dafne – la bellissima ninfa dei monti trasformata dal padre in un alloro per salvarla dagli ardori amorosi di Apollo – come l’antro scuro e profondo in un nodoso tronco d’albero. Nell’antichità, le foglie di alloro erano spesso usate per denotare il trionfo atletico (se non sessuale), ma l’immagine della femme arbre di Colquhoun ribalta tale virtù: l’artista crea ombrosi recessi vulvari e li ingrandisce in modo che la sessualità femminile sia al centro della scena, naturale, aperta e in crescita. Questa morfologia ha spinto la ricerca di Colquhoun verso un nuovo idolo femminile che fondesse cristianesimo esoterico, teosofia, Kabbalah e occultismo surrealista, rifiutando le narrazioni di ciò che lei definiva “tiranni e vittime” in favore di “opposti uniti in un placante abbraccio dal filo di un baco da seta” 10. Nel 1931 Eileen Agar denunciò il “militarismo dilagante e isterico […] l’elemento maschile” che si stava diffondendo in Europa e sposò una teoria della femminilità generativa che implicava “la vita artistica e immaginativa dominata dalla magia del grembo” 11. Le sue fotografie del paesaggio bretone, Rocks at Ploumanac’h (1936), hanno dato forma a queste idee. Attraverso l’obiettivo della sua Rolleiflex 6+×+6, Agar ha trasformato le formazioni

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Eileen Agar, Butterfly Bride, 1938. © The Estate of Eileen Agar; Bridgeman images / SIAE

rocciose naturali in forme scultoree vive con nomi carnali come Rockface e Bum and Thumb Rock, esagerandone le linee, le superfici e i recessi attraverso la manipolazione della luce e dell’ombra. Realizzato in un momento successivo, il suo Ceremonial Hat for Eating Bouillabaisse (1936) era un cappello da donna indossabile, ricavato da un cesto di sughero, una lisca di pesce, da corteccia, una stella marina, da corallo e conchiglie, dando forma al ciclo della vita e della morte. Evocava una catena di associazioni fluide: il pasto condiviso, il feticismo della moda, la fata Melusina (la sirena marina metà donna, metà serpente, amata da Breton), o la pratica cerimoniale dei nativi americani dello scambio di doni, o potlatch, discussa da Marcel Mauss nel suo influente studio Saggio sul dono del 1925. Il Ceremonial Hat di Agar era un collage tridimensionale in cui la metamorfosi era accentuata da oggetti recuperati e accostamenti suggestivi, una tecnica inclusa anche in molti dipinti, ad esempio incollando due farfalle morte e una foglia su The Butterfly Bride (1938), per garantire la “rimozione del banale attraverso il fecondo intervento del caso o della coincidenza” 12. Per estensione, in Philemon and Baucis (1939), Agar usò la tecnica automatica surrealista del frottage per tramandare il racconto di Ovidio della pia coppia frigia che gentilmente ospita quelli che sembrano essere poveri estranei, ma che in realtà sono Zeus ed Ermes in incognito. In cambio, ai due viene concesso di essere trasformati, alla loro morte, in alberi uniti per il tronco: una quercia e un tiglio. In quest’opera, letteralmente strofinando la corteccia d’albero con il gessetto sulla carta, Agar evoca i materiali che compaiono nel racconto, sottolineando al contempo l’apertura della mente razionale al caso. Leonor Fini conferisce uno stile più illusorio al tema della metamorfosi, mettendo in scena corpi erotici che sembrano scaldarsi sotto le sue pennellate. Gli uomini si trasformano in nudi e ninfe dormienti, ricordando la musa di Pigmalione, e le donne in sfingi mostruosamente belle ma pericolose, come in L’Alcove (1941), Femme assise sur un homme nu (1942), e Chthonian Deity Watching over the Sleep of a Young Man (1946). L’uso di colori, texture, costumi e oggetti antichi (drappeggi, rovine classiche, armature) aumenta il suo gioco fluido con i ruoli di genere e le consente di esaltare la pelle perlacea e i fianchi femminili dei suoi maschi, così come la potenza della sfinge come fonte e distruzione dell’uomo. Nel 1972, Fini realizza trentacinque acqueforti per un’edizione di lusso del romanzo decadentista Monsieur Vénus (1884) di Rachilde (Marguerite Eymery), in cui viene ribaltato il racconto di Pigmalione. L’artista Jacques Silvert inizia come “amante femmina” di Raoule de Vénérande per finire come sua moglie e “figura di cera ricoperta di trasparente pelle di gomma”, in una storia d’amore di “una donna che amava gli uomini e […] che li in[culava]” 13. Fini cattura il potenziale di questa donna libertina nel ritrarre Raoule in falliche pose erette o con un’espressione da sfinge e il suo oggetto del desiderio, Jacques, come una ninfa, con i capelli lunghi, la bocca carnosa e le membra sinuose e nude. Promuovendo nella sua opera quello che oggi chiameremmo il “non binario”, Fini ha affermato: “Trovo di essere di solito più forte degli uomini, e questo si riflette nei miei dipinti. Gli uomini tendono a essere addormentati, passivi, non minacciosi, dalla sessualità ambigua. Le donne sono sveglie, vigili, in controllo ma non necessariamente minacciose… Sono affascinata dall’androgino, perché mi sembra l’ideale. Unisce l’aspetto pensante del maschio con il lato immaginativo della femmina. Mi piacerebbe pensare a me stessa come androgina” 14.

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Dorothea Tanning, Avatar, 1947. Collezione privata, Chicago. Courtesy The Dorothea Tanning Foundation. © SIAE

Anche Dorothea Tanning si è ispirata ai romanzi del XIX secolo, trovando nelle pagine di Edgar Allan Poe, Gustave Flaubert e Joris-Karl Huysmans un mondo inquietante di metamorfosi e un’arte di “sirene che a turno cantano e piangono” 15. Nel piccolo dipinto a olio Avatar (1947), una donna bionda addormentata, apparentemente nata dalla cavità di un albero, vola su un trapezio oltrepassando le pareti della sua camera da letto. Il suo abbigliamento, del tutto banale, contrasta con una forma erotica astratta, in parte corpo e in parte organi, che fuoriesce da uno specchio incorniciato. La sua assenza di forma riecheggia il suo stato mentale elettrizzato. Questa composizione ricorda Alice nel Paese delle Meraviglie di Lewis Carroll, in cui Alice salta nella tana del coniglio con gioia, “Giù, giù, giù. Sarebbe mai finita quella caduta?”, così come l’idea di Carroll che la psiche fosse aperta alla presenza “misteriosa” delle fate 16. Tanning trasporta lo spettatore verso confini che promettono metamorfosi (una cavità d’albero, una porta, uno specchio) tutti inondati di verde luminescente, un colore che in alchimia denota lo spirito. Ci sfida a varcarli e a raggiungere l’altra parte, dove lo spirito e i desideri possono assumere qualsiasi forma: “L’enigma è una cosa molto salutare, perché incoraggia lo spettatore a guardare oltre l’ovvio e il luogo comune” 17. Nella loro arte, Carrington, Agar, Colquhoun, Fini e Tanning hanno modellato nuove forme di organizzazione sociale; una vocazione condivisa con altre pioniere surrealiste non comprese in questo saggio, come Jane Graverol, Alice Rahon, Edith Rimmington e Remedios Varo. Alcune di loro appartenevano ufficialmente al gruppo surrealista e altre no, oppure avevano con esso rapporti conflittuali. Molte si conoscevano e si muovevano negli stessi ambienti sociali, sebbene vivessero e lavorassero in diverse parti del mondo. Erano unite dall’idea della donna come guaritrice, nelle vesti di megera, strega, sfinge, eremita o avatar. Hanno sfidato l’autorità, che fosse la morale borghese, il patriarcato, il militarismo, il nazionalismo o il fascismo. Hanno anche aperto la strada alle teorie contemporanee della metamorfosi come divenire e non divenire, sfidando una significazione fissa. Per riprendere la descrizione di Hélène Cixous del testo ibrido, la loro arte ci concede “l’accesso al passaggio, al trans., all’attraversamento dei confini, alla delimitazione di genera-gender-generi e specie” 18. Rifiutando il divario tra arte e vita, queste artiste aprono uno stato dell’essere che Rosi Braidotti definisce “donna/ animale/insetto […] un affetto che scorre” 19. Oggi che la narrativa e la cultura visiva sono diventate così fortemente mediatizzate e tecnologiche, la materialità e l’intimità delle loro storie e immagini è un lusso raro, che tuttavia ancora risuona di potenziale poetico, politico e polivocale, frantumando “la legge” e “la verità” con amore e risate 20. Alyce Mahon è docente di Storia dell’arte moderna e contemporanea presso l’Università di Cambridge. Le sue pubblicazioni includono le monografie Surrealism and the Politics of Eros, 1938–1968 (Thames & Hudson, 2005); Eroticism and Art (Oxford University Press, 2005 e 2007); e The Marquis de Sade and the Avant-Garde (Princeton University Press, 2020); e numerosi saggi critici su figure dell’avanguardia internazionale: Helena Almeida, Hans Bellmer, Leonora Carrington, Ithell Colquhoun, Leonor Fini, Frida Kahlo, Pierre Klossowski, Jean-Jacques Lebel, André Masson, Roberto Matta, Pierre Molinier e Carolee Schneemann. Vive a Cambridge, Regno Unito.

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Ovidio, Le metamorfosi, Roma, Newton Compton, 2016, libro X, 710. André Breton definì la “bellezza convulsiva” come “erotico-velata, esplosivo-fissa, magico-circostanziale”, e l’amour fou come “reciproco e unico”. Si veda André Breton, L’amour fou (1937), Torino, Einaudi, 1980. Robert Desnos, Pygmalion et le Sphinx, in “Documents”, 2(1), 1930, 33–38 (traduzione dal francese; www.research. manchester.ac.uk/portal/ files/63517391/surrealism_issue_7.pdf). André Breton, Posizione politica dell’arte di oggi (1935), in Breton, Manifesti del Surrealismo, Torino, Einaudi, 1970. Leonora Carrington, Commentary, in Leonora Carrington: A Retrospective Exhibition, a cura di Edward James, New York, Center for Inter-American Relations, 1975, 23–24. Leonora Carrington, Il cornetto acustico, Milano, Adelphi, 1984, 22. Leonora Carrington, La Maison de la Peur, prefazione e illustrazioni di Max Ernst, Paris, Henri Parisot, 1938 (ed. inglese Carrington, The House of Fear: Notes from Down Below, introduzione di Marina Warner, London, Virago Press, 1989, 177). Leonora Carrington, What is a Woman (1970), in Surrealist Women: An International Anthology, a cura di Penelope Rosemont, Austin, University of Texas Press, 1998, 372–375: 372. Carrington, Commentary, in Leonora Carrington: A Retrospective Exhibition, cit., 23.

10 Ithell Colquhoun, Water Stone of the Wise, in New Road 1943: New Directions in European Art and Letters, a cura di Alex Comfort e John Bayliss, Essex, Grey Walls Press, 1943, 198–199. 11 Eileen Agar, Religion and the Artistic Imagination, in “The Island”, 1(4), 1931, 102. 12 Eileen Agar, A Look at My Life, London, Methuen, 1988, 147. 13 Rachilde, Monsieur Vénus, Paris, Félix Brossier, 1889, 172, XVI. 14 Leonor Fini, citata in Peter Webb, Sphinx: The Art and Life of Leonor Fini, New York, Vendome Press, 2009, 274. 15 Dorothea Tanning, Birthday, San Francisco, The Lapis Press, 1986, 65. 16 Lewis Carroll, Alice nel Paese delle Meraviglie, Milano, Bompiani, 2021, 4; Carroll, Sylvie e Bruno, Milano, Garzanti, 1996, 191. 17 Dorothea Tanning, intervista con John Gruen, The Artist Observed, Pennington (GA), A Cappella Books, 1991, 189. 18 Hélène Cixous, “Mamãe, disse ele”, or Joyce’s Second Hand, in Cixous, Stigmata: Escaping Texts, London, Routledge, 1998, 105. 19 Rosi Braidotti, Metamorphoses: Towards a Materialist Theory of Becoming, Cambridge (MA), Polity, 2002, 118. 20 Cfr. Hélène Cixous, The Laugh of the Medusa, in New French Feminisms: An Anthology, a cura di Elaine Marks e Isabelle de Courtivron, New York, Schocken Books, 1981, 258.

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Edith Rimmington

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Leonor Fini

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Benedetta

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Carol Rama

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Meret Oppenheim

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Leonora Carrington, Portrait of the late Mrs Partridge, 1947. Olio su tavola, 100,3 × 69,9 cm. Photo Nathan Keay, immagine courtesy MCA Chicago. Collezione privata, Chicago. © Estate of Leonora Carrington / Artists Rights Society (ARS), NY 2 Remedios Varo, Simpatía (La rabia del gato), 1955. Olio su masonite, 95,9 × 85,1 cm. Collezione Eduardo F. Costantini, Buenos Aires 3 Remedios Varo, Armonía (Autorretrato sugerente), 1956. Olio su masonite, 75 × 92,7 cm. Collezione Eduardo F. Costantini, Buenos Aires 4 Dorothea Tanning, Deirdre, 1940. Olio su tela, 50,8 × 40,6 cm. Collezione Privata. Courtesy The Dorothea Tanning Foundation 5 Ithell Colquhoun, The Pine Family, 1940. Olio su tela, 46 × 54 cm. Photo © The Israel Museum Jerusalem. The Vera and Arturo Schwarz Collection of Dada and Surrealist Art in the Israel Museum 6 Edith Rimmington, The Decoy, 1948. Olio su tela, 35,5 × 30,5 cm. National Galleries of Scotland. Acquistato dai Patrons delle National Galleries of Scotland nel 2002 7 Dorothea Tanning, Avatar, 1947. Olio su tela, 35,6 × 27,9 cm. Collezione privata, Chicago. Courtesy The Dorothea Tanning Foundation 8 Leonor Fini, L’Alcove, 1941. Olio su tela, 73 × 97 cm. Photo Nicholas Pishvanov. Collezione Rowland Weinstein. Courtesy Weinstein Gallery, San Francisco. © Estate of Leonor Fini 9 Jane Graverol, L’École de la Vanité, 1967. Olio e collage su cartone, 70,5 × 106,5 × 5 cm. Photo Renaud Schrobiltgen. Collezione Anne Boschmans. Immagine courtesy Schirn Kunsthalle Frankfurt 10 Leonora Carrington, Ulu’s Pants, 1952. Olio e tempera su tavola, 54,6 × 91,4 cm. Collezione privata. Courtesy Gallery Wendi Norris, San Francisco. © Estate of Leonora Carrington / Artists Rights Society (ARS), NY 11 Eileen Agar, Wisdom Tooth, 1960 ca. Acrilico su tavola, 58 × 69 cm. Photo Alex Fox (Roy Fox Fine Art Photography). Courtesy The Redfern Gallery, London. © The Estate of Eileen Agar 12 Benedetta, Le forze umane. Romanzo astratto con sintesi grafiche (illustrazione in copertina). Foligno, Franco Campitelli Editore, 1924. Courtesy Biblioteca comunale Augusta di Perugia 13 [13a–13b] Benedetta, Le forze umane. Romanzo astratto con sintesi grafiche (illustrazioni). Foligno, Franco Campitelli Editore, 1924. Courtesy Ministero della Cultura – Biblioteca Nazionale Marciana 14 Enif Robert, Un ventre di donna. Romanzo chirurgico di Enif Robert e Filippo Tommaso Marinetti (copertina). Facchi editore Milano, 1919. Collezione della Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze

15 Valentine Penrose, Ariane, 1934 ca. Collage su carta, 16,2 × 20,3 cm. © The Artists Estate. All rights reserved. Supplied courtesy of The Roland Penrose Collection 16 Carol Rama, Appassionata, 1941. Acquarello su carta, 33 × 23 cm. Photo Sebastiano Pellion. Collezione privata 17 Gertrud Arndt, Maskenselbstbildnis Nr. 16, 1930. Da portfolio Maskenselbstbildnisse (ristampato nel 1996), 24,1 × 19,3 cm. Museum Folkwang, Essen. Photo © Jens Nober 18 Gertrud Arndt, Maskenselbstbildnis Nr. 13, 1930. Da portfolio Maskenselbstbildnisse Silbergelatineabzug (ristampato 1996), 24,1 × 19,3 cm. Museum Folkwang, Essen. Photo © Jens Nober 19 Nadja, C’est moi, c’est encore moi, 1926. Rossetto e matita su carta, 9,2 × 11,6 cm. Collezione Chancellerie des universités de Paris, Bibliothèque littéraire Jacques Doucet 20 Florence Henri, Portrait Composition. Petro (Nelly) van Doesburg, 1930 ca. / 2014 ca. Stampa ai sali d’argento, 40,5 × 30 cm. Courtesy Archives Florence Henri; Galleria Martini & Ronchetti Genoa. © Martini & Ronchetti 21 Toyen, The Shooting Gallery (Střelnice), 1939–1940. Da portfolio di 12 foto-litografie, 32 × 44 cm ognuna. Originariamente pubblicato da Fr. Borový, Prague, 1946 22 Claude Cahun, Self portrait (reflected image in mirror, checquered jacket), 1928. Negativo monocromo, 11,8 × 9,4 cm. Courtesy the Jersey Heritage Collections 23 Claude Cahun, Je tends les bras, 1931. Negativo monocromo con sfumatura rosa, 11 × 9 cm. Courtesy the Jersey Heritage Collections 24 Loïs Mailou Jones, Africa, 1935. Olio su tela su tavola, 61 × 51 cm. The Johnson Collection, Spartanburg, South Carolina 25 Meta Vaux Warrick Fuller, Maquette per Ethiopia Awakening, 1921. Gesso dipinto, 35,3 × 8,25 × 12,7 cm. Photo Will Howcroft. Collezione Danforth Art Museum presso Framingham State University, Framingham, Massachusetts. Dono del Meta V. W. Fuller Trust. Courtesy the Meta V. W. Fuller Trust 26 Augusta Savage, Lift Every Voice and Sing (The Harp), 1939. Bronzo, 27,3 × 24,1 × 10,2 cm. Photo Ryan Fairbrother. Courtesy Thomas G. Carpenter Library, Special Collections and University Archives, Jacksonville, FL: University of North Florida 27 Laura Wheeler Waring, “The Crisis”, aprile 1923 (illustrazione in copertina). Courtesy Schomburg Center for Research in Black Culture, Jean Blackwell Hutson Research and Reference Division, The New York Public Library

28 Laura Wheeler Waring, “The Crisis”, dicembre 1928 (illustrazione in copertina). Courtesy Schomburg Center for Research in Black Culture, Jean Blackwell Hutson Research and Reference Division, The New York Public Library 29 Laura Wheeler Waring, “The Crisis”, settembre 1924 (illustrazione in copertina). Courtesy Schomburg Center for Research in Black Culture, Jean Blackwell Hutson Research and Reference Division, The New York Public Library 30 Amy Nimr, Untitled (Fish and Skeletons), 1936. Acquarello su carta, 55 × 42,5 × 3 cm. Collezione Sheikh Hassan M. A. Al-Thani 31 Amy Nimr, Untitled (Underwater Skeleton), 1942. Gouache su legno, 63 × 54,5 × 5 cm. Collezione Sheikh Hassan M. A. Al-Thani 32 Antoinette Lubaki, Untitled (three characters under a tree), 1929 ca. Acquarello su carta, 52 × 66 cm. Photo Fabrice Jousset. Collezione privata, Parigi. Courtesy MAGNIN-A Gallery, Paris; Cornette de Saint Cyr, Paris. © Antoinette Lubaki 33 Baya Mahieddine, Femme robe jaune cheveux bleus, 1947. Gouache su tavola, 70 × 54 cm. Collezione Jules Maeght, Parigi. © Photo Galerie Maeght, Paris 34 Baya Mahieddine, Femme au panier et coq rouge, 1947. Gouache su tavola, 73 × 91,5 cm. Collezione Adrien Maeght, Saint Paul. © Photo Galerie Maeght, Paris 35 Ida Kar, Surreal Study, 1947 / 2016 ca. Fotografia, stampa moderna al bromuro, 25,4 × 20,6 cm. Collezione National Portrait Gallery, London. © National Portrait Gallery, London 36 Mary Wigman, Mary Wigman tanzt (still), 1932. Film, ca. 10 min. Collezione BundesarchivFilmarchiv, Berlin. Film: K164573-1. © Mary Wigman Stiftung / Deutsches Tanzarchiv Köln 37 Meret Oppenheim, Der Spiegel der Genoveva, 1967. Stampa, 25 × 17 cm. Collezione privata 38 Valentine de Saint-Point, Metachoric Gestures (Gestes Métachoriques), 1914–1923. Xilografia originale, edizione limitata su carta Lafuma Pur Fil, 19 × 14 cm. Adrien Sina Collection, Feminine Futures 39 Alice Rahon, The Juggler, 1946. Marionetta in filo metallico, 58 × 38 × 12 cm. Collezione Francisco Magaña Moheno and Carlos Santos 40 Josephine Baker, Dans Revue des Folies Bergère, danse avec plumes... (still), 1925. Film, 56 sec. Courtesy GP archives. Collezione Gaumont Actualité 41 [41–43] Maya Deren, The Witch’s Cradle (stills), 1943. Film, 12 min 40 sec. Courtesy The New American Cinema Group, Inc./The Film-Makers’ Cooperative

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BIO GRAFIE DELLE ARTISTE

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E I L E E N AGA R 1899, Buenos Aires, Argentina – 1991, Londra, UK Bum and Thumb Rock – letteralmente “Roccia sedere-pollice” – è una delle settanta fotografie in bianco e nero che l’artista Eileen Agar realizza nell’estate del 1936 a Ploumanac’h, un paese sulle rive francesi della Manica. Come altre nella serie, l’immagine sembra immortalare la calma placida del paesaggio costiero ma, suggerendo una somiglianza tra le linee sinuose di un’imponente roccia e le rotondità di un fondoschiena umano, è animata da una vena umoristica che, insieme alla fascinazione per il mondo naturale, diventerà il tratto distintivo del linguaggio artistico di Agar. Già qualche mese prima dello scatto, l’artista Roland Penrose e il critico Herbert Read avevano associato la fervida immaginazione di Agar alla sensibilità surrealista e, includendo alcuni suoi lavori nella prima mostra inglese del movimento, avevano celebrato la capacità con cui riusciva a mitigare il senso onirico proposto dall’avanguardia con un’estetica vagamente frivola. Nel 1936, quasi a dimostrazione della stravaganza evidenziata dai colleghi, Agar realizza e indossa uno strano cappello, Ceremonial Hat for Eating Bouillabaisse: un copricapo scultoreo e appuntito, fatto di sughero e dipinto di blu e giallo, riccamente decorato con diversi tipi di conchiglie, scampoli di tessuto, fiori di plastica e pezzi di corteccia. Ancorati alla struttura del cappello come molluschi a uno scoglio, questi strani oggetti naturali e artificiali simulano la tradizionale zuppa francese a cui l’artista dedica il titolo dell’opera e, ancora una volta con estrema ironia, ribadiscono l’immaginario alla base del progetto artistico di Agar. Tutti i lavori che l’artista realizza a partire dagli anni Trenta sembrano volersi allineare all’estetica delle singolari formazioni rocciose di Ploumanac’h e, anche quando non si presentano come veri e propri assemblaggi tridimensionali, sono dotati di una spiccata plasticità. La stratificazione del colore nei dipinti, ad esempio, conferisce volume alla superficie e, come nel caso di Wisdom Tooth (1960 ca.), restituisce l’immagine di un paesaggio aggredito da incrostazioni organiche e inorganiche. Tra sacche di colore scuro,

fondali blu oltremare, pattern geometrici e qualche sagoma floreale verde acido, emerge distintamente la figura di un dente che, come unica componente umana del dipinto, è al centro di una simbologia onirica e a prima vista incomprensibile. Ogni opera di Agar è un collage di immagini e oggetti che trasportano lo spettatore in una realtà certamente più magica – o ironica – di quella di partenza. – SM

(p. 102)

G E RT RU D A R N D T 1903, Ratibor (Racibórz), Impero Tedesco (attuale Polonia) – 2000, Darmstadt, Germania Nel 1929, qualche tempo dopo la fine dei suoi studi in Arti applicate alla Bauhaus, l’artista Gertrud Arndt torna nell’istituto di Dessau insieme al marito, divenuto docente, e si dedica all’unico, grande progetto fotografico della sua carriera: Maskenselbstbildnis (1930). Si tratta di quarantatré scatti in bianco e nero in cui l’artista, vestita in maniera eccentrica, impersona numerose e differenti tipologie di donne. Alcune di loro incarnano l’ideale di una donna moderna, altre sembrano riferirsi a qualche tradizione orientale, talvolta pare addirittura di riconoscere qualche omaggio alla storia dell’arte o l’alter ego di qualche famosa attrice. Più in generale, ogni fotografia è il frammento di un’identità ad ampio spettro che non esclude giovani ragazze, vedove addolorate, geisha piangenti o signore riccamente ingioiellate con cappelli decorati di piume e fiori. Nel più famoso e iconico Maskenselbstbildnis Nr. 13, ad esempio, Arndt ha labbra truccate, nasconde i capelli corti sotto un cappello a cloche e copre viso e spalle con una veletta trasparente in organza ricamata: rappresenta l’ideale di donna cui nella Repubblica di Weimar e, proprio come un prototipo della Neue Frau (Donna nuova), ha lo sguardo fiero di chi sente di avere un ruolo sociale e utilizza la moda per raccontarlo. Per quanto anche Arndt creda in questo specifico ideale di femminilità – e lo dimostrano altre immagini non riferibili a questo progetto – lo scopo dei suoi autoritratti è assolutamente ludico e risponde a un’evidente urgenza espressiva. Nel momento in cui realizza gli scatti, infatti, l’artista ha appena abbandonato definitivamente

la sua carriera di designer tessile e non ha mai usato la fotografia se non come medium utile a documentare oggetti di design o costruzioni architettoniche. In questo senso Maskenselbstbildnis ha tutta l’aria di essere un riscatto artistico che, pur con l’utilizzo di set e tecniche di stampa rudimentali, ottiene risultati singolari che si collocano a cavallo tra la bizzarria del Surrealismo e la lucida rappresentazione del movimento fotografico conosciuto come Neue Sehen (Nuova Visione). Tra tutti i membri della comunità scolastica della Bauhaus, Gertrudt Arndt è sicuramente tra le artiste più indipendenti e, ben oltre qualsiasi rigore formale proposto dalle colleghe e dai colleghi, dimostra di saper esplorare le molteplici sfumature della sua identità mettendosi teatralmente al loro servizio. – SM

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JOSEPHINE BAKER 1906, Saint Louis, USA – 1975, Parigi, Francia Abiti succinti e spesso inesistenti, movimenti sensuali e sfrontati, capelli corti e laccati che incorniciano una buffa mimica facciale, sono solo alcuni degli elementi che ricorrono negli spettacoli di Josephine Baker, la cantante e danzatrice americana che, a partire dagli anni Trenta, diventa internazionalmente un simbolo di riscatto per la comunità nera. Dopo una giovinezza trascorsa tra le ostilità del Midwest segregazionista, l’estrema povertà famigliare e le prime esibizioni in mediocri compagnie di teatro e vaudeville, Baker si trasferisce a Parigi nel 1925 e, a soli diciannove anni, debutta al Théâtre des Champs-Élysées con un primo spettacolo musicale intitolato Revue nègre. Sono gli anni in cui la politica coloniale francese è al massimo del suo sviluppo e non stupisce che le sue performance europee ottengano un tale e immediato successo. Sul palcoscenico, infatti, Baker è sempre immersa in un’atmosfera forzatamente carica di stereotipi riferiti alla cultura africana: vertiginose gonne fatte di banane, palme, maschere, frutti di colori sgargianti e perfino un ghepardo chiamato Chiquita, che l’artista tiene come compagno di scena e animale domestico. Nel filmato muto che la ritrae sul palco del famoso music hall parigino Folies Bergère, ad esempio, Baker

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esegue esuberanti sgambettamenti charleston mentre, a seno nudo, riccamente ingioiellata e vestita con un eccentrico costume di piume, appare come un’ipnotica divinità, moderna e selvaggia allo stesso tempo. La sensualità del suo fisico e l’erotismo della danza – di per sé rari in un contesto culturale conservatore come quello dell’epoca – sono tuttavia smorzati da un’espressività spiccatamente comica che, almeno fino agli anni Cinquanta, rimane la sua caratteristica distintiva. A partire dal secondo dopoguerra, dopo aver inciso album musicali ed essere ormai diventata la prima donna nera a ottenere un simile successo, Baker comincia a caricare i suoi spettacoli di messaggi sociali e civili. Memorabili sono gli episodi in cui si rifiuta di esibirsi davanti a un pubblico di soli bianchi, risponde apertamente alle minacce del Ku Klux Klan o partecipa alla Marcia su Washington del 1963 al fianco di Martin Luther King. Questo impegno politico la porterà anche all’adozione di dodici bambine e bambini da tutto il mondo che, chiamati affettuosamente tribu arc-en-ciel (tribù arcobaleno), le staranno accanto fino alla morte, sopraggiunta improvvisamente qualche giorno dopo aver celebrato il suo cinquantesimo anno di carriera con un ultimo spettacolo parigino. – SM

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B E N E D E T TA 1897, Roma, Italia – 1977, Venezia, Italia Nel 1924, quando Benedetta Cappa pubblica il suo primo libro Le forze umane: romanzo astratto con sintesi grafiche e decide di omettere il proprio cognome, il Futurismo è impegnato in un radicale processo di rinnovamento destinato a mitigare l’impeto ideologico precedente. Come le esponenti e gli esponenti del cosiddetto “Secondo Futurismo” – non ultimo il marito Filippo Tommaso Marinetti –, Benedetta affronta progressivamente questa transizione e, alla costante ricerca dell’opera d’arte totale, uniforma la sua produzione cercando di intrappolare la dimensione occulta e cosmologica che governa i fenomeni tradizionalmente esaltati dall’avanguardia. Simulando le prospettive vertiginose della tecnologia aeronautica e raggiungendo la “spiritualità extraterrestre” proposta dal Manifesto dell’Aeropittura di cui nel 1929 è unica co-firmataria donna, i lavori pittorici di Benedetta riproducono un immaginario sospeso e irreale. Ma mentre l’astrattismo del dipinto Velocità di un motoscafo (1922), o del ciclo Sintesi delle comunicazioni (1933–1934), è ancora votato alla più futurista celebrazione del progresso, la scrittura di Benedetta esprime il senso

di una completa rivoluzione spiritualista. La sua produzione letteraria, che diventa verbo-visiva se si contano i componimenti paroliberi e le sintesi grafiche di accompagnamento alla prosa, racconta la storia di personaggi solo apparentemente ordinari che vivono esperienze dal sapore eccezionalmente mitico. Luciana, ad esempio, l’alter ego di Benedetta in Le forze umane, è una ragazza della periferia romana che, insofferente e ansiosa per le vicissitudini famigliari, è alla continua ricerca della propria identità. Il realismo autobiografico è intervallato da capitoli astratti che, usando un linguaggio pseudoscientifico e servendosi di diciannove illustrazioni a inchiostro nero, esprimono il ruolo e la forma delle emozioni vissute dalla protagonista: poche linee sinuose bastano a descrivere le forze che muovono il corpo femminile; un groviglio di linee spezzate corrisponde a una potente fisicità maschile; o, come nella sintesi grafica Contatto di due nuclei potenti (femminile e maschile), una strana commistione di questi segmenti aiuta a immaginare le scintille generate dal loro rapporto. Che sia o meno un riferimento autobiografico all’incontro con Marinetti, questo disegno è un condensato di tutte le nozioni che l’autrice deve aver assimilato dalla sua formazione valdese e steineriana. Sogno e realtà, razionalità e spiritualità, coscienza e subconscio sono alla base anche dei successivi romanzi e, più in generale, di una produzione artistica che mette l’individuo al centro di un inedito Futurismo cosmologico. – SM

(p. 103)

CLAUDE CAHUN 1894, Nantes, Francia – 1954, Saint Helier, Jersey, UK Lucy Renée Mathilde Schwob, nota come Claude Cahun, è famosa per i suoi autoritratti performativi che distorcono le rappresentazioni di genere, spesso realizzati in collaborazione con la sorellastra e amante Marcel Moore. A dispetto delle norme di genere strettamente binarie dell’Europa degli anni Venti, Cahun e Moore adottano tanto pseudonimi quanto modalità di presentazione di sé decisamente androgini, sia nell’arte sia nella vita. Sperimentando con i limiti culturalmente codificati della femminilità, Cahun può essere intesa come l’antesignana di artiste quali Martha Wilson, Cindy Sherman e Gillian Wearing. Nelle sue fotografie, Cahun si trasforma in una serie di personaggi – una seducente civettuola mascherata in Self portrait (in robe with masks attached) (1928); una matrona maliziosa in Self portrait (with Nazi badge between her teeth) (1945); o anche, come

in Je tends les bras (1931), uno zoccolo di pietra con arti –, trattando l’identità come luogo del travestimento. Il suo frequente uso del rispecchiamento o del doppio – come in Self portrait (reflected image in mirror, chequered jacket) (1928), o in Hands and Table (untitled) (1936) – crea composizioni inquietanti e psicologicamente cariche, mentre lancia un riferimento ammiccante al desiderio sessuale omoerotico o narcisistico. Nel 1920, Cahun si trasferisce con Moore a Parigi, dove si esibisce in diverse produzioni teatrali sperimentali che la introducono ai membri del circolo surrealista. Sebbene gli artisti surrealisti sposassero sentimenti antiborghesi e fossero aperti alle influenze extraeuropee, manifestavano nozioni retrograde riguardo alle donne e all’omosessualità. Le donne, nel Surrealismo, erano spesso ridotte al ruolo di musa, o rappresentate tramite parti del corpo frammentate e simili a oggetti. Pur essendo stilisticamente allineata al movimento, Cahun rimane separata e distinta da esso. Keepsake (1932), ad esempio, raffigura la testa di Cahun in una serie di quattro campane di vetro, evocative delle teche usate nel XIX secolo per osservare e analizzare gli oggetti. La messa in scena e il taglio fotografico della testa la fanno apparire mozzata, suggerendo un impiego del tropo surrealista del corpo femminile smembrato e sezionato; gli occhi, tuttavia, non sono passivi, rispondono direttamente allo sguardo dello spettatore o scrutano attivamente l’ambiente circostante. Cahun rifiuta la figura della musa, eludendo la categorizzazione grazie al potere dell’ambiguità e della continua trasformazione. Nel 1937, Cahun e Moore si trasferiscono sull’isola di Jersey, dove organizzano campagne di resistenza contro gli occupanti nazisti distribuendo volantini ai soldati. Durante le loro campagne, Cahun e Moore impiegano il loro incessante role playing per passare in incognito, travestendosi da persone anziane. Ciononostante, vengono infine arrestate e condannate a morte, pena poi commutata in ergastolo; vengono rilasciate alla liberazione dell’isola nel maggio 1945. – LC e IW

(p. 94)

LEONORA CARRINGTON 1917, Clayton-le-Woods, UK – 2011, Città del Messico, Messico Una strana figura femminile emerge da un fondo rosso scuro e, ferma in piedi, leggermente sproporzionata, è vestita con un lungo abito color senape. Ha fattezze umane fino alle spalle, poi il suo viso assume la forma di una farfalla nera che si rivolge allo spettatore con due ipnotici occhi gialli. In Portrait of Madame Dupin (1949)

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Padiglione Centrale


la protagonista tiene stretta al grembo una creatura ancora più bizzarra di lei, probabilmente suo figlio, che ha un corpo nodoso e sembra una grossa radice. È un essere ibrido umano-vegetale e, come la madre-insetto o la maggior parte dei personaggi che popolano dipinti, disegni e racconti di Leonora Carrington, pare l’ovvio risultato del mondo metà reale e metà fantastico in cui l’artista crede fin da bambina. A partire dai tardi anni Venti, appena adolescente, Carrington inizia a costruire un universo di mitologie personali che, influenzate dalle leggende celtiche raccontatele dalla madre irlandese, sono inevitabilmente destinate a sovrapporsi a quelle delle colleghe e dei colleghi surrealisti. Trasferitasi a Parigi nel 1936, l’artista perfeziona il suo immaginario e si avvicina alla letteratura magica, alchemica, astrologica e cabalistica intrappolandone il senso nei primi dipinti e scritti. Nel 1942, dopo che lo scoppio della Seconda guerra mondiale la costringe a una forzata separazione dal compagno Max Ernst e le provoca un duro tracollo psicologico che la tratterrà per un anno in un manicomio spagnolo, Carrington si trasferisce a Città del Messico e si unisce alla celebre comunità di artiste europee espatriate. Qui il suo linguaggio artistico raggiunge una drammatica maturazione e, attento alla mitologia della cultura locale, si popola di figure femminili spesso mostruose e pervase da forze occulte, cosmologiche ed evidentemente spirituali. In Portrait of the Late Mrs Partridge (1947), ad esempio, l’artista rappresenta una donna alta e possente che, con il collo allungato, la testa decisamente piccola e i capelli elettrizzati, è vestita con una tonaca rosso carminio mentre accarezza un enorme uccello blu. Carrington la raffigura come una divinità medievale e, come nel caso della Signora Dupin, la rende magica: capace di comprendere, forse addirittura influenzare, gli umori della natura tempestosa che la circonda. – SM

(p. 96)

ITHELL COLQUHOUN

il potere della sessualità femminile. Il 1936 vede l’apertura dell’International Surrealist Exhibition alle New Burlington Galleries di Londra – la prima grande mostra surrealista fuori dalla Francia –, così come la fondazione dell’“International Surrealist Bulletin”, che inaugura ufficialmente il British Surrealist Group che avrebbe incluso tra i suoi membri Eileen Agar e Paul Nash. Colquhoun si unisce al gruppo nel 1939 per lasciarlo solo un anno dopo, rifiutando di rinunciare al suo coinvolgimento con gruppi occulti, o di mostrare fedeltà al solo surrealismo britannico. Fortemente influenzata da W.B. Yeats e da altri scrittori irlandesi, il suo interesse per l’esoterismo celtico la porta a trasferirsi in Cornovaglia nel 1940, dove si dedica sempre più alla mitologia, all’alchimia e all’occulto. The Pine Family (1940) ritrae tre forme pelviche che suggeriscono simultaneamente parti del corpo mutilate e tronchi d’albero abbattuti, con piante stilizzate che richiamano dei peli pubici. L’oscuro arto sul fondo della tela è etichettato come “celle qui boite” (colei che zoppica). Si tratta di un gioco sul nome “Gradiva” (colei che cammina), dato a un’anonima donna su un bassorilievo romano in una novella di Wilhelm Jensen e successivamente adottata come soggetto di uno studio di Sigmund Freud del 1908, nonché musa preferita degli artisti surrealisti. La figura colorata di rosso che fluttua ambiguamente in primo piano è etichettata con un cartellino che recita “l’hermaphrodite circoncis”: l’ermafrodita circonciso. Nella metà superiore del quadro, una terza figura è contrassegnata da una bandiera bianca recante il nome “Atthis”, riferimento a un personaggio che compare nella poesia d’amore della scrittrice greca arcaica Saffo. Alludendo a falli disincarnati e alla mitologia antica, il dipinto presenta un utilizzo di tropi e simbolismo freudiani legati alle teorie sul feticismo e sull’angoscia da castrazione, così come di vari registri e marcatori semiotici che segnalano il genere e il sesso. Impegnata nell’esplorazione dell’androginia, Colquhoun sposta e sovverte i desideri eterosessuali maschili che proliferavano nelle correnti maschili del Surrealismo. – LC

1906, Shillong, India – 1988, Lamorna, UK Nata in India da una famiglia di funzionari britannici, Ithell Colquhoun si trasferisce in Inghilterra in giovane età. Si dedica all’arcano per tutta la vita, praticando attività esoteriche alla ricerca della spiritualità femminile divina e studiando l’inconscio e le tecniche artistiche surrealiste, quali l’automatismo. A caratterizzare i suoi dipinti è una fusione tra immagini evocanti sensuali forme di genitali e i paesaggi in cui queste sono immerse, con una precisa esplorazione dei rapporti spirituali femminili con le correnti magnetiche della Terra, spesso a dimostrare la ribellione delle donne e

movimento, infatti, la declamazione assume i toni di una feroce invettiva contro il femminismo di quegli anni e appare come un’accusa a tutte quelle donne che, definite con disprezzo “femmine”, rifiutano di adottare un comportamento virile, violento e crudele per rendersi intellettualmente indipendenti. A dimostrazione della sua coerente adesione ai contenuti del suo primo documento programmatico e ai principi che saranno poi ribaditi nel Manifeste futuriste de la luxure (1913), la stessa de Saint-Point ha un’esistenza assolutamente irrequieta e appare come una donna tanto provocante quanto capace di condurre una carriera artistica versatile. Protagonista indiscussa del circolo culturale parigino, è musa, amica e compagna dei personaggi più in vista delle avanguardie europee e si serve della lussuria, da lei celebrata, come elemento essenziale per misurarsi con tutte le discipline artistiche – dalla pittura alla poesia, dalla letteratura all’incisione. Nel 1914, ormai sfumata la sua fede futurista, de Saint-Point si dedica completamente alla danza e propone una nuova forma di espressione coreutica che definisce Métachorie – dal greco “oltre il coro”. Si tratta di coreografie rese sensoriali dall’uso di proiezioni e profumi, che alternano il movimento alla declamazione di componimenti poetici. Lo spettacolo prevede che la performer entri in scena bendata e, vestita con costumi orientaleggianti o medievali, esegua movimenti e gestualità cosiddette idéiste (ideali); una serie di incisioni su fondo nero ritrae proprio queste pose e, con veloci segni graffiati, documenta l’atmosfera mistica della scena. Ampiamente criticata dagli ex colleghi futuristi, Valentine de Saint-Point abbandona le Méthacorie dopo poche presentazioni teatrali – due delle quali a Parigi e New York – e inizia un peregrinaggio cosmopolita alla ricerca di una nuova identità artistica. Dopo aver cercato di avviare una comunità di intellettuali in Corsica, essersi trasferita in Egitto e aver aderito al Sufismo, muore al Cairo nel 1953, sola e completamente dimenticata. – SM

(p. 108)

VA L E N T I N E D E S A I N T- P O I N T

LISE DEHARME E RAC H I L D E

1875, Lione, Francia – 1953, Il Cairo, Egitto

1898, Parigi, Francia – 1980, Neuilly-sur-Seine, Francia

Durante l’inaugurazione di una mostra di pittura futurista alla Galerie Georges Giroux di Bruxelles nel 1912, l’artista francese Valentine de Saint-Point recita il suo Manifeste de la Femme futuriste, espressione di una delle più radicali e controverse posizioni ideologiche dell’avanguardia. Nata in risposta alla risaputa misoginia del

1860, Cros, Francia – 1953, Parigi, Francia Nonostante siano opere di due scrittrici diverse, le separi più di mezzo secolo e si differenzino per la sensibilità letteraria cui aderiscono, il romanzo decadentista Monsieur Vénus (1884) di Rachilde

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La culla della strega


(pseudonimo di Marguerite Eymery) e quello surrealista Oh! Violette, ou La Politesse des végétaux (1969) di Lise Deharme, sembrano uniti da un’insolita serie di affinità. Oltre a condividere lo scandalo suscitato al momento della loro pubblicazione e la tenacia con cui lo hanno affrontato le loro autrici, entrambi i libri raccontano la storia di due donne dotate di una femminilità dirompente e impostano un curioso parallelismo tra le loro vicende amorose e la natura metamorfica del mondo vegetale. Primo in ordine di pubblicazione, Monsieur Vénus è la storia di Raoule de Vénérande, una nobildonna francese spiccatamente mascolina che, innamoratasi del giovane ed efebico fioraio Jacques Silvert, lo trascina in un ambiguo gioco di dominazione psicologica e fisica. La fluidità di genere dichiarata fin dal titolo del libro è la stessa che guida le avventure onirico-erotiche della giovane protagonista di Oh! Violette, ou La Politesse des végétaux, che nel corso della narrazione dichiara apertamente di leggere una versione introvabile di Monsieur Vénus e, quasi sempre nuda e circondata da piante e fiori, si abbandona alle attenzioni dei suoi ammiratori. A ulteriore dimostrazione della strana parentela che li lega, i romanzi sono scanditi da un corpus visuale concepito dall’artista Leonor Fini. Le trentacinque illustrazioni in bianco e nero contenute nella seconda edizione di Monsieur Vénus, pubblicata nel 1972, richiamano l’audacia degli otto disegni su fondo fucsia che accompagnano la prima uscita di Oh! Violette: in entrambi i volumi, i corpi delle due protagoniste sono spesso nudi e androgini mentre, circondati da un’iconografia vegetale, sono abbozzati con linee sinuose e seducenti tanto simili da colmare la distanza generazionale tra le autrici. Alla fine degli anni Venti, Rachilde si ritira dalle scene parigine dopo averle stravolte con una letteratura considerata pornografica, mentre Deharme si avvicina al circolo surrealista influenzandone lo sviluppo ideologico con le sue narrazioni rivoluzionarie. Non sappiamo se si siano mai incontrate, ma le tante affinità che le accomunano, rimandano alla medesima fierezza con cui le autrici propongono la figura di una donna moderna e imponente. – SM

(p. 110)

M AYA D E R E N 1917, Kiev, Ucraina – 1961, New York City, USA “The beginning is the end” (l’inizio è la fine) è scritto sulla fronte di una donna attorno a un pentacolo – un simbolo occulto a forma di stella che evoca fenomeni magici e l’elemento della terra. La scritta può

essere letta in ciclo continuo: the beginning is the end is the beginning is… (l’inizio è la fine è l’inizio è…), un mantra, forse, per la regista sperimentale Maya Deren, che sceglie l’attrice Pajorita Matta per vagare da un rituale all’altro nel cortometraggio surrealista The Witch’s Cradle (1943). Muto e girato in bianco e nero, è uno dei lavori meno conosciuti di Deren, realizzato poco prima di Meshes of the Afternoon (1943) – quest’ultimo considerato uno dei film sperimentali più influenti nella storia del cinema americano. Deren non termina The Witch’s Cradle, fatto che al contempo lo rende un’opera unica all’interno del suo corpus e gli attribuisce delle spiccate qualità surrealiste. La sceneggiatrice e regista, nel perseguire un risultato molto più mistico, rifugge gli archi narrativi classici, i tempi e i luoghi intellegibili. Il titolo del film richiama il gioco conosciuto come “Culla del gatto”, nel quale due o più persone compongono una varietà di figure intrecciando un elastico. Il filo conduttore in questa storia insolita non è altro che quello stesso filo, uno spago, che si fa strada da una mano furtiva a una stanza buia, serpeggiando sul collo di una giacca per tornare a delle mani aperte, non la culla del gatto, ma la culla della strega. Il film si apre con un primo piano del naso e delle labbra di Matta per poi saltare rapidamente a un uomo, interpretato da Marcel Duchamp, che sembra essere stato chiamato direttamente dalla culla della strega, con lo spago aggrovigliato tra le dita. In un lampo Duchamp scompare e il film taglia su un cuore che batte, un’inquadratura persistente, che rende il pubblico improvvisamente e acutamente consapevole del proprio ritmo interno. Il cuore dello spettatore e il cuore ripreso si fondono in un unico battito sincronizzato e il presente scivola nel passato, verso un momento rivoluzionario del cinema americano. Per Deren, il cinema deve consentire errori, provocare e, in definitiva, creare un’esperienza. La regista è una fiera sostenitrice dell’avanguardia newyorkese e odia Hollywood. Parte integrante della scena bohémienne del Greenwich Village, le sue ricerche artistiche attraversano trasversalmente cinema, danza, poesia, fotografia e teoria. Deren muore troppo giovane, all’età di quarantaquattro anni, ma la sua opera, dai tratti indomitamente femministi, anti-establishment, spirituali e curiosi, lascerà un segno indelebile per generazioni di artisti e cinefili a venire. La fine, per Deren, è anche l’inizio. – IA

(p. 97)

LEONOR FINI 1907, Buenos Aires, Argentina – 1996, Parigi, Francia Nata in Argentina da genitori italiani, all’età di due anni Leonor Fini si rifugia con la madre a Trieste, fuggendo così da un padre oppressivo. Nel corso del tempo, i molteplici tentativi del padre di riportarla in Argentina, tra cui anche un tentato rapimento, la spingono a camuffarsi da ragazzo, gettando le basi per i suoi travestimenti e le sue inversioni di genere. Una malattia, che durante l’adolescenza la costringe a tenere gli occhi bendati per due mesi, stimola lo sviluppo del suo complesso immaginario visivo attinto dai sogni, dalla psiche e dalla pura immaginazione. Negli anni Trenta conosce l’artista Giorgio de Chirico, che le consiglia di trasferirsi a Parigi e le fa conoscere i surrealisti, tra cui André Breton e Salvador Dalí. Fini rifiuta l’invito a unirsi ufficialmente al gruppo, rigettando l’idea tradizionale che Breton ha delle donne. Icona femminista, stravagante e indipendente, Fini, che è solita abbigliarsi in maniera eccentrica e teatrale ornandosi con maschere e vesti strappate, è spesso immortalata nelle fotografie di Lee Miller e Dora Maar. Mentre coltiva l’amicizia con Meret Oppenheim e Leonora Carrington, Fini espone a New York, Parigi e Londra accanto ad artisti del calibro di Max Ernst, e nel 1943 il suo lavoro viene incluso nella mostra 31 Women organizzata da Peggy Guggenheim a New York presso la sua galleria Art of This Century. Fini si costruisce una carriera artistica che, dall’ambito del disegno e della pittura, passa a includere quelli della letteratura e della moda, illustrando diversi libri famosi, lavorando per la stilista italiana Elsa Schiaparelli e disegnando costumi per il balletto, il teatro e il cinema, tra cui quelli per 8½ di Federico Fellini. Fini è interessata al macabro e visita gli obitori per studiare i cadaveri. Questa propensione si traduce in un incontro sensuale con il corpo momentaneamente immobile di Nico Papatakis in L’Alcove. Nel dipinto, Fini, seduta sul bordo del letto, ammira il corpo dell’androgino e sinuoso nudo maschile che riposa castamente in un boudoir incorniciato da voluttuosi drappeggi. Lei posa lo sguardo sulle lunghe dita pudicamente e strategicamente disposte. Invertendo i ruoli, Fini destabilizza i costumi sociali poiché la figura nega le tradizionali caratteristiche maschili: potere, virilità e stoicismo. Esplorando dominazione e sottomissione, Femme assise sur un homme nu (1942) ritrae Fini – vestita con audaci abiti di velluto seduta su un uomo nudo addormentato – mentre torreggia sul paesaggio dello sfondo. Battendosi per un maggiore equilibrio tra il maschile e il femmi-

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nile, cerca di raffigurare la Neue Frau (Donna nuova), rappresentandola in numerosi dipinti attraverso l’immagine della forte figura mitologica della sfinge ibrida: in parte donna, in parte felino. – LC

l’immagine di una figura femminile capace di rendersi fautrice del proprio destino trasformando le sue componenti corporee in potenti armi di riscatto sociale. – SM

(p. 102) (p. 98)

J A N E G R AV E R O L 1905, Ixelles, Belgio – 1984, Fontainebleau, Francia Nonostante l’incondizionata adesione al movimento surrealista belga, la sensibilità artistica di Jane Graverol sembra rivendicare una convinta autonomia stilistica. Del gruppo formatosi intorno al noto pittore René Magritte, Graverol ricalca soprattutto la costruzione di immaginari onirici e concettuali ma, in maniera inedita rispetto ai colleghi uomini, produce composizioni in cui prevale una figura femminile fiera e decisa. Mentre gli esponenti del Surrealismo sono soliti riferirsi alla donna come una musa idealizzata e mansueta, Graverol propone la rappresentazione di un corpo erotico che, quando non emerge dal paesaggio naturale o appare come un’illusione ottica, assume sembianze animalesche tra il grottesco e il fantastico. Angeli, fenici, draghi e altre creature alate, abitano i suoi lavori pittorici fin dalle prime sperimentazioni ma diventano ricorrenti intorno agli anni Sessanta, quando l’artista avvia nuove sperimentazioni tecniche. Accanto alla pittura a olio, all’acquerello e ai pastelli, il collage le permette di accostare immagini prelevate da libri o riviste e, grazie alla natura ibrida del montaggio, di esprimere al meglio il processo di metamorfosi che impegna la maggior parte dei suoi soggetti femminili. La sfinge nell’École de la vanité (1967), incarna precisamente questa estetica e, esasperando l’ambiguità dell’icona mitologica ritratta anche in un piccolo quadro alle sue spalle, restituisce l’immagine di una femminilità mostruosa ma consapevole della propria sensualità. Sebbene le sue viscere siano grovigli di ingranaggi meccanici e il suo corpo sia dotato di ali e coda, il viso è delicato e seducente come il fiore che tiene tra le zampe. Senza volerla considerare un difetto, Graverol propone questa vanità come uno strumento essenziale per la donna moderna e individua la direzione dell’emancipazione nei suoi innesti mito-logici e tecnologici. D’altronde la sensibilità artistica di Jane Graverol ha radici profonde nel contesto culturale di metà Novecento e non può prescindere da quella fiducia nel progresso che ha guardato alla tecnologia come un fondamentale alleato. La metamorfosi in un corpo ibrido – contemporaneamente naturale, artificiale e fantastica – restituisce

FLORENCE HENRI 1893, New York City, USA – 1982, Compiègne, Francia In uno dei suoi autoritratti, datato 1928, probabilmente il più famoso, l’immagine di Florence Henri si riflette su uno specchio verticale alla cui base sono poggiate due sfere metalliche: con le braccia conserte che poggiano su un tavolo in legno e il volto incorniciato da una pettinatura maschile, l’artista contempla la sua figura con uno sguardo quasi rassegnato all’idea di dover fare i conti con il proprio aspetto. Nonostante Henri abbia sempre rifiutato qualsiasi concettualizzazione delle sue fotografie, questo iconico ritratto sembra essere la rappresentazione di una femminilità complessa, ibrida e molto diffusa nella società postbellica, che l’artista ha conosciuto nel corso dei tanti soggiorni europei. Nata in America e cresciuta a Roma, Henri decide di trasferirsi a Berlino appena ventenne e, affascinata dal modello femminista della Neue Frau (Donna nuova), costruisce la propria immagine in maniera sfaccettata. Come tante artiste della sua generazione, gioca con i propri tratti fisionomici per raggiungere un’identità fluida: per la fotografa, il corpo è un assemblaggio di segni che, come nelle composizioni astratte della prima formazione pittorica, possono essere smontati e rimontati, svelati e mascherati per ottenere una continua metamorfosi identitaria. Più che alle avanguardie storiche, tuttavia, gli scatti in bianco e nero dell’artista americana si ricollegano alla sensibilità del New Vision Movement (o Neue Sehen) che, formalizzato intorno al 1927 da László Moholy-Nagy, nello stesso periodo in cui Henri frequenta i corsi estivi alla Bauhaus, promuove uno sguardo fotografico caratterizzato da un forte sviluppo compositivo e da una sensibilità spiccatamente surrealista. Anche quando non sono autoritratti o non rappresentano iconici corpi di donne, le immagini di Henri insistono su un’ambiguità spaziale o compositiva che, grazie all’uso di oggetti di scena, come specchi e altri materiali riflettenti, e alla gestione di tecniche fotografiche, come esposizione multipla e fotomontaggio, crea un continuo dialogo tra realtà e finzione. In seguito al trasferimento parigino negli anni Trenta, molte fotografie sono nature morte o romantici paesaggi archeologici che rifuggono il simbolismo surrealista, pur

essendone irreversibilmente pervase. Che si tratti del frammento di una statua greca davanti al mare o di un qualunque oggetto allo specchio, le immagini mettono in scena una costante tensione tra polarità e, alludendo a categorie opposte come maschile e femminile, natura e artificio, vita e morte, provano a immortalarne il punto di equilibrio. – SM Questa artista è presente anche in La seduzione del cyborg, cfr. p. 507.

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LOÏS MAILOU JONES 1905, Boston, USA – 1998, Washington, D.C., USA Per quasi sette decenni, Loïs Mailou Jones – pittrice, insegnante, intellettuale – costruisce un percorso artistico eclettico, la cui profonda influenza ha unito generazioni di artisti afroamericani nel corso del XX secolo, dall’Harlem Renaissance all’AfriCOBRA. Nata a Boston da una famiglia della classe media, Jones è la prima donna di colore a laurearsi alla School of the Museum of Fine Arts; in seguito, per quasi mezzo secolo, insegna arte alla Howard University, epicentro della vita intellettuale nera a Washington. Il suo percorso artistico si consolida prevalentemente grazie ai soggiorni estivi ad Harlem a metà degli anni Trenta e Quaranta, un anno sabbatico a Parigi tra il 1937 e il 1938, frequenti visite ad Haiti per insegnare, studiare e dipingere, e ai viaggi nel continente africano negli anni Settanta. Nel corso della sua carriera, Jones mantiene un legame costante con l’estetica e i motivi cerimoniali africani, compresi i tessuti a disegni geometrici e le kifwebe, maschere striate appartenenti alla cultura Songye dell’Africa centrale, e le maschere lucide Dan della Costa d’Avorio e della Liberia. Il tempo trascorso a New York e Parigi si rivela decisivo per l’elaborazione personale di questa forma di linguaggio visivo. Durante gli anni Trenta e Quaranta – periodo in cui entrambe le città rappresentano una fonte di ispirazione intellettuale e creativa per artisti, scrittori e pensatori associati ai movimenti dell’Harlem Renaissance e della Négritude – i contemporanei leggono spesso una visione futuristica della modernità nelle forme tradizionali di arte plastica africana, in particolare maschere e tessuti. Mentre alcuni artisti operano con l’estetica di un’Africa per lo più immaginata, altri cercano di rappresentare l’arte e la cultura africane in modi complessi che evitano l’esotismo e l’appiattimento modernista. In tutta la sua opera, Jones è alle prese proprio con questo problema. La puntuale ricerca di un linguaggio visivo

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appropriato per i suoi incontri diasporici è evidente in Africa (1935), un dipinto raffigurante tre donne – il soggetto maggiormente ricorrente in Jones – dai lineamenti cesellati, gli occhi chiusi simili a squarci ed elaborati gioielli d’oro, circondate da una vegetazione lussureggiante. I tratti allungati e l’assenza di espressione del trio evocano quelli che spesso si osservano sulle maschere africane, un tema che esplora anche in opere celebri come Les Fétiches (1938). In questo dipinto, Jones rende omaggio al ruolo fondamentale dell’Africa nell’immaginario culturale degli artisti afroamericani dell’epoca, in particolare per le artiste della diaspora, portatrici di molteplici identità. – MW

monolitici elementi architettonici o, come sottolinea il titolo, due figure astratte unite in un abbraccio. L’occhio fotografico di Kar sottrae questi candidi resti organici dal loro contesto originale – probabilmente un macello – per caricarli di un pathos narrativo drammatico e introspettivo che diventerà la sua cifra stilistica. Nel 1960, quando espone oltre centoquaranta dei suoi scatti nella prima mostra fotografica mai organizzata alla Whitechapel Gallery di Londra, Ida Kar dimostra definitivamente che anche nei tanti ritratti di artiste e artisti che caratterizzeranno gli ultimi vent’anni della sua carriera, il suo interesse è sempre quello di analizzare la realtà, dominarla e spesso sovvertirla. – SM

(p. 108)

I DA KA R 1908, Tambov, Russia – 1974, Londra, UK Una delle più iconiche immagini realizzate dalla fotografa Ida Kar è uno scatto in bianco e nero in cui, da un fondo drammaticamente scuro, emerge il calco candido di due mani femminili perfettamente dettagliate. I loro palmi sono congiunti e rivolti verso l’alto a formare una concavità, letteralmente incorniciati da un cordolo di materiale grezzo. La piccola scultura sembra avere tutte le caratteristiche per apparire come una reliquia religiosa o un prezioso reperto archeologico, ma il titolo dell’immagine Surreal Study (1947) sospende qualsiasi interpretazione definitiva e incoraggia lo sviluppo di riflessioni più libere e ambigue. Nel segno della lezione surrealista del dépaysement (straniamento), nulla impedisce di interpretare questa sacrale gestualità come il simbolo di una femminilità materna o come l’impronta di una magica metamorfosi che ha trasformato in pietra il corpo di una donna. Nel corso dei dieci anni precedenti, non a caso, Kar milita tra le fila del gruppo surrealista egiziano conosciuto con il nome Art et Liberté e, tra il Paese africano in cui si era trasferita appena tredicenne con la famiglia e un lungo soggiorno a Parigi, imposta una ricerca fotografica finalizzata a scardinare qualsiasi gerarchia semantica. Accanto alla ritrattistica per cui è maggiormente conosciuta, tra gli anni Trenta e Quaranta l’artista realizza una serie di fotografie approssimativamente definibili come nature morte, che riportano oggetti di uso più o meno quotidiano suggerendo un’interpretazione alternativa, spesso emotiva, delle loro fattezze. L’opera intitolata L’Étreinte (1940), ad esempio, fotografa due ossa prelevate da qualche scheletro animale che, ancora unite da brandelli di carne e posizionate in verticale una accanto all’altra, ricordano due

tonalità delle poche foglie che ne completano i rami, i protagonisti di Untitled (crocodile, fish, bird) vivono in una fiabesca armonia circondati dagli stessi elementi vegetali. Nel 1929, quando vengono presentati al Palazzo delle belle arti di Bruxelles insieme a una sessantina di altri lavori, i due disegni di Lubaki riscuotono un grande successo e vengono considerati come il più spettacolare esempio di una creatività al tempo considerata esotica. Quando alcuni detrattori sostengono che i suoi disegni siano opera di un impostore europeo, la fama dell’artista si esaurisce nell’arco di poco tempo, ma le sue opere coincidono ancora oggi con una sensibilità inedita nel panorama artistico moderno e, con il loro immaginario ancestrale e naturale, sembrano rappresentarne genuinamente un’opzione alternativa. – SM

(p. 106)

ANTOINET TE LUBAKI (p. 107)

1895, Bukama, Stato Libero del Congo (attuale Repubblica Democratica del Congo) – n.d. Antoinette Lubaki nasce a Bukama, un villaggio dello Stato Libero del Congo, negli stessi anni in cui Leopoldo II del Belgio, mascherato da filantropo, imperversa sui territori africani con una sanguinosa dittatura destinata a ridurre in schiavitù milioni di abitanti. Sebbene i suoi coloratissimi disegni non riportino particolari tracce delle atrocità subite dal popolo congolese, la storia di Lubaki sembra essere profondamente influenzata dal fascino esotico che gli europei riconoscono nella sua arte e, più in generale, dallo sguardo etnografico con cui si rivolgono a tutte le artiste e gli artisti delle colonie. Nel 1926, durante una missione militare, l’ufficiale e collezionista belga Georges Thiry si imbatte nei dipinti murali con cui Antoinette Lubaki e il marito Albert decorano le capanne del villaggio di Bukama e, intuendo l’interesse che i loro disegni avrebbero potuto suscitare in Belgio, fornisce loro il materiale necessario per replicarli su carta. L’attenzione di Thiry è rivolta inizialmente ad Albert ma si estende anche alla moglie, quando quest’ultima avvia una produzione autonoma firmando i suoi lavori come “Antoinet”. Negli anni successivi, l’artista realizza un disegno dopo l’altro con scene ispirate a storie, proverbi e sogni congolesi; le vivaci silhouette che popolano questi lavori fluttuano letteralmente nel foglio e, disposte all’interno di cornici che delimitano lo spazio della narrazione, sono campite con poche e veloci pennellate di colore naturale (soprattutto argilla, carbone e caolino). Tutti i disegni di Lubaki si caratterizzano per un’estetica onirica che alterna motivi floreali a figure di persone e animali. Mentre le tre figure di Untitled (three characters under a tree) gravitano attorno a un albero stilizzato acquisendo le stesse esuberanti

B AYA M A H I E D D I N E 1931, Fort de l’Eau (attuale Bordj El Kiffan), Algeria – 1998, Blida, Algeria La prima mostra personale di Baya Mahieddine, nata Fatima Haddad, si tiene presso la Galerie Maeght di Parigi nell’autunno del 1947, quando l’artista ha appena sedici anni. Dopo un’infanzia trascorsa in Algeria, raggiunge la capitale europea al seguito di Marguerite Caminat Benhoura, un’intellettuale e archivista francese che l’ha adottata fornendole un’istruzione e incoraggiandone la creatività. Così giovane e dotata, Baya è subito celebrata dall’avanguardia parigina e, almeno fino al suo ritorno in Algeria nel 1953, ottiene i più entusiastici apprezzamenti dai protagonisti assoluti della scena artistica internazionale – primo tra tutti André Breton, che scrive il testo di accompagnamento per la sua prima mostra. Mentre i surrealisti e i fauvisti riconoscono in lei una fusione genuina tra le estetiche primitive e naïve che ricreano nei loro lavori, la sensibilità di Baya sfugge a qualsiasi categorizzazione e assume caratteri unici e suggestivi, vagamente riconducibili a un mondo fiabesco. Fatta eccezione per alcune piccole sculture in ceramica, i suoi lavori sono per lo più dipinti su cartone e, con tinte vivaci e brillanti, rappresentano lussureggianti paesaggi naturali abitati da sole donne riccamente vestite e decorate con tipici motivi magrebini che ricordano l’immaginario delle Mille e una notte. I loro occhi affusolati sembrano nascondere la stessa furbizia dell’eroina Shahrazād mentre, simili ai tradizionali occhi di Horus egiziani o alle hamsa (mano di Fatima), descrivono una femminilità in perfetta comunione con la natura. Le donne di Baya sono al centro di un processo metamorfico in cui uccelli,

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fiori e piante non sono solo semplici motivi ornamentali, ma innesti vegetali e animali che restituiscono l’idea di un corpo in perenne trasformazione. Il luminoso abito giallo che veste la donna di Femme robe jaune cheveux bleus (1947) emerge dalle tinte crepuscolari dello sfondo mentre sembra aggredito da quattro pavoni e una farfalla; lo sguardo severo della Femme robe à chevrons (1947) è completato dall’occhio dello strano uccello con cui sembra accoppiarsi; e infine il moto di linee continue e ondulatorie che attraversano Femme au panier et coq rouge (1947) suggellano l’unione tra le piume di un gigantesco gallo e il vestito della donna che lo affianca. Dietro l’immagine di una natura rigogliosa e ingovernabile, queste favole senza uomini nascondono una figura femminile fiera, decisa e indipendente come la giovane Baya. – SM

abito dai contorni sfocati che punta un dito verso l’alto; mentre una grande mano incombe sulla composizione come fosse una mostruosità evocata dalla donna-strega, sul tavolo accanto a lei, oltre a un libro aperto e un posacenere a forma di cuore, è posato un grande mazzo di fiori. Tra questi ce n’è uno di magico, come l’intera composizione: Nadja lo chiama “la fleur des amants” e, disegnando i suoi petali come fossero coppie di sguardi, lo ripropone in molti dei suoi lavori a sigillo del suo amore. In una delle lettere recapitate a Breton, ad esempio, il fiore si trova tra le fauci di un serpente e, sbocciando accanto alla scritta “l’enchantment de Nadja”, dichiara che le forze occulte da cui è alimentato vanno ben oltre la follia che il mondo moderno attribuisce alla sua autrice. – SM

(p. 106)

AMY NIMR (p. 102)

NADJA

1898, Il Cairo, Egitto – 1974, Parigi, Francia

1902, Saint-André-lez-Lille, Francia – 1941, Bailleul, Francia

All’inizio degli anni Trenta, quando Amy Nimr torna in Egitto dopo una formazione pittorica in Inghilterra e diverse occasioni espositive insieme ai surrealisti inglesi e francesi, Il Cairo è attraversata da un inedito fervore artistico che porterà alla nascita del collettivo conosciuto con il nome di Art et Liberté nel 1938. In pochi anni, l’artista si avvicina ai principi ideologici rivoluzionari che guidano il ceppo egiziano dell’avanguardia e, grazie alla sua formazione cosmopolita e ai tanti contatti con le artiste e gli artisti europei, diventa una delle personalità fondamentali per la diffusione della sensibilità surrealista. Come richiede il provocatorio manifesto del movimento datato 1938 Long Live Degenerate Art, anche i lavori dell’artista propongono l’immagine di una realtà inquietante e per tutta la sua carriera si distinguono per il pathos e la durezza espressiva con cui Nimr ritrae l’inesorabile precarietà del corpo umano. L’artista sembra proiettare se stessa tra le febbrili pennellate della pittura a gouache e, secondo quello che i membri di Art et Liberté definiscono “realismo soggettivo”, dimostra di esplorare il mistero della realtà lasciandosi guidare dagli umori della propria esperienza.

Nel 1926, quando incontra André Breton davanti all’Hôtel du Théâtre di Parigi e con lui trascorre dieci giorni di piacevoli e trasognati confronti, Léona Delcourt ha ventiquattro anni e ha scelto di chiamarsi Nadja perché lo pseudonimo è l’inizio – e a suo dire “solo l’inizio” – della parola russa nadežda, speranza. Si è trasferita nel capoluogo francese dopo essere stata cacciata dalla famiglia per una gravidanza non desiderata e, ormai madre di una bambina di cinque anni, dissimula la sua miseria grazie a un fascino innato e una spiccata irrazionalità. Più che una semplice flâneuse, Nadja appare agli occhi di Breton come l’incarnazione della musa surrealista, tanto che nell’omonimo romanzo autobiografico pubblicato nel 1928, la descrive come sospesa tra la più affascinante creatività e la più inquietante follia. Nel corso dell’anno successivo ai loro incontri parigini, prima del suo ricovero in manicomio nel 1927, Nadja recapita a Breton ventisette lettere in cui si abbandona a ricordi, pensieri d’amore, rimproveri, scarabocchi e disegni, su cui imprime lo stampo delle sue labbra con un rossetto rosso. Per quanto appaiano come la prova delle più caotiche elucubrazioni, i messaggi contenuti in questa corrispondenza sono la traccia verbo-visuale di una sensibilità perfettamente in linea con il Surrealismo, in cui Nadja sembra infatti capace di coniugare l’automatismo psichico proposto dall’avanguardia, con un simbolismo personale difficilmente decifrabile. In un disegno a matita che sembra un autoritratto, raffigura una donna vestita con un lungo

Secondo un’iconografia ricorrente, ad esempio, Untitled (Fish and Skeletons) (1936) e Untitled (Underwater Skeleton) (1942) ritraggono alcuni scheletri che fluttuano negli abissi più profondi. Mentre le carcasse raffigurate in entrambe le opere siconfondononelletenebrebluastredell’ambiente marino, pesci e piante dall’aspetto sinistro sembrano impegnati a cibarsi dei brandelli di carne ancora attaccati alle ossa. Tutti gli elementi naturali sono rappresentati con estrema precisione e, come usciti da un

bestiario o erbario, conferiscono alla scena un’inquietudine ancora più vivida. Dopo che nel 1943 una mina antiuomo uccide il figlio di otto anni e la crisi di Suez del 1956 la costringe a lasciare l’Egitto alla volta di Parigi, Nimr si rifugia in un immaginario introspettivo ancora più crudo e viscerale. Gli angeli rosso sangue o le figure completamente astratte che realizza in questo periodo diventano lo strumento catartico per liberarsi dal peso di una vita drammatica e, attraverso una natura onirica e metamorfica, raggiungere la libertà tanto celebrata dal Surrealismo egiziano. – SM

(p. 108)

MERET OPPENHEIM 1913, Berlino, Germania – 1985, Basilea, Svizzera Meret Oppenheim si avvicina al Surrealismo neppure ventenne quando, nel 1932, lascia la Svizzera alla volta di Parigi e frequenta i maggiori esponenti dell’avanguardia. Agli occhi di André Breton, Marcel Duchamp, Max Ernst e degli altri esponenti del gruppo tutto al maschile, la giovane artista deve essere apparsa come la quintessenza della bellezza surrealista. Alcune immagini scattate da Man Ray nell’anno del suo trasferimento parigino, infatti, la ritraggono come una perfetta femme fatale mentre, completamente nuda, è impegnata nella lettura di un libro o gira la leva di un torchio con le braccia sporche di inchiostro. Pur essendo tra le poche artiste immediatamente riconosciute dal movimento, Oppenheim considera il Surrealismo come un perimetro ideologicamente permeabile e, sentendosi libera di perseguire qualsiasi sperimentazione, propone i suoi lavori come il frutto di una ricerca aperta, alternativamente interessata all’onirico, all’ironia, alla morte, alla femminilità e alla natura. Nel 1936, dopo soli tre anni dal suo esordio artistico, Oppenheim inaugura la sua prima mostra personale presso la Galleria Marguerite Schulthess di Basilea e presenta l’opera Ma gouvernante (1936): due scarpe bianche con il tacco che, legate con lo spago come fossero un arrosto, vengono posizionate con la suola verso l’alto sopra un vassoio in metallo. La piccola scultura, che insieme alla tazza rivestita di pelo in Déjeuner en fourrure (1936) è tra le prime e più iconiche opere dell’artista, descrive perfettamente la traiettoria estetica cui Oppenheim si dedicherà nei successivi anni. Infatti, eccezion fatta per un periodo di rallentamento produttivo dovuto a una difficile depressione che la accompagna negli anni Cinquanta, tutti i suoi lavori coincideranno con degli assemblaggi di materiali differenti e, anche quando non propriamente scultorei, saranno in grado di generare ambiguità e

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spaesamento nell’osservatore. Il disegno Der Spiegel der Genoveva (1967), ad esempio, rappresenta la strana metamorfosi di una figura evidentemente femminile che, con le labbra carnose, sembra trasformarsi in un animale, forse un bovino. L’effetto è ottenuto abbinando il volto della donna con una lunga zampa pelosa che, facendole da collo, si conclude con uno zoccolo unghiato. Probabilmente ispirato alla magia che contraddistingue anche l’opera lirica Genoveva (1848) – l’unica composta dal tedesco Robert Schumann –, il lavoro insiste su un immaginario perturbante e dichiara che qualsiasi materiale, estrapolato dal contesto originale, può acquisire una nuova dignità simbolica. – SM

(p. 100)

VA L E N T I N E P E N R O S E 1898, Mont-de-Marsan, Francia – 1978, Chiddingly, UK Nel 1951 la scrittrice e artista Valentine Penrose pubblica Dons des féminines, un libro che racconta il viaggio in Oriente di due donne dell’alta borghesia europea e alterna brevissime poesie bilingui, in francese e inglese, a tavole di collage estremamente dettagliate. Il poliedrico risultato verbo-visivo risponde perfettamente alle tematiche proposte dal Surrealismo ma, realizzato a distanza di trent’anni dalle prime ricerche del movimento, estremizza la sensibilità disinibita e indipendente delle tante donne che si avvicinano all’avanguardia a partire dai tardi anni Trenta. I doni cui allude il titolo del libro, d’altronde, coincidono con la libertà e l’autonomia rivendicate dalle protagoniste Maria Elona e Rubia, che viaggiano sole, vestono abiti maschili e vivono la loro relazione d’amore omosessuale senza inibizioni. L’intimità tra le due donne emerge dal simbolismo del componimento poetico e, forse ispirata all’affetto per l’artista Alice Rahon con cui Penrose intraprende un simile viaggio in India nel 1936–1937, viene confermata dagli eccentrici e stravaganti collage. Queste opere associano immagini estrapolate da riviste di scienza e moda per costruire paesaggi incantati in cui fiori, piante, animali e mostruosità fanno da sfondo al viaggio delle due donne. Grazie all’atmosfera onirica e surreale, i corpi di Maria Elona e Rubia sembrano affrontare un percorso di scoperta che, insieme all’aspetto culturale dell’avventura, descrive le conseguenze di un più intimo coinvolgimento mentale. Pur non facendo parte della narrazione di Dons des féminines e, anzi, precedendola di una ventina d’anni, anche i collage in mostra, esteticamente vicini ai noti lavori

di Max Ernst, sembrano fatti della stessa materia onirica e hanno tutta l’aria di essere allucinazioni. Realizzati agli inizi degli anni Trenta e prima ancora che il marito e artista surrealista Roland Penrose si risposi con la fotografa Lee Miller, i collage rimandano a un’inquietudine tanto biografica quanto fantastica. Le due donne che si confrontano nel lavoro Ariane (1934), ad esempio, sono inserite in un paesaggio naturale, mentre con i loro corpi incorniciano una città in lontananza. L’ordinarietà della scena è tuttavia interrotta dalla presenza di uno strano insetto dorato dotato di ali, antenne e due gambe umane. La bizzarra creatura condiziona lo sviluppo della composizione in maniera non dissimile dalla statua-comò che fluttua sul paesaggio montuoso del lavoro La Stratégie militaire (1934). A prescindere dalle specificità narrative, infatti, entrambe le figure bric-à-brac rompono l’equilibrio dell’immagine ricordando l’impeto inaspettato con cui l’inconscio irrompe in qualsiasi episodio della realtà, anche il più familiare. – SM

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su sfondi fluttuanti, per lo più con cromie legate alle tonalità della terra. Per Rahon c’è una magia nell’arte preistorica in grado di aprire varchi nel tempo e mettere in relazione il mondo visibile con quello invisibile. Questi punti di accesso verso il mondo invisibile assumono molteplici forme. Nel 1946, un anno dopo le bombe atomiche su Hiroshima e Nagasaki, Rahon crea un balletto ispirato al cosmo, forse influenzato dalle competenze astronomiche degli antichi Maya. Nel balletto cinque personaggi, fra cui il The Juggler (un mago) e Androgyne (un essere di genere non binario), meditano sulla nascita della vita dopo la distruzione del pianeta. I personaggi sono prima ideati come dipinti in gouache su carta, quindi realizzati a forma di marionette tridimensionali fatte di fili metallici. Rahon è capace di incanalare l’energia spirituale di culture antiche nel suo presente, lacerato dalla guerra, e ci riesce tramite una miriade di espressioni artistiche. – IA Questa artista è presente anche in Corpo orbita, cfr. p. 173.

ALICE RAHON 1904, Chenecey-Buillon, Francia – 1987, Città del Messico, Messico Alice Rahon è parte del gruppo surrealista che ha vissuto e operato a Città del Messico a partire dalla fine degli anni Trenta del XX secolo. Sfollati a causa della Seconda guerra mondiale, Rahon e il marito, il pittore Wolfgang Paalen, lasciano la Francia nel 1939, raggiungendo, fra gli altri, André Breton, Leonora Carrington e Remedios Varo, oltre agli artisti messicani locali come Frida Kahlo, Diego Rivera e Manuel Álvarez Bravo. In esilio, Rahon e i suoi compagni trovano un senso di comunità e accoglienza e la loro opera artistica viene permeata dal paesaggio, dalla storia indigena e dall’eredità artistica del Messico. Rahon adotta un approccio surrealista in tutta la sua pratica, coniugando poesia e mito in una vasta gamma di linguaggi, fra cui la pittura, la scultura, il cinema, la moda, la danza e la letteratura. È affascinata dalla relazione tra l’umanità e il mondo naturale, ma crede anche nel sovrannaturale e nel fantastico. Particolarmente interessante per Rahon è l’arte preistorica e il suo stile artistico deve certamente molto alle pitture del Paleolitico superiore, che ha visto nelle grotte di Altamira in Spagna, oltre che all’arte indigena che può studiare in Messico e in Canada. In alcuni dei suoi dipinti più importanti, come Thunderbird (1946), evoca l’estetica dell’arte preistorica osservata nelle grotte con pennellate gestuali e linee di contorno in grado di tessere una rete di figure simboliche

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C A RO L RA M A 1918 – 2015, Torino, Italia Corpi nudi e frammentati, visi grotteschi e lunghe lingue rosse, membra di animali, protesi di figure umane, sono solo alcune delle immagini che compongono l’universo iconografico di Olga Carolina Rama, meglio conosciuta come Carol Rama, che in oltre cinquant’anni di carriera si è distinta per il suo linguaggio artistico dissacrante, irrequieto e fortemente erotico. Nata in una famiglia della media borghesia torinese, l’artista si avvicina al disegno da autodidatta e, a cavallo tra gli anni Trenta e Quaranta, inaugura una produzione di acquerelli che utilizza come strumento di guarigione da una vita tormentata. Il suicidio del padre nel 1942, le tensioni politiche e la crisi economica antecedenti allo scoppio della guerra, e poi ancora i bombardamenti, lo sfollamento e il ricovero della madre in una clinica psichiatrica vengono trasformati da Rama in immagini potenti, fatte di un segno vibrante e anarchico, che elegge il corpo femminile come la sede privilegiata delle più provocanti tensioni mentali e fisiche. L’artista non prova alcun pudore nel raccontare il dramma emotivo che accompagna la precarietà del corpo umano e, mentre in Nonna Carolina (1936) ritrae la donna con il viso sofferente e il collo pieno di sanguisughe, in Appassionata (1941) raffigura la crisi identitaria delle tante pazienti con cui la madre condivide le giornate in manicomio. Nonostante la

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maggior parte di queste donne sia disorientata ed evidentemente disabile, Rama rappresenta i loro corpi come fossero pervasi da un tale desiderio sessuale da non poter essere controllato neanche quando sono legate, costrette in sedia a rotelle o distese a letto. Completamente nude – a eccezione di un paio di scarpe con il tacco – tutte sono impegnate in espliciti momenti di autoerotismo o si uniscono ad altri pazienti mentre sui loro capelli fioriscono piante rigogliose. Con la loro insolente e ingenua spudoratezza, queste donne sono le eroine dell’immaginario di Rama ma in un panorama artistico conservatore come quello italiano di metà Novecento, diventano anche la causa della censura che subisce la sua prima mostra personale nel 1945 e del conseguente allontanamento da questa iconografia. Anche quando vireranno verso l’Astrattismo Concretista e Informale degli anni Cinquanta e Sessanta, però, le opere di Carol Rama non perderanno mai quella inconfondibile sfumatura “guastata” e “sofferta” che l’artista riconosceva come il riflesso della sua personalità. – SM

il senso di qualsiasi esperienza traumatica, anche quella bellica cui spesso l’artista fa riferimento. Il senso di questa ricerca è ravvisabile nel dipinto The Decoy (1948) in cui, rappresentata in scala pressoché naturale, una mano macilenta pende dal bordo superiore del piccolo quadro ed è circondata – quasi corteggiata – da diverse, coloratissime farfalle. Queste, insieme ai bruchi e alle crisalidi che hanno colonizzato le viscere dell’arto, sembrano contribuire al decorso della sua decomposizione addolcendo l’esperienza. La brillantezza dei colori e la fedeltà scientifica con cui sono riprodotte le specie animali – tutte originarie della Gran Bretagna – prefigurano infatti una rinascita della carne e offrono un’ottimistica prospettiva sull’orrore della sua putrefazione. Mentre gli animali nascono e crescono grazie alla vivisezione del corpo e i suoi vasi sanguigni si trasformano in fibre vegetali, la metamorfosi cui allude Rimmington è quella di una natura resiliente e spettacolare, decadente e affascinante, che fiorisce dalle paure più recondite dell’uomo o ripara i danni da esse causati. – SM

finalmente capace di una creatività vera e, dunque, futurista. L’immagine disegnata da Lucio Venna per la prima ristampa del volume riassume perfettamente le intenzioni dell’autrice e, ritraendo una figura femminile, slanciata e alla moda, descrive Robert come una donna rinvigorita dalla battaglia contro il medico alle sue spalle. Già con la sua partecipazione alla rivista fiorentina “L’Italia futurista” (1916–1918) – e soprattutto nei componimenti paroliberi del 1917 Malattia+infezione e Sensazioni chirurgiche – la scrittrice toscana aveva suggerito una certa corrispondenza tra la salute del corpo e la mente umana. Ma mentre quei contributi miravano a risvegliare le coscienze politiche di un Paese in guerra, Un ventre di donna sottolinea la necessità di considerare il corpo femminile come la sede di una nuova indipendenza e dimostra la possibilità di modificare il proprio destino, accettando anche le più invasive trasformazioni del corpo. – SM

RO SA RO SÀ 1884, Vienna, Austria – 1978, Roma, Italia

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EDITH RIMMINGTON

E N I F RO B E RT

1902, Leicester, UK – 1986, Bexhill-on-Sea, UK

1886, Prato, Italia – 1974, Bologna, Italia

Fino agli anni Trenta del Novecento l’autorità intellettuale del Surrealismo viene esercitata soprattutto in Francia e, solo con la diaspora delle sue artiste e dei suoi artisti, a cavallo tra le due guerre, si diffonde geograficamente servendo da riferimento per le nuove generazioni. Edith Rimmington si avvicina alla tendenza nel 1936 quando, in occasione della prima mostra internazionale surrealista londinese presso le New Burlington Galleries, ha modo di apprezzare le opere dei parigini e aderire al movimento l’anno successivo.

A distanza di pochi anni dalla prima pubblicazione del Manifesto futurista (1909) che celebrava ufficialmente il disprezzo per la donna, un gruppo di artiste tenaci e caparbie si organizza intorno al giornale fiorentino “L’Italia futurista” e, tra il 1916 e il 1918, pubblica articoli e tavole parolibere che sfidano il maschilismo dell’avanguardia italiana. Queste donne dimostrano di condividere la stessa fiducia che i colleghi uomini ripongono nel progresso moderno ma, come sottolinea la produzione letteraria dell’attrice e scrittrice Enif Robert, la adattano con risolutezza all’urgenza della loro emancipazione. Nel romanzo sperimentale intitolato Un ventre di donna. Romanzo chirurgico (1919) Robert racconta la storia di una donna che subisce un intervento di asportazione dell’utero in seguito a una malattia infiammatoria. Il racconto, probabilmente autobiografico, è la cronaca delle sofferenze che la protagonista patisce durante la degenza e – scandito da parole in libertà e lettere di incoraggiamento che l’amico Filippo Tommaso Marinetti le invia dal fronte – descrive l’operazione chirurgica come una guerra personale e femminista. Combattendo i giudizi del suo ginecologo che vorrebbe negarle l’intervento perché contrario a renderla sterile, Robert sottolinea i vantaggi dell’isterectomia e, senza gli organi sessuali, si dice libera della volubilità che la società riconosce nella donna,

Sebbene il ceppo inglese del Surrealismo non rappresenti un fedele travaso dei contenuti francesi né sia destinato alla medesima unità stilistica, l’estetica di Rimmington si avvale degli stessi immaginari onirici con un’attenzione alle teorie freudiane: i suoi dipinti e collage sono disseminati di allegorie critiche che riproducono la decadenza della società o gli scempi sociali a lei contemporanei. Nel segno della più pura ricerca surrealista, il sogno, la fantasia e l’esuberanza sono gli strumenti per redimere anche la realtà più respingente e, nei lavori di Rimmington, coincidono con una serie di figure antropomorfe o frammentate. Queste mostruosità abitano architetture fatiscenti o derelitte ma dotate di particolari capacità, come la lettura dei sogni (The Oneiroscopist, 1947), incarnano la possibilità di ribaltare

Rosa Rosà è lo pseudonimo futurista che l’artista Edith von Haynau adotta intorno al 1908 quando, arrivata in Italia dalla capitale austriaca, rinuncia ai privilegi del suo lignaggio aristocratico e milita con piglio femminista sulle pagine dell’“Italia futurista”. Come molte artiste e scrittrici che negli anni del primo conflitto mondiale si radunano intorno al giornale fiorentino, anche Rosa Rosà pubblica testi e tavole parolibere sfidando la nota misoginia che caratterizza l’avanguardia italiana per promuovere una figura femminile fiera, libera ed emancipata. Tra gli articoli più audaci scritti per la testata Le donne del posdomani (1917) è sicuramente il più ispirato e, anticipando le tematiche proposte negli scritti successivi, esalta il coraggio e l’eroismo con cui le donne sostengono il peso della guerra invitandole a conservare la stessa tempra anche quando i loro mariti saranno tornati dal fronte. In una versione aggiornata pubblicata qualche mese più tardi con lo stesso titolo, Rosà auspica addirittura un completo stravolgimento delle convenzioni di genere e invita le “donne del posdomani” ad assumere un atteggiamento metaforicamente più virile, che le aiuti a non cadere vittime di un’esperienza totalizzante come quella della maternità. Le argomentazioni di questo secondo articolo sono accompagnate da un’illustrazione astratta che trasmette l’impeto delle parole usate nel testo. Il titolo Conflagrazione geometrica, scritto in stampatello verticale sul bordo destro del disegno, aiuta a leggere il contributo visivo come

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uno scenario di forze contrapposte che, formate da figure geometriche bianche e nere, sembrano rappresentare le tumultuose metamorfosi sociali, fisiche e psicologiche affrontate dalla donna futurista. Oltre a fornire un’immagine della condizione femminile, questo lavoro è traccia della versatilità che contraddistingue la produzione artistica di Rosà: prima ancora di dedicarsi alla scrittura, infatti, “la geniale viennese” come la apostrofa affettuosamente Marinetti, è un’illustratrice, una ceramista e una scultrice e, con la sensibilità decadentista e liberty della sua formazione mitteleuropea, approccia il Futurismo con un inedito taglio eclettico. Come le colleghe del gruppo fiorentino chiamato Pattuglia Azzurra, Rosà affronta l’avanguardia con posizioni ben lontane dall’impeto guerrafondaio dei colleghi uomini e, sia nei suoi accorati scritti, sia nelle più astratte composizioni verbo-visuali, assume toni intimi o mistici per incoraggiare una donna indipendente soprattutto sul piano spirituale. – SM

Sing, all’epoca unanimemente considerata l’inno degli afroamericani, Savage trasforma il canto in una scultura monumentale, che gli organizzatori della fiera ribattezzano The Harp. Alto quasi cinque metri, l’enorme calco in gesso è rifinito in maniera tale da farlo sembrare un blocco di basalto nero, da cui cantori dalle vesti finemente plissettate si elevano come colonne di altezze graduate. Queste figure simboleggiano le corde di un’arpa e ripropongono il messaggio liberatorio della canzone di Johnson. La cassa di risonanza ha la forma di un braccio, mentre un uomo, che indossa pantaloni e scarpe ordinari, si inginocchia per invitare il pubblico a entrare nell’estasiante territorio creato da The Harp. Savage impiega due anni per completare l’opera, che al suo debutto nel 1939 riceve consensi unanimi. Tuttavia non vengono raccolti fondi sufficienti per la fusione in bronzo, né per conservarla. Viene distrutta al termine dell’esposizione e oggi rimangono solo i modelli preparatori, incluso il bronzo presentato a Venezia, come ricordo della colossale potenza di questa fondamentale opera dell’Harlem Renaissance. – MW

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A U G U S TA S AVA G E 1892, Green Cove Springs, USA – 1962, New York City, USA Augusta Savage è considerata una delle grandi artiste, educatrici e attiviste dell’Harlem Renaissance, movimento nel quale costruisce la sua carriera pionieristica come scultrice e mentore di una formidabile nuova generazione di giovani artiste e artisti di colore, tra cui Jacob Lawrence, Gwendolyn Knight, Norman Lewis, Robert Blackburn e Romare Bearden. Cresciuta nei sobborghi di Jacksonville in Florida, Savage (al secolo Augusta Christine Fells) è figlia di un povero pastore metodista, la settima di quattordici figli. Quando si trasferisce a New York nel 1921, ha con sé solamente 4 dollari e 60 centesimi; trova lavoro come custode di un palazzo mentre frequenta l’Università Cooper Union. Nel 1931, dopo un periodo a Parigi, l’artista, motivata da un forte senso civico, comincia a offrire lezioni gratuite di pittura, disegno e scultura nel suo studio di Harlem; nel frattempo contribuisce a fondare e dirige l’Harlem Community Art Center. Molti dei lavori miliari di Savage sono espressivi busti che ritraggono leader di colore, fra cui W.E.B. Du Bois e Marcus Garvey, ma la sua opera più importante e nota non esiste più. Nel 1937, un anno prima della morte dell’amico James Weldon Johnson, attivista per i diritti civili e poeta, Savage riceve l’incarico di realizzare una scultura per l’esposizione universale dalla Fiera mondiale di New York. Ispirata dalla canzone di Johnson Lift Every Voice and

(p. 95)

D O R O T H E A TA N N I N G

Avatar (1947) ritrae una giovane con gli occhi chiusi che ondeggia su un trapezio circense, mentre il suo vestito, o guscio, modellato dall’assenza del corpo, penzola da un altro trapezio alle sue spalle, in una camera da letto vittoriana tappezzata con carta da parati floreale. Il corpo della ragazza sembra unirsi, in una strana metamorfosi, con una creatura alata, ibrida, biomorfa e provvista di becco; forze sconosciute dell’immaginario inconscio si insinuano nello spazio domestico. La figura sembra essere stata espulsa da un albero che cresce al centro della stanza mentre viene spinta oltre la cornice del dipinto, aggirando così le convenzioni sociali che costringono il corpo della donna entro i limiti della ristretta sfera interiore. Tanning rappresenterà il concetto di metamorfosi per tutto l’arco della sua settantennale carriera artistica, allontanandosi, alla fine, dalla modalità della rappresentazione prevalentemente visiva a favore del materiale e del tattile. Negli anni Cinquanta la sua pittura diviene più astratta, negli anni Sessanta si avventura nella creazione di inquietanti mobili imbottiti che si trasformano in arti umani, mentre verso la fine della sua vita si rivolge sempre più di frequente al linguaggio pubblicando, all’età di novantaquattro anni, il suo primo romanzo, Chasm. – LC

1910, Galesburg, USA – 2012, New York City, USA (p. 103)

Pittrice, scultrice e scrittrice, Dorothea Tanning si avvicina al Surrealismo dopo aver visto la mostra Fantastic Art, Dada, Surrealism (1936–1937) al Museum of Modern Art di New York. A seguito di questo coinvolgente incontro si impegna a conoscere più a fondo i surrealisti, fuggiti dall’Europa durante la Seconda guerra mondiale all’inizio degli anni Quaranta. Il riconoscimento della sua arte avviene nel 1943, quando Peggy Guggenheim incarica Max Ernst di visitare gli studi di giovani artiste durante l’organizzazione di una mostra tutta al femminile, 31 Women, presso la sua galleria Art of This Century. Tanning ed Ernst si innamorano dopo questo incontro e nel 1946 si sposano in una cerimonia congiunta insieme a Juliet Browner e Man Ray. In una serie di dipinti che uniscono il familiare con l’estraneo, l’artista rivela l’automatismo psichico dei sogni come manifestazione di pensieri repressi relegati nell’inconscio, per esplorare mondi paralleli, paure, desideri e sessualità. In contrapposizione ai ruoli stereotipati imposti alle donne dai colleghi maschi, inclusi quelli della femme enfant e della musa che dominavano il discorso surrealista, le figure femminili di Tanning e delle sue contemporanee, Leonor Fini e Leonora Carrington in particolare, confutano i cliché, rappresentando i perpetui stati cinetici del divenire dell’identità.

T OY E N 1902, Praga, Impero Austro-Ungarico (attuale Repubblica Ceca) – 1980, Parigi, Francia Nel 1925, quando si trasferisce a Parigi e viene in contatto con il centro del Surrealismo internazionale, l’artista Marie Čermínová ha poco più di vent’anni, è un’esponente del movimento di avanguardia ceco conosciuto con il nome di Devětsil ed è la promotrice di una pittura vagamente cubista che, insieme all’amico Jindřich Štyrský, ha battezzato Artificialismo. Da pochi anni ha scelto di chiamarsi Toyen perché lo pseudonimo – neutro come la parola francese citoyen (cittadino) cui si ispira – le permette di evitare le forti connotazioni di genere previste dal linguaggio e di abbracciare un’identità consapevolmente fluida. Oltre a puntare su un’ambiguità grammaticale che, in lingua ceca, la porta a riferirsi a se stessa usando il maschile, Toyen si veste in maniera alternativamente maschile e femminile, dichiara di essere attratta dalle donne e, soprattutto con la sua arte, dimostra di credere in una sessualità senza limiti e confini1. Nonostante l’iniziale scetticismo per gli aspetti onirici del Surrealismo, nella capitale francese Toyen indaga molte tematiche care al gruppo con uno spirito audace e inedito.

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Padiglione Centrale


Dalla più piccola illustrazione fino alla più grande pittura a olio, quasi tutti i suoi lavori rappresentano personaggi fortemente erotici che, anche quando non esplicitamente impegnati in riti orgiastici, rapporti omosessuali o esperienze sadomasochiste, sono inseriti in scenari perturbanti in cui istinti naturali e animaleschi gestiscono l’alternarsi tra femminile e maschile – talvolta in maniera violenta. Le tante donne che popolano questi immaginari, ad esempio, sono alternativamente forti e vulnerabili: pronte a trasformarsi in potenti predatori, vittime di violenze sessuali, o bambole di porcellana in frantumi. Anche i dodici disegni in bianco e nero raccolti nel portfolio The Shooting Gallery (Střelnice) (1939–1940) sembrano confrontarsi con questa doppia natura dell’esperienza umana. In linea con l’ambiguità del titolo – che può riferirsi tanto alle aree di addestramento militare quando alla più ludica attrazione del tiro a segno –, ogni immagine ritrae un diverso scenario postbellico e, tra frammenti architettonici e cadaveri di animali, fa emergere come superstiti giovani ragazze senza volto o enormi giocattoli rotti. Sebbene i testi che accompagnano il lavoro (scritti dagli artisti e colleghi Karel Teige e Jindřich Heisler) aiutino a chiarire che i disegni di Toyen si riferiscono a una fanciullezza in equilibrio tra gioie e drammi, i loro tratti, molto surrealisticamente, si prestano a interpretazioni metaforiche sempre nuove. – SM 1

La fluidità di genere su cui Toyen modella la propria persona, così come le tematiche affrontate dalla sua arte, hanno spesso fatto ipotizzare che la sua identità potesse essere non binaria o trans. Non avendo solide risposte in merito ed evitando di forzare una rilettura del passato attraverso l’applicazione dei più contemporanei e inclusivi codici linguistici, si è preferito riferirsi all’artista utilizzando il femminile. La scelta è in linea con la maggior parte della letteratura sull’argomento ma è consapevole del fatto che esistono altri approcci in merito.

Parigi, in particolare, diventa la meta privilegiata di un movimento diasporico di matrice culturale e accoglie un crescente numero di intellettuali provenienti dall’Africa e dai Caraibi. Si tratta di esponenti di una piccola borghesia coloniale che, arrivati nella capitale francese per studiare, predicano la necessità di riscoprire le proprie comuni radici africane al fine di usarle come strumento di emancipazione sociale. Nel tentativo di diffondere le proprie idee, molte attiviste e molti attivisti fondano delle snelle riviste artistico-letterarie destinate a divenire le tribune dei più accesi dibattiti ideologici. Sulle pagine di una di queste, “L’Etudiant noir” (1935), il poeta martinicano Aimé Césaire sottolinea i disastrosi effetti culturali del progetto coloniale francese e sostiene che la nuova gioventù nera sia pronta a celebrare la propria Négritude nell’arte e nella letteratura. Nonostante i più scettici siano preoccupati del rischio di una nuova forma di isolamento, le parole di Césaire suscitano grande ottimismo e, nel raggiungere le colonie, danno avvio al primo movimento intellettuale panafricano del mondo francofono. La battaglia per l’orgoglio razziale ricalca gli stessi principi umanistici anche quando il poeta torna a Martinica e, insieme alla moglie Suzanne Césaire e all’amico René Ménil, nel 1941 fonda la rivista culturale “Tropiques”. Per quattro anni il progetto editoriale pubblica poesie, saggi e novelle delle maggiori autrici e autori internazionali di origine africana e – in maniera del tutto singolare – adotta un approccio surrealista. Tuttavia, mentre l’avanguardia francese promuove una fantasiosa fuga dal reale, la redazione di “Tropiques” sembra mirare a obiettivi più poeticamente militanti. Anche a detta di Suzanne Césaire, in effetti, onirico e metaforico sono gli unici strumenti per superare le squallide antinomie tra bianchi e neri, tra europei e africani. – SM

(p. 95)

“ T RO P I Q U E S ”

R E M E D I O S VA R O

1941 – 1945, Fort-de-France, Martinica

1908, Anglès, Spagna – 1963, Città del Messico, Messico

A partire dagli anni Venti, le comunità di origini africane vengono scosse a livello internazionale da un’entusiastica rivendicazione identitaria che si rivela responsabile di importanti cambiamenti sociali e culturali. Grazie a questa sensibilità panafricana, ad esempio, l’America flagellata dal segregazionismo assiste alla nascita del movimento “New Negro” – ideologia intellettuale e politica che incoraggia gli afroamericani a ritagliarsi un ruolo attivo nelle nuove realtà urbane –, mentre i Paesi europei appena usciti dalla Prima guerra mondiale registrano la diffusione di un dilagante sentimento anticolonialista.

Nata ad Anglès nel 1908, Remedios Varo si trasferisce a Parigi nel 1937 con il suo secondo marito, il poeta surrealista francese Benjamin Péret, che la introduce nel circolo surrealista di André Breton, Max Ernst, Victor Brauner, Joan Miró e Wolfgang Paalen. A Parigi, Varo si discosta dalla pittura accademica, impiegando strategie surrealiste tra cui l’automatismo e la decalcomania. Varo è affascinata sia dallo studio del misticismo occulto e alchemico, sia da quello delle fiabe, dell’antropologia, dell’astronomia e della psicoanalisi freudiana. Un tratto distintivo della tecnica pittorica

dell’artista è l’uso di intarsi di madreperla, un materiale che a suo avviso può aprire la strada verso l’illuminazione. In abbinamento alla pratica pittorica, Varo si dedica alla scrittura e utilizza quanto scritto come schizzo per i dipinti e come guida per raggiungere un livello di coscienza più profondo. I suoi scritti si articolano in diari dei sogni, bizzarre ricette, esperimenti pseudoscientifici e lettere che spedisce a estranei. Dopo essere fuggita da Madrid durante la Guerra civile spagnola, è costretta ad allontanarsi una seconda volta da Parigi durante l’occupazione nazista e, in seguito al suo arresto avvenuto nel 1940, emigra a Città del Messico nel 1941, dove sarebbe rimasta fino alla sua prematura morte, nel 1963. In Messico, Varo stabilisce stretti legami con altre surrealiste europee, soprattutto con la pittrice britannica Leonora Carrington e con la fotografa ungherese Kati Horna. Per la loro propensione alla stregoneria, all’alchimia e all’occulto, insieme diventano note come le “tre streghe”. In Simpatía (La rabia del gato) (1955), esseri umani e animali appaiono come proiezioni celestiali legate a una costellazione che buca le pareti di un interno vuoto. Armonía (Autorretrato sugerente) (1956) mostra una donna che posiziona dei cristalli su un pentagramma musicale materializzato, aiutata da figure antropomorfe che emergono dalle pareti scrostate di uno studio simile a una navata. Questi dipinti enigmatici sono un esempio dell’impiego, da parte di Varo, di arcane giustapposizioni atte a evocare atmosfere magiche. – LC

(p. 105)

M E TA VA U X WA R R I C K F U L L E R 1877, Filadelfia, USA – 1968, Framingham, USA La scultrice Meta Vaux Warrick Fuller è acclamata per le autorevoli rappresentazioni della vita afroamericana, in un’epoca in cui i temi relativi alle esperienze di questa comunità venivano spesso censurati e le donne di colore avevano raramente accesso a una formazione artistica formale. Frequentemente citata come importante precorritrice dell’Harlem Renaissance, Fuller è famosa soprattutto per le opere allegoriche che esaminano l’identità della diaspora e riprendono i motivi visivi del movimento panafricanista. Nata a Filadelfia nel 1877 in una famiglia della media borghesia, Fuller studia al Pennsylvania Museum and School of Industrial Art (oggi University of the Arts of Philadelphia) durante l’ultimo decennio dell’Ottocento per poi trasferirsi a Parigi, dove segue i corsi di scultura e disegno di figura presso l’Académie Colarossi e l’École des

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La culla della strega


beaux-arts. A Parigi frequenta Henry Ossawa Tanner, amico di famiglia e anch’egli espatriato dalla Pennsylvania, e Auguste Rodin, le cui superfici sinuose la spingono a superare le convenzioni della propria formazione accademica. Sempre a Parigi incontra W.E.B. Du Bois, teorico politico e direttore della rivista “The Crisis”, che in seguito le avrebbe commissionato importanti sculture, tra cui il famoso lavoro del 1921, Ethiopia Awakening. Incaricata della realizzazione di un’opera allegorica sulla nazione etiope, Fuller produce la maquette in gesso policromo di 35 cm esposta a Venezia come studio per una scultura in bronzo più grande, che viene poi inclusa nell’America’s Making Exposition del 1921, tenutasi presso il Seventy-First Regiment Armory a New York, un evento organizzato per promuovere il programma politico del Partito progressista americano e celebrare il contributo dato dagli immigrati alla società americana. L’opera riproduce un’aggraziata donna di colore nell’atto di togliersi un’antica veste funeraria egizia, che con la mano destra tiene un lembo del tessuto bianco contro il petto. La scultura rimanda a un atteggiamento reso popolare anche agli esordi dell’Harlem Renaissance da Du Bois sulle pagine di “The Crisis” e osservato nell’opera di altri artisti dell’epoca, come Edmonia Lewis: un intenso interesse verso un’“Africa” immaginata – soprattutto l’Antico Egitto e l’Etiopia – come nuova articolazione dell’identità culturale afroamericana. Riguardo a Ethiopia Awakening, Fuller scrive: “Ecco un gruppo che un tempo aveva fatto la storia e ora, dopo un lungo sonno, si stava svegliando, si stava lentamente liberando delle bende del proprio passato mummificato e guardava nuovamente alla vita, pieno di attese ma non spaventato e, per lo meno, con un gesto pieno di grazia”1. – MW 1

Meta Vaux Warrick Fuller, citata in Women Artists of the Harlem Renaissance, a cura di Amy Helene Kirschke, Jackson (MS), University Press of Mississippi, 2014, 59. In origine pubblicato in Meta Warrick Fuller to Mrs. W.P. Hedden, October 5, 1921, Meta Warrick Fuller Papers, Manuscript, Archives, and Rare Books Division, Schomburg Center for Research in Black Culture, New York Public Library, New York City.

( p. 1 05 )

L AU RA W H E E L E R WA R I N G 1887, Hartford, USA – 1948, Filadelfia, USA

nel Connecticut, Waring ha l’opportunità di frequentare la Pennsylvania Academy of the Fine Arts, all’epoca uno dei pochi istituti d’arte negli Stati Uniti ad ammettere studenti afroamericani. Dopo la laurea, inizia a insegnare in quella che oggi è la Cheyney University of Pennsylvania, storicamente la più antica università per afroamericani degli Stati Uniti, dove avrebbe assunto la direzione del Dipartimento di arte e musica e insegnato per il resto della sua carriera. Sostenitrice dei diritti civili degli afroamericani, Waring è membro della Urban League e della National Association for the Advancement of Colored People (NAACP) per la cui rivista, “The Crisis”, e per la correlata pubblicazione per bambini “The Brownies’ Book” realizza spesso illustrazioni. Fondata nel 1910 dallo storico, studioso, scrittore e attivista W.E.B. Du Bois, “The Crisis” – tuttora attiva online – è una pubblicazione di grande importanza per la vita intellettuale durante l’intero periodo dell’Harlem Renaissance. Caratterizzata da una combinazione di articoli su attualità, letteratura e poesia di matrice afroamericana e in sostegno al socialismo e al movimento panafricano – che mirano a rafforzare la solidarietà tra i membri della diaspora africana –, “The Crisis” si distingue anche per l’utilizzo dell’immaginario visivo di artiste e artisti di colore che condividono affinità politiche con la rivista, al fine di coinvolgere ed educare i lettori. Durante la direzione di Du Bois, Waring realizza delicati disegni di donne e bambini, pubblicati in copertina e nelle pagine interne della rivista almeno venti volte tra il 1917 e il 1932, nonché numerose copertine per le edizioni natalizie annuali. Le illustrazioni per le copertine di aprile 1923 e settembre 1924, contrassegnate dal suo peculiare stile delicato ispirato all’Art Deco e all’Arts and Crafts, esprimono un incontro tra il momento contemporaneo e un’immaginaria storia continentale africana proposta dai sostenitori del panafricanismo attraverso visioni idealizzate dell’Antico Egitto. Sulla copertina del settembre 1924, le figure indossano antiche vesti egizie, ma la storia raccontata da questa immagine è difficilmente riconducibile al passato: qui un domestico di colore serve la figura centrale, una signora che sta portando a passeggio un leone, una dinamica di genere raramente osservata nell’iconografia egiziana, ma appartenente piuttosto a una nuova era. – MW

(p. 108)

M A RY W I G M A N 1886, Hannover, Germania – 1973, Berlino, Germania Mary Wigman è senza alcun dubbio la figura più rappresentativa dell’Ausdruckstanz, la danza espressionista tedesca che all’alba del Novecento rivoluziona la scena coreutica centro-europea decostruendo il formalismo del balletto classico. Il suo approccio al movimento, affinato in anni di pratica al fianco del celebre maestro e teorico Rudolf Laban, non tende alla perfezione tecnica né mira alla rappresentazione di narrazioni idealizzate, tipiche della drammaturgia tradizionale, ma ha piuttosto lo scopo di costruire una gestualità in grado di veicolare le pulsioni emotive dell’interprete. I suoi spettacoli sono liberi da qualsiasi orpello scenografico e, fin dal debutto con Hexentanz (1914), puntano alla più pura asciuttezza formale: il palcoscenico è spesso vuoto, abitato dalla sola figura della danzatrice che, con i piedi scalzi e costumi essenziali, si muove alla ricerca di un equilibrio tra corpo e mente, forma e spirito. Nell’unico frammento di filmato che rimane di una performance del 1930 in cui interpreta la sua iconica danza sciamanica, ad esempio, Wigman sembra muoversi in uno stato di trance e incarnare una donna-strega impegnata a sfogare la sua componente istintiva. Assecondando un ritmo musicale fatto di percussioni e lunghi silenzi, il suo corpo appare sempre seduto a terra mentre, con le membra contratte e le mani che si aggrappano a una materia invisibile, sembra posseduto da un’energia primordiale drammatica e delirante. Con lo scopo di esasperare l’aspetto ancestrale dell’intera scena, il suo volto è occultato da una maschera e le sinuosità del suo corpo sono coperte da una lunga tunica in broccato che conferisce ai movimenti un certo grado di astrazione formale. Non è un caso che la critica abbia definito questi movimenti come “danza assoluta”: oltre a celebrare le potenzialità del corpo, infatti, gli spettacoli della coreografa e interprete tedesca diventano gli strumenti per raccontare le urgenze della modernità, come il ruolo sociale della donna, o le posizioni politiche del nazionalismo tedesco. Come molte danzatrici della sua generazione – Ruth St. Denis, Doris Humphrey o Martha Graham, tra le altre – Wigman racconta una figura femminile indipendente che, anche nei più tardi e armonici spettacoli come Pastorale o Dance of Summer (entrambi del 1929), diventa consapevole del proprio perturbante potere e protagonista della propria vita. – SM

Laura Wheeler Waring è una pittrice, illustratrice ed educatrice americana, nota per i vivaci ritratti realizzati negli anni Venti e Trenta, spesso dedicati alle figure di spicco dell’Harlem Renaissance. Nata da una famiglia dell’alta borghesia di Hartford,

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PA U L A R E G O

1935, Lisbona, Portogallo Vive a Londra, UK

L’opera figurativa di Paula Rego non scende a compromessi e obbliga lo spettatore a confrontarsi direttamente con i rapporti umani e con le dinamiche di potere sociali, sessuali ed emotive che spesso definiscono tali rapporti. Utilizzando le strategie della parodia, della teatralità e della narrazione, le scene domestiche di Rego appaiono formalmente complesse e psicologicamente cariche, tenere e angoscianti allo stesso tempo, e rappresentano il centro dell’esperienza femminile in un mondo segnato dai conflitti. Rego nasce nel 1935, in un Portogallo rigidamente cattolico, sotto il regime autoritario appena instaurato dal primo ministro António de Oliveira Salazar, una dittatura che resterà al potere per quarant’anni e che utilizzerà la censura e la polizia segreta per soffocare l’opposizione. Durante gli anni della sua giovinezza, le famiglie portoghesi – anche quelle come la sua, liberali, istruite e appartenenti alla classe media – sono costrette a parlare in termini ambigui, persino degli argomenti quotidiani più comuni, per timore di ritorsioni da parte dell’antidemocratico Stato di sorveglianza. Profondamente colpita dalla storia del proprio Paese, in tutta la sua opera Rego affronta spesso le sfide morali di una società sottomessa alla tirannia politica, in particolare l’oppressione e la violenza istituzionale verso le donne. Dimostrando fin da subito uno spirito artistico provocatorio, all’età di venticinque anni Rego dipinge Salazar Vomiting the Homeland (1960), che, come suggerisce il titolo, rende coraggiosamente evidenti le proprie opinioni personali. Terminate le scuole superiori in un collegio nel Kent, dal 1952 al 1956 Rego prosegue gli studi alla Slade School of Fine Art di Londra, scuola che vantava docenti di prim’ordine, tra cui i pittori figurativi Lucian Freud, Francis Bacon e Victor Willing, che ben presto sarebbe diventato suo marito. I suoi primi lavori degli anni Sessanta, con i loro rimandi a Miró, Dubuffet e alle vignette politiche del XIX secolo, stabiliscono una tensione tra l’apertura mentale e la libertà sessuale del proprio ambiente e la sofferenza inflitta da un governo dispotico. A mano a mano che la sua arte si sviluppa, l’esplorazione delle tensioni interpersonali e sociali viene estremizzata. Nei lavori realizzati nell’ultimo decennio del XX secolo e nei primi anni Duemila, i suoi soggetti – donne spesso catturate in posizioni di vulnerabilità sempre più grottesche e perverse – trasmettono con una ambiguità disorientante la differenza tra il sinistro e il seducente. Ancora più sconvolgente è il magnetismo inquietante delle scene di Rego; ma come lei stessa dichiara: “Il grottesco è bello” 1. – MW

1

Paula Rego, citata in Ben Eastham, Helen Graham, Interview with Paula Rego, in “The White Review”, 1, gennaio 2011 (www.thewhitereview.org/feature/ interview-with-paula-rego).

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Paula Rego, The Policeman’s Daughter, 1987. Acrilico su carta su tela, 213 × 152 cm. Photo Nick Willing. Collezione privata. Courtesy l’Artista; Victoria Miro. © Paula Rego

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Paula Rego, Geppetto Washing Pinocchio, 1996. Pastello su carta su alluminio, 170 × 150 cm. Photo Nick Willing. Collezione privata. Courtesy l’Artista; Marlborough Fine Art. © Paula Rego Paula Rego, Metamorphosing after Kafka, 2002, Pastello su carta su alluminio, 110 × 140 cm. Photo Nick Willing. Kistefos Museum. Courtesy l’Artista; Christen Sveaas Art Foundation. © Paula Rego Paula Rego, Sleeper, 1994. Pastello su carta su alluminio, 120 × 160 cm. Photo Nick Willing. Collezione privata. Courtesy l’Artista; Victoria Miro. © Paula Rego

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CLAUDE CAHUN E LISE DEHARME

LEONORA CARRINGTON

1894, Nantes, Francia – 1954, Saint Helier, Jersey, UK 1898, Parigi, Francia – 1980, Neuilly-sur-Seine, Francia

1917, Clayton-le-Woods, UK – 2011, Città del Messico, Messico

Nel 1937, dopo aver raggiunto una discreta popolarità nel panorama culturale parigino, le artiste francesi Lise Deharme e Claude Cahun pubblicano Le Cœur de Pic, un breve libro per bambini in cui, la prima con trentadue poemetti e la seconda con venti fotografie, raccontano il mondo surreale di un personaggio chiamato Pic. Nell’immagine in copertina, il protagonista brandisce come una bandiera la donna di picche: un chiaro riferimento al soprannome “Dame de Pique” con cui Deharme è conosciuta tra i surrealisti e indizio per comprendere l’intera costruzione verbo-visuale del libro. Anche le fotografie all’interno specificano la narrazione attraverso un sistema di simboli. Mentre Deharme scrive il proprio testo come un perfetto racconto onirico popolato di fantasmi, metamorfosi, animali incantati e altre fantasie, Cahun costruisce dei piccoli set fotografici in cui eleva al ruolo di protagonisti giocattoli, cibo, piante e vari utensili domestici. Una delle fotografie, ad esempio, racconta la disperazione di una pianta rimasta vedova della sua amata farfalla, presentando la statua di una giovane che, curva su se stessa, dà le spalle a un cespuglio di nasturzio e piange lacrime di glicine, come recitano i versi di Deharme. Un’altra immagine si riferisce al tremendo mal di denti provato dal protagonista e, dentro alla scultorea sagoma di un molare, ritrae la lotta tra un piccolo pupazzo, Pic appunto, e la figura lunga e sottile di un nervo-serpente. – SM

Ormai stabile in Messico, Leonora Carrington inventa una serie di stravaganti storie per bambini che, inizialmente dipinte sui muri della stanza da letto dei figli, vengono successivamente radunate in un album privato chiamato Leche del sueño (Il latte dei sogni) – così Gabriel, il figlio dell’artista, battezza la raccolta di fiabe –, illustrato con l’aiuto di strampalati e coloratissimi acquerelli. Le visioni sconvolgenti di creature ibride e mutanti che riempiono i suoi fantasiosi universi includono bambini che perdono la testa, avvoltoi intrappolati nella gelatina e macchine carnivore. I bizzarri racconti di Leche del sueño – e l’opera di Carrington nel suo complesso – mostrano un mondo magico in cui la vita è costantemente rivisitata attraverso il prisma dell’immaginazione, e dove ognuno può cambiare, essere trasformato, diventare qualcosa o qualcun altro. – SM

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PA U L A R E G O

1935, Lisbona, Portogallo Vive a Londra, UK Nursery Rhymes è un portfolio di stampe realizzate da Paula Rego nel 1989 e successivamente pubblicato nel 1994 in forma di libro. L’artista prende le tradizionali filastrocche e poesie inglesi per bambini, molte delle quali teneramente radicate nella coscienza collettiva occidentale, e ne fa satira, trasformazione, esagerazione attraverso acqueforti, litografie e acquetinte, che ne enfatizzano i temi bizzarri, assurdi e spesso disturbanti. Rego comincia a sperimentare con la stampa negli anni Cinquanta, quando studia alla Slade School of Fine Art; nel tempo si specializza nella tecnica, riuscendo a esprimere il potenziale immaginifico di questo mezzo, che usa con grandi risultati in Nursery Rhymes. Come nei soggetti di numerosi suoi magnifici disegni e dipinti, l’innocenza e la fantasia dei suoi materiali ispiratori mascherano l’oscurità propria del loro significato maturo, che spesso si riflette sull’esperienza dei rapporti umani e delle dinamiche sociali controllate dal conflitto, dalla violenza, dal potere e da ruoli di genere culturalmente imposti. I tre roditori ciechi della filastrocca Three Blind Mice barcollano presi da uno stupore dolorante, mentre la moglie del fattore, che “ha loro tagliato la coda con un coltello da carne” brandisce le loro estremità sanguinanti. The Old Woman Who Lived in a Shoe (La vecchia signora che viveva in una scarpa) frusta il figlio, uno dei tantissimi bambini infilati in casa sua “da non sapere che farsene”. In Baa, Baa, Black Sheep (Bee, bee, pecora nera) appare una bambina avvolta nell’abbraccio minacciosamente amoreggiante di un pecorone dal manto nero e riccio, mentre “il bambino che vive in fondo alla strada” sbircia da lontano. – MW

Pagina a fianco: Lise Deharme con illustrazioni di Claude Cahun, Le Cœur de Pic. Éditions MeMo, 2004 (originale pubblicato nel 1937) © Éditions MeMo Leonora Carrington, Leche del sueño. Fondo de Cultura Económica, 2016. © Estate of Leonora Carrington / Artists Rights Society (ARS), NY Questa pagina: Paula Rego, Jack and Jill, 1989. Nursery Rhymes (illustrazione). Acquatinta, 32,3 × 21,5 cm (immagine) e 52 × 38 cm (carta). Photo Nick Willing e Mark Dalton. Courtesy Paula Rego; Cristea Roberts Gallery, London © Paula Rego Paula Rego, Baa, Baa, Black Sheep, 1989. Nursery Rhymes (illustrazione). Acquatinta, 32,3 × 21,5 cm (immagine) e 52 × 38 cm (carta). Photo Nick Willing e Mark Dalton. Courtesy Paula Rego; Cristea Roberts Gallery, London © Paula Rego

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JANA EULER

1982, Friedberg, Germania Vive a Francoforte, Germania e Bruxelles, Belgio

Il lavoro dell’artista tedesca Jana Euler spazia all’interno di una varietà di concezioni stilistiche che esplorano rappresentazioni di figure umane e non, grottesche, mostruose, contorte, erotizzate e spesso respingenti. Dopo avere conseguito la laurea alla Städelschule di Francoforte, Euler ricorre alla satira per descrivere la scena artistica di stampo prettamente maschile nella serie Ambition Universe (2009–2010), nella quale propone una caricatura dell’influente rete di artisti e critici dell’istituto attraverso i rispettivi segni zodiacali. Scimmiottando l’atteggiamento ridicolo e sovversivo, le ossessioni surrealiste, il dualismo tra scetticismo e fede caratteristico della pittura degli artisti tedeschi del periodo postbellico, Euler fonde i loro gesti radicali con feroci satire sulla condizione umana, generalmente espressa attraverso brutali ritratti naturalistici, in associazione al movimento degli anni Venti conosciuto come Neue Sachlichkeit (Nuova Oggettività). Nell’opera di Euler il corpo è un elemento onnipresente, spesso raffigurato in posizioni che esprimono una carnalità fumettistica, umiliante o una vulnerabilità sconcertante. Nel quadro under this perspective, 1 (2015), due giganteschi piedi campeggiano lungo i margini della tela, dando rispettivamente vita a un’estensione fallica che culmina in un viso minuscolo. In altre opere, come la grande tela Analysemonster (2014), un’orribile creatura, con le fattezze di un troll, dotata di mani enormi, orecchie elefantiache rosa e arancioni e lingua bavosa sconvolge l’osservatore, mentre la sua corporeità repulsiva riflette inspiegabilmente la nostra. I corpi iperbolici di Euler assumono anche sembianze animali. Nella serie great white fear (2019), l’artista realizza alcuni dipinti di squali che evocano lo stile di famosi pittori maschi attraverso tecniche variamente iperrealiste, astratte e surrealiste. Tuttavia, se da un lato queste creature manifestamente falliche, raffigurate mentre emergono dall’acqua, rappresentano una critica inequivocabile alla storia della pittura patriarcale, le stesse fanno anche luce sulla gamma stilistica decisamente variegata di Euler, che non può essere ricondotta a un’unica cifra artistica. Per la 59. Esposizione Internazionale d’Arte, l’artista colloca su un piedistallo centoundici sculture di squali in ceramica, le cui minuscole dimensioni fanno da contrappunto alla mole epica dell’animale raffigurato in great white fear. Invece, i due dipinti con le mosche, rispettivamente un esemplare risalente a cinquecento anni fa conservato nell’ambra e il primo piano di un esemplare vivo realizzato con l’ausilio della macrofotografia, adombrano gli squali grazie alla loro dimensione teatrale. Mettendo in scena un incontro impossibile tra la morte e la vita, il grande e il piccolo, l’essere che vola e l’essere che appartiene al mare, Euler, ancora una volta, rende insondabile ciò che è familiare. – MW

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Jana Euler, great white fear, 111 small ceramics (dettaglio), 2021. Ceramiche smaltate, dimensioni variabili. Photo Diana Pfamatter. Courtesy l’Artista. © Jana Euler

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Jana Euler, Fly (moment), 2021. Olio su lino, 240 × 260 cm. Photo Jens Gerber. Courtesy l’Artista; Cabinet, London; dépendance, Brussels; Greene Naftali, New York; Galerie Neu, Berlin. © Jana Euler Jana Euler, Fly (eternity), 2021. Olio su lino, 260 × 240 cm. Photo Jens Gerber. Courtesy l’Artista; Cabinet, London; dépendance, Brussels; Greene Naftali, New York; Galerie Neu, Berlin. © Jana Euler

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CHRISTINA QUARLES

1985, Chicago, USA Vive a Los Angeles, USA

In dipinti, disegni e installazioni, la pratica di Christina Quarles si confronta con i limiti della leggibilità e del linguaggio nella complessa politica dei corpi, caratterizzati da razza, genere, sessualità e identità. I dipinti di Quarles raffigurano una sovrabbondanza di gesti attraverso pigmentazioni dissonanti costituite da colature, linee, sbavature e abrasioni che l’artista ottiene con vari strumenti quali pettini e pennelli asciutti, dipanando figure astratte che superano le forme convenzionali del corpo. Grazie alla sua formazione come graphic designer, abbina gli effetti fortuiti del dripping e dei rapidi colpi di pennello, apparentemente improvvisati, a tecniche di manipolazione digitale e stencil tagliati al laser, creando profili ben definiti per pianificare e modellare la composizione. I corpi sinuosi si contorcono evocando un senso di intimità e fluidità, di esistenze intercambiabili che rappresentano l’impossibilità di delineare individui, come avviene nell’intreccio di corpi in Hangin’ There, Baby (2021) e nella frenetica tavolozza di Gone on Too Long (2021). Mentre sembrano attraversare uno spazio di moti contraddittori, i corpi si uniscono lungo un asse e si staccano lungo l’altro, come nelle figure che si strattonano, respingono e calpestano caoticamente in Just a Lil’ Longer (2021): abbracciandosi, collidendo e fondendosi, i soggetti roteanti dagli arti sporgenti, nel loro convergere creano l’illusione di movimento e metamorfosi. Don’t Let It Bring Yew Down (It’s Only Castles Burnin’) (2021) mostra un groviglio di forme, delineate da sagome e gradienti, che si sostengono reciprocamente e fanno da testimoni ad altre due figure che sembrano trascinarsi in una danza su ciò che ricorda un pavimento di parquet. Piani geometrici e architetture che alludono ad ambienti domestici, come la tenda in (Who Could Say) We’re Not Jus’ as We Were (2021), centrano nello spazio forme prive di profondità, incorniciando figure allampanate. In Had a Gud Time Now (Who Could Say) (2021), le estremità dei soggetti trafiggono, affondano ed emergono su un piano rappresentato da una tovaglia a quadretti. Nella forma di recipienti gocciolanti, raffigurati in mille motivi e sfumature psichedeliche, Quarles sovverte le norme pittoriche che sorreggono le convenzioni tradizionali di razza, genere, sessualità e identità. L’obiettivo è trasmettere una corporeità che si sottrae a ogni definizione e marca le identità in un flusso per ritrarre, attraverso la frammentazione, un sé multiplo e sfuggente. L’opera riflette la soggettività dell’artista che vive l’esperienza continua di essere erroneamente letta nel suo essere donna cis, queer e meticcia, con il conseguente desiderio di destabilizzare le aspettative della società. I corpi, che spingono contro il limite della cornice quasi a superarla, suggeriscono una fisicità alternativa definita dall’ambiguità. – LC

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Christina Quarles, Gone on Too Long, 2021. Acrilico su tela, 152 × 183 × 5 cm. Photo Fredrik Nilsen Studio. Courtesy l’Artista; Hauser & Wirth; Pilar Corrias, London. © Christina Quarles

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Christina Quarles, (Who Could Say) We’re Not Jus’ as We Were, 2021. Acrilico su tela, 178 × 330 × 5 cm. Photo Fredrik Nilsen Studio. Courtesy l’Artista; Hauser & Wirth; Pilar Corrias, London. © Christina Quarles

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KAA R I U PS O N

1970, San Bernardino, USA – 2021, New York City, USA

L’artista californiana Kaari Upson esplora le dimensioni psicologiche e interpersonali dell’esperienza famigliare negli Stati Uniti. Nata da padre americano e madre tedesca emigrata negli Stati Uniti da Hannover in Germania, Upson descrive la propria infanzia come perennemente bombardata da incognite esterne, in grado di sovvertire improvvisamente la realtà. Il primo grande riconoscimento del suo lavoro avviene con The Larry Project (2005–2012), presentato nel 2007 all’Hammer Museum di Los Angeles. Upson inizia a concepire questo progetto quando un vicino della casa d’infanzia a San Bernardino abbandona la sua proprietà; negli anni che seguono l’artista elabora disegni, video, dipinti e sculture volti a ipotizzare l’identità della persona che aveva vissuto di fronte alla casa dei suoi genitori, e che lei non aveva mai conosciuto, fino ad arrivare a fondere la sua identità con la propria. Upson è meglio nota per i grandi disegni realizzati a grafite e per gli inquietanti calchi in silicone, resina, pigmento e carboncino – sculture dipinte e distorte raffiguranti mobili, figure e oggetti domestici. Le sue composizioni sono abiette, inquietanti e quasi troppo umane, composte da sculture che si afflosciano, cedono e si appoggiano ai muri e agli angoli come a denunciare lo sfinimento psicologico della loro genesi. Upson afferma di volere che la sua opera sia incompleta, che non raggiunga mai un punto d’arrivo, ma che piuttosto offra allo spettatore un luogo “in cui la narrativa si spacca”. La mostra presenta dieci dipinti dalla recente serie Portrait (Vain German) (2020–2021), iniziata con ritratti a base di un impasto denso e altri materiali, realizzati su tele in miniatura. Successivamente l’artista impiega tecniche di modellazione 3D per creare stampi e calchi sui quali applicare strati di uretano, resine e pigmenti, spesso realizzando numerosi dipinti a partire dallo stesso stampo. Plausibilmente alludendo alla madre o a se stessa, soggetti frequentemente catturati nelle sculture e nei video, i complessi dipinti dimensionali si concretizzano attraverso le tonalità rosa carne, blu intenso e giallo fluorescente. I volti dipinti, con i loro sguardi fissi che sembrano provenire da un altro mondo, mutano tra il macabro, lo scheletrico e il sereno, tra il frammentario e l’astratto fino ad apparire completamente annientati, forse una riflessione sulla malattia e sull’inesorabile declino del corpo. Upson ha realizzato queste opere mentre era malata di cancro, a causa del quale è recentemente venuta a mancare. – MK

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Kaari Upson, Portrait (Vain German), 2020–2021. Uretano, resina, resina all’acqua, pigmento, fibra di vetro, carbone, alluminio, 74,3 × 58,4 × 7 cm. Photo Ed Mumford. © The Kaari Upson Trust

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Kaari Upson, Portrait (Vain German), 2020–2021. Uretano, resina, resina all’acqua, pigmento, carbone, fibra di vetro, alluminio, 74,3 × 58,4 × 7 cm. Photo Ed Mumford. © The Kaari Upson Trust

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Kaari Upson, Portrait (Vain German), 2020–2021. Uretano, resina, resina all’acqua, pigmento, carbone, fibra di vetro, alluminio, 74,3 × 58,4 × 7 cm. Photo Ed Mumford. © The Kaari Upson Trust

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NAN GOLDIN

1953, Washington, D.C., USA Vive a New York City, USA

A partire dai primi anni Settanta, l’americana Nan Goldin dà voce e visibilità alle comunità a lei più vicine attraverso fotografie profondamente personali. Goldin studia fotografia presso la School of the Museum of Fine Arts di Boston, dove lavora con i fotografi David Armstrong e Mark Morrisroe. Goldin inizia a portare con sé la macchina fotografica ovunque, immortalando amici, amanti e famigliari nel loro ambiente di vita. Fin dall’inizio, le fotografie di Goldin si concentrano soprattutto su persone che vivono al di fuori degli ordinari costrutti di genere. La comunità dell’artista viene fortemente colpita dall’AIDS negli anni Ottanta e da allora il suo lavoro assume toni più esplicitamente politici. La celebrata opera diaristica intitolata Ballad of Sexual Dependency (1979–1986) raccoglie scene estremamente intime di amore, violenza e sesso, tutte tratte da esperienze vissute in prima persona. A partire dagli anni Novanta, Goldin amplia la sua pratica realizzando installazioni che comprendono immagini in movimento, musica e voci narranti. Inoltre, sfrutta il proprio profilo per affrontare questioni di natura politica, in particolare l’incremento esponenziale delle morti per overdose di oppiacei negli Stati Uniti, che ha conseguenze drammatiche per l’artista stessa. Rivolgendo l’attenzione a temi quali amore, genere, sessualità e precarietà sociale, l’opera di Goldin rappresenta la vita nella sua massima crudezza e verità. Sirens (2019–2020) è il primo film di Goldin realizzato interamente con filmati tratti da altre fonti. L’artista concepisce l’opera come un omaggio a Donyale Luna, spesso citata come la prima top model afroamericana. Icona culturale nella New York degli anni Sessanta, Luna muore nel 1979, ad appena trentatré anni, per un’overdose di eroina. Nella mitologia greca, le sirene erano creature simili a ninfe, il cui canto seducente attirava i marinai verso una tragica morte lungo le coste. Sirens associa l’irresistibile canto di queste creature mitologiche e la bellezza del corpo femminile alla sensualità e all’estasi indotte dagli stupefacenti. Accompagnato dalla colonna sonora di Mica Levi e composto di brevi clip tratte da trenta film, tra cui Satyricon e i lavori di Kenneth Anger, Lynne Ramsay, Henri-Georges Clouzot e Federico Fellini, oltre ai provini di Luna per Andy Warhol e alle riprese di un rave londinese nel 1988, Sirens compone un corollario filmico della seducente euforia che circonda l’uso di droghe. Mentre il film presenta un’interpretazione romantica e glamour del piacere che si prova sotto l’effetto degli stupefacenti, il suo titolo allude ai pericoli associati all’uso degli oppiacei e alla difficoltà di sottrarsi alla loro morsa. – IW

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Nan Goldin, Sirens, 2019–2021. Video a canale singolo, 16 min 1 sec. Veduta dell’installazione, Sirens, Marian Goodman Gallery, Londra, 2019. Photo Alex Yudzon. Courtesy l’Artista; Marian Goodman Gallery. © Nan Goldin

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S H E R E E H OVS E P I A N

1974, Esfahan, Iran Vive a New York City, USA

L’artista americana di origine iraniana Sheree Hovsepian impiega la tecnica dell’assemblage a parete per trasportare la fotografia oltre i confini tradizionali del mezzo, verso la scultura e l’arte performativa. Hovsepian tratta le fotografie non come sguardi isolati affacciati su un passato immutabile, ma come materiale scultoreo, incorporando le stampe in vignette tridimensionali con nylon, ceramica, spago, chiodi e legno di noce, collocandole in profonde cornici realizzate su misura. Le sue composizioni rivisitano l’approccio alto-modernista alla disposizione della forma, con un accentuato riconoscimento delle politiche rivolte al corpo, enfatizzando tanto i rapporti tra le persone e le cose ritratte dalla sua macchina fotografica, quanto la relazione formale tra i materiali scelti. Hovsepian concepisce la propria pratica artistica come una collaborazione dei corpi con i materiali fabbricati e nelle sue opere spesso include la propria immagine o, talvolta, quella della sorella come sua controfigura. Gli assemblage di Hovsepian, inoltre, inglobano frequentemente elementi in ceramica, un materiale che, come la fotografia, riceve un’impronta e attraversa un processo di trasformazione chimica e, se cotta in forno, è sempre accompagnata da un pericolo di insuccesso. L’indagine sulla vulnerabilità e sul confine sottile tra permanenza e precarietà è al centro del suo approccio. In anni recenti, la sua opera è stata influenzata da letture sulle teorie femministe e da testi scritti da artiste. Di particolare importanza per il suo pensiero è la critica letteraria femminista francese Hélène Cixous che, negli anni Settanta, ha teorizzato l’esistenza di una relazione intrinseca tra corpo e linguaggio. Hovsepian concepisce la fotografia come fondamentalmente associata alla produzione del desiderio, al riconoscimento consapevole del sé e alle evenienze che circondano il corpo, l’identità e l’esperienza soggettiva. L’opera di Hovsepian per Il latte dei sogni prosegue l’indagine dell’artista sulla materialità della fotografia e sulle sue qualità rappresentative, simboliche e sintattiche. In questi lavori, frammenti di corpi – una spalla isolata, l’inquadratura ravvicinata di un busto, un braccio sospeso –, tutti fotografati su uno sfondo nero, sono schierati come elementi formali in un vocabolario visivo di forme e linee astratte. Queste composizioni, racchiuse nelle loro cornici simili a finestre, possono essere lette come mappe o schemi della relazione tra corpo e materia, tra raffigurazione e astrazione. Come afferma l’artista: “Per me, il corpo diventa il luogo di una coscienza stratificata. L’assemblage ne è una metafora”. – IW

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Sheree Hovsepian, Privileged Prey, 2021. Stampa fotografica ai sali d’argento, ceramica, chiodi, spago, velluto, cornice d’artista in noce, 80 × 54,6 × 9 cm. Photo Martin Parsekian. Collezione privata. Courtesy l’Artista Pagine successive: Sheree Hovsepian, veduta della mostra, Arches and Ink, Rachel Uffner Gallery, New York City, 2021. Courtesy JSP Art Photography

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MIRIAM CAHN

1949, Basilea, Svizzera Vive a Stampa, Svizzera

Per i primi vent’anni della sua carriera, Miriam Cahn rifiuta di cimentarsi nella pittura, ripudiandola in un atto di resistenza femminista contro lo Zeitgeist del mondo artistico occidentale, incentrato su pittura astratta e minimalista realizzata da artisti maschi; tra gli anni Settanta e la metà degli anni Novanta, Cahn si dedica a disegni, performance, fotografie, film e arte testuale. Negli anni Novanta, tuttavia, la pittura perde la sua posizione preminente nella storia dell’arte e Cahn, ormai quarantacinquenne, decide di cimentarsi con essa. L’artista esplora la spietatezza, la brutalità e la bellezza insite nella condizione umana, sempre in reazione a eventi attuali e con una tendenza saldamente progressista. L’immaginario di Cahn risucchia l’osservatore in paesaggi da incubo che evocano la violenza percepita a livello umano, corporeo, a causa delle politiche globali, della guerra e dell’oppressione. Il corpo è sempre enfatizzato: una forma chiara, ma resa in modo crudo. Alla Biennale Arte 2022, Cahn presenta un’installazione intitolata unser süden sommer 2021, 5.8.2021 (2021), composta da ventotto nuovi lavori: tredici dipinti, principalmente a olio, nove disegni a tecnica mista e sei taccuini d’artista. In questo corpus, l’artista prosegue la propria dedizione pluriennale al figurativo. I suoi disegni e dipinti presentano oggetti riconoscibili e irriconoscibili resi antropomorfi, mentre nelle diverse composizioni fanno la loro comparsa appendici equivoche. Immagini legate al parto, esseri che sfidano i generi, falli eretti e atti apertamente sessuali sono soggetti ricorrenti nell’opera di Cahn. Le sue figure sono spesso definite dai soli contorni e sembrano galleggiare, o forse nuotare, in uno spazio sfocato, che dona alle opere una qualità suggestiva capace di superare i confini della pagina o della tela per invadere l’intera sala. Cahn provvede autonomamente alle proprie installazioni: dopo un’accurata riflessione sugli ambienti che ospiteranno il suo lavoro, allestisce furiosamente intere sale adornandole di disegni e dipinti, come in una danza tra artista, spazio espositivo e opera. Nei suoi soggetti Cahn affronta crisi e tragedie, come la guerra del Golfo, il movimento #MeToo, gli attacchi al World Trade Center e le guerre jugoslave, ma lo fa senza spettacolarizzazione, in modo velato, lasciando che le atrocità più terribili attraversino la sua psiche, la sua mano e la sua tela. Non tenta di conferire al trauma un tocco glamour, o di ostentare virtù morali. Invece, consente all’ambiguità e alla carica emotiva di assumere un ruolo guida nella modalità di rappresentazione. L’approccio sommessamente audace di Cahn alla pittura realista, sempre sensibile al soggetto, rende la sua opera ormai ultraquarantennale provocatoriamente contemporanea. – IA

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Miriam Cahn, unser süden, 17.7.21, 2021. Olio su tela, 240 × 200 cm. Photo François Doury. Courtesy l’Artista; Galerie Jocelyn Wolff; Meyer Riegger

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Miriam Cahn, o.t., 25.7. + 3.8.21, 2021. Olio su tela, 195 × 190 cm. Photo François Doury. Courtesy l’Artista; Galerie Jocelyn Wolff; Meyer Riegger Miriam Cahn, MARE NOSTRUM, 4. + 22.7.21, 2021. Olio su legno, 100 × 75 cm. Photo François Doury. Courtesy l’Artista; Galerie Jocelyn Wolff; Meyer Riegger

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CHIARA ENZO

1989, Venezia Vive a Venezia, Italia

Piccoli e minuziosi, i dipinti dell’artista veneziana Chiara Enzo catturano fenomeni del mondo osservato in cui corpi frammentati, ritratti in dettagli disadorni quanto inquietanti, alludono alle limitazioni della loro stessa corporeità. Nell’ingrandimento estremo entro i confini delle cornici, porzioni di cute rigonfia, ferita e macchiata, nuche e colli lanuginosi, gabbie toraciche tese e morbidi addomi segnati da abiti troppo stretti sono resi alieni e irriconoscibili. Sebbene si tratti di dipinti, le opere di Enzo, complici i pastelli e le matite colorate, mantengono l’aspetto di disegni, basati su soggetti dal vivo e su immagini raccolte da riviste, social media e storici testi di medicina, resi con segni densi e materici per creare superfici che appaiono cariche, tangibili. Questo aspetto della loro presenza fisica non li rende tanto ritratti di individui, quanto piuttosto evocazioni aptiche di superficie, consistenza, calore e tatto. Pur essendo un soggetto frequente nell’opera di Enzo, la pelle è vista e raffigurata da una prospettiva metaforica anziché letterale. Come afferma l’artista, la pelle è la nostra superficie, il nostro involucro, il luogo più immediato della stimolazione e del dolore; essa è anche il nostro limite e confine, lo spazio fisico in cui inizia e finisce la nostra interazione con il mondo. Enzo ha concepito la presente installazione di oltre venti lavori come un ambiente complessivo intitolato Conversation Piece, le cui dimensioni intime sono state ispirate dal processo operativo lento e laborioso elaborato dall’artista nella propria casa-studio. Le nuove opere, come Senza titolo (spots), Nuca, B. e Il prurito (tutte del 2021), restituiscono un carattere quasi fotografico nell’attenzione ai particolari granulari della materialità del corpo e nelle inquadrature ritagliate e ingigantite di macchie e imperfezioni della pelle. Le dimensioni ridotte e la disposizione nello spazio invitano l’osservatore a esaminare ciascun dipinto in maniera intima, da vicino, e allo stesso tempo a considerarlo come parte di un insieme più ampio. Se l’attenzione sensibile di Enzo verso la figura evoca tenerezza e intimità, la natura estrema dei punti di osservazione provoca un senso di profonda ambiguità, persino di minaccia. Le dimensioni minute costringono chi guarda a una visione personale che, tuttavia, porta con sé il rischio della violenza. Offerta all’osservatore per il proprio consumo, la pelle così ravvicinata appare delicata come la superficie di un frutto. – MW

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Chiara Enzo, Torso, 2018. Tempera, pastello, matite colorate su cartoncino applicato su tavola di legno, 23 × 22 cm. Collezione privata. Courtesy l’Artista; Zero…, Milano. © Chiara Enzo Chiara Enzo, Nuca, B., 2021. Tempera, pastello, matite colorate su cartoncino applicato su tavola di legno, 19 × 19 cm. Collezione privata. Courtesy l’Artista; Zero…, Milano. © Chiara Enzo

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Chiara Enzo, Letti, 2018. Tempera, pastello, matite colorate su cartoncino applicato su tavola di legno, 19 × 19 cm. Collezione privata. Courtesy l’Artista; Zero…, Milano. © Chiara Enzo Chiara Enzo, Senza titolo, 2019. Tempera, pastello, matite colorate su cartoncino applicato su tavola di legno, 17,7 × 14,8 cm. Courtesy l’Artista; Zero…, Milano. © Chiara Enzo Chiara Enzo, L’abisso, 2020. Tempera, pastello, matite colorate su cartoncino applicato su tavola di legno, 29 × 15 cm. Courtesy l’Artista; Zero…, Milano. © Chiara Enzo


O VA R TA C I

1894, Ebeltoft, Danimarca – 1985, Risskov, Danimarca

Ovartaci è il nome d’adozione dell’artista Louis Marcussen. Nata da una famiglia numerosa in una cittadina portuale, Ovartaci completa il suo apprendistato come pittrice naturalista prima di emigrare in Argentina nel 1923. Per sei anni viaggia in lungo e in largo per il Paese sostenuta da risorse sempre più esigue, prima di fare ritorno in patria, stanca e provata. Al suo rientro, la famiglia la fa internare presso l’ospedale psichiatrico di Risskov, dove vivrà e lavorerà per i successivi cinquantasei anni. Non trascorre molto tempo prima che Ovartaci inizi a scontrarsi con lo staff ospedaliero, che pone restrizioni alla sua attività creativa. Infine, grazie a un maggiore grado di autonomia e libertà concesse dall’ospedale, la sua produzione artistica fiorisce. L’artista adotta il nome “Ovartaci” – che sostanzialmente significa “Capo Matto” –, una sorta di gioco di parole tra “ovar”, termine inteso a designare una figura ospedaliera di spicco quale “caposala” o “primario di Psichiatria”, e “taci” da “tossi”, termine colloquiale che indica un paziente psichiatrico. Ovartaci idealizza la forma e la soggettività femminile tanto nella sua arte quanto nella vita privata. Buddhista convinta, incarna la purezza dell’esperienza femminile nella donna yogi, una persona scevra da impulsi sessuali e in grado di passare tra diversi stati mentali e reincarnazioni. Assegnatole il genere maschile alla nascita, dopo essersi battuta a lungo per cambiare sesso, e in seguito a un maldestro tentativo compiuto personalmente, nel 1957 Ovartaci riesce finalmente a convincere l’ospedale e si sottopone a un intervento chirurgico, completando così la sua transizione1. L’artista realizza la sua rimarchevole produzione con l’ausilio di materiali facilmente reperibili, quali carta colorata riciclata e cartone. I suoi disegni e dipinti raffigurano gruppi di figure femminili di fantasia – creature dai tratti animali con lineamenti esili e allungati tra cui occhi a mandorla, orecchie da lupo, visi aguzzi e lunghi arti affusolati. Le figure spesso appaiono all’interno di scene mitologiche che evocano vite di epoche precedenti, nell’Antico Egitto, al tempo della Torre di Babele o in un circo pagano. Ovartaci scolpisce anche bambole di grandi dimensioni vestite con abiti dipinti o realizzati in tessuto. L’intera opera di Ovartaci è percorsa dal sogno della fuga, un elemento che si manifesta in forma celata nelle frequenti figure alate e più dichiaratamente negli innumerevoli disegni, progetti e modelli in cartone e legno di un elicottero in grado di volare oltre i muri dell’ospedale – e forse, anche oltre i confini e i limiti di una singola vita. – MK

1

Negli ultimi anni della sua vita, l’artista avrebbe iniziato a identificarsi come uomo. La maggior parte della letteratura critica si referisce a Ovartaci usando il pronome femminile, come abbiamo fatto in questo testo, consapevoli che esistono altri approcci in merito.

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Ovartaci, Untitled, n.d. Metallo dipinto, 38 × 10 cm. Photo Archive Museum Ovartaci. Courtesy Museum Ovartaci

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Ovartaci, FRØKEN OVARTACI, n.d. Gouache, pastello su tela, 89 × 161 cm. Photo Archive Museum Ovartaci. Courtesy Museum Ovartaci Ovartaci, Untitled, n.d. Bambola a grandezza naturale, pantaloni verdi, olio su cartone, recto verso, 139 × 50 cm. Photo Archive Museum Ovartaci. Courtesy Museum Ovartaci Ovartaci, Untitled, n.d. Bambola a grandezza naturale con orecchie e ombra, cartone, cartapesta, 130 × 30 cm. Photo Archive Museum Ovartaci. Courtesy Museum Ovartaci

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DJUNA BARNES M I R E L LA B E N T I VO G L I O E A N N A L I S A A L L O AT T I TOMASO BINGA M I L LY C A N AV E R O M I N N I E E VA N S ILSE GARNIER L I N DA GA ZZ E RA G E O RG I A NA H O U G H T ON M I N A L OY J OYC E M A N S O U R S I S T E R G E RT RU D E M O RGA N E U S A P I A PA L L A D I N O GISÈLE PRASSINOS ALICE RAHON G I O VA N N A S A N D R I HÉLÈNE SMITH M A RY E L L E N S O LT J O S E FA T O L R À UNICA ZÜRN

CO

O P R

O R B I TA


La mostra Materializzazione del linguaggio, curata dall’artista Mirella Bentivoglio come parte della 38. Esposizione Internazionale d’Arte nel 1978, riuniva ottanta artiste – alcune delle quali sono incluse nell’attuale presentazione – che lavoravano soprattutto con la Poesia Concreta o Visiva, movimenti artistici in cui l’aspetto della scrittura è importante quanto il suo significato. Il pionieristico inserimento di un gruppo tutto al femminile in un contesto a prevalenza maschile (un critico definì la mostra il “ghetto rosa” della Biennale) ruotava attorno all’arte testuale intesa come mezzo attraverso cui le artiste potevano riscrivere se stesse, e dunque il loro posto nella storia dell’arte. In parte concepita come risposta alla mostra di Bentivoglio, questa esposizione raccoglie artiste e scrittrici del XIX e XX secolo che utilizzano forme espanse di produzione testuale come strumenti di emancipazione e pratiche della differenza. Molte delle artiste qui ospitate – Tomaso Binga, Ilse Garnier e Mary Ellen Solt – usano poesie e testi concreti per decostruire la linearità associata alla prosa tradizionale e alla narrazione classica. Qui, però, la scrittura è intesa anche come pratica corporea e spirituale. È infatti a metà Ottocento che si manifesta un revival globale dell’interesse per lo spiritualismo e le pratiche medianiche, in gran parte di dominio femminile. In quel contesto, Linda Gazzera tiene dimostrazioni spiritiche in cui visceri medianici spuntano dal nulla; sulla stessa falsariga, Josefa Tolrà afferma che i suoi disegni sono guidati da entità spirituali che incontra in stato di trance. Georgiana Houghton, Eusapia Palladino e Hélène Smith usano i loro corpi come strumenti per comunicare con gli spiriti di altri pianeti o dimensioni, creando disegni, calchi e quadri che vengono ricevuti come messaggi dai mondi dell’aldilà. Se queste artiste sono immerse nell’ambiente dello spiritualismo, Sister Gertrude Morgan e Minnie Evans adottano processi “automatici” per realizzare quadri e disegni capaci di veicolare visioni, sogni e allucinazioni, trattando la creazione artistica come espressione di un linguaggio inconscio e del tutto personale. Nei lavori e negli scritti di Djuna Barnes, Joyce Mansour e Unica Zürn, invece, la fabulazione immaginaria offre la possibilità di considerare mondi alternativi e la libertà da una lingua e da una cultura incentrate sul maschile. Nelle esperienze di tutte queste artiste, la scrittura si reinventa come pratica corporea, viscerale e profondamente creativa, capace di mettere in discussione le strutture di potere consolidate. Incarna quello che la teorica francese della letteratura Hélène Cixous, nel suo saggio del 1975 Il riso della Medusa, definisce écriture féminine (scrittura femminile): uno stile proprio delle donne, che reagisce alla soppressione della loro voce nei sistemi maschilisti che dominano il linguaggio. Come ricorda Cixous: “Se si censura il corpo, si censura anche il respiro e il discorso. Scrivete voi stesse. Il vostro corpo deve farsi sentire”.

Fotografo non identificato, Seduta spiritica con la Palladino, 1909. Archivio del Museo di Antropologia Criminale “Cesare Lombroso”, Università di Torino. © Museo “Cesare Lombroso”

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L I N G UAG G I O D E L C O R P O Jennifer Higgie

In quelle occasioni desideravo che la donna scrivesse e proclamasse questo impero unico; affinché altre donne, altre sovrane inconfessate gridassero allora: anch’io trabocco, i miei desideri hanno inventato nuovi desideri, il mio corpo conosce canti inediti. — Hélène Cixous, Il riso della Medusa La storia dell’arte non è cosa ordinata. È lingua viva, plasmata dalla cultura in cui è nata e al contempo da quella in cui ora risiede. Troppo a lungo, tuttavia, si è manifestata come narrazione distorta, fallocentrica, di uomini che trionfavano su altri uomini, brandendo i pennelli come amanti che impugnano le pistole in un duello all’alba, mentre le donne li incitavano in disparte. Eppure, nonostante gli infiniti tentativi di emarginarci, innumerevoli donne, liberatesi dai dettami della convenzione per l’ingiustizia della loro esclusione, hanno esteso i limiti della rappresentazione. Per alcune, le visioni sono arrivate già completamente formate, aiutate da spiriti o fantasmi. Per altre, i sogni a occhi aperti di futuri possibili, i mistici pronunciamenti dei tarocchi o le libertà anarchiche della poesia hanno contribuito a tradurre un presente apparentemente immobile in un insieme dinamico di potenzialità, manifestate in una miriade di forme: visive, verbali, scritte. Le donne si muovevano, parlavano, lasciavano il segno su vari supporti nel fervore di creare nuovi linguaggi a partire da quelli vecchi, linguaggi che meglio potessero riflettere le sfumature di un mondo in rapida evoluzione e il loro posto in esso. Non ce n’erano due di uguali, perché non esistono due donne uguali.

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Corpo orbita


Con l’avvento della Seconda rivoluzione industriale e il boom delle nuove tecnologie – come la scoperta delle onde elettromagnetiche e l’invenzione del telegrafo e dei raggi X+– prese piede l’idea che ciò che un tempo era nascosto potesse, nelle giuste circostanze, essere reso visibile. Ciò ebbe un impatto non solo sulla scienza e sullo sviluppo della psicoanalisi, ma anche sull’arte e sullo spiritualismo: aprì la prospettiva a linguaggi che non si limitavano a descrivere realtà esterne, ma che riflettevano verità apparentemente elusive. A metà del XIX secolo, lo spiritualismo moderno crebbe in popolarità in tutto il mondo – dal Regno Unito all’America, all’Australia e al Sudafrica – e i suoi seguaci condividevano un obiettivo comune: comunicare con, e imparare da, altre dimensioni. Molte delle donne che aderirono allo spiritualismo usavano il proprio corpo come strumento di contatto con altri regni; approccio, questo, che potrebbe essere interpretato come resistenza, per quanto inconscia, alla logica fallocratica che così a lungo aveva dominato la loro vita. Benché le artiste medium condividessero la convinzione della multidimensionalità del mondo, il modo in cui ne espressero la loro interpretazione era estremamente variegato: alcune creavano dipinti e disegni astratti o diagrammatici, o componevano immagini che, per quanto indirettamente, facevano riferimento al mondo fisico. Alcune incanalavano spiriti guida, mentre altre erano attratte da rituali occulti o esoterici, o da sistemi di credenze organizzati come la teosofia – che era in parte animata dalla visualizzazione di forme invisibili, dalla teoria del colore e dal misticismo – e, più tardi, dai movimenti artistici come il Surrealismo. Come ha osservato il curatore Simon Grant: “In un periodo in cui le donne lottavano per i loro diritti e l’autodeterminazione, lo spiritualismo offriva un altro modo per incanalare l’energia collettiva”1.

Georgiana Houghton, The Spiritual Crown of Annie Mary Howitt Watts, 1867. Collezione Vivienne Roberts. Courtesy GeorgianaHoughton.com & Vivienne Roberts

Una notevole prima esploratrice di altri regni fu la medium inglese Georgiana Houghton, appartenente a un gruppo informale di artiste del XIX secolo che includeva Anna Mary Howitt, Elizabeth Wilkinson, Barbara Honywood, Catherine Berry e Alice Pery. Negli anni Sessanta e Settanta dell’Ottocento, Houghton iniziò a dipingere una serie di vorticosi acquerelli astratti, dichiarando che la sua mano era guidata da uno spirito chiamato Lenny, da settanta arcangeli e vari artisti rinascimentali, tra cui Tiziano e Correggio. Nel 1871, affittò la New British Gallery in Bond Street a Londra per esporre centocinquantacinque dei suoi disegni in una mostra intitolata Spirit Drawings in Water Colours (Disegni di spiriti ad acquerello). Ai nostri occhi moderni, i dipinti in high-key e quasi allucinogeni di Houghton anticipano i movimenti del XX secolo, come il Dadaismo, il Surrealismo e l’Espressionismo Astratto. A metà del XIX secolo, tuttavia, il suo lavoro sconcertò il pubblico: largamente derisa, la sua convinzione nella verità di quelle visioni la mandò quasi in rovina. Nei decenni che seguirono, anche molti degli artisti uomini sostenitori dell’astrazione furono, in varia misura, guidati dallo spiritualismo e dalla teosofia, ma le loro produzioni furono prese sul serio. Nel 1911, in Lo spirituale nell’arte, Vasilij Kandinskij scrisse: La vita spirituale, di cui l’arte è componente fondamentale, è un movimento ascendente e progressivo, tanto complesso quanto chiaro e preciso. È il movimento della conoscenza2.

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In quello stesso anno, dipinse Composizione V, a lungo considerato il primo dipinto astratto nell’arte occidentale, eppure Houghton aveva condotto analoghe esplorazioni già quarant’anni prima. Per quanto ci è noto, a oggi esistono solo quarantasei acquerelli di Georgiana Houghton3. L’esposizione a lei dedicata, allestita nel 2019 dal Courtauld Institute of Art di Londra, è stata la prima occasione in cui i suoi dipinti venivano visti nel Regno Unito in quasi centocinquant’anni, e la loro freschezza e originalità, pur attraverso i secoli, è risultata sorprendente. Numerose altre artiste in tutto il mondo hanno condiviso le esplorazioni paranormali di Houghton. In Svizzera, la medium e artista Hélène Smith – morta nel 1929 e considerata dai surrealisti la “musa della scrittura automatica” – sosteneva di poter comunicare, tra gli altri, con i marziani, Victor Hugo e Cagliostro, l’occultista del XVIII secolo. Più tardi nel XX secolo, anche l’autrice e artista tedesca Unica Zürn si cimentò con la scrittura automatica, tessendo la propria autobiografia per mezzo di anagrammi; creò inoltre fantastici disegni di animali chimerici, piante immaginarie e occhi onniveggenti. Negli Stati Uniti, Minnie Evans, nata nel 1892, dipingeva e disegnava intricati volti fusi con la vegetazione in un universo armonioso. Nel descrivere il modo in cui operava, dichiarò: Non ho immaginazione. Non pianifico mai un disegno, accadono e basta. In sogno mi è stato mostrato quello che devo fare, dei quadri. L’intero orizzonte spianato su tutta la Terra si presentava così, con immagini. In tutto il mio giardino, su tutti i lati degli alberi, dappertutto c’erano immagini 4. Evans può anche aver negato la responsabilità per i suoi meravigliosi dipinti, ma la loro esistenza è un dato di fatto. Le sue parole fanno capire che nessun approccio univoco potrà determinare il successo di un’opera d’arte; ridurre l’ispirazione o la motivazione a una formula prevedibile è un esercizio futile. *** Con l’ascesa del cosiddetto “femminismo della seconda ondata” degli anni Sessanta e Settanta, le attiviste hanno sfidato non solo il sessismo delle leggi e dei posti di lavoro, ma anche i vari modi in cui le donne erano state troppo a lungo messe creativamente a tacere dal patriarcato. Nel suo famoso saggio del 1975, Il riso della Medusa, la filosofa femminista francese Hélène Cixous ha coniato l’efficace termine écriture féminine (scrittura femminile), dichiarando: Unica Zürn, Untitled (interwoven double and multiple portraits showing Hans Bellmer), 1965. Collezione privata. Courtesy Andrew Edlin Gallery, New York

Bisogna che la donna scriva se stessa: che la donna scriva della donna e che avvicini le donne alla scrittura da cui sono state allontanate con la stessa violenza con la quale sono state allontanate dai loro corpi: per gli stessi motivi, dalla stessa legge e con lo stesso scopo mortale. La donna deve mettersi nel testo – come nel mondo e nella storia – di sua iniziativa5. Nonostante il radicalismo della proposta di Cixous, secondo cui era necessario che le donne trovassero un nuovo linguaggio per poter inscrivere la loro femminilità, nei decenni precedenti la sua pubblicazione, molte scrittrici – da Gertrude Stein, H.D. e Virginia Woolf, a Djuna Barnes, Joyce Mansour e altre – avevano affrontato la parola scritta per testare di che cosa fosse

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Concrete Poetry: A World View (copertina del libro), 1968

capace. Tra il 1914 e il 1919 la scrittrice e artista Mina Loy, che fu influenzata dal Futurismo e dal Cubismo, aveva creato, a partire da frammenti, poesie sorprendentemente vivide. Nell’Autobiografia di Alice B. Toklas (1933), Stein riassume l’originalità di Loy con l’osservazione: “Mina Loy […] era in grado di capire il testo anche senza le virgole. Lo era sempre stata”6. A sua volta, Loy osservava a proposito di Stein che “non è una scrittrice in nessuno dei sensi attualmente accettati della parola. Non usa le parole per presentare un soggetto, ma usa un soggetto fluido su cui far scorrere le sue parole”7. Entrambe le descrizioni anticipano le intenzioni di un gruppo rivoluzionario di artiste e scrittrici degli anni Sessanta e Settanta del Novecento che hanno esplorato la Poesia Concreta. Il termine – che il collettivo di artisti brasiliani Noigandres ha descritto come “tensione delle parole-cose nello spazio-tempo”8 – è vagamente improprio: più che il peso che la parola implica, la Poesia Concreta ha permesso a parole e lettere di tremare, scoppiare in danza e volare; essere contrarie, insensate, furiose e piene di sentimento. I ricchi contributi delle donne a questa nuova forma d’arte radicale sono stati, per la maggior parte, non riconosciuti dai guardiani della cultura. Nella pubblicazione del 1967 Concrete Poetry: An International Anthology, a cura di Stephen Bann, su ventitré artisti, non compare un solo nome femminile. Nello stesso anno, Emmett Williams e la Something Else Press pubblicano la prima grande antologia internazionale di Poesia Concreta. Comprendeva l’opera di settanta poeti e artisti di cui solo tre erano donne – Ilse Garnier, Bohumila Grögerová e Mary Ellen Solt – e dove Garnier e Grögerová erano rappresentate da opere realizzate con i loro partner uomini. Nel 1968, Mary Ellen Solt curò Concrete Poetry: A World View e anche in questo caso, su circa novanta poeti, figuravano solo quattro donne.

Materializzazione del linguaggio (copertina del catalogo), 1978. Photo e courtesy Archivio Storico della Biennale di Venezia

Furente per la costante omissione delle donne dalla narrazione, nel 1978 l’artista, scrittrice e curatrice italiana Mirella Bentivoglio – la quale riteneva che le categorie fossero state create per farle esplodere – in occasione della 38. Esposizione Internazionale d’Arte curò Materializzazione del linguaggio, la prima mostra nella storia della Biennale dedicata alle artiste. Tuttavia, sebbene la Biennale fosse stata inaugurata a luglio, la mostra di Bentivoglio aprì a settembre: in quanto curatrice di numerose altre mostre dedicate alle artiste, infatti, era stata frettolosamente invitata a realizzarne una in risposta alle diffuse proteste femministe per l’assenza di donne nella mostra principale 9. Il risultato fu l’incontro di ottantuno tra poetesse e artiste contemporanee e storiche, compresa l’opera delle futuriste che erano state messe in ombra dalle loro controparti maschili. Pur lavorando con una vasta gamma di mezzi, tutte avevano cercato, nelle parole di Bentivoglio, di “riattivare la sostanza atrofizzata dello strumento di comunicazione” 10 e liberare le parole dalle restrizioni imposte loro dai dettami patriarcali di genere. Nel catalogo, Bentivoglio scrive: Ovviamente non soltanto le donne stanno portando avanti questo discorso; ma nella donna stessa esso è doppiamente motivato. Smaterializzata in passato nella sublimità astratta della sua pubblica immagine, parallela alla sua pubblica assenza; privatamente confinata nel contatto quotidiano ed esclusivo con le materie, la donna oggi oppone tutta se stessa a un mondo derealizzato nei meccanismi ripetitivi11.

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Il 1978 costituì una pietra miliare nell’arte femminista in tutta Europa. A Belgrado si tenne il seminario Drugarica Žena. Žensko Pitanje – Novi Pristup? (Compagna donna. La questione femminile – un nuovo approccio?); la Prima Esposizione Internazionale Women’s Art fu allestita a Breslavia in Polonia, organizzata dall’artista Natalia LL; e la curatrice e gallerista Romana Loda inaugurò Il volto sinistro dell’arte, l’ultima iterazione della sua decennale serie di mostre dedicate alle artiste – tra cui Marina Abramović, Hanne Darboven, Gina Pane, VALIE EXPORT, Rebecca Horn, la stessa Natalia LL e altre – nella sua galleria a Brescia12.

Women in Concrete Poetry: 1959–1979, 2020. Courtesy Primary Information. In copertina POEMA (POEM) (1979) di Lenora de Barros

L’esaltante e lungamente atteso volume Women in Concrete Poetry: 1959– 1979 13 è una sorta di celebrazione dell’eredità di Materializzazione del linguaggio. Comprende il lavoro di cinquanta artiste da tutto il mondo – da Mirella Bentivoglio, Tomaso Binga, Madeline Gins, a Liliane Lijn, Giovanna Sandri, Mary Ellen Solt e altre – che hanno esplorato l’attivazione del linguaggio attraverso la tipografia. Sfogliarne le pagine è assistere all’opera di artiste per le quali era di primaria importanza “liberare le lettere dalle parole e le parole dalle convenzioni che le obbligano a un determinato funzionamento nel linguaggio ordinario e nei testi letterari tradizionali”14. Esplorando il modo in cui dare forma a un mondo interiore così aspramente censurato dalle leggi e dai costumi patriarcali, le cinquantadue lettere dell’alfabeto romano vengono spremute come tanti tubetti di colore. (Come scriveva Bentivoglio: “C’è da credere a un rapporto profondo della donna con l’alfabeto, e non solo, perché per prima ne trasmette la forma ai figli”15). Alcune artiste trattavano le parole come oggetti: minuscole sculture che zampettano sulla pagina fino a trovare il proprio significato; altre creavano nuove forme balbettanti e melodiche. Una sillaba o una frase possono comunicare in un linguaggio facilmente comprensibile, o abbandonare del tutto la leggibilità. Una singola lettera può ruggire; le strutture sono gettate al vento e le ossa del significato spolpate ed esposte agli elementi. Ogni donna scrive la propria storia, pronuncia il proprio nome, plasma il proprio mondo. Il suo corpo si muove nello spazio e atterra sulla pagina.

Mirella Bentivoglio in collaborazione con Annalisa Alloatti, Storia del monumento, 1968. Photo Riccardo Ragazzi. Courtesy Gramma_Epsilon Gallery, Athens. © Mirella Bentivoglio

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Jennifer Higgie è una scrittrice australiana che vive a Londra. È autrice del romanzo Bedlam (Sternberg Press, 2006); curatrice di The Artist’s Joke (The MIT Press, 2007); autrice e illustratrice del libro per bambini There’s Not One (Scribe Publications, 2016). Il suo ultimo libro, The Mirror and the Palette: Rebellion, Revolution and Resilience: 500 Years of Women’s Self-Portraits (2021) è pubblicato da Weidenfeld & Nicolson. Attualmente sta lavorando a un libro sulle artiste e sul mondo degli spiriti.

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Simon Grant, Spiritualist Sisters in Art, in Not Without My Ghosts: The Artist as Medium, London, Hayward Publishing, 2020. Grant ha curato per la Hayward Gallery Touring una mostra dallo stesso titolo, inaugurata presso la Drawing Room di Londra nel 2020. Vasilij Kandinskij, Lo spirituale nell’arte, a cura di Elena Pontiggia, Milano, Bompiani, 1989. La maggior parte si trova nella collezione della Victorian Spiritualist Union a Melbourne, Australia. Il Monash University Museum of Art sta attualmente lavorando a un catalogo delle opere di Georgiana Houghton. Minnie Evans, citata in Nina Howell Starr, The Lost World of Minnie Evans, in “The Bennington Review”, 111(2), 1969, 41 (https://americanart.si.edu/ artist/minnie-evans-1466). Hélène Cixous, Il riso della Medusa (1975), in Critiche femministe e teorie letterarie, a cura di Raffaella Baccolini et al., Bologna, CLUEB, 2021. Gertrude Stein, Autobiografia di Alice B. Toklas (1933), a cura di Alessandra Sarchi, Venezia, Marsilio, 2021.

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Mina Loy, Gertrude Stein, in Stories and Essays of Mina Loy, a cura di Sara Crangle, Champaign, Dalkey Archive Press, 2011, 233. Women in Concrete Poetry: 1959–1979, a cura di Alex Balgiu e Mónica de la Torre, Brooklyn (NY), Primary Information, 2020, 12. Ibid., 13. Ibid. Ibid. Nel 2019 i curatori Raffaella Perna e Marco Scotini hanno celebrato l’importanza del 1978 con la mostra Il Soggetto Imprevisto. 1978 Arte e Femminismo in Italia / The Unexpected Subject: 1978 Art and Feminism in Italy, presso l’FM Centro per l’Arte Contemporanea di Milano. Women in Concrete Poetry: 1959–1979, cit. Ibid., 13. Mirella Bentivoglio, citata da Lucy Ives in But Is It Concrete?, in Poetryfoundation.org, 25 gennaio 2021.

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Mirella Bentivoglio e Annalisa Alloatti

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Josefa Tolrà

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Sister Gertrude Morgan

Minnie Evans

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Linda Gazzera

Eusapia Palladino

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Mina Loy

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Gisèle Prassinos

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[1a–1c] Mirella Bentivoglio in collaborazione con Annalisa Alloatti, Storia del monumento, portfolio contenente 6 litografie su carta, 35 × 25 cm. De Luca Editore, 1968. Photo Riccardo Ragazzi. Archivio Mirella Bentivoglio; Collezione Paolo Cortese. Courtesy Gramma_ Epsilon Gallery, Athens. © Mirella Bentivoglio Tomaso Binga, Dattilocodice (tavola 10), 1978. Dattilografia, inchiostro su carta, 55 × 50 cm. Photo Danilo Donzelli. Courtesy l’Artista; Richard Saltoun, London Giovanna Sandri, Costellazione di lettere, 1977. Serigrafia su cartoncino, 48.5 × 69.5 cm Ilse Garnier, Blason du corps féminin, 1979. Portfolio con 46 illustrazioni. Pubblicato da Editions André Silvaire, Parigi Mary Ellen Solt, Forsythia, 1966. Inchiostro su carta, 29 × 21 cm. Collezione Museum of Contemporary Art, Antwerp Mary Ellen Solt, Geranium, 1966. Inchiostro su carta, 29 × 21 cm. Collezione Museum of Contemporary Art, Antwerp Mary Ellen Solt, Wild Crab, 1966. Inchiostro su carta, 29 × 21 cm. Collezione Museum of Contemporary Art, Antwerp Unica Zürn, La mort de Kennedy, 1964. China su carta, 90 × 74 × 2,4 cm. Photo Katinka Rutz, vision design. Collezione Karin and Gerhard Dammann, Svizzera Milly Canavero, Untitled, 1985. Pennarello su carta, 46,5 × 65 cm. Photo Elmar R. Gruber. The Elmar R. Gruber Collection of Mediumistic Art. © Elmar R. Gruber Milly Canavero, Untitled, 1985. Pennarello su carta, 46,5 × 65 cm. Photo Elmar R. Gruber. The Elmar R. Gruber Collection of Mediumistic Art. © Elmar R. Gruber Milly Canavero, Untitled, 1986. Pennarello su carta, 46,5 × 65 cm. Photo Elmar R. Gruber. The Elmar R. Gruber Collection of Mediumistic Art. © Elmar R. Gruber Josefa Tolrà, Dibujo escritura fluídica, 1954. Inchiostro e pennarello su carta, 28 × 36,5 cm. Collezione privata. © Fundació Josefa Tolrà Hélène Smith, Paysage martien, 1896–1899 ca. Gouache su carta, 25.8 × 21 cm. Photo Bibliothèque de Genève. Ms. Fr. 7843/3, planchet 2 Georgiana Houghton, The Flower of William Stringer, 1866. Acquarello su carta, inchiostro su cartoncino, 2 pagine, 49 × 42 × 3,5 cm (album). Collezione The College of Psychic Studies, London © The College of Psychic Studies, London Alice Rahon, Thunderbird, 1946. Olio su tela, 32,1 × 99,1 cm. Photo Gallery Wendi Norris, San Francisco. Collezione Gallery Wendi Norris

16 Sister Gertrude Morgan, Revelation I JOHN, 1970 ca. Acrilico, matita, inchiostro su 2 pannelli di cartone, 55,6 × 76,2 cm. Courtesy The Museum + The Gallery of Everything, London 17 Sister Gertrude Morgan, untitled (SABBATH DAY Poem), n.d. Pittura su cartoncino, 30,5 × 22 cm. Courtesy The Museum + The Gallery of Everything, London 18 Minnie Evans, untitled, 1967. Olio, inchiostro, carta su tavola, 36,83 × 49,53 cm. Courtesy The Museum + The Gallery of Everything, London 19 Enrico Imoda, Album, 1909. L’album contiene fotografie di sedute spiritiche tenute dalla medium Linda Gazzera a Torino dal 1908 al 1909. Diciotto stampe ai sali d’argento e una stampa all’albumina, di diverse misure, inserite in un album in cartoncino, 14 × 19 × 2 cm. Dono del medico Enrico Imoda a Cesare Lombroso. Archivio storico del Museo di Antropologia criminale “Cesare Lombroso”, Università di Torino. © Museo “Cesare Lombroso” 20 Fotografo non identificato, Seduta spiritica con Palladino, recto, 1909. Fotografia della levitazione di un tavolo avvenuta durante una seduta spiritica con Eusapia Palladino e altri presso la Società degli Studi Psichici di Milano nel 1909. Stampa all’albumina, 16,8 × 12. Archivio del Museo di Antropologia criminale “Cesare Lombroso”, Università di Torino. © Museo “Cesare Lombroso” 21 Eugenio Gellona, Calco medianico, recto, 1906. Fotografia di un modello in gesso di 2 mani ottenuto da un calco creato durante una seduta spiritica tenutasi il 30 novembre 1906 a Genova, alla presenza dello spiritista Eugenio Gellona. Stampa all’albumina, 12,5 × 17,5 cm. Archivio del Museo di Antropologia criminale “Cesare Lombroso”, Università di Torino. © Museo “Cesare Lombroso” 22 Mina Loy, Househunting, 1950 ca. Assemblaggio in tecnica mista, 90 × 105,5 cm. Photo Zukor Art Conservation. Collezione Carolyn Burke. Courtesy Carolyn Burke 23 Djuna Barnes, Ladies Almanack, 1928. Illustazioni. Pubblicato da Edward W. Titus, Parigi, 1928. Courtesy Djuna Barnes papers. Special Collections and University Archives, University of Maryland Libraries 24 Gisèle Prassinos, Portrait de famille, 1975. Tessile, cotone, feltro, seta e bottoni su supporto di juta, 105 × 79 cm. Photo Ville de Paris / Bibliothèque historique. Collezione Bibliothèque historique de la Ville de Paris

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BIO GRAFIE DELLE ARTISTE

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DJUNA BARNES 1892 – 1982, New York City, USA Nel 1928 la scrittrice e giornalista americana Djuna Barnes pubblica clandestinamente Ladies Almanack, un esperimento letterario che mescola prosa, poesia, disegni e qualche verso musicale. Il libro racconta le vicende della dama Evangeline Musset che, insieme alle sue amiche dai nomi bizzarri – come Patience Scalpel, Doll Furious, Señorita Fly-About –, vive la propria omosessualità con fiera e frivola emancipazione. Fin dalla copertina del romanzo, le “membre della setta”, come le chiama Barnes, sono raffigurate come un’armata di avventuriere guerrafondaie che, nei loro vestiti alla moda e in sella a cavalli bianchi, mettono in fuga un preoccupato cavaliere. Se è chiaro che le intenzioni del libro coincidono con una guerra al genere maschile, l’intreccio di parole e immagini è così fitto da renderne criptica la narrazione. Quest’ultima infatti è scandita da una serie di vignette dal forte carattere satirico, che prendono il nome dei mesi dell’anno e sono costellate da una simbologia astrologica riferibile al titolo del libro. La loro estetica ricorda quella delle stampe popolari note in Francia come images d’Épinal e riesce a mitigare i tratti crudi dell’iconografia medievale, con la brillantezza delle più tradizionali atmosfere naïve. Già con The Book of Repulsive Women: 8 Rhythms and 5 Drawings (1915) Barnes aveva promosso un’immagine femminile moderna e disinibita, ispirata alla comunità di femministe ribelli che frequentava al Greenwich Village; Ladies Almanack rappresenta però una femminilità fiera, sicura e addirittura rinvigorita dallo stigma che la società di allora riconosce nella sua omosessualità.

Quando dedica il libro alla compagna e artista Thelma Wood, Barnes è nel pieno del suo soggiorno parigino e, frequentando un gruppo di donne simile a quello che circonda Evangeline Musset, esprime una positività inedita per la sua produzione letteraria. Smantellato il circolo di fiducia della sorellanza – che comprendeva tra le altre Natalie Clifford Barney, Mina Loy e Dorothy Wilde – Barnes torna in America all’inizio degli anni Trenta e raggiunge le tinte più fosche della sua produzione letteraria. Il suo successivo e più famoso romanzo, Nightwood (1936) racconta le derive urbane e gli incontri notturni di Robin Vote che, come l’autrice, cerca di ricucire i frammenti di un’identità ormai inconciliabile con le ostilità e i vizi del mondo moderno. – SM

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M I R E L L A B E N T I VO G L I O 1922, Klagenfurt, Austria – 2017, Roma, Italia In collaborazione con

A N N A L I S A A L L OAT T I 1926 – 2000, Torino, Italia Gli esperimenti grafici di Mirella Bentivoglio, poetessa, artista e curatrice italiana, utilizzano la Poesia Concreta e Visiva per combinare tra loro il discorso femminista e d’avanguardia. Influenzate dagli esperimenti tipografici del Futurismo, del Dadaismo e del Surrealismo, la Poesia Concreta e Visiva – che trattano le lettere e le parole come segni grafici, attivando la materialità del linguaggio – emergono per la prima volta negli anni Quaranta del Novecento, fiorendo negli anni Sessanta e Settanta nelle pratiche associate a gruppi di artisti italiani come la Neoavanguardia,

I Novissimi, il Gruppo 63 e il Gruppo 70. Allo stesso tempo, una nuova ondata del femminismo attraversa l’Italia, guadagnando slancio dalla diffusa mobilitazione dei movimenti di protesta studenteschi e operai del biennio 1968–1969. L’opera di Bentivoglio unisce queste correnti di energia artistica e sociale rivoluzionaria. Bentivoglio decide di abbandonare la poesia convenzionale quando, negli anni Sessanta, inizia a impegnarsi attivamente nel femminismo. Diviene una figura chiave nei movimenti internazionali della Poesia Concreta e Visiva e promuove il lavoro di altre artiste che lavorano nel campo verbo-visivo. Tra il 1971 e il 1981 cura quattordici mostre in Italia e all’estero, tra cui Materializzazione del linguaggio, allestita ai Magazzini del sale per la 38. Esposizione Internazionale d’Arte. Quella mostra – la prima dedicata ad artiste donne che lavorano con il linguaggio come mezzo d’elezione – presenta il lavoro di ottanta artiste italiane e internazionali; aggiunta all’ultimo minuto al programma della Biennale, viene inaugurata nel settembre 1978. Storia del monumento (1968), una cartella comprendente sei serigrafie su carta, viene realizzata in collaborazione con l’artista Annalisa Alloatti. Pagina dopo pagina, le due artiste trasmutano la parola “monumento”, evidenziando i frammenti linguistici contenuti all’interno della parola stessa: nume, me non tu, muto, temo. Bentivoglio e Alloatti smantellano l’imponente significato del monumento come idea astratta liberando, sabotando e slegando il linguaggio da posizioni dialogiche predefinite, rifiutando il discorso patriarcale standardizzato e allo stesso tempo rivendicando e ristabilendo le proprie soggettività. – LC

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TOMASO BINGA

M I L LY C A N AV E R O

1931, Salerno, Italia. Vive a Roma, Italia

1920 – 2010, Genova, Italia

Bianca Menna, nata Pucciarelli, sposa se stessa nel 1977. Presso la galleria romana Campo D celebra il matrimonio con il suo alter ego Tomaso Binga e, in una cerimonia documentata da una fotografia, suggella definitivamente la metamorfosi della donna in artista. Già l’ironia dissacrante dietro la scelta di uno pseudonimo maschile basterebbe a esprimere il gioco linguistico alla base della sua pratica, ma la costruzione di una performance tanto irriverente aiuta a comprenderne meglio l’obiettivo. Nel corso della sua lunga carriera artistica, infatti, Tomaso Binga lavora come performer, poetessa, artista visiva utilizzando gesti e parole per cercare di stravolgere i costrutti della società maschilista. Da una parte il corpo – spesso nudo, mima le lettere dell’alfabeto diventando un abecedario carnale e raccontando una donna indipendente (Scrittura vivente, 1976), dall’altra la scrittura – veloce come un sismografo, si rincorre ossessivamente su tavole, taccuini, vestiti e carte da parati con il solo scopo di liberarsi del suo significato e ribaltare le convenzioni linguistiche (Scrittura desemantizzata, 1972–1974).

I pochi disegni medianici di Milly Canavero sono l’unica traccia di una vita ritirata, indipendente e avvolta nel mistero. Avvicinatasi alle pratiche spirituali in tarda età grazie al fortuito incontro con un medium professionista, a partire dal 1973 l’artista genovese comincia a produrre una serie di componimenti che – prima in forma grafica con l’aiuto di una planchette (tavola Ouija per la scrittura automatica), poi come flussi testuali tra il filosofico e il letterario – ritiene essere messaggi provenienti da forze universali ed extraterrestri. Pur differendo l’uno dall’altro in base ai parametri della sessione in cui sono creati, questi disegni assumono in pochi anni un’estetica unica. La precisione con cui Canavero produce queste composizioni è dovuta a gesti ossessivi e ininterrotti, eseguiti in pochi istanti e a mano libera, che seguono solitamente un ordine: dopo uno schema composto da segni circolari, ellittici o spiraliformi, l’artista taglia la composizione con geometrie spigolose, come frecce direzionate verso l’alto, linee rette, triangoli e uno strano alfabeto geroglifico. Nella serie in mostra Untitled (1982–1986), questi codici alfanumerici occupano una posizione interstiziale e, con lo scopo di specificarne il significato o aiutarne la lettura, sono aggiunti diverso tempo dopo la prima stesura del disegno.

Abbracciando consapevolmente una ricerca già diffusa a livello internazionale, Binga gioca con i codici verbali fin dai primi anni Settanta, articolandoli in flussi di scrittura incomprensibili e silenziosi che raggiungono il fruitore come messaggi subliminali. Questa prima produzione assume risvolti concretisti a partire dal 1978, quando invitata da Mirella Bentivoglio a partecipare alla mostra Materializzazione del linguaggio nell’ambito della Biennale Arte, Binga propone una ricerca grafica dagli esiti quasi architettonici. I quadrati dei suoi Dattilocodici sono costituiti dalla ripetizione di un ideogramma che, impresso in due colori e a distanza regolare, è il risultato della sovrapposizione di due diversi grafemi battuti a macchina. Sommando una i a un 9 o un 7 a una j, l’artista annulla l’identità originaria dei singoli elementi alfanumerici per ottenere un carattere tipografico inedito e dal forte valore iconico. Mentre il blu della cornice e il rosso del nucleo assegnano alla struttura dei Dattilocodici un effetto materico, gli ideogrammi lavorano sul versante linguistico decostruendo convenzioni e indirizzando al fruitore un invito verbo-visivo. Grazie al loro potere interlinguistico la comprensione poetica di questi segni non conosce limiti geografici o culturali: se, come sostiene Binga, scrivere non significa descrivere, allora ognuno può proiettare in questi testi la propria soggettività. – SM

estranea al mainstream accademico. Discendente di una schiava di Trinidad, senza istruzione formale oltre la scuola primaria, Evans cresce come devota battista, a lungo affascinata dalla cosmologia della propria fede. Durante l’intera infanzia, è turbata da sogni opprimenti e visioni, ma solo il venerdì santo del 1935, all’età di quarantatré anni, Evans ha una visione in cui una voce celeste le dice di “disegnare o morire”1. Le sue prime prove artistiche sono un paio di piccoli disegni a penna e inchiostro su carta, My Very First e My Second, entrambi datati 1935, ora conservati nella collezione del Whitney Museum of American Art; le opere che seguono sono ulteriormente animate da una presenza divina tratta dal personale paesaggio onirico dell’artista e includono elaborate rappresentazioni di angeli e demoni, nonché una proliferazione di occhi, che per lei rappresentano l’onniscienza di Dio. Benché ricolmi il proprio lavoro di simbologia religiosa, creature chimeriche, vertiginosi elementi botanici e colori chiassosi, Evans ne rifiuta un’interpretazione diretta, sostenendo di non comprendere il significato di ciò che le proviene dall’inconscio. Afferma: “Non ho immaginazione. Non pianifico mai un disegno, succede e basta. In sogno mi è stato mostrato quello che devo fare, dei quadri. Tutto l’intero orizzonte, su tutta la Terra era là fuori, così, con disegni. In tutto il mio cortile, su tutti i lati degli alberi e dappertutto, c’erano disegni”2.

Sebbene l’attitudine alla scrittura in lingue sconosciute permetta di associare la sua pratica alla glossolalia medianica e i suoi connotati estetici siano il risultato di credenze paranormali, l’aspetto distintivo della produzione di Milly Canavero risiede nell’inusuale ordine della sua pittografia e nel fatto che essa non sia il frutto di momenti di alterazione psicofisica. L’artista infatti sembra costruire la sua astrazione in termini sistematici e, senza concedere alcuna vibrazione al corpo o abbandonarsi a stati di trance, gestisce la propria presenza in maniera focalizzata. Nel segno dell’occultismo a cui la sua pratica è ricondotta, le tavole medianiche non sono solo il risultato di moti fisici e interiori ma la traccia di un’esperienza cosmologica, che non può dirsi priva di condizionamenti reali. – SM

Oltre alle ispirazioni religiose, il lavoro di Evans degli anni Quaranta – come Untitled (1943), con le sue delicate fasce di foglie e fiori coronate da un bombo – è influenzato anche dalla lussureggiante vegetazione degli Airlie Gardens a Wilmington, nella Carolina del Nord, dove è impiegata come guardiana e dove spesso dipinge durante il lavoro. Opere successive come untitled (1962–1963 / 1968) e untitled (1967) sono una dimostrazione dei suoi esperimenti con uno stile più denso e altamente pigmentato, caratterizzato da composizioni simmetriche ancorate da volti e circondate da elementi curvilinei composti da vegetazione, farfalle e arcobaleni. In queste emblematiche astrazioni floreali, Evans trasmette le proprie visioni, esprimendo la sua profonda spiritualità attraverso uno stile personale e dinamico. – MW

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1

M I N N I E E VA N S 1892, Long Creek, USA – 1987, Wilmington, USA

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Trascrizione dattiloscritta da Nina Howell Starr, Conversations with Minnie Evans (1962–1973), Nina Howell Starr Papers, Archives of American Art, Smithsonian Institution, Washington, D.C. Minnie Evans, citata in Nina Howell Starr, The Lost World of Minnie Evans, in “The Bennington Review”, 111(2), 1969, 41.

Nata nel 1892 in una casetta di legno a Long Creek, nella Carolina del Nord, Minnie Evans diviene un’artista in tarda età e decisamente

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ILSE GARNIER

L I N DA GA ZZ E RA

1927, Kaiserslautern, Germania – 2020, Saisseval, Francia

1890, Roma, Italia – 1942, San Paolo, Brasile

La prima edizione di Blason du corps féminin, datata 1979, non è altro che una semplice cartella verde al cui interno, su quarantasei fogli singoli, sono raccolti altrettanti componimenti poetici dell’artista francese Ilse Garnier. Nelle poche pagine di prefazione, le parole del marito e collega Pierre Garnier sostengono che la visione maschilista della storia abbia indebolito la forza poetica del corpo femminile e propone la scrittura della moglie come una valida soluzione per la sua rappresentazione. In ognuna delle tavole che seguono, in effetti, Ilse Garnier si concentra sul corpo di una donna differente attribuendole aggettivi, linee o segni geometrici in grado di illustrarne le qualità. Tratta la lettera o contenuta nella parola francese corps (corpo) come simbolo della figura femminile: la moltiplica quando si riferisce al corpo di una donna libera, ne aumenta il diametro quando è solare, la fa sparire quando è assente. Più in generale, le associa un dinamismo grafico che, in netta opposizione con l’araldica suggerita nel titolo dell’opera, risponde perfettamente all’idea di una femminilità non riducibile a una mera rappresentazione statica. Le tavole rappresentano la celebrazione del non-verbale in ambito poetico e descrivono in maniera eloquente i principi dello Spazialismo letterario, il movimento d’avanguardia che la coppia fonda nel 1963, con lo scopo di decostruire la linearità del corpo testuale e proporre il superamento di qualsiasi limite semantico attraverso le infinite possibilità di combinazione tra lettere e segni geometrici. Già nel 1965, Ilse Garnier aveva applicato questa stessa metodologia a una serie di componimenti chiamati Poèmes mécaniques, che prevedono lo slittamento, la ripetizione o la sottrazione delle lettere fino a creare delle immagini spesso astratte. Queste ultime, fungendo da spartiti, conducono l’artista a pionieristiche sperimentazioni anche nell’ambito della poesia sonora. Non a caso nel 1978, in occasione della sua partecipazione alla mostra Materializzazione del linguaggio, la curatrice Mirella Bentivoglio descrive i componimenti di Garnier come metafore capaci di abbinare l’espressività della parola al fascino dell’immagine e anche in questa seconda esposizione alla Biennale di Venezia, i suoi lavori ribadiscono come la sensibilità poetica venga amplificata dalla libertà con cui il segno costruisce il testo o ne altera l’identità. – SM

Quando lo psicologo Enrico Imoda la presenta alla comunità scientifica internazionale come la più importante medium italiana della sua generazione, Linda Gazzera ha solo ventun anni. Secondo l’esame del medico torinese, già pioniere negli studi psicologici dei fenomeni esoterici, la donna è dotata di particolari abilità medianiche ed è in grado di far “apparire” le anime con cui comunica. Grazie a Imoda, tra il 1908 e il 1909 Gazzera si esibisce in numerosi salotti esoterici italiani ed europei proponendo uno spettacolo scandito in maniera ricorrente. Per evitare qualsiasi dubbio su eventuali manipolazioni, la medium si cambia insieme alla padrona di casa e delega agli altri ospiti la preparazione del cosiddetto “gabinetto medianico”, ovvero un ambiente delimitato da tendaggi utile ad agevolare le apparizioni. Solo a quel punto, caduta in uno stato di trance, Gazzera si abbandona al volere del suo spirito guida – un ufficiale di cavalleria di nome Vincenzo –, che oltre a rispondere alle domande dei presenti e deriderli grottescamente, narra le vicende di altre anime, ne gestisce l’apparizione e ordina l’esecuzione di uno scatto fotografico. Se oggi non è possibile considerare questo materiale visivo come traccia di un’evidenza scientifica, le immagini scattate durante le sedute di Gazzera sono state a lungo utilizzate come documento clinico suscitando le reazioni controverse di rinomati medici internazionali. A parte il Premio Nobel per la medicina Charles Richet, che conferma l’attendibilità delle immagini dopo aver partecipato ad alcune sessioni, i detrattori di Gazzera sono in netta maggioranza e rappresentano il motivo più probabile della fine della sua carriera e del misterioso trasferimento in Brasile. Le diciotto stampe raccolte nel cosiddetto Album Imoda (1909) vengono confezionate dal mentore di Gazzera come omaggio al noto medico e antropologo Cesare Lombroso e, pur non essendo riferibili alla medesima seduta, documentano le varie fasi di una generica sessione seguendo un ordine narrativo carico di pathos. Dopo alcuni scatti che la ritraggono in uno stato di evidente alterazione psicofisica, la medium appare circondata da una serie di figure definite “ectoplasmi”, che coinciderebbero con le anime evocate dallo spirito guida Vincenzo. Sia che si manifestino sotto forma di mani, fiori o volti per lo più femminili, queste sagome completamente bidimensionali sono contenute in drappi voluminosi e, più che flussi di energia occulta, sembrano ritagli dipinti da qualche mano esperta. Ben lungi dalle finalità pseudoscientifiche

di Imoda, queste fotografie sono oggi il documento di un affascinante artificio e, contemporaneamente, la testimonianza di quanto il corpo possa rendersi teatro dei più convincenti incantesimi. – SM

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G E O RG I A NA H O U G H T ON 1814, Las Palmas, Isole Canarie, Spagna – 1884, Londra, UK Nata alle Canarie nel 1814 da genitori britannici, Georgiana Houghton trascorre la maggior parte della propria vita nella Londra vittoriana, assistendo a un periodo di profondo e prolungato risveglio religioso, nonché all’ascesa di tutta una serie di credenze in forze ed energie sovrannaturali, storie occulte e altre misteriose modalità di comunicazione. Lo spiritualismo, che elabora un metodo per comunicare con i defunti nel corso di sedute condotte da medium, ha origine nell’Upstate New York e negli anni Cinquanta del XIX secolo si diffonde in Inghilterra, dove permea rapidamente la cultura artistica e letteraria, fenomeno riscontrabile anche negli scritti di autori come Arthur Conan Doyle e William Butler Yeats. Per Houghton, cristiana devota e artista di formazione, lo spiritualismo permette di mantenere un contatto più stretto con Dio, anche se il suo approccio religioso non è necessariamente di tipo convenzionale. Negli anni Sessanta e Settanta del XIX secolo avrebbe tradotto quel suo furore religioso nei “disegni di spiriti”, una serie di opere astratte su carta caratterizzate dalla straordinaria molteplicità di strati e sfaccettature. Houghton realizza gli acquerelli The Flower of William Stringer e The Spiritual Crown of Annie Mary Howitt Watts rispettivamente nel 1866 e 1867, poco dopo aver completato i primi disegni medianici. Nell’ottobre del 1865, Houghton – che in seguito alla morte della sorella aveva deciso di dedicare la vita allo spiritualismo – aveva sostenuto di poter entrare in contatto con guide spirituali che abitavano un regno al di là del mondo fisico. Guidata da questi “amici invisibili”, documenta ampiamente le istruzioni ricevute durante questi incontri sovrannaturali in peculiari disegni a matita realizzati con la scrittura automatica e, in seguito, in acquerelli astratti. In The Flower of William Stringer, Houghton annoda linee spiraliformi e linee rette, che scorrono sulla pagina come onde rosse, color seppia e azzurre. The Spiritual Crown of Annie Mary Howitt Watts è composto di riccioli ritmicamente stratificati di bianco e grigio in cima a una massa di linee rosso mirtillo, blu e giallo. Sul verso di ogni lavoro, un’elaborata descrizione tenta di chiarire il messaggio dell’opera, il cui significato, dichiara

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l’artista, proviene da spiriti che semplicemente dirigono la sua mano. L’intenzione di Houghton, come afferma nella sua autobiografia del 1881, Evenings at Home in Spiritual Séance, è quella di “mostrare ‘ciò che il Signore ha fatto per la mia anima’, concedendomi la Luce ora effusa sull’umanità grazie al ristabilito potere della comunione con l’invisibile”1. – MW 1

Georgiana Houghton, citata in Simon Grant, Georgiana Houghton: Medium and Spiritualist, in “Raw Vision”, 92, inverno 2016–2017, 22.

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M I N A L OY 1882, Londra, UK – 1966, Aspen, USA Difficile ricondurre la pratica artistica di Mina Loy a un’unica matrice stilistica: il Modernismo dei suoi lavori è il frutto di una sensibilità irrequieta che, grazie a un continuo girovagare tra Europa e America, si è di volta in volta riconosciuta nell’esperienza futurista, dadaista o surrealista. Dopo una formazione artistica tra Inghilterra e Germania, Loy arriva a Firenze nel 1905 e qui si dedica a una produzione principalmente letteraria che, come dimostrano la raccolta di poesie Aphorisms on Futurism (1914) e la celebre lettera conosciuta come Feminist Manifesto (1914), sembra adottare le stesse “parole in libertà” dell’avanguardia italiana. Contrariamente agli esponenti del gruppo di Marinetti, tuttavia, Loy concepisce i suoi scritti come messaggi per un pubblico principalmente femminile, che invita all’emancipazione intellettuale, sentimentale e sessuale. Lei stessa dimostra di condurre uno stile di vita indipendente e, nel 1916, separatasi dal marito, incomincia un lungo pellegrinaggio internazionale che la conduce in Argentina, Svizzera e Inghilterra fino a portarla a New York nel 1936. Stabilitasi oltreoceano, Loy si dedica a un approccio artistico singolare che, pur vicino alle tecniche dadaiste, raggiunge forti esiti surrealisti. Se già nel collage intitolato Surreal Scene (1930 ca.) l’artista rappresenta il corpo femminile al centro di iconografie tecnologiche, mistiche e scientifiche, suggerendo che ogni donna sia la sede di una complessità mentale e fisica, è con Househunting (1950 ca.) che Mina Loy conferisce un nuovo spessore al femminismo manifestato in Aphorisms. Come fosse la rappresentazione visiva di un verso scritto trent’anni prima – “Forget that you live in houses, that you may live in yourself” (Dimentica di vivere in una casa, che tu possa vivere in te stessa) – l’opera consiste nell’assemblaggio di materiali differenti e presenta la sagoma di una donna che, circondata dalle immagini di dieci architetture, indossa un copricapo riempito con una teiera, un gomitolo di lana, del cibo e dei

panni stesi. Se è chiaro che la rappresentazione di questi ultimi sia un riferimento agli stereotipi che soffocano e impediscono l’indipendenza della donna, il contesto da cui essa è circondata allude a una libertà di tipo opposto e sembra descrivere lo spirito moderno che guida la sua autrice. – SM

Zürn –, le immagini di Matta si allineano perfettamente alla dimensione onirica proposta dal Surrealismo, ma accompagnano le parole di una donna fiera e ribelle, provocante e insolente, che sa quando usare il proprio corpo come un’arma o arrendersi ai suoi umori. – SM

J OYC E M A N S O U R

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1928, Bowden, UK – 1986, Parigi, Francia Per i surrealisti della seconda generazione, quelli che hanno superato l’orrore della Seconda guerra mondiale senza rinunciare a considerare la donna come l’oggetto dei loro desideri più inquieti o la musa delle loro più fantastiche creazioni, Joyce Mansour deve essere stata la quintessenza della provocazione femminile, al contempo irresistibile e respingente. Nata in Inghilterra da genitori di origine egiziana con cui si trasferisce presto al Cairo, la scrittrice e poetessa, ormai ventenne, si avvicina al Surrealismo e, grazie alla pubblicazione della sua prima raccolta di poesie nel 1953, diventa un riferimento per l’ambiente culturale parigino, stringendo una forte amicizia con il suo esponente principale, André Breton. Già il titolo della sua opera prima, Cris (Urla), suggerisce che i suoi componimenti si allontanano dal lirismo della poesia tradizionale e, anzi, sono gli strumenti per gridare sensazioni che spesso coincidono con l’atto sessuale o la performance erotica. Ben oltre l’idea trasognata della femme enfant o dell’amour fou surrealisti, la poesia di Mansour tratteggia senza alcun filtro linguistico l’immagine di una donna emancipata, che non ha paura di abbandonarsi alle più crude pulsioni sessuali, sa gestirle consapevolmente e può essere tanto affascinante quanto pericolosa. Inspiegabilmente misconosciuti nel panorama della letteratura contemporanea, i suoi lavori poetici sono considerati tra i più interessanti del periodo e, quando accompagnati dalle illustrazioni dei tanti artisti che si sono misurati con le sue parole, tra cui Roberto Matta, Hans Bellmer e Wifredo Lam, raggiungono esiti ancora più potenti. La raccolta di poesie intitolata Les Damnations, pubblicata nel 1966 e illustrata dall’artista e architetto cileno Roberto Matta, è l’esempio di un perfetto equilibrio verbo-visivo. La prima edizione del libro contiene undici acqueforti che si alternano al testo. Nonostante la generale astrazione, il titolo suggerisce che queste caotiche visioni intrappolino un immaginario greve e disperato, da cui emergono corpi nudi e distintamente femminili. A differenza degli esiti irrazionali raggiunti dalle colleghe che si avvicinano all’avanguardia negli stessi anni – come Leonora Carrington e Unica

S I S T E R G E RT RU D E M O RGA N 1900, LaFayette, USA – 1980, New Orleans, USA Nel 1934, dopo una serie di rivelazioni divine, Sister Gertrude Morgan – artista autodidatta, devota battista del Sud, predicatrice di strada, musicista e poetessa – lascia il marito “terreno” in Georgia e si stabilisce a New Orleans, dove canta e predica il Vangelo accompagnata da chitarra e tamburello. All’inizio degli anni Quaranta, dopo avere aggiunto “Sister” al proprio nome, inizia a predicare in una missione da lei avviata: la minuscola Everlasting Gospel Mission, ospitata in una tipica shotgun house imbiancata a calce, dove fino al 1980, anno della sua morte, dipinge e compone poesie. In risposta a ciò che lei ritiene essere una chiamata divina a usare l’arte come strumento di predicazione, Morgan sostiene di aver ricevuto l’ordine di diventare la sposa di Cristo, e inizia dunque a indossare un’uniforme bianca da infermiera in previsione del matrimonio divino, come raffigura nel dipinto untitled (SABBATH DAY Poem) (s.d.). Questa sua particolare mitologia personale si manifesta in originalissime ed esuberanti rappresentazioni colorate e giocose del quotidiano e del sacro, che Morgan veicola su qualsiasi superficie le capiti sottomano, come pezzi di cartone, tapparelle, ventagli, vassoi di polistirolo, la custodia della sua chitarra e persino il retro di un cartello “in vendita” piantato nel suo cortile da un agente immobiliare. Molti dei suoi dipinti, come ad esempio untitled (Revelation 7 chap.) (1970 ca.), sono dirette interpretazioni della Bibbia, in questo caso, una visione infantile di angeli che scendono dal cielo; altri, come Revelation I JOHN (1970 ca.), combinano masse disordinate di figure, scarabocchiate citazioni scritturali e autoritratti nella sua uniforme bianca mentre abbraccia o tiene per mano Gesù, come in untitled (New Jerusalem), 1960 / 1970 ca. Nel 1960, Morgan viene scoperta da Larry Borenstein, un mercante d’arte di New Orleans, che diventa un accanito sostenitore della sua arte e musica. Grazie a lui, ben presto cattura l’attenzione del mondo artistico mainstream di New York: Andy

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Warhol è un suo estimatore, tanto da inserirla nel 1973 nel primo numero di “Interview”. In questo stesso periodo, il Black Arts Movement è in pieno fulgore. Tuttavia, Morgan non rientra perfettamente in nessuno di questi due mondi. Non solo ne è separata a livello geografico e nella struttura teorica, ma anche nell’intento artistico. Sostiene infatti che la spinta creativa le venga direttamente da Gesù: “Egli muove la mia mano. Credete che saprei mai fare un quadro come questo da sola?”1. – MW 1

Sister Gertrude Morgan, citata in Sara Barnes, con Elaine Yau e William A. Fagaly, A Mission to Accomplish, in “Raw Vision”, 103, 2019, 50.

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E U S A P I A PA L L A D I N O 1854, Minervino Murge, Regno delle Due Sicilie (attuale Italia) – 1918, Napoli, Italia Il 19 agosto del 1888 il settimanale culturale “Fanfulla della domenica” pubblica una lettera intitolata Una sfida per la scienza, con cui l’imprenditore e spiritista Ercole Chiaia invita apertamente il noto medico e criminologo Cesare Lombroso a considerare l’attendibilità dei prodigi di Eusapia Palladino, la medium di origini pugliesi che sta affascinando i salotti dell’alta borghesia napoletana. Nell’articolo Palladino è descritta come una donna di trent’anni, robusta e analfabeta che, legata a una sedia, è in grado di muovere gli oggetti, di librarsi in aria, di comunicare con i defunti o farli manifestare tramite particolari effetti sonori e visivi. Nonostante le prime resistenze, Lombroso accetta la sfida di Chiaia nel 1891 e, dopo aver assistito ad alcune sedute dimostrative in cui Palladino evoca addirittura il fantasma di sua madre, si dice costretto a rivedere la sua salda fede nella scienza dedicando alla donna una serie di pubblicazioni scientifiche. Nel 1909, all’interno del trattato Ricerche sui fenomeni ipnotici e spiritici, il medico classifica le doti “eusapiane” in base alle loro caratteristiche meccaniche o fenomeniche e le abbina a un abbondante materiale fotografico. Oltre ai documenti delle attività di telecinesi, levitazione e apparizione dei defunti, il volume contiene le immagini di alcuni calchi su cui appaiono le impronte di mani o volti: nel corso di alcune sedute, infatti, Palladino si serve di una scatola in legno e, dopo averla toccata in uno stato di trance, pare capace di imprimere le sembianze dei defunti su una tavoletta di creta contenuta al suo interno. Le formelle che derivano da questo processo medianico si distinguono per le eccezionali qualità estetiche e riscuotono l’immediata attenzione del mondo dell’arte, che cerca invano di riprodurne il pathos. Insieme al generale

entusiasmo, tuttavia, l’approvazione di Lombroso e quelle di altri influenti scienziati, tra cui i Premi Nobel Charles Richet o Pierre e Marie Curie, provocano le prime accuse di cialtroneria. Sono in molti a ritenere che i poteri di Palladino coincidano con dei lampanti giochi di prestigio e i detrattori si sfidano nel tentativo di smascherarla. Dopo una serie di pubbliche derisioni e qualche infuocato articolo di giornale, la medium decide di ritirarsi a vita privata e muore a Napoli nella più totale indifferenza. – SM

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GISÈLE PRASSINOS 1920, Costantinopoli (attuale Istanbul), Impero Ottomano (attuale Turchia) – 2015, Parigi, Francia I primi componimenti poetici di Gisèle Prassinos risalgono ai primi anni Trenta quando, appena quattordicenne, si cimenta nella scrittura automatica e viene celebrata dagli esponenti del Surrealismo come una bambina prodigio. Nonostante André Breton e Paul Éluard la ritengano capace di creare le narrazioni inconsce più uniche, l’artista sente di essere guidata da stimoli ben più consapevoli e, pur pubblicando diversi lavori filo-surrealisti come Le Feu maniaque (1939), sviluppa un linguaggio indipendente basato più sulla bizzarria che sul dato onirico. I testi che produce fino al 1939, anno in cui si allontana definitivamente dal movimento, raccontano la storia di assurdi personaggi e descrivono corpi metamorfici simili al cadavre exquis, senza particolari appendici visive. La produzione letteraria di Prassinos adotta una componente figurativa solo a partire dagli anni Sessanta e, ormai diventata prosa, inaugura un approccio intermediale conquistando nuovi spazi e mezzi espressivi. Il più completo esempio della nuova sensibilità è sicuramente Brelin le frou ou le Portrait de famille (1975), la storia illustrata di una strampalata famiglia francese narrata da Brelin, il primogenito di un eccentrico e severissimo scienziato di nome Berge Bergsky. Con lo scopo di sfidare i limiti fisici del libro, Prassinos produce dodici pannelli di stoffa coloratissimi che, cuciti a macchina e rifiniti a mano, riproducono i disegni in bianco e nero contenuti nella pubblicazione. Questi arazzi ritraggono i personaggi della storia come degli strani assemblaggi di figure geometriche e descrivono un immaginario stravagante che è solo apparentemente infantile. A dispetto di quanto possa suggerire l’atmosfera giocosa, infatti, Portrait de famille, forse l’arazzo più rappresentativo della narrazione, è il ritratto della famiglia al completo e sembra svelare i retroscena famigliari attraverso un accurato studio

della composizione. Mentre la sagoma del dottor Bergsky (seconda da sinistra) campeggia sui famigliari come quella di un monarca, la figura di Brelin, simmetrica al padre e abbastanza contrita nell’espressione, sembra l’unica in grado di sfidarne invano l’autorevolezza. Il suo ruolo, come dimostra anche il lavoro Portrait idéal de l’artiste, è quello di un eroe domestico – forse alter ego dell’autrice – antagonista del regime patriarcale istituito dal capofamiglia e, più in generale, dalla società. Prese le distanze dal Surrealismo più radicale, Prassinos dimostra definitivamente di non aver bisogno di alcun automatismo inconscio per narrare le sue storie: il più grande volano delle sue fantasie è la propria esperienza o, semplicemente, la realtà. – SM

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ALICE RAHON 1904, Chenecey-Buillon, France – 1987, Città del Messico, Messico Questa artista è presente anche in La culla della strega. Per leggere la biografia dell’artista, cfr. p. 119.

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G I O VA N N A S A N D R I 1923 – 2002, Roma, Italia Tra le poche artiste italiane a confrontarsi con la Poesia Concreta, Giovanna Sandri è senza dubbio la più sperimentale. Fin dagli anni Sessanta, la sua ricerca spazia tra letteratura e arte, distinguendosi per un approccio radicale cui rimane fedele anche quando la Poesia Visiva addolcisce il rigore tipografico utilizzato dalle esperienze concretiste. Il suo metodo sfida la tradizionale linearità del testo poetico riconoscendo alle sue componenti – parole, lettere, sillabe – un valore estetico equivalente, se non superiore, al loro significato. Come le colleghe internazionali, Sandri non rinuncia al valore comunicativo del linguaggio ma, ispirandosi ai risultati iconici della grafica pubblicitaria, permette al testo di diventare un rompicapo, o un gioco enigmistico. Non a caso Sandri chiama molti dei suoi lavori Costellazioni e, suggerendo un parallelismo tra la fruizione poetica e l’osservazione astronomica, chiede alla lettrice o al lettore di individuare il nodo che ritma e sostiene i suoi componimenti. Anche in termini puramente visuali, in effetti, queste poesie sembrano delle vere e proprie configurazioni astrali che, costruite con caratteri tipografici trasferibili di colore nero o bianco, si alternano a segni grafici senza rispettare alcuna regola grammaticale o lessicale. La libertà con cui l’artista scala,

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taglia, movimenta, inclina e piega il singolo grafema ricorda quella che i futuristi utilizzavano per le loro tavole parolibere, ma raggiunge risultati tanto esasperati, da creare una vertigine nell’occhio dello spettatore e rendere vano qualsiasi tentativo di lettura lineare. A prescindere dalla sua effettiva chiarezza, il messaggio di ogni componimento poetico si esaurisce nel perimetro di una singola pagina e, quando non è ordinato in raccolte editoriali che aiutano a ipotizzare una narrazione, si organizza in fogli singoli o pannelli di grandi dimensioni. Dopo la prima raccolta editoriale intitolata Capitolo zero (1968) e le tante Costellazioni realizzate negli anni Settanta, la ricerca di Sandri sembra avvicinarsi alle sperimentazioni italiane nell’ambito della Poesia Visiva ma, a differenza delle colleghe che prendono la componente visuale delle loro poesie da giornali e riviste, l’artista non rinuncia al concretismo dei suoi caratteri trasferibili e li usa come materiale per formare immagini monocrome, geometriche e dai confini netti. Interpretando letteralmente il titolo della mostra Materializzazione del linguaggio – a cui partecipa nell’ambito della Biennale Arte 1978 – il lavoro di Giovanna Sandri investe il testo di una fisicità che risulta preziosa sia in termini visivi sia di contenuto. – SM

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HÉLÈNE SMITH 1861, Martigny, Svizzera – 1929, Ginevra, Svizzera Nel 1900 lo psicologo Théodore Flournoy pubblica il volume Des Indes à la planète Mars: una ricerca sperimentale che, oltre ad analizzare per la prima volta i fenomeni medianici in termini psicopatologici, descrive specificamente il caso della medium svizzera Hélène Smith. Quando la donna incontra il medico si chiama Catherine-Elise Müller, è una semplice commessa in un negozio di seta svizzero, ed è capace di abbandonarsi a momenti onirico-estatici durante i quali, in maniera completamente automatica, produce scritture in lingue sconosciute o disegni di ambientazioni mai visitate. Condotta da diversi spiriti guida e costantemente monitorata da Flournoy, tra il 1895 e il 1900 Smith produce un gran numero di lavori verbo-visivi che vengono pubblicati insieme alle osservazioni del medico, e ricondotti a tre categorie estetiche: il ciclo Indi, che si esprime tramite paesaggi orientaleggianti o testi in lingua sanscrita; il ciclo Royal, che riproduce interni ed esterni di grandi castelli; il ciclo Marziano, che sembra unire i primi due e impegna Smith in suggestive conversazioni con il mondo extraterrestre.

Mentre comunica in uno stato di trance con il suo principale interlocutore, un marziano di nome Astané, Smith annota le informazioni ricevute utilizzando una scrittura ideogrammatica sconosciuta. Questi segni alieni, in cui il linguista Ferdinand de Saussure ha riconosciuto una versione distorta del francese, hanno precisi scopi descrittivi e accompagnano una serie di disegni che forniscono un’immagine vivida e normalizzata della vita su Marte. Gli abitanti del pianeta alieno sono abbastanza simili a quelli terrestri anche perché, come sostiene la medium, ne sono la reincarnazione. Astané, ad esempio, è rappresentato con i capelli lunghi e una tunica da fachiro, mentre la sua casa e altri edifici hanno caratteristiche riconoscibilmente orientaleggianti. Solo la componente naturale sembra effettivamente incantata: le piante marziane si mostrano rigogliose ma non riconducibili ad alcuna specie conosciuta. In netta opposizione con l’immaginario fantastico dei disegni, le parole che Flournoy utilizza nella sua ricerca assumono il tono distaccato di un’analisi clinica e suscitano il disappunto di Smith; pur essendo ormai adulata da numerosi spiritisti e richiesta per spettacoli dal vivo, la medium si sente tradita e si ritira a vita privata. A distanza di trent’anni dall’uscita del libro e qualche tempo dopo la sua morte, tuttavia, la figura di Smith non cessa di essere popolare e, in pieno clima surrealista, André Breton con le colleghe e i colleghi ne celebrano l’intensità dell’automatismo, proprio sulla base del materiale pubblicato a inizio secolo. – SM

(p. 170)

M A RY E L L E N S O LT

Mentre Moonshot Sonnet (1964) sovrappone griglie e schemi a una serie di immagini lunari fornite dalla NASA e The Peoplemover (1968) produce una serie di slogan a sostegno delle manifestazioni contro la guerra in Vietnam, con Flowers in Concrete (1965–1966) l’artista individua una connessione tra il mondo naturale e la vitalità della produzione poetica. Questa raccolta di poesie assume le sembianze di un erbario verbo-visivo che, articolato in tavole come richiede la botanica, utilizza segni e lettere per riprodurre le fattezze di nove specie floreali. Solt affianca, sovrappone, ribalta i grafemi e, letteralmente, costruisce boccioli di lobelia, zinnia e lillà, petali di geranio, calendula e rosa bianca, rigogliose fronde di corniolo, melo e forsizia. L’immagine dedicata a quest’ultima, presentata anche nella mostra del 1978 Materializzazione del linguaggio, è sicuramente la più complessa e descrive in maniera eloquente la logica compositiva sperimentata da Solt. Come fosse la radice dell’intera pianta, Forsythia – il nome del fiore e titolo della poesia – sostiene tutta la ramificazione verbale e diventa l’acronimo di un messaggio ambiguo. Benché il succedersi dei termini inglesi – “forsythia out race spring’s yellow telegram hope insists action” (forsizia supera telegramma giallo di primavera speranza insiste azione) – non sembri veicolare un messaggio lineare, Solt costruisce il componimento come un invito verbo-visivo per il lettore, nella speranza che sia lui stesso a interpretarne il significato e diventare co-autore dell’opera. In effetti, che siano battute a macchina o scritte a mano, pubblicate in un progetto editoriale o presentate come grandi pannelli alla Biennale, le parole di Solt germogliano nella stessa maniera con cui fioriscono l’immaginazione e la creatività. – SM

1920, Gilmore City, USA – 2007, Santa Clarita, USA (p. 172)

Agli inizi degli anni Sessanta Mary Ellen Solt si avvicina alla Poesia Concreta grazie a un decisivo incontro con i brasiliani della rivista “Noigandres”, che l’avrebbe portata poi alla pubblicazione di una delle maggiori antologie sull’argomento, Concrete Poetry: A World View (1968). Da allora, destreggiandosi tra il rigore della neoavanguardia e le sensibilità interpretative della poesia tradizionale, Solt concepisce il linguaggio come uno strumento di comunicazione versatile capace di organizzarsi secondo relazioni tanto formali quanto lessicali. Le immagini derivate da questo approccio sono costruite come costellazioni di lettere o parole ma, contrariamente al rigore concretista che prevede l’annullamento di qualsiasi soggettivismo, si aprono a continue interpretazioni e letture.

J O S E FA T O L R À 1880 – 1959, Cabrils, Spagna Tra le tante pratiche occulte che si diffondono in Europa tra la fine dell’Ottocento e gli inizi del Novecento, come telepatia, telecinesi, spiritualismo, l’approccio medianico è sicuramente quello più affine alla produzione artistica e prevede che un individuo dotato di particolare sensibilità trascriva o illustri i messaggi delle anime con cui è in contatto. Queste capacità coincidono spesso con l’espressione di una creatività anomala che si manifesta improvvisamente in seguito a traumi fisici, psichici o emotivi, come nel caso di Josefa Tolrà, detta Pepeta. Se fino al 1941 la medium è conosciuta nelle campagne di Cabrils come guaritrice e fervente cattolica, pochi anni dopo aver perso il figlio nella

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Corpo orbita


Guerra civile spagnola, comincia ad abbandonarsi a lunghe sessioni di trance durante le quali realizza una gran quantità di disegni e scritti. A prescindere dall’attendibilità della pratica, questi componimenti sono materiali di grande pregio estetico e, quasi ad avvalorare la possibilità che la donna sia guidata da entità disincarnate, veicolano messaggi troppo sofisticati per la sua educazione elementare e producono immagini troppo raffinate per una mano fino ad allora ineducata al disegno. Secondo Tolrà, infatti, le anime con cui è in contatto hanno studiato geografia, scienza, arte e filosofia, e non esitano a sfoggiare le loro competenze in lunghi flussi testuali di poemi, aforismi e riflessioni o in complesse rappresentazioni di coloratissime figure umane, flussi di energia o straordinari paesaggi naturali. Talvolta, come nelle pagine di Llibreta (1944) o nel lavoro Dibujo escritura fluídica (1954) la componente verbale e visuale condividono lo spazio della stessa pagina e, trasformandosi l’una nell’altra, partecipano a un processo metamorfico che pare originato dalla medesima forza ancestrale. Stando all’educazione cattolica di Tolrà, tale energia dovrebbe coincidere con un potente influsso divino ma non è escluso si riferisca a una altrettanto vigorosa azione esoterica. Come dimostrano le iconografie cristiane che l’artista realizza negli stessi anni e in linea con una tendenza comune a molte colleghe medium, i lavori della sensitiva sono disseminati di simbologie occulte e propongono un sincretismo religioso molto vicino alle fascinazioni teosofiche di fine Ottocento, che rendono la febbrile attività medianica di Josefa Tolrà espressione di una sensibilità sorprendentemente moderna. – SM

è vissuta da entrambi come un’occasione di scambio artistico, tanto che la stessa Zürn sottolinea un’affinità tra il lavoro del compagno e il suo. Negli stessi anni in cui posa per Bellmer, infatti, l’artista si dedica a una produzione vastissima che alterna e combina linguaggio e figurazione. Da una parte la scrittura anagrammatica la impegna nella costruzione di testi poetici nati dalla combinazione dello stesso gruppo di lettere, come Hexen Texte (1954) – dall’altra, il disegno le serve come valvola di sfogo per le sue nevrosi e si traduce in lavori inquieti e ossessivi. Se farsi sopraffare dall’inconscio risulta un vantaggio per l’atto creativo, come insegnano le artiste e gli artisti surrealisti che Zürn frequenta a Parigi, i disegni prodotti tra gli anni Cinquanta e Sessanta sono la prova di un’irrequietezza tanto devastante quanto artisticamente proficua. Le fitte composizioni in mostra descrivono un mondo onirico popolato da creature mostruose; il segno che le definisce è evanescente come un’allucinazione, mentre gli elementi che le caratterizzano – soprattutto occhi e labbra – sono frammentati, ripetuti e sovrapposti al punto da rendere impossibile il loro ricongiungimento a una figura umana o animalesca. Quando non sono realizzate a china o inchiostro nero, queste figure assumono un tono ancora più vibrante e, quasi elettriche, emergono dall’oscurità del supporto grazie all’uso di pastelli colorati. Gli interstizi tra un’immagine e l’altra sono spesso riempiti, affiancati o completati da un’angosciata componente testuale che, pur sembrando appuntata con indifferenza, raggiunge potentissimi esiti poetici. Più della componente figurativa, queste scritte, talvolta riferite a nomi di persona o luoghi, accentuano la tensione dei disegni e aiutano a decifrare la gravità dei conflitti interiori di Zürn. – SM

(p. 170)

UNICA ZÜRN 1916, Berlino, Germania – 1970, Parigi, Francia L’inquietudine intrappolata nei lavori artistici di Unica Zürn è la stessa che sembra averne provocato la depressione e causato i ripetuti ricoveri in clinica psichiatrica. Profondamente radicati nel contesto famigliare, gli squilibri di cui l’artista soffre si manifestano fin dalla giovinezza e, con risultati alterni, la accompagnano nella duratura relazione con Hans Bellmer, fino al suicidio avvenuto nel 1970. Dal loro primo incontro nel 1953, l’artista tedesco individua in Zürn la vitalità necessaria ad animare le bambole macabre di cui deforma le membra e, in alcune famose serie fotografiche – come ad esempio Unica Tied Up (1957) – immortala il corpo nudo della compagna, stretto tra corde che ne modificano le fattezze. Per quanto appaia sadica, misogina e scellerata, questa pratica

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L E N O RA D E BA R RO S

1953, San Paolo Vive a San Paolo, Brasile

Lenora de Barros inizia il suo percorso negli anni Settanta, incoraggiata dalle sperimentazioni radicali in corso in quel periodo in Brasile. Viene influenzata in particolare dall’eredità di Noigandres, un gruppo brasiliano formatosi nel 1952, che esplora un nuovo genere di poesia d’avanguardia, dando una maggiore importanza alla grafica del linguaggio. POEMA (POEM) (1979) di de Barros sottolinea con enfasi le proprietà visive e fisiche del linguaggio attraverso i gesti corporei. La sequenza di immagini in bianco e nero cattura i primi piani di una bocca che provocatoriamente mostra la lingua, lingua che lecca i tasti di una macchina da scrivere, interagisce con i martelletti fino a quando questi non le aderiscono bloccando infine il meccanismo interno della macchina. Con questo silenzioso atto di sfida, Lenora de Barros decostruisce la macchina, suggerendo la possibilità della dissoluzione dei confini tra gli idiomi e la trasformazione del linguaggio in narrazioni alternative. Influenzata dalle parole del poeta francese Stéphane Mallarmé, e in modo particolare dalla sfida della pagina bianca, POEMA (POEM) segna l’origine di una poesia “senza parole”, nata dal rapporto tra lingua e macchina da scrivere, esplorando la relazione erotica tra corpo e macchina. La tensione che si crea tra queste due entità sta a indicare la ripetizione e la meccanizzazione del lavoro di genere in ambito sia domestico sia professionale. La lingua di de Barros interferisce con il meccanismo della macchina da scrivere, interrompendo il sistema e di conseguenza sfidando le strutture di potere. Negli anni Ottanta, de Barros si dedica alla scrittura di poesie e lavora per il quotidiano brasiliano “Folha de S.Paulo”. Nel 1990 si trasferisce a Milano dove il suo interesse per la decostruzione del linguaggio viene trasportato nello spazio fisico in occasione della sua prima mostra personale, Poetry Is Something from Nothing (1990), presso lo spazio sperimentale Mercato del sale. Durante questo periodo de Barros incontra artisti del movimento della Poesia Visiva, dalle cui idee e opere, in particolare quelle di Mirella Bentivoglio, trae numerosi stimoli. La sua pratica si è ampliata fino a includere la performance, incorporando Pop Art, Fluxus, Neoconcretismo e Arte Concettuale, pur mantenendo al centro della propria ricerca il rapporto tra linguaggio e corpo. – LC

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Lenora de Barros, POEMA (POEM), 1979 / 2014. Stampa a getto d’inchiostro in bianco e nero su carta cotone, 6 elementi 22,2 × 29,8 cm ciascuno, 139,7 × 29,8 cm complessivi. Fotografia di Fabiana de Barros. Courtesy l’Artista; Gallerie Georg Kargl Fine Arts, Vienna; Bergamin & Gomide, São Paulo


S A B L E E LY S E S M I T H

1986, Los Angeles, USA Vive a New York City, USA

Landscape, una serie di neon su larga scala con testi originali composti dall’artista, fa parte del poliedrico progetto in fieri basato sul complesso industriale carcerario statunitense e sulla violenza endemica contro le persone di colore. Per Smith, la ferita psicologica della carcerazione di massa ha radici storiche e collettive ed è anche personale; l’artista, infatti, da vent’anni – circa due terzi della sua vita – va a trovare il padre in prigione. Concettuali nel loro approccio, le opere di Smith in forma di video, scultura, fotografia, installazione e testo sfidano la narrazione convenzionale sulla carcerazione, attingendo a storie personali ed esperienze quotidiane del sistema penale. Quando esposti in pubblico, i suoi esperimenti con il linguaggio, la forma, il suono e il colore coinvolgono nel loro approccio critico anche i fruitori. Davanti a un’opera di Smith, ci viene chiesto di riesaminare i nostri pregiudizi. I neon di Smith come Landscape VI (2022), con scritte composte da lettere di un bianco freddo, testo giustificato e sottolineato da una linea orizzontale nei toni brillanti dell’arancione e del verde, continuano la tradizione di altre opere d’Arte Concettuale: quelle create con la luce da artiste e artisti come Bruce Nauman, Glenn Ligon e Jenny Holzer, le cui affermazioni, brevi e concise, ironiche o sconcertanti, appaiono come luci a LED su vetrine di negozi, muri esterni, cartelloni e negli spazi delle gallerie. Come negli esperimenti precedenti, in cui la stessa materia della segnaletica al neon evoca una presenza pubblica o una parvenza di autorità da mettere alla prova, nelle serie Landscape Smith genera una tensione tra il carattere intrinsecamente pubblico del neon e la natura delle proprie affermazioni, che possono essere lette simultaneamente come personali e più ampiamente sociali, e segnalano la presenza di luce e poesia in una varietà di registri diversi. Smith ha parlato del proprio interesse per la capacità del linguaggio di spiegare la posizione di un soggetto, di creare vicinanza e distanza mediante l’uso di “io”, o “tu, voi”, o ancora “loro”. Nel connotare un controllo estetico su un certo ambiente, un paesaggio costituisce anche un’astrazione, il quadro generale. – MW

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Sable Elyse Smith, C.R.E.A.M., 2018. Light box in alluminio, acciaio, 355,6 × 833,12 cm. Veduta dell’installazione, Agora, High Line Commission, The High Line, New York City, 2018. Photo Timothy Schenck. Courtesy l’Artista; JTT, New York; Carlos/Ishikawa, London; Regen Projects, Los Angeles Pagine successive: Sable Elyse Smith, Landscape III, 2017. Neon, 243,84 × 365,76 cm. Veduta dell’installazione, Trigger: Gender as a Tool and a Weapon, New Museum, New York City, 2017. Photo Maria Hutchinson / EPW Studio. Courtesy l’Artista; JTT, New York; Carlos/Ishikawa, London; Regen Projects, Los Angeles

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B R O N W Y N K AT Z

1993, Kimberley, Sudafrica Vive a Johannesburg, Sudafrica

Bronwyn Katz crea sculture e installazioni delicate e filamentose a partire sia da materiali naturali come il ferro, sia da oggetti di recupero come materassi, spazzole in lana d’acciaio e lamiere ondulate. Le sue composizioni fluttuanti sono appese alle pareti come dipinti multidimensionali, si stendono su pavimenti come paesaggi topografici e pendono da soffitti o sporgono da terra come fossero stalattiti e stalagmiti. Nella sua pratica, Katz attinge alla consapevolezza che la terra è depositaria di memoria e che i luoghi riflettono le esperienze di coloro che li abitano. Per Katz, la terra ricorda e comunica la memoria della sua occupazione. L’artista utilizza materiali di recupero per far emergere la storia fisica, emotiva e spirituale della loro fabbricazione. Pur spinta da interessi formali, espressi in un linguaggio astratto e minimale, le sue opere di fili sussurranti raccontano storie evocative e peculiari. Le sue sculture fanno riferimento al contesto politico in cui sono state realizzate, rappresentando sottili atti di resistenza che evidenziano i costrutti sociali. Il continuo uso di molle di materassi usati e altri materiali casalinghi, ad esempio, allude alla vita domestica, nello specifico allo spazio intimo del letto, che è spesso il luogo degli eventi più importanti della vita: concepimento, nascita e morte. Gõegõe (2022) è una nuova scultura di grandi dimensioni realizzata con molle di letti e pagliette abrasive nere per pentole. Disposta a pavimento, l’opera, larga sei metri, prende il nome da un serpente acquatico mitologico conosciuto con molti appellativi diversi nelle leggende di numerosi popoli sudafricani. Di questo serpente lucente, dai colori cupi, si sa che vive nei fiumi e, talvolta, è il fiume stesso. Secondo una storia raccontata a Katz dal nonno, un tempo il serpente aveva un diamante sulla fronte, che gli fu rubato da un uomo nel cuore della notte. Al suo risveglio, accecato dall’uomo, il serpente iniziò a distruggere tutto ciò che trovava lungo il cammino. Per Katz, il serpente diviene la metafora del contemporaneo rapporto di sfruttamento che manifestiamo nei confronti della Terra e delle altre creature viventi. – MK

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Bronwyn Katz, //xa//xasen (I) (STUDIO), 2019. Rete di materasso recuperata, pagliette da cucina, 185 × 135 × 40 cm. Photo Peres Projects. Collezione privata. Courtesy l’Artista; Peres Projects, Berlin. © Bronwyn Katz Pagine successive: Bronwyn Katz, Kãxu-da (I) (Become lost us), 2019 (dettaglio). Rete recuperata, pagliette da cucina, 185 × 135 × 40 cm. Photo Peres Projects. Collezione privata. Courtesy l’Artista; Peres Projects, Berlin. © Bronwyn Katz

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AMY SILLMAN

1955, Detroit, USA Vive a New York City, USA

La pittrice newyorkese Amy Sillman è nota per la sua pittura robusta, fisica – astrazioni burrascose, gesti estroversi e spontanei, tremori di colore –, rafforzata anche da interventi in forma di scrittura, progetti curatoriali, umorismo e animazione digitale. Con questo approccio multiforme l’artista ha contribuito a rinsaldare i confini della pittura contemporanea di oggi con una pratica ibrida e fisica, eppure speculativa al tempo stesso. Nata a Detroit e cresciuta a Chicago, Sillman si trasferisce a New York nel 1975 e vi trascorre un decennio sviluppando il proprio lavoro mentre collabora con varie pubblicazioni artistiche come “Heresies” e in spazi non-profit come Four Walls. Dalla metà degli anni Novanta inizia ad affermarsi come pittrice ma anche come esigente pensatrice e scrittrice su tematiche legate all’arte, con una pratica che include la pubblicazione ininterrotta della rivista “The O.G.”, varie animazioni per iPhone/iPad e una carriera come docente e curatrice. Sillman ha lavorato a numerose pubblicazioni, tra cui saggi illuminanti sull’Espressionismo Astratto, su elementi della forma e su artiste e artisti, da Laura Owens e Maria Lassnig a Eugène Delacroix. Il ruolo fondamentale di Sillman nel dare nuova linfa all’astrazione gestuale nel XXI secolo si deve, come afferma l’artista, a un’espansione del vocabolario tra il figurativo e l’astratto. In opere come Psychology Today (2006), frammenti di gambe e torsi esplodono da una scatola gialla che galleggia su uno sfondo di piatte strisce di colore. In altre, come il dipinto verde acceso e giallo limone Nose (2010), un naso e una mano appena abbozzati – o almeno le loro evocazioni – spuntano da una composizione dalle striature trasversali, creando dei momenti di comicità. Tenendo alte le aspettative dell’osservatore rispetto a un’esperienza di pittura gestuale, soprattutto in quanto profondamente influenzata dalla gloriosa storia dell’Espressionismo Astratto, queste opere si crogiolano nell’incongruenza, in particolar modo quando queste forme ci fanno ridere. Evocando la scena di un film o un video amatoriale, la nuova opera di Sillman per Il latte dei sogni parla del concetto di cambiamento. Dalla posizione del fruitore, le sue immagini orizzontali e fitte generano una narrazione frammentata che si srotola nello spazio. Nell’inglobare parti del corpo disarticolate, sia umane sia animali, così come un misto di vari approcci formali, narrativi e compositivi, le opere sono dimensionate anche sulla scala del corpo umano del fruitore, che cambia posizione e prospettiva a ogni passo. – MW

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Amy Sillman, XL37 e XL27, 2020. Acrilico, inchiostro su carta, 151,1 × 105,4 cm ciascuno. Photo John Berens. Collezione dell’Artista. Courtesy l’Artista; Gladstone Gallery, New York/Brussels. © Amy Sillman Pagine successive: Amy Sillman, veduta dell’installazione, Twice Removed, Gladstone Gallery, New York City, 2020. Photo David N. Regen/Gladstone Gallery. Courtesy l’Artista; Gladstone Gallery, New York/ Brussels. © Amy Sillman

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L O U I S E L AW L E R

1947, Bronxville, USA Vive a New York City, USA

Louise Lawler manifesta un’estrema consapevolezza dell’atto fotografico nella creazione di immagini. Lawler si afferma a New York nei primi anni Ottanta nell’ambito della Pictures Generation, un gruppo di artiste e artisti interessati a portare avanti una critica delle istituzioni e un’acuta analisi della cultura dei mass media. La strategia critica dei componenti della Pictures Generation, tra i quali Cindy Sherman, Richard Prince, Barbara Kruger, Sherrie Levine e la stessa Lawler, si esprime tramite l’appropriazione di immagini pubblicitarie, slogan e opere d’arte di ampia diffusione, che spronano il pubblico a interrogarsi sulla natura stessa dell’arte. Lawler è conosciuta per fotografie che catturano particolari di opere così come si presentano nelle case di collezionisti, nei magazzini dei musei o nelle case d’asta. Enfatizzando l’“aspetto esteriore” dell’opera nell’ambiente che la ospita, l’artista rivela anche una visione soggettiva, il dietro le quinte del mondo dell’arte, esponendo ciò che spesso viene celato da austere gallerie di stampo tradizionale, e ridefinisce il significato di un’opera nel suo circolare tra vari contesti. Questa idea di trasparenza è spesso corroborata dai titoli e dalle didascalie che accompagnano le sue fotografie. Con atteggiamento esibizionistico, le sue opere sovente si impossessano di quelle di artisti uomini che godono di un eccessivo successo di mercato. Nei suoi lavori più recenti Lawler inizia a sperimentare tramite effetti digitali che modificano le opere e gli spazi da lei documentati, spesso rendendo le scene pressoché irriconoscibili. L’artista aggiunge distorsioni digitali ed estende le immagini fino a occupare completamente lo spazio di esposizione, come nella serie adjusted to fit, in cui le fotografie sono stampate su fogli di vinile adattati per conformarsi alla parete su cui vengono installate, o per riempire intere sale. Trasformando opere documentaristiche in scene riflessive e distorte, l’artista rimane fedele al tentativo di dare una nuova vita alle convenzioni presenti all’interno del mondo della cultura visiva. Le opere di Lawler per Il latte dei sogni combinano i numerosi metodi fotografici da lei impiegati in un’installazione a più strati intitolata No Exit (2022): le fotografie della retrospettiva di Donald Judd al MoMA nel 2020 – scattate a luci spente, dopo la chiusura – sono posizionate direttamente sopra Hair (adjusted to fit) (2005 / 2019 / 2021), un’immagine su vinile che riempie la stanza. Il continuo ritorno di Lawler sulle proprie immagini sfida i presunti significati che attribuiamo all’arte, allo status e alla cultura. In una società plasmata in modo esponenziale dalle tendenze economiche, il suo lavoro offre una prospettiva onesta sulla condizione dell’arte e sulla sua funzione come bene di consumo. – IA

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Louise Lawler, Untitled (Skylight), 2021. Stampa a sublimazione termica su scatola museo, 121,9 × 200 cm. Courtesy l’Artista; Sprüth Magers Pagine successive: Louise Lawler, Hair (adjusted to fit), 2005 / 2019 / 2021. Materiale adesivo per pareti. Dimensioni variabili per adattarsi alle proporzioni di un determinato muro a qualsiasi scala determinata dall’espositore. Courtesy l’Artista; Sprüth Magers

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ALEXANDRA PIRICI

1982, Bucarest Vive a Bucarest, Romania

Alexandra Pirici è un’artista e coreografa rumena, nota per mettere in scena azioni pubbliche, gesti e sculture che spingono a rivalutare le narrazioni della storia e dello spazio urbano, della natura e dell’immaginario digitale, immediatamente percepibili o meno. Sottolineando il ruolo che la presenza di un corpo collettivo può esercitare nel confrontare le strutture di potere – o almeno nel farle conoscere – Pirici, danzatrice professionista, spesso assembla gruppi di performer in formazioni che descrive come sculture viventi che agiscono, si muovono, si spostano e cantano. Attivate per un arco di tempo prolungato, queste coreografie, che vanno da disposizioni minimali a complessi contesti operativi, non sono concepite come eventi singoli, ma come azioni ininterrotte che si svolgono in un continuum, senza nessuna linea narrativa, senza inizio né fine. Alcune delle prime azioni di Pirici hanno avuto luogo nella sua città natale, Bucarest, dove ha iniziato a creare le sue opere performative per parlare della politica culturale rumena. If You Don’t Want Us, We Want You (2011) affronta in modo ironico i banali monumenti agli eroi politici e le sculture pubbliche della città. In una delle numerose azioni di cui consiste l’opera, Pirici mette in scena i performer di fronte a una statua equestre del re Carlo I, che regnò tra il XIX e il XX secolo; gli attori, a terra, impersonano il cavallo, moltiplicandolo, mettendo la scultura sovradimensionata a confronto con la scala umana e cercando di mutarne la valenza. In lavori più recenti, come l’opera performativa su larga scala Aggregate (2017–2019), decine di performer vengono trasformati in veri e propri paesaggi viventi che imitano gesti coreografici riferiti alla cultura di massa. Nell’opera, la collettività si manifesta in questi riferimenti, ma essa è anche enfatizzata nella relazione tra performer e spettatore: sciamando tra il pubblico, danzatori e attori coinvolgono nella rappresentazione tutti coloro che sono presenti nello spazio. La nuova azione performativa di Pirici, Encyclopedia of Relations (2022), ruota attorno alla descrizione di relazioni collettive mutuate dalla biologia e dalla botanica, nel loro ritrovarsi in una continua fase di riconfigurazione. Traendo ispirazione dalle interazioni simbiotiche e parassitarie tra individui, come da quelle trattate in relazioni di tipo più astratto – tra umano e tecnologia, rocce e onde, piante e animali – i performer scelgono di muoversi nello spazio in base a un insieme di azioni possibili, che possono essere combinate e ricombinate all’infinito. Memore del gioco surrealista del “cadavere squisito”, attraverso il corpo il mondo naturale si fonde con il mondo fantastico. – MW

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Alexandra Pirici, Re-collection, 2020. Azione in corso (versione duetto). Veduta della mostra, Dance First Think Later, Museum of Art and History, Geneva, 2020. Photo Emanuelle Bayart. Courtesy l’Artista; Artasperto. © Alessandra Pirici Pagine successive: Alexandra Pirici, Aggregate, 2017–2019. Ambiente performativo. Veduta della mostra, Art Basel Messeplatz, Basilea, 2019. Photo Andrei Dinu. Courtesy l’Artista. © Alessandra Pirici

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Alexandra Pirici, Re-collection, 2018. Azione in corso. Veduta della mostra, Upheaval, Kunsthalle Mannheim, Mannheim, 2020. Photo Alexandra Pirici. Courtesy l’Artista. © Alessandra Pirici

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S P I R A L E V I R A L E , O S E T T E G I R AV O LT E NEL DUELLO MAGICO Marina Warner

“Tutto cambia e nulla muore…”1 Mestra ha un padre, Erisittone, che è un profittatore, un bestemmiatore contro gli dèi e la natura: incapace di vedere altro che il proprio profitto, abbatte un boschetto sacro a Cerere, la dea dell’abbondanza e del raccolto, e in seguito, anche dopo essere stato severamente ammonito, taglia un’enorme quercia antica a cui sono appese preghiere e offerte. Per questo la driade dell’albero lo maledice; Cerere sente la sua disperazione e convoca Fame perché si infili in Erisittone mentre dorme e ne prenda possesso: lui comincia a sognare cibo. Quando si sveglia divora avidamente tutto ciò che trova, finché della sua grande ricchezza non resta più nulla. Per procurarsi altro cibo, i suoi occhi puntano “la figlia, la quale, a dire il vero, non meritava un tale padre”, commenta Ovidio2. Mestra rifiuta di farsi vendere e implora gli dèi di aiutarla. Nettuno ascolta il suo grido e, quando il suo primo cliente la raggiunge, lei scopre di riuscire ad assumere un’altra forma e muta in un pescatore. Ma Erisittone, che nei nuovi poteri metamorfici della ragazza vede un possibile vantaggio per se stesso: “La vende / più volte a più padroni, e lei li pianta / tutti, uno per uno, ora mutandosi / in cavalla, ora in vacca, ora in uccello…”3. La storia si conclude con una gratificante vendetta macabra sull’uomo, che finisce per divorare se stesso. La figlia capace di mutare forma è una figura della sopravvivenza, suo padre un’allegoria vivente del consumismo. Lei non è una ninfa o una dea, ma una ragazza a cui gli dèi hanno concesso poteri polimorfici. La sua storia la riconduce a una categoria speciale di truffatori che continuano a cambiare la loro forma esteriore. Esemplifica un aspetto del principio illustrato nelle Metamorfosi di Ovidio con il discorso finale di Pitagora, il filosofo greco il cui pensiero tanto riecheggia nel pensiero sanscrito e buddhista. La sua dottrina è anche una forma di panpsichismo, e i nomi classici dei protagonisti dei racconti di metamorfosi – così come l’importanza di questi racconti nell’ Umanesimo rinascimentale europeo – non dovrebbero oscurare il fatto che

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la loro fede nella fluidità selvaggia e polimorfa è in profondo contrasto con il concetto occidentale dell’individuo unificato. “Nulla muore”: lo spirito di qualcuno, per quanto senza dimora, disincarnato e smarrito, aleggia ancora. Questo conferisce un accento più gioioso alla perdita del sé che avviene con tanta violenza in molte delle storie di repentina metamorfosi di Ovidio, in cui i soggetti vengono costantemente trasformati in pietra, pianta, uccello o fiume4. Il poeta spesso si limita a trasmettere antefatti per i fenomeni naturali – o a inventarli –, ma sapere che l’usignolo, un tempo, era una donna chiamata Filomela, non si accorda con ciò che intende per “personalità” la tradizione classica umanista cristiana. Eppure questa visione sta perdendo forza, e sia prima sia durante la pandemia da Covid-19, i concetti di empatia tra le specie e tra fenomeni senzienti e non senzienti si sono consolidati. Dalle prime voci sui pangolini al mercato di Wuhan, ai protocolli a base di igienizzante per le mani e mascherina, ognuno di noi è ormai sensibilizzato verso legami invisibili che ci legano alla vita delle piante e degli animali nell’atmosfera comune dell’aria che respiriamo. La catena di trasmissione doveva essere interrotta e la sopravvivenza dipendeva dalla separazione, addirittura dall’isolamento. La pandemia ci ha immerso tutti in un paradosso lancinante: abbiamo imparato che i nostri corpi umani sono vasi comunicanti per forza, non per scelta, che tutti viviamo in una prossimità intima e contagiosa, a prescindere da specie, intenzione, relazione, coscienza o consenso. Tuttavia, riconosciamo anche che la nostra interconnessione globale ha comportato la necessità di tenerci lontani gli uni dagli altri. Le artiste e gli artisti, di conseguenza, si muovono in direzioni opposte: da un lato, i loro lavori sono carichi del senso elettrizzante della nostra umana unione con la terra, le piante e tutte le creature, compresi gli insetti e i mostri (vedi il lavoro di Rosana Paulino); dall’altro, sono angosciati e sconvolti dalla consapevolezza dell’inquinamento, del contagio e della vita subcellulare, microscopica, impalpabile del Coronavirus (un nome troppo grazioso per questo assassino spietato).

In Inghilterra, negli anni Trenta, una giovane vuole disperatamente diventare un cavallo, adotta una iena in lattazione per la sua cara amica, evoca appassionati amplessi con un cinghiale, e imbeve di appetiti cannibalistici frutti, fiori e verdure; in Francia, sogna stormi di farfalle e scrive alla sua cara amica Leonor Fini di averla vista di nuovo in sogno: “Cammina cammina raggiungo un castello in rovina e pieno di gatti”, così scrive Leonora Carrington alla sorella elettiva. “Ti incontro e ci guardiamo allo specchio. Tu hai una testa di lince e io una testa di cavallo”5. Dopo essersi trasferita in Messico, Carrington sviluppa un’altra fertile complicità creativa con Remedios Varo. Insieme, le donne assorbono ogni genere di conoscenza occulta della cosmologia messicana antica; sperimentano visioni indotte dagli stupefacenti. Il primo marito di Varo, Benjamin Péret, compila un prezioso compendio di filosofie e miti latino-americani, uno dei tanti lavori che nutrono le invenzioni originali delle artiste – spesso miti innovativi intessuti nella stoffa delle tradizioni circostanti, piene di divinità animali e infestazioni da parte di creature oniriche6. Nel frattempo, in Inghilterra, anche Edith Rimmington e Ithell Colquhoun attingono alla conoscenza esoterica, producendo straordinarie visioni di uccelli, rocce, fiori in zoomorfosi fantastiche e mutazioni molteplici. Lo stesso virus ha presto cominciato a mostrarsi dedito alla metamorfosi; continua a mutare, generando nuove varianti; i virologi si sforzano di stare al passo e il resto di noi teme che cambierà di nuovo, eludendo i poteri della scienza. È come in quegli incubi in cui vieni inseguito, ma al contrario: siamo noi a inseguire, ad allungare la mano, a mancare la presa. L’irrefrenabilità della metamorfosi potrebbe ricordare un gioco ad acchiapparello se le conseguenze non fossero così mortalmente serie.

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I jinn del Corano – femmine e maschi – sono infinitamente mutevoli; fatti di aria e fuoco, i loro elementi sono le nuvole, le sorgenti e gli abissi del mare. Possono ergersi fino al cielo con la forma di un mostro terrificante munito di zanne, o ridursi alle dimensioni di un seme di melograno e nascondersi in fondo al mare. Nelle Mille e una notte, dopo che un principe viene trasformato in scimmia, una bellissima principessa si propone di salvarlo da un ifrit o jinni maligno, che lo ha maledetto facendogli prendere quella forma. Anche lei è un’incantatrice, una jinniya in forma umana. Quando il malefico jinni la assale in forma di leone, lei si strappa un capello, lo trasforma in una lama affilata e lo taglia in due; la testa di lui diventa uno scorpione, ma lei si tramuta in serpente; il nemico para il colpo e si trasforma in aquila; il serpente diventa un avvoltoio… La sequenza continua: adesso lui è un gatto nero, lei un lupo dal manto striato. Infine, il gatto prende la forma di un melograno ed esplode spargendo semi dappertutto, semi che la principessa, in forma di gallo, cerca di inghiottire… Ma ne rimane uno, e quest’ultimo seme si trasforma in pesce e si tuffa negli abissi. La principessa diventa un pesce più grosso, e si immerge dietro di lui, ma l’ifrit salta fuori dall’acqua come un fuoco di artificio. Lei lo assale e nella conflagrazione che segue lo riduce in cenere, bruciando irrimediabilmente anche se stessa7. Nelle favole, queste concatenazioni o metamorfosi sono note come “duelli magici”, perché la malefica megera delle storie ha questo potere, simile a un virus, di mutare in una sfilza di sembianze diverse. Ci sono degli antecedenti: mutaforma e dèi imbroglioni piroettano nelle leggende celtiche e nella mitologia norrena e riaffiorano tra le storie sulle forze elementari e primordiali nelle fonti greche antiche, così come in Ovidio. Richiamano più da vicino gli approcci contemporanei alla metamorfosi perché mettono in scena un processo di trasformazione più che un’alterazione teleologica dell’aspetto. Questi racconti sono associati anche a forze viscerali di vendetta e ritorsione e sogni atavici di fuga ed evasione.

Quando Zeus desidera la dea Nemesi contro il suo volere, lei si tramuta in un pesce: “Nella sconfinata acqua nera del mare cercò di fuggire, ma Zeus la inseguì […] mentre lei scappava attraverso l’onda del mare in tempesta, […] e di nuovo sulla terra con le sue fertili zolle. E per tutto il tempo continuò a trasformarsi nei vari animali selvatici che la terra nutre”8. Zeus la insegue, trasformandosi a sua volta per tenere il passo, e infine prende la forma di un cigno e la violenta: lei in quel momento ha la forma di un’oca e partorisce un uovo da cui uscirà Elena di Troia9. Il nome della dea – Nemesi – è cruciale: è la vendetta incarnata, e dal crimine di Zeus seguirà una lunga tragedia, mentre il ciclo delle violenze inferte alla donna continua. Quando la stessa Elena verrà rapita da Paride, la sua violazione scatenerà la guerra di Troia.

Nemesi cerca di sfuggire a Zeus tuffandosi nel profondo del mare, l’elemento mutevole per eccellenza; è nei suoi abissi che vive Proteo, la divinità marina il cui nome è diventato sinonimo di “metamorfico”. È il “Vecchio del mare” e suo padre è Poseidone, dio del mare. Come le sirene, altri esseri magici acquatici dotati di preveggenza, Proteo è “veridico”10 e aiuterà il re greco Menelao, marito della rapita Elena di Troia, a trovare la strada del ritorno dopo la caduta della città. Proteo ha una figlia, anch’essa una dea del mare, Eidotea, la quale dice a Menelao che: “Quando il sole ha girato il cielo a metà, / ecco che il veridico Vecchio del mare esce dall’acqua”11, e raduna attorno a sé per fare la siesta un branco di foche (“emerse dall’acqua canuta, / spiranti l’odore pungente del mare profondo”12). Menelao deve sorprenderlo: “Tenetelo lì, benché smanii e agogni scappare. Tenterà di mutarsi in tutti gli animali che esistono in terra, in acqua e in fuoco prodigiosamente ardente. Voi tenetelo forte e stringetelo ancora di più”13.

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Successivamente, quando Menelao colpisce, Proteo lotta selvaggiamente e Menelao descrive la scena nello stile di un bardo: “Il Vecchio non dimenticò la sua arte di inganni, e prima diventò leone dalla folta criniera e dopo serpente e pantera e grosso cinghiale, diventò liquida acqua e albero dall’alto fogliame. Noi forte lo tenevamo…”14. Il Vecchio del mare allora spiega davvero al re greco come tornare a casa, e gli rivela le sofferenze dei suoi amici e dei suoi compagni di combattimento. “Detto così si immerse nel mare ondeggiante”. In seguito Proteo, questo “vecchio dio”, insegna al mortale Peleo come superare la resistenza di Teti, la dea del mare, che arriva in sella a un delfino imbrigliato per fare il suo consueto sonnellino nella sua consueta grotta marina. Peleo, su istruzione di Proteo, la prende e si avvinghia a lei; è quasi come se Proteo fosse riuscito a trasmettere all’aggressore i suoi poteri di trasformazione, proprio come Omero sta offrendo a Ovidio i mezzi verbali per drammatizzare la lotta. Gli anacronismi di Ted Hughes sottolineano la violenza della scena: “Si trovò a stringere una tigre per il pelo della gola mentre la sua zampa lo colpiva con l’impatto di un blocco di ispido bronzo da cinquanta chili lasciato cadere da un bastione”15. Da questo stupro nascerà Achille, l’eroe dal destino segnato della guerra di Troia. A livello psicosociale, nella storia dello stupro di Teti, questa sequenza di metamorfosi risuona con l’esperienza sessuale femminile e gli atavici stratagemmi femminili di autodifesa e riparazione.

Il dio artigiano, Efesto, è nato con il corpo deforme: sua madre Era lo respinge, gettandolo dal Monte Olimpo. Lui precipita nelle profondità del mare, dove Teti lo raccoglie e con grande tenerezza si prende cura di lui. Cresce negli abissi e lì rimane, allestendo fucine al centro dei vulcani. Su richiesta di Teti, fabbrica una magnifica armatura per il figlio di lei, Achille, compreso il celebre scudo, una delle prime opere d’arte mai descritte, in un’epica ecfrasi. È assistito da ancelle d’oro che ha fabbricato lui stesso; gli fanno da aiutanti. Ed è Efesto a plasmare Pandora, la prima donna, come statua di argilla, che in seguito sarà animata dagli dèi. Queste “vergini costruite” sono i primi automi con intelligenza artificiale nella letteratura. Sin dall’inizio, l’immaginazione umana ha legato l’idea delle macchine umane alle forze primordiali, perché Efesto è un maestro del fuoco, così come Teti è una maestra dell’acqua. I mutaforma sono vicini agli elementi – la capacità di trasformarsi riproduce le proprietà dell’acqua e del fuoco. Mestra è sfuggente, abile, evasiva; non è un caso che il dio degli oceani le doni i suoi poteri16. E i cambiamenti proteiformi hanno anche una massa, la massa e il peso dell’acqua.

Quando spunta nelle Mille e una notte, il Vecchio del mare appare come un anziano allampanato, e implora Sinbad di portarlo sulle spalle. Sinbad accetta, e scopre che il suo peso diventa sempre più gravoso a mano a mano che il suo fardello lo incalza ad avanzare17.

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In Crescita e forma, il biologo D’Arcy Thompson analizza le morfologie plasmate dall’acqua; in un passaggio affascinante confronta una goccia di inchiostro, che si espande in un bicchiere, con i tentacoli e le campane o le ombrelle delle meduse. Esplora anche schizzi, fili viscosi, cilindri, e la tensione delle membrane; la sua analisi offre un contesto davvero illuminante alle attuali esplorazioni estetiche della geometria frattale, delle protuberanze o dei buchi topologici, di onde e curve e bulbi e baccelli, di animali e piante simili nelle loro associazioni 18. La consapevolezza della materia elementare, della contingenza e della mutevolezza, ha plasmato un’estetica biomorfica in molte aree diverse dell’arte moderna e contemporanea: dal ciondolare e afflosciarsi delle sculture di Eva Hesse e delle figure cucite di Louise Bourgeois, ai bulbosi atanor in terracotta di Gabriel Chaile, alle strutture rigonfie, molli e fluide di Hannah Levy e Mrinalini Mukherjee. Il cascante è diventato stimolante 19, e il biomorfismo è strettamente legato al plasma e altri fluidi e alla morfologia di balene, meduse, piovre, uova di rana, pesci, calamari, delfini, alghe marine, lumache delle profondità oceaniche e Cyclopteridae di recente scoperta, o grossi vermi da poter fronteggiare le più agghiaccianti paure legate a leggendari mostri ctoni 20. La tendenza estetica acquista una dimensione politica nel lavoro di diverse artiste e artisti, espressa forse con la maggiore potenza nell’“etica idrofanica” di Paul Gilroy. Descrivendo i tentativi di Olaudah Equiano di salvare gli altri membri dell’equipaggio – bianchi (schiavi), così come prigionieri neri – dal naufragio, Gilroy invoca l’importanza cruciale dell’acqua come metafora dell’empatia radicale a cui sta facendo appello: “La condotta [di Equiano] esemplifica la generosità e l’empatia richieste [… dalla] elaborazione di un’etica idrofanica in cui il significato si svela attraverso il ruolo mediatore o la presenza dell’acqua”21. Anche nei corpi metamorfici di oggi, epifanie biomorfiche e liquide conducono a visioni di fusione, autocancellazione, dissoluzione. Più è ermeticamente sigillata la nostra separatezza dagli altri, più diventa impossibile o inammissibile toccare, abbracciare, baciare, pigiarci contro sconosciuti in un luogo affollato, più le idee di fusione e aggrovigliamento prendono a caratterizzare le rappresentazioni. Visioni di contiguità, porosità, mescolanza e assorbimento veicolano terrori da incubo (contiguità significa contagio), ma trasmettono anche desideri nostalgici di prossimità, e anche di abbandono dell’individuo incarnato a quella beatitudine indeterminata e amniotica di unità con l’immensità dell’oceano, dissolto nell’empatia verso gli altri esseri, nel divenire nessuno.

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Marina Warner, scrittrice e docente, nei suoi libri, vincitori di diversi premi, esplora miti e fiabe; tra essi, citiamo Alone of All Her Sex: The Myth and the Cult of the Virgin Mary (Weidenfeld and Nicolson, l976; tr. it. Sola fra le donne. Mito e culto di Maria Vergine, Sellerio, 1999) e Monuments & Maidens: The Allegory of the Female Form (Weidenfeld and Nicolson, 1985; tr. it. Donne e monumenti, Sellerio, 1999). Ha pubblicato cinque romanzi e tre raccolte di racconti; i suoi saggi su arte e letteratura comprendono diversi scritti su Leonora Carrington (introduzioni a The House of Fear e The Seventh Horse; postfazioni a The Debutante e Down Below). Ha curato diverse mostre, tra cui The Inner Eye: Art beyond the Visible (1996). Forms of Enchantment: Writings on Art and Artists è uscito nel 2018 per Thames & Hudson e Inventory of a Life Mislaid: An Unreliable Memoir nel 2021 per William Collins. È professoressa di Inglese e Scrittura creativa al Birkbeck College di Londra e Fellow della British Academy. Nel 2015 ha ricevuto l’Holberg Prize in the Arts and Humanities. Al momento sta scrivendo un libro sul concetto di “santuario”.

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Il verso continua così: “Vaga il nostro spirito, / da un corpo all’altro, quale ch’esso sia, / e dagli uomini passa nelle bestie / e viceversa, né mai si consuma… / nello stesso modo / – così io penso – l’anima trasmigra / in vari corpi rimanendo uguale”. Ovidio, Le metamorfosi, Roma, Newton Compton, 2016, libro XV, vv. 165–172, p. 797. Vorrei citare come ispirazione il poema di Alice Oswald, Nobody, con acquerelli di William Tillyer, London, 21 Publishing, 2018, ristampato come Nobody, London, Jonathan Cape, 2019. Ovidio, Le metamorfosi, cit., libro VIII, v. 847, p. 447. Ibid., vv. 871–874, p. 449. Ad esempio, Dafne si trasforma in una pianta di alloro per sfuggire ad Apollo; “Io, trasformata in giovenca” scrive pateticamente il suo nome sul terreno con lo zoccolo, in modo che i suoi genitori possano riconoscerla; Atteone cerca di ordinare ai suoi cani di stargli lontano, ma ora che è diventato un cervo, lo stesso animale che ha cacciato per tutta la vita, non può parlare né rivelarsi, e così il branco lo aggredisce, facendolo a pezzi; Niobe viene trasformata in una montagna da cui scorrono lacrime per la perdita dei suoi figli, che sono stati pietrificati in forma di statue. Ovidio, Le metamorfosi, cit., libri I, III, VI. Si veda anche P.M.C. Forbes Irving, Metamorphosis in Greek Myths (1990), Oxford, Clarendon Press, l999, passim. Whitney Chadwick, The Militant Muse: Love, War and the Women of Surrealism, London, Thames & Hudson, 2017, 88. Benjamin Péret, Anthologie des mythes, légendes et contes

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populaires d’Amérique, Paris, Albin Michel, 1960. Questo notevole lavoro merita più attenzione – e traduzioni. The Tale of the Second Dervish, in The Arabian Nights: Tales of 1001 Nights, a cura di Robert Irwin, London, Penguin Classics, 2008, I, 86–88. Si veda anche Marina Warner, Stranger Magic: Charmed States and the Arabian Nights, London, Vintage Books, 2014, 36–53, 395–396. The Cypria, a cura di Malcolm Davies, Washington, D.C., The Center for Hellenic Studies, 2019, frammento F7, pp. 86–87. La versione più nota di questo mito vede la mortale Leda vittima dell’aggressione di Zeus e di conseguenza generatrice di due uova, da cui escono Castore e Polluce, Elena e Clitennestra. Si veda Marina Warner, Fantastic Metamorphoses, Other Worlds: Ways of Telling the Self, Oxford, Clarendon Press, 2001, 95, 97–110. Omero, Odissea, Milano, Oscar Mondadori, 2016, libro IV, v. 384, p. 11. Ibid., vv. 400–401, p. 111. Ibid., vv. 405–406, p. 113. Ibid., vv. 416–419, p. 113. Ibid., vv. 455–459, p. 115. Ted Hughes, Tales from Ovid, London, Faber, 1997, p. 102, ispirato alle Metamorfosi di Ovidio, libro XI, vv. 70 ss. Nella storia di Mestra, è Nettuno, il dio del mare, a donarle i poteri di trasformazione e il narratore è il dio fiume Acheloo, che confronta esplicitamente i poteri di lei con la propria maestria nella metamorfosi, pur ammettendo che lei ne dispone in una gamma più ampia. Mestra

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sopravvive ai maltrattamenti del padre per diventare la moglie di Autolico, lui stesso un imbroglione, figlio di Ermes, dio di codici e crocevia. Si veda Ovidio, Le metamorfosi, cit., libro XI. The Fifth Journey of Sindbad, in The Arabian Nights, cit., II, 492–493 (la traduzione di Malcolm C. Lyons non nomina l’incubus come Vecchio del mare, ma altrove lo identifica con lui). D’Arcy W. Thompson, Crescita e forma. La geometria della natura, Torino, Bollati Boringhieri, 2016. Ursula K. Le Guin, The Carrier Bag Theory of Fiction (1986), in Women of Vision: Essays by Women Writing Science Fiction, a cura di Denise DuPont, New York, St. Martin’s Press, 1988 (http://theorytuesdays.com/ wp-content/uploads/2017/02/ The-Carrier-Bag-Theory-of-FictionLe-Guin.pdf). Si veda la traduzione italiana di Teresa Albanese, La sporta: una teoria della narrazione, contenuta in questo volume. Katherine Ellen Foley, Meet the New Species of Deep-Sea Fish So Gooey It Melts When Brought to the Surface, in “Quartz”, 12 settembre 2018 (https:// qz.com/1387690/a-new-fish-found26000-feet-deep-melts-at-thesurface-of-the-sea). Paul Gilroy, Never Again: Refusing Race and Salvaging the Human, Holberg Lecture 2019 (https:// holbergprisen.no/en/holberglecture-never-again-refusing-raceand-salvaging-human). Per le immagini sulla dissoluzione si veda anche il poema di Alice Oswald ispirato all’Odissea, Nobody, cit.

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TEORIA CRITICA POSTUMANA

Rosi Braidotti

INTRODUZIONE

Che si apprezzi o meno il termine, questi sono tempi postumani e gli studi nel campo sono in piena espansione. Alcuni sviluppi spettacolari, in particolare nelle neuroscienze, nelle scienze biologiche e nello studio dei sistemi terrestri ed ecologici, così come nelle tecnologie informatiche digitali, hanno modificato la nostra comune comprensione dei parametri di base che ci permettono di definire l’essere umano. La svolta postumana è innescata dalla convergenza del postumanesimo, da un lato, e del postantropocentrismo, dall’altro. Il primo ruota attorno alla critica dell’ideale umanistico di “Uomo” come rappresentante universale dell’umano, mentre il postantropocentrismo mette in discussione la pretesa superiorità dell’umano, la gerarchia delle specie La posizione critica postumana che difendo e promuove la giustizia parte dall’assunto che è diventato urgente elaboecologica. rare una nuova relazione, più complessa sul piano metodologico e strategico, nei confronti delle radici materialiste della soggettività. Questo posizionamento materialista implica anche una dimensione planetaria, che ci induce a sviluppare una relazione più giusta ed egualitaria con gli altri esseri, umani e non umani. La ricerca, anche nelle scienze umane, deve stare al passo con i tempi, come sottolinea, ad esempio, la diffusa accettazione da parte della comunità accademica e scientifica del termine “Antropocene”1 per definire la nostra era geologica. La teoria critica postumana si rivela all’altezza delle sfide della nostra epoca e opera per riformulare la questione dell’Antropocene. La definizione “teoria critica postumana” contrassegna pertanto l’emergere di un nuovo tipo di discorso che non rappresenta soltanto l’effetto della convergenza di postumanesimo e postantropocentrismo e una piatta equivalenza di questi due filoni di pensiero, piuttosto un salto qualitativo in una direzione nuova e più complessa.

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I L P O S T U M A NO C OM E F IGU R A Z ION E

Il postumano è una figurazione, o una figura concettuale, non un concetto in senso stretto. Esprime l’impegno del filosofo critico verso l’attualità del presente e lo rende operativo per mezzo di una metodologia specifica, che ho sviluppato a partire dal ramo femminista neomaterialista della tradizione filosofica francese post-strutturalista. Il principio fondamentale di questa metodologia è disegnare collettivamente cartografie discorsive e materiali del presente, che diano conto di documenti e monumenti, e quindi delle condizioni semiotiche e materiali della nostra esistenza, compresa la produzione contemporanea delle conoscenze. Una cartografia è una mappa teoricamente fondata e politicamente informata del presente o del momento attuale, anche in funzione della produzione discorsiva. Poggia sulla penetrante filosofia deleuziana del tempo come un continuum, che definisce il presente come concetto stratificato e pluridirezionale. Il presente è la traccia di quello che stiamo smettendo di essere e al tempo stesso il seme di quello che siamo in procinto di diventare: è qui e ora, ma anche virtuale. Si tratta di un concetto fondamentale nella filosofia di Deleuze, che rimanda alla somma totale dei possibili modi alternativi di essere. Deleuze lo sviluppa – sulla falsariga di Spinoza, ma anche di Leibniz – come forma di “prospettivismo”, ovvero l’idea di molteplici mondi possibili e molteplici modalità percettive di questo stesso orizzonte di possibilità. Per Deleuze tale concetto assume connotazioni etiche e rimanda a uno sbalzo intensivo e qualitativo nei modi di divenire. Per estensione, mi sembra significare che il compito della cartografia sia offrire spiragli sulle molteplicità non lineari di queste dimensioni: i critici postumani devono essere tali riguardo alle condizioni attuali, ma anche creativi in termini di nuove figurazioni o strumenti e metodi di navigazione che mirano ad attualizzare il virtuale. Una cartografia adeguata ambisce a realizzare figurazioni o personaggi concettuali alternativi per impostare una rotta attraverso un resoconto cartografico/ racconto del presente che tenga conto, come osservato sopra, dei suoi aspetti frastagliati e non lineari. In altre parole, una figurazione adempie alla duplice funzione di documentare e smascherare le strutture sedentarie e restrittive delle formazioni dominanti del soggetto (potere come potestas, o coercizione). Su un livello più affermativo, tuttavia, la medesima figurazione esprime anche rappresentazioni alternative del soggetto come processo di trasformazione sempre in corso (potere come potentia, o emancipazione). Per certi versi, una figurazione costituisce la drammatizzazione dei due processi del pensiero critico e del divenire virtuale, ma in maniera non dialettica e dinamica. È in questo punto che entrano in gioco anche le epistemologie radicali, come il femminismo e l’antirazzismo, e soprattutto per me il metodo femminista della “politica del posizionamento” di Adrienne Rich, elaborato nei primi anni Ottanta e poi trasformato nelle “conoscenze situate” di Donna Haraway negli anni Novanta. Nel mio sistema filosofico il posizionamento funziona come una forma di immanenza radicale. In una prospettiva cartografica critica, una figurazione produce anche la mappatura dei nostri posizionamenti o collocazioni storiche e sociali, cosa che consente l’analisi delle specifiche formazioni di potere che ci strutturano e l’elaborazione di forme di resistenza appropriate. Quindi la politica del posizionamento offre un metodo, una strategia e una prospettiva d’avvenire di stampo neomaterialista e femminista, che accentua la struttura situata, relazionale, affettiva, incarnata e radicata di tutti i processi di produzione delle conoscenze, comprese quelle generate dal femminismo. La politica del posizionamento, o immanenza radicale, è uno dei principali contributi concettuali del femminismo al pensiero critico contemporaneo. L’altro è la politica affermativa. Definisco quindi il postumano come una figurazione critica e creativa, o una figura concettuale capace di illuminare le complessità del presente, definito come

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l’attuale – cioè lo stato realizzato delle cose – e al tempo stesso il virtuale – cioè i processi in divenire. In termini filosofici – in contrasto con il senso spaziale e geologico del termine – il posizionamento non produce tanto un’entità sostanziale, quanto una figura concettuale che mette in rilievo una serie di discorsi contemporanei emergenti, generati dalle critiche intrecciate dell’umanesimo e dell’antropocentrismo. Quello che il pensiero critico postumano rende pensabile ai nostri tempi, in molte discipline, è il dispiegarsi discorsivo e materiale di questa convergenza acuta. Alcuni di questi discorsi critici sono legati all’estinzione, alla crisi e alla sopravvivenza, ma molti sono generativi e proposizionali. Vorrei esporne i più evidenti. Prima di tutto, qualsiasi concetto residuo di natura umana viene sostituito da un continuum, che Haraway descrive come natureculture2. Questo spostamento pone fine anche alla distinzione categorica tra la vita come bios, prerogativa dell’anthropos, e la vita degli animali e dei non umani, o zoe3. Ciò che invece emerge in primo piano sono le nuove relazioni umano/non umano, che comprendono complesse interfacce mediatiche-tecnologiche di materia biologica e non biologica. La doppia mediazione, bio- e info-tecnologica, è di cruciale importanza per la convergenza postumana. Queste pratiche e discorsi provocano non solo l’interrogazione critica della categoria dell’antropocentrismo, o supremazia della specie, ma insieme ad essa sollevano anche la consapevolezza della struttura relazionale del sé incarnato e posizionato o radicato. Permettono anche una visione “ecologica e filosofica” della soggettività su una molteplicità di livelli nomadici ed “ecosofici”4, che includono le dimensioni ecologiche, sociali e affettive o psichiche. U NA CA RT O G R A F I A DE L L A C ON V E R G E N Z A P O S T U M A NA

Propongo quindi di affrontare il postumano come una molteplicità capace di esprimere un’intuizione fondamentale sul cambio di paradigma che ci porta lontano dall’antropocentrismo. Il sapere postumano copre una gamma di posizioni diverse e agende politiche spesso contrastanti. La proliferazione produttiva del sapere, tuttavia, avviene in parallelo a una considerevole produzione di teoria sociale e di pubblicazioni divulgative che esprimono un’ansia condivisa riguardo al futuro, sia della nostra specie, sia della nostra eredità umanista. In un recente saggio 5, ho elaborato una cartografia preliminare e ho identificato alcuni meta-modelli in diverse aree di ricerca sul postumano e li ho definiti come snodi interdisciplinari creativi, o nuclei produttivi generativi. Il meta-modello che disegnano non è lineare, ma è composto da linee rizomatiche che si muovono a zig zag attraverso campi diversi del sapere – in particolare le aree degli studi critici che sono cresciute in modo interstiziale dagli anni Settanta, oltre a diverse discipline ormai consolidate. Lasciate che faccia qualche esempio: prima di tutto, la letteratura comparativa e i Cultural Studies, che hanno svolto un ruolo pionieristico rinnovando sia i metodi sia le tematiche. Particolarmente rilevanti sono l’ecocritica e gli Animal Studies. Un altro snodo interdisciplinare pionieristico è quello che chiamavamo gli “studi sui media”, che nel sapere postumano hanno compiuto una svolta più materiale per rendere conto dell’economia politica dell’interazione umani/non umani e delle relazioni mediate dei nostri tempi. Le scienze ambientali ed ecologiche sono un altro cruciale agente di innovazione nel pensiero postantropocentrico, con giganti intellettuali come Haraway che stanno a cavallo tra questa disciplina e gli studi sulla scienza e la tecnologia. In tutto il mio lavoro, compreso quello sul postumano, ho sottolineato l’impatto innovativo degli studi femministi e LGBTQ+, e degli studi postcoloniali e decoloniali, come snodi intersezionali. Nella loro campagna contro il dualismo costitutivo del pensiero patriarcale e i loro sforzi di percorrere e auspicabilmente superare questa logica e la violenza fallocentrica che la sostiene, le femministe sono state tra le prime a teorizzare un cambiamento qualitativo postumano basato sul continuum tra soggetti politici radicali umani e non umani. Questa tendenza sta acquistando

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forza nelle teorie queer postumane e inumane contemporanee, con un’enfasi speciale sulla “sessualità postumana”. Una specie di alleanza intergalattica di femministe e LGBTQ+ con mostri e alieni sta al cuore del genere della fantascienza horror, che è una delle più seguite tendenze culturali contemporanee. Promuove la composizione di un’alleanza tra donne e LGBTQ+ come “altre/altr*” rispetto all’“uomo”, e altri “altri” in forma di non bianchi (postcoloniali, neri, ebrei, indigeni e soggetti ibridi), organismi non antropomorfi (animali, insetti, piante, alberi, virus e batteri), compresi gli apparati tecnologici e così via – una colossale ibridazione tra specie. Il principale punto di collegamento tra teorie femministe e la svolta critica postumana per me risiede nel concetto delle corporalità, nel senso delle strutture incarnate e situate o radicate, relazionali e affettive di soggettività. La tradizione materialista femminista rappresenta in questo caso l’anello genealogico mancante, che il neomaterialismo femminista contemporaneo sta ulteriormente sviluppando. Anche l’enfasi sull’incarnazione vitale è in gioco, con il pensiero carnale di radice fenomenologica di Vivian Sobchack, oppure nella “materia vibrante” e nella vita inventiva di Jane Bennett. La “performatività” postumana di Karen Barad lascia il posto alla transcorporalità e al divenire multispecie di Stacy Alaimo6. In altre parole, la critica dell’idea umanista e antropocentrica dell’umano ha generato una serie di visioni e valori alternativi. Questo è tanto più vero se teniamo a mente che l’“umano” non è un termine neutro, ma indice di un sistema di accesso a diritti e privilegi mediante processi di “umanizzazione” (cioè di “normalizzazione”) che sono orientati da e consolidano i rapporti dominanti di potere. E quindi sarebbe ingenuo considerare il postumano come una categoria dotata di intrinseche qualità sovversive o liberatorie: il postumano non è post-potere. Al contrario, ho sostenuto che il genere, la razza, la classe e l’età sono categorie che sostengono seri differenziali di potere e che, per affrontarli, noi critici postumani dobbiamo negoziare nuovi assemblaggi o alleanze trasversali. Uno sviluppo significativo in quest’area è la riformulazione dei Disability Studies nella modalità affermativa che va oltre le rivendicazioni egalitarie, proponendo corpi diversamente abili che sfidano gli standard di normalità, e non solo nei termini della normatività, o eteronormatività di genere. E così, a dispetto della retorica negativa, qui non c’è nessuna crisi delle scienze umane, solo una immensa vitalità di spunti. È fondamentale, tuttavia, sottolineare che questi nuovi modelli di produzione del sapere si svolgono nel contesto del capitalismo avanzato. L’economia globale può essere definita postantropocentrica in quanto reagisce a un unico stimolo: la ricerca del profitto. Di conseguenza, unifica tutte le specie sotto l’imperativo del mercato, e i suoi eccessi minacciano la sostenibilità del nostro pianeta come intero. Il capitalismo avanzato investe nel e al tempo stesso sfrutta il controllo scientifico ed economico e la mercificazione di tutto ciò che vive: controlla e ha brevettato i codici genetici di quasi tutti gli organismi, dai semi al DNA di animali e perfino il genoma umano. Questo contesto produce una forma paradossale e abbastanza opportunistica di postantropocentrismo da parte delle forze di mercato e della ricerca scientifica ad esse collegata, che smerciano allegramente i codici della vita stessa.

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L’economia politica opportunistica del capitalismo biogenetico induce quindi, se non l’effettiva cancellazione, quanto meno l’offuscamento della distinzione tra l’umano e le altre specie, quando si tratta di ricavarne un profitto. Semi, piante, animali, virus e batteri rientrano in questa logica di consumo insaziabile, che non esclude diversi elementi umani, che vengono sistematicamente dis-umanizzati. L’unicità dell’anthropos è intrinsecamente ed esplicitamente rimossa da questa logica di mercificazione e consumo del vivente. Ciò che oggi costituisce il valore aggiunto del capitale è il potere informativo della materia vivente stessa, trasposto in banche dati di informazioni biogenetiche, neurali e mediatiche sulle specie e gli individui, come dimostra a un livello più banale Facebook. L’attenzione è rivolta all’accumulo stesso di dati e di informazioni, alle qualità vitali immanenti della materia e alla sua capacità di autorganizzazione. La mia posizione da deleuziana – sarebbe a dire, da pensatrice critica neospinoziana e materialista – è chiara: la materia vivente è contraddistinta da un’ontologia processuale che interagisce in modi complessi e produttivi con ambienti sociali, psichici ed ecologici, producendo molteplici ecologie di appartenenza7. Per scendere a patti con queste nuove conoscenze si impone un cambio di paradigma riguardo all’umano stesso. In questo complesso campo di forze, la soggettività umana deve essere ridefinita come sé relazionale, nomadico, espanso, generato dall’effetto cumulativo, ma non lineare, né dialettico, di tutti questi fattori8. Inoltre, la capacità relazionale del soggetto postantropocentrico non è ristretta all’interno della nostra specie, ma include molti elementi non antropomorfici: la forza profondamente non umana della vita definita come zoe. Non potenza trascendentale, ma forza immanente trasversale che attraversa e riconnette specie, categorie e dominii, la vita vive, prima, dopo, sotto e sopra la specie umana. Quest’egualitarismo fondato sulla zoe – la vita non umana – è il nucleo della svolta femminista postumana, nel senso di postumanista e postantropocentrica. Si tratta di una risposta materialista, secolare, situata e non sentimentale alla mercificazione opportunistica della vita di tutte le specie, che costituisce la logica del capitalismo cosiddetto “avanzato”. U N A P P R O C C IO M AT E R I A L I S TA V I TA L I S TA

La teoria critica postumana, nella mia prospettiva, è neomaterialista. Poggia sulle ontologie processuali fondate sulla rivalutazione di Spinoza elaborata dai filosofi francesi a partire dagli anni Settanta9, che mette in primo piano la positività della differenza come processo di modulazione differenziale all’interno di una materia comune. Il concetto chiave è che la materia – compresa la quantità specifica di materia formulata e formalizzata negli organismi che costituiscono gli esseri umani stessi – non è organizzata in opposizioni dualistiche tipo mente/corpo, ma si dispiega invece come soggetto in processo, incarnato e situato materialmente. Quindi si tratta di pensare allo stesso tempo i processi di differenziazione e i rispettivi posizionamenti che inducono negli esseri viventi – che richiamano le monadi o prospettive di Leibniz – e l’appartenenza a una materia comune. Questa enfasi sull’univocità della vita non nega dunque il potere delle differenze, ma sostiene piuttosto che esse non sono più strutturate secondo il principio dialettico di opposizione interna o esterna. Quindi non funzionano in modo gerarchico o verticale, ma si sono riorganizzate in strutture orizzontali, che distribuiscono il potere in altri modi. Un pensiero materialista postumano critico consiste dunque nel ridefinire e attivare il concetto stesso di materialismo, definendo la materia come vitale e intelligente, o capace di autorganizzazione, producendo in tal modo la combinazione provocatoria del “materialismo vitalista” o “immanenza radicale”10. Il materialismo vitalista enfatizza l’incarnazione del corpo nella mente e della mente nel corpo: essendo una e immanente a se stessa, la materia si autorganizza negli organismi umani come non umani, ed è spinta dal desiderio ontologico di espressione della sua libertà più intima e costitutiva (conatus).

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Tale approccio offre il vantaggio di ridefinire le tradizionali opposizioni binarie, come natura/cultura e umano/non umano, aprendo la strada a una relazione orizzontale e non gerarchica e quindi anche più egualitaria, tra membri di una stessa specie e anche di specie diverse. Le tradizioni critiche femminista e antirazzista avevano già preparato il terreno, staccando le rivendicazioni della differenza dalle gerarchie della dialettica classica, che non era stata in grado di onorare la loro carica affermativa. La visione – hegeliana ma anche marxista – della differenza come sistema dialettico o opposizionale ha avuto la conseguenza di ridurre intere sezioni di esseri viventi a corpi marginali e sacrificabili: questi sono altri sessualizzati11, razzializzati e naturalizzati che storicamente hanno vissuto la differenza come marchio negativo e continuano a essere stigmatizzati da questa negatività12. In contrasto con la carica negativa delle opposizioni dialettiche, il materialismo vitalista postumano incoraggia la politica nomade del “divenire-minoritario” attraverso una politica di affermazione che ribadisce una visione dinamica e non deterministica della materia come forza relazionale molteplice, multidirezionale. L’enfasi è sulla forza della relazionalità, che non è un modo di negare l’antagonismo, ma piuttosto un metodo diverso per rielaborarlo, a partire dalla specificità dei propri posizionamenti dentro la complessa rete di rapporti sociali che compongono il sé. Questo sé non è un’entità atomizzata ma un soggetto relazionale non unitario, nomade e rivolto all’esterno. La trasversalità è un modo di attualizzare il primato della relazione, dell’interdipendenza e della co-creazione, con un’enfasi sulla vita non umana o a-umana: ciò che conta è la forza e l’autonomia dell’affetto e la logistica della sua attualizzazione13. La trasversalità nomade attualizza l’egualitarismo centrato sulla zoe14. Un altro vantaggio significativo di questo materialismo vitalista postumano è che, introducendo una visione inclusiva postantropocentrica della soggettività, esso accoglie anche gli agenti non umani. Le teorie neomaterialiste vitaliste conducono a un approccio produttivo centrato sulla zoe che ci incoraggia a mettere in questione la violenza e il pensiero gerarchico sorti dall’arroganza umana e dal presupposto dell’eccezionalismo umano trascendentale. La relazionalità materialista riesce ad attivare l’etica postumana come co-costruzione collaborativa e relazionale di soggettività trasversale15. Sul piano metodologico, costruisce anche legami teorici e politici con le epistemologie non occidentali e soprattutto con l’antico campo dei sistemi di conoscenza indigeni, che propongono modalità alternative di co-esistenza con i non umani, di rapporto con l’ambiente e di appartenenza ecosofica16. Per estensione, le ontologie materialiste vitaliste sostengono il nuovo continuum ecologico “natura-cultura-media”, e dissolvono la separazione categorica tra entità naturali e manufatti costruiti. Questo è uno degli aspetti più radicali della teoria critica postumana, in particolare nella misura in cui mette in discussione questa divisione categorica, proponendo in alternativa una classificazione di tutte le entità – cose, oggetti e organismi umani compresi – in termini di forze e impatto sulle altre entità del mondo. In altre parole, un dibattito etico relazionale sulle forze, invece di un discorso su origini e causalità, produce uno spostamento dei sistemi di valori – anche morali ed epistemici – fondati sulla visione antropocentrica del mondo. Inoltre, questo approccio rende possibile espandere il continuum natura-cultura in modo da includere le reti mediatiche e digitali, ovvero le “ecologie dei media”17. Le reti digitali possono essere interpretate come materia vivente non organica, che genera un continuum di sistemi autorganizzanti – di intelligenze dette “artificiali” e di macchine che reagiscono a vivo e in tempi reali. Si tratta di un’ecologia generale di tipo ambientale, tecnologico, sociale, psichico e altro. Non solo facciamo tutti “parte della natura”18, ma abitiamo le naturecultures di Haraway – che sono tecnologicamente mediate e globalmente interconnesse. Tutta la materia vivente è oggi mediata lungo assi molteplici: siamo immersi nelle medianatures 19 e la tecnologia è la nostra seconda natura.

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T E OR I A C R I T ICA P O S T U M A NA

L’approccio cartografico incoraggia un’argomentazione di stampo epistemologico e politico che è in grado di ridefinire la missione delle scienze umane contemporanee20. I criteri fondamentali che caratterizzano questa ridefinizione sono: la precisione cartografica, l’importanza di alleare la funzione critica con le figurazioni creative, l’etica dell’affermazione, la transdisciplinarità, il principio della non linearità, il potere di memoria e immaginazione, e il metodo tattico della defamiliarizzazione21. Consentitemi di illustrarne almeno alcuni. Partiamo dalle temporalità diffuse della condizione postumana. In una filosofia materialista vitalista del divenire il passato viene ricomposto come azione o praxis nel presente, sdoppiato come divenire attuale e virtuale. Questa intensità è al tempo stesso prima e dopo di noi, sia passata sia futura, in un flusso o processo di mutazione, differenziazione o divenire. Il pensiero critico postumano richiede un quadro di riferimento più ampio e un arco temporale che attivi la memoria come forza creativa. Questo ci consente un’apertura affettiva non solo temporale, ma anche spaziale, verso la dimensione geofilosofica o planetaria della “caosmosi”, come la chiama Guattari. Il soggetto pensante è un processo in divenire, in costante trasformazione, situato sulla soglia di atti gratuiti (principio del non-profit) e non strumentali (principio della mobilità o flusso nomade) che esprimono l’energia vitale del divenire trasformativo (principio di non linearità). Queste proprietà definiscono anche il concetto di virtuale nel pensiero di Deleuze e specialmente la prassi dell’attualizzazione del virtuale attraverso l’azione collettiva. Il principio etico-politico è proprio l’attualizzazione dell’intensità delle forze e relazioni affettive che focalizzano il desiderio di cambiamento e lo attivano in azione, movimento, intervento. Ma tra tutti i criteri che gestiscono la teoria critica postumana, il più importante è il metodo tattico della defamiliarizzazione, vale a dire lo sganciamento del soggetto dai modelli identitari familiari e consueti. Elaborato dal pensiero femminista e postcoloniale come metodo centrale per la critica delle formazioni dominanti dei soggetti, il progetto di defamiliarizzare le nostre abitudini di pensiero e di vita attualizza la critica delle diverse formazioni del potere, a partire da quelle che ci costituiscono, che abitiamo e a cui siamo abituati. Staccarci da loro ci permette di evolvere verso una struttura di pensiero postumano. Di conseguenza, queste disidentificazioni avvengono lungo gli stessi assi che avevano strutturato le esclusioni gerarchiche, cioè del divenire-donna/LBGTQ+ (sessualizzazione), divenirealtro-dall’-europeo (razzializzazione), e divenire-animale o -terra (naturalizzazione)22. Alcune di queste deterritorializzazioni coinvolgono agenti antropomorfi, mentre il processo di divenire-animale/terra esige una rottura più drastica con gli schemi consolidati di pensiero antropocentrico e introduce una dimensione planetaria radicalmente immanente. Il pensiero critico postumano si impone il dovere di rendere conto dei nostri deficit etici relazionali, in particolare nei confronti delle persone che sono etichettate come “differenti”, e quindi “altrimenti” umane, oltre che degli altri non antropomorfi. Il quadro etico di riferimento diventa il mondo, con tutti i suoi flussi di divenire indeterminati, interrelazionali, transnazionali, multisessuali, transpecie: una forma nativa o indigena di cosmopolitismo23. Questi criteri, e specialmente la disidentificazione dai canoni dell’umanesimo e dell’antropocentrismo, definiscono una teoria critica postumana che è indissociabile da un’etica, che esige rispetto per le complessità del mondo della vita reale in cui stiamo vivendo. Un’etica affermativa che inoltre è disposta a tradurre e introdurre questa complessità nelle strutture della conoscenza accademica che definiscono le scienze dette “umane”. Credo veramente che l’università contemporanea debba evolvere verso quelle che chiamo “scienze postumane critiche”, con cui intendo una forma intensiva di interdisciplinarità, trasversalità e sconfinamento tra un insieme di discorsi. La teoria critica postumana si traduce in gradi più alti

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di ibridazione inter/transdisciplinare e comporta una intensa defamiliarizzazione delle nostre abitudini di pensiero, attraverso incontri nomadi che sovvertono i protocolli della ragione istituzionale. Una visione della materia come autopoietica comporta quindi una revisione del soggetto di conoscenza come singolarità complessa, assemblaggio affettivo ed entità relazionale vitalista24. Sono questi gli elementi costitutivi delle trasformazioni qualitative indotte dalla teoria critica postumana, in contrasto con una semplice proliferazione quantitativa di nuovi oggetti di studio non umani. Nuovi modelli istituzionali vengono proposti nell’attuale dibattito pubblico sul futuro dell’università, comprese strutture alternative. Ad esempio, il Future of Humanity Institute dell’Università di Oxford incarna il modello transumanista tramite un programma chiamato “Superintelligence”, che combina la fede umanista nella perfettibilità dell’uomo mediante la razionalità scientifica, con un programma di estensione dell’umano attraverso la tecnologia. In uno splendido tributo alla visione dominante della scienza – e alla logica del profitto aziendale –, il direttore Nick Bostrom dichiara la sua fedeltà all’Illuminismo europeo nel combinare la ricerca sui sistemi neuronali con la robotica e le scienze computazionali, la psicologia clinica e la filosofia analitica. In questo progetto transumanista viene prodotto un nuovo tipo di soggettività, come entità superumana meta-razionalista. Il mio pensiero critico postumano invece propone altre piste di ricerca. Io vorrei difendere un approccio diverso, radicato nell’etica affermativa materialista e fondato su un concetto di materia come entità vivente capace di interconnessioni immanenti. Il compito della teoria critica postumana è attivare i soggetti per farli entrare in nuovi assemblaggi affettivi, per spingerli a co-creare alleanze e forze etiche, e codici politici alternativi. La teoria critica postumana segna la fine di quelle che Vandana Shiva ha battezzato “monoculture della mente”25 e persegue la politica radicale del posizionamento, della decolonizzazione e dell’analisi delle forme sociali di esclusione nell’attuale ordine mondiale di “biopirateria”26, “necropolitica”27 ed espropriazione globale28. Pone inoltre in primo piano la soggettività all’interno di un dibattito pubblico sulle nuove tecnologie che spesso elimina questo fattore, dichiarando la soggettività un residuo del vecchio mondo. Ma senza una pratica effettiva della soggettività non possiamo proporre né un’etica né una prassi politica degna del nostro tempo. Perciò io affermo che il soggetto critico postumano è un complesso assemblaggio di umano e non umano, planetario e cosmico, dato e costruito, che richiede una defamiliarizzazione dai modi tradizionali di pensare. La pensatrice critica postumana resta impegnata per la giustizia sociale e, pur riconoscendo l’attrazione fatale della mediazione globale, difficilmente dimenticherà che un terzo della popolazione mondiale non ha nemmeno accesso all’elettricità. C ONC LU S ION E : R IC OM P OR R E L’ U M A N I TÀ

La teoria critica postumana propone di resistere a qualsiasi sintesi: nessuna conclusione è permessa o data per scontata quando si tratta di valutare gli effetti della transizione che l’“umano” e l’“umanità” stanno attraversando in questo momento. È importante invece concentrarsi sulle modalità possibili per

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rendere conto dei processi di trasformazione in corso. Sarebbe falso assumere che la convergenza postumana implichi dei valori intrinsecamente progressisti o rivoluzionari. È addirittura rischioso credere che essa possa smontare automaticamente i rapporti di potere basati su classe, genere, razza, sessualità, età o disabilità29. Ci sono anzi molte e sempre più numerose prove che fanno presagire l’esatto contrario. Ho già sostenuto che quello che ci serve, piuttosto, sono accurati resoconti cartografici delle nuove umanità emergenti. Ci servono nuove posizioni soggettive come alleanze trasversali tra agenti umani e non umani, che potrebbero dare conto dell’ubiquità della mediazione tecnologica e della complessità delle alleanze interspecie, pur sottolineando modelli ricorrenti di esclusione ed emarginazione. Nel mio quadro concettuale, critico, il “noi” postumano non deve essere dato per scontato, ma costruito nella pratica concreta del divenire-postumano come un assemblaggio collettivo. In effetti, “noi” stiamo affrontando insieme questa convergenza postumana. Ma “noi” non siamo la stessa cosa, in termini di posizionamento, potere, responsabilità, potestas e potentia. Il capitalismo avanzato è postantropocentrico in quanto unifica tutte le specie sotto l’imperativo del mercato, e i suoi eccessi minacciano la sostenibilità dell’intero pianeta. Ma nell’era dell’Antropocene, questo stesso sistema si dichiara pure neoumanista nel voler forgiare un nuovo legame panumano, fatto di vulnerabilità e paura dell’estinzione. L’umanità diventa così una categoria al tempo stesso instabile e profondamente controversa nel nostro presente postumano dell’Antropocene. Contro il panumanesimo capitalista, sostengo che “noi” ha senso solo come prassi, cioè entità a venire. Non è il ritorno dell’universalismo umanista, piuttosto un’impresa portata avanti attraverso un progetto condiviso da una collettività trasversale, che mira ad attualizzare un virtuale definito collettivamente. Questo processo eterogeneo di divenire richiede la formazione di un nuovo soggetto politico, cioè il progetto di assemblare un popolo mancante. Partendo dalle filosofie dell’immanenza radicale, dal neomaterialismo e dalla politica femminista del posizionamento, ho proposto cartografie incarnate e situate, relazionali e affettive dei nuovi rapporti di potere che stanno emergendo dall’attuale ordine geopolitico postumano. Invece di abbracciare l’idea di una nuova panumanità, legata da una vulnerabilità condivisa e da un’ansia sulla sopravvivenza e l’estinzione, in quella che Ulrich Beck chiama la “società del rischio globale”, vorrei difendere un prospettivismo critico, collegato a una politica affermativa che mette in primo piano le interconnessioni immanenti ed eterogenee: un’etica transnazionale dello spazio, dei luoghi e dei tempi. Il postumano come figura concettuale e strumento di navigazione esprime la dimensione etica affermativa del divenire-postumano come gesto di autodefinizione collettiva, o specificazione reciproca. Attualizza una comunità che è situata e dunque non universalista, non collegata negativamente dalla vulnerabilità condivisa, dal senso di colpa per un’ancestrale violenza originaria, o una malinconia di stampo ontologico. Penso invece a comunità eterogenee di umani e non umani, alleate sulla base del riconoscimento della reciproca e mutua interdipendenza. Questa soggettività complessa implica molteplici “altri” che per la maggior parte, nell’era dell’Antropocene, non sono antropomorfi. Rifiuto un riavvicinamento all’universalismo eurocentrico, ma considerando la portata globale dei problemi nell’era della convergenza postumana – tra i quali la pandemia che ha decimato i soggetti più vulnerabli e marginalizzati –, riconosco l’importanza di tracciare alcune linee generiche comuni. L’imperativo etico fondamentale è rifiutare di occultare i differenziali di potere che continuano a dividerci. In questo complesso passaggio verso la condizione postumana, in un momento doloroso ma anche colmo di aspettative, credo che, all’interno della ricomposizione postumana dell’“umano”, ci siano in ballo progetti molteplici e potenzialmente contraddittori, molti modi e prospettive per divenire-postumani.

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Rosi Braidotti si è formata all’Australian National University e ha conseguito il dottorato presso l’Università Sorbona di Parigi. È docente universitaria ed è stata fondatrice e direttrice del Centro per le scienze umane all’Università di Utrecht dal 2007 al 2016. Tra le sue pubblicazioni più importanti: Nomadic Subjects (2011; tr. it. Soggetto nomade. Femminismo e crisi della modernità, Donzelli, 1995) e Nomadic Theory (2011), entrambi editi da Columbia University Press; The Posthuman (2013; tr. it. Il postumano. La vita oltre l’individuo, oltre la specie, oltre la morte, DeriveApprodi, 2014) e Posthuman Knowledge (2019), entrambi per Polity Press. Nel 2016 ha co-curato Conflicting Humanities con Paul Gilroy, e nel 2018 Posthuman Glossary con Maria Hlavajova, entrambi per Bloomsbury Academic. È membro dell’Australian Academy of the Humanities, dell’Academia Europaea ed è cavaliere dell’Ordine del Leone dei Paesi Bassi.

Teoria critica postumana è la traduzione dell’articolo Posthuman Critical Theory pubblicato in “Journal of Posthuman Studies”, 1(1), 2017, 9–25. Tradotto, rivisto e ristampato per concessione dell’editore e dell’autrice. Copyright © 2017 Pennsylvania State University Press.

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Il chimico e Premio Nobel Paul Crutzen ha coniato il termine “Antropocene” nel 2000 per descrivere l’attuale era geologica in termini di impatto umano sulla sostenibilità del pianeta. L’adozione di “Antropocene” come termine scientifico è stata ufficialmente raccomandata dall’Associazione geologica internazionale a Cape Town nell’agosto 2016. Donna Haraway, The Companion Species Manifesto: Dogs, People, and Significant Otherness, Chicago, Prickly Paradigm Press, 2003. Rosi Braidotti, Trasposizioni. Sull’etica nomade, a cura di Anna Maria Crispino, Roma, Luca Sossella, 2008. Félix Guattari, Franco La Cecla et al., Le tre ecologie, Milano, Sonda, 2019. Rosi Braidotti, The Contested Posthumanities, in Conflicting Humanities, a cura di Rosi Braidotti e Paul Gilroy, New York, Bloomsbury Academic, 2016, 9–45. Vivian Sobchack, Carnal Thoughts: Embodiment and Moving Image Culture, Berkeley, University of California Press, 2004; Jane Bennett, Vibrant Matter: A Political Ecology of Things, Durham (NC), Duke University Press, 2010; Karen Barad, Posthumanist Performativity: Toward an Understanding of How Matter Comes to Matter, in “Signs”, 28(3), 2003, 801–831; Stacy Alaimo, Bodily Natures: Science, Environment, and

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Matthew Fuller, Media Ecologies: Materialist Energies in Art and Technoculture, Cambridge (MA), The MIT Press, 2005. Genevieve Lloyd, Part of Nature: Self-Knowledge in Spinoza’s Ethics, Ithaca (NY), Cornell University Press, 1994. Jussi Parikka, Archeologia dei media. Nuove prospettive per la storia e la teoria della comunicazione, Roma, Carocci, 2019. Braidotti, Posthuman Knowledge, cit. Braidotti, Il postumano, cit. Braidotti, Trasposizioni, cit. Braidotti, Il postumano, cit. Braidotti, Posthuman Knowledge, cit. Vandana Shiva, Monoculture della mente. Biodiversità, biotecnologia e agricoltura “scientifica”, Torino, Bollati Boringhieri, 2001. Vandana Shiva, Biopirateria. Il saccheggio della natura e dei saperi indigeni, Napoli, CUEN, 2001. Achille Mbembe, Necropolitics, in “Public Culture”, 15(1), 2003, 11–40. Saskia Sassen, Expulsions: Brutality and Complexity in the Global Economy, Cambridge (MA), The Belknap Press of Harvard University Press, 2014. Rosi Braidotti, In metamorfosi. Verso una teoria materialista del divenire, a cura di Maria Nadotti, Milano, Feltrinelli, 2003; Braidotti, Il postumano, cit.

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Jadé Fadojutimi, Even an awkward smile can sprout beyond the sun, 2021. Olio, colore a olio, acrilico su tela. 200 × 170 cm. Photo Mark Blower. Collezione privata, Los Angeles. Courtesy l’Artista; Pippy Houldsworth Gallery, London. © Jadé Fadojutimi 2021

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Padiglione Centrale


J A D É FA D O J U T I M I

1993, Londra Vive a Londra, UK

I dipinti su scala monumentale dell’artista britannica Jadé Fadojutimi danno vita ad ambienti immersivi, plasmati da emozioni e ricordi. Già da adolescente, Fadojutimi sviluppa una persistente ossessione nei confronti della cultura pop giapponese. Oggi dipinge spesso al ritmo delle colonne sonore di videogiochi o anime giapponesi, mezzi di comunicazione che, travalicando i tipici racconti eroici, indagano un ampio spettro di emozioni ed esperienze. I momenti nostalgici che Fadojutimi vive nell’atto di dipingere – provenienti anche da ricordi d’infanzia o perfino dagli abiti nel suo guardaroba – trapelano nelle sue tele attraverso una gestualità esplosiva e un intenso uso del colore. Prendendo intuitivamente forma dai frammenti di pensiero e dalle esperienze dell’artista, i suoi dipinti – talvolta portati a termine nel corso di un’unica sessione – dimostrano un senso di liberazione dalle costrizioni dell’identità, lasciando spazio a una soggettività molteplice. Accostandosi a ogni dipinto con un atteggiamento simile al shoshin, il concetto giapponese che significa “la mente del novizio”, Fadojutimi consente agli oggetti quotidiani che popolano la realtà di rendersi irriconoscibili (un osservatore attento potrebbe scorgere oggetti quali calze e cappelli, materiali stampati o la vaga allusione alle linee di un paesaggio), affermando così le proprie qualità trascendenti e metafisiche. Nei suoi dipinti ricorre la combinazione di forme aggrovigliate, tra cui ovali e linee decise ottenute attraverso performanti movimenti esplosivi: l’insieme che ne consegue evoca paesaggi interiori. Attraverso rapide pennellate a strati nei toni del viola sontuoso, arancio acceso, verde acido, blu intenso e giallo brillante, Fadojutimi crea composizioni complesse che oscillano tra la raffigurazione e l’astrazione, dove l’una si dissolve nell’altra. Composti con la forza di movimenti dirompenti, i dipinti di Fadojutimi presentano espressioni istintive, prospettive e percezioni che lottano con il concetto di identità e appartenenza, aprendosi a dimensioni e realtà alternative. Recentemente trasferitasi in uno studio con soffitti alti sei metri, Fadojutimi è oggi in grado di dipingere su una scala che fino a poco tempo fa poteva solo immaginare. Per Il latte dei sogni, ha realizzato tre nuovi dipinti dalle dimensioni ambiziose e monumentali (The Prolific Beauty of Our Panicked Landscape; And that day, she remembered how to purr; e Rebirth; tutti del 2022). Queste opere valorizzano la qualità immersiva centrale nella sua pratica: invece di essere oggetti da osservare a distanza, i dipinti diventano luoghi o momenti all’interno dei quali o accanto ai quali l’osservatore può esistere. – LC & IW

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Jadé Fadojutimi, A Bird’s-Eye View of The Fields of Doubt, 2021. Olio, colore a olio, acrilico su tela. 200 × 300 cm. Collezione privata, California. Photo Mark Blower. Courtesy l’Artista; Taka Ishii Gallery, Tokyo. © Jadé Fadojutimi 2021

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Jadé Fadojutimi, There exists a glorious world. Its name? The Land of Sustainable Burdens, 2020. Olio, colore a olio, acrilico su tela, 190 × 230 cm. Photo Mark Blower. Courtesy l’Artista; Pippy Houldsworth Gallery, London. © Jadé Fadojutimi 2021 Jadé Fadojutimi, Vital Abundance, 2020. Olio, colore a olio su tela, 110 × 140 cm. Photo Mark Blower. Baltimore Museum of Art Collection. Courtesy l’Artista; Pippy Houldsworth Gallery, London. © Jadé Fadojutimi 2021

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JULIA PHILLIPS

1985, Amburgo, Germania Vive a Chicago, USA e Berlino, Germania

I titoli delle sculture di Julia Phillips fungono da registro di azioni potenziali: Manipulator, Protector, Muter, Extruder, Mediator, Negotiator, Distancer. Pur radicate nella loro presenza fisica, queste opere, principalmente modellate in ceramica dalle delicate tinte color carne e in pezzi di materiale metallico, risentono profondamente dell’influenza di tale strumentalizzazione del linguaggio; i loro stessi nomi implicano una presenza fantasma che esegue un’azione o che la subisce. Anche dal punto di vista formale, le sculture di Phillips mantengono la suggestione del corpo anonimo, assente o invisibile, rilevabile sia negli spazi cavi e negativi lasciati dai calchi frammentati di colli, clavicole e nuche, sia attraverso dispositivi ricorrenti quali fibbie, cinghie, dadi a farfalla, maschere e maniglie, che alludono al corpo anche quando questo non è ritratto. Nonostante si insinui un barlume di funzionalità – che sia medica, industriale, disciplinare o ricreativa – questi apparati, simili a strumenti, non sono pensati per essere usati. Anzi, la loro disposizione materiale, linguistica e metaforica induce nel fruitore una profonda eco psicologica, sebbene intenzionalmente ambigua, alludendo ai sistemi di potere o di controllo minuzioso che esistono a livello sociopolitico, istituzionale e interpersonale. Se nelle opere precedenti Phillips si è occupata delle relazioni di potere, sia antagoniste sia concilianti, fra molteplici entità o persone, la sua recente serie di sculture datata (2021–2022) – Veiled Purifier, Bower e Stabilizer – sposta l’attenzione sulla relazione dell’individuo con se stesso. Nell’inserire questo gruppo di opere specificamente all’interno di una dimensione spirituale, Phillips adatta i titoli affinché descrivano uno stato di introversione, caratteristico della preghiera. In Veiled Purifier, l’interiorità si esprime dal punto di vista formale con il ricorso al tessuto. Disposta su una base di tessere di mosaico ispirata ai motivi della Basilica di San Marco e raccolta in un velo, l’opera ha la connotazione di un corpo che guarda all’interno di se stesso. Anche Bower adotta elementi architettonici derivanti dalle chiese veneziane per evocare l’alto grado di interiorità cui i singoli possono accedere in questi luoghi spirituali. Qui, una scultura in ceramica e ottone, realizzata a partire da impronte della fronte, del viso e della parte lombare della schiena, allude al gesto dell’inchino. Montata su uno schema di piastrelle in pietra ispirato ai pavimenti della Basilica cinquecentesca di San Giorgio Maggiore, l’esperienza psichica della spiritualità viene estesa al corpo, anche in sua parziale assenza. – MW

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Julia Phillips, Veiled Purifier, 2021–2022. Ceramica, seta, bronzo, marmo, dimensioni variabili. Courtesy Matthew Marks Gallery. © Julia Phillips

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Julia Phillips, Bower, 2021–2022. Ceramica, bronzo, granito, oggetti in nylon, dimensioni variabili. Courtesy Matthew Marks Gallery. © Julia Phillips

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Julia Phillips, Stabilizer, 2021–2022. Ceramica, bronzo, teca in vetro, 137 × 61 × 28 cm. Courtesy Matthew Marks Gallery. © Julia Phillips

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C H A R L I N E VO N H E Y L

1960, Magonza, Germania Vive a New York City e Marfa, USA In collaborazione con Matt Haimovitz e Jeffrianne Young del Primavera Project

Lavorare come pittrice nel complesso e vivace mondo dell’arte nella Colonia degli anni Ottanta ha portato Charline von Heyl a credere ancora più fermamente nell’importanza del mezzo espressivo da lei scelto. Oltre ad artiste e artisti come Martin Kippenberger, Albert Oehlen e Rosemarie Trockel, la cerchia di von Heyl a Colonia include gli autorevoli critici Diedrich Diederichsen e Isabelle Graw, fondatrice del periodico “TEXTE ZUR KUNST”. Nel 1990 entra a far parte dell’allora Galerie Christian Nagel, dove artiste e artisti come Mark Dion e Andrea Fraser espongono opere decisamente post-pittoriche e concettuali. Caratterizzate da righe, griglie e zigzag, spazi privi di profondità e fondali approssimativi, immagini figurative, strisce a carboncino e intenzionali gocciolamenti di colore, le opere di von Heyl sono ribelli e vivaci, pur restando fedeli alle potenzialità della pittura contemporanea. Le otto opere qui esposte fanno riferimento al mito greco di Zefiro, dio del vento di ponente, e della ninfa Clori, il cui matrimonio con Zefiro le garantisce il dominio sulla primavera; una storia notoriamente riproposta attorno al 1470 come allegoria matrimoniale nel dipinto Primavera di Sandro Botticelli. Von Heyl realizza la serie in collaborazione con Jeffrianne Young e con il violoncellista nominato ai Grammy Matt Haimovitz, che insieme danno vita al Primavera Project: una serie di esecuzioni musicali realizzate da un gruppo di compositori che reinventano il magico enigma elaborato nel quadro di Botticelli. Reinterpretando la libera commistione di immagini dell’antichità e dell’era cristiana – pratica comune ai tempi di Botticelli –, questi dipinti esplorano temi quali la fanciullezza femminile, la trasformazione, il desiderio e l’ambivalenza con affascinanti risultati visivi. The Nymphs (2020) – che cattura l’ambiguo erotismo dello sguardo – e Pagan Prophet (2021) sono stati realizzati con vernice a interferenza, il cui colore sembra cambiare a seconda dell’angolazione da cui si osserva l’opera. Von Heyl trasporta l’antica mitologia anche in eventi recenti: The August Complex (2020) stabilisce un legame intuitivo tra Flora, il nome assunto da Clori in seguito alla sua trasformazione, e la flora e la fauna distrutte nel 2020 dai devastanti incendi che hanno flagellato la California del Nord. Utilizzando immagini in eccesso, composizioni istintive e il coinvolgimento critico nei confronti delle metafore pittoriche di bellezza e soggettività, von Heyl ridefinisce sistematicamente i confini della pittura contemporanea, approcciandola, come lei stessa afferma, come l’atto di “tradurre i pensieri in forme silenziose”. – IW

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Charline von Heyl, Pagan Prophet, 2021. Acrilico su lino, 208,28 × 187,96 cm. Photo Alex Marks. Courtesy l’Artista; Petzel, New York

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Charline von Heyl per Matt Haimovitz e Jeffrianne Young del Primavera Project, Primavera 2020, 2020. Acrilico, carboncino su lino, 208,3 × 558,8 cm. Courtesy l’Artista; Petzel, New York

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SARA ENRICO

1979, Biella, Italia Vive a Torino, Italia

La tuta intera a forma di “T” viene inventata dall’artista futurista Thayaht (pseudonimo di Ernesto Michahelles) nel 1919 con l’intento di realizzare un indumento che fosse in relazione armonica con il corpo. Nei cent’anni trascorsi da allora, la tuta è divenuta un capo di vestiario simbolico: iconica quando indossata su un palcoscenico o sul red carpet, flessibile nella sua neutralità rispetto ai generi, pratica uniforme degli operai, infamante divisa dei detenuti. Come avviene per la moda in generale, la tuta assume una dimensione rappresentativa che muta a seconda di come e perché la si indossa. La copiosa storia e iconografia della tuta è ulteriormente arricchita dalla serie di installazioni scultoree dell’artista Sara Enrico intitolata The Jumpsuit Theme (2017–in corso). Sperimentando la tuta a un livello materico profondo, Enrico avvia un raffronto tra abbigliamento e scultura, indagando come entrambi interagiscano fisicamente con il mondo circostante ed evochino nuovi modi di comunicare, spesso più intimi e personali rispetto ad altre forme di linguaggio. L’interesse dell’artista si concentra sulla pausa, sull’inattività, il momento in cui il corpo rifiuta di funzionare a livelli iperprestazionali e, invece, ricade in uno stato di beato inutilizzo. In questa iterazione dell’installazione, le sculture, create versando cemento pigmentato in una cassaforma morbida di tessuto tecnico realizzato in laboratorio, appaiono comodamente sdraiate sul pavimento, come appisolate. Modellate da abiti usati che donano loro una forma approssimativamente umana, queste sculture sono lunghe e dinoccolate, con una consistenza simile a pelle, risultato del lungo processo di colata. La realizzazione dell’installazione è complessa ed Enrico si è avvalsa dell’assistenza di tecnici esperti in costruzioni e sartoria. L’artista e i suoi collaboratori lavorano i materiali – e i concetti – attraverso strati multipli di trasformazione, raccogliendo e rilasciando energia fisica, fino a quando gli oggetti si fermano e giacciono, completamente immobili. – IA

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Sara Enrico, The Jumpsuit Theme, 2022. Cemento, pigmento, 33 × 125 × 35 cm. Photo Cristina Leoncini. Courtesy l’Artista

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JAC Q U E L I N E H U M P H R I E S

1960, New Orleans, USA Vive a New York City, USA

Jacqueline Humphries si forma come pittrice a New York negli anni Ottanta, in un periodo in cui molti esponenti dell’establishment artistico guardano alla pittura con grande sospetto. All’epoca in cui è studentessa nell’ambito dell’Independent Study Program del Whitney Museum, un programma dall’approccio notoriamente teorico, molti dei suoi compagni, che applicano critiche concettuali postmoderne ai media e alla rappresentazione, considerano la pittura, come si suol dire, “morta”; dipingere, come ha dichiarato la stessa Humphries, era un “suicidio artistico”. Nonostante l’ortodossia teorica di quel momento, per oltre trent’anni Humphries – insieme a un gruppo di artiste fra cui Charline von Heyl, Jutta Koether, Laura Owens e Amy Sillman – riesce ugualmente a stravolgere le tradizioni dell’astrazione pittorica a dispetto della cosiddetta “obsolescenza” dei supporti, sfidando gli assunti tradizionali sulla capacità di questo medium di porsi in modo critico e tracciando nuovi percorsi che portano a un’espansione del significato della pittura. In particolare, Humphries è attenta alla relazione fra astrazione e tecnologia, e molti dei suoi dipinti riflettono inevitabilmente sul misterioso divario fra gli oggetti e le loro rappresentazioni da un lato, e i materiali e la materialità della creazione di immagini dall’altro. Nei primi anni Duemila inizia a creare opere di grandi dimensioni che traggono ispirazione dalla luce proiettata dagli schermi dei computer sui volti degli utenti, usando i colori non riflettenti argento e nero per riprodurre quel misterioso senso di attrazione che si avverte quando si è di fronte al bagliore artificiale di un monitor. Nell’ultimo decennio prende a includere linguaggi e segni rubati dalla tecnologia, come ASCII, CAPTCHA, emoticon ed emoji, nel tentativo di sondare fino a che punto la pittura sia in grado di agire da interfaccia allo stesso modo per l’espressione e per l’incorporeità. Alcune delle sue opere si fondano su un denso strato di simboli tratti dall’ASCII, sistema di codifica basato su caratteri inventato per la comunicazione elettronica negli anni Sessanta; altri si inseriscono in griglie di smiley accuratamente dipinti. Visti insieme, i segni acquisiti dal mondo digitale e i simboli associati a quello espressionistico assumono un tenore ambiguo. Un emoticon rappresenta sia un sentimento autentico sia uno superficiale: gioia, risata, cordialità, soddisfazione, irritabilità, noia. Più spesso, tuttavia, rappresenta il nulla. Più di recente, l’artista inizia a elaborare motivi ispirati al rumore bianco. Alludendo alla volatilità delle immagini ricolme di flussi infiniti di dati, la densa materialità dei modelli stencil di Humphries opera come strumento correttivo rispetto all’idea che la nostra cultura su schermo sia puramente virtuale: è anche fisica. – MW

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Jacqueline Humphries, (#J^^):), 2017. Olio su lino, 254 × 281,9 cm. Photo Jason Mandella. Glenstone Museum. Courtesy l’Artista; Greene Naftali Gallery, New York, © Jacqueline Humphries Pagine successive: Jacqueline Humphries, JHWx, 2021. Olio su lino, 5 pannelli, 281,9 × 254 cm ciascuno. Photo Ron Amstutz. Collezione Glenstone Museum. Courtesy l’Artista; Greene Naftali, New York. © Jacqueline Humphries

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C A R LA AC C A R D I

1924, Trapani, Italia – 2014, Roma, Italia

Artista originalissima nel panorama del secondo dopoguerra italiano, sin dai primi anni del periodo postbellico Carla Accardi contribuisce all’elaborazione di una filosofia e uno stile innovativi per l’astrazione artistica. Ammirata soprattutto per l’esuberanza e l’audacia cromatica dei dipinti realizzati tra gli anni Quaranta e gli anni Settanta, nelle sue sperimentazioni Accardi esplora temi quali materia, forma, spazio e colore realizzando opere improntate a problematiche linguistiche e influenzate dalla sua militanza marxista e femminista. Nel 1946 Accardi si trasferisce a Roma dove con alcuni amici e colleghi, tra cui il marito Antonio Sanfilippo, fonda in breve tempo il Gruppo Forma 1, di ispirazione marxista. Nel manifesto – di cui peraltro Accardi è l’unica donna firmataria –, così come nelle successive dichiarazioni artistiche, i componenti del collettivo delineano un mezzo per conciliare la politica marxista e l’astrattismo, sottraendosi al contempo al determinismo della geometria. Se i primi dipinti di Accardi raffigurano incastri di forme geometriche, a partire dagli anni Sessanta l’artista accentua l’interazione tra diversi piani spaziali usando pigmentazioni più intense e sostituendo la tela con il sicofoil, un materiale plastico traslucido per imballaggi. In Senza titolo (1967), opera caratterizzata dal marcato orientamento orizzontale, la trasparenza del materiale infonde ai tratti verde fluore-scente un potente carattere ambientale, enfatizzando al contempo la fisicità del supporto, grazie ai listelli del telaio in legno che rimangono ben visibili. In tutti i suoi dipinti, tanto quelli realizzati su sicofoil quanto quelli più tradizionali come le tempere e gli smalti su tela, Accardi dimostra una radicale ristrutturazione delle possibilità intrinseche nel rapporto tra arte e linguaggio. Opere intense, come Assedio rosso n. 3 (1956) e Verdi azzurro (1962), propongono composizioni opache e fluorescenti in cui simboli, cerchi e volute possono essere percepiti come lettere, parole e locuzioni, sebbene non necessariamente destinati alla lettura. Visto sotto forma di simboli, il linguaggio si emancipa totalmente dalla pagina, dai significati assegnati, dalle fogge prescritte e, in molti casi, da qualunque obbligo di comunicazione. Attraverso la reiterazione dei segni e l’espansione dei tratti, i dipinti di Accardi danno vita a un’esperienza che sfuma i confini tra interno ed esterno, tra guardare e leggere, tra vedere e percepire. – MW

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Carla Accardi, Verdi azzurro, 1962. Tempera alla caseina su carta applicata su tela, 70 × 100 cm. Collezione privata. Courtesy Tornabuoni Arte. © Tornabuoni Arte Pagine successive: Carla Accardi, Assedio rosso n. 3, 1956. Smalto su caseina su tela, 97 × 162 cm. Collezione privata. Courtesy Tornabuoni Arte. © Tornabuoni Arte

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VERA MOLNÁR

1924, Budapest, Ungheria Vive a Parigi, Francia

Tutti i lavori dell’artista ungherese Vera Molnár, anche quelli che le hanno valso il titolo di pioniera nell’ambito dell’Arte Algoritmica e Programmata, conservano l’impronta di una solida formazione accademica e si caratterizzano per un rigore formale simile a quello dei più grandi esponenti delle avanguardie, come László Moholy-Nagy, Piet Mondrian e Paul Klee. Già dai primi anni Cinquanta, pochi anni dopo il suo trasferimento a Parigi del 1947, Molnár affina un’innata attitudine al disegno schematico e realizza una serie di composizioni astratte caratterizzate dalla ripetizione di figure geometriche più o meno codificate. Oltre a rendere omaggio ai maestri moderni con titoli che portano il loro nome, questi primi lavori manifestano una sensibilità contemporanea e si allineano alle ricerche sulla programmazione e combinazione del segno grafico condivise da collettivi artistici in tutta Europa. Unica co-fondatrice donna tra gli esponenti del GRAV (Group de Recherche d’Art Visuel), tra il 1961 e il 1968 Molnár perfeziona il suo linguaggio geometrico completandolo con una gestualità sistematica. I lavori che nascono da queste ricerche prendono il nome di Machines imaginaires e sono il risultato dell’applicazione di una regola preordinata che l’artista segue pedissequamente in tutte le fasi della realizzazione. Prima ancora che lo faccia il dispositivo elettronico qualche anno più tardi, Molnár programma la sua produzione artistica con norme e regole algoritmiche che diventano effettivamente meccaniche solo nel 1968. Ottenuto il permesso di utilizzare il computer appena acquistato dall’Università di Parigi, l’artista comunica con la macchina attraverso codici alfanumerici e, affidandosi alla sua capacità di calcolo e rielaborazione grafica, ottiene la stampa di precisissime composizioni geometriche. Fatta eccezione per la foratura che corre sui lati lunghi del supporto cartaceo, ogni lavoro della serie Computer Drawings (1970–1975 ca.) è diverso dall’altro ed è formato da segmenti, punti e forme che rispondono univocamente alla combinazione di parametri immessi nel dispositivo elettronico. Che si presentino come sequenze di quadrati concentrici, sovrapposizioni apparentemente disordinate di poligoni o configurazioni di segmenti caotici, Molnár è consapevole che questi disegni sono il risultato di un dialogo tra l’essere umano e la macchina e, giocando sugli equilibri di questa strana comunicazione, rende il primo più capace e la seconda più sensibile. – SM

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Vera Molnár, Histoire d’I (rif. E), 1977. Disegno generato al computer stampato con plotter su carta Benson, 30 × 30 cm. © Galerie Oniris, Rennes

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Vera Molnár, Hypertransformation, 1974. Disegno generato al computer stampato con plotter su carta Benson, 44 × 33 cm. © Galerie Oniris, Rennes Vera Molnár, Transformation de carrés concentriques, 1976. Disegno generato al computer stampato con plotter su carta Benson, 54 × 36 cm. © Galerie Oniris, Rennes

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Vera Molnár, Transformation de carrés concentriques, 1976. Disegno generato al computer stampato con plotter su carta Benson, 54 × 36 cm. © Galerie Oniris, Rennes Vera Molnár, Transformation de carrés concentriques, 1974. Disegno generato al computer stampato con plotter su carta, 54 × 36 cm. © Galerie Oniris, Rennes

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S O N I A D E L A U N AY

1885, Odessa, Impero Russo (attuale Ucraina) – 1979, Parigi, Francia

Sonia Delaunay è stata una figura di spicco dell’avanguardia parigina a cavallo tra le due guerre. Nata da genitori ebrei ucraini, Delaunay si trasferisce ancora piccola a San Pietroburgo, ospite di alcuni parenti. A diciotto anni inizia a frequentare l’Accademia di belle arti di Karlsruhe in Germania, realizzando opere che traggono ispirazione dai colori brillanti e dal formalismo solido della pittura neoimpressionista e simbolista. Nel 1905 si stabilisce a Parigi, dove Postimpressionismo e Cubismo imperano nelle gallerie d’arte della città. In un clima fortemente sperimentale, Delaunay e il marito Robert aprono la strada al Simultaneismo, uno stile pittorico astratto che enfatizza gli effetti trascendentali dell’interazione tra i colori. L’arte popolare ucraina e russa – soprattutto il design tessile – esercita una primordiale e duratura influenza su Delaunay e sulla sua pratica che, spingendosi oltre la pittura, spazia all’interno di svariate modalità ed espressioni. Le opere su carta qui selezionate – alcune delle quali destinate alla realizzazione di tessuti – dimostrano l’applicazione dei princìpi di astrazione pittorica ai motivi tessili da parte dell’artista. Individuando composizioni realizzabili sia in trama sia in ordito di fili tessuti al telaio, Delaunay sperimenta il senso del ritmo, del movimento e della profondità creati attraverso un contrasto simultaneo in cui i colori appaiono diversi in base alle tonalità cromatiche circostanti. Una gouache senza titolo del 1930 è un esempio lampante di questo approccio: su una campitura grigio talpa, rettangoli nei toni pesca, giallo, rosa e ocra si sovrappongono a una pittura puntinata rossa e blu, con variazioni tonali che emergono visivamente dall’interazione tra le forme. Senza titolo (Gouache no. 1230) (1930) rappresenta la firma caratteristica di Delaunay nell’impiegare cerchi concentrici e tonalità contrastanti per creare un senso di dinamismo cromatico. Delaunay concepisce le forme pittoriche come unità di informazioni cromatiche – in modo non dissimile dai pixel di un’immagine digitale –, che per vivacità e compenetrazione risultano allo stesso tempo materiche e ottiche. Nel 1918 Delaunay fonda Casa Sonia, un atelier-boutique di arredamento d’interni e moda con sede a Madrid; in questo contesto disegna scenografie, costumi e arredamenti per le opere di Tristan Tzara, i film di Marcel L’Herbier e René Le Somptier. Con l’etichetta “Tissus Delaunay”, le realizzazioni dell’artista spopolano a livello mondiale. Nella sua filosofia, la distinzione tra pittura e modalità espressive tradizionalmente relegate alla sfera artigianale è irrilevante. Trasversalmente alla sua opera, il colore – “la pelle del mondo”, come Delaunay lo descrive – emerge come una costante fonte d’ispirazione. – IW

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Sonia Delaunay, Senza titolo, 1933. Gouache su carta, 11,9 × 10,6 cm. Courtesy Gió Marconi, Milano Sonia Delaunay, Senza titolo, 1929. Gouache su carta, 16,5 × 16,5 cm. Courtesy Gió Marconi, Milano Sonia Delaunay, Senza titolo, 1929. Gouache su carta, 20 × 16 cm. Courtesy Gió Marconi, Milano

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La mostra Arte programmata. Arte cinetica. Opere moltiplicate. Opera aperta, organizzata nel 1962 dal poliedrico artista e designer Bruno Munari, segnava un’innovativa collaborazione con l’azienda Olivetti – produttrice del primo personal computer al mondo – presso il negozio del marchio nella Galleria Vittorio Emanuele a Milano. La mostra presentava artisti, spesso associati con il Gruppo T e il Gruppo N, affascinati dalla possibilità di usare le tecnologie computazionali allora nascenti per produrre arte. Nella sua introduzione al catalogo della mostra, il filosofo Umberto Eco suggerisce di pensare a questi artisti come a “programmatori”, vista la loro affinità con gli ingegneri. Tra il 1959 e il 1963, in Italia emergevano diversi gruppi di ispirazione analoga: fra gli altri, il Gruppo V a Rimini, il Gruppo Uno a Roma, il Gruppo MID a Milano e il Gruppo Tempo 3 a Genova. Nel decennio successivo, musei e gallerie di Europa e Stati Uniti ospitano mostre di grafica di ingegneri informatici, mentre in Europa e nelle Americhe gli esponenti dell’ Optical Art e dell’Arte Cinetica indagano l’estetica programmata. Nove tendencije alla Galerija Suvremene Umjetnosti di Zagabria (1961), The Responsive Eye al Museum of Modern Art di New York (1965), la 33. Esposizione Internazionale d’Arte a Venezia (1966), e Cybernetic Serendipity all’Institute of Contemporary Art di Londra (1968) sono solo alcune delle tante mostre che negli anni Sessanta presentano l’Op Art e l’Arte Programmata a un pubblico più vasto. Anche se fino a metà Novecento la parola inglese “computer” indicava coloro che per professione eseguivano calcoli a mano – per lo più donne –, le artiste qui presentate sono in gran parte emarginate dai circoli artistici a predominanza maschile del loro tempo. Le conversazioni sull’Arte Programmata tendono a considerare l’informatica un nuovo, potente strumento per gli artisti o a vedere il computer come potenziale soggetto artistico a sé stante; in ogni caso, non ci sono dubbi che le nuove tecnologie siano appannaggio degli uomini. Le artiste di questa presentazione introducono una complessità somatica nella creazione artistica “programmata”. Che usino materiali e tecnologie effettivamente industriali – come il neon e il Plexiglas di Laura Grisi, le tavole magnetiche di Grazia Varisco, gli specchi e i vetri illuminati di Nanda Vigo – o applichino la logica computazionale al lavoro con i tradizionali mezzi artistici – ad esempio nei rilievi ottico-dinamici di Marina Apollonio, nei gradienti dipinti a mano di Dadamaino o nelle complesse regole matematiche che governano le composizioni in masonite di Lucia Di Luciano –, ogni artista è presente con opere che illustrano i confini tra la tecnologia e l’individuo. Le loro opere enfatizzano gli effetti ottici dei movimenti dello spettatore, trattano gli schermi come membrane epidermiche tra corpo e macchina e complicano le tradizionali modalità di visione tramite l’attrazione o la repulsione di superfici cromatiche e luminose; l’arte viene riconcepita come tecnologia dell’incanto.

Marina Apollonio, Rilievo 703, 1964–1970 (dettaglio). Photo Bruno Bani. Collezione Privata. Courtesy l’Artista

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SORPRENDENTI Azalea Seratoni

Nominare le cose è sufficiente a volte a provocare un precipitato: dove prima c’era un corpo molle, dopo il nome si vede una moltitudine ramificata di coralli1. È questo l’effetto della mossa teorica di Bruno Munari quando all’inizio degli anni Sessanta sceglie di chiamare “Programmata” una certa arte che gli stava crescendo attorno.

Almanacco Letterario Bompiani (copertina del volume), 1962. Courtesy St. John’s University Archives and Special Collections, Queens, New York

È a Milano che nasce la definizione. Qui Munari faceva molte cose secondo le proprie qualità. Fin dagli anni Trenta mescolava l’arte con i destini della grande editoria e dell’industria – Bompiani, Mondadori, Einaudi, Olivetti, prima e dopo la Ricostruzione – curando l’organizzazione editoriale e la grafica. Valentino Bompiani aveva un suo almanacco letterario che ogni anno offriva uno sguardo sull’attualità della cultura e sembrava annunciare qualche nuova direzione e dimensione del futuro. Il tema scelto per l’edizione del 1962 si legge nel titolo in copertina, tra una striscia di scheda perforata e un’opera che si può dire “preinformatica” di Gianni Colombo: Le applicazioni dei calcolatori elettronici alle scienze morali e alla letteratura. È nel sommario che la nominazione “Arte Programmata” appare per la prima volta e introduce una lista di artiste e artisti: Giovanni Anceschi, Davide Boriani, Gabriele Devecchi, Gianni Colombo, Grazia Varisco, Enrico Castellani, Karl Gerstner, Enzo Mari, lo stesso Munari, Dieter Roth2. È facile accorgersi che Varisco è l’unica donna. Il Gruppo T prende forma alla fine del 1959. L’incontro è a scuola, negli anni del liceo artistico e dell’Accademia di Brera al corso di Achille Funi. Nel gennaio 1960 Zita Vismara e Mino Pater ospitano nella loro galleria la prima

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Tecnologie dell’incanto


mostra Miriorama 1, alla quale seguono quattro personali di Boriani, Devecchi, Colombo, Anceschi. Miriorama 6 è la seconda collettiva del gruppo, quando Varisco entra a farne parte. L’artista racconta:

Enzo Mari, sulla sinistra, all’inaugurazione della mostra Arte programmata presso il negozio Olivetti di Milano nel maggio 1962. Photo Mario Dondero/Galleria Massimo Minini, Brescia

“i quattro” avviano alla Galleria Pater un contatto per la mostra Miriorama di gennaio. Io, sempre presente e partecipe, mi rendo conto che “i quattro” non pensano e forse non osano fra loro dimostrare di pensare a immaginarmi come componente… Con naturalezza, senza risentimento, per non sentirmi esclusa da una parte dei miei interessi, chiedo semplicemente perché io no? Forse li sorprendo in torto? La risposta alla domanda, riconosciuta motivata, è immediata e consenziente anche se cerca di garantirsi citando precedenti storici francesi (Cercle et Carré con Sophie Taeuber-Arp)… Così sono legittimata parte componente del Gruppo T. Non so… A posteriori ho pensato che alla fine degli anni Cinquanta si pensava e agiva secondo un condizionamento che riguardava maschi e femmine… ovviamente a tutto vantaggio dell’uomo3. Varisco sarà l’unica donna anche nella mostra Arte programmata. Arte cinetica. Opere moltiplicate. Opera aperta che Munari organizza nel maggio 1962, nel negozio Olivetti in Galleria Vittorio Emanuele a Milano4, nella quale, con Munari, partecipano il Gruppo T, Enzo Mari e il Gruppo N.

Il pubblico è riflesso sull’opera Surfacemagnetica di Davide Boriani all’inaugurazione della mostra Arte programmata presso il negozio Olivetti di Milano nel maggio 1962. Photo Mario Dondero/Galleria Massimo Minini, Brescia

C’erano già state delle mostre del Gruppo T, facevano oggetti rudimentali, con la manovella, allora io gli ho detto che c’erano già i motorini, l’elettronica, così hanno fatto molti progetti e io ho proposto all’Olivetti di sponsorizzare una mostra di Arte Programmata […] L’Arte Programmata nasce da una programmazione vera e propria nella quale tu dici, se io combino questo con questo, possono realizzarsi tante condizioni che riesco a prevedere o no. Nella mostra sull’Arte Programmata solo una parte delle opere era realmente Arte Programmata5. La mostra circola a Venezia e a Roma – dove espongono anche gli artisti del GRAV (Groupe de Recherche d’Art Visuel) e Getulio Alviani – e poi a Düsseldorf e Londra, prima di arrivare negli Stati Uniti su iniziativa della Smithsonian Institution6. Nella mostra di Milano Varisco presenta 9x9xX (1961). È un ingranaggio complicatissimo – pale verticali e orizzontali che si muovono secondo la propria ortogonalità attraverso motorini –, meravigliosamente goffo e dinoccolato se si considera la sofisticatezza che gli Schemi luminosi variabili (1961–1968) hanno raggiunto dopo questa prima ipotesi da cui la serie deriva. Nella ricerca è così. L’avanzare delle prove e degli esperimenti, la verifica dei materiali, l’indagine disciplinata su cose che ancora non si sanno ma si devono sapere, trasforma un magma in artificio sublime. Ma quella scatola illuminata da tubi al neon, che si osservava attraverso uno schermo di vetro industriale e con i suoi tagli diagonali produceva una interferenza fin dal primo sguardo, conteneva un desiderio. Mostrava che ciò che conta nell’arte sono le sue implicazioni di conoscenza. Non lo faceva con una forma fissa e compiuta, ma programmando la sua continua variazione. Un motorino, però, produce un movimento meccanizzato che è ripetitivo per definizione. Il succedersi regolare dei fatti inganna la nostra mente, produce una conoscenza che influenza quello che vediamo, proietta quello che sappiamo su

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quello che ancora deve accadere. Si tratta di agire su questo automatismo e porre lo sguardo, tutto il nostro essere, in stato di allerta e disponibilità su ogni piano, perché non faccia affidamento sulla ripetizione, sul reciproco potenziarsi dell’illusione e dell’attesa. Quanto maggiore è la probabilità che un’immagine intervenga, tanto minore è il suo valore di informazione. Perché le immagini si offrano come perennemente nuove e portino con sé la possibilità di sempre nuove informazioni, si progetta un modo per dilazionare la loro ripetizione. La mutevolezza dell’immagine, l’ambiguità della sua imprevedibile metamorfosi provoca una reazione di partecipazione. È un invito a chi guarda a porsi in relazione con l’opera. Ma lo stimolo a rendere agile la sensibilità va oltre considerazioni di ordine formale. È una spinta ad affinare ed estendere la propria capacità di vedere, modificando il comportamento in modo conseguente a ciò di cui si fa esperienza con elasticità massima. È un agire conoscitivo. La percezione è un momento di un’attività più vasta. C’è in quest’arte qualcosa di sovversivo, ma più ancora di utopico, quasi scandaloso per la coscienza comune: mutare al continuo mutarsi di qualcosa. Milano è il posto giusto al momento giusto. Era stata la città del Futurismo che, tra gli “ismi”, aveva impiegato tutta la sua inventiva per realizzare quel fondamentale elemento dell’arte che è il movimento e quell’idea di integrazione tra le arti che avrebbe permeato per molto tempo un contesto culturale e imprenditoriale come quello meneghino, nel quale la prossimità tra progetto e mondo dell’arte sarebbe stata percepita come una consuetudine. A Milano, poi, c’è Lucio Fontana: “Vede, io, purtroppo diciamo, sono un ricercatore”7. Gruppo T, 1962. Anceschi, Boriani, Colombo, Devecchi, Varisco. Artisti al lavoro nelle officine della famiglia Varisco. Courtesy Archivio Varisco

Nanda Vigo interpreterà con splendida grazia questo spirito di unità tra le discipline. Nel 1959 inizia a progettare una casa. La concepisce quasi vuota e sostituisce i muri con pannelli quadrati e rettangolari di vetro satinato, illuminati al loro interno con un sistema di luci al neon. Non si tratta solo di una soluzione tecnica. Il problema con un elemento di per sé elusivo come la luce, apparentemente non formalizzabile, è proprio quello di metterla in forma. Nell’operare di Nanda Vigo, quando sembra volersi liberare dai vincoli di una volumetria o quando costruisce un oggetto o un ambiente come luogo destinato all’esperienza estetica, la luce è materiale privilegiato e al tempo stesso materia dell’opera. Le modalità del suo fare sono tutte variazioni della parola “cronotopico”, che unisce le nozioni di tempo e spazio, come nel suo fare il relazionarsi tra arte e design. È un dialogo di fraintendimenti che non comporta una perdita di senso, bensì fa emergere nuove forme di significazione. Anche Dadamaino ricerca sempre tutto quello che si può. Era stanca dei garbugli di materia dell’Informale. C’era il problema di una dimensione nuova. Come dirà Fontana, “l’arte avrebbe cambiato dimensione… non una dimensione come primo, secondo, terzo piano… ma dimensione come volume di idea”8. Dadamaino inizia dalla tela. La taglia fino a mostrare il telaio e il muro. Nascono i Volumi (1958–1960). In questo vuoto va ad abitare un’ombra. È una forma ovoidale, inizialmente grande quasi quanto il quadro. La osserviamo muoversi nella porzione inferiore, come a cercare un nuovo ritmo. Le aperture diventano due, galleggiano una sopra l’altra, si allungano in verticale. Gli squarci diventano più piccoli e si trasformano

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in figure più regolari. Si dispongono in una fila, in due, in tre. Appare un’eclisse. L’ombra si configura in archi di cerchio, in sezioni di sfera, in una successione temporale. Dadamaino inizia a lavorare con le materie plastiche. Procede con una punteggiatura sempre più precisa, bucando con una fustella e sovrapponendo fogli di rhodoid con cadenza perfettissima. Nei Volumi, prima del taglio, Dadamaino disegna la linea che dovrebbe seguire la lama, ma lo squarcio non coincide mai con il perimetro tracciato dalla matita, come per una sostanziale incapacità di combaciare, di corrispondere. Anche qui, nei Volumi a moduli sfasati (1960–1961), il ricamo aritmetico tremola ai colpi della fustella. È sufficiente un lieve intiepidirsi della mano a far vibrare la testura.

Dadamaino, Volume, 1960. Courtesy Archivio Dadamaino

Ogni opera d’arte crea sempre la propria temporalità. L’Arte Programmata insiste su questa nozione. I Volumi a moduli sfasati parlano del tempo, del tempo che non si spende – ma è un invito a spenderlo – a osservare l’impercettibile variazione di un’ombra negli interstizi di questi fogli bucherellati, simili, ma non congruenti, che interagiscono impalpabilmente nella semitrasparenza. A metà degli anni Settanta, con L’inconscio razionale, l’esperienza percettiva arriverà a un culmine, sulla soglia dell’invisibilità. È una combinatoria di linee intermittenti che fanno solo intuire in filigrana un reticolo. “L’inconscio razionale è stato una specie di ‘tabula rasa’ nel mio processo operativo, in un certo senso assai vicina a quella del 1958, quando ritagliai le tele fino a mettere in vista il telaio”9. Una postura diversa produce una lingua nuova. Dadamaino inventa una specie di scrittura. È un segno che non tace. Si imprime foglio su foglio nel ciclo I fatti della vita (1978–1982), continuamente si addensa e si rarefà in Costellazioni (1981–1987). Nel Movimento delle cose (1987–1996), la superficie si riappropria della trasparenza e si fa spazio, in un esercizio irresistibilmente umano di combinazione di pensiero indifferenziato e articolazione consapevole che è elogio della forma che diviene.

Laura Grisi, installazione di quattro Antinebbia (Antifog), 1968. Collezione privata, Roma. Courtesy Laura Grisi Estate, Roma

Lo spazio è una nozione temporale. Gli ambienti che Laura Grisi realizza nel 1968 sono involucri, stanze chiuse che ricreano i modi con i quali la natura si manifesta: la pioggia, il vento, l’aria, la nebbia. Con una piccola tecnologia – un tubo appeso al soffitto che gocciola o ventilatori nascosti dietro una parete –, o con macchine più complesse come i monoliti trasparenti nei quali si svolgono riccioli spiralici di neon di A Space of Fog, rimette in scena accadimenti che, senza la sua cortese insistenza nel farli notare, sfuggirebbero. In uno spazio nel quale ci si muove e in un tempo che scorre come sensazione del corpo, ne diventiamo coscienti. Grisi mette la persona al centro di un artificio costruito razionalmente – un sussulto continuo da una qualità all’altra, che interessa ciascun singolo elemento dell’opera come ogni minima variazione di respiro e movimento –, sapendo che quel che accadrà sarà “secondo precise linee formative predisposte, che non negano la spontaneità, ma le pongono degli argini e delle direzioni possibili”10. Quando usa l’immagine in movimento del cinema sperimentale, Grisi lo fa a partire da sé. In The Measuring of Time (1969) l’inquadratura è un prodigio

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barocco di scatenamento temporale. La macchina da presa – come percorrendo lo sviluppo della spirale di una conchiglia o la scala di Borromini a Palazzo Barberini – la riprende dalle mani, alla figura intera, alle mani, mentre conta granelli di sabbia. Alla veloce spigolatura di questa vicenda che ci permette di indugiare su alcune figure non solo secondo una disposizione istintiva, ma con il divertimento di mandare in frantumi certe storie e costruirne altre, piace unire Lucia Di Luciano e Marina Apollonio.

Lucia Di Luciano, Irradiazioni N.11, 1965. Photo Bruno Bani. Courtesy l’Artista; 10 A.M. ART Gallery, Milano

L’opera di Di Luciano si offre come una cosa in cui tutte le parti e gli aspetti mostrano una dipendenza e una coerenza. Nelle sue strutture ritmiche di linee, quadrati e rettangoli, l’alternanza di questi ornamenti, di questi motivi fondamentali arricchisce, più di quanto interrompa, la continuità del discorso visivo. Arricchisce questa idea di progressione, ne utilizza tutta l’astratta fecondità e mostra tutta la sua capacità di seduzione sensibile. Di Luciano conduce contemporaneamente al suo operare la molteplicità delle modificazioni che concorrono a formare l’oggetto. Riunisce, con un controllo assoluto, tutti gli elementi della messa in scena della partitura visiva – una rigorosa partitura di interconnessione – fino a quando l’opera è compiuta e sa che l’oggetto, preso in sé, non è che uno stato tra gli altri di una successione di trasformazioni che potrebbe continuare infinitamente. Come in certe composizioni di musica elettronica e concreta basate sulla permutazione di strutture sonore che Luciano Berio, Bruno Maderna e Pietro Grossi iniziano a sperimentare in questi stessi anni negli studi di fonologia musicale di Milano e Firenze, come negli orizzonti epistemologici della scienza, suoni, dati e segni non si possono racchiudere in una singola immagine, si possono raccogliere in organismi di conoscenza, la cui incompletezza e complementarità sono la componente essenziale della loro formulazione. Le trappole percettive di Marina Apollonio concentrano il discorso sulla temporalità in un’estetica di morfologie puro-percettive e geometriche. Il fascino di Dinamica circolare (1964) è dovuto all’allestimento, attraverso l’uso sapiente dei principi che regolano il campo gestaltico, di una iperbolica germinazione che costringe a un’osservazione ipnotizzata di cerchi bianchi infinitamente piccoli che si espandono in cerchi neri che si espandono in cerchi bianchi che si espandono in cerchi neri. Spiccano e colpiscono per la loro freschezza i Rilievi (1964–1970). La qualità percettiva della superficie, la consistenza e struttura della trama metallica ripetono nei tratti fondamentali uno dei principi che stanno alla base di un’attività umana antica, come l’arte di intrecciare. L’intreccio si è conservato come paradigma in ambiti diversissimi, l’organizzazione di un discorso come l’avvicendarsi dei punti di vista nel procedimento cinematografico del montaggio. I Rilievi riverberano questa origine. È naturale capire, a questo punto, su cosa si basa la capacità di attirare e influire di queste opere che tengono l’intelletto sempre teso verso qualche occupazione, pronto a seguire nel loro ben congegnato svolgimento il filo di un percorso di raffinamento e conoscenza e pungolano lo sguardo in un irresistibile inseguimento.

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Azalea Seratoni è storica dell’arte contemporanea. All’attività critica, teorica e di ricerca affianca la pratica curatoriale. Dal 2016 insegna Basic Design alla Scuola politecnica di design di Milano. Alla continua attenzione portata al contemporaneo combina la riflessione storica, interessandosi in particolare ai temi della temporalità e del corpo nell’esperienza artistica, alla teoria dell’immagine e alla cultura visuale, ai confini tra arte e design. Suoi testi sono apparsi su “il verri” e “Progetto grafico”. Nel 2015 ha curato, con Serena Cangiano e Davide Fornari, la mostra e il volume (edito da Johan & Levi) Arte ri-programmata. Un manifesto aperto.

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Gaston Bachelard, La Psychanalyse du feu (1938), Paris, Gallimard, 1949, 70. Almanacco Letterario Bompiani 1962. Le applicazioni dei calcolatori elettronici alle scienze morali e alla letteratura, a cura di Sergio Morando, Milano, Bompiani, 1961. È plausibile che Bruno Munari conoscesse il libro di Max Bense, Programmierung des Schönen. Allgemeine Texttheorie und Textästhetik (Programmazione del bello. Teoria generale ed estetica del testo), Baden-Baden/Krfeld, Agis, 1960. Grazia Varisco, Appunti con evidenziatore, in Arte ri-programmata. Un manifesto aperto, catalogo della mostra (Milano, Istituto Svizzero, 5–28 marzo 2015), a cura di Serena Cangiano, Davide Fornari e Azalea Seratoni, Monza, Johan & Levi, 2015, 92. Arte programmata. Arte cinetica. Opere moltiplicate. Opera aperta, catalogo della mostra (Negozio Olivetti, Milano/ Venezia/Roma, 1962), a cura di Bruno Munari e Giorgio Soavi, Milano, Officina d’Arte Grafica Lucini, 1962. Andrea Branzi, Il gioco del fare. Colloquio con Bruno Munari sulla sperimentazione, il futurismo, il surrealismo e l’arte concreta, e sulle

fontane che funzionano con cinque sole gocce d’acqua, in “Modo”, 8(71–72), 1984, 40–43. 6 La mostra è ospitata nei negozi Olivetti di Venezia (1962), Roma (1962), Düsseldorf (1963) e al Royal College of Art di Londra (1964). Dal 1964 al 1966 ha viaggiato in diversi luoghi negli Stati Uniti: New York University, New York; Florida State University, Tallahassee; The Junior Art Gallery, Louisville; Columbia Museum of Art, Columbia; Cornell University, Ithaca; Allentown Art Museum, Allentown; State University of New York, New Paltz; Oberlin College, Oberlin; The Arts Club of Chicago, Chicago; George Thomas Hunter Gallery of Art, Chattanooga; Harvard University, Cambridge; Dartmouth College, Hanover; Tampa Art Institute, Tampa. 7 Tommaso Trini, Intervista con Lucio Fontana, in Trini, Mezzo secolo di arte intera. Scritti 1964–2014, a cura di Luca Cerizza, Monza, Johan & Levi, 2016, 273. 8 Ibid. 9 Si veda Dadamaino, Dadamaino, in “Data”, 30, 1978, 44. 10 Umberto Eco, Introduzione, in Arte programmata. Arte cinetica. Opere moltiplicate. Opera aperta, cit., 3.

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Dadamaino

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Marina Apollonio

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Laura Grisi

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Grazia Varisco

Lucia Di Luciano

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Nanda Vigo

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Dadamaino, Cromorilievo, inclinazione 30° dal grigio 76 al 90, 1974. Tasselli di legno su tavola, 50 × 50 × 10 cm. Photo Luigi Acerra. Courtesy Archivio Dadamaino 2 Dadamaino, Oggetto ottico-dinamico, 1960–1961. Lastre in alluminio fresato su fili di nylon su struttura in legno, 96 × 96 cm (diagonale). Photo © Tornabuoni Arte. Collezione privata. Courtesy Tornabuoni Arte 3 Marina Apollonio, Rilievo 902, 1964–1969. Alluminio, verde fluorescente, Plexiglas, 49,5 × 49,5 × 6 cm. Photo Paolo Monello. Collezione Prof. Ernesto L. Francalanci. Courtesy l’Artista 4 Marina Apollonio, Rilievo 703, 1964–1970. Alluminio, rosso fluorescente, Plexiglas, 50 × 50 × 5 cm. Photo Bruno Bani. Collezione privata. Courtesy l’Artista 5 Laura Grisi, Sunset Light, 1967. Neon, Plexiglas, acciaio, 219 × 30 × 30 cm. Photo Carlo Favero. Courtesy Laura Grisi Estate; P420, Bologna 6 Grazia Varisco, Schema luminoso variabile R. VOD. LAB., 1964. Oggetto cinetico luminoso, scatola di legno nera, Perspex blu (metacrilato), motore elettrico 3/2 giri al min, lampada neon, 91 × 91 × 12,5 cm. Photo Thomas Libiszewski. Collezione dell’Artista. Courtesy l’Artista; Archivio Varisco 7 Grazia Varisco, Schema luminoso variabile R. VOD. DOM., 1964. Oggetto cinetico luminoso, scatola di legno nera, Perspex blu (metacrilato), motore elettrico 3/2 giri al min, lampada neon, 91 × 91 × 12,5 cm. Photo Thomas Libiszewski. Collezione dell’Artista. Courtesy l’Artista; Archivio Varisco 8 Lucia Di Luciano, Irradiazioni N.9, 1965. Morgan’s paint su masonite, 80 × 80 cm. Photo Bruno Bani. Courtesy l’Artista; 10 A.M. ART Gallery, Milano 9 Nanda Vigo, Cronotopo, 1964. Vetro e alluminio, 60 × 60 × 20 cm. Courtesy Archivio Nanda Vigo, Milano 10 Nanda Vigo, Cronotopo, 1964. Vetro e alluminio, 60 × 60 × 20 cm. Collezione privata, Milano. Courtesy Archivio Nanda Vigo, Milano 11 Nanda Vigo, Diaframma, 1968. Vetro, alluminio e luce di neon, 100 × 100 × 25 cm. Photo Emilio Tremolada. Courtesy Archivio Nanda Vigo, Milano

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Nanda Vigo

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BIO GRAFIE DELLE ARTISTE

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MARINA APOLLONIO 1940, Trieste, Italia. Vive a Padova, Italia La ricerca artistica di Marina Apollonio si è concentrata sugli stimoli percettivi generati dall’abbinamento di forme pure che, accuratamente ordinate in configurazioni geometriche bi- e tri-dimensionali, guidano l’occhio dello spettatore in esperienze sensibili tra l’inedito e l’inconsueto. Difficilmente riconducibile a un’unica tendenza estetica, la sua pratica si è continuamente sovrapposta a quella dell’Arte Programmata, Concreta, Cinetica e Optical, condividendone la razionalità del pensiero, la scientificità degli obiettivi e la sistematicità delle forme. Come accade per i colleghi del Gruppo GRAV, Zero, N e T, con cui si è spesso confrontata, l’astrattismo figurativo di Apollonio è profondamente influenzato dagli studi sulla percezione e tutt’oggi cerca un dinamismo che viene ricreato in maniera illusoria dalla gestione grafica delle composizioni. I primi lavori che Apollonio realizza agli inizi degli anni Sessanta sono disegni su carta, minuziosamente campiti con due colori o tonalità, costituiti da figure geometriche ripetute, scalate e ordinate in griglie, in modo da produrre una sensazione di movimento nell’occhio dell’osservatore. L’esperienza visiva proposta da queste composizioni genera una vibrazione che dipende tanto dal movimento simulato sulla superficie quanto dalla posizione assunta dallo spettatore rispetto a questa. Nel tentativo di esplorare la relazione tra l’opera e le condizioni dell’ambiente in cui è inserita, Apollonio modifica geometricamente le prime sperimentazioni ottenendo esiti di volta in volta differenti. Ogni lavoro

della serie Rilievi (1964–1970), ad esempio, sembra essere la versione tridimensionale dei lavori su carta e si presenta come una trama di metallo costituita da sottili fasce in alluminio. Montate su una lastra di masonite colorata, opaca o fluorescente, queste maglie seguono un ordine variabile che ne modifica la grandezza, l’alternanza, la profondità e la sfasatura, conferendo alla composizione un generale dinamismo. A seconda del punto di vista, infatti, il movimento è accentuato dal colore dello sfondo e dalle proprietà fisiche dell’alluminio che rendono la superficie cangiante mentre riflettono il movimento dello spettatore. D’altronde il senso stesso di tutti i lavori di Apollonio coincide con il potere della prospettiva: pur nell’effettiva staticità dell’oggetto, le sue opere incoraggiano infinite possibilità percettive e, dunque, interpretative. – SM

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DA DA M A I N O 1930 – 2004, Milano, Italia Edoarda Emilia Maino (detta Dada) adotta lo pseudonimo Dadamaino a partire dagli anni Sessanta. Dovuto a un fortunato errore di stampa su un catalogo olandese, il buffo cambio di identità coincide con un rinnovamento ben più importante che, dopo le prime ricerche spazialiste, conduce l’artista verso il dinamismo percettivo dell’Arte Programmata. Su questo fronte Dadamaino sviluppa un approccio squisitamente personale e adatta il metodo dell’avanguardia italiana a cicli di lavori attraversati da un’inedita forza emotiva. Tra le prime sperimentazioni, ad esempio, i lavori della serie Volumi a moduli sfasati (1960–1961) seguono il metodo scientifico delle ricerche

percettive ma ne applicano le regole con variazioni tanto leggere quanto decisive: ogni telaio della serie inquadra e sovrappone due o più fogli in plastica trasparente, su cui l’artista realizza dei fori a cadenza regolare. Nonostante la serialità delle incisioni e la configurazione della griglia suggeriscano un ordine preciso e rigoroso, la manualità del gesto artistico e il mancato allineamento tra le superfici rendono ogni taglio irregolare e producono un effetto straniante nell’occhio della spettatrice e dello spettatore. Il disorientamento che colpisce quest’ultimo è il principale obiettivo di Dadamaino e, sfuggendo a qualsiasi controllo razionale, investe di una sfumatura più intima anche le composizioni formalmente più rigorose. Come dei labirinti in miniatura, i Cromorilievi (1972–1975 ca.) sono tavole quadrate su cui vengono applicati dei solidi di forma, colore, orientamento e altezza differenti. Mentre lo schema matematico che ne governa la disposizione impone un’irreversibile staticità, le ombre proiettate dai moduli e la loro variazione cromatica conferiscono a ciascuna composizione un effetto dinamico che raggiunge l’occhio dello spettatore in maniera nuovamente emozionale. L’apparente movimento cui Dadamaino si riferisce è assimilabile a quello di qualsiasi paesaggio che si presenta continuamente diverso in rapporto alla sensibilità di chi lo osserva. Anche quando le sue componenti si fanno delicate attraverso segni grafici colorati a tempera – è il caso delle numerose Costellazioni (1981– 1987) – l’opera che ne deriva assume le caratteristiche di uno scenario interiore e si articola in addensamenti o diradamenti descrivendo moti di inquietudine o serenità. Ben oltre l’esperienza cinetica e già parzialmente interprete delle sensibilità verbo-visive, la ricerca di Dadamaino

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racconta il segno come un corpo, che a prescindere dalla sua forma programmatica o poetica, viene utilizzato per esprimere la sensazione di un movimento percettivo o emotivo. – SM

e la fruizione. Queste opere, al di là del rigore geometrico volutamente antiemozionale, funzionano come una partitura su cui far muovere lo sguardo della spettatrice e dello spettatore concedendo tanti approcci visivi quanti sono gli sguardi che sollecitano. – SM

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ambientale e immersiva: il corpo di quest’ultimo si allinea così alla componente naturale o artificiale delle sculture, riconoscendosi in energie di volta in volta fisiche o intime, scientifiche o spirituali. – SM

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LUCIA DI LUCIANO

G R A Z I A VA R I S C O (p. 263)

1933, Siracusa, Italia. Vive a Formello, Italia

LAURA GRISI

1937, Milano. Vive a Milano, Italia

Tra i tanti contributi artistici nati nell’ambito dell’Arte Programmata, l’approccio di Lucia Di Luciano si è sicuramente distinto per coerenza e rigore. L’essenzialità formale e l’ordine geometrico-matematico che caratterizzano le sue opere sono infatti esempio di una ricerca che ha sapientemente coniugato la scientificità degli studi sulla percezione con l’estetica del più moderno design industriale. Agli inizi degli anni Sessanta, insieme al marito Giovanni Pizzo, con cui condivide la stessa sensibilità razionalista, Di Luciano opera sul territorio romano ed è co-fondatrice di due diversi progetti artistici: il Gruppo 63, durato un solo anno e omonimo della coeva avanguardia letteraria, e l’Operativo R, nato dalle ceneri del primo e di poco più longevo. A differenza di altri gruppi vicini, come Gruppo T e N, entrambi i collettivi propongono una ricerca formale basata su complesse regole matematiche e capace di simulare le strategie della tecnologia senza mai farne uso diretto.

1939, Rodi, Grecia – 2017, Roma, Italia

Agli inizi degli anni Sessanta, qualche mese prima che Bruno Munari e Umberto Eco conino il termine “Arte Programmata” e riconoscano il suo lavoro all’interno della neonata avanguardia italiana, Grazia Varisco avvia una ricerca affine alle più internazionali sensibilità cinetico-percettive. Oltre a una spiccata fascinazione per l’estetica industriale e un’attenzione ai principi che governano la nascente tecnologia computerizzata, l’approccio artistico di Varisco è fin da subito interessato al rapporto che l’opera instaura con lo spettatore e cerca di attivare il coinvolgimento di quest’ultimo con stimoli ed esperienze cinetiche.

La razionalità geometrica con cui Di Luciano contribuisce all’esperienza del gruppo, si fonda sulla ripetizione di forme pure e modulari che, organizzate in griglie, seguono le stesse logiche combinatorie e algoritmiche applicate dal nascente calcolatore automatico. Nel tentativo di seguirne le logiche ed eliminare qualsiasi elemento emozionale dalle sue composizioni, l’artista rinuncia innanzitutto al colore – che introduce in maniera calibrata solo intorno agli anni Settanta – e come dimostra la serie di lavori intitolata Irradiazioni (1965), realizza composizioni psichedeliche grazie al solo accostamento di moduli bianchi e neri. Questi ultimi, ossessivamente realizzati con pennellate di pittura su masonite, sono quadrati e rettangoli matematicamente sequenziati affinché le loro caratteristiche formali possano simulare un certo dinamismo: le figure geometriche sono l’unità elementare delle composizioni e vengono combinate da Di Luciano per ottenere impulsi, vibrazioni e tensioni. I titoli – Rapporto alternativo, Divergenze, Ritmi – ricordano le sperimentazioni strutturaliste del Costruttivismo e della Bauhaus ma, più che focalizzarsi sull’aspetto formale delle composizioni, si concentrano sulle infinite possibilità combinatorie che ne guidano la creazione

Sfuggendo alle categorizzazioni che l’hanno alternativamente ricondotta al Minimalismo americano o all’Arte Povera italiana, a partire dagli anni Sessanta la pratica artistica di Laura Grisi sintetizza le esigenze di un panorama culturale complesso e in costante evoluzione. I suoi lavori registrano l’effetto scenico dei fenomeni naturali e, intrappolandone le qualità in oggetti o ambientazioni tecnologiche, restituiscono un’insolita quanto consapevole immagine del progresso. Grazie a una seducente finitura industriale, gli imponenti pilastri della serie intitolata Sunset Light (1967) celebrano l’esperienza visiva del tramonto fornendone una versione tecnologizzata. Mentre lo scheletro in neon giallo simula il colore caldo dell’atmosfera proiettando una luce diffusa sul pubblico, i movimenti di quest’ultimo si riflettono sul parallelepipedo in Plexiglas generando delle gradazioni che ricordano quelle della superficie solare. Grisi concepisce questi totem luminosi come elementi in equilibrio tra natura e artificio e calibra le loro caratteristiche illuminotecniche per ottenere atmosfere e sensazioni differenti. Negli stessi anni, ad esempio, l’artista si concentra sulla forma e sulla dimensione dei neon di Sunset Light e, dopo averli colorati, piegati su se stessi e infine rinchiusi in strutture trasparenti a diverse altezze, ottiene l’iconico effetto delle Spiral Light (1968). Identiche alle precedenti per l’involucro in Plexiglas, queste sculture sono caratterizzate da un’anima luminosa di colore blu che, avvitata vorticosamente su se stessa, crea un’atmosfera crepuscolare. Quando non sono isolate nello spazio, queste sculture si uniscono in configurazioni teatrali ed enfatizzano gli stimoli percettivi di cui sono capaci. Nel caso di A Space of Fog (1968), l’artista posiziona nello spazio sei pilastri dalla serie Spiral Light e si affida alla loro luce fendinebbia per diradare la fitta foschia artificiale in cui sono inseriti. Al di là dell’evidente spettacolo percettivo – successivamente ottenuto simulando anche altri fenomeni naturali come pioggia o vento – queste opere di Laura Grisi, con l’ausilio di uno stratagemma meccanico e tecnologico, creano paesaggi reali o figurati che mettono lo spettatore al centro di un’esperienza

Non è un caso che il collettivo a cui l’artista si unisce nel 1960 si chiami Gruppo T (dove “T” sta per “tempo”) né che gli altri membri – Giovanni Anceschi, Davide Boriani, Gianni Colombo e Gabriele Devecchi – siano soliti considerare il pubblico come un “co-autore” e accompagnino l’esposizione dei loro lavori con la dicitura “si prega di toccare”. Le Tavole magnetiche (1959–1962) che sanciscono il debutto di Varisco nel collettivo si presentano come delle semplici superfici metalliche, su cui il pubblico è invitato a muovere calamite di colori, forme e dimensioni differenti raggiungendo risultati al contempo ludici e sensoriali. Insistendo su questa ricerca, l’artista concepisce anche i lavori successivi come dei catalizzatori di stimoli e, pur senza prevedere lo stesso coinvolgimento tattile delle tavole, ne progetta il funzionamento affinché le loro variazioni formali sollecitino le percezioni di chi le osserva. Già presenti alla Biennale nelle edizioni del 1964 e 1986, ad esempio, gli Schemi luminosi variabili (1961–1968) dimostrano il massimo grado di un movimento reale e illusorio. A prescindere dalla dimensione, ognuno di questi lavori è composto da una scatola nera con una superficie esterna in Perspex blu. Al suo interno un motore elettrico permette la rotazione di una seconda superficie trasparente, intarsiata di un pattern geometrico e retroilluminata da una lampada al neon. Proprio grazie all’intervento congiunto di movimento e luce, dal fondo scuro delle superfici in plastica emergono tagli luminosi che, come un caleidoscopio, cambiano orientamento

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Tecnologie dell’incanto


e si combinano all’infinito producendo illusioni ottiche, interferenze o sovrapposizioni. Nel 1962, quando il prototipo degli Schemi luminosi variabili – anche conosciuto con il titolo 9x9xX – viene incluso nella prima celebre mostra di Arte Programmata curata da Bruno Munari e Giorgio Soavi presso il Negozio Olivetti di Milano, la sua forma cangiante chiarisce immediatamente la sensibilità che impegnerà la lunga carriera di Varisco. – SM

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NA N DA V I G O

e configurazioni labirintiche in base alla loro disposizione. Adattando la funzione originaria che ne prevedeva l’utilizzo per la costruzione di due torri cimiteriali a Rozzano (Milano), Vigo sovrappone o affianca questi elementi scultorei per delimitare delle zone di sospensione spazio-temporale e fornire allo spettatore le più cangianti esperienze percettive e sensoriali. Attraversarne il perimetro – così come confrontarsi con qualsiasi oggetto o spazio progettato dall’artista – significa abbandonarsi a un’avventura radicale in cui tutto vibra e diventa cinetico, a prescindere dal suo reale movimento. – SM

1936 – 2020, Milano, Italia Alla fine degli anni Cinquanta, quando Nanda Vigo torna in Italia dopo una formazione politecnica tra Svizzera e America, la scena artistica milanese è attraversata da un inedito fervore. Vicina agli esponenti italiani del Gruppo Zero – tra cui Lucio Fontana e Piero Manzoni –, l’artista abbraccia le sperimentazioni cinetico-percettive e le declina con un linguaggio ibrido tra arte, design e architettura. Fin dai primi progetti, il suo approccio multidisciplinare è finalizzato a un’idea di arte olistica in cui oggetti, ambientazioni, allestimenti ed edifici vengono uniformati da un decisivo utilizzo della luce. Che sia naturale o artificiale, Vigo ne gestisce le proprietà fisiche e raggiunge risultati dal forte valore sensoriale anche grazie all’utilizzo di tecnologie o materiali industriali come vetro stampato, specchi, neon, Perspex e alluminio. Secondo l’artista la luce non ha dimensione e, come evidenzia nel suo Manifesto cronotopico del 1964, si adatta a qualsiasi configurazione fisica, producendo un’esperienza spazialmente e temporalmente alterata. A dimostrazione di ciò, i Cronotopi (1962–1968) sono strutture di forma parallelepipeda in alluminio e vetro industriale, che vengono posizionate a terra o su piedistalli per riflettere la luce che le illumina, dall’interno o dall’esterno. Mutuando il loro nome dall’ambito fisico, l’artista li chiama anche Spazi-tempi (dal greco cronos, “tempo” e topos, “spazio”) e, per l’iridescenza che emanano a seconda delle scanalature del vetro, li dichiara capaci di trasportare lo spettatore in un’altra dimensione. In effetti, specie quando sono installati in ambienti attraversabili, queste sculture offrono l’illusione di una costante variazione delle superfici e propongono un’atmosfera contemplativa, sospesa e mistica. A partire dal 1967, Vigo costruisce i cosiddetti Ambienti cronotopici utilizzando moduli alternativi o complementari ai Cronotopi. Pur essendo simili a questi ultimi, infatti, i Diaframmi (1968) sono costituiti da un telaio in ferro tubolare tamponato con vetri stampati, e creano architetture

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L I L L I A N S C H WA R T Z

1927, Cincinnati, USA Vive a New York City, USA

Nella celebre mostra The Machine as Seen at the End of the Mechanical Age (1968) tenutasi al MoMA di New York, gli anni Sessanta sanciscono la fine dell’era della macchina e l’inizio di una nuova età cibernetica; nello stesso periodo un consistente numero di artiste e artisti internazionali comincia a guardare alla tecnologia come a un sistema di conoscenze dall’alto potenziale artistico. Come i tanti pionieri di quella che in pochi anni sarà battezzata New Media Art, anche l’artista americana Lillian Schwartz subisce il fascino della crescente innovazione tecnologica e, dopo una formazione tradizionale nell’ambito della pittura e della calligrafia, si serve della collaborazione di ingegneri, programmatori e sviluppatori per produrre nuove esperienze visive. Computer dalle dimensioni umane, schermi a tubo catodico e luci stroboscopiche sostituiscono gli strumenti tradizionali e le opere di Schwartz cominciano a produrre esperienze di fruizione interattiva e multisensoriale. Nella mostra al MoMA, ad esempio, l’artista presenta l’installazione Proxima Centauri (1968) e insieme all’ingegnere danese Per Biorn – membro come lei del gruppo E.A.T. (Experiments in Art and Technology) – realizza una cupola di plastica traslucida al cui interno vengono generati una serie di effetti luminosi di colore rosso. A prescindere dal fatto che la configurazione visiva varii a seconda della posizione dello spettatore producendo un affascinante dinamica percettiva, in questo come in altri lavori l’obiettivo di Schwartz è quello di utilizzare la tecnologica come strumento per le proprie finalità concettuali e non come oggetto di una pura fascinazione avveniristica, come era stato per altre artiste e artisti fino alla decade precedente. A partire dagli anni Settanta, quando inizia a lavorare nei laboratori di sviluppo e ricerca della società americana di telecomunicazioni AT&T, Schwartz elabora un linguaggio ibrido che, grazie alla sovrapposizione di fotogrammi analogici colorati a mano e disegni geometrici prodotti da codici informatici, genera psichedeliche immagini in movimento. Alcuni dei brevi video ottenuti da questo procedimento, come Googolplex, Enigma, o Mis-Takes (tutti del 1972), sono caratterizzati da forme in continua trasformazione e, accompagnate da musiche elettroniche incalzanti, producono un inusuale straniamento mistico, quasi spirituale. Nonostante gli strumenti rivoluzionari e l’ipnotica estetica futurista, infatti, il lavoro di Lillian Schwartz è al servizio di tematiche senza tempo di cui offre una versione tecnologizzata. – SM

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Lillian Schwartz, Enigma (stills), 1972. Film, 4 min 5 sec. From the Collections of The Henry Ford. © The Henry Ford

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ULLA WIGGEN

1942, Stoccolma Vive a Stoccolma, Svezia

Il 1968 rappresenta un momento apicale per l’arte basata sui sistemi, reso possibile dal crescente accesso degli artisti alle risorse informatiche attraverso università, istituti di ricerca e società di comunicazione, nonché dalla diffusione di teorie mutuate dai campi scientifici. Esplorando i limiti e le possibilità della cibernetica come fusione tra arte e scienza, Cybernetic Serendipity – la storica mostra del 1968 curata dalla britannica Jasia Reichardt presso l’ICA di Londra – esponeva opere che spaziavano tra numerosi supporti, tra cui lavori di computer grafica, musica, poesia, robot e giochi. In questo contesto compariva inoltre una serie di dipinti in acrilico e a gouache su tavola raffiguranti i circuiti interni di dispositivi elettronici dell’artista svedese Ulla Wiggen. Intitolate TRASK e Vägledare (entrambe del 1967), queste opere catturano un archetipo della cultura tecnologica in uno stile dalla precisione impeccabile. Benché i dipinti di Wiggen siano rappresentazioni, più che dimostrazioni, di operazioni meccaniche, il loro stile dall’oggettività appiattita trasmette tematiche complesse riguardanti l’aspetto tattile della tecnologia. Wiggen è profondamente coinvolta nella scena artistica e tecnologica di Stoccolma che si raccoglie intorno al Moderna Museet, allora diretto da Pontus Hultén. Nelle sue prime gouache di circuiti stampati e bit elettronici, come Förstärkare e Kretsfamilj (entrambe del 1964), crea strati di pittura straordinariamente definiti, effetto ottenuto utilizzando garze mediche intrecciate al posto della tela. Dopo il 1969, Ulla Wiggen inizia a studiare per diventare psicoterapeuta clinica, facendone la propria occupazione primaria per i successivi quarant’anni. Nel 2013, l’accoglienza entusiasta della personale Computer Paintings al Moderna Museet di Stoccolma riaccende in lei l’ispirazione a dipingere. Nei lavori successivi, l’interesse di Wiggen per i circuiti del cervello e degli occhi sostituisce quello per le macchine fabbricate dall’uomo, esplorando il modo in cui gli organi decontestualizzati evocano un senso di coinvolgimento con il mondo che è logico e nel contempo incomprensibile. Nei suoi Iris Paintings (2016–in corso), Wiggen dipinge laboriosamente su tavole circolari iridi umane nei toni dell’azzurro, del verde e del nocciola. L’artista ha dichiarato di voler esprimere visivamente l’effetto di sfocamento della propria vista causato dalla cataratta prima di essere curata: uno stato al confine tra chiarezza e ambiguità. Le iridi assumono una qualità inquietante. I visitatori sono resi consapevoli del proprio movimento e della propria posizione nello spazio, come se fossero sorvegliati da un voyeur fantasma. Visto dalla posizione dell’artista, pur nel tentativo di suddividerlo nelle sue parti costitutive, il corpo risulta non meno enigmatico. – MW

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Ulla Wiggen, Iris XVIII Line, 2020. Acrilico su pannello, 113,5 × 119 cm. Courtesy l’Artista; Belenius, Stockholm; Galerie Buchholz. © Ulla Wiggen

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Ulla Wiggen, Kretsfamilj, 1964. Gouache su pannello, garza, 35 × 30 cm. Photo Åsa Lundén. Bonnier Group Art Collection. Courtesy l’Artista; The Bonnier Group, Stockholm, Sweden; Moderna Museet, Stockholm. © Ulla Wiggen Ulla Wiggen, TRASK, 1967. Acrilico su pannello, 150 × 80 cm. Photo Åsa Lundén. Collezione Moderna Museet, Stockholm. Purchase 1968. Courtesy l’Artista; Moderna Museet, Stockholm. © Ulla Wiggen

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AG N E S D E N E S

1931, Budapest, Ungheria Vive a New York City, USA

L’artista americana Agnes Denes è la pioniera riconosciuta dell’Arte Concettuale, Ambientale, Ecologica e della Land Art. A partire dagli anni Sessanta, gli obiettivi politici di Denes sono resi espliciti nella sua opera poliedrica, incentrata su questioni ecologiche orientate a un futuro postantropocenico. Aspirando a un idealismo visionario rigenerante, le sue opere assumono la forma di disegni tra cui assonometrie, diagrammi, sculture, fotografie e monumentali installazioni pubbliche. Nella celebre opera Wheatfield—A Confrontation (1982), Denes semina circa un ettaro di grano in una discarica di Manhattan, a un isolato da Wall Street, che in seguito diventerà Battery Park City. All’ampio campo di grano fanno da cornice le Torri Gemelle, simbolo degli eccessi del capitalismo. La prossimità spaziale tra avidità imprenditoriale e spazio agricolo mette in luce l’impegno di Denes per il recupero della terra e produce un duro confronto rispetto alla cattiva gestione dei rifiuti e al problema della fame nel mondo. La transitorietà di questo lavoro, durato quattro mesi, si contrappone all’opera collaborativa Tree Mountain—A Living Time Capsule—11,000 Trees, 11,000 People, 400 Years (1992–1996). Questa foresta vergine, che verrà mantenuta per quattro secoli, è situata su una montagnola artificiale che Denes ha creato nei pressi di Ylöjärvi in Finlandia. Undicimila pini sono stati piantati da undicimila persone secondo uno schema matematico derivato dalle proporzioni del rapporto aureo e dai modelli di crescita di ananas e girasoli. Nelle stampe monotipo Introspection I—Evolution (1968–1971) e Introspection II—Machines, Tools & Weapons (1969–1972), Denes visualizza in maniera diagrammatica i sistemi di conoscenza. La prima stampa ripercorre su scala enciclopedica gli sviluppi evolutivi dell’uomo primitivo dalla scimmia al presente. Nello stile delle acqueforti e delle illustrazioni tratte da libri di medicina e ingegneria, la stampa presenta studi anatomici e tavole tassonomiche. La seconda stampa ripercorre la storia della tecnologia dai primi strumenti artificiali alle macchine del XX secolo. L’approccio interdisciplinare di Denes, volto ad ampliare il campo della scienza attraverso quello visivo, è prova del suo impegno nel ridefinire nozioni analitiche astratte per formare nuovi sistemi di linguaggio e conoscenza che dissolvano le barriere tra i settori. Le innovazioni del suo lavoro possono essere descritte al meglio dalla sua invenzione di una “filosofia visiva”, che trasforma concetti invisibili – come la matematica, la logica e i processi di pensiero – in una forma visuale resa finemente. In questo modo, Denes apre la strada a nuove associazioni e comprensioni, re-immaginando il rapporto degli esseri umani con la Terra. – LC

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Agnes Denes, Introspection I—Evolution, 1968–1971 (dettaglio). Monostampa, 107,63 × 542,29 cm. Photo Stan Narten. Courtesy Leslie Tonkonow Artworks + Projects. © Agnes Denes

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Agnes Denes, Introspection I—Evolution, 1968–1971. Monostampa, 107,63 × 542,29 cm. Photo Stan Narten. Courtesy Leslie Tonkonow Artworks + Projects. © Agnes Denes Agnes Denes, Introspection II—Machines, Tools, & Weapons, 1969–1972. Monostampa, 101,6 × 626,75 cm. Photo Stan Narten. Courtesy Leslie Tonkonow Artworks + Projects. © Agnes Denes

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CHARLOTTE JOHANNESSON

1943, Malmö, Svezia Vive a Skanör, Svezia

Charlotte Johannesson si è formata come tessitrice specializzata in tecniche tradizionali negli anni Sessanta. Nello stesso periodo fonda a Malmö l’atelier di tessitura Cannabis, dal nome della pianta dalla quale ricava le fibre per le sue opere, e in evidente connubio con la droga prediletta dalla controcultura del periodo. Johannesson inizia a praticare l’artigianato tessile come arte in grado di rappresentare le ingiustizie sociopolitiche, spesso ricorrendo a uno stile satirico, accompagnato da slogan. In questo trae ispirazione dalla pioniera della tessitura Hannah Ryggen (1894–1970), norvegese, ma anche lei nata a Malmö e autodidatta. L’attitudine politica di Johannesson si rivela attraverso un femminismo ottimista o in arazzi come Drop Dead (1977), in cui critica la bomba all’idrogeno, allora in fase di sviluppo. Nel 1978 Johannesson inizia a fondere le tecniche di tessitura con le prime tecnologie informatiche, quando baratta un suo arazzo per un Apple II, uno dei primi personal computer prodotti in serie, e applica la traducibilità delle linee verticali e orizzontali di un telaio ai linguaggi di programmazione. Tra il 1981 e il 1985, insieme al compagno Sture Johannesson, dirige The Digital Theatre, uno dei primi studi di computer grafica d’Europa. Come artista digitale, Johannesson compone mappature per produrre immaginari digitali, su schermo o su plotter. La sua fascinazione per i primi “micro-computer”, come vengono chiamati al tempo, spesso emerge come soggetto della sua opera: nella stampa plotter Computer mind (1981–1986), ad esempio, l’artista ritrae una figura collegata a un computer mediante il sistema nervoso. Applicate a tessuti e stampe, le immagini generate dal computer presentano un effetto pixelato (il termine “pixel” è stato inventato nel 1965 per descrivere immagini video legate ai viaggi spaziali). Dagli anni Ottanta, numerose opere di Johannesson includono raffigurazioni di mappe del mondo e immagini della Terra vista dallo spazio, abbinate a slogan tratti dalla cultura pop come in Take me to another world (1981–1986 e 2019) e The Target Is Destroyed (2019). Intrecciando le tecniche tradizionali di tessitura con la ricerca sperimentale delle prime tecnologie informatiche, Johannesson continua a reinventare la sua pratica per esplorare nuove possibilità di cambiamento sociale e culturale. – LC

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Charlotte Johannesson, Pixel dream, 1981–1986. Stampa originale da plotter, 42 × 52 cm. Photo Helene Toresdotter. Courtesy l’Artista; Hollybush Gardens, London. © Charlotte Johannesson

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SIDSEL MEINECHE HANSEN

1981, Ry, Danimarca Vive a Londra, UK

In un mondo in cui le telecamere a circuito chiuso registrano ogni singola sequenza della vita pubblica, le immagini private catturate con il cellulare vengono incessantemente caricate sui social, il deep fake dilaga e gli avatar digitali sono in grado di simulare il comportamento umano con crescente accuratezza, diventa progressivamente più difficile separare la nostra visione collettiva del corpo dalla vita digitale. L’opera provocatoria e sconcertante dell’artista danese Sidsel Meineche Hansen mette nitidamente a fuoco le modalità con cui diverse tipologie di mezzi fotografici, televisivi e digitali impattano sulla percezione di noi stessi e della nostra vita quotidiana. Sullo sfondo di scene popolate da esseri smembrati e avatar generati al computer, il corpo digitale occupa uno spazio iperreale tangibile, generalmente associato all’estetica industriale dell’intrattenimento e del gaming. Tuttavia, spingendosi oltre lo studio concreto della rappresentazione digitale, l’opera di Hansen si focalizza sull’accumulo del capitale prodotto attraverso la classificazione di genere di questi corpi, soprattutto nell’ambito della pornografia. In molti dei suoi video animati, Hansen fa ricorso a modelli umani 3D preconfezionati e ipersessualizzati, disponibili tramite i software open source rivolti a game designer e ai distributori di materiale di intrattenimento per adulti, includendo, tra gli altri, “apparati genitali” e “set di posa” impiegati per animare le scene a sfondo sessuale. Riflettendo sul ruolo che il genere riveste nella mercificazione di questi oggetti 3D, il video Maintenancer (2018), realizzato in collaborazione con la regista Therese Henningsen, si concentra sulla manutenzione delle sex doll in silicone in una casa di piacere tedesca, ponendo lo spettatore di fronte sia ai corpi di donne creati e idealizzati per il consumo, sia al lavoro di conservazione necessario per preservare il loro aspetto illusorio. Come in altre opere, tra cui Love Doll Resurrect (2019), i generi porno e horror si innestano nel mondo digitale, indicando una transizione nella sfera del sesso postumano. Molte delle sculture di Hansen seguono una logica simile a quella che caratterizza le sue bambole digitali, anche se le prime sono collocate e vivono in uno spazio fisico. Daddy Mould (2018), lo stampo vuoto in vetroresina di una sex doll in silicone e Untitled (Sex Robot) (2018–2019), una marionetta snodabile di legno, incarnano la funzionalità fisica umana pur preservando la loro condizione di oggetto. Come i corpi tecnologicizzati che popolano i video di Hansen, arte, sesso e prodotto sono intrinsecamente legati. – MW

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Sidsel Meineche Hansen, Daddy Mould, 2018. Calco industriale in due parti in fibra di vetro, resina, vaselina, 149 × 37 × 92 cm e 149 × 48 × 89 cm. Veduta dell’installazione, Sidsel Meineche Hansen, End-User, Kunsthal Aarhus, Århus, 2018. Courtesy l’Artista; Rodeo, London / Piraeus

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Sidsel Meineche Hansen, Untitled (Sex Robot) 2018 / 2019. Bambola snodata a grandezza naturale in legno, 176 × 25 × 40 cm. Photo Frank Sperling. Courtesy l’Artista; Rodeo, London / Piraeus Sidsel Meineche Hansen, Maintenancer, 2018. Video digitale, suono, in collaborazione con Therese Henningsen, 13 min 5 sec.Courtesy l’Artista; Rodeo, London / Piraeus

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ELLE PÉREZ

1989, New York City Vive a New York City, USA

Anziché sfruttare la forza documentale, espressione di verità insita nella fotografia, l’artista newyorkese Elle Pérez si interessa ai livelli di significato che l’osservatore proietta sullo scatto, oltre che all’intimità connaturata all’atto fotografico in termini di contatto visivo e attenzione. Per l’artista, questo approccio offre potenzialità più ampie: la fotografia diventa un mezzo per riesaminare il mondo e scoprire un nuovo senso narrativo e affettivo nelle cose in cui ci si imbatte quotidianamente. Pérez raggruppa le proprie immagini in “configurazioni”, trattando ciascuna fotografia come un’unità in sequenza sintattica continua. Formando moduli espressivi e affettivi distinti, queste configurazioni invitano l’osservatore a instaurare con l’immagine un rapporto di scambio reciproco: ciò che otteniamo da queste visioni frammentate, e ciò che significano, è tanto il risultato del nostro processo di osservazione – in cui identifichiamo ripetizioni, echi e allusioni – quanto il prodotto dell’effettivo contenuto raffigurato. L’insieme di fotografie qui presentate in mostra, digitali e non, di grande e piccolo formato, intreccia intimità e tradizioni provenienti da mondi che a prima vista appaiono distinti. Una serie include fotografie dei cemí caraibici, le sculture devozionali della tradizione indigena Taíno in cui dimora lo spirito di una persona specifica, tradizionalmente consultate in riti sciamanici per ottenere un consiglio o una guarigione. Un’altra serie è dedicata al muay thai – arte marziale e sport da combattimento che per Pérez rappresenta una pratica di ricerca e autosperimentazione sul corpo – e, più nello specifico, l’ambigua intimità del clinch, in cui i contendenti si stringono in un serrato corpo a corpo stando in piedi. Nel riconoscere in queste pratiche l’autonomia e la trasformazione del corpo come temi centrali, Pérez presenta le tradizioni indigene come forme di body hacking, respingendo con decisione l’idea che le modifiche apportate al corpo, in particolare al corpo transgender, siano considerate aberranti o innaturali. Ugualmente centrale in questo gruppo di opere è la sperimentazione tecnica operata dall’artista, che spinge all’estremo la capacità delle fotocamere digitali di rilevare i livelli minimi di luminosità e gioca con le distorsioni spaziali rese possibili dalle lenti di grande formato. Benché il significato di queste immagini possa risultare ambiguo, lampi di riconoscimento si producono nell’interazione tra gesto, linea, ombra, paesaggi fisici e mentali tracciati nei contenuti rappresentati. Anziché parlare ognuna per sé, le fotografie di Pérez cantano in coro: il loro significato non risiede nelle singole voci, ma nelle armonie che risultano dalla loro convergenza. – IW

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Elle Pérez, pull, 2020 / 2021. Stampa digitale ai sali d’argento, 111,76 × 74,61 cm. Courtesy l’Artista; 47 Canal

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Elle Pérez, Charles with Blood, 2019. Courtesy l’Artista; 47 Canal Elle Pérez, Petal, 2020 / 2021. Stampa digitale ai sali d’argento, 111,76 × 84,77 cm. Courtesy l’Artista; 47 Canal

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A N E TA G R Z E S Z Y K O W S K A

1974, Varsavia Vive a Varsavia, Polonia

L’artista polacca Aneta Grzeszykowska utilizza il corpo – il proprio e quello di altri – come materiale per mettere in discussione le norme sociali che circondano l’identità e la rappresentazione, in un modo che mette la sua pratica in dialogo con il lavoro di artiste femministe quali Alina Szapocznikow, Ana Mendieta e Cindy Sherman. Quest’ultima, in particolare, è diretta fonte di ispirazione della serie fotografica di Grzeszykowska Untitled Film Stills (2006), nella quale l’artista si appropria dell’omonima, iconica serie di Sherman degli anni Settanta, riproponendo a colori le fotografie originali. Mentre le fotografie di Sherman usano costumi, set e tropi derivati dalla storia del cinema per suggerire fotogrammi di film che in realtà non esistono, la risposta di Grzeszykowska è di impersonare la stessa Sherman, così come i suoi personaggi fittizi, aggiornando e rifacendosi alla critica dell’artista ai costrutti mediatizzati di identità. Serie quali Beauty Masks (2017) utilizzano oggetti di scena, come frammenti di parti del corpo modellate in pelle di cinghiale e maschere cosmetiche, sfidando i confini dell’autorappresentazione attraverso la deformazione, l’abiezione e l’invocazione del grottesco. L’opera di Grzeszykowska fonde le dicotomie di umano e macchina, organico e sintetico, seducente e ripugnante. Nella serie MAMA (2018), Grzeszykowska esplora e sovverte il rapporto tra madre e figlia ritraendo la propria figlia mentre interagisce con una bambola di silicone che assomiglia in modo inquietante all’artista stessa. Le fotografie catturano la bambina che imita e assume un ruolo materno, facendo il bagno e abbracciando la bambola, mentre simultaneamente la tratta come un giocattolo: dipingendo la sua faccia, seppellendola nella sporcizia e portandola in giro su un carretto. La rappresentazione iperrealistica della bambola non fa che aumentare la violenza latente che sottolinea queste scene di cura e affetto. Oscillando tra un essere umano affidato alle azioni imprevedibili di un bambino e un semplice oggetto, la bambola rende indistinto il confine tra l’animato e l’inanimato. L’affermazione di soggettività, possesso e controllo della bambina sull’oggetto simile a un cadavere – che evoca la figura feticizzata della docile marionetta surrealista che si adegua ai desideri dell’artista – viene qui rettificata nelle complessità del rapporto madre-figlia. La bambola di Grzeszykowska simboleggia una rottura dei vincoli assegnati ai corpi e ai ruoli sociali, riesaminando la maternità attraverso un’esplorazione dell’autoalienazione. – LC

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Aneta Grzeszykowska, Mama # 50, 2018. Inchiostro pigmentato su carta cotone, 50 × 36 cm. Courtesy l’Artista; Raster; Lyles and King Gallery

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Aneta Grzeszykowska, Mama # 34, 2018. Stampa manuale ai sali d’argento, 50 × 36 cm. Courtesy l’Artista; Raster; Lyles and King Gallery

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Aneta Grzeszykowska, Mama # 32, 2018. Inchiostro pigmentato su carta cotone, 50 × 36 cm. Courtesy l’Artista; Raster; Lyles and King Gallery

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JUNE CRESPO

1982, Pamplona, Spagna Vive a Bilbao, Spagna

June Crespo realizza sculture “spontanee” utilizzando materiali industriali che alludono tanto ad architetture quanto a forme corporee. A partire da fibra di vetro, resina, ceramica, bronzo e tondini, l’artista taglia, smembra, espande e ricombina elementi e materiali esistenti, trasformandoli in nuove forme intuitive che offrono letture potenzialmente differenti a ciascun osservatore. Alcune sculture incorporano elementi riconoscibili: ammassi di busti e arti di manichini in cemento, pile di indumenti, riviste, o radiatori in ghisa. Altre si dissolvono interamente nell’astratto e nell’amorfo: dinoccolati totem in resina, calchi di calcestruzzo di forme vagamente industriali fissati alle pareti con cinghie fermacarico, o strati su strati di sottili tondini di ferro. Ognuna delle sculture di Crespo evoca un corpo inglobato all’interno di uno spazio architettonico, talvolta attraverso la fotografia del frammento di una persona, talaltra attraverso l’apertura incurvata di un elemento di fusione. Incorporando indumenti – propri e altrui – in mezzo a fibre di vetro, armature in ferro e altri materiali industriali, Crespo rimanda a spazi domestici, intimi. Le sue opere diventano corazze che evocano i vari modi in cui l’ambiente costruito può essere al contempo supporto e costrizione per il corpo e la mente umani. Le installazioni di Crespo rispecchiano sia futuri paesaggi urbani distopici, sia la nostra esperienza contemporanea di creature cibernetiche composite. L’artista definisce le proprie sculture come recipienti, o addirittura come “i gesti manuali di tutti i contenitori precedenti”. Per Il latte dei sogni, Crespo presenta una nuova serie di sculture che costituiscono l’evoluzione di HELMETS (2020), un corpus di opere esposte per la prima volta nel 2020 presso Artium, il museo della Comunità autonoma dei Paesi Baschi ad Álava, in Spagna. La serie comprende due coppie di torsi in alluminio impilati l’uno sull’altro, con le spine di colata (attraverso cui il metallo liquido è versato nello stampo) ancora attaccate ai bordi della scultura, e un gruppo di statue in calcestruzzo che esibiscono l’impronta in rilievo di fusti da trasporto. – MK

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June Crespo, HELMETS VI, 2019. Colata di acciaio inossidabile, bronzo, rivestimento in ceramica, acciaio, 128 × 95 × 62 cm. Photo Daniel Mera. Museo Nacional Centro de Arte Reina Sofía. Courtesy l’Artista; Carreras Mugica Gallery, Bilbao

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HANNAH LEVY

1991, New York City Vive a New York City, USA

Le sculture antropomorfe di Hannah Levy suscitano forme di consapevolezza fisica grazie alla combinazione di materiali corporei e industriali. L’artista si appropria di oggetti di uso comune per renderli alieni, utilizzando materiali inaspettati, oppure distorcendo o esagerando le loro proprietà formali. Il vocabolario visivo di Levy comprende strumenti medici, attrezzature per l’esercizio fisico, barre di sicurezza, vegetali, dolci e perle. Levy rende strano e magnetico ciò che è normalmente tanto familiare da risultare quasi invisibile, creando oggetti che esistono in un limbo definito dall’artista “purgatorio del design”. Contemporaneamente seducenti e snervanti, questi oggetti stimolano una repulsione e un’attrazione così estreme da rasentare l’umorismo. Le sculture di Levy si ispirano spesso al design modernista del XX secolo. Combinando queste allusioni con stampi carnali e corporei, l’artista infonde alla geometria pura dell’ideale modernista uno stridente ritorno alla materia organica, accentuando la sensualità preesistente celata nel design moderno. Mentre le forme metalliche e lineari evocano associazioni con arredi domestici o da ufficio, i rivestimenti simil-pelle confondono la separazione tra vita e morte, animale e prostetico, estraniando gli oggetti cui si riferiscono e mettendo l’osservatore in una posizione di ambiguità e inquietudine rispetto alla scultura. L’opera di Levy deve al Surrealismo il fascino per l’inquietante e il degradante, mentre assume un punto di vista retrospettivo e ambivalente sulla cultura materiale dell’ultimo secolo. Per Il latte dei sogni, Levy realizza un gruppo di tre nuove sculture. Untitled (2022) è una struttura minacciosa, simile a un artropode, in equilibrio su quattro gambe metalliche lucide, che sostengono una sacca di vetro afflosciato, realizzata lasciando che il peso del materiale fuso e bollente ne determinasse la forma prima del completo raffreddamento. Untitled (2022) consiste di una sottile membrana di silicone tesa su una struttura in acciaio a forma d’ala. L’opera ricorda l’anatomia della struttura alare dei pipistrelli, associando la possibilità controintuitiva del volo di un mammifero senza piumaggio alla forma ambigua della tenda, che è sia accessorio per il tempo libero degli amanti della natura, sia tragica necessità per chi non ha casa. Untitled (2022) è la copia di un nocciolo di pesca, grande come una sedia, intagliata nel marmo, materiale usato per la scultura nelle tradizioni artigianali antiche e contemporanee, che tuttavia contiene sorprendenti quantità di cianuro. Ciascuna delle tre sculture si colloca in modo ambiguo tra arredo funzionale e oggetto di contemplazione estetica, dando una forma corporea ai cicli di produzione, consumo e smaltimento alla base della vita contemporanea. – IW

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Hannah Levy, Untitled, 2021. Acciaio nichelato, silicone, 172,72 × 187,96 × 187,96 cm. Courtesy Casey Kaplan, New York; Mother’s Tankstation, Dublin. © Hannah Levy

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Hannah Levy, Untitled (dettaglio), 2021. Acciaio nichelato, silicone, 172,72 × 187,96 × 187,96 cm. Courtesy Casey Kaplan, New York; Mother’s Tankstation, Dublin. © Hannah Levy Hannah Levy, Untitled (dettaglio), 2021. Acciaio nichelato, silicone, 152,4 × 177,8 × 215,9 cm. Courtesy Casey Kaplan, New York; Mother’s Tankstation, Dublin. © Hannah Levy Hannah Levy, Untitled, 2018. Acciaio nichelato, silicone, gomma, cerniera, 266,7 × 246,38 × 246,38 cm. Courtesy l’Artista; Casey Kaplan, New York; Mother’s Tankstation, Dublino; Collezione Rennie, Vancouver. © Hannah Levy

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SHUANG LI

1990, Monti Wuyi, Cina Vive a Berlino, Germania e Ginevra, Svizzera

Shuang Li è cresciuta nel contesto rurale della Cina sudorientale, tra YouTube e MySpace, circondata da console Nintendo contraffatte, videogame piratati e CD dakou, dischi invenduti ritirati dal mercato occidentale e importati in Cina come eccedenze di plastica, distribuiti sottobanco per tutti gli anni Novanta. Sintonizzata sin da bambina sui meccanismi interni che regolano le tecnologie come seducenti agenti di intrattenimento, l’artista ha presto compreso la loro capacità di fungere da vettore di profondo controllo sugli individui nella nuova era cinese di sviluppo accelerato e neoliberalismo globale. Volgendo lo sguardo verso l’influenza incrociata della tecnologia sulle formazioni culturali di razza, genere, sessualità o nazionalità, l’opera di Li, che si realizza in modo interdisciplinare con video, sculture, suoni e installazioni, sottolinea l’attrito tra biopolitica e corpo, desiderio digitalizzato e intimità tra le persone. Sulla scia di molte artiste e artisti surrealisti dell’inizio del XX secolo, che avevano spesso affrontato il rapporto tra sessualità e mercificazione nell’esplorazione della figura umana, sovente rappresentata nelle sue parti smembrate o attraverso distorsioni esagerate, Li permea di erotismo corporeo gli spazi digitali del consumismo. Nella videoinstallazione T (2017–2018), l’artista mette in scena due piedi generati al computer che oscillano e si agitano in primo piano, come fossero separati dal resto del corpo del soggetto. Queste immagini di disincarnazione sono accompagnate dalla voce narrante dell’addetta alla vendita di calze da donna del sito di e-commerce cinese Taobao, che, nel corso del video, si rivela essere un maschio sessista cisgender che parla con voce fintamente femminile. Attraverso la femminilità e la desiderabilità esibite al solo scopo di aumentare le vendite online, la narrazione complica ulteriormente il feticismo delle merci nell’era digitale. In questo contesto, il tema del lavoro si intreccia agli stereotipi di genere, ai sistemi globali della domanda e a un’invisibile catena di distribuzione parallela, evidenziando come, nello spazio virtuale, questi punti cardine resistano a ogni tentativo di ancoraggio. In ÆTHER (Poor Objects) (2021), il cui titolo gioca sulla parola inglese ether (etere), Li amalgama riprese eterogenee, come un’eclissi solare associata a immagini illuminate da luci ad anello, strumento d’elezione di influencer e vlogger, ora diffuso tra gli impiegati che sempre più spesso trascorrono le giornate immersi nel proprio portatile, lavorando da casa a causa della pandemia di Covid-19. Plasmando un collegamento estetico e concettuale tra questi anelli di luce – uno naturale, l’altro artificiale, entrambi straordinari –, Li rappresenta lo slittamento tra esperienza virtuale e dimensione fisica dell’esistenza. – MW

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Shuang Li, I Want to Sleep More but by Your Side, 2018–2019. Installazione video, 25 min 27 sec, musica di Eli Osheyack. Commissionato dal Guangdong Times Museum per la mostra Modes of Encounter: An Inquiry. Veduta dell’installazione, Peres Projects, ART021, Shanghai, 2021. Photo Lao Cui. Courtesy l’Artista; Peres Projects, Berlin. © Shuang Li

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E LA I N E C A M E RO N -W E I R

1985, Red Deer, Canada Vive a New York City, USA

Gli oggetti scultorei di Elaine Cameron-Weir uniscono materiali durevoli come metallo, vetro, cemento e pietra a elementi effimeri quali fiamme, profumi e luce. Queste opere sono spesso caratterizzate da una flessibilità intrinseca garantita dall’impiego di carrucole, metallo duttile ed elementi funzionali provenienti dal settore militare, medico e scientifico. Le sue sculture ricordano strumenti chirurgici, attrezzature di laboratorio, apparecchi di tortura, oggetti feticcio, equipaggiamenti militari o armature medievali in cui protezione, piacere e dolore convivono in un equilibrio precario. All’interno di queste composizioni postumane, passato e futuro si fondono con l’ausilio di oggetti che suggeriscono una storia di rituali – spesso accompagnati dall’aroma dell’incenso naturale utilizzato in pratiche spirituali, officinali e funerarie –, insieme a congegni meccanici o tecnologici come illuminazione teatrale e luci al neon. La natura multisensoriale di queste opere provoca nell’osservatore un coinvolgimento viscerale, un effetto somatico accentuato da elementi che portano l’impronta di tracce corporee. In una serie di opere iniziata nel 2017, ampi teli di seta, generalmente utilizzati per la realizzazione di paracadute militari, sono racchiusi all’interno di una griglia tubolare in acciaio inossidabile, a suggerire rughe e pieghe dell’epidermide. Questi oggetti dalla natura ibrida evocano la fusione tra corpo, tecnologia e macchina, sancendo un legame permeabile tra la sfera umana e non. L’opera Low Relief Icon (Figure 1) and Low Relief Icon (Figure 2) (2021) è costituita da nastri trasportatori in tensione a cui fa da contrappeso una serie di casse metalliche impiegate dall’esercito americano per il trasporto di resti umani. Le bare sono collocate su un pavimento modulare in metallo, adibito a uno scopo diverso rispetto alla sua funzione originaria di celare i cavi elettrici; ciascuna è illuminata dalla luce tremolante di candele che rimandano a un rito funerario, mentre i feretri evocano il lutto e la violenza sponsorizzata dallo Stato. I dischi di peltro posti sui nastri trasportatori sono decorati dall’effigie ripetuta del crocifisso, evocativo della narrazione eroica del sacrificio individuale che offusca le azioni di uno Stato che paragona la vita a un oggetto usa e getta. Ricavata da un fondale funerario riadattato e illuminato da luci al neon e faretti, l’opera Right Hand Left Hand, Grinds a Fantasizer’s Dust (2021) si pone come una porta che, attirandoci con una falsa promessa di salvezza, offre una riflessione sull’inarrestabile sfruttamento della vita. – LC

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Elaine Cameron-Weir, Untitled, 2018. Paracadute in seta, acciaio inossidabile, pelle, 121,92 × 91,44 × 17,78 cm. Veduta della mostra, III: Heavyshield, Knowles, Cameron-Weir, Remai Modern, Canada, 2018. Photo Blaine Campbell. Courtesy l’Artista; JTT, New York; Hannah Hoffman, Los Angeles Pagine successive: Elaine Cameron-Weir, veduta dell’installazione, Elaine Cameron-Weir: STAR CLUB REDEMPTION BOOTH, Henry Art Gallery, University of Washington, Seattle, 2021. Photo Jonathan Vanderweit. Courtesy l’Artista; Henry Art Gallery, Seattle; JTT, New York; Hannah Hoffman, Los Angeles

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B I RG I T J Ü RG E N S S E N

1949 – 2003, Vienna, Austria

L’artista austriaca Birgit Jürgenssen, scomparsa prematuramente a cinquantaquattro anni, ha prodotto una considerevole quantità di opere d’arte, tra cui fotografie, disegni, dipinti, sculture e abbigliamento, che manifestano un’acuta prospettiva femminista in una Vienna dominata dalla mascolinità trasgressiva dell’Azionismo e dai costumi conservatori della borghesia austriaca. Presente, insieme ad altri artisti viennesi come VALIE EXPORT e Maria Lassnig, in diversi circoli d’avanguardia negli anni Settanta e Ottanta, tramite l’autoritratto Jürgenssen sperimenta, con sguardo indagatore, le raffigurazioni del corpo femminile e i cliché sulla rappresentazione dei generi, riuscendo così a fondere materiali che parlano di identità e di essere, di psicoanalisi freudiana e Surrealismo, mantenendo al contempo un livello di pensiero politico inequivocabilmente utopistico. Come scrisse una volta, “tra ‘la veglia e il sogno’ possiamo imparare a ‘vedere’ e riconoscere un ‘domani’ nel futuro”1. Meno noti delle sue acclamate serie fotografiche, i disegni di Jürgenssen degli anni Settanta esprimono una prospettiva sul femminismo realizzata specificamente attraverso tavole oniriche ispirate a Freud. In queste composizioni surreali, tutte contraddistinte dalle eccezionali abilità dell’artista nello schizzo, i corpi sono mostrati sia in termini metaforici, sia letterali: sono presentati in varie fasi di metamorfosi, spesso concepiti come esseri ibridi tra l’umano e l’animale; anche agli oggetti spuntano appendici animali. Nel disegno Fehlende Glieder (Missing Limbs) (1974) una figura ben vestita, metà umana e metà crostaceo, esibisce un’acconciatura simile a Medusa, con ricci di chele spinose. Il corpo nudo seduto che infila un indice nella bocca di un uomo inginocchiato in Ohne Titel (1977) ha l’inconfondibile testa pelosa e la schiena ricurva di un gatto nero. Ricordando le opere ricche di elementi psicosessuali dei protagonisti dell’avanguardia quali Meret Oppenheim, lavori come Ohne Titel (1974) mostrano piccoli coltelli che intagliano elementi animali – un’estremità piumata, una coda di pesce, la zampa di uno scarafaggio – rivelando la spinta erotica, psicologica ed emotiva che arde appena sotto la superficie delle cose. Froschschultergürtel (Ergänzung zum menschlichen Bewegungsapparat) (1974) toglie l’ambiguità delle relazioni tra le forme e i confini della mente interna e del corpo esterno. Nel ritrarre una donna che indossa un bikini e una cuffia da nuoto su una spiaggia placida, Jürgenssen fissa con una cinghia uno scudo di ossa all’esterno del corpo della figura. Che si tratti di una fantasia o di un incubo, qui la rappresentazione della femminilità viene legata a qualcosa che non è fisso ed è al contempo inconoscibile. – MW

1

Birgit Jürgenssen, citata in Werner Dornik, The Search Within: Art between Implosion and Explosion, Vienna, Österreichisch-Indische Gesellschaft, 1998, 76.

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Birgit Jürgenssen, Untitled, 1974. Matita, matita colorata su carta fatta a mano, 43,6 × 62,2 cm. Photo Pixelstorm. Courtesy Estate Birgit Jürgenssen; Galerie Hubert Winter, Vienna

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Birgit Jürgenssen, Frog Shoulder Belt (Addition to Human Motion Apparatus), 1974. Matita, matita colorata su carta fatta a mano, 45 × 62,5 cm. Photo Pixelstorm. Courtesy Estate Birgit Jürgenssen; Galerie Hubert Winter, Vienna Birgit Jürgenssen, Missing Limbs, 1974. Matita, matita colorata su carta fatta a mano, 62,5 × 43,5 cm. Photo Pixelstorm. VERBUND COLLECTION, Vienna. Courtesy Estate Birgit Jürgenssen, Vienna

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P. S TA F F

1987, Bognor Regis, UK Vive a Londra, UK e Los Angeles, USA

Per la realizzazione di film, installazioni e componimenti poetici, l’artista P. Staff attinge a varie fonti di ispirazione, materiali e contesti, i cui esempi più recenti sono la necropolitica di Achille Mbembe, le teorie dell’affetto, la transpoetica di autrici e autori quali Che Gossett ed Eva Hayward, nonché i suoi stessi approfondimenti su coreografia e danza moderna, astrologia e fine vita. Nella pratica interdisciplinare di Staff, questi variegati fili conduttori servono a enfatizzare i processi mediante cui il corpo – soprattutto quello delle persone queer, trans o disabili – viene interpretato, normato e disciplinato in una società rigorosamente controllata da capitalismo, tecnologia e regime legislativo. Nella celebre opera intitolata Weed Killer (2017), Staff offre una spietata visione di malattia e intimità. Parte del video è un monologo adattato da The Summer of Her Baldness (2004) di Catherine Lord. Questo libro autobiografico contiene una riflessione sulla devastazione provocata dalla chemioterapia, che l’autrice descrive come “spararsi in vena del diserbante”, evidenziando il paradosso del dover assumere sostanze estremamente tossiche per poter restare in vita. L’intreccio di sofferenza e contaminazione è un tema costante nell’opera di Staff, così come lo è la cromia acida e fluorescente scelta per le immagini. In On Venus (2019), videoinstallazione su grande scala originariamente realizzata per Serpentine Galleries a Londra e ora riallestita per Il latte dei sogni, Staff prosegue la propria disamina sullo scambio tra corpi, ecosistemi e istituzioni da una prospettiva queer e trans. Allestito su un pavimento a specchio inondato da una luce gialla radioattiva, ambiente che l’artista definisce come “ontologicamente disforico”, il film è composto da due parti. La prima propone riprese graffiate, distorte e sovrapposte che documentano la produzione agroindustriale di beni come urina, sperma, carne, pelli e pellicce, a loro volta utilizzati in vari modi per la produzione di indumenti, farmaci e altre merci. La seconda parte ruota attorno a un componimento poetico che descrive la vita sul pianeta Venere, una realtà omologa a quella terrestre, descritta però come uno stato di non vita o al confine con la morte, uno stato queer dell’esistenza, volatile e in costante metamorfosi, investito dalla violenza che deriva da pressione e calore, venti distruttivi e il disorientante passaggio dal giorno alla notte. Collocata tra l’ecologico e l’industriale, l’opera di Staff raffigura gli stati di violenza che sono alla base della creazione di un soggetto umano, al contempo vicino e lontano, interrogandosi su quale sia la posta in gioco nella creazione di futuri vivibili. – MW

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P. Staff, veduta dell’installazione, P. Staff: On Venus, Serpentine Galleries, London, 2019. Photo © Hugo Glendinning

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A M B R A C A S TA G N E T T I

1993, Genova, Italia Vive a Milano, Italia

Le sculture, i video, le installazioni e le performance di Ambra Castagnetti scaturiscono dal desiderio di trasformare la nostra relazione con il corpo e con gli esseri viventi che ci circondano. Per Castagnetti, la catarsi facilita la metamorfosi, ed è per questo che nella sua pratica spesso utilizza processi trasformativi. Installazioni quali HONEY e LYCHEN (entrambe del 2021), ad esempio, risultanti dall’amalgama di materiali naturali e sintetici, sembrano liquefarsi alla base in pozze di melma nera. Ispirandosi a un antico rituale legato alla corrida, per Tauromachia (2021) Castagnetti crea una fusione in bronzo raffigurante le corna di un toro, mentre in Cheree Cheree (2021) realizza il calco dell’impronta di un groviglio serpentiforme su uno sfondo di ceramica annerito. La performance è indispensabile alla genesi della sua pratica scultorea, poiché l’artista ritiene che azione e personificazione attiva siano le modalità più efficaci per superare i limiti dell’identità. In una recente performance intitolata Black Milk (2021), Castagnetti lega i performer a sculture di ceramica nera con l’ausilio di corde e catene. La connessione tra gli attori sottolinea la convinzione dell’artista secondo cui il corpo esiste sempre in relazione agli altri e alla nostra capacità di modificare la situazione che ci circonda. Per Il latte dei sogni, Castagnetti realizza Dependency (2022), una serie di sculture posizionate su basi provviste di ruote e rivestite in alluminio spazzolato, che ricordano delle tavole operatorie sopra le quali si trovano dei serpenti in ceramica e una testa medusea, ammucchiati come esemplari scientifici abbandonati. Alla parete sono appese alcune sculture destinate a essere indossate dai performer in un evento a metà tra le pratiche BDSM e un antico rituale interspecie. L’opera di Castagnetti prende le mosse dal concetto di “corpo consapevole” teorizzato dall’antropologa Nancy Scheper-Hughes, e dal credo paleolitico della fluidità, idea per cui gli esseri umani, gli animali, i vegetali e le altre entità viventi possono trasformarsi mutuando la propria forma l’uno dall’altro. Per l’artista il corpo non ha un’identità immutabile, bensì sono le circostanze ambientali, sociali e politiche che concorrono a definirlo in ogni singolo momento. – MK

Ambra Castagnetti è tra i quattro beneficiari della borsa di studio per l’edizione inaugurale della Biennale College Arte, un’iniziativa lanciata nel 2021. Quest’opera è fuori concorso.

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Ambra Castagnetti, veduta dell’installazione Aphros, Rolando Anselmi Galerie, Roma, 2021. Courtesy l’Artista

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C O S I M A VO N B O N I N

1962, Mombasa, Kenya Vive a Colonia, Germania

Cosima von Bonin emerge negli anni Novanta nel contesto della leggendaria scena artistica di Colonia, dove le sue prime opere concettuali rivendicano un carattere collettivo ed effimero. Da allora, pur avendo sperimentato a lungo l’uso di vari materiali, tra cui tessuti, ricami e fotografie, Von Bonin mantiene nella creazione dei suoi oggetti lo spirito giocoso e ironico che ha contraddistinto l’arte di molte esponenti della sua cerchia di riferimento, quali Rosemarie Trockel, Charline von Heyl e Jutta Koether, il cui lavoro unisce riferimenti a storia dell’arte, cultura pop e musica con un acuto senso dell’umorismo. Nella sua pratica artistica questi principi vanno di pari passo a un approccio destabilizzante nei confronti di attività artigianali e domestiche, tramite sculture e installazioni che sollecitano implicitamente i costrutti del femminismo nella società occidentale. Molti dei progetti intrapresi negli ultimi anni includono installazioni popolate da sagome di tessuto raffiguranti personaggi dell’universo dei cartoni animati – pesci, balene, funghi, cani, razzi – le cui tenere sembianze evocano molteplici contraddizioni: meraviglia e orrore, morbidezza e rigidità, umorismo e dolore. Nei contributi di von Bonin per Il latte dei sogni (tutti del 2022), queste contraddizioni emergono attraverso alcuni dei soggetti più cari all’artista: le creature marine. Sulla facciata del Padiglione Centrale troviamo, come fossero collocate sul frontone di un tempio greco, WHAT IF THEY BARK 01-07, una installazione scultorea fatta di squali e pesci di plastica che brandiscono tavole da surf, chitarre elettriche, ukulele, sarong, missili imbottiti rivestiti con un tessuto a quadretti. Dietro le colonne della facciata dello stesso edificio l’artista installa SCALLOPS (GLASS VERSION), una coppia di capesante su un’altalena a trapezio ed HERMIT CRAB (GLASS VERSION), un paio di paffute chele di granchio avvinghiate a una betoniera, mentre poco lontano, nell’installazione VENICE 1984, delle creature marine circondano una barca veneziana. Giocando con questioni d’attualità quali il capitale, il tempo libero, il comfort e la prestazione individuale, von Bonin ironizza sui vezzi dell’arte contemporanea e della storia dell’arte – in modo particolare le leggendarie origini del readymade. – MW

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Cosima von Bonin, THE BONIN / OSWALD EMPIRE’S NOTHING #05 (CVB’S SANS CLOTHING. MOST RISQUE. I’D BE DELIGHTED. & MVO’S ORANGE HERMIT CRAB ON OFF-WHITE TABLE NEXT TO PINK TABLE SONG), 2010. Materiali e dimensioni variabili. Photo Markus Tretter. © Kunsthaus Bregenz, Cosima von Bonin

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Cosima von Bonin, installation view, WHAT IF IT BARKS? Featuring AUTHORITY PUREE, Petzel Gallery, New York City, 2018. Photo Jason Mandella. Courtesy l’Artista; Petzel, New York. © Cosima von Bonin Cosima von Bonin, WHAT IF IT BARKS 4 (GERRY LOPEZ SURFBOARD VERSION), 2018. Plastica, tessuto, legno, supporto in acciaio, catene, tavola da surf Gerry Lopez anni Settanta, cordino, borsa termica in pelle/plastica con smile, sciarpe, 200,7 × 114,3 × 103 cm. Photo Jason Mandella. Courtesy l’Artista; Petzel, New York

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MÜGE YILMAZ

1985, Istanbul, Turchia Vive ad Amsterdam, Paesi Bassi

Müge Yilmaz ci invita a considerare la natura come un essere dotato di pensiero e azione propri, e a seguirla nelle sue installazioni e rituali di protezione. Le sculture e le performance di Yilmaz attingono alla miriade di riferimenti antichi letti con occhi femministi, che spaziano dal luvio geroglifico dell’Anatolia tra il Neolitico e l’Età del Bronzo, all’amuleto hamsa (mano di Fatima), ai tradizionali tatuaggi realizzati con cenere mescolata a latte materno destinati a una nuova figlia. Nell’opera On Protection (2021), l’artista collabora con una storica dell’arte e un’archeozoologa per allestire una galleria con raffigurazioni di rituali protettivi e divinità femminili in legno intagliato a macchina e a mano. Le sue sculture appaiono come le ombre dipinte di dèi e animali, gesti congelati nel tempo sulla parete di un tempio o di una caverna, pronti a essere scoperti da una generazione futura. Sculture di paesaggi immaginari con titoli come A New Élan Vital (2013) e Vibrational Objects (2014) richiamano pensatori come Jane Bennett e Henri Bergson, i quali teorizzano che la materia si organizzi e agisca autonomamente. L’opera The Water, the Soil, the Jungle (2016) è caratterizzata da tre performer che indossano dei costumi ondeggianti e mimetici in materiale simile all’erba, rispettivamente colorati di bianco, marrone e verde. Da allora, i tre personaggi – acqua, terra e giungla – sono apparsi in molte altre performance: in The Concrete: The Mountain (Night Search) (2017), in cui i personaggi guidano il pubblico alla scoperta di sorgenti d’acqua; in The Water (2017), dove l’artista circumnaviga l’isola di San Michele durante la 57. Esposizione Internazionale d’Arte, ricreando il dipinto di Arnold Böcklin L’isola dei morti (1880). Per questa edizione, Yilmaz realizza The Adventures of Umay Ixa Kayakızı (2022). L’installazione rappresenta la biblioteca e il lavoro di una vita di Umay, un’astronauta in pensione. Nello “studiolo” segreto, all’interno di una nave-isola, Umay dedica la sua vita a leggere e scrivere testi di fantascienza femminista – opere rare, scritte da donne che si firmano con il proprio nome o sotto pseudonimo maschile. Intagliate a mano da Umay, le sculture totemiche dipinte con accese tonalità blu e verdi diventano i ripiani che ospitano la sua biblioteca, i suoi artefatti e i suoi cimeli – i nipoti stessi dell’astronauta. Le figure possiedono teste di animali, mani recanti potenti glifi e occhi animati intenti a fissare l’osservatore. – MK

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Müge Yilmaz, The Adventures of Umay Ixa Kayakizi (Feminist Science Fiction Library), 2021. Legno di betulla tagliato con CNC e intagliato a mano, legno di pioppo, bambù, libri vari, vetro, luci, piante, schermo olografico, semi vari. Commissionato da Other Futures, Amsterdam. Opera in creta di Lorena Matic. Photo Pieter Kers | beeld.nu

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RE-INCANTO E CHI’XI S I LV I A F E D E R I C I E S I LV I A R I V E R A C U S I C A N Q U I IN CONVERSAZIONE Moderata da Manuela Hansen

Silvia Federici (1942, Parma, Italia) è un’attivista femminista, autrice e accademica. Nel 1972 ha co-fondato il Collettivo femminista internazionale, un’organizzazione che ha lanciato la campagna internazionale Wages for Housework (Salario per il lavoro domestico). Silvia Rivera Cusicanqui (1949, La Paz, Bolivia) è un’attivista aymara, sociologa, e studiosa di storia orale. Nel 1983 si è unita ad altri intellettuali indigeni e mestizos (meticci) con cui ha fondato Taller de Historia Oral Andina (Laboratorio di storia orale andina), un gruppo indipendente dedicato alle questioni dell’oralità, dell’identità e dei movimenti sociali popolari e indigeni, principalmente nella regione degli Aymara. Nella conversazione qui riportata, avvenuta su Zoom nel marzo 2021, toccano concetti come la proposta di Silvia Federici di “re-incantare” il mondo attraverso i commons, ovvero i beni comuni, e il concetto di chi’xi di Silvia Rivera Cusicanqui. Sono state invitate a conversare su queste idee e a riflettere sul presente. Per iniziare, potete dirmi dove vi siete incontrate per la prima volta e come siete venute a conoscenza del vostro reciproco lavoro?

MH

SRC Ci siamo incontrate alla Fiera internazionale del libro di Zócalo a Città del Messico. Era il 2017 o il 2018. Avevo già letto Calibano e la strega di Silvia Federici, pubblicato in spagnolo da Tinta Limón1. Da allora ammiro molto il lavoro accademico di Silvia, il modo in cui usa le immagini, perché da tempo riflettevo sull’importanza delle immagini come veicoli di significati culturali non facilmente traducibili a parole. SF Silvia, secondo me ci siamo incontrate prima, ma non ci siamo parlate. Non eri venuta a quell’incontro sui beni comuni organizzato da Raquel

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Gutiérrez a Puebla2? Ti ho vista al simposio, e in quel momento Raquel mi ha dato i tuoi libri e ho iniziato a leggerti. SRC

È vero, hai ragione.

Dal vostro lavoro si percepisce un senso di urgenza. Silvia Federici, tu sostieni che la rivisitazione e il rinvigorimento del collettivo e dei beni comuni ci consentirà di riconnettere ciò che il capitalismo ha diviso, ovvero il nostro rapporto con il corpo, con la natura e con gli altri, permettendoci di “re-incantare” il mondo. Puoi riassumere brevemente questi concetti? MH

SF Ci sono vari modi di intendere il concetto di beni comuni, e ci sono stati molti scritti provenienti dal Sud. I beni comuni, in generale, rappresentano una diversa concezione di come è organizzata la società e di come riproduciamo la nostra vita. È la concezione di una società organizzata non attorno al principio dello Stato o del mercato, ma una società in cui le persone hanno uguale accesso alla ricchezza che producono, alla ricchezza della natura, e anche al senso di responsabilità per la loro ricchezza. Si tratta di creare pratiche di collaborazione e cooperazione contrarie al modo competitivo che ci viene imposto nel capitalismo. In questo senso, i beni comuni sono un modo per rivendicare e riconquistare il nostro rapporto con il mondo naturale e con gli altri. Rappresentano una politica che, contrariamente ai movimenti socialisti marxisti, non rimanda la rivoluzione a un futuro che non arriva mai, ma cerca di cambiare il presente.

MH

Puoi dirci anche qualcosa di più sul concetto di incanto? Credo stiamo vivendo in un modo che continuamente ci mutila. Abbiamo perso la capacità di relazionarci con il mondo naturale, ci relazioniamo ad esso in un modo molto utilitaristico e distruttivo. Adesso è primavera a New York e io abito vicino a un parco, e quando vado al parco, vedo la magia, vedo la natura riprendere vita, vedo il re-incanto del mondo. Siamo diventati ciechi e sordi alla bellezza e alla magia di questo mondo, alla sua creatività e agli organismi viventi che ci circondano. E il re-incanto del mondo è intimamente connesso alla nozione di bene comune, che è una lotta che sta già accadendo in tanti luoghi, in particolare in America Latina per via della tradizione indigena, e anche in Africa; in tutti quei luoghi in cui esistono ancora strutture comuni. Questo si sta riversando negli Stati Uniti, dove, ad esempio, c’è un grande interesse per l’agricoltura urbana e per le forme di scambio non monetarie. Alcuni dicono che ci stiamo muovendo verso un “mondo rur-urbano”, rurale e urbano allo stesso tempo. Re-incantare il mondo significa ri-ruralizzare il mondo urbano, re-immaginare forme di vita comuni e vivere in una relazione con il mondo in cui si interagisce con la natura perché ne fai parte. SF

Silvia Rivera, in Un mundo chi’xi es posible. Ensayos desde un presente en crisis, ci inviti a immaginare un mondo chi’xi che ci permetterà di emanciparci dall’illusione dell’“Uno”, di sfidare i dualismi pervasivi riconoscendo la nostra scissione interna e la nostra incarnata contraddizione indotta dalla colonizzazione3. Puoi presentarci il concetto di chi’xi?

MH

Chi’xi è una metafora concettuale appresa da uno scultore aymara che mi ha raccontato che certi animali sono chi’xi perché indeterminati e

SRC

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contraddittori: sono sia femmine che maschi, abitano sia l’alaxpacha, il regno esterno, superiore del giorno, sia il manqhapacha, il mondo sotterraneo, che è oscuro e interiore. Animali ed entità come la lucertola o il serpente saltano e attraversano i confini di spazi contraddittori. È stato molto interessante scoprire che è proprio la contraddizione che dà forza a queste entità. C’è una schizofrenia sociale collettiva quando si nega l’altra metà della propria identità, l’identità che è sepolta dal colonialismo. Ad esempio, l’autocoscienza della popolazione indiana è divisa tra la parte indiana cancellata dalla storia e la tradizione occidentale. Dobbiamo quindi risollevare il lato indiano dalle modalità delle imposizioni coloniali, perché il problema con l’identità indigena, così come con l’identità femminile, è che è definita dall’esterno, e la nostra stessa autodefinizione di solito contraddice questa definizione proveniente dall’esterno. A questo proposito, il concetto aymara di pä chuyma, che io traduco come l’idea di doppio legame sviluppata da Gayatri Spivak sulla base dell’idea di schizofrenia di Gregory Bateson, si riferisce all’anima disgiuntiva, o divisa, soffocante e paralizzante, portata dalla colonizzazione. Un gesto di decolonizzazione della propria identità significherebbe allora riconoscere che il colonizzatore vive anche nel colonizzato, e presentare le proprie contraddizioni interne, lavorando con – e a partire da – esse. In altre parole, dallo stato mentale paralizzante e schizofrenico pä chuyma si può diventare chi’xi interrogando e riorganizzando le differenze gerarchiche all’interno della propria identità. Secondo te Silvia, il concetto di chi’xi può applicarsi al di là della cultura andina? Penso alla sua potenziale relazione con il concetto di queer, ad esempio, in quanto chi’xi non presuppone l’ibrido o sintesi ma una contraddizione, qualcosa che è e allo stesso tempo non è.

MH

Ho sempre pensato che con chi’xi si volessero espressamente affrontare le contraddizioni del mondo andino. Ma poiché tante culture si trovano di fronte alla brutalità del colonialismo e a questo doppio legame tra colonizzatore e colonizzato, immagino che in realtà il chi’xi possa essere applicato a molti conflitti di identità e possa anche essere inteso come una via positiva verso l’autocostruzione. Credo che il chi’xi abbia qualcosa a che fare con l’idea di queer, perché una buona idea non può solo essere il prodotto di una testa, deve essere già nell’aria prima che venga espressa a parole. SRC

Vorrei approfondire i punti di contatto tra i vostri scritti. Ritenete che i progetti di re-incantare il mondo e di un mondo chi’xi si intersechino o si completino a vicenda?

MH

SF Quando Silvia parlava del queer, pensavo all’esperienza dell’essere donna, che è una contraddizione vivente costante, è l’esperienza di vivere contemporaneamente in due mondi. Da un lato, essere donna porta con sé un’intera disciplina, radicata nei compiti che ci vengono assegnati all’interno dell’organizzazione capitalista del lavoro. Allo stesso tempo, le stesse cose contro cui stiamo combattendo sono anche cose da cui impariamo. Combatterle ci dà forza e forme particolari di conoscenza ed è qui che il concetto di donna, come identità collettiva, contestata, in costante cambiamento, si rapporta al concetto di chi’xi.

E vedi qualche relazione tra il chi’xi di Silvia e la tua concezione dei beni comuni? Qual è il ruolo della micropolitica in questi progetti?

MH

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SF Il chi’xi di Silvia è decisamente collegato al mio concetto di beni comuni. Costruire relazioni e strutture comuni, in un mondo circondato da relazioni individualiste capitaliste, significa destreggiarsi costantemente tra la contraddizione e vivere in due mondi allo stesso tempo. La micropolitica del partire dal qui e ora, con le persone con cui si hanno affinità, è cruciale. Una cosa che apprezzo del movimento delle donne è l’idea che il personale sia politico, spesso erroneamente intesa come idea secondo la quale i cambiamenti nella tua vita personale sono sufficienti. Ma c’è qualcosa di positivo in questo concetto, ovvero che non puoi pensare di cambiare il mondo a meno che non cambi anche la tua vita quotidiana. La politica alienata è quando vai a una manifestazione, ma poi torni a casa e tutto rimane uguale. Cambiare la nostra vita significa affrontare le contraddizioni che sperimentiamo nella nostra vita; imparare da loro trasforma le nostre relazioni, il nostro senso di solidarietà… ed è anche questo che per me è compreso nel concetto di bene comune. SRC Parlando della possibile complementarità dei nostri punti di vista, direi che in un ambiente alienato di oppressioni troncate o interrotte e di individualizzazione capitalista, si cerca di – e si può – superare questa situazione ricostruendo i legami comunitari attraverso le affinità. L’idea di comunalidad, comunanza, che Raquel Gutiérrez ha sviluppato come idea di entramados comunitarios, vale a dire un tessuto di relazioni intrecciate che formano una comunità, è un processo che può essere realizzato attraverso la deliberata unione di affinità4. Il bene comune non è ereditato, né basato su legami di sangue o di contratto, ma è una via d’uscita spontanea dall’alienazione e dalla sofferenza. MH Per immaginare e costruire un mondo chi’xi e re-incantato, entrambe ci invitate a esaminare e a utilizzare le epistemologie e ontologie indigene. Silvia Federici, in Re-incantare il mondo e in Beyond the Periphery of the Skin, sostieni che le pratiche comuni delle comunità indigene, in particolare delle donne di quelle comunità, costituiscono un’ispirazione per un re-incanto contemporaneo del nostro mondo5. Silvia Rivera, tu dici che l’epistemologia indigena in cui gli esseri animati e inanimati sono soggetti tanto quanto gli esseri umani, ci offre alternative per superare le narrazioni capitaliste e antropocentriche nord-atlantiche6. Potete entrambe argomentare queste idee? SF C’è una sterminata storia e letteratura sul modo in cui la distruzione e la commercializzazione della natura e lo sfruttamento del lavoro umano si siano combinati nel processo di conquista capitalista patriarcale. Sotto questo aspetto, la lotta delle popolazioni indigene è molto legata alla lotta femminista. La letteratura proveniente dal Brasile o dall’Argentina ci dice quanto spesso, nel processo di difesa della terra dall’estrazione mineraria o petrolifera, si sia sviluppata una prospettiva femminista. Perché per difendere le foreste o bonificare acque e terre, devi combattere le strutture patriarcali. Il comportamento patriarcale degli uomini è un grande ostacolo alla capacità di resistenza delle donne, prosciuga la loro energia, e in molti casi rimane comunque un ostacolo. Ed è qui che entra in gioco la questione di rimettere in comune il mondo, perché a meno che non creiamo immediatamente un’alternativa positiva, in questa situazione noi, umani e non umani, non sopravvivremo.

Silvia, sono d’accordo con te che lo spazio agricolo urbano è diventato un luogo privilegiato di rimessa in comune e di re-incanto, perché ha la capacità di cambiare la nostra percezione. Ad esempio, abbiamo fatto alcuni SRC

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laboratori con i bambini nel nostro spazio agricolo urbano, dove seminavano ortaggi che poi venivano a raccogliere. È stato molto bello vedere l’effetto che questo ha avuto nelle loro soggettività, rendersi conto che la carota non viene dal supermercato ma dalla terra. Sì, ora le scuole portano i bambini negli orti comunali perché molti di loro pensano che le patate o le carote provengano da sacchetti di plastica, e vedere una carota che esce dalla terra è magico.

SF

SRC

Sì, è una vera magia.

Puoi dirmi qualcosa di più sull’idea di magia? Qual è la forza della magia per il mondo in cui viviamo oggi?

MH

SF La magia per me è una conoscenza e una sensazione della creatività e dell’interconnessione di ogni cosa nella natura e nelle relazioni umane. Nel caso della carota, vederla uscire dalla terra è rendersi conto che la terra ha in sé grandi poteri creativi. Da questa terra bruna nasce una carota, una cipolla, nascono i fiori in primavera, le foglie sugli alberi. Quando dico che questo è magico, riconosco l’esistenza di forze, di poteri che non sono visibili e tuttavia sono trasformativi. Sfortunatamente, l’idea di magia è più spesso associata alla stregoneria, al desiderio di manipolare le cose o acquisire nuove cose o poteri.

Silvia Rivera, ti riferivi allo spazio El Tambo? Puoi dirci di più sul progetto?

MH

SRC È successo per caso. Un’amica ci ha prestato il suo terreno di 800 mq in una zona molto popolare del centro di La Paz, che si chiama Tembladerani. Abbiamo iniziato nel 2010, quindi sono passati undici anni. Era una discarica e per molti anni abbiamo pulito la terra e abbiamo finito per costruire una casa. Ogni anno facciamo delle cerimonie e un ciclo di rituali, che è un altro modo per ricostruire la comunità e re-incantare il mondo. Ad esempio, dialoghiamo con la Pachamama, la Madre Terra, e i suoi momenti ciclici. Prestiamo attenzione a processi nel cielo a cui le persone urbane di solito non pensano, come ad esempio l’effetto della luna piena o dei movimenti crescenti e calanti sulle piante. In città di solito non sai dove sono l’Oriente e l’Occidente perché non ti relazioni a dove sorge o tramonta il sole. Ma una volta che diventi consapevole dei cicli dell’universo, la tua esperienza urbana può uscirne completamente trasformata. Questo dialogo ti dà la sensazione di un mondo che viene re-incantato. Ti senti parte e in compagnia di tutti gli esseri e le entità non umane che rispondono alle tue cure e viceversa.

MH

Silvia Federici che cosa ne pensi? SF Sono completamente d’accordo con Silvia sull’importanza del rito. Voglio citare un libro in spagnolo, Gobierno comunal indígena y estado Guatemalteco (Governo della comunità indigena e Stato guatemalteco) di Gladys Tzul Tzul7. Gladys è una straordinaria donna del Guatemala e ha scritto questo potente libro sul sistema indigeno di Totonicapán, da cui proviene. Descrive un mondo in cui l’organizzazione di quella che chiamiamo “vita politica” nasce dalla riproduzione quotidiana e parla in particolare dell’importanza dei rituali. Ad esempio, scrive della fiesta, che non è solo stare insieme, bere

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e divertirsi. La fiesta è un rito, un momento di ri-significazione di ciò che vuol dire essere nella comunità. La gente ci lavora tutto l’anno. I rituali fanno parte della creazione di un interesse comune, di una storia comune. Un altro aspetto della lotta in America Latina che mi ha ispirato nella formulazione del concetto di beni comuni è l’idea che viviamo in tempi diversi e simultanei. Quando le persone dicono “compañero presente”, esprimono un gesto di solidarietà non solo con i vivi, ma anche con coloro che sono morti. Significa “siamo i tuoi alleati, siamo la tua voce, non sei morto, sei con noi, ci stai ancora ispirando”. Perché il mondo dei morti e il mondo dei vivi sono continui, non sono separati. Anche qui i rituali, come il Giorno dei morti in Messico, sono importanti. Questa solidarietà con coloro che non sono più con noi, questa volontà di renderli parte della nostra vita e non dimenticare ciò per cui hanno lottato, essere il loro sguardo, la loro voce… tutto questo fa parte del re-incantare il mondo. Riguardo al concetto di temporalità, Silvia Rivera, dici di essere riluttante a usare il prefisso “post”. Parli anche di decoloniale come una tendenza e dell’anticoloniale come una lotta. Ci puoi spiegare che cosa intendi con questo?

MH

Nell’idea aymara della circolarità del tempo, la natura a spirale del tempo ritorna a un punto precedente, ma su un nuovo livello. Il tempo ritorna allo stesso punto ma non è mai esattamente lo stesso. E secondo me la parte lineare nell’idea di postcolonialismo, o “post” di qualsivoglia cosa, è illusoria perché rivela l’impazienza di sbarazzarsi del passato, di superarlo e infine di trascenderlo. Penso anche che il postcolonialismo sia più un desiderio che una descrizione della realtà. Peggio ancora, il decoloniale è una moda che passerà molto presto. L’anticoloniale, invece, è una lotta che non solo è molto attuale oggi, ma non ha ancora raggiunto una condizione di postcolonialità. Il desiderio di postcolonialità va bene, ma la realtà non va confusa con il desiderio. SRC

Sono molto d’accordo con te Silvia, sulla circolarità del tempo. Sono anch’io contraria alla tendenza “post” e uso invece “anticoloniale”. Non uso mai postcoloniale o decoloniale, sempre anticoloniale. Perché il colonialismo non è finito. Stiamo assistendo a espropriazioni di massa, evacuazioni di massa, milioni di persone cacciate dalle loro terre originarie e poi lasciate a morire nel Mediterraneo o nelle carceri degli Stati Uniti. A proposito della circolarità del tempo, è tornata anche la caccia alle streghe. SF

A tal proposito, ha senso parlare o immaginare un mondo post-pandemia?

MH

Sono molto pessimista. Penso che questa sia la prima di una serie di pandemie a venire. Non credo quindi che possiamo ancora affrontare il periodo post-pandemia. Penso anche però che dovremmo lottare contro il pessimismo.

SRC

MH Silvia Federici, da tempo combatti contro l’indifferenza nei confronti del lavoro riproduttivo nella nostra società capitalista. Credi che la pandemia abbia portato maggiore consapevolezza sull’indispensabile lavoro di cura degli altri, o lavoro riproduttivo?

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SF Penso che la pandemia stia portando una nuova attenzione sulla crisi che le donne vivono da tempo. La questione delle donne che ora stanno a casa con il telelavoro e poi magari si prendono cura dei bambini e della loro didattica a distanza, e poi fanno i lavori domestici, per non parlare di quando qualcuno si ammala a casa: questa è l’enormità di che cosa sia il lavoro riproduttivo. E molte donne – le cosiddette “lavoratrici essenziali” – non hanno il privilegio di stare a casa. Senza lavoro riproduttivo nulla si muove. È importante per la vita delle persone ma anche per la riproduzione della forza lavoro, quindi i veri beneficiari sono i datori di lavoro e l’intero mondo capitalista. Ho combattuto il movimento femminista per non aver fatto abbastanza in questo senso. Oggi tutto viene rinchiuso, recintato o confinato. Ora compriamo acqua in bottiglia, presto compreremo aria in bottiglia per poter respirare. Questa pandemia ci ha dimostrato che solo grazie al lockdown, che ha ridotto l’inquinamento, in molte regioni del mondo le persone hanno potuto vedere il cielo. Questo è un crimine enorme. Ci dicono i numeri delle persone che muoiono di Covid ma non quelli di coloro che muoiono di cancro perché questo ci porterebbe a interrogarci sulla responsabilità di tutte le sostanze chimiche che entrano nella terra e nel nostro corpo, e sul ruolo delle aziende farmaceutiche. La storia degli ultimi trent’anni è una storia di epidemie; in Africa, ad esempio, migliaia di persone sono morte di colera, meningite, ebola. Parliamo di Covid, oggi, solo perché ne sono colpiti Europa e Stati Uniti. Ma in tutto il mondo le persone stanno morendo perché il loro sistema immunitario è stato distrutto, poiché vivono in condizioni antigieniche e senza le risorse più basilari.

A proposito del rinchiudere, del recingere, da decenni sostieni che il capitalismo sta conducendo una guerra contro il nostro corpo – contro quello femminile in particolare – attraverso strategie di confinamento. Quali sono le forme più evidenti oggi?

MH

SF Le chiusure sono onnipresenti. Le politiche in atto oggi sono costruite su processi di confinamento costante: della terra, della conoscenza, dei nostri corpi. Parlando di violazione dei corpi, oggi vengono brevettati anche i geni umani. Il capitalismo ha imparato molto tempo fa che rompere i legami connettivi che le persone hanno tra loro nella comunità, trasformandoci in persone chiuse in se stesse, isolate, singole isole, conferisce un grande potere. Quando si è soli, isolati dalle altre persone, si viene sconfitti più facilmente. Penso che ora molti dei lavori che si facevano fuori casa vengano rimandati a casa perché ciò riduce i costi di produzione per le aziende, inoltre avere una forza lavoro dispersa impedisce alle persone di organizzarsi. Il razzismo è una forma di reclusione. Negli Stati Uniti gli studi dimostrano che all’interno della comunità nera, anche le persone che hanno livelli di reddito abbastanza alti hanno un’aspettativa di vita inferiore a quella dei bianchi con lo stesso livello di reddito. Questo perché la tensione di vivere in una società razzista ha un effetto diretto sul nostro corpo. Quindi, dobbiamo creare nuove strutture. Una nuova società.

MH

Vorrei tornare sulla questione della vita con e nella pandemia. La pandemia ha avuto effetti molto contraddittori. Da un lato, all’improvviso c’è stata un’atmosfera incredibilmente limpida, il mondo si è fermato e la natura ha ricominciato a fiorire. D’altra parte, un terribile

SRC

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effetto della reclusione è stato l’aumento dei femminicidi. Inoltre, non possiamo abbracciarci, non possiamo stringerci la mano, manteniamo una distanza fisica. Ma, in un certo senso, ciò ha anche dato voce a precedenti reti di parentela e reti di quartiere. Con il Covid ora abbiamo una società che pone molta più enfasi al piccolo che al grande, dove ci rendiamo conto di poter cambiare certi atteggiamenti delle persone che ci circondano. E parlando del chi’xi, penso che possiamo prendere queste contraddizioni come un’opportunità per migliorare i modi di adattamento più positivi e creativi e per cercare di non rafforzare gli atteggiamenti reciproci più egoisti e diffidenti. Ad esempio, abbiamo imparato che se non possiamo abbracciarci, le nostre parole diventano un’importante espressione delle nostre emozioni. Se vogliamo evitare che si avverino le previsioni più negative riguardo a ciò che ci riserva il futuro, dobbiamo re-imparare a fidarci delle nostre relazioni immediate – dei nostri vicini e famigliari – e a coltivarle. Sono d’accordo con te, Silvia. Questo è un grande momento di opportunità. Mi auguro che sapremo come utilizzarlo.

SF

Silvia Federici ha scritto fra gli altri Caliban and the Witch: Women, the Body and Primitive Accumulation (Autonomedia, 2004; tr. it. Calibano e la strega. Le donne, il corpo e l’accumulazione originaria, Mimesis, 2015); Re-Enchanting the World: Feminism and the Politics of the Commons (PM Press, 2018; tr. it. Re-incantare il mondo. Femminismo e politica dei commons, Ombre Corte, 2021); Beyond the Periphery of the Skin: Rethinking, Remaking, and Reclaiming the Body in Contemporary Capitalism (PM Press, 2020). Silvia Rivera Cusicanqui è autrice fra gli altri di Sociología de la imagen. Miradas chi’xi desde la historia andina (Tinta Limón, 2015), Un mundo chi’xi es posible. Ensayos desde un presente en crisis (Tinta Limón, 2018). Manuela Hansen è una curatrice argentina che attualmente vive a New York.

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Silvia Federici, Caliban and the Witch: Women, the Body, and Primitive Accumulation, New York, Autonomedia, 2004 (tr. it. Calibano e la strega. Le donne, il corpo e l’accumulazione originaria, Milano-Udine, Mimesis, 2015). Raquel Gutiérrez Aguilar è un’intellettuale messicana militante e docente di Sociologia presso la Beemérita Universidad Autónoma de Puebla. Si veda Silvia Rivera Cusicanqui, Un mundo chi’xi es posible. Ensayos desde un presente en crisis, Buenos Aires, Tinta Limón, 2018, 17, 56, 81. Si veda Raquel Gutiérrez Aguilar, Horizontes comunitario-populares. Producción de común más allá de políticas estado-céntricas, Madrid, Traficantes de Sueños, 2017.

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Si veda Silvia Federici, Re-Enchanting the World: Feminism and the Politics of the Commons, Oakland (CA), PM Press, 2018 (tr. it. Re-incantare il mondo. Femminismo e politica dei commons, a cura di Anna Curcio, Verona, Ombre Corte, 2021); Federici, Beyond the Periphery of the Skin: Rethinking, Remaking, and Reclaiming the Body in Contemporary Capitalism, Oakland (CA), PM Press, 2020, 96. Si veda Rivera Cusicanqui, Un mundo chi’xi es posible, cit., 90. Si veda Gladys Tzul Tzul, Gobierno comunal indígena y estado Guatemalteco. Algunas claves críticas para comprender su tensa relación (Il governo comunale indigeno e lo Stato guatemalteco. Alcune chiavi critiche per capire il loro teso rapporto), Guatemala, Instituto Amaq’, 2018.

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R MOST

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AR S E NA

LE


SIMONE LEIGH

1967, Chicago, USA Vive a New York City, USA

Attraverso l’utilizzo di tecniche scultoree premoderne e contemporanee, tra cui fusione a cera persa e smaltatura al sale, combinate con materiali di forte valenza culturale quali conchiglie cipree, banane verdi, rafia e foglie di tabacco, Simone Leigh ha sviluppato nell’arco di due decenni un corpo poetico di sculture, installazioni, video e opere di arte relazionale che pongono al centro la razza, la bellezza, la comunità e la cura, in riferimento al corpo delle donne di colore e all’impegno intellettuale. In origine collocata sulla High Line di New York nel 2019, Brick House – il monumentale busto in bronzo di una donna nera la cui gonna ricorda una casa di argilla – torreggiava, simile a una divinità, sulla trafficata Decima strada di Manhattan. Si tratta di un formidabile rovesciamento della tradizione della scultura figurativa in bronzo della statuaria confederata, molti esempi della quale sono stati abbattuti in tutti gli Stati Uniti negli ultimi anni. In parte donna, in parte casa, Brick House è una scultura attraverso la quale storia, etnografia e soggettività femminile nera sono espresse con materiali, forme, e anche attraverso i profondi rimandi culturali che queste entità esprimono. Creata come parte della serie Anatomy of Architecture (2016–in corso), Brick House appartiene a un gruppo di sculture che fonde corpi e riferimenti architettonici. Come in molti dei recenti progetti di Leigh, la serie include passaggi attraverso molteplici percorsi culturali panafricani e afro-diasporici: dalle case a obice del popolo Mousgoum in Ciad e Camerun, agli edifici in argilla e legno dei Batammaliba in Togo, dalle statuette nigeriane ibeji, alla tradizione artigianale afroamericana del XIX secolo delle brocche antropomorfe, fino al Mammy’s Cupboard, un ristorante a Natchez, nel Mississippi, costruito con le sembianze dell’archetipo razzista della mammy, la cui enorme gonna rossa ospita la sala da pranzo. Come ha affermato l’artista stessa, quando ha iniziato a lavorare a questa serie stava pensando anche alla lunga tradizione di associare il corpo femminile, nella storia dell’arte, all’idea di abitazione, contenitore, strumento o “loophole of retreat” (scappatoia di ritiro), ovvero spazi in cui nascondersi, fuggire e rifugiarsi, come descritto dalla scrittrice e schiava liberata Harriet Jacobs nella sua autobiografia del 1861 Vita di una ragazza schiava. Evocando via via l’idea di contenitore, spazio confortevole, oggetto di consumo, santuario, Brick House fornisce un potente ritratto del corpo della donna nera come un luogo di molteplicità. – MW

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Simone Leigh, Brick House, 2019. High Line Plinth Commission, High Line, New York City, 2019. Photo Timothy Schenck. Collezione privata. Courtesy l’Artista; the High Line. © Simone Leigh

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Simone Leigh, Brick House, 2019. High Line Plinth Commission, High Line, New York City, 2019. Photo Timothy Schenck. Collezione privata. Courtesy l’Artista; the High Line. © Simone Leigh

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B E L K I S AY Ó N

1967 – 1999, L’Avana, Cuba

Pur essendo un’atea dichiarata, l’artista cubana Belkis Ayón dedica gran parte della propria opera a codici, simboli e racconti degli Abakuá, una confraternita segreta di schiavi afrocubani originaria dell’area compresa tra la Nigeria sudorientale e il Camerun, il cui mito di fondazione si basa sull’atto di tradimento commesso da una donna. Secondo la leggenda, riempiendo una brocca al fiume, la principessa Sikán catturò accidentalmente un pesce magico in grado di garantire pace e prosperità a chi lo avesse udito parlare. Mentre portava il pesce al padre, la fanciulla giurò che avrebbe mantenuto il segreto, ma poi lo confidò al compagno e per questo fu condannata a morte. Personaggio centrale in tutta l’opera di Ayón, Sikán è solitamente raffigurata priva di lineamenti, a eccezione degli occhi, e assume diverse sembianze all’interno della vasta, e spesso sconcertante, mitologia Abakuá. Allo stesso tempo, Ayón fa interamente propria la tradizione Abakuá, che di per sé è priva di un’iconografia figurativa tramandata. Incarnando un mondo per metà frutto di invenzione e per metà d’adozione, Sikán compare anche in scene religiose tratte dalle scritture giudeo-cristiane, nonché in scenari misteriosi che rievocano la vita di Ayón: quella di una vera donna afrocubana alla fine del millennio, assorbita dai suoi drammi interiori. Il ciclo in tre parti La consagración I, II e III (1991) costituisce una delle opere in cui Ayón mette in scena la sua fascinazione per la società Abakúa. Ciascuna sezione, impostata su formati ad arco e composizioni simmetricamente bilanciate che imitano le pale d’altare religiose medievali, raffigura una scena di unzione spirituale o di annuncio con dettagli elaborati. Come gran parte dell’arte di Ayón realizzata durante la sua breve ma intensa carriera, queste stampe, e le altre opere in mostra, sono state create tramite la tecnica di stampa della collografia, un approccio simile al collage in cui materiali eterogenei sono ammassati su una lastra per creare una composizione, in contrasto con tecniche come l’acquaforte o il taglio del legno, in cui le immagini sono scolpite sulla superficie della lastra. Come metodo, la collografia permette una vasta gamma di toni, texture e forme; nelle abili mani di Ayón, le sottili gradazioni di neri, bianchi e grigi assumono un peso magico e evocativo. – MW

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Belkis Ayón, Resurrección, 1998. Collografia, 263 × 212 cm. Photo Watch Hill Foundation. Collezione Watch Hill Foundation and von Christierson Family. Courtesy Watch Hill Foundation and von Christierson Family. © Belkis Ayón Estate, Havana, Cuba

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Belkis Ayón, La consagración I, 1991. Monotipo su carta, 12 parti. Trittico, parte 1, 225 × 300 cm. Photo José A. Figueroa. Courtesy Belkis Ayón Estate, Havana, Cuba; The State Russian Museum. © Belkis Ayón Estate, Havana, Cuba; © The State Russian Museum 2022 Belkis Ayón, La consagración II, 1991. Monotipo su carta, 12 parti. Trittico, parte 2, 225 × 300 cm. Photo José A. Figueroa. Courtesy Belkis Ayón Estate, Havana, Cuba; The State Russian Museum. © Belkis Ayón Estate, Havana, Cuba; © The State Russian Museum 2022 Belkis Ayón, La consagración III, 1991. Monotipo su carta, 12 parti. Trittico, parte 3, 225 × 300 cm. Photo José A. Figueroa. Courtesy Belkis Ayón Estate, Havana, Cuba; The State Russian Museum. © Belkis Ayón Estate, Havana, Cuba; © The State Russian Museum 2022

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GABRIEL CHAILE

1985, San Miguel de Tucumán, Argentina. Vive a Buenos Aires, Argentina e Lisbona, Portogallo

La pratica artistica di Gabriel Chaile comprende sculture, disegni e installazioni. Ogni creazione è influenzata dal rapporto dell’artista con le comunità in stato di indigenza, i rituali e le tradizioni artistiche del suo luogo di origine. Cresciuto nella città settentrionale di San Miguel de Tucumán in una famiglia di retaggio spagnolo, afro-arabo e indigeno di Candelaria, Chaile impiega spesso materiali, forme e simboli archetipici associati alle vestigia archeologiche delle civiltà precolombiane, in una sintesi poetica e al contempo umoristica. Autodefinendosi “antropologo visuale”, l’artista richiama l’attenzione sulle concezioni comunitarie tradizionali della produzione estetica locale oscurate dal potere coloniale e crea spazi in cui precedente storico, epistemologie indigene e consuetudini artigianali premonitrici si mescolano alla vita contemporanea. Chaile realizza le sue caratteristiche sculture in argilla, mattone, adobe, bronzo o ferro rifacendosi a una teoria che lui stesso definisce “genealogia della forma”. Creando oggetti come pentole e forni di argilla, molti dei quali realmente utilizzabili per la preparazione di cibo, l’artista evoca il rapporto tra i recipienti argentini tradizionali – di cui illustra anche l’evoluzione nel corso del tempo – e il nutrimento, il sostegno, la collaborazione e le attività della comunità. Assumendo spesso tratti antropomorfi o incorporando uova e altre forme oblunghe, questi manufatti volgono lo sguardo al passato, anche nel momento in cui continuano a svolgere la loro funzione nell’oggi. La recente opera intitolata La Malinche (2019) è un forno di argilla che assume la forma di un ibrido tra donna e uccello. Il titolo riprende il nome dell’interprete indigena a servizio di Hernán Cortés, il conquistatore che sottomise buona parte del Messico alla dominazione spagnola all’inizio del XVI secolo. Richiamando una varietà di immagini e associazioni tratte dalla tradizione ceramica precolombiana dell’Argentina nordorientale, in parte oscurata nel tempo, quest’opera ritrae un semplice recipiente per la sopravvivenza nel pieno di un processo di trasformazione, pervaso dal corpo di una figura storica, a lungo additata come traditrice e interpretata come vittima della conquista coloniale. Le cinque nuove sculture di Chaile per Il latte dei sogni prendono analogamente la forma di fornaci ibride uomoanimale che si rifanno ad antichi vasi di ceramica, qui disposte in modo da evocare un tempio, una fabbrica o un alveare. Al suo centro, una scultura di adobe di sette metri di altezza coglie un essere ibrido in piena trasformazione. Nel complesso, la nuova serie di Chaile è un’espressione della capacità del corpo di fare comunità, del dare e prendersi cura, plasmato dalla storia, ma vissuto nel presente. – MW

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Gabriel Chaile, veduta della mostra, Genealogía de la forma, Barro, Buenos Aires, 2019. Photo Santiago Orti. Courtesy l’Artista; Barro, Buenos Aires

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Gabriel Chaile, Indudablemente estos músicos están rayados, 2021. Argilla, legno, corde da chitarra, tempera, struttura in metallo, 143 × 116 × 167 cm. Photo Andrea Rossetti. Courtesy l’Artista; ChertLüdde, Berlin Gabriel Chaile, Mamá luchona, 2021. Veduta della mostra, 2021 Triennial: Soft Water Hard Stone, New Museum, New York City, 2021. Photo Dario Lasagni. Courtesy l’Artista; Barro, Buenos Aires; ChertLüdde, Berlin

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FICRE GHEBREYESUS

1962, Asmara, Eritrea – 2012, New Haven, USA

Meditativi e nel contempo esuberanti, gli aggraziati dipinti acrilici e a olio di Ficre Ghebreyesus catturano la complessità dell’infanzia dell’artista in Africa orientale e la sua vita nella diaspora, presentando un mondo soffuso di ricordi, visioni e storie. Popolati da vorticose raffigurazioni di barche, aeroplani, angeli, pesci e strumenti musicali, la loro qualità onirica si legge come una sorta di romanticismo, poiché questi paesaggi fantastici e audacemente colorati nascono dalla nostalgia autentica di un tempo e di un luogo interrotti dal conflitto. Nato da una famiglia copta ad Asmara, capitale dell’Eritrea, all’inizio della difficile Guerra d’indipendenza del Paese dall’Etiopia durata trent’anni (1961–1991), Ghebreyesus lascia ancora adolescente la sua città natale come rifugiato, per poi viaggiare e vivere in Sudan, Italia e Germania, prima di stabilirsi definitivamente a New Haven, nel Connecticut. Qui, Ghebreyesus apre assieme ai fratelli un famoso ristorante di cucina dell’Africa orientale, e vi lavora come cuoco. Si dedica inoltre all’arte, iscrivendosi infine al Master of Fine Arts di Yale. Cuoco per quasi tutta la vita adulta, Ghebreyesus sceglie di rifiutare gran parte delle opportunità espositive che gli si presentano. Alla sua morte, nel 2012, la maggior parte dei suoi dipinti non è mai stata esposta pubblicamente. Le tele a più strati City with a River Running Through (2011), Nude with Bottle Tree (2011 ca.) e Fish (2008–2011 ca.), rimandano alle influenze interconnesse dell’infanzia ad Asmara e dell’età adulta nella diaspora, utilizzando il concetto di stratificazione sia dal punto di vista formale, sia metaforico. La grande opera non intelaiata City with a River Running Through presenta un paesaggio urbano costruito in un patchwork colorato a scacchiera, con motivi e forme arancioni e color pesca che ricordano i tradizionali cesti e ricami eritrei, così come le case moderniste sparse in tutta Asmara. In Nude with Bottle Tree una figura appare accanto a un albero in un paesaggio densamente articolato. L’antica usanza di abbinare contenitori dismessi ai rami degli alberi – tradizione originata nel Regno del Congo sulla costa dell’Africa occidentale – arriva nelle Americhe portata da individui costretti in schiavitù e da allora è strettamente associata alle comunità afroamericane negli Stati Uniti meridionali, dove è spesso interpretata come mezzo per allontanare gli spiriti maligni. Sul lato destro della tela compare un’altra figura che regge uno strumento musicale e che ricorda le sculture yoruba di cavalieri a cavallo, figure rituali raffiguranti guerrieri armati. Insieme, si trovano a un bivio tra mondi. Come nelle maggiori opere di Ghebreyesus, identità e patria sono in perenne mutamento. – MW

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Ficre Ghebreyesus, Nude with Bottle Tree, 2011 ca. Acrilico su tela, 182,9 × 213,4 cm. Photo Christopher Burke Studio. Collezione privata. Courtesy Galerie Lelong & Co., New York. © The Estate of Ficre Ghebreyesus

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Ficre Ghebreyesus, City with a River Running Through, 2011. Acrilico su tela non tesa, 185,4 × 563,2 cm. Photo Christopher Burke Studio. Courtesy Galerie Lelong & Co., New York. © The Estate of Ficre Ghebreyesus

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P O R T I A Z VAVA H E R A

1985, Harare Vive ad Harare, Zimbabwe

Portia Zvavahera vede attraverso i sogni. Come lei stessa afferma: “Il sogno è come il profeta che parla del futuro, di quanto accadrà o della causa per la quale qualcosa avverrà in futuro. Tutti dormiamo; tutti sogniamo”1. Attingendo alle immagini e alle sensazioni radicate nel suo subconscio, Zvavahera coniuga l’intensità emotiva della sua vita interiore al misticismo indigeno dello Zimbabwe e alla dottrina pentecostale apostolica che ha contraddistinto la sua educazione. I giganteschi dipinti mistici dell’artista di Harare comunicano per lo più una visione spirituale di momenti quotidiani, tra cui le rappresentazioni della sua famiglia, di animali proteiformi, di figure che partecipano a cortei nuziali o inginocchiate nell’atto di pregare, o di donne impegnate nel parto e in rituali secolari connotati come tipicamente femminili, quali l’accudimento dei bambini. In queste opere dai motivi vivaci, Zvavahera ritrae le sue protagoniste come figure divine che occupano uno spazio a metà tra il fantastico e l’allegorico, tra un piano spirituale e uno terreno. I dipinti di Zvavahera sono il risultato di un processo rituale di pittura e stencil che crea motivi stratificati con colori brillanti. Attraverso questo metodo, le campiture delle sue tele costituiscono forme modellate sovrapposte a palette cromatiche piatte, evocative della xilografia tipicamente impiegata nella stampa tessile dello Zimbabwe, dando vita a una dinamica ritmica, quasi musicale, tra il materiale e il segno grafico. Per Il latte dei sogni, Zvavahera presenta una serie di quattro nuove opere che proseguono la sua indagine sulla pittura come forma di catarsi spirituale. Avviluppate da spirali di colore che ricordano un mantello avvolgente, le figure di dipinti come Kudonhedzwa kwevanhu (2022) sembrano galleggiare dentro e fuori dai piani dell’esistenza, incorniciate da frammenti del mondo naturale, insieme a creature ultraterrene simili a gufi, intente a osservare dall’alto un momento di condivisione. Ritraendo queste figure mistiche con l’ausilio di colori a olio e sofisticate pennellate, Zvavahera si confronta con le visioni angoscianti che popolano il suo subconscio per individuare i moniti, o le lezioni, che queste potrebbero rivelare. – MW

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Portia Zvavahera, citata in Sabine Russ, Portia Zvavahera by Netsayi, in “BOMB”, 134, 2015, 36–45 (https://bombmagazine. org/articles/portia-zvavahera).

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Portia Zvavahera, Ndirikukuona (I can see you), 2021. Inchiostro da stampa a base oleosa, colore a olio su tela, 220,7 × 191,5 × 7,9 cm. Photo Stephen Arnold. Courtesy l’Artista; Stevenson; David Zwirner. © Portia Zvavahera

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Portia Zvavahera, Ndirikuda kubuda (I want to come out), 2021. Inchiostro da stampa a base oleosa, colore a olio su tela, 208 × 180,7 × 7,9 cm. Photo Stephen Arnold. Courtesy l’Artista; Stevenson; David Zwirner. © Portia Zvavahera

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Portia Zvavahera, This is where I travelled [4], 2020. Inchiostro da stampa a base oleosa, colore a olio su tela, 242,5 × 201 cm. Photo Jack Hems. Courtesy l’Artista; Stevenson; David Zwirner. © Portia Zvavahera

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R O S A N A PA U L I N O

1967, San Paolo Vive a San Paolo, Brasile

La poliedrica attività di Rosana Paulino abbraccia numerosi ambiti quali disegno, ricamo, incisione, serigrafia, collage, scultura e installazione, intesi come mezzi che, utilizzati per attivare la memoria collettiva e personale, riflettono la sua posizione di donna di colore in Brasile. Paulino esplora la storia della violenza razziale – la reificazione e la sottomissione perpetrate nei confronti delle persone di origine africana – e il persistente retaggio della schiavitù in Brasile. Nel suo lavoro l’artista analizza in dettaglio l’elaborazione e la diffusione delle teorie colonialiste e razziste che, plasmando il sapere scientifico, sono servite a giustificare l’imperialismo europeo e il commercio degli schiavi. Nel denunciare le pratiche di sfruttamento, i disegni della serie Wet Nurse (2005) esaminano il ruolo delle balie di colore, donne ridotte in schiavitù che allattavano i figli del padrone. Un groviglio di vene che si diramano da seni arrossati spunta dai capezzoli a indicare il latte e, al contempo, a suggerire gocce di sangue, a volte presenti nei corpi tratteggiati dei neonati. Nella serie di disegni Weavers (2003), dai seni, dalle vagine, dagli occhi e dalle bocche delle donne spuntano delle radici, intrecci di fili che sembrano avvolgere e torturare chi li ha generati. La serie Senhora das plantas (2019) ritrae corpi femminili dai quali si diramano viluppi di radici e piante, e in cui le donne raffigurate assumono un ruolo attivo nella materializzazione della vita. Nella serie Jatobá (2019) tronchi emergono dal suolo e si innalzano fino a confondersi con corpi umani che, a loro volta, si fondono e sono avvolti da fiori, piante e alberi. La presenza delle radici rizomatiche evidenzia l’interesse dell’artista per la biologia, reso ancora più esplicito in alcuni studi di animali e disegni a carattere biologico che rappresentano organismi in uno stato costante di mutazione e trasformazione. Nella serie di disegni antropomorfi Carapace of Protection, eseguita nel primo decennio del Duemila, delle figure emergono da alcuni bozzoli, nei quali il processo di metamorfosi concede ai corpi – a metà tra essere umano e insetto – un momentaneo senso di euforia in quella che è un’affascinante esistenza transitoria. Rivelando la promessa di trasformazione e la possibilità di evitare paradigmi immutabili, la pelle diventa la reliquia di un tempo passato e simboleggia la caduta delle costrizioni. Nei suoi disegni, Paulino offre l’opportunità di ricostruire identità, storie e miti condannando, al tempo stesso, la violenza del dominio e dell’emarginazione perpetrata a scapito degli afrodiscendenti, e soprattutto, dei corpi delle donne di colore. – LC

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Rosana Paulino, from Jatobá series, 2019. Acquarello, grafite su carta, 65 × 50 cm. Photo Bruno Leão. Courtesy l’Artista; Mendes Wood DM São Paulo, Brussels, New York. © Rosana Paulino

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Rosana Paulino, from Jatobá series, 2019. Acquarello, grafite su carta, 65 × 50 cm. Photo Bruno Leão. Collezione privata. Courtesy l’Artista; Mendes Wood DM São Paulo, Brussels, New York. © Rosana Paulino Rosana Paulino, from Senhora das Plantas series, 2019. Acquarello, grafite su carta, 37,5 × 27,5 cm. Photo Bruno Leão. Collezione privata. Courtesy l’Artista; Mendes Wood DM São Paulo, Brussels, New York. © Rosana Paulino Rosana Paulino, from Senhora das Plantas series, 2019. Acquarello, grafite su carta, 37,5 × 27,5 cm. Photo Bruno Leão. Collezione privata. Courtesy l’Artista; Mendes Wood DM São Paulo, Brussels, New York. © Rosana Paulino

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T H AO N G U Y E N P H A N

1987, Ho Chi Minh Vive a Ho Chi Minh, Vietnam

Formatasi come pittrice, l’artista vietnamita Thao Nguyen Phan realizza installazioni e video che esaminano storia e civiltà attraverso un intreccio tra reale e immaginario. L’opera di Phan mescola mitologia e folclore a temi urgenti come l’amnesia storica, l’industrializzazione, la sicurezza alimentare e l’ambiente. I suoi progetti recenti esplorano la bellezza e la sofferenza che circondano il fiume Mekong, che, partendo dall’altopiano del Tibet, attraversa la provincia cinese dello Yunnan, il Myanmar, la Thailandia, il Laos e la Cambogia prima di raggiungere il mare lungo la costa del Vietnam. Combinando riferimenti letterari, biografie immaginarie, pseudodocumentari e rivisitazioni di storie popolari, Phan analizza i cambiamenti sociali e ambientali occorsi lungo il fiume a causa del cambiamento climatico, del sovrasfruttamento delle risorse ittiche, della costruzione di dighe e del saccheggio subito dal patrimonio culturale in seguito al colonialismo. L’ultimo film di Phan, intitolato First Rain, Brise-Soleil (2021–in corso), approfondisce le esplorazioni dell’artista nella regione del Mekong attraverso una narrazione intrisa di poesia. Il film si apre con una citazione di Matsuo Bashō, poeta giapponese del periodo Edo, per proseguire con la storia di un artigiano khmer specializzato nella costruzione di brise-soleil, le strutture frangisole diffuse in tutto il Sud del mondo per ombreggiare e arieggiare gli ambienti e che, in città come Ho Chi Minh (prima del 1976 chiamata Saigon), uniscono le tecniche tradizionali vietnamite di costruzione artigianale a un materiale come il calcestruzzo, associato al dominio statunitense. Attraverso la narrazione in prima persona di un personaggio immaginario, l’opera tratta il tema dell’imperialismo statunitense nella regione e la guerra cambogianovietnamita del 1977–1991. Nella seconda parte, il film è ambientato al tempo delle guerre feudali del XVIII secolo, incentrandosi sulla storia d’amore tra un guaritore vietnamita e una donna khmer che si dipana lungo il simbolismo del frutto durian, di cui il delta del Mekong è una delle principali aree di produzione. Opponendo la solitudine del contesto urbano di Saigon al paesaggio apparentemente lussureggiante del Mekong, Phan affronta il tema dell’amore romantico dal punto di vista di diverse donne, dando forma a una narrazione che si trasforma e fluisce come il fiume stesso. Esponendo la violenza e la distruzione sperimentate dal delta del Mekong nel passato e nel presente, First Rain, Brise-Soleil propone una visione più delicata della modernità, che abbraccia la poesia e il lirismo della cultura indigena e il fragile ecosistema della regione. – IW

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Thao Nguyen Phan, Becoming Aluvium (still), 2019–2020. Video a colori a canale singolo, 16 min 40 sec. Prodotto e commissionato da Han Nefkens Foundation in collaborazione con Joan Miró Foundation, Barcelona; WIELS Contemporary Art Centre, Brussels; Chisenhale Gallery. Courtesy l’Artista

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Thao Nguyen Phan, First Rain, Brise-Soleil (still), 2021–in corso. Installazione video a tre canali, colore, suono, 16 min. Courtesy l’Artista; Galleria Zink Waldkirchen, Germania. © Thao Nguyen Phan

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B R I T TA M A R A K AT T - L A B B A

1951, Idivuoma, Sápmi/Svezia Settentrionale. Vive a Övre Soppero, Sápmi/Svezia Settentrionale

L’artista Britta Marakatt-Labba proviene da una famiglia di allevatori di renne che vive in Sápmi, uno dei territori più settentrionali del pianeta, patria delle comunità indigene dei Sami, che attraversa il Nord di Norvegia, Svezia, Finlandia e Russia. Per più di quarant’anni, nella sua pratica artistica Marakatt-Labba ha legato inscindibilmente i metodi di narrazione visiva alla cultura di queste popolazioni e al paesaggio nordico, realizzando opere toccanti che alternano passato e presente grazie all’unione di antiche usanze, pratiche culturali, tradizioni orali e miti con ricordi personali e momenti di vita quotidiana. Ferma sostenitrice dell’autodeterminazione e della decolonizzazione di questa terra, alla fine degli anni Settanta Marakatt-Labba entra a far parte del Sámi Dáidujoavku, gruppo di artiste e artisti Sami impegnati nell’affermazione della propria autonomia artistica e attivi nelle proteste contro l’espansione dell’industria estrattiva e delle centrali idroelettriche nella regione. Marakatt-Labba è conosciuta per i suoi poetici ricami eseguiti con sottili fili di lana, seta e lino su tessuto bianco, nonché per stampe, illustrazioni, scenografie e costumi realizzati per il cinema e il teatro. Tra le opere più celebrate figura Historjá (2003–2007), un racconto ricamato lungo ventiquattro metri che narra la storia, il territorio e la cosmologia delle popolazioni Sami in una rappresentazione che, per il carattere monumentale e il livello di dettaglio, rimanda ad altri epici capolavori tessili del passato, come l’arazzo di Bayeux. Raffigurazione di un paesaggio culturale eterogeneo, Historjá presenta scene e narrazioni che sono spesso considerate marginali nella storia ufficiale. Nei nuovi ricami, intitolati Milky Way e In the Footsteps of the Stars (entrambi del 2021), i paesaggi sembrano rifratti attraverso una sfera o riflessi in un occhio, in un rimando alle proiezioni ellittiche impiegate per realizzare le immagini bidimensionali dei planisferi. All’interno degli spazi delineati da questi confini, Marakatt-Labba evoca immagini di piante, animali, stelle e figure che indossano ladjogáhpir rossi, i particolari copricapi delle donne Sami sovrastati da un corno ricurvo in legno e ricoperto di tessuto ricamato. In passato oggetto di divieto da parte delle autorità cristiane, oggi il ladjogáhpir conosce un ritorno di popolarità con il movimento per l’autonomia dei Sami. I ricami di Marakatt-Labba, grazie al distintivo ibridismo iconografico dell’artista, gettano dunque un ponte tra la storia culturale dei Sami e il presente. – MW

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Britta Marakatt-Labba, Circle 4, 2021–2022. Ricami, appliqué, 35 × 35 cm. Photo Hans Olof Utsi. Collezione privata. Courtesy l’Artista

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Britta Marakatt-Labba. View, 2020. Ricami, appliqué, 162 × 30 cm. Photo Hans Olof Utsi. Northern Norwegian Museum of Art, Tromsø, Norway. Courtesy l’Artista Britta Marakatt-Labba. Felled, 2021. Ricami, appliqué, 128 × 35 cm. Photo Hans Olof Utsi. Northern Norwegian Museum of Art, Tromsø, Norway. Courtesy l’Artista

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E G L Ė B U DV Y T Y T Ė IN COLLABORAZIONE CON MARIJA OLŠAUSKAITĖ E JULIJA STEP ONAITYTĖ

Eglė Budvytytė 1981, Kaunas, Lituania Vive a Vilnius, Lituania e Amsterdam, Paesi Bassi In collaborazione con Marija Olšauskaitė e Julija Steponaitytė 1989, Vilnius Vive a Vilnius, Lituania e New York City, USA 1992, Vilnius Vive a Vilnius, Lituania e Amsterdam, Paesi Bassi

Lavorando all’intersezione di musica, poesia, video e performance, l’artista lituana Eglė Budvytytė esplora il potere della collettività, della vulnerabilità e della permeabilità nelle relazioni tra i corpi e gli ambienti che essi abitano. Si avvicina al movimento e al gesto come tecnologie per un possibile sovvertimento della normatività di genere e dei ruoli sociali, dimostrando il potere della performance di rovesciare le narrazioni dominanti che governano lo spazio pubblico. In alcune opere esamina l’arrogante dominio degli esseri umani su animali, piante, batteri e funghi, tutti elementi essenziali al mantenimento delle ecologie. Songs from the Compost: mutating bodies, imploding stars (2020) è un film girato tra le foreste di licheni e le dune di sabbia della penisola dei Curoni, in Lituania. Qui Budvytytė attinge dagli scritti della biologa Lynn Margulis sulla teoria dell’endosimbiosi – l’interazione e la cooperazione di organismi compositi – così come dal mondo speculativo della scrittrice di fantascienza Octavia E. Butler, i cui testi stravolgono la gerarchia antropocentrica attraverso tropi di ibridazione e simbiosi. Il video è accompagnato da ipnotici paesaggi sonori, da una composizione musicale del sound artist Steve Martin Snider, e dalla voce narrante dell’artista stessa, che, amplificata attraverso un processore di effetti vocali, si riverbera mentre Budvytytė cambia forma tra generi, identità e stati, dando origine a un ipnotico ciclo di feedback. Alternandosi tra una fitta foresta e la spiaggia ondeggiante, i primi fotogrammi del video raffigurano dei corpi che camminano in stato di trance attraverso il bosco e che giacciono vicini l’uno all’altro sul terreno ricoperto di licheni della foresta. Grovigli rizomatici si manifestano in una figura irta di squame, fusa con e inglobata dagli elementi naturali. Un coro di voci chiede l’abolizione del genere attraverso l’incarnazione di esseri non binari. Superando la spiaggia in striscianti contorsioni fino a raggiungere l’acqua, i corpi si discostano dalla presunta superiorità della verticalità umana. Questi corpi personificano l’interdipendenza, la disintegrazione e la decadenza, confutando l’illusione di autonoma autosufficienza. Songs from the Compost: mutating bodies, imploding stars dimostra la necessità di reti interconnesse tra esseri umani e non umani che possano nutrire le relazioni interspecie. – LC

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Eglė Budvytytė in collaborazione con Marija Olšauskaitė e Julija Steponaitytė, Songs from the Compost: mutating bodies, imploding stars (stills), 2020. Video in 4K, 30 min. Courtesy l’Artista. © Eglė Budvytytė

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NIKI DE SAINT PHALLE

1930, Neuilly-sur-Seine, Francia – 2002, La Jolla, USA

L’opera di Niki de Saint Phalle è incentrata sulla ricerca di una “libertà totale”. L’artista persegue l’autonomia non solo rispetto alle realtà sociali a dominanza maschile proprie della sua educazione e ai mondi artistici attraversati nel corso della vita, ma anche contro le limitazioni imposte dai committenti, dalle istituzioni tradizionali delle belle arti e dai singoli linguaggi artistici. De Saint Phalle è conosciuta soprattutto per le sue Nanas (in francese colloquiale “pollastrelle”), dinamiche gigantesse dalle tonalità caleidoscopiche che troviamo ancora saltellare in piazze e fontane cittadine, e nel Giardino dei Tarocchi (1979–2002), il grande parco di sculture che l’artista realizza in Toscana popolandolo di creature fantastiche ornate di mosaici e specchi. Il lavoro di de Saint Phalle ha del prodigioso nel suo rimbalzare tra i generi. Dopo aver avviato la propria carriera con una serie di Tirs, realizzati sparando con una carabina per far esplodere sacchetti di pittura sulla tela, l’artista amplia presto la propria pratica creando sculture, installazioni, opere d’arte pubblica, architetture, giardini, parchi giochi, video e film, oltre a diverse serie di edizioni come litografie, bambole gonfiabili, profumi e gioielli, che le hanno consentito di raggiungere un pubblico vastissimo e di finanziare i suoi più ambiziosi progetti all’aperto. Le forme femminili create da de Saint Phalle sono ampie e prorompenti, con seni, addomi e glutei accentuati da immagini di cuori, fiori, soli e cerchi concentrici simili a mandala. I corpi scolpiti diventano contenitori di fantasia, gioia e cura e custodi delle aspettative del singolo osservatore rispetto al corpo femminile. Con Hon-en katedral (1966), opera presentata al Moderna Museet di Stoccolma e frutto della collaborazione tra de Saint Phalle, il suo compagno Jean Tinguely e altri artisti, i visitatori possono letteralmente entrare nella scultura, che giace supina, attraverso l’apertura posta tra le gambe. Qui, la figura femminile diviene una casa in cui dimorare e in cui abbondano i preconcetti su lavoro e ruoli domestici. Imponente con i suoi oltre 2,5 metri di altezza, Gwendolyn (1966 / 1990) è una delle prime Nanas monumentali di de Saint Phalle, realizzata in resina di poliestere. Le curve ampie e sinuose di Gwendolyn sono contrapposte a una testa e dei piedi minuscoli e non enfatizzano adeguatamente la sua gravidanza, che è invece annunciata con orgoglio dal grande bersaglio dipinto sull’addome. È possibile che l’opera debba il nome a Gwynne, figlia della migliore amica dell’artista Clarice Rivers, il cui ritratto è considerato l’ispirazione originale di de Saint Phalle per la serie delle Nanas. – MK

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Niki de Saint Phalle, Gwendolyn, 1966 / 1990. Resina di poliestere dipinta su base in metallo, 262,3 × 200,3 × 125,1 cm. Courtesy l’Artista; Salon 94, New York. © Niki Charitable Art Foundation

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ZUCCA

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R U T H A S AWA M Á R I A B A R T U S Z O VÁ A L E T TA J A C O B S M A RU JA M A L L O M A R I A S I BY L L A M E R I A N S O P H I E TA E U B E R -A R P T O S H I K O TA K A E Z U BRIDGET TICHENOR T E C L A T O FA N O


Nel suo saggio del 1986 intitolato The Carrier Bag Theory of Fiction, Ursula K. Le Guin riprende la radicale riformulazione della genesi della cultura umana elaborata dall’antropologa Elizabeth Fisher per spiegare il potere pervasivo della narrazione. Fisher ipotizza che la capacità di invenzione umana nasca dagli atti di raccolta e cura, che in genere sono stati trascurati in favore delle narrazioni eroiche e tendenzialmente maschili di dominio sulla natura. Invece delle frecce e delle lance da caccia, spesso identificate come le prime invenzioni tecnologiche umane, Le Guin ci ricorda che le prime creazioni dei nostri antenati non possono che essere state i contenitori per conservare noci, bacche, frutti e cereali, insieme alle borse e alle reti usate per trasportarli. “L’abbiamo sentita, abbiamo tutti sentito dei bastoni e delle lance e delle spade, […] delle cose lunghe e dure”, scrive Le Guin, “ma non abbiamo sentito della cosa in cui mettere le cose, il contenitore per la cosa contenuta. Questa è una storia nuova. È una novità”. Il testo di Le Guin ci esorta a considerare il contenitore come metafora per pensare attraverso la tecnologia e la scrittura narrativa, a riconoscere che le storie non sono prometeiche né apocalittiche, piuttosto dei recipienti che aprono spazi all’espressione della vita. Partendo dalla potente metafora di Le Guin, questa presentazione è concepita come un’iconologia di recipienti in varie forme – tra cui reti, borse, uova, gusci, ciotole e scatole – e dei loro legami simbolici, spirituali o metaforici con la natura e con il corpo, sia realizzati in forme scultoree simili a borse, sia in ceramiche volumetriche o in esplorazioni scientifiche della riproduzione corporea. Tenendo conto delle argomentazioni di alcune critiche femministe contro la tendenza a collegare simbolicamente il corpo femminile a un contenitore – in particolare, durante la gestazione –, questa presentazione considera il recipiente non solo come un veicolo vuoto per trasportare altri oggetti, ma come potente dispositivo metaforico e strumento espressivo a pieno titolo. Gli oggetti di design di Sophie Taeuber-Arp, ad esempio, sono contenitori funzionali impregnati dell’ethos della modernità attraverso la loro decorazione astratta. Le sculture uterine che Ruth Asawa intreccia con il fil di ferro restano aperte e trasparenti, senza un esterno o un interno definibili e in costante trattativa con l’ambiente circostante. Per contrasto, la porcellana vivacemente smaltata e il grès di Toshiko Takaezu sono pienamente chiusi, ed evocano corpi planetari o la fertilità e il mistero della natura. Forme volumetriche sono esplorate come recipienti per trasportare la vita nello studio meticoloso di insetti e fiori del Suriname di Maria Sibylla Merian, con una particolare attenzione al genio scultoreo della natura, e nei corpi delle fantastiche creature a carapace che popolano i quadri di Bridget Tichenor. Il motivo ricorrente dell’uovo – recipiente che è prodotto e a sua volta crea nuova vita – nei calchi in gesso ovoidali di Mária Bartuszová incontra i più letterali modelli in cartapesta dell’utero usati da Aletta Jacobs nei suoi pionieristici studi anatomici. Le ceramiche di Tecla Tofano, invece, instillano un potente immaginario politico e femminista in un mezzo espressivo tradizionalmente sessualizzato e svalutato, mentre Maruja Mallo trasforma le forme concave delle conchiglie in precari ritratti di corpi sensuali. Sculture sospese nel soggiorno dell’abitazione di Ruth Asawa a Noe Valley, 1991. Photo © Laurence Cuneo. Courtesy David Zwirner. Artwork © 2021 Ruth Asawa Lanier, Inc. / Artists Rights Society (ARS), NY

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UN CONTENITORE CHE COSA POTREBBE ESSERE? Christina Sharpe

Il contenitore si presenta come forma, recipiente, sacca, corpo, nave e ci sono ceramiste e ceramisti, tessitrici e tessitori e pittrici e pittori che trattano materiali tattili, apparentemente impenetrabili, trasformandoli in forme agili, sinuose, fragili, vigorose e aggraziate. Sono artiste e artisti che lavorano con l’intelligenza del materiale. E le opere che ne risultano suggeriscono ciò che un contenitore potrebbe essere, fare o indicare. Ecco dunque le sculture sospese in filo metallico di Ruth Asawa: opere intricate, fluide e permeabili realizzate a mano.

Ruth Asawa, Untitled (S.030, Hanging Eight Separate Cones Suspended through Their Centers), 1952 ca. Photo Dan Bradica. Collezione privata. Courtesy David Zwirner. Artwork © 2021 Ruth Asawa Lanier, Inc. / Artists Rights Society (ARS), New York

Indicano movimento, congelano il movimento. Il movimento è insito anche nella loro immobilità. Le forme richiamano la vita vegetale: sono botaniche e organiche. Quella che per Asawa era “la loro forma continua” è tratta dal mondo naturale e sembra, perlomeno a me, un gesto che possiede porosità, necessità di trasformazione, necessità di mutare forma. Sono forme che si contrappongono a un certo tipo di rigidità formale e materiale, sono eleganti, giocose e precise. Scrive Thessaly La Force: “Sono stata in una galleria in cui erano appese le sculture in filo metallico di Asawa. Ondeggiavano sospinte dal movimento del mio corpo mentre le ombre del filo intrecciato danzavano sul pavimento. Per un attimo, mi sono sentita dolcemente trasportata altrove: nel profondo del mare, in una foresta o forse in un qualche luogo del tutto ultraterreno” 1. Le sculture sono stratificate, rendono visibile il movimento tra l’interno e l’esterno. Sono meditazioni sul flusso mutevole, sulla permeabilità, su

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Una foglia una zucca un guscio


ciò che è dentro e ciò che è fuori. Sono biomorfiche, piene di occhi, o uova. Sembrano rendere esplicito molto di ciò che potrebbe essere un contenitore: il carico di rottura, la vulnerabilità e l’elasticità di un corpo o di una forma, il modo in cui potrebbe cedere, il modo in cui potrebbe o non potrebbe tornare allo stato iniziale. Ci sono forme e quelle che sembrano essere figure e figure all’interno delle figure e ci sono linee. Asawa racconta: “Ero interessata all’economia di una linea, a fare qualcosa nello spazio, a racchiuderlo senza bloccarlo. È ancora trasparente. Mi sono resa conto che se volevo creare queste forme, che si incastrano e si intrecciano, lo potevo fare solo con una linea perché una linea può andare ovunque” 2. Una linea può essere una sorta di contenitore. Tratta atlantica degli schiavi, Middle Passage, rivoluzione haitiana e vudù si uniscono nel dipinto di Frantz Zéphirin The Slave Ship Brooks (2007), una rivisitazione dell’omonima nave.

Frantz Zéphirin, The Slave Ship Brooks, 2007. Photo Marcus Rediker. Collezione Marcus Rediker

La storica Brooks appare e riappare. C’è la nave Brooks che fece undici viaggi e salpò per la prima volta da Liverpool nel 1781. Ci sono poi i disegni in sezione della Brooks creati nel 1787 e diffusi dagli abolizionisti per descrivere il modo crudele in cui erano stipati gli schiavi all’interno della nave e che, con la dicitura “Descrizione di una nave negriera”, furono usati come strumento a sostegno dell’abolizionismo. In quei disegni i 454 africani immaginati nello spazio della stiva sono disposti in file ripetute e sono in gran parte, anche se non del tutto, indifferenziati. Le decine e decine di figure sono passive, i loro corpi usati per mettere in evidenza la crudeltà del sistema più efficiente adottato per lo stivaggio e il trasferimento degli africani durante la lunga e spaventosa traversata atlantica. La cosmologia della Brooks di Zéphirin ci rivela gli occhi di quegli africani chiusi nella stiva della nave mentre sono sorvegliati dai membri dell’equipaggio rappresentati come animali: un topo e una poiana impugnano fucili, un coccodrillo brandisce una lancia, un cinghiale regge un fucile e una frusta. Una figura scheletrica, le spalle rivolte alla stiva, con un cannocchiale scruta l’orizzonte. Un’altra figura, che pare essere il capitano, regge un manifesto o un atto di vendita. C’è stata una rivolta a bordo di questa nave e ci sono undici uomini africani, parzialmente sommersi, legati uno accanto all’altro per il collo e incatenati allo scafo. “Due degli schiavi, a destra Toussaint Louverture e a sinistra Dutty Boukman, si liberano dalle catene e con il braccio sollevato in un gesto carico di speranza, annunciano la rivoluzione haitiana che si apprestano a guidare” 3. Naturalmente né Boukman né Louverture si trovavano sulla nave negriera Brooks ma, in ogni viaggio fatto da quella nave, e in ogni viaggio compiuto da ogni singolo schiavista, c’erano desideri e azioni rivolti alla libertà. “Ogni capitano dava per scontato che gli schiavi avrebbero fatto di tutto per fuggire” 4. Qui sono raffigurate molteplici apocalissi, ma anche molteplici inizi. Questa nave-contenitore si muove da secoli. È un passaggio continuo?

Magdalene Odundo, Untitled Vessel, Symmetrical Series, 2009. Photo Lewis Ronald. Collezione privata. Courtesy l’Artista; Thomas Dane Gallery. © Magdalene Odundo

Che spazio c’era su quelle spaventose navi per la fragilità, per lo spirito, per il delicato contenitore del corpo?

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Arsenale


Le sublimi sculture in ceramica di Magdalene Odundo coniugano la morbidezza del corpo in quanto contenitore e il contenitore come oggetto che si anima nelle sue mani. Queste sculture in terracotta sono lucide, paraboliche, scavate e solide allo stesso tempo. Dice l’artista: “Da sempre identifico l’argilla con l’umanità che è dentro di noi, fragile come il nostro corpo. Può ribaltarsi. È sempre all’erta, ma se spingi anche solo un po’ sul perno sbagliato, ti spezzerà il cuore” 5. Il corpo non è dopotutto un contenitore? Un contenitore che racchiude contenitori, vene, arterie. Il corpo è un vuoto? Un contenitore è una forma, un colore? Per molti anni, all’inizio di ogni discorso, Simone Leigh ha affermato due cose: che il proprio lavoro è incentrato sulle donne nere e che noi, donne nere, costituiamo il pubblico principale cui è rivolta la sua opera. È importante ascoltare e conoscere questo aspetto. Questa premurosa supremazia è la pratica della cura messa in atto da Leigh – anche se, anche quando gli spazi della cura in cui ci introduce sono effimeri.

Simone Leigh, Brick House, 2019. Photo Timothy Schenck. Collezione privata. Courtesy l’Artista; the High Line. © Simone Leigh

Leigh ha “pensato al lavoro delle donne nere, alle forme di conoscenza che portano dentro di loro, a quali lavori svolgono e a cui non viene dato valore” 6. La sua Brick House (2019), alta quasi cinque metri, è la scultura in bronzo di una donna, con un’acconciatura afro e quattro treccine, ognuna chiusa e decorata da una conchiglia di ciprea. Leigh immagina le treccine di Brick House come contrafforti: sono difesa, fortificazione, sostegno. Il busto è una combinazione di forme, gonna e casa insieme. Leigh intreccia il corporeo, l’utilizzabile, l’abitabile e l’etereo. Qui abbiamo il corpo come un contenitore che il mondo cerca di rompere, ma nelle mani e nell’immaginazione dell’artista assume valore, viene accudito, reso intensamente bello. Un contenitore è una persona “in cui è infuso qualcosa (come la grazia)”7?+ Lasciando New York City alla fine del 2019, ho intravisto per l’ultima volta Brick House che si ergeva sopra la High Line e ne sono rimasta conquistata. Quindi, un contenitore potrebbe essere una nave, una persona, una casa, un recipiente, una pianta, un guscio, un’amaca, un oggetto incrinato e antropomorfo simile a un uovo. Potrebbe essere un recipiente, una forma che contiene liquidi o solidi, o anche una figura che consente il movimento, il trasferimento, la trasformazione, la metamorfosi o il passaggio dell’aria e della luce. Potrebbe essere un mezzo di fuga. Che cos’è un contenitore in un’epoca di crescente catastrofe? Una casa è un contenitore? Una nazione lo è? Che cosa è, o dovrebbe o potrebbe essere un contenitore in tempi di rifiuto e di resistenza? Un contenitore è un modo per re-immaginare? Che cos’è, o potrebbe essere, un contenitore alla fine di un mondo e all’inizio di un altro?

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È un movimento come l’abolizionismo? Un movimento dotato della capacità di creare le condizioni per l’intera nostra prosperità? Che cos’è un contenitore quando gli incendi boschivi sono tanto estesi e roventi da produrre pirocumulonembi che propagano il fuoco nell’aria? Sono incendi talmente giganteschi da formare nuvole che generano proprie condizioni atmosferiche. Che cos’è un contenitore quando nel Canada occidentale le nuvole di fuoco provocano 710.117 fulmini nel giro di quindici ore? Che cos’è un contenitore quando un miliardo di creature marine – cozze, vongole, stelle marine e lumache – cuociono nel loro stesso guscio?

Mária Bartuszová, Untitled (dalla serie Endless Egg), 1985. Photo Michael Brzezinski. Courtesy The Estate of Mária Bartuszová, Košice; Alison Jacques, London. © The Archive of Mária Bartuszová, Košice

Un contenitore è allora una conchiglia? Un contenitore è allora un oceano? Un contenitore puzza di putrefazione? Se si bolle nella propria pelle, un contenitore può contenerci? Che cos’è un contenitore quando i falchetti implumi saltano dai nidi per sfuggire al caldo estremo? Un nido è contenitore? Un uovo, lo è? Che cos’è un contenitore quando i livelli del mare si stanno alzando e i titoli a caratteri cubitali delle ultime notizie avvertono che la calotta glaciale della Groenlandia ha subito il maggior scioglimento mai avvenuto 8? Che cos’è un contenitore quando nel fiume Sacramento i giovani salmoni rischiano di morire perché l’acqua è troppo calda per mantenerli in vita? Alcuni pesci sono stati portati in altri specchi d’acqua su camion e altri in aereo. “Prendere o sollevare per mezzo di un contenitore”. È il corpo o l’essere portati, un contenitore? Che cos’è un contenitore quando “le pire funerarie bruciano e i becchini non conoscono riposo?” 9. Un contenitore è vulnerabile? È febbrile? Un contenitore è un sudario? È una bara? Qual è il contenitore per piangere tutto ciò? Che cos’è un contenitore quando la temperatura di bulbo umido – ovvero la temperatura alla quale il sudore non evapora più e quindi gli esseri umani non possono più disperdere calore – rischia di essere raggiunta in diversi luoghi del mondo? Che cos’è un contenitore per contenere una pelle? Una membrana? Una vita? Che cos’è un contenitore quando nei primi sei mesi del 2021 più di 1146 persone sono morte nel Mar Mediterraneo mentre tentavano di raggiungere le coste europee? Questi migranti, profughi da condizioni brutali, sono stati abbandonati alla deriva e talvolta sono annegati, o sono morti per la disidratazione e il caldo. Le potenze europee pensano che non intervenire in loro soccorso impedirà alle persone di fuggire da vite invivibili, quelle stesse vite

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invivibili prodotte dalle attività estrattive e dallo sfruttamento perpetrato dalle stesse potenze. Che cos’è un contenitore quando si è rinchiusi nella stessa stiva che, a partire dalle prime navi fino a queste ultime, contrassegna le economie capitaliste? Ci sono navi che non sono concepite per trasportare un gran numero di persone e che tuttavia attraversano il Mediterraneo e l’Atlantico stipate di centinaia di persone che hanno lasciato un Paese e stanno tentando di raggiungerne un altro alla ricerca di un qualcosa come la sicurezza. Un contenitore è una fossa? Che cos’è un contenitore in un periodo di siccità in cui al tempo stesso si muore annegati? Che cos’è un contenitore quando il deserto del Sahara si sta espandendo nel Sahel? Che cos’è un contenitore quando i funzionari europei abbandonano più di cinquecento migranti a rischio di annegamento nel Mar Mediterraneo? Un contenitore è una brocca di plastica un tempo piena di acqua potabile e ora vuota? Un contenitore è un oceano non potabile e impraticabile? Che cos’è un contenitore quando ci sono oltre 1862 piattaforme petrolifere nel Golfo del Messico e l’oceano brucia per la rottura di un oleodotto? Un contenitore è una piattaforma fissa o è una piattaforma mobile? E l’oceano? Che cos’è un contenitore quando le foreste in Siberia bruciano? Quando tutto è in fiamme? Un contenitore è una pianta? È una foresta? Ci sono contenitori che si muovono e contengono migliaia di turisti. Si chiamano navi da crociera. Ci sono contenitori che si muovono e contengono centinaia di lavoratori. Anche questi sono chiamati navi da crociera. Che cos’è un contenitore quando quei lavoratori sono bloccati per mesi su navi che non si muovono e non possono tornare al Paese d’origine perché le frontiere sono state chiuse a causa della diffusione del Covid-19? Che cos’è un contenitore inteso per il piacere, ma non per la vita?

Bridget Tichenor, Tarde Alegre, 1955. Photo Javier Hinojosa. Collezione privata. © Estate of Bridget Tichenor

Che cos’è questo contenitore, la Ever Given, una delle navi da carico più grandi al mondo, con “una stazza lorda di 220.940 tonnellate, stazza netta di 99.155 e portata lorda di 199.629” 10, bloccata nel canale di Suez e che ha creato un ingorgo di più di altre venti navi da carico? Che cos’è un contenitore quando l’uomo più ricco del mondo finanzia un volo privato suborbitale mentre i suoi dipendenti con salario minimo

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dormono in tende vicino ai magazzini dove lavorano, o vivono in camper nei parcheggi perché non possono permettersi un alloggio? Che cos’è un contenitore quando questi stessi lavoratori sono costretti a indossare dei pannolini o a urinare nelle bottiglie perché le esigenze di produttività precludono le pause per il bagno? Un camper è un contenitore? Un parcheggio è un contenitore? Migliaia e migliaia di metri quadrati di magazzino sono un contenitore? Che cos’è un contenitore spinto ai limiti della sopportazione? 1

Thessaly La Force, The JapaneseAmerican Sculptor Who, Despite Persecution, Made Her Mark, in “The New York Times Style Magazine”, 20 luglio 2020 (www.nytimes. com/2020/07/20/t-magazine/ ruth-asawa.html). 2 Ruth Asawa, a Working Life, in Google Arts & Culture, contenuto adattato da The Sculpture of Ruth Asawa: Contours in the Air, catalogo della mostra (San Francisco, Fine Arts Museums of San Francisco, 18 novembre 2006 – 28 gennaio 2007), a cura di Daniell Cornell, Berkeley (CA), University of California Press, 2006 (https://artsandculture. google.com/exhibit/ruth-asawa-aworking-life/hAIygGBPp11bIg). 3 Marcus Rediker, Motley Crews and the Crucible of Culture: The Art of Frantz Zéphirin, in “Beacon Broadside”, 12 agosto 2014 (www.beaconbroadside. com/broadside/2014/08/the-art-offrantz-zephirin.html). 4 Mahamdallie Hassan, Marcus Rediker, The Slave Ship: Marcus Rediker, in “Socialist Review”, 320, dicembre 2007 (http://socialistreview.org.uk/320/ slave-ship-marcus-rediker). 5 New Work by Magdalene A.N. Odundo Dbe, mostra personale (New York City, 3E 89th Street, Salon 94, 8 maggio – 30 luglio 2021; https://salon94.com/artists/ magdalene-an-odundo). 6 Rianna Jade Parker, “What We Carry in the Flesh”: The Majestic Bodies of Simone Leigh, in “Frieze”, 4 giugno 2019 (www.frieze.com/article/ what-we-carry-flesh-majestic-bodiessimone-leigh). 7 Secondo il Merriam-Webster, una definizione del vocabolo “Vessel” [qui reso principalmente come “contenitore”, N.d.T.] è: “A person into whom some quality (such as grace) is infused”. Cfr. Merriam-Webster.com Dictionary, Merriam-Webster (www.merriamwebster.com/dictionary/vessel). 8 Kasha Patel, The Greenland Ice Sheet Experienced a Massive Melting Event Last Week, in “The Washington Post”, 8 agosto 2021 (www.washingtonpost.com/ weather/2021/08/05/ greenland-melt-event-season-2021). 9 David Pierson, M.N. Parth, Funeral Pyres Burn. Gravediggers Know No Rest. India’s Covid-19 Crisis Is a “Nightmare”, in “Yahoo! News”, 28 aprile 2021 (https://news.yahoo.com/funeral-pyresburn-gravediggers-know-190718726. html). 10 Ruth Michaelson, Michael Safi, Tugs, Tides and 200,000 Tons: Experts Fear Ever Given May Be Stuck in Suez for Weeks, in “The Guardian”, 27 marzo 2021 (www.theguardian.com/ world/2021/mar/27/ tugs-tides-and-200000-tons-expertsfear-ever-given-may-be-stuck-in-suezfor-weeks). 11 Derrick Bell, The Space Traders, precedentemente pubblicato in Bell, Faces at the Bottom of the Well: The Permanence of Racism, New York, Basic Books, 1992.

Che cos’è un contenitore quando un altro degli uomini più ricchi del mondo finanzia un aereo spaziale supersonico? Maggiore colonizzazione, maggiori insediamenti, più violenza, un sistema più brutale di allontanamento e spostamento di persone da un luogo all’altro. Nel racconto di Derrick Bell The Space Traders 11, alla fine del XX secolo arrivano centinaia di navi per portare via tutte le persone di colore, nude e in catene, destinate ancora una volta alla schiavitù in un altro nuovo mondo. Sono questi i contenitori? Che cos’è un contenitore che si muove e si ferma di fronte alla malvagia logistica del salvabile e del degno, del prezioso, dell’usa e getta e del fungibile? Annegare e volare sono la stessa cosa? Qual è la giustapposizione di un contenitore? Il corpo è un contenitore. Ci sono persone contraddistinte solo come semplici contenitori, carne, plastica, sacrificabili, fungibili, svalutate. Ce ne sono altre contrassegnate come perfettibili e portatrici di conoscenza; altre definite come portatrici di malattie. Ci sono contenitori contrassegnati per lavorare; persone contrassegnate per morire. C’è l’immaginazione come contenitore. Un contenitore è un inventario? Un contenitore che cosa potrebbe essere? Che cosa potrebbe essere alla fine di questo mondo? What Could a Vessel Be? (Un contenitore che cosa potrebbe essere?) Copyright ©+2021, Christina Sharpe. Tutti i diritti riservati

Christina Sharpe è scrittrice, docente e titolare della Canada Research Chair in Black Studies in the Humanities presso la York University di Toronto. Ha pubblicato Monstrous Intimacies: Making Post-Slavery Subjects (Duke University Press, 2010) e In the Wake: On Blackness and Being (Duke University Press, 2016). Il suo terzo libro, Ordinary Notes, uscirà nel 2022 (Knopf/FSG/Daunt). Attualmente sta lavorando a una monografia intitolata Black. Still. Life. (Duke University Press, 2025). I suoi saggi recenti compaiono in “Art in America”; Okwui Enwezor e Naomi Beckwith, Grief and Grievance: Art and Mourning in America (Phaidon, 2020); Sarah Meister et al., Dorothea Lange: Words & Pictures (MoMa, 2020); Alison Saar: Of Aether and Earthe, a cura di Alison Saar e Irene Tsatsos (Benton Museum of Art at Pomona College, 2020); Reconstructions: Architecture and Blackness in America, a cura di Sean Anderson e Mabel O. Wilson (MoMa, 2021); e in Jennifer Packer: The Eye Is Not Satisfied with Seeing, a cura di Melissa Blanchflower e Natalia Grabowska (Walther König, 2021). 373

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Ruth Asawa, Untitled (S.273, Hanging Nine-Lobed, Single Layered Continuous Form), 1959 ca. Filo di rame nichelato, 238,76 × 45,72 × 45,72 cm. Photo Laurence Cuneo. Collezione privata. Courtesy David Zwirner. © 2021 Ruth Asawa Lanier, Inc. / Artists Rights Society (ARS), NY Aletta Jacobs, Womb Models by the Ateliers Auzoux, 1840. Modello in cartapesta, 25 × 25 × 25 cm. Photo S.L. Ackermann, University Museum Groningen. © Universitymuseum Groningen Sophie Taeuber-Arp, Geometric Forms and Letters (Pompadour), 1920. Perle di vetro, cordoncino, tessuto, 17,3 × 13 × 0,3 cm. Photo Alex Delfanne. © Stiftung Arp e.V., Berlin / Rolandswerth In alto a sinistra: Mária Bartuszová, Untitled, 1984–1985. Gesso, 11 × 11 × 12 cm. Photo Michael Brzezinski. Courtesy The Estate of Mária Bartuszová, Košice; Alison Jacques, London. © The Archive of Mária Bartuszová, Košice In alto a destra: Mária Bartuszová, Untitled, 1984–1985. Gesso, 17,5 × 17,5 × 20 cm. Photo Michael Brzezinski. Courtesy The Estate of Mária Bartuszová, Košice; Alison Jacques, London. © The Archive of Mária Bartuszová, Košice In basso a sinistra: Mária Bartuszová, Untitled (dalla serie Endless Egg), 1985. Gesso, 30,5 × 14,5 × 11 cm. Photo Michael Brzezinski. Courtesy The Estate of Mária Bartuszová, Košice; Alison Jacques, London. © The Archive of Mária Bartuszová, Košice In basso a destra: Mária Bartuszová, Untitled, 1986. Gesso, 15 × 13 × 11 cm. Photo Michael Brzezinski. Courtesy The Estate of Mária Bartuszová, Košice; Alison Jacques, London. © The Archive of Mária Bartuszová, Košice Toshiko Takaezu, Untitled Closed Form, 1960. Grès smaltato, 17,5 × 16,5 × 16,5 cm. Photo William E Hacker. Collezione privata. © The Family of Toshiko Takaezu Bridget Tichenor, La Espera (The Wait), 1961. Olio su masonite, 25 × 38 cm. Photo Javier Hinojosa. Collezione privata. © Estate of Bridget Tichenor Maruja Mallo, Naturaleza viva XIV, 1943. Olio su masonite, 42,9 × 30,5 cm. Colección Leandro Navarro, Madrid. Courtesy Galeria Leandro Navarro, Madrid; Ortuzar Projects, New York. © VEGAP Toshiko Takaezu, Cherry Blossom / Sakura, 2000 ca. Grès smaltato, 132 × 59 × 59 cm. Photo William E Hacker. Collezione privata. © The Family of Toshiko Takaezu Maria Sibylla Merian, Metamorphosis Insectorum Surinamensium, Tavola 5, 1719, seconda edizione. Incisione colorata a mano su carta, 52,07 × 36,83 cm. Photo Lee Stalsworth. Courtesy the National Museum of Women in the Arts, Washington, D.C., Gift of Wallace and Wilhelmina Holladay Maria Sibylla Merian, Metamorphosis Insectorum Surinamensium, Tavola 48, 1702–1703. Acquarello e bodycolor con gomma arabica su linee leggermente incise su pergamena, 38,4 × 27,7 cm. Courtesy Royal Collection Trust / © Her Majesty Queen Elizabeth II 2021 Tecla Tofano, Vessel with personage (dalla serie The Canned), 1969. Terracotta e ceramica smaltata, 40 × 24 × 24 cm. Photo Luis Becerra. Collezione Luis Felipe Farias. Courtesy Daniel Cordova. © Estate of Tecla Tofano Tecla Tofano, On the way to liberation (dalla serie Of the Female Gender), 1975. Terracotta e ceramica smaltata, 30 × 20 × 12 cm. Photo Luis Becerra. Collezione Luis Felipe Farias. Courtesy Daniel Cordova. © Estate of Tecla Tofano

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BIO GRAFIE DELLE ARTISTE

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R U T H A S AWA 1926, Norwalk, USA – 2013, San Francisco, USA Ruth Asawa – artista innovativa e sostenitrice dell’educazione all’arte – è nota per le sue intricate sculture sospese in filo metallico, concepite come disegni lineari in uno spazio tridimensionale. Nata in una famiglia di orticoltori nel Sud rurale della California, Asawa inizia a praticare arte sin da adolescente, durante la Seconda guerra mondiale, all’epoca della detenzione in un campo di internamento imposta dal governo statunitense a lei, alla sua famiglia e a migliaia di persone di origine giapponese, tra cui alcuni animatori della Walt Disney, che le insegnano a disegnare e dipingere. Dopo il suo rilascio, Asawa si iscrive al Milwaukee State Teachers College, ma a causa della perdurante discriminazione contro i giapponesi americani, le viene negata la licenza di insegnante. Si rivolge quindi al leggendario Black Mountain College, vicino ad Asheville, nella Carolina del Nord. Lì, tra il 1946 e il 1949, condivide gli spazi di apprendimento e di vita con John Cage, Willem de Kooning, Robert Rauschenberg, Jacob Lawrence, Gwendolyn Knight, Anni Albers, nonché con il suo futuro marito, l’architetto Albert Lanier. I suoi mentori includono l’artista ed ex docente della Bauhaus Josef Albers, l’architetto e inventore Richard Buckminster Fuller e il coreografo d’avanguardia Merce Cunningham, i cui insegnamenti innovativi in ambito di spazio, forma, materia e movimento costituiscono un’influenza duratura e determinante nel suo lavoro. Dopo essersi trasferita a San Francisco nel 1949, Asawa inizia a costruire sculture sospese, trasformando materiali industriali di uso quotidiano – ottone grezzo, acciaio e filo di rame pesante – in forme sferiche sinuose e aggraziate che, nonostante la tridimensionalità, non contengono alcuna massa interna. Ispirata a una tecnica di intreccio di ceste appresa durante una vacanza estiva in Messico nel 1947, all’epoca del suo periodo al Black Mountain College, le sculture in filo metallico di Asawa come Untitled (S.030, Hanging Eight Separate Cones Suspended through Their Centers; 1952 ca.) si fondano sulle qualità specifiche del materiale da lei scelto. Sfruttando la malleabilità, traslucidità

e robustezza del filo, la scultura sospesa Untitled (S.101, Hanging Single-Lobed, Five-Layered Continuous Form within a Form; 1962 ca.) è composta da una serie di bozzoli diafani in filo di bronzo – forma che conferisce all’opera un’identità quasi uterina. Nella loro allusione a forme quali onde, piante e alberi, le creazioni sinuose di Asawa attuano un uso specifico della connessione formale tra le superfici interne ed esterne dell’opera, una relazione che l’artista da tempo descrive come interdipendente e integrale. – MW

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M Á R I A B A R T U S Z O VÁ 1936, Praga, Cecoslovacchia (attuale Repubblica Ceca) – 1996, Košice, Slovacchia Anche nei rari casi in cui non sono realizzate in gesso, le oltre cinquecento opere dell’artista ceca Mária Bartuszová sembrano essere la traccia di una natura misteriosa di cui, così fragili, organiche e in qualche caso effimere, evocano forme e qualità sensibili. Fin dagli anni Sessanta, una volta lasciata Praga, sua città natale, e trasferitasi a Košice, l’artista avvia una ricerca delicata e ossessiva che utilizza materiali poveri per confrontarsi – e forse collaborare – con la potenza generativa dei fenomeni naturali. Appendendo dei grandi palloni di plastica a un supporto e versando al loro interno delle colate di gesso, Bartuszová utilizza la forza di gravità per creare delle forme rotondeggianti e astratte che ricordano nidi, semi, uova e, talvolta, possono sembrare parti materne o erotiche del corpo umano. Uno dei suoi primi lavori, Untitled (Drop) (1963–1964), ad esempio, non è altro che una grande goccia di gesso candido che, appesa al ramo di un albero e ottenuta con quella che l’artista chiama la tecnica del gravistimulated casting, è eternamente arrestata nel fatale momento della sua caduta. Questa sensazione di precarietà fisica accompagna Bartuszová anche negli anni Ottanta quando, ormai definitivamente ispirata dal mondo naturale, produce una serie di sculture ricorrentemente ovoidali che, oltre a simulare la purezza delle forme organiche, ne ripropongono la fragile deperibilità. Rispetto alle forme piene dei lavori precedenti, infatti, i calchi in gesso realizzati in questa fase di sperimentazione sono sempre cavi e fatti di sottili e

fragilissime patine di materiale intero o frammentato. Bartuszová li realizza con una tecnica definita pneumatic shaping che, a differenza del procedimento utilizzato negli anni Sessanta, non prevede il riempimento dei palloncini in plastica ma il loro rivestimento; prima che le superfici esterne collassino sotto la pressione generata dalla solidificazione del gesso, l’artista modella la forma del palloncino deformandola, comprimendola, stratificandola e infine legandola con delle corde. Se questi “organismi viventi” – come li definisce Bartuszová – ricordano inevitabilmente le fattezze di uova o bozzoli già schiusi o pronti a farlo, il loro essere oggetti rotondi, spesso legati e uniti in configurazioni collettive, li rende simbolo di un’umanità inclusiva fatta di relazione e confronto. – SM

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A L E T TA J A C O B S 1854, Sappemeer, Paesi Bassi – 1929, Baarn, Paesi Bassi Tra i tanti primati di Aletta Jacobs, che nel corso della sua carriera è stata la prima donna ammessa in un’università olandese e per molto tempo l’unica a esercitare la professione medica nei Paesi Bassi, c’è anche quello di essere stata una delle maggiori rappresentanti internazionali del movimento femminista. Oltre ad aver presieduto l’Associazione per il suffragio femminile olandese e con essa essersi battuta fino a ottenere il suffragio universale il 9 agosto 1919, Aletta Jacobs ha abbinato il coraggio delle più importanti battaglie civili alla solidità di una preparazione scientifica, allora considerata un esclusivo privilegio maschile. Dopo aver aperto il primo consultorio del Paese, avviato una delle più importanti campagne di sensibilizzazione anticoncezionale ed essersi battuta per l’abolizione della prostituzione, nel 1897 Jacobs pubblica il volume De Vrouw. Haar bouw en haar inwendige organen (La donna. La sua corporatura e i suoi organi interni); un contributo innovativo per la letteratura scientifica che, coadiuvato da tavole scomponibili illustrate dalla stessa studiosa, descrive dettagliatamente il corpo della donna – sistema riproduttivo compreso. Come sottolinea la prefazione alla prima

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edizione del volume, la ricerca aveva soprattutto uno scopo divulgativo e, nonostante non escludesse la possibilità di colmare l’ignoranza di alcuni colleghi uomini, mirava a spiegare il funzionamento degli organi genitali al crescente numero di donne che non volevano più guardare alla propria sessualità come a un mistero. Le parole e i disegni di Jacobs, infatti, descrivono il corpo come un contenitore di organi distinti, ognuno con il proprio compito e senza alcuna gerarchia, che contribuiscono in maniera sinergica al perfetto funzionamento dell’organismo. D’altra parte, la stessa letteratura scientifica di fine Ottocento stava iniziando a riordinare le scoperte della fisiologia moderna e, quando non poteva studiarne la complessità grazie alla dissezione dei cadaveri, riproduceva le parti del corpo umano con plastici di studio. I modelli di utero realizzati dalla pionieristica bottega di Auzoux, ad esempio, sono delle vere e proprie sculture che, riprodotte in scala e realizzate in cartapesta dettagliatamente colorata, descrivono diversi stadi di una gravidanza con esiti tanto scientifici quanto artistici. Sicuramente sono l’esempio di una crescente attenzione medica al corpo femminile e, essendo stati utilizzati come materiale di studio da Aletta Jacobs, sembrano conservare la tenacia del suo congiunto impegno scientifico e civile. – SM

capacità di rappresentare scene irreali con estrema disinvoltura. Conchiglie, alghe, ortensie, coralli, uva, gerani e, più in generale, esemplari del mondo marino e terrestre sono sospesi in atmosfere oniriche o fondali uniformi che, montati uno sull’altro, sembrano generare delle strane figure ibride simili al cadavre exquis. Ma mentre il gioco surrealista prevede l’accostamento casuale e automatico di più immagini o parole, l’artista è ben consapevole del forte simbolismo che veicolano i suoi lavori. Riconoscendo a ogni elemento della composizione un’affinità specifica con una parte del corpo femminile, ottiene delle eccentriche silhouette in cui la componente floreale corrisponde sempre alla capigliatura e grandi conchiglie definiscono il busto o il ventre. La loro concavità è una chiara allusione agli organi sessuali femminili che, proprio come un guscio, contengono il materiale organico più prezioso o sono la sede del più audace desiderio erotico. In ogni caso un’accezione non esclude l’altra: secondo Maruja Mallo il corpo della donna è il contenitore di una complessità che, come dimostra la foto in Cile e ribadisce un buffo appellativo affibbiatole dall’amico Dalí, rende lei stessa una creatura “mitad ángel, mitad marisco” (metà angelo, metà crostaceo). – SM

rati demoniaci dalla cultura del tempo, sono in realtà creature capaci di affascinanti trasformazioni. Da quel momento le loro metamorfosi sono l’unico soggetto della sua pratica artistica che, supportata dal puro empirismo, si traduce in una straordinaria documentazione scientifica capace di rivoluzionare l’iconografia naturalistica. Per la prima volta, ad esempio, i sessanta coloratissimi acquerelli contenuti in Metamorphosis Insectorum Surinamensium mostrano una novantina di specie di animali insieme alla pianta su cui avviene la metamorfosi. Nella tavola numero 11 l’artista rappresenta un esemplare di Erythrina fusca, comunemente conosciuto come albero di corallo, mentre ospita tra le sue foglie e i suoi baccelli un gruppo di larve, bruchi e crisalidi destinati a trasformarsi nelle falene della seta che gli volano intorno. In un’altra, la numero 5, Merian raffigura il ciclo vitale di una falena di tipo Pseudosphinx tetrio che, di un colore dorato e con una vistosa proboscide arricciata, è rappresentata con una certa licenza artistica mentre si avvina a una radice di manioca abitata da un boa. Al di là di ogni valutazione scientifica, lo scenario offerto da queste immagini è quello di una natura spettacolare, ciclica e delicata che apre l’immaginazione a un mondo magico in cui ogni dettaglio è pronto a trasformarsi in altro. – SM

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M A R I A S I BY L L A M E R I A N (p. 378)

M A RU JA M A L L O 1902, Viveiro, Spagna – 1995, Madrid, Spagna Una fotografia scattata nel 1945 sulle rive cilene dell’Oceano Pacifico ritrae l’artista spagnola Maruja Mallo come una strana divinità marina, mentre in piedi su una roccia è ricoperta dalla testa ai piedi da un groviglio di alghe lunghe e filamentose. Pur essendo la documentazione di un momento conviviale trascorso insieme al poeta e amico Pablo Neruda, l’immagine dell’ironico travestimento riassume sia la fascinazione che la pittrice nutre per il mondo naturale, sia la sensibilità con cui ne approccia l’iconografia. A partire dal 1936, quando lo scoppio della Guerra civile spagnola la costringe ad abbandonare Madrid e a rifugiarsi in Argentina, la produzione artistica di Mallo si allontana dalle ricerche surrealiste condivise con l’amico Salvador Dalí e sembra avvicinarsi alle sensibilità latinoamericane del Realismo Magico. Già dal titolo, la serie di lavori pittorici Naturaleza viva (1942) si sottrae alle atmosfere cupe spesso associate al genere pittorico della natura morta e, utilizzando colori brillanti, pattern ipnotici e forme seducenti, si caratterizza per la straniante

(p. 379)

1647, Francoforte sul Meno, Libera Città Imperiale del Sacro Romano Impero (attuale Germania) – 1717, Amsterdam, Repubblica Olandese (attuali Paesi Bassi) Nel 1705 la naturalista e disegnatrice Maria Sibylla Merian pubblica il libro Metamorphosis Insectorum Surinamensium, un volume fondamentale per l’entomologia moderna, in cui attraverso tavole minuziosamente decorate e un corpus testuale in latino e olandese, la studiosa espone i risultati di una ricerca sugli insetti condotta in Suriname cinque anni prima. Nel 1699 Merian affronta il primo viaggio per scopi scientifici mai intrapreso da una donna e, arrivata nella colonia olandese dopo mesi di navigazione, dedica i successivi due anni a raccogliere materiale di studio sul ciclo vitale delle farfalle tropicali. A differenza di altri scienziati europei che utilizzano i coloni come manovalanza, Merian si lascia guidare dagli abitanti delle comunità locali e, grazie alle loro conoscenze, perfeziona il suo metodo di studio. La fascinazione per gli insetti risale alla prima giovinezza, quando apprendista disegnatrice nello studio artistico del patrigno, comincia ad allevare e collezionare bachi da seta. Il suo acuto sguardo di disegnatrice incontra quello di studiosa e, in poco tempo, le permette di capire che quegli strani animali conside-

T O S H I K O TA K A E Z U 1922, Pepeekeo, USA – 2011, Honolulu, USA Tutti i lavori che l’artista hawaiana Toshiko Takaezu realizza a partire dagli anni Sessanta sono l’esempio di una sorprendente maestria nell’arte ceramica, perfezionata dopo un lungo soggiorno in Giappone alla ricerca delle sue origini. Sia che si tengano sul palmo di una mano, sia che superino le dimensioni di un individuo, le sue opere sono oggetti rotondeggianti, riccamente decorati e rigorosamente cavi. Le loro fattezze lavorate al tornio o modellate a mano risultano simili a quelle dei più comuni vasi, ma non si prestano a conservare alcun materiale. A eccezione di un’impercettibile apertura nella parte sommitale del manufatto – peraltro necessaria allo sfiato dei gas in fase di cottura –, la maggioranza dei lavori di Takaezu si caratterizza per forme allungate o sferiche che, quasi completamente chiuse, delimitano uno spazio di aria scura e inaccessibile allo sguardo. Questo misterioso ambiente corrisponde all’essenza delle sue sculture e, come l’anima per il corpo, ne definisce l’unicità. Tale investitura mistica e ancestrale, in effetti, rende ogni opera una figura totemica che, anche quando installata collettivamente come nelle serie Trees

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Una foglia una zucca un guscio


(1970 ca.) o Stars (1999), mantiene un’identità specifica esaltata dal trattamento delle superfici e dalla scelta cromatica. Mentre le pareti esterne di tutte le sculture di Takaezu ricordano la levigatezza dei paesaggi vulcanici da cui l’artista proviene, il colore che le ricopre è caratterizzato da segni e colature imprecisi che, ottenuti dall’immersione di ogni scultura in almeno due o tre tinte differenti, richiamano le sfumature dei paesaggi reali o immaginati, con cui Takaezu ha avuto a che fare. Gli Untitled (Stoneware), ad esempio, hanno le fattezze di bizzarri corpi celesti e appartengono alla serie di lavori intitolati Moons (1980–2000 ca.). Talvolta chiamati con il corrispettivo hawaiano Mahina, sono delle sfere di grès con un piccolo foro alla base. Blu e dorate, perlate e ocra, opache o lucide, queste opere sono decorate con tocchi di colore affini all’immaginario cosmologico cui si riferiscono e, quando radunate in installazioni collettive, sembrano unite da una narrazione misteriosa quanto i loro interni. Cullate su amache e sospese tra gli alberi come nella celebre installazione Gaea (Earth Mother) (1990), queste sculture di Takaezu alludono alla fertilità della natura o del ventre materno. – SM

(p. 375)

S O P H I E TA E U B E R -A R P 1889, Davos, Svizzera – 1943, Zurigo, Svizzera Questa artista è presente anche in La seduzione del cyborg. Per leggere la biografia dell’artista, cfr. p. 526.

(p. 377)

BRIDGET TICHENOR

dell’onirico con una precisione tecnica maniacale. La stessa Tichenor, che fino a quel momento ha lavorato come indossatrice per Coco Chanel e poi come editor di “Vogue”, ha ricevuto una formazione pittorica accademica e ha studiato prima in Italia con Giorgio de Chirico e poi negli Stati Uniti con Paul Cadmus. Mentre dal maestro avanguardista ha ripreso l’evidente approccio metafisico, dall’amico newyorkese ha appreso le tecniche pittoriche dell’antica tempera all’uovo e le ha messe al servizio di una fascinazione per la mitologia precolombiana, il misticismo e per una serie di narrazioni criptiche dal forte valore simbolico. Gli stessi individui-guscio, in effetti, sembrano pervasi da una strana forza occulta e non è detto che le loro sembianze, così sinuosamente caratterizzate da corpi-contenitori, non si riferiscano all’iconografia mostruosa e grottesca con cui le colleghe naturalizzate messicane, Carrington e Varo tra tutte, trattano la rappresentazione del corpo. Il lavoro Dueto solitario (1964), ad esempio, raffigura un desolato paesaggio vulcanico in cui sono inserite due grandi conchiglie maculate dipinte con precisione scientifica. Entrambe hanno l’apertura del guscio rivolta verso lo spettatore, ma, mentre una è completamente chiusa e allude esplicitamente all’anatomia dei genitali femminili, l’altra è ampia e capiente e, nella propria cavità, custodisce una Luna antropomorfa dallo sguardo ipnotico. Attingendo al firmamento di mitologie che associano il corpo celeste a un immaginario magicamente sacrale, Tichenor racconta la conchiglia come una donna che, oltre a essere un incubatore di maternità, può diventare una divinità ammaliante e seducente in perfetta comunione cosmica con la natura. – SM

1917, Parigi, Francia – 1990, Città del Messico, Messico

(p.380)

Tra le tante creature fantastiche che popolano i lavori pittorici dell’artista Bridget Tichenor spiccano degli strani personaggi dai volti umani che, spesso dotati di lunghe zampe da insetto, vivono all’interno di gusci, carapaci o corazze. I loro corpi ibridi hanno dimensioni ciclopiche e, solitari o in gruppo, sovrastano paesaggi naturali dalle atmosfere sospese, crepuscolari e chiaramente riferibili al Surrealismo o al Realismo Magico. Come la quasi totalità della produzione pittorica di Tichenor, questi dipinti sono realizzati a partire dagli anni Cinquanta, quando, stabilitasi in Messico, condivide le ricerche delle amiche europee Leonora Carrington, Remedios Varo e Alice Rahon che, espatriate in Centro America per sfuggire agli orrori della guerra, si dedicano alla rappresentazione

1927, Napoli, Italia – 1995, Caracas, Venezuela

T E C L A T O FA N O

Tecla Tofano rifiuta di conformarsi allo stile artistico dominante imposto dalla controparte maschile nel Venezuela degli anni Sessanta e Settanta. Quando lo Zeitgeist esige astrazione, lei esplora lo stile figurativo. Quando va di moda la pittura, Tofano diventa una ceramista. E quando arriva la Pop Art con la produzione seriale, Tofano realizza sculture rigorosamente a mano. Forse, più di tutto, si oppone al maschilismo in Venezuela e, lottando per l’uguaglianza tra uomini e donne, promuove perfino alternative di genere non binario, come nella sua mostra Ella, él… ellos (1978) alla Galería de Arte Nacional di Caracas, caratterizzata dall’esposizione di grandi figure in ceramica che presentano una

donna, un uomo e una persona senza genere. Nel corso di un’intensa carriera, la sua opera è sistematicamente all’avanguardia. Tofano lascia Napoli nel 1952 per trasferirsi a Caracas insieme al marito venezuelano. Poco dopo si iscrive alla Escuela de Artes Plásticas y Artes Aplicadas per studiare ceramica e smalto con il ceramista Miguel Arroyo. In questa prima fase, tra la metà degli anni Cinquanta e il 1963, Tofano realizza oggetti in ceramica tradizionali e funzionali avvalendosi di un tornio a ruota. Concepiti come recipienti dai colori vivaci e dalla superficie ruvida, privi di decori ed elementi narrativi, questi oggetti sono ispirati alla semplicità giapponese e scandinava. È promotrice del movimento politico di sinistra Movimiento al Socialismo, attivista del collettivo femminista Miércoles e fondatrice del Centro de Estudios de la Mujer all’Universidad Central de Venezuela, e in questo periodo anche la sua opera appare impegnata politicamente. Dal 1964 al 1978 la sua attenzione si sposta dalla ceramica al figurativo; realizza opere modellate a mano e installazioni su grande scala spesso caratterizzate da parti del corpo e oggetti di uso quotidiano che riflettono uno stile asimmetrico e una finitura ruvida. On the Way to Liberation (dalla serie Of the Female Gender) è una delle opere più significative di Tofano, esposta per la prima volta nel 1975 in occasione della personale Del género femenino alla Galería Viva México di Caracas. Questa statuetta raffigura una donna incinta con le mani intrecciate sopra la testa mentre dal suo ventre fuoriesce un serpente che si avvolge a spirale attorno al simbolo femminile capovolto, che diventa croce. En vía de liberación affronta simultaneamente il sacrificio della maternità e, in modo critico, la natura remissiva dell’istinto materno all’interno della società. Nel corso della sua carriera, nelle vesti di artista, autrice e organizzatrice, Tofano si è battuta contro l’oppressione sistematica delle minoranze, impegnandosi strenuamente a favore della legittimazione delle donne e della promozione di un futuro libero dai tradizionali ruoli di genere. – IA

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FRANTZ ZÉPHIRIN

1968, Cap-Haïtien, Haiti Vive a Port-au-Prince, Haiti

La carriera artistica di Frantz Zéphirin inizia ai tempi in cui, ancora ragazzino, dipinge quadri raffiguranti le residenze coloniali che si stagliano lungo la costa di Cap-Haïtien, per poi venderli ai turisti delle navi da crociera che fanno scalo nella città portuale. Da adolescente, inizia a esporre in gallerie locali, celando la sua vera età: autodidatta e risoluto, sviluppa rapidamente uno stile distintivo che coniuga colori vivaci e motivi intricati in composizioni affollate, incentrate sul paesaggio di Haiti e la sua complessa storia di schiavitù, ribellione, rivoluzione e resistenza spirituale. Cap-Haïtien, o Le Cap, era il porto principale dell’ex colonia francese e, durante il XVIII secolo, vi faceva scalo un numero inimmaginabile di navi che trasportavano schiavi rapiti in Africa occidentale. The Slave Ship Brooks (2007) ritrae la famigerata nave negriera Brooks, che trasportava nei Caraibi migliaia di schiavi africani. In questa potente composizione, l’artista inverte gli effetti di disumanizzazione: gli schiavisti sono ritratti come animali, mentre gli africani sono umani costretti a sbirciare fuori dal ventre del vascello. Le figure incatenate allo scafo sono i ribelli, precursori di coloro che avrebbero guidato la Rivoluzione haitiana e messo fine al dominio coloniale francese. Il fervore artistico di Zéphirin discende da questo retaggio di ribellione e indipendenza conquistata a caro prezzo. L’opera di Zéphirin coglie, inoltre, la potenza del vudù, religione maggioritaria di Haiti sviluppatasi combinando elementi del cattolicesimo e delle religioni tradizionali dell’Africa centrale e occidentale. Zéphirin stesso è un sacerdote vudù e attualmente vive e lavora in un tempio situato sulle montagne di Port-au-Prince. Spesso connesso al Surrealismo per le sue incursioni nel fantastico, l’artista preferisce definire il proprio stile “animalismo storico”: dipinti storici saturi dell’energia mistica del vudù e della ricchezza faunistica e floristica di Haiti. Al centro di Les Esprits Indien en face Colonisation (2000) compare una sirena, per metà indigena Taíno e per metà pesce; per braccia ha un serpente e un uccello e il suo volto riporta i motivi della maschera rossa della morte. Sullo sfondo, al largo, si distingue un vascello spagnolo, El Conquistador, che porta malattia e persecuzione nei Caraibi. La donna ha uno sguardo deciso e diretto, lo stesso dell’uomo africano che si affaccia dal suo petto, presagio del rapimento e del lavoro forzato degli africani che avrebbero soppiantato i nativi vittime di eccidio. Insieme, i due mettono l’osservatore davanti a ciò che rappresentano per l’artista: l’oltraggio morale per i milioni di vite perdute a causa del colonialismo e del genocidio. – IA

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Frantz Zéphirin, The Slave Ship Brooks, 2007. Olio su tela, 76,2 × 101,6 cm. Photo Marcus Rediker. Collezione Marcus Rediker

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C É L E S T I N FA U S T I N

1948, Lafond, Haiti – 1981, Pétion-Ville, Haiti

Il paesaggio onirico dai toni psichedelici raffigurato nel dipinto di Faustin dal titolo Pourtant ma Maison est Vide (1979) coglie uno spazio intriso di spiritualità, fantasia, erotismo e dilemma metafisico: il luogo in cui si incontrano vivi e spiriti. Esemplare dimostrazione del virtuosismo tecnico e della vivida immaginazione dell’artista, l’opera rappresenta una dimensione straordinaria dell’arte haitiana del XX secolo ispirata dal vudù, credenza diffusa sull’isola che affonda le sue radici nelle religioni dell’Africa occidentale, in quelle del popolo indigeno Taíno, nel cattolicesimo, nell’Islam, nel folclore europeo e nella massoneria. La generazione di Faustin, erede del “Rinascimento haitiano”, negli anni Quaranta e Cinquanta orbita intorno a pittori come Hector Hyppolite, il cui interesse per i sogni e l’inconscio collima con l’arte surrealista attirando personaggi come André Breton e Aimé Césaire. In questo contesto Faustin ritrae l’esperienza vissuta dei mondi mitici e spirituali, altrimenti invisibili, che plasmano attivamente la vita sociale e politica di Haiti. Nipote di una sacerdotessa vudù, in gioventù Faustin viene dichiarato unito in matrimonio mistico con Erzulie Dantor, l’irruente loa (spirito) vudù dell’amore materno, che si diceva gli conferisse l’eccezionale talento artistico ma, per contro, ne controllasse tormentosamente i sogni. La breve vita di Faustin si consuma in gran parte durante il brutale regime dei Duvalier, i famigerati padre e figlio conosciuti come Papa Doc e Bébé Doc, al potere dal 1957 al 1986. Nella sua opera, l’artista non affronta direttamente le vicende politiche del suo tempo, ma le visioni surreali di paradisi spirituali che permeano i suoi dipinti, come Jardin d’Éden (1979), mettono in scena il poetico tormento dell’essere vivi. In Pourtant ma Maison est Vide, immagini allucinatorie si dissolvono in un cupo paesaggio surreale dominato in primo piano da due figure nude, azzurre e glabre, intente a preparare la macellazione rituale di una pecora; sono Erzulie Dantor, che impugna un coltello, e un uomo magro, seduto a terra, che tiene la mano sinistra sull’inguine, a sua protezione. Sullo sfondo, in un’ulteriore espressione del toccante mix di vudù, realtà storica e tormento psicologico, una donna dall’aspetto spettrale indugia sull’uscio di una capanna mentre un uomo con un machete, che gli storici identificano con lo schiavo fuggiasco simbolo della rivoluzione haitiana Nèg Mawon, si affretta verso le montagne avvolte nell’ombra. Come rifletteva lo stesso intellettuale martinicano Édouard Glissant, “il mito prefigura la storia quanto ne ripete necessariamente gli accidenti che ha trasfigurato, vale a dire che è a sua volta produttore di storia”. – MW

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Édouard Glissant, Caribbean Discourse: Selected Essays, Charleston (VA), University of Virginia Press, 1989, 71.

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Célestin Faustin, Pourtant ma Maison est Vide, 1979. Olio su tela, 30,48 × 40,64 cm. Photo Marcus Rediker. Collezione Marcus Rediker Célestin Faustin, Respectez ce contrat, 1981. Olio su tela, 40,64 × 60,96 cm. Photo Marcus Rediker. Collezione Marcus Rediker

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M Y R L A N D E C O N S TA N T

1968, Port-au-Prince Vive a Port-au-Prince, Haiti

Con la sua innovazione artistica del drapo Vodou, la bandiera vudù, Myrlande Constant ha modificato profondamente il modo in cui l’arte sacra del suo Paese viene recepita da chi non ha dimestichezza con le tradizioni di Haiti. Nella religione haitiana, le bandiere sono oggetti sacri rituali che onorano gli spiriti che rappresentano. Storicamente sono realizzate con paillettes scintillanti che evocano i loa, o gli “invisibili”, spiriti che conducono gli esseri umani al cospetto di Bondyé, il divino creatore. Durante il dispiegamento cerimoniale della bandiera, i loa vengono evocati affinché dimorino nei corpi della congregazione, in un momento di trasformazione corporea. Constant opera in un ambiente interamente maschile di fabbricanti di bandiere, quando, nei primi anni Novanta, imprime un cambiamento radicale alla tradizione sostituendo i lustrini con perline di vetro. L’artista apprende questa laboriosa tecnica di ricamo con perline chiamata tambour lavorando accanto alla madre in una fabbrica locale di abiti nuziali. Inizialmente, la singolarità dei manufatti realizzati da Constant fa sì che la sua arte venga considerata distintamente femminile, ma dopo trent’anni di dedizione a questa pratica, il metodo e lo stile di Constant influenzano ogni creatore di drapo Vodou oggi in attività. Le sue bandiere sono di grande formato, spesso larghe fino a due metri, fissate a telai di legno. Sul retro, Constant disegna le sue affollate e animate composizioni, che poi vengono ricamate a mano con le perline dall’artista e dai suoi molti assistenti. In un atto di per sé sacro, l’artista non vede mai il fronte prima che sia ultimato. Le opere di Constant, in cui colori vivaci e sfumature iridescenti rendono multidimensionale il piano della trama, fondono la cultura contemporanea con la storia haitiana e la religione vudù: idoli e santi cristiani (che pure appartengono a questo sistema ibrido di credenze) sono spesso immersi in atmosfere magiche, intercalate da momenti umoristici, su bandiere che esistono tanto come opere d’arte autonome, quanto come oggetti sacri. In una cornice immaginifica fatta di chitarre elettriche, pesci albini e ricami di perle puramente decorativi, Sirenes (2020) mostra un gruppo di loa che emergono dal mare in un esuberante raduno. Le figure sono esseri ibridi, i cui corpi trasmutano da umani ad animali, a creature mitiche. In modo analogo, GUEDE (Baron) (2020) mette in risalto il sincretismo della religione vudù e della cultura haitiana presentando spiriti della fertilità e defunti attorniati da altari, croci e pentacoli pagani. Coniugando simboli iconici a una tecnica innovativa, l’audace opera di Constant arricchisce la fluidità culturale che alimenta nel profondo l’anima di Haiti, sfidando le tradizionali connotazioni di genere. – IA

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Myrlande Constant, GUEDE (Baron), 2020. Paillettes, perline di vetro, nappe di seta su cotone, 224 × 216 × 10,5 cm. Photo Armando Vaquer. Laura Lee Brown and Steve Wilson, 21c Museum Hotels. Courtesy l’Artista; CENTRAL FINE Gallery, Miami Beach. © Myrlande Constant

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Myrlande Constant, Saint Nicolas, 2020. Paillettes, perline di vetro, nappe di seta su tela, 200 × 226 cm. Photo Armando Vaquer. Collezione privata. Courtesy l’Artista; CENTRAL FINE Gallery, Miami Beach. © Myrlande Constant

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Myrlande Constant, Sirenes, 2020. Paillettes, perline di vetro, nappe di seta su tela, 208 × 261 cm. Photo Armando Vaquer. Collezione privata. Courtesy l’Artista; CENTRAL FINE Gallery, Miami Beach. © Myrlande Constant

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FELIPE BAEZA

1987, Guanajuato, Messico Vive a New York City, USA

Mi apro contro la mia volontà sognando altri pianeti Sogno altri modi di vedere questa vita Queste parole danno il titolo a un imponente dipinto di Felipe Baeza, artista che, combinando collage, materiali vari (come spago e paillettes), tempera all’uovo e incisione, realizza opere bidimensionali fortemente materiche. I sogni di altri pianeti, di un’altra vita, prendono forma attraverso corpi, spesso metà umani e metà vegetali, ritratti in uno stato di trasformazione. Da teste umane prorompe un ricco fogliame, che si impossessa di tronco e arti e si fa eroticamente strada dentro e fuori bocche bramose. Quello di Baeza è un linguaggio passionale, reso più intenso dall’utilizzo di una gamma cromatica tra viola, indaco, nero, rosso sangue e ciliegia. In linea con i concetti che definiscono la sua opera, l’approccio di Baeza alla materia è visibile anche nei nuovi lavori in mostra alla Biennale Arte 2022, seguito di una serie alla quale l’artista lavora dal 2018. Avvalendosi di carta e decalcomanie, dapprima Baeza costruisce le sue figure, strato dopo strato, su pannelli, tela e carta e successivamente leviga, incide e altera fisicamente gli elementi di ogni composizione. Nel contribuire a ridefinire i tradizionali processi pittorici e grafici, questa intensa manipolazione materica si collega all’intento dell’artista di creare corpi ibridi, o “corpi profughi”, come lui stesso afferma. Riflettendo sulla propria esperienza di migrante dal Messico agli Stati Uniti e sulla migrazione in atto a livello globale, le sue opere, densamente stratificate, ritraggono esseri umani, corpi interspecie e piante nell’atto di fondersi in un processo di metamorfosi. Descritti dall’artista come lettere d’amore, i suoi dipinti e collage sono profondamente intimi, una forma di fantasioso autoritratto e costruzione del futuro – i corpi emarginati e liberati di Baeza si ergono trionfanti, una dichiarazione a sostegno dei molti stati dell’essere e della molteplicità dei modi di intendere e vivere la vita. Baeza esplora il “corpo profugo” in una serie di collage su carta dal titolo Gente del Occidente de México (2017–2019). Fondendo l’antico con il contemporaneo, Baeza combina una serie di fotografie di sculture precolombiane in pietra con frammenti di corpi umani tratti da giornali di moda e riviste erotiche. L’incontro tra pietra e carne dà vita a nuovi esseri che, né umani né reperti, incarnano in qualche modo entrambe le categorie. Quest’opera, come quelle più recenti, sancisce il riconoscimento e l’accettazione di tutte le identità politicizzate storicamente rinnegate. – IA

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Felipe Baeza, Por caminos ignorados, por hendiduras secretas, por las misteriosas vetas de troncos recién cortados, 2020. Inchiostro, Flashe, acrilico, vernice, spago, tempera all’uovo, ritagli di collage su carta, 227,33 × 280,67 cm. Photo Ian Byers-Gamber. Collezione Thelma and AC Hudgins. Courtesy Maureen Paley, London. © Felipe Baeza

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Felipe Baeza, Don’t draw attention to yourself you’re already… (dettaglio), 2022. Inchiostro, ricamo, spago, acrilico, collage di carta su tela, 91,44 × 76,2 cm. Photo Brad Farwell. Courtesy Maureen Paley, London. © Felipe Baeza Felipe Baeza, Wayward (dettaglio), 2021. Inchiostro, ritagli di carta, grafite, spago, acrilico, collage su carta, 167,64 × 121,92. Collezione Allison and Larry Berg. Courtesy Maureen Paley, London. © Felipe Baeza

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LU I Z RO Q U E

1979, Cachoeira do Sul, Brasile Vive a San Paolo, Brasile

Grattacieli high-tech nel deserto, luci scintillanti di megalopoli erette tra le montagne sudamericane, abitazioni sotterranee, cani a bordo di jet privati vuoti, nuvole di fumo che si alzano da edifici modernisti in fiamme: nei cortometraggi dell’artista brasiliano Luiz Roque, opere d’arte e oggetti modernisti, animali, danzatori gender-fluid, celebri travesti e paesaggi urbani trovano spazio in atmosfere fantastiche e fantascientifiche, come apparentemente sospesi nel tempo. Assumendo spesso la forma di vignette cinematografiche accompagnate da colonne sonore oniriche, i film di Roque affrontano aspetti sociali, geopolitici e ambientali vitali per la cultura contemporanea, come l’identità, la bioetica queer, l’automazione e l’intelligenza artificiale, posizionando i soggetti in ambientazioni surreali, da un lato languidamente utopiche e sinistramente postapocalittiche. Generalmente le opere di Roque rappresentano voci e storie queer, specie in rapporto alla storia coloniale del Brasile e ai suoi lasciti nell’attualità. Il film muto in Super8 presentato qui, Urubu (2020), intrattiene invece un dialogo più diretto con il contesto della pandemia da Covid-19, che ha costretto l’artista a trascorrere molti mesi rinchiuso nel suo appartamento di San Paolo a causa del lockdown disposto dal governo brasiliano. Urubu è ispirato in egual misura dall’attenzione dell’artista per le sue immediate vicinanze durante il confinamento e dall’interesse per la visione di documentari naturalistici. Durante il lungo tempo trascorso in isolamento, dalla finestra del suo appartamento Roque ha puntato la videocamera verso le architetture storicamente stratificate di San Paolo: le immagini del volo di un urubu, uccello urbano comune in città, distillano poeticamente la sensazione di sospensione generata dalle condizioni senza precedenti imposte dalla pandemia. Il video è caratteristico dell’approccio ibrido di Roque e combina tecniche visive derivate dal cinema, in questo caso il loop temporale, con immagini che richiamano le premesse ipotetiche della fantascienza e la propensione contemplativa e distaccata dei documentari. Analogamente, il corto notturno XXI (2022) riflette sulle controversie attorno al corpo, sui desideri automatici e sui dialoghi tra figure umane e non umane nella calda estate di una città latinoamericana. – MW

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Luiz Roque, Urubu (stills), 2020. Video Full HD trasferito da film Super8 (in loop). Courtesy l’Artista; Mendes Wood DM, San Paolo, Bruxelles, New York

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P I N A R E E S A N P I TA K

1961, Bangkok Vive a Bangkok, Thailandia

Nel corso degli ultimi quarant’anni, Pinaree Sanpitak ha sviluppato una propria iconografia distintiva, un enigmatico inventario di simboli che rappresentano il corpo femminile distillato nelle sue parti più elementari, espresse in varie forme attraverso recipienti, seni, uova e profili sottilmente incurvati. In dipinti e disegni delicati, Sanpitak impiega un repertorio estetico di forme estremamente minimali, stimolando emozioni complesse a partire da immagini molto semplici. Caratterizzate dalla sensibilità e dal segno etereo di linee, motivi, consistenze e colori, nonostante la loro sobrietà queste opere sommesse si impongono oltre le ripetizioni sistematiche del Minimalismo. Piuttosto, la pratica dell’artista è legata a una fascinazione per il proprio corpo e alle concezioni di sacralità e spiritualità che questo racchiude. A partire dalla fine degli anni Ottanta, Sanpitak inizia a evocare l’esperienza vissuta dalle donne che abitano i propri corpi, riflettendo sulla potenza di ciò all’interno di un quadro universale. A metà degli anni Novanta, ispirata dalla formidabile esperienza di essere fonte di nutrimento mentre allatta suo figlio, inizia a raffinare i propri interessi producendo numerose immagini di seni, che debuttano nella rivoluzionaria mostra Breast Works, allestita a Bangkok nel 1994. Nella nuova serie qui esposta – che comprende dipinti fortemente saturi e dalle ricche texture ottenute mediante pittura acrilica, piume, foglie d’oro e argento, e seta –, l’artista riduce il motivo del seno alla forma del cumulo e del recipiente, correlando esperienze corporee e personali a forme che richiamano le ciotole per le offerte e gli stupa, strutture sacre buddhiste caratterizzate dalla cupola emisferica e diffuse sia in Thailandia sia in molti Paesi dell’Estremo Oriente e del Sud-Est asiatico. Sanpitak ha ampliato la riflessione sul corpo come recipiente andando oltre la fertilità, la capacità di offrire nutrimento, la spiritualità e l’architettura, rappresentando lo stesso concetto come contenitore di percezione e vissuto, o come ricettacolo del vuoto, elemento fondamentale nel pensiero buddhista e testimonianza del costante interesse di Sanpitak per i limiti dell’esperienza corporea. Nei disegni tracciati a matita e carboncino della serie Offering Vessels, realizzata nei primi anni Duemila, i recipienti appaiono come eleganti ciotole larghe e basse con cui l’artista esprime una capacità conviviale di dare e ricevere. Più che una semplice espressione della figura fisica, le ciotole raffigurate in opere come Offering Vessels #8 (2001–2002) e Offering Vessels #16 (2002) testimoniano la vasta portata delle potenzialità del corpo, sia nel sacro, sia nel profano. – MW

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Pinaree Sanpitak, Offering Vessel, 2021. Acrilico, matita su tela, 250 × 250 cm. Photo Aroon Permpoonsopol. Courtesy l’Artista. © Pinaree Sanpitak

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Pinaree Sanpitak, Breast Vessel in the Blacks, 2021. Acrilico, carta, carboncino su tela, 185 × 185 cm. Photo Aroon Permpoonsopol. Courtesy l’Artista. © Pinaree Sanpitak

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Pinaree Sanpitak, Breast Vessel in the Reds, 2021. Acrilico, matita, piume su tela, 250 × 250 cm. Photo Aroon Permpoonsopol. Courtesy l’Artista. © Pinaree Sanpitak

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M AG DA L E N E O D U N D O

1950, Nairobi, Kenya Vive a Farnham, UK

Antropomorfi e sobri, i vasi di ceramica di Magdalene Odundo parlano di una cultura stratificata dell’arte della ceramica, nel solco di una tradizione secolare che associa il corpo femminile all’architettura o ai recipienti. Plasmati a mano e raschiati con la scorza di zucca, gli oggetti dell’artista sono realizzati con un metodo laborioso che prevede il graduale svuotamento di una palla di argilla, per poi tirare lentamente la materia verso l’alto a formare il vaso. Dopo aver dato forma all’argilla, invece di usare i tradizionali smalti vitrei necessari a sigillare l’esterno del vaso, Odundo utilizza una barbottina in terra sigillata finissima, ne lucida la superficie con pietre e utensili, e cuoce i suoi oggetti più volte, trasformando la materia prima in lucidissime e voluttuose sculture rosso-arancio e nero. Nata nel Kenya coloniale del 1950, Odundo si avvicina alla ceramica solo in seguito al suo trasferimento in Inghilterra nel 1971. Qui continua gli studi di arte e design, conseguendo la laurea al Royal College of Art nel 1982. Ispirata dai suoi primi mentori – fra cui Eduardo Paolozzi, Michael Cardew, Zoë Ellison e Henry Hammond – Odundo sviluppa un interesse per la scultura modernista, le ceramiche degli antichi Greci e le tradizioni artigianali di tutto il mondo. All’inizio degli anni Settanta si reca in Nigeria per studiare al Pottery Training Centre di Abuja, dove realizza terrecotte dalle forme arrotondate, decorate con iscrizioni geometriche lineari e ispirate alle forme piene ed essenziali del vasellame creato dalle donne di Abuja. Questa esperienza ha un forte impatto su di lei: le consente di entrare in contatto con tecniche legate alla storia dei materiali indigeni e di apportare complessi costrutti concettuali alla propria attività di ceramista. Pur rimanendo ancorata alle tradizioni delle ceramiche dell’Africa, l’opera di Odundo dialoga intensamente con il corpo. Non solo le movenze di danza che accompagnano la sagomatura a mano dei suoi pezzi si contrappongono alla produzione commerciale e ai movimenti meccanici del tornio, ma anche i colli raffinati, i bordi netti, le pose gestuali e le sagome panciute dei suoi vasi trasmettono corporeità. Per Odundo, i vasi in argilla hanno un interno e un esterno. “Sono convinta che il corpo stesso sia un recipiente; contiene noi, in quanto persone”, ama ripetere. “Senza il guscio esterno del corpo, noi non esisteremmo”1. In quanto tali, essendo provvisti sia di pelle che di corpo, i vasi di Odundo racchiudono un’interiorità. – MW

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Magdalene Odundo, citata in Jonathan Anderson, Worlds in a Vessel, in “Blau International”, 3, 2020–2021.

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Magdalene Odundo, Untitled Vessel, Symmetrical Series, 2009. Ceramica, 51 × 23 cm. Photo Lewis Ronald. Collezione privata. Courtesy l’Artista; Thomas Dane Gallery. © Magdalene Odundo

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Magdalene Odundo, Untitled Vessel, Symmetrical Series, 2017. Ceramica, 63,5 × 33,3 cm. Photo Dan Bradica. Collezione privata. Courtesy l’Artista; Thomas Dane Gallery. © Magdalene Odundo

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Magdalene Odundo, Untitled Vessel, 2020–2021. Ceramica, 57 × 32 cm. Photo David Westwood. Wakefield Council Permanent Art Collection (The Hepworth Wakefield). Courtesy l’Artista; Thomas Dane Gallery. © Magdalene Odundo

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S A O D AT I S M A I L O VA

1981, Tashkent Vive a Tashkent, Uzbekistan e Parigi, Francia

Il filo di un linguaggio onirico lega le opere video di Saodat Ismailova, abbracciando temi come memoria, spiritualità, immortalità ed estinzione. Nell’opera video Chillpiq (2016), due autobus bianchi attraversano un paesaggio desolato, portando quaranta donne a scalare un sito archeologico situato su una vetta sacra nei pressi dei monti Karatau, in Karakalpakstan. Le donne compiono il loro tradizionale rituale di preghiera per la fertilità girando intorno all’asta portabandiera e legandovi un panno, un riferimento al Qyrq Qyz, la storia mitologica che narra di quaranta fanciulle sepolte in questo sito, in seguito all’ultima battaglia tra Amazzoni e Persiani. Mentre il sole tramonta, le immagini delle donne si dissolvono, come fantasmi che entrano a far parte del regno delle quaranta fanciulle del mito. La sua nuova opera video a tre canali Chillahona (2022) è girata a Tashkent nelle celle sotterranee chiamate per l’appunto chillahona, strutture destinate alla pratica dell’isolamento e della meditazione spesso costruite accanto alle tombe dei santi locali in Asia centrale, oggi utilizzate dalla popolazione per l’autoisolamento. Costruita a forma di cupola ottagonale con nervature, la cella è composta di tre livelli, a loro volta riprodotti nei tre canali video. Il primo schermo documenta persone che visitano la chillahona; il secondo ritrae i devoti che compiono i loro riti e le loro preghiere; mentre il terzo segue la visita di una giovane donna in difficoltà e il suo momento di autoisolamento. Accanto ai video è appeso un palyak, un ricamo tradizionale di Tashkent che rappresenta la cosmologia femminile ed evoca protezione, guarigione e fertilità, realizzato dall’artista con un tessuto bianco e illuminato da una luce colorata. Operando tra i confini di spazi reali e immaginari, Ismailova attinge alla specifica identità culturale e alla storia dell’Asia centrale, spesso attraverso conoscenze ancestrali ed epici racconti folcloristici che hanno come protagoniste donne, allo scopo di rivelare una comprensione più ampia di che cosa significhi essere umani. – LC

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Saodat Ismailova, The Haunted (still), 2017. Video HD a canale singolo, 16:9, 24 min. Photo Anu Vahtra. Collezione Centre Pompidou, Parigi. Courtesy l’Artista; The Haunted, Trømso Kunstforening (TKF), Norway. © Saodat Ismailova Saodat Ismailova, Two Horizons (still), 2017. Video HD a due canali, 16:9, 22 min. Courtesy l’Artista. © Saodat Ismailova

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V I O L E TA PA R R A

1917, San Fabián de Alico, Cile – 1967, Santiago, Cile

Conosciuta per lo più come icona della scena musicale latino-americana, Violeta Parra è stata una sperimentatrice versatile e, oltre a essersi misurata con la scrittura, è stata autrice di una produzione visiva composita. Dall’inizio degli anni Sessanta, infatti, ormai ottenuto un eccezionale successo internazionale come cantautrice, Parra comincia a realizzare le sue canciones que se pintan (canzoni che si dipingono): una serie di quadri, sculture e ricami che, in perfetta continuità con le sue musiche, sono espressione di una profonda fascinazione per la cultura popolare del suo Paese. Le arpilleras – i suoi monumentali arazzi – costituiscono sicuramente il corpus di opere più complesso e, con le loro raffigurazioni ancestrali ispirate all’arte precolombiana, veicolano narrazioni cariche di un pathos senza tempo. Parra le concepisce come appunti visivi e, da autodidatta, ricama le loro figure senza seguire un disegno precostituito. Descrivono donne, uomini o animali radunati in festose scene corali, eventi storici o momenti di vita spirituale, dove spesse cuciture di lana, scampoli di macramè e trecce di tessuto lavorato a maglia diventano lo schema di base per dare tridimensionalità alle protagoniste e ai protagonisti. I loro corpi si trasformano l’uno nell’altro come fossero impegnati in continue metamorfosi e, spesso resi labirintici dalle cuciture che li attraversano, diventano contenitori di un’identità spirituale o di una memoria collettiva, che talvolta dimostra un impegno sociale. Il lavoro Combate naval I (1964), ad esempio, denuncia i soprusi subiti dal Cile durante la Guerra del Pacifico (1879–1884) e rappresenta la fierezza con cui il più grande eroe nazionale, il capitano Arturo Prat, brandisce una bandiera cilena mentre il suo vascello Esmeralda affonda. El circo (1961), invece, sembra essere un omaggio ai primi palcoscenici calcati da Parra e rappresenta un gruppo di coloratissimi personaggi che danzano, ballano e cantano, forse inebriati dai fumi emanati dalla grossa brocca al centro della composizione, o magari vittime di tutti i mali che quello strano vaso di pandora riversa su di loro. Come dimostra la grande mostra personale che inaugura al Musée des Arts Décoratifs di Parigi nel 1964, pochi anni prima del suo tragico suicidio, le sue arpilleras rappresentano lo strumento per registrare urgenze al contempo personali e collettive, colte e popolari, locali e internazionali. – SM

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Violeta Parra, El circo, 1961. Iuta con lanigrafia, 153 × 240 cm. Photo Marcelo Montealegre. Courtesy Fundación Violeta Parra Violeta Parra, Árbol de la vida, 1963. Iuta con lanigrafia, 166 × 127 cm. Photo Marcelo Montealegre. Courtesy Fundación Violeta Parra

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S A F I A FA R H AT

1924 – 2004, Radès, Tunisia

Le gigantesche opere in tessuto dell’artista, docente e attivista tunisina Safia Farhat declinano la tessitura come l’espressione dello spirito riformatore della propria epoca. Dissolvendo i confini tra arte, artigianato e design, i suoi arazzi riccamente strutturati, come il vibrante dittico verde Gafsa & ailleurs (1983), rivelano l’ingegnosità del suo approccio, applicato anche a vetrate e ceramiche. Farhat, cresciuta in una famiglia dell’élite di Radès – città portuale dove nel 2016 viene inaugurato un museo a lei dedicato –, è tra le poche donne a ricevere un’istruzione scolastica primaria e secondaria sotto il dominio coloniale francese. Dopo l’indipendenza della Tunisia dalla Francia nel 1956, Farhat diviene la prima donna tunisina a insegnare all’Institut supérieur des beaux-arts di Tunisi, dove è a capo del Laboratorio di decorazione dal 1958 al 1966, assumendo poi la direzione della scuola in cui rimane fino al 1973. Nel panorama post-indipendenza, i ruoli delle donne nella famiglia sono notevolmente ampliati, per cui all’epoca anche le donne devono contribuire alla produttività nazionale. In Tunisia la tessitura è sempre stata una tradizionale attività domestica: in seguito all’indipendenza, diventa il simbolo della Tunisianité – patrimonio culturale tunisino – e sotto il patrocinio del governo, migliaia di tessitrici rurali sono impiegate ai telai al servizio del Paese appena formatosi. La strumentalizzazione del mezzo operata da Farhat viene interpretata come un’elaborazione del Modernismo e la dichiarazione dell’autonomia e della creatività artistica femminile, o come un omaggio a una tradizione fondata sul lavoro delle donne, il tutto abbinato al suo impegno per la conservazione del patrimonio culturale nordafricano. Combinazione di audaci motivi geometrici, colori accesi e motivi figurativi tessuti con lane tinte e filate a mano, Gafsa & ailleurs attinge alle tradizioni artigianali tunisine a cui le donne dell’interno meridionale del Paese hanno dato vita, evocando al contempo l’entusiasmo per il nuovo. Questa fusione tra lo storico e il contemporaneo si manifesta anche nella composizione di Farhat. Mescolando diversi spessori e trame, l’imponente dittico tridimensionale assume una qualità simile al collage, raffigurando un paesaggio verdeggiante, punteggiato da un cavallo al galoppo che sembra catapultarsi verso un terreno fantastico di forme astratte. Fondendo il mondo naturale con quello immaginato, tecniche antiche con nuove applicazioni, Gafsa & ailleurs è una proiezione postcoloniale indirizzata al futuro e un cenno al passato culturale di Farhat. – MW

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Safia Farhat, Diptyque Gafsa & ailleurs, 1983. Arazzo, dittico, 320 × 294 cm e 293 × 167 cm. Photo Slim Gomri, © Slim Gomri/Musée Safia Farhat. Collezione privata. Courtesy l’Artista; Museum Safia Farhat, Tunis. © Safia Farhat

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RO B E RT O G I L D E M ON T E S

1950, Guadalajara, Messico Vive a La Peñita de Jaltemba, Messico

Roberto Gil de Montes si trasferisce da Guadalajara a Los Angeles da bambino, per andare a vivere in un quartiere nella zona orientale della città che stava crescendo come centro del Movimento chicano. I dipinti che Gil de Montes inizia a produrre dopo il diploma all’Otis College of Art and Design riflettono il suo coinvolgimento con l’arte chicana e le amicizie con artisti come Carlos Almaraz, e impiegano elementi narrativi frammentati, colori vitali e composizioni nettamente frontali. La sua opera rivisita e reinventa in egual misura la tradizione, sia con frequenti riferimenti all’iconografia precolombiana e huichol e alle esperienze quotidiane e oniriche della vita dell’artista, sia con le influenze stilistiche talvolta percepibili dei modernisti classici messicani, quali Rufino Tamayo e Frida Kahlo. Oltre a fungere da referenti culturali, queste immagini sono permeate in modo personale dalla sessualità dell’artista e dalle sue acute osservazioni sull’interazione tra il fantastico e il mondano. Gil de Montes esplora le realtà parzialmente nascoste e le storie dimenticate o immaginarie dell’esuberante luogo in cui risiede, sulla costa occidentale del Messico, spesso ritraendo creature – tra cui cani, giaguari, cervi e danzatori – che in queste zone assumono un significato cosmologico. Il dipinto a olio El Pescador (2020) ironizza sulla Nascita di Venere di Sandro Botticelli (1484–1486 ca.), sostituendo la figura della dea, che notoriamente si erge da una conchiglia gigante, con la raffigurazione di un giovane pescatore sdraiato. L’aranceto stilizzato del dipinto di Botticelli viene rimpiazzato da una spiaggia sabbiosa con una palma da cocco. Nei dipinti UP ed El monje (entrambi del 2021), in cui i soggetti vengono capovolti in verticale oppure osservati attraverso le increspature dell’acqua, il dinamismo è sospeso, i campi visivi scombussolati. In UP la figura è a penzoloni, autonoma, distinta, appesa a un punto che si trova al di sopra della sommità della tela: non c’è una linea dell’orizzonte a creare una partizione né a fornire un orientamento o a implicare una sostanziale stabilità della postura. In El monje, le pennellate tratteggiate dei fiori sull’acqua in movimento, oltre a richiamare la morte di Ofelia in Shakespeare, suggeriscono l’inesorabile progredire ondeggiante verso una destinazione ignota, che è tanto corporea quanto fittizia. È un immaginario di incongruenza e di colore, di istintivo e frainteso, dove la fedeltà all’assurdo e la reverenza per tutto ciò che è umile sono fonte di chiarificazione e illuminazione attraverso un’ingenuità solo apparente. – IW

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Roberto Gil de Montes, UP, 2021. Olio su tela, 116,5 × 85,5 × 4,5 cm. Photo Gerardo Landa Rojano. Collezione Beth Rudin DeWoody. Courtesy l’Artista; Kurimanzutto, Mexico City / New York

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Roberto Gil de Montes, Endangered Species, 2021. Olio su lino, 148,8 × 149,5 × 4 cm. Photo Gerardo Landa Rojano. X Museum, Beijing. Courtesy l’Artista; Kurimanzutto, Mexico City / New York

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Roberto Gil de Montes, El Pescador, 2020. Olio su lino, 196 × 257 × 4,5 cm. Sifang Art Museum, Nanjing, China. Courtesy l’Artista; Kurimanzutto, Mexico City / New York

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Roberto Gil de Montes, El monje, 2021. Olio su tela, 116,5 × 85,5 × 4,5 cm. Collezione privata. Courtesy l’Artista; Kurimanzutto, Mexico City / New York

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L A S P O R TA : U N A T E O R I A D E L L A N A R R A Z I O N E Ursula K. Le Guin

Nelle regioni temperate e tropicali in cui, da quel che sappiamo, gli ominidi si sono evoluti in esseri umani, il cibo della specie era in gran parte vegetale. Dal sessantacinque all’ottanta per cento di ciò che gli esseri umani mangiavano in quelle regioni nel Paleolitico, nel Neolitico e in altre epoche preistoriche, era frutto di raccolta; solo nell’estremo Artico la carne era una componente fondamentale della dieta. I cacciatori di mammut occupano spettacolarmente le pareti delle grotte e la mente, ma quel che facevamo in realtà per mantenerci vivi e grassi era raccogliere semi, radici, germogli, virgulti, foglie, noci, bacche, frutti e chicchi, con aggiunta di insetti e molluschi più uccelli, pesci, ratti, conigli e altri animaletti senza zanne Quindici ore a settimana per la sussistenza lasciano catturati con reti o trappole per assicurare un sacco di tempo per altre cose. Tanto tempo che le proteine. E non ci sforzavamo nemmeno forse gli irrequieti che non avevano un bambino intortroppo, senza dubbio molto meno dei conno a ravvivare le loro giornate, o la capacità di creare, tadini schiavizzati nei campi altrui dopo cucinare o cantare, o pensieri particolarmente intel’invenzione dell’agricoltura, molto meno ressanti da pensare, decidevano di andare a caccia di degli operai stipendiati dopo l’invenzione mammut. I cacciatori abili tornavano poi barcollando della civiltà. La persona media della preicon un carico di carne, parecchio avorio, e una storia. storia poteva godere di un buon tenore di Non era la carne a fare la differenza. Era la storia. vita con una settimana lavorativa di una quindicina di ore. È difficile raccontare una storia davvero avvincente su come ho sgusciato un seme di avena selvatica, e poi un altro, e un altro, e un altro ancora, dopodiché mi sono grattato i morsi dei moscerini, e Ool ha detto qualcosa di spiritoso, poi siamo andati al ruscello per bere dell’acqua e guardare le salamandre per un po’, e poi ho trovato un altro campo di avena… No, non c’è proprio paragone, non può competere con il modo in cui ho conficcato la mia lancia in profondità nel titanico fianco peloso mentre Oob, impalato su una delle due colossali zanne, si contorceva urlando e il sangue

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zampillava dappertutto in torrenti cremisi, e Boob veniva ridotto in poltiglia dal mammut che gli crollava addosso dopo che avevo scoccato la mia freccia infallibile trafiggendogli l’occhio fino al cervello. In questa storia non c’è solo Azione, c’è un Eroe. Gli eroi sono potenti. Prima che te ne accorga, gli uomini e le donne nel campo di avena selvatica e le loro figlie e i loro figli e l’arte degli artigiani e i pensieri dei pensierosi e le canzoni dei cantanti fanno tutti parte di essa, sono tutti stati ridotti al servizio della trama dell’Eroe. Ma la storia non è la loro. È la sua. Mentre stava progettando il libro che poi sarebbe diventato Le tre ghinee, Virginia Woolf si appuntò un titolo sul taccuino: “Glossario”; le era venuto in mente di reinventare l’inglese secondo un nuovo programma, allo scopo di raccontare una storia diversa. Una delle voci di questo glossario è “eroismo”, definito come “botulismo”. Ed “eroe”, nel dizionario di Woolf, è “bottiglia”. L’eroe come bottiglia, una riconsiderazione impietosa. Io propongo la bottiglia come eroe. Non semplicemente la bottiglia di vino o di gin, ma la bottiglia nel suo senso più antico di contenitore in generale, una cosa che ne custodisce un’altra. Se non avete qualcosa in cui riporlo, il cibo vi sfuggirà, anche una cosa poco agguerrita e priva di risorse come l’avena. Ne ficcate tutta quella che potete nello stomaco finché ce l’avete a portata di mano, essendo quello il contenitore primario; ma che cosa fate la mattina dopo, quando vi svegliate, e piove e fa freddo, e sarebbe bello avere solo qualche manciata di avena da masticare e da dare alla piccola Oom per farla tacere, però mica si poteva portarne a casa più della quantità che sta dentro lo stomaco o nella mano? Finisce che dovete alzarvi e andare fino a quel maledetto campo d’avena sotto la pioggia, e non sarebbe comodo se aveste qualcosa in cui mettere la piccolissima Oo Oo in modo da poter raccogliere l’avena con entrambe le mani? Una foglia una zucca un guscio una rete una borsa una tracolla una bisaccia una bottiglia una pentola una scatola un contenitore. Una custodia. Un recipiente. “Il primo supporto culturale è stato con ogni probabilità un recipiente […] Molti studiosi ritengono che le prime invenzioni culturali debbano essere state un contenitore per custodire i prodotti raccolti e qualche specie di tracolla o sporta di rete”. Così dice Elizabeth Fisher in Woman’s Creation1. Ma no, non può essere. Che fine ha fatto quell’oggetto meraviglioso, grosso, lungo, duro, un osso se non sbaglio, con cui l’Uomo-Scimmia nel film picchia qualcuno per la prima volta e che poi, grugnendo estasiato per aver perpetrato il primo vero omicidio, scaglia verso il cielo, finché a forza di ruotare non diventa una navicella spaziale che avanza nel cosmo per fecondarlo e generare al termine della pellicola un adorabile feto, un maschietto, ovviamente, che se ne va alla deriva attorno alla Via Lattea senza (strano a dirsi) un utero, senza una matrice che dir si voglia? Non lo so. E nemmeno me ne importa. Non è questa la storia che sto raccontando. L’abbiamo sentita, abbiamo tutti sentito dei bastoni e delle lance e delle spade, delle cose con cui colpire e infilzare e percuotere, delle cose lunghe e dure, ma non abbiamo sentito della cosa in cui mettere le cose, il contenitore per la cosa contenuta. Questa è una storia nuova. È una novità. Eppure è vecchia. Prima – se ci pensate, di certo molto prima – dell’arma, un utensile tardivo, lussuoso, superfluo; molto prima degli utili coltello e ascia; insieme agli indispensabili tosaerba, macina e scavatrice – perché a cosa serve dissotterrare tante patate se non avete niente con cui portare a casa quelle che non mangiate? – con o prima dell’attrezzo che spinge l’energia all’esterno, abbiamo fabbricato

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l’attrezzo che porta l’energia dentro casa. A me sembra logico. Sono una seguace di quella che Fisher chiama “teoria della sporta” dell’evoluzione umana. Questa teoria, oltre a illuminare vaste aree di oscurità teorica e a scansare vaste aree di assurdità teorica (abitate in larga misura da tigri, volpi e altri mammiferi altamente territoriali), mi radica anche, in prima persona, nella cultura umana come non mi era mai successo. Finché la cultura veniva spiegata come se originasse e si evolvesse dall’uso di oggetti lunghi e duri per colpire, picchiare e uccidere, non ho mai pensato di averci, o di volerci avere, qualcosa a che fare. (“Quella che Freud ha scambiato per mancanza di civiltà è la mancanza, nella donna, di lealtà alla civiltà”, ha osservato Lillian Smith). A quanto pare, la società, la civiltà di cui parlavano questi studiosi era la loro; la possedevano, la apprezzavano; erano umani, pienamente umani, dediti a picchiare, bastonare, spintonare, uccidere. Volendo essere umana anch’io, ho cercato prove del fatto che lo sono; ma se era questo che serviva, fabbricare un’arma e usarla per uccidere, allora senza dubbio ero molto difettosa come essere umano, o non ero umana affatto.

Giusto, avrebbero detto quelli. Tu sei una donna. Forse neanche umana, senza dubbio difettosa. Ora stai buona mentre continuiamo a raccontare la Storia dell’Ascesa dell’Uomo-Eroe. Continuate pure, dico io, avviandomi verso il campo dell’arena selvatica, con Oo Oo nella fascia a tracolla e la piccola Oom che porta il cestino. Continuate a raccontare come il mammut si abbatte su Boob e come Caino si abbatte su Abele e come la bomba si abbatte su Nagasaki e come la gelatina incendiaria si abbatte sugli abitanti del villaggio e come i missili si abbatteranno sull’impero del male, e tutti gli altri passi nell’Ascesa dell’Uomo.

Se è una caratteristica umana riporre una cosa che desiderate perché è utilizzabile, commestibile o bella, in una borsa, o in un cestino, o su un pezzo di corteccia o di foglia arrotolata, o in una rete intessuta dei vostri capelli, o qualsiasi altra cosa vi venga in mente, e poi portarla a casa con voi, dove la casa non è che un altro tipo, più grande, di marsupio o borsa, un contenitore per le persone, e poi in seguito tirarla fuori e mangiarla o condividerla o metterla via per l’inverno in un contenitore più solido o infilarla nella borsa delle medicine o nel santuario o nel museo, il posto sacro, l’area che contiene ciò che è sacro, e il giorno dopo magari ricominciare da capo – se fare questo è umano, se è questo che serve, allora in fin dei conti sono umana. Per la prima volta in modo pieno, libero e felice. Fatemelo precisare subito, non un essere umano privo di aggressività o bellicosità. Sono una donna collerica sull’orlo della vecchiaia, che sventola la borsetta attorno a sé per combattere i malintenzionati. E tuttavia non mi considero eroica per questo, nessuno lo farebbe. È solo una di quelle maledette cose che tocca fare per poter continuare a raccogliere avena selvatica e raccontare storie. È la storia che fa la differenza. È la storia che mi ha tenuto nascosta la mia umanità, la storia che raccontavano i cacciatori di mammut sul colpire, picchiare, stuprare, uccidere, sull’Eroe. La prodigiosa, velenosa storia del Botulismo. La storia dell’assassino. A volte sembra che questa storia stia volgendo al termine. Se non vogliamo arrivare al punto che non esistano più storie di nessun tipo, penso che alcuni di noi qua fuori in mezzo all’avena selvatica, in mezzo al grano straniero, farebbero meglio a cominciare a raccontarne un’altra, con cui forse le persone potranno andare avanti quando finirà la vecchia. Forse. Il problema è che ci siamo tutti concessi

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di diventare parte della storia dell’assassino, e quindi potremmo finire insieme ad essa. È dunque con un certo senso di urgenza che cerco la natura, il soggetto, le parole dell’altra storia, quella mai raccontata, la storia della vita. Non affiora alle labbra con la facilità, con la spensieratezza della storia dell’assassino; eppure “mai raccontata” è un’esagerazione. Sono secoli che la gente racconta la storia della vita, con ogni genere di modalità e parole. Miti di creazione e trasformazione, storie di imbrogli, storie del folclore, barzellette, romanzi… Il romanzo in sostanza è un tipo di storia non eroica. Certo, l’Eroe se n’è spesso impadronito, perché è questa la sua natura imperialista e il suo impulso incontrollabile, conquistare tutto e comandarlo e al tempo stesso emanare severi decreti e leggi per contenere il proprio impulso incontrollabile ad annientarlo. Così l’Eroe ha decretato attraverso i legislatori suoi portavoce: primo, che la forma propria della narrazione è quella della freccia o della lancia, che comincia qui e va dritta là dove TAC! colpisce il bersaglio (che cade stecchito); secondo, che il nucleo portante della narrazione, romanzo compreso, è il conflitto; e terzo, che la storia non vale niente se dentro non c’è lui. Io dissento su tutta la linea. Mi spingerei fino a dire che la forma naturale, propria, opportuna del romanzo potrebbe essere quella del sacco, o della sporta. Un libro contiene parole. Le parole contengono cose. Veicolano significati. Un romanzo è una borsa delle medicine, che tiene le cose in un rapporto particolare, potente, tra loro e tra loro e noi. Il rapporto tra gli elementi del romanzo può anche essere conflittuale, ma la riduzione della narrazione al conflitto è un’assurdità. (Ho letto un manuale di scrittura che diceva: “Una storia dovrebbe essere intesa come una battaglia”, e continuava a colpi di strategie, attacchi, vittorie e via dicendo). Conflitto, competizione, stress, lotta ecc., all’interno della narrazione concepita come sporta/ventre/scatola/casa/ borsa delle medicine, potrebbero essere visti come elementi necessari di un intero che non può di per sé essere caratterizzato come conflitto o come armonia, perché E così, quando sono arrivata a scrivere romanzi di fanil suo scopo non è la risoluzione né la stasi, tascienza, mi trascinavo dietro questa grossa, pesante ma un processo costante. sporta, la mia borsa piena di imbranati e smidollati, e minuscoli chicchi di cose più piccoli di un granello di Per finire, è chiaro che l’Eroe non si trova senape, e reti intricate che, come si scopre dipanandole molto a suo agio in questa sporta. Ha con pazienza, contengono un unico ciottolo azzurro, un bisogno di un palcoscenico, un piedistallo cronometro imperturbabile che segna l’ora su un altro o una vetta. Se lo metti in un sacco assomondo, e un teschio di topo; piena di inizi senza finale, miglia a un coniglio, a una patata. di iniziazioni, di perdite, di trasformazioni e traduzioni, e molti più imbrogli che conflitti, molti meno trionfi Per questo mi piacciono i romanzi: non che trappole e illusioni; piena di navicelle spaziali che contengono eroi, ma persone. si arenano, missioni che falliscono, e persone che non capiscono. Ho detto che è difficile trarre un racconto avvincente da come si sguscia l’avena selvatica, non ho detto che è impossibile. Chi ha mai detto che scrivere un romanzo sia facile? Se la fantascienza è la mitologia della tecnologia moderna, allora il suo mito è tragico. La “tecnologia”, o la “scienza moderna” (per usare le parole che si usano di solito, in un’abbreviazione poco meditata che sta per le scienze “dure” e l’alta tecnologia, fondate sulla crescita economica continua), è un’impresa eroica, erculea,

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prometeica, concepita come trionfo, e in ultima analisi come tragedia. La narrazione che incarna questo mito sarà, ed è stata, trionfante (l’Uomo sottomette la Terra, lo spazio, gli alieni, la morte, il futuro e via dicendo) e tragica (apocalisse, olocausto, allora o adesso). Se, invece, si evita la modalità lineare, progressiva del tecno-eroico, la freccia (assassina) del tempo, e si ridefiniscono la tecnologia e la scienza come una sporta primariamente culturale più che un’arma di dominio, un piacevole effetto collaterale è che la fantascienza può essere vista come un campo assai meno rigido e ristretto, non necessariamente prometeico o apocalittico, al contrario: un genere realistico, più che mitologico. È un realismo strano, ma anche la realtà è strana. La fantascienza interpretata nel modo giusto, come tutte le narrazioni serie, per quanto divertente, è un modo di descrivere quello che succede davvero, quello che le persone fanno e sentono davvero, il modo in cui si rapportano con tutto il resto che sta dentro questo enorme sacco, questo ventre dell’universo, questo grembo di cose che saranno e tomba di cose che furono, questa storia senza fine. In essa, come in tutte le narrazioni, c’è abbastanza spazio per contenere anche l’Uomo nel posto che gli compete, il suo posto nello schema delle cose; c’è abbastanza tempo per raccogliere un sacco di avena selvatica e anche seminarla, cantare alla piccola Oom, ascoltare le storielle di Ool, contemplare le salamandre, e ancora la storia non è finita. Restano ancora semi da raccogliere, e altro spazio nella sacca delle stelle. (1986) Ursula Kroeber Le Guin (1929–2018) è stata una celebre scrittrice americana, la cui produzione include ventuno romanzi, undici volumi di racconti, undici volumi di poesia, tredici libri per bambini, cinque raccolte di saggi e quattro traduzioni. Il respiro e l’immaginazione della sua opera le hanno fatto vincere sei premi Nebula, sette premi Hugo, e il Grand Master dell’SFWA, insieme al PEN/Malamud e molti altri riconoscimenti. Nel 2014 le è stata assegnata la National Book Foundation’s Medal for Distinguished Contribution to American Letters, e nel 2016 è entrata nel ristretto numero di autori pubblicati in vita dalla Library of America.

La sporta: una teoria della narrazione è la traduzione di The Carrier Bag Theory of Fiction. Copyright © 1986 Ursula K. Le Guin. Pubblicato per la prima volta in Women of Vision nel 1988, e poi in Dancing at the Edge of the World, edito da Grove/Atlantic nel 1989, il saggio è stato tradotto con il permesso di Curtis Brown, Ltd. 1

Elizabeth Fisher, Woman’s Creation: Sexual Evolution and the Shaping of Society, New York, McGraw-Hill, 1975.

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SEMINARE MONDI UN SACCHETTO DI SEMI PER LA TERRAFORMAZIONE C O N G L I A LT R I D E L L A T E R R A Donna J. Haraway

Lo slogan politico che indossavo all’epoca dello Scudo spaziale di Reagan negli anni Ottanta recitava: “Cyborgs for Earthly Survival!” (Cyborg per la sopravvivenza della Terra). I terrificanti tempi di George H.W. Bush, e i Bush successivi, mi hanno fatto passare agli slogan rubati al duro addestramento cinofilo Schutzhund, “Run Fast, Bite Hard!” (Corri veloce, mordi forte) e “Shut Up and Train!” (Taci e allenati). Oggi, il mio slogan è: “Stay with the Trouble!” (Resta nei guai), ma in tutti questi nodi – e specialmente ora, dovunquequandunque si trovi quel potente e capiente tempoluogo – abbiamo bisogno di un tipo di saggezza dura e sporca. Istruiti da specie compagne della miriade di regni terrestri in tutti i loro tempiluogo, abbiamo bisogno di riseminare le nostre anime e i nostri mondi natali per prosperare – di nuovo o forse solo per la prima volta – su un pianeta vulnerabile, che non è ancora stato ucciso 1. Non abbiamo solo la necessità di essere riseminati, ma anche di essere reinoculati con quanto fermenta, fissa i nutrienti e stimola tutto ciò di cui i semi hanno bisogno per crescere rigogliosi. Il recupero è ancora possibile, ma solo nell’alleanza multispecie, oltre le micidiali divisioni di natura, cultura, tecnologia e di organismo, linguaggio e macchina2. Me l’hanno insegnato le cyborg femministe; me l’hanno insegnato i mondi umanimali di cani, galline, tartarughe e lupi; e, in contrappunto fungino, microbico, simbiogenetico, me lo insegnano gli alberi di acacia dell’Africa, delle Americhe, dell’Australia e delle isole del Pacifico, con le loro congerie di associati che si estendono attraverso i taxa. Seminare mondi significa aprire la storia delle specie compagne a qualcosa che superi la sua implacabile diversità e i suoi urgenti problemi. Per studiare il tipo di sapienza situata, mortale e germinale di cui abbiamo bisogno, mi allaccio a Ursula K. Le Guin e Octavia E. Butler3. È importante quali storie raccontiamo per raccontare altre storie; è importante quali concetti pensiamo per pensare altri concetti. È importante sapere dovecome Uroboro divorerà di nuovo la sua coda. È così che il fare-mondo procede con se stesso al tempo dei draghi. Sono kōan semplicissimi e nel contempo difficilissimi; vediamo che tipo di risultato generano. Attenta studiosa di draghi, Le Guin mi ha trasmesso la teoria della sporta come narrazione e quella sulla storia naturalculturale4. Le sue teorie, le sue storie, sono sporte capienti per raccogliere, trasportare e raccontare le cose della vita. “Una foglia una zucca un guscio una rete una borsa una tracolla una bisaccia una bottiglia una pentola una scatola un contenitore. Una custodia. Un recipiente”5. È tanta la storia della Terra raccontata sulla spinta della fantasia delle prime seducenti parole e armi, delle prime seducenti armi come parole, e viceversa. Strumento, arma, parola: ovvero il Verbo fatto carne a immagine del dio celeste. In una storia tragica con un unico vero attore – un reale creatore del mondo, l’eroe: questo è il racconto forgia-Uomini del cacciatore in missione per

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uccidere e riportare il terribile bottino. È un racconto d’azione crudo, spietato, bellicoso che rinvia la sofferenza di una passività vischiosa e putrefatta oltre ogni sopportazione. Tutti gli altri in questo racconto fallico sono oggetti di scena, terreno, appigli per la trama o preda. Non contano; il loro compito è quello di essere di intralcio, di essere superati, di essere la strada, il condotto, ma non il viaggiatore, non il generatore. L’ultima cosa che l’eroe vuole sapere è che le sue seducenti parole e armi saranno inutili senza una sporta, un contenitore, una rete. Tuttavia, nessun avventuriero dovrebbe uscire di casa senza un sacco. Come sono entrati improvvisamente nella storia una fionda, un vaso, una bottiglia? Come fanno cose così umili a portare avanti la storia? O, forse addirittura peggio per l’eroe, come fanno quelle cose concave, scavate, quei buchi nell’Essere a generare, fin dall’inizio, storie più ricche, più bizzarre, più piene, inadatte, continue, storie che riservano spazio al cacciatore, ma che non erano e non sono su di lui, l’Umano che si crea da sé, la macchina forgia-Uomini della Storia. La leggera curvatura del guscio che contiene appena un po’ d’acqua, solo qualche seme da regalare e da ricevere, suggerisce storie di con-divenire, di induzione reciproca, di specie compagne, il cui compito nella vita e nella morte non è quello di porre fine al farestorie, al fare-mondo. Con una conchiglia e una rete, diventare umano, diventare humus, diventare terrestre, assumono un’altra forma, ovvero la forma serpentina che si snoda a latere del con-divenire. C’è spazio per il conflitto nella storia di Le Guin, ma le sue narrazioni-sporta sono ricche di molto altro, in racconti meravigliosi e disordinati da usare per riraccontare o riseminare, possibilità per andare avanti ora e nella profonda storia della Terra. “A volte sembra che questa storia [eroica] stia volgendo al termine. Se non vogliamo arrivare al punto che non esistano più storie di nessun tipo, penso che alcuni di noi qua fuori in mezzo all’avena selvatica, in mezzo al grano straniero, farebbero meglio a cominciare a raccontarne un’altra, con cui forse le persone potranno andare avanti quando finirà la vecchia. […] È dunque con un certo senso di urgenza che cerco la natura, il soggetto, le parole dell’altra storia, quella mai raccontata, la storia della vita”6. Octavia E. Butler sa tutto sulle storie non raccontate, quelle che hanno bisogno di un sacchetto di semi ricucito e di un seminatore itinerante per scavare un posto in cui fiorire dopo le catastrofi di quella Storia Tagliente. Nella Parabola del seminatore, l’iperempatica adolescente statunitense Lauren Oya Olamina è cresciuta in una gated community di Los Angeles. Importante nella santeria del Nuovo Mondo e nei culti cattolici della Vergine Maria, Oya – ovvero madre di nove figli – è, per la cultura Yoruba, l’Orisha (la divinità) del fiume Niger, con i suoi nove affluenti. Vento, creazione e morte sono i suoi attributi e poteri per il fare-mondo. Il dono e la maledizione di Olamina è la sua ineluttabile capacità di sentire il dolore di tutti gli esseri viventi, risultato di una droga assunta dalla madre tossicodipendente durante la gravidanza. Dopo l’uccisione della sua famiglia, la giovane migra da una società devastata e morente con un eterogeneo gruppo di sopravvissuti, per seminare una nuova comunità radicata in una religione chiamata Earthseed (Seme della Terra). Nell’arco narrativo di quella che doveva essere una trilogia (Parable of the Trickster [La parabola dell’imbroglione] alla sua morte rimase incompiuta), il fare-mondo fantascientifico di Butler immaginava che Earthseed alla fine fiorisse su un nuovo pianeta natale tra le stelle. Ma Olamina ha dato vita alla prima comunità Earthseed nella California settentrionale, ed è lì e in altri luoghi sulla Terra che le mie esplorazioni per riseminare il nostro mondo originario devono rimanere, il mondo in cui le lezioni di Butler si applicano con particolare intensità. Nei romanzi della Parable (Parabola), “Dio è cambiamento” ed Earthseed insegna che i semi della vita sulla Terra possono essere trapiantati e possono adattarsi e prosperare in ogni sorta di luogo e tempo, per quanto inaspettato e sempre

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pericoloso. Si noti bene “possono”, non necessariamente “potrebbero” o “dovrebbero”. L’intera opera di Butler come autrice di fantascienza è incentrata sul problema della distruzione e della prosperità ferita – non della semplice sopravvivenza – nell’esilio, nella diaspora, nel rapimento e nel trasporto – il dono-fardello terreno dei discendenti di schiavi, dei rifugiati, degli immigrati, dei viaggiatori e anche degli indigeni. Non è un peso che scompare con l’insediamento. Nella modalità fantascienza 7, la mia scrittura funziona e opera solo sulla Terra, nel fango di cyborg, cani, alberi di acacia, formiche, microbi e di tutti i loro simili e della loro progenie. Con la torsione nel ventre che l’etimo provoca, ricordo anche che genia imbocca la strada di generare. Terranoidi tutti, noi siamo affini laterali oltre che arborei – prole sparsa dal vento – in un’infetta e squallida generazione dopo generazione, specie sciatta dopo specie sciatta. Piantare semi richiede mezzo, terreno, materia, madre. Queste parole mi interessano molto per e nella modalità di attenzione della terraformazione fantascientifica. Nella modalità femminista della fantascienza, la materia non è mai “semplice” mezzo per il seme “informatore”; piuttosto, mescolati nella sporta narrativa del pianeta Terra, parenti e progenie hanno rapporti molto più fecondi per il faremondo. Materia è una parola potente e consapevolmente concreta, la matrice e la generatrice delle cose, affine alla generatrice fluviale Oya. Non serve scavare o nuotare a lungo per arrivare alla materia come fonte, suolo, flusso, ragione e cose correlate – la materia della cosa, la generatrice che è allo stesso tempo fluida e solida, matematica e carnale – e, per quella via etimologica, a un tono di materia come legno, come legno interno duro (in portoghese madeira). Materia, mater, mutter mi obbliga – obbliga noi, quel collettivo raccolto nella sporta narrativa di Beyond the Cyborg – ad affrontare il problema naturalculturale multispecie sulla Terra. È tempo di tornare alla questione della ricerca di semi per la terraformazione che recuperi un mondo terreno di diversità, dovequando non scarseggiano le conoscenze su come uccidere. La mia sporta per la terraformazione è colma di semi di acacia, ma, come vedremo, anche questa collezione porta con sé la sua parte di guai. Comincio con il cadavere decapitato di una formica, trovato da scienziati-esploratori accanto al Seme 31, in una fila di semi di acacia degerminati, all’estremità di una galleria di una colonia di formiche nel racconto di Le Guin L’autrice dei semi di acacia e altri estratti da Rivista dell’Associazione di Teriolinguistica. I teriolinguisti erano incerti sull’interpretazione da dare al messaggio composto con l’essudato ghiandolare che la formica sembrava aver scritto sui semi allineati. L’incertezza riguardava sia l’interpretazione della scritta, sia chi fosse la formica: un’intrusa uccisa dai soldati della colonia? Una ribelle residente che scrive messaggi sediziosi sulla regina e le sue uova? Una poetessa tragica mirmense? 8. I teriolinguisti non potevano applicare le regole dei linguaggi umani al loro compito, e la loro comprensione della comunicazione animale era (è) ancora frammentaria, piena di ipotesi sulla profonda differenza naturalculturale. Dallo studio scientifico ed ermeneutico di altri linguaggi animali registrati in difficili spedizioni di scoperta, i teriolinguisti affermavano che “il linguaggio è comunicazione” e che molti animali usano una semiotica cinestetica collettiva attiva e un linguaggio chimico-sensoriale, visivo e tattile. Potrebbero anche essere stati turbati dalla loro lettura dell’inatteso testo di essudato di questa formica, ma erano certi che almeno stavano affrontando atti teriolinguistici e che un giorno avrebbero imparato a leggerli. Le piante, tuttavia, ipotizzavano, “non comunicano” e quindi non hanno linguaggio. Qualcos’altro accade nel mondo vegetale, forse qualcosa che dovrebbe essere chiamato “arte”9. La fitolinguistica, perseguita in questa direzione dagli scienziati e dagli esploratori, era appena agli inizi e avrebbe sicuramente richiesto modalità di attenzione, metodologia sul campo e invenzione concettuale completamente

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nuove. Il presidente dell’Associazione dei teriolinguisti declamava entusiasta: “Se esiste un’arte vegetativa e non comunicativa, noi dovremo ri-pensare gli elementi stessi della nostra scienza, e apprendere tutta una nuova serie di tecniche. Infatti è semplicemente impossibile utilizzare le capacità critiche e tecniche appropriate allo studio dei gialli sull’assassinio delle donnole, o dell’erotica dei batraci, o delle saghe sotterranee dei vermi, applicandole all’arte della sequoia e della zucchina”10. A mio avviso, il presidente ha ragione sulla necessità di mettere in discussione i tessuti delle proprie conoscenze e i modi di apprendimento per rispondere alla differenza non antropocentrica. Ma uno sguardo più attento a quella formica decapitata e ai semi di acacia degerminati, avrebbe dovuto dire a quegli scienziati ancora zoocentrici, che la loro sublime estetizzazione delle piante li ha portati fuori strada rispetto alle specie compagne che formano la terra. Le piante sono consumate comunicatrici in una vasta gamma di modalità terrene, creando e scambiando significati tra, e all’interno di, una stupefacente serie di associati attraverso i taxa degli esseri viventi. Le piante, insieme a batteri e funghi, sono anche le linee vitali di comunicazione degli animali con il mondo abiotico, dal sole, al gas, alla roccia. Per approfondire questo argomento, per ora devo lasciare la storia di Le Guin e attingere invece alle narrazioni degli studenti di simbiosi, simbiogenesi e biologia evolutiva ecologica dello sviluppo 11. Acacie e formiche possono fare quasi tutto il lavoro per me. Con millecinquecento specie (di cui circa mille indigene dell’Australia), il genere Acacia è uno dei più grandi generi di alberi e arbusti della Terra. Diverse acacie prosperano nei climi temperati, tropicali e desertici attraverso gli oceani e i continenti. Sono specie cruciali, che mantengono la sana biodiversità di ecologie complesse, ospitano molti inquilini e nutrono una moltitudine di commensali. Ricollocate da dovunque provenissero, le acacie sono state le preferite dei silvicoltori coloniali umani e sono ancora la merce di scambio di paesaggisti e allevatori di piante. In quelle storie, alcune acacie diventano invasive distruttrici di ecologie endemiche, che sono la responsabilità speciale dei biologi restauratori e di semplici cittadini di luoghi in via di recupero12. In parte e per intero, le acacie si presentano nei luoghi più inaspettati. Generose, ci donano splendidi legni duri come la koa hawaiana, e vengono abbattute nell’avido, sterminatore, eccesso capitalista globale. Le acacie producono anche le umili gomme polisaccaridi, compresa la gomma arabica dell’Acacia senegal, presenti in prodotti industriali umani come gelati, lozioni per le mani, birra, inchiostro, gelatine e francobolli vecchio stile. Questi stessi essudati costituiscono il sistema immunitario proprio delle acacie, e in quanto tali, contribuiscono a rimarginare le ferite e a combattere funghi e batteri opportunisti. Le api ricavano dai fiori di acacia un miele pregiato, tra i pochi che non cristallizza. Molti animali, tra cui falene, esseri umani e l’unico ragno vegetariano conosciuto, usano le acacie come alimento. Le persone si affidano alle acacie per la pasta di semi, i baccelli fritti, il curry, i germogli, i semi tostati e la root beer. Le acacie appartengono alla vasta famiglia delle leguminose. Ciò significa che, tra i loro numerosi talenti, in associazione con funghi simbionti micorrizici (che ospitano i propri endosimbionti batterici), molte acacie fissano l’azoto, cruciale per la fertilità del suolo, la crescita delle piante e l’esistenza degli animali 13. Nel difendersi dagli animali da pascolo e dai parassiti, le acacie sono vere e proprie fabbriche chimiche di alcaloidi, producendo molti composti che sono psicoattivi negli animali come me. Dal punto di vista delle giraffe, le acacie sfoggiano deliziose insalate a foglia sulle loro chiome, e rispondono all’assidua potatura delle giraffe producendo il pittoresco paesaggio di alberi a cima piatta della savana africana apprezzato dai fotografi umani e dalle imprese turistiche, per non parlare della salvifica frescura offerta a molte creature.

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Sostenuta all’interno di questa grande sacca narrativa sono pronta ad aggiungere alcuni miei dettagli alla storia-sporta in corso nel romanzo di Le Guin. Quella della formica decapitata e del suo seme di acacia/tavoletta di scrittura. I teriolinguisti si preoccupavano del messaggio che cercavano di decifrare nella scritta, io però sono completamente presa da ciò che in primo luogo ha avvicinato formica e seme di acacia. Come si conoscevano; come comunicavano; perché la formica ha dipinto il suo messaggio su quella superficie lucida? L’indizio sta nel seme degerminato. L’Acacia verticillata, l’arbusto australiano imparentato con l’acacia costiera che tanto preoccupa gli ecologi della California meridionale, produce semi che vengono dispersi dalle formiche. Le astute acacie attirano l’attenzione delle formiche con un vistoso picciolo attorcigliato attorno a ogni seme. Le formiche portano i semi così ornati nel loro formicaio, dove consumano a loro piacimento i piccioli ricchi di grassi, detti “elaiosomi”. Con il tempo, i semi germinano dal bel grembo fornito dalle gallerie delle formiche, mentre queste ultime hanno il cibo nutriente e ipercalorico di cui hanno bisogno per alimentare tutte quelle narrazioni delle loro stacanoviste abitudini. In termini ecologico-evolutivi, queste formiche e acacie sono necessarie per la reciproca attività riproduttiva. Alcune alleanze formica-acacia sono molto più complesse di così, raggiungendo i tessuti interni di ciascun partecipante, modellando i genomi e i modelli di sviluppo delle strutture e delle funzioni di entrambe le specie compagne. Diverse acacie dell’America centrale producono grandi strutture cave simili a spine chiamate “stipole” che forniscono riparo a diverse specie di formiche Pseudomyrmex ferrugineus. “Le formiche si nutrono di una secrezione di linfa sul gambo fogliare e sui piccoli corpuscoli alimentari ricchi di lipidi [e di proteine] all’estremità delle foglioline detti corpuscoli di Belt. In cambio, le formiche offrono protezione alla pianta contro gli erbivori” 14. Nulla vale quanto un deciso stuolo di formiche arrabbiate e pronte a pungere per dissuadere il pasto di una giornata, e il brucatore di foglie di qualsiasi specie si dirigerà verso dispense meno infestate. Nello speciale in cinque parti della BBC Science and Nature del 2005 con David Attenborough, nell’episodio intitolato Intimate Relations, questi scenari sono presentati in maniera squisitamente dettagliata e attraente. Assistiamo anche al fatto che “alcune formiche ‘coltivano’ gli alberi che danno loro riparo, creando aree dette ‘giardini del diavolo’. Per accertarsi che crescano senza rivali, sopprimono tutte le altre piantine circostanti” 15. Le formiche svolgono questo compito rosicchiando metodicamente rami e germogli e quindi iniettando acido formico nel tessuto conduttore delle piante incriminate. Simili reciprocità formica-acacia si osservano anche in Africa. Ad esempio, le acacie fischianti del Kenya forniscono rifugio alle formiche nelle spine e nei cosiddetti “nettari extranuziali” per le loro formiche simbiotiche quali la Crematogaster mimosae. A loro volta, le formiche proteggono la pianta attaccando i grandi mammiferi erbivori e gli scarafaggi che la danneggiano. Più si osserva, più si capisce che l’essenza del vivere e del morire sulla Terra è un contorto gioco multispecie chiamato “simbiosi”, ovvero quel legarsi insieme di specie compagne, sedute alla stessa tavola. Le formiche e le acacie sono gruppi molto diversificati e altamente popolati. Possono essere grandi viaggiatrici oppure sedentarie incapaci di sopravvivere lontane dai paesi e dai luoghi natali. Sedentarie o viaggiatrici, il loro modo di vivere e morire incide sulla terraformazione, passata e presente. Le formiche e le acacie bramano associarsi con creature di ogni sorta di dimensione e scala, e sono opportuniste rispetto al vivere e morire in tempiluogo evolutivi e organismici o coloniali. Queste specie, in tutte le loro complessità e continuità, causano grandi danni e sostengono interi mondi, a volte in associazione con gli umani,

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a volte no. Il diavolo si nasconde davvero nei dettagli delle naturecultures responsive, abitate da specie compagne responsabili. Loro – noi – siamo qui per vivere e morire insieme, non solo per pensare e scrivere insieme. Anche quello, certo, ma anche per seminare mondi insieme, per scrivere di essudati di formiche su semi di acacia, per far sì che le storie continuino. La mia storia di questi simbionti smaliziati è, al pari della storia-sporta di Le Guin – con la vecchia scorbutica pronta a prendere a borsettate i teppisti e l’autrice che brama tanto il casino quanto l’ordine delle sue presuntuose creature, umane e non –, un racconto di rettitudine e pace finale. Come Le Guin, mi impegno nei dettagli pignoli e dirompenti di buone storie che non so come finire. Le buone storie attingono a ricchi passati per dare sostegno a densi presenti e far proseguire la storia per chi verrà dopo 16. Queste specie compagne danno il La a storie senza capo né coda, scritte da cani, con tutti i ringhi, morsi, cuccioli, giochi, fiutate che ne conseguono. La simbiogenesi non è sinonimo di bene, ma di divenire insieme in responsabilità. Finalmente, ed era ora, la simpoiesi sostituisce l’autopoiesi e tutte le altre fantasie di sistemi autoformanti e autosostenenti. Simpoiesi è una sporta per la continuità, un giogo per il con-divenire, per restare nei guai dell’ereditare i danni e le conquiste delle molteplici storie naturalculturali, coloniali e postcoloniali, raccontando di un recupero ancora possibile. I teriolinguisti di Le Guin, pur avvolti nelle loro pelli animali, ebbero la visione di queste possibilità spaventose e stimolanti: “E con loro, o dopo di loro, forse andrà un avventuriero ancora più audace, il primo geolinguista che, ignorando le liriche delicate e transeunti dei licheni, leggerà al di sotto di questi le poesie ancora meno comunicative, ancora più passive, interamente atemporali, fredde e vulcaniche delle rocce; ognuna delle quali sarà una parola detta moltissimo tempo fa, dalla Terra stessa, nell’immensa solitudine, la più immensa comunità, dello spazio”17. Comunicativa e muta, la vecchia signora e la sua borsa si troveranno nelle comunità Earthseed sulla Terra e in tutto il tempospazio. Mutter, materia, madre.

Sowing Worlds: A Seed Bag for Terraforming with Earth Others (Seminare mondi. Un sacchetto di semi per la terraformazione con gli altri della Terra) è ripreso e leggermente modificato da Beyond the Cyborg: Adventures with Donna Haraway, a cura di Margret Grebowicz e Helen Merrick, New York, Columbia University Press, 2013, 137–146, 173–175. Una versione leggermente rivista è apparsa in Staying with the Trouble: Making Kin in the Chthulucene, Durham, Duke University Press, 2016. Quest’ultimo libro è pubblicato anche in italiano con il titolo Chthulucene. Sopravvivere su un pianeta infetto, Roma, Nero Edizioni, 2019, privo tuttavia di questo saggio. Tradotto, curato e riprodotto per gentile concessione della Columbia University Press. Copyright © 2013 Columbia University Press.

Donna J. Haraway è professoressa emerita presso il Dipartimento di History of Consciousness dell’Università della California, Santa Cruz. Ha conseguito il PhD in Biologia a Yale nel 1972, insegna Studi scientifici e tecnologici, Teoria femminista e Studi multispecie, argomenti di cui si occupa anche nei suoi scritti. Fra le sue pubblicazioni figurano: Crystals, Fabrics, and Fields (Yale University Press, 1976, 2004); Primate Visions (Routledge, 1989); Simians, Cyborgs, and Women (Routledge, 1991; tr. it. Manifesto cyborg. Donne, tecnologie e biopolitiche del corpo, Feltrinelli, 1995); Modest_ Witness@Second_Millennium.FemaleMan©_Meets_OncoMouseTM (Routledge, 1997, 20182; tr. it. Testimone_Modesta@FemaleMan©_ incontra_Oncotopo™. Femminismo e tecnoscienza, Feltrinelli, 2000); The Companion Species Manifesto (Prickly Paradigm Press, 2003; tr. it. Compagni di specie. Affinità e diversità tra esseri umani e cani, Sansoni, 2003); The Haraway Reader (Routledge, 2003); When Species Meet (University of Minnesota Press, 2008); Manifestly Haraway (University of Minnesota Press, 2016); e Staying with the Trouble (Duke University Press, 2016). Con Adele Clarke ha co-curato Making Kin Not Population (Prickly Paradigm Press, 2018), che affronta questioni sui numeri umani, sulla giustizia riproduttiva e ambientale femminista antirazzista e sulla proliferazione multispecie.

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Nello scrivere di specie compagne traggo spunto da Anna Tsing, Unruly Edges: Mushrooms as Companion Species, in “Environmental Humanities”, 1(1), 2012, 141–154 (ora disponibile in http://tsingmushrooms.blogspot.com. au). Senza l’ingannevole conforto offerto dall’eccezionalismo umano, Tsing riesce sia a raccontare la storia del mondo dal punto di vista degli associati fungini, sia a riscrivere il libro di Engels L’origine della famiglia, della proprietà privata e dello Stato. Quello di Tsing è un racconto di fabulazione speculativa, un genere di fantascienza cruciale per la teoria femminista. Lei e io siamo in una relazione di induzione reciproca, quel fondamentale processo evolutivo di sviluppo ecologico del fare-mondo che è alla base di tutto il con-divenire. Cfr. Scott F. Gilbert, David Epel, Ecological Developmental Biology: Integrating Epigenetics, Medicine, and Evolution, Sunderland (MA), Sinauer Associates, 2008. Il libro di Deborah Bird Rose, Reports from a Wild Country: Ethics for Decolonisation (Sydney, University of New South Wales Press, 2004) mi ha insegnato che il recupero, non la riconciliazione o il restauro, è ciò che è necessario e forse la sola cosa possibile. Trovo utili molte delle parole che iniziano con ri- o re-, tra cui rinascita e resilienza. Post- invece può essere un problema. Per Le Guin si veda soprattutto Il mondo della foresta, Milano, Editrice Nord, 1977 (ed. or. The Word for World Is Forest, New York, Berkley Books, 1976) e L’autrice dei semi di acacia e altri estratti da Rivista dell’Associazione di Teriolinguistica, in La rosa dei venti, Milano, Editrice Nord, 1984 (ed. or. “The Author of Acacia Seeds” and Other Extracts from the Journal of the Association of Therolinguistics, in Le Guin, The Compass Rose: Short Stories, New York, Harper & Row, 1982). La versione originale di questo racconto comparve per la prima volta nel 1974 in Fellowship of the Stars. Per Butler si veda soprattutto La parabola del seminatore, Roma, Fanucci, 2000 (ed. or. Parable of the Sower, New York, Four Walls Eight Windows, 1993), e La parabola dei talenti, Roma, Fanucci, 2001 (ed. or. Parable of the Talents, New York, Seven Stories Press, 1998). Butler ha ispirato una nuova generazione di “storie dai movimenti per la giustizia sociale”. Si veda Octavia’s Brood: Science Fiction Stories from Social Justice Movements, a cura di Adrienne M. Brown e Walidah Imarisha, Chico (CA), AK Press, 2015. Il lavoro di Le Guin pervade anche molti scritti per la giustizia ambientale e la rinascita ambientale. The Carrier Bag Theory of Fiction (La sporta: una teoria della narrazione) di Le Guin ha plasmato il mio pensiero sulla narrativa nella teoria evoluzionistica e sulla figura della donna raccoglitrice in Primate Visions. Le Guin ha appreso della “teoria della sporta dell’evoluzione umana” da Elizabeth Fisher, Woman’s Creation: Sexual Evolution and the Shaping of Society, New York, McGraw-Hill, 1979, durante quel periodo di grandi, coraggiose, speculative e terrene storie che infuocavano la teoria femminista negli anni Settanta e Ottanta. Come la fabulazione speculativa, il femminismo speculativo era, ed è, una pratica fantascientifica. Ursula K. Le Guin, The Carrier Bag Theory of Fiction (1986), in Women of Vision: Essays by Women Writing Science Fiction, a cura di Denise DuPont, New York, St. Martin’s Press, 1988, 166. Le Guin, The Carrier Bag Theory of Fiction, cit., 169.

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Qui, la mia guida con e attraverso la fantascienza, la mia Mystra, è Joshua LaBare, Farfetchings: On and in the SF Mode, tesi di laurea, University of California Santa Cruz, 2010: il termine Mystra di LaBare inizia ad acquisire significati a p. 17. LaBare sostiene che la fantascienza fondamentalmente non è un genere, anche nel senso esteso che include film, fumetti e molto altro, oltre al libro o alla rivista stampati. La fantascienza è, piuttosto, una modalità di attenzione, una teoria della storia e una pratica di fare-mondo. Scrive: “Ciò che chiamo ‘modalità fantascienza’ offre un criterio per concentrare quell’attenzione, per immaginare e progettare alternative al mondo che è, ahimè, il caso” (p. 1). LaBare suggerisce che la modalità fantascienza presti attenzione al “concepibile, possibile, inesorabile, plausibile e logico” (corsivo nell’originale, p. 27). Le Guin è una delle sue principali Mystra, specialmente nel richiamo di ciò che lei intende per “parlare al contrario” nel romanzo di fantascienza Always Coming Home (Sempre la valle), ambientato in una postapocalittica California settentrionale. Leggere La parabola del seminatore insieme a Sempre la valle è un buon modo per i viaggiatori costieri di riempire la sporta per una terraformazione rigenerativa prima dell’apocalisse, anziché subito dopo. Istruiti in questa modalità fantascientifica, forse gli umani e gli altri della Terra possono evitare l’inesorabile disastro e piantare il plausibile germe delle possibilità per un recupero multispecie e multiluogotempo, prima che sia troppo tardi. Myrmex (Μύρμηξ) in greco significa “formica”; una leggenda narra che una fanciulla attica di nome Myrmex irritò Atena attribuendo a se stessa l’invenzione dell’aratro, opera della dea, che quindi la trasformò in formica. A giudicare dalle gallerie che le formiche scavano in tutto il mondo e confrontando la cosa con gli attributi più celesti e cerebrali di Atena, penso che Myrmex avesse maggiore diritto all’attribuzione dell’invenzione dell’aratro. Uscire dal cervello di papà non è certo la stessa cosa che scavare gallerie e canalette nella terra, che si sia dea, donna o formica. Per quanto riguarda le formiche vere e proprie, non si può fare meglio di Deborah M. Gordon, Ants at Work: How an Insect Society Is Organized, New York, The Free Press, 1999; Gordon, Ant Encounters: Interaction Networks and Colony Behavior, Princeton (NJ), Princeton University Press, 2010; e Gordon, The Ecology of Collective Behavior, in “PLoS Biology”, 12(3), 2014. Per una visione in contrapposizione alla spiegazione cfr. Bert Hölldobler, Edward O. Wilson, The Superorganism: The Beauty, Elegance, and Strangeness of Insect Societies, New York, WW Norton, 2009, e Hölldobler, Wilson, The Ants, Cambridge (MA), Belknap Press, 1990. Basandosi sui propri studi relativi allo sviluppo del comportamento nelle colonie di formiche mietitrici nel deserto dell’Arizona e sull’evidenza che le singole formiche cambiano compito nel corso della vita, Gordon ha messo in discussione l’enfasi posta da Wilson sul comportamento rigidamente determinato delle formiche. Per me, Wilson rappresenta l’eroica Atena a fronte dell’inventiva fanciulla attica Myrmex di Gordon, dotata di sacchetto di semi e strumento di scavo. Per iniziare con le acacie, si veda la voce “Acacia” di Wikipedia, e poi Biology of Acacia, un numero speciale di “Australian Systematic Botany” (2003). Per non pensare che l’intera azione di costruzione

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del mondo sia una storia di formiche, cfr. Adam Mann, Termites Help Build Savanna Societies, in “Science Magazine”, 25 maggio 2010. Le Guin, L’autrice dei semi di acacia, cit., 29. Ibid. Cfr. ad esempio Gilbert, Epel, Ecological Developmental Biology, cit.; Scott F. Gilbert et al., Symbiosis as a Source of Selectable Epigenetic Variation, in “Philosophical Transactions of The Royal Society B: Biological Sciences”, 365(1540), 2010, 671–678; Margaret McFall-Ngai, The Development of Cooperative Associations between Animals and Bacteria, in “American Zoologist”, 38(4), 1998, 593–608; McFall-Ngai, Unseen Forces: The Influence of Bacteria on Animal Development, in “Developmental Biology”, 242(1), 2002, 1–14; e Myra J. Hird, The Origins of Sociable Life: Evolution after Science Studies, London, Palgrave Macmillan, 2009. Sulla simbiogenesi come motore del cambiamento evolutivo, cfr. Lynn Margulis, Dorion Sagan, Acquiring Genomes: A Theory of the Origin of Species, New York, Basic Books, 2002. Si veda il sito web del Global Invasive Species Database per informazioni sulle moleste acacie australiane in Sud America e Sudafrica. Per informazioni riguardanti l’Acacia mearnisii (canniccio nero) si consulti il sito Pacific Islands Ecosystems at Risk. Diverse specie di acacia, in particolare il canniccio costiero Acacia cyclops, preoccupano gli ambientalisti in California. Tutti questi controversi viaggiatori ci insegnano il confronto con il problema multispecie che motiva la maggior parte dell’attuale mio lavoro e della mia produzione. Cfr. Paola Bonfante, Iulia-Andra Anca, Plants, Mycorrhizal Fungi, and Bacteria: A Network of Interactions, in “Annual Review of Microbiology”, 63, 2009, 363–383. L’articolo richiama la nostra attenzione sulle molteplici pratiche di comunicazione tra i membri dei consorzi multispecie. Come riassunto nell’abstract: “Il rilascio di molecole attive, comprese quelle volatili, e il contatto fisico tra i vari membri, sembrano determinanti per la creazione della rete batteri/funghi micorrizici/ piante. Viene discusso il potenziale coinvolgimento del quorum sensing e dei sistemi di secrezione di tipo III, anche se l’esatta natura delle complesse interazioni interspecie/interphylum rimane poco chiara”. Cfr. voce “Acacia” in Wikipedia; Martin Heil et al., Evolutionary Change from Induced to Constitutive Expression of an Indirect Plant Resistance, in “Nature”, 430, 2004, 205–208. David Attenborough, Intimate Relations (episodio TV); Alison Ross, Devilish Ants Control the Garden, in “BBC News”, 21 settembre 2005. Il mio debito nei confronti di Deborah Bird Rose è evidente qui e nell’intero mio scritto. Si veda in particolare la sua elaborazione dell’idea di doppia morte in What If the Angel of History Were a Dog?, in “Cultural Studies Review”, 12(1), 2013, 67. “Doppia morte” significa l’uccisione della continuità e l’esplosione delle generazioni. Nel suo Reports from a Wild Country, Rose mi insegna i modi aborigeni di creare responsabilità, abitare il tempo e la necessità di recupero. Si veda anche l’importante rivista ad accesso libero “Environmental Humanities”, ora a cura della Duke University Press. Le Guin, L’autrice dei semi di acacia, cit., 30.


IT MISSES YOU Mel Y. Chen

Dear (lo sei/siete/lo è?), Mi manchi/mancate. Serve davvero dirlo? Gli anni – questi anni? – hanno fatto a brandelli la storia, scosso la possibilità dal cono del tempo, l’hanno riversata in altri mondi. (So bene che dovrei dire che è solo un’impressione). Come si fa a esigere guarigione, integrità, giustizia quando queste parole sembrano sfiorare la curva di un ottimismo non giustificato dalle condizioni attuali? E piuttosto che attribuire un nome a queste condizioni, che cosa significherebbe contattarle, toccarle? Perché i verbi, le configurazioni, le spazializzazioni della lingua marcano qualcosa di percepito come assente. Voglio intenzionalmente sentire la mancanza dell’ostinato calcolo che produrrebbe un risultato. Non tanto anarchica, quanto calcolata mancanza. Le perdite si accumulano e io le percepisco in assoluto di più. È una brutta abitudine, un attaccamento. Perché i sogni sconfinati saranno sempre in agguato all’ombra delle perdite. Quello sfioramento d’altra parte è troppo vicino, preserva l’attaccamento. Sono nauseato – nausea letteralmente? – da questi modelli di progresso, questi meccanismi di cambiamento, e perfino dai nomi che li designano – che forse mi si chiede di radunare, coltivare contro le depredazioni di ciò che è qui ora, ma che a essere sincero, My dear, vorrei mi fossero tolti di dosso. Anche se le loro posizioni tengono e i rapporti riprendono, non posso essere l’unico a sentire il bisogno – il disperato bisogno – di un diverso modello di spazio-tempo sul quale postulare questi sogni di alterità (è arduo per chi sogna sognare senza un qualche tipo di modello; voi sapete quali sogni, vero?). Anche lo spazio-tempo che voglio ha bisogno di piegarsi. Per rendere immediato il sogno, per non sospenderlo o fratturarlo o distanziarlo o irritarlo in continuazione, e anche per cedere il passo, permettendo il ripiegarsi su se stesso. Se al momento nei miei pensieri pazienza e indulgenza vanno dallo sporadico al costante, fuori tempo potrebbe essere un modo per annunciare la presenza della piega.

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Oh, ci sono così tanti tipi di piega. Voglio usarne in maggior numero per questa revisione dello spazio-tempo. A dire il vero, per me è giunto il momento di fare la muta, e allora saranno pieghe a volontà! L’ho fatta un po’ di volte, e benché io abbia avuto momenti incerti quando la muta si incastra sui miei fori per l’aria e devo afferrare qualcosa o grattarmi, è come un fresco tuffo nell’acqua, solo che si tratta del formicolio dell’aria su tutto il corpo. Per un po’ mi sono sentito nel corpo sbagliato, lì a spingere verso l’esterno contro un contenitore che mi stringe. È una sensazione stupenda quando la mia appuntita articolazione mediana di colpo salta fuori e io posso cominciare a raccoglierla a manciate e mangiarla. Chinati, allunga la mano, aggancia, strizza gli occhi, spingi, ingolla, batticiglio-ingoia. Chinati, allunga di nuovo la mano, aggancia, strizza gli occhi, spingi, ingolla, batti-ciglio-ingoia. Ci siamo passati tutti, forme di rinnovamento. I grandi incombenti simili ci fecero spazio quando eravamo piccoli e temevamo di prosciugarci perché il nostro stagno era diventato una misera pozzanghera, scolpirono un ruscello e noi ci accalcammo, ci incanalammo, respirammo di nuovo; quella gioia era lì, l’ondata dei nuovi simili, che si contorcevano tutti assieme. Anche quando i serpenti d’acqua si accontentavano, andando a prendere bocconcini per i loro giovani simili, molti di noi rimasero. E ora, inesperto e nuovo trabocco di sensazioni. Riesco quasi a udire canzoni remote in lontananza, miei simili e “altrosimili”. Anche ringhi, ringhi ritmici con tanto di odori ripugnanti. E mi spiace dirlo, ma c’è un formicolio diverso, “altrosimile” che secondo me ha atteso questo momento per infilarsi di colpo. Si sa, c’è un bel po’ di letame qui, nel fango, sul mio corpo, chiunque vive di chiunque, mangiamo, lecchiamo (manco una mosca finché non la catturo, così spesso colpisco simili e altrosimili), sicuramente tocchiamo, o manco-saltiamo, e alcuni altrosimili accettano passaggi. Sopra e attorno alle mie protuberanze – soprattutto la mia preferita che adoro massaggiare con il piede, ma anche all’interno di gomiti e ginocchia – ci sono morbide sacche scure in attesa di nuove creature. Mi è capitato di incontrare laggiù simili con uova, ma su di me sta già cominciando a nascere un piccolo fungo ragnateloso. È come il tocco di una schifezza, di una piccola cosa malvagia, e puzza. Si sta già facendo valere. Voglio vomitarlo o spruzzarlo con la mia ghiandola tossica, ma ovviamente non servirà a nulla. Ho i miei piani. Ho intenzione di raschiare quell’area contro i bordi di una qualche corteccia e vedere quanta ne viene via (insieme al mio bel nuovo strato di muco – bleah). E se alzo le braccia la pelle si tirerà, perciò se vado laggiù furtivo con tutti gli arti ben distesi, magari mi posso asciugare un po’ e spingerlo ad andarsene da un’altra parte. Continua a cercare di dire cose, a raccontare storie vittoriose di quelli alti dagli strani gracidii che cercano di strapparci per buttarci nei loro bidoni: lo hanno trascinato dalla gabbia alla guaina alla mano ai simili e altrosimili e poi di nuovo ai simili e altrosimili, ruscello, simili e altrosimili, stagno. Non sopporto quelle storie; non sopporto i ricordi di quel ferito mentre muta, quella muta che ha lasciato i simili senza pelle. Vorrei tanto sostituirlo con qualcos’altro, tipo quei graziosi esseri di fango

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che si prendono cura del mio muco e lo mantengono in salute. O anche solo andare a sedere accanto a una foglia, o a un mico-essere differente, quei floridi cappelli fungini sopra le fitte ragnatele che proteggono i miei preziosi occhi dalla pioggia battente – sì, quella combinazione è reale, facciamo ripetutamente amicizia. Questo è il nuovo me e mi merito il fango giusto. Quello che decisamente proprio non voglio è che quel fango fungino sbagliato si avvicini alle mie preziose gonadi. Ce le ho proprio belle in questa vita e lo so. E sono più di quanto la maggior parte di noi abbia dentro. Le formiche tagliafoglia, che a volte mangio, mi raccontano cose: come il ringhio lontano, una cosa che nessun simile o altrosimile aveva mai visto, che arrivò nello stesso momento in cui l’acqua aveva iniziato a cambiare e anche i simili e gli altrosimili avevano iniziato a cambiare. Quell’acqua di ruscello aveva un che di perfidia, una perfidia intrinseca. Desidero meno entrarci; preferisco le pozzanghere fresche nel passaggio di un peloso dopo la pioggia. Secondo le formiche tagliafoglia, i nuovi-simili avevano zampe extra, o nessuna zampa; protuberanze extra o nessuna protuberanza; pieghe extra, o neanche una. Di sicuro un salto diverso nel loro caso, e in alcuni sembrava disagevole (forse l’addome dovrebbe essere bene avvolto da quelle quattro zampe ma chi sono io per dirlo?), ma in quelli vicino a me stavamo ancora tutti mangiando e cacando bene, quindi questa vita potrebbe andare avanti ancora un po’. Un po’ quanto? Come dicono i simili, i simili vogliono crescere, restare, essere? In questi giorni, quando vedo i simili, provo davvero degli impulsi che non sono gli stessi di quando vedo un grande verme o una larva. Il richiamo che scaturisce dalla mia gola, specialmente quando esce fuori con l’aria, mi pare connesso al mio addome. Non so da dove venga questo impulso, ma voglio entrare in acqua, trovare simili, schiaffeggiare quell’addome sui simili e tenermi aggrappato per un po’, penetrando in profondità. Se piace a loro, piace anche a me. Qualunque flusso di uova venga prodotto e qualunque cosa finiscano per fare, va bene. Forse resteremo in contatto. Le mie gonadi saranno arrivate ai simili e mi sentirò gratificato. Per ora, la vita va bene. Tornando alla lettera, l’essere in comunione, la comunione a proposito del mancare e del mancante. Penso principalmente in questi giorni a una perdita profonda, reale, che tuttavia mi porta così tanti nuovi simili. Seguitemi bene; si tratta di una cosa confusa. La cosa confusa sono io, ma siamo anche noi e loro. Comincia con il genere? La storia che mi è stata raccontata è fondamentalmente una storia di sesso, genere: categorie, tipologie e il loro mantenimento. Non importa che molti di questi siano ereditati dalla ragnatelica diffusione della geofagia, quel modello di ingoiamento/autoriproduzione di strutture coloniali come gli Stati-nazione, da rifare negli stessi termini. Secondo la storia, tutto ciò che conta ricorre dalle persone e dai loro due tipi, il tipo donna e quello uomo. È semplicistico se non altro, lo ammetto. Eppure ogni spiegazione, se mi fermo a pensarci, sembra una parafrasi di questa cosa, quindi mi limito a lasciarla lì: è laica, è religiosa, è fondamentalmente la maggior parte dei sistemi se vuoi mappare la diffusione di quella cosa ragnatelosa e non ciò che sta cercando di coprire senza riuscirci. Quello che manca. E in quella mappa-ragnatela, questi due generi, distinti come due biscotti su una mensola, sono diventati in qualche modo il cuore di tutto, nel bene e nel male. Quindi rifiuto questa occupazione, anche se potrebbe non avere molta importanza; se il linguaggio è insieme nulla e tutto, la specificità pronominale – non solo riguardo al destinatario, che se la cava con “tu”, ma riguardo ad altri come la “terza persona” – in fin dei conti che cosa genera? La piega è quella del genere e della specie, dell’animato e dell’inanimato. Il problema mi sembra meno accogliere pronomi neutri e/o plurali, che una mancanza designata: quando

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mi scanso o mi tengo alla larga da quelle ragnatele, tutto ciò che trovo sono i simili. È la cosa confusa, è il ripiegarsi su se stesso, e qui, sento arrivare la piega. It misses you. A mo’ di poscritto: questo pezzo intende animare un destinatario vago e mutevole, che può essere umano, anfibio, fungino, planetario, collettivo, multiplo, ibrido, inanimato; ha lo scopo di eludere la determinazione precisa. Passeranno di qui rospi, che sono in assoluto il mio primo amore; un particolare fungo chitride che, a causa di una combinazione sconosciuta di presenza naturale, commercio di animali a scopo medico, sviluppo di test di gravidanza a uso domestico e cambiamenti climatici, ha attraversato una soglia dal normale al mortale per gli anfibi di tutto il mondo; interferenti endocrini come comuni inquinanti delle idrovie industriali che sono stati associati a molti effetti sugli animali, tra cui l’aumento di quelli che sono etichettati come rane e rospi “intersessuali”; e, come spero, un’amorevole virata sulla politica trans e la disabilità delle rivendicazioni per danni ambientali. Le suddette presenze non sono proclami ma suggerimenti. Ciò che inizia una lettera, diventa una storia, poi torna alla lettera che forse non potrebbe essere, data la voce/l’indirizzo. C’è quindi una sorta di piega, un ripiegarsi su se stesso o desiderio che sto cercando di eseguire, anche se in maniera accidentata, all’interno di risonanze tra l’apparente lamento umano-centrico, la “mancanza” dell’obiettivo idealizzato della gestione ambientale e la “mancanza” dell’ingiusta perdita che crea, e la voce del rospo dislocato la cui autenticità è inaccusabile e nel contempo profondamente strana, che registra la differenza chimica e sessuale pur rimanendo in qualche modo imperterrito e “locale”. Un tale fardello tiene il rospo, uno che sembra appunto indicibile nonostante conosca intimamente qualcosa della sua posizione fra le molteplici, stratificate forze. Infine, non desidero che l’irrefrenabile vivacità del rospo neghi la necessità di cure o preoccupazioni per l’ambiente. Il punto, piuttosto, è che le militanze intorno alla purezza possono essere particolarmente pericolose e possono trarre vantaggio da un’espressione iconoclasta. Che funzioni, che sia maldestro o scorrevole, caotico o appropriato, un tentativo fallito o che ci si senta come a casa, lascio a voi decidere.

Profonda gratitudine a Devi Peacock, Jack Aponte e Julia Bryan-Wilson per il loro coraggioso riscontro e sostegno critico. Mel Y. Chen (che usa i pronomi they/them/their) si forma come linguista femminista queer; ha conseguito un dottorato presso l’Università della California a Berkeley, e qui è Associate Professor di Gender & Women’s Studies e dirige il Center for the Study of Sexual Culture. Con il primo libro, Animacies: Biopolitics, Racial Mattering, and Queer Affect (Duke University Press, 2012) ha ricevuto il premio Alan Bray Memorial Book Prize della Modern Language Association – GL/Q Caucus per il contributo agli studi LGBT e/o Queer in letteratura e studi culturali. Il secondo libro, Chemical Intimacies, sta per essere completato. I loro interessi di ricerca e insegnamento includono teoria queer e di genere, Animal Studies, teoria critica della razza e studi asio-americani, sulla disabilità, sulla scienza e linguistica critica.

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Delcy Morelos, Inner Earth, 2018. Terra, tecnica mista, dimensioni variabili. Photo Hendrik Zeitler. Collezione dell’Artista. Roda Sten Konsthall, Göteborg, Sweden. Courtesy l’Artista

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DELCY MORELOS

1967, Tierralta, Colombia Vive a Bogotà, Colombia

Nel corso di trent’anni, Delcy Morelos ha sviluppato una pratica dinamica tramite mezzi come pittura, installazioni e scultura, in cui i materiali primari sono terra, argilla, tessuti, fibre e altri elementi naturali. Morelos inizia la sua carriera come pittrice e nei primi lavori, come ad esempio De lo que soy (1995), applica vernice acrilica rosso sangue su superfici cartacee, con pennellate geometriche ma al tempo stesso gestuali e naturali. Questi dipinti raffigurano recipienti e contenitori rossi con carne e sangue che si riversano, incontenibili, all’interno e all’esterno: il rosso e l’energia sprigionata testimoniano la storica violenza politica e il conflitto armato in Colombia. Nel corso del tempo, i suoi dipinti passano dai rossi ai toni della terra, per poi trasformarsi in grandi installazioni immersive fatte di terra. In queste sue opere più recenti, come ad esempio En tierra (2016), un sottile strato di terriccio copre il pavimento e le pareti dello spazio espositivo, mentre in altre, come Inner Earth (2018) e Earthly Paradise (2022), masse di terreno si innalzano al di sopra del piano di calpestio e circondano il corpo dello spettatore. Percorrendo Earthly Paradise, i visitatori possono avvertire l’odore della terra misto a fieno, farina di manioca, polvere di cacao e spezie come chiodi di garofano e cannella, e al tempo stesso percepire l’umidità, la temperatura, la consistenza e l’oscurità di questa materia. Benché questa installazione evochi l’estetica minimalista di opere quali New York Earth Room (1977) di Walter De Maria, l’utilizzo della terra da parte di Morelos è un gesto che si rifà alla sua educazione nel territorio indigeno del popolo EmberáCatío a Tierralta. Animate dalle cosmologie andine e amazzoniche, queste opere trasmettono l’idea che la natura non è qualcosa di inerte, che possiamo utilizzare e controllare a nostro piacimento da una posizione esterna e privilegiata, ma che noi stessi siamo esseri terreni. Nei paesaggi di terra di Morelos, il suolo è pregno di volontà, desiderio, magia e poteri creativi. A mano a mano che la terra penetra e influenza il nostro corpo e i nostri sensi, il nostro divenire umano assume una nuova forma: ci rendiamo conto di diventare sempre più humus, come la stessa etimologia latina della parola “umano” ci ricorda. Diventiamo, viviamo, moriamo e ci decomponiamo con e come la terra. – MH

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Delcy Morelos, Inner Earth, 2018. Terra, tecnica mista, dimensioni variabili. Photo Hendrik Zeitler. Collezione dell’Artista. Roda Sten Konsthall, Göteborg, Sweden. Courtesy l’Artista Pagine successive: Delcy Morelos, Inner Earth, 2018. Terra, tecnica mista, dimensioni variabili. Photo Hendrik Zeitler. Collezione dell’Artista. Roda Sten Konsthall, Göteborg, Sweden. Courtesy l’Artista

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JAIDER ESBELL

1979, Normandia, Brasile – 2021, São Sebastião, Brasile

Nel suo impegno di organizzatore, educatore e curatore, l’artista autodidatta di origini makuxi Jaider Esbell è stato un instancabile sostenitore dei diritti degli indigeni e portavoce dell’emergenza ecologica. Nato nel territorio ora conosciuto come Terra Indígena Raposa Serra do Sol, Esbell trascorre l’infanzia ascoltando il nonno raccontare storie su Makunaimî, il grande antenato dei popoli nativi della regione del Roraima. La sua ricerca artistica si sviluppa parallelamente alla personale indagine sul mondo occidentale negli anni in cui frequenta la scuola. Nel 1998, a diciannove anni, si trasferisce a Boa Vista, capitale dello Stato brasiliano del Roraima. Dopo aver lavorato come elettricista delle linee dell’alta tensione per un’impresa pubblica, si laurea in geografia per poi dedicarsi completamente all’arte a partire dal 2016. Esbell è stato un assiduo scrittore e attivista per i diritti del suo popolo, i Makuxi, il cui territorio è attualmente diviso tra Brasile, Guyana e Venezuela. È stato un sostenitore di ciò che chiamava “artivismo” (crasi tra arte e attivismo), ossia l’idea che l’arte può essere una forza poderosa nelle lotte per il riconoscimento della cultura e dei diritti sulle terre delle popolazioni indigene. La stessa opera artistica di Esbell – costituita da dipinti, disegni, video, poesie, scritti e performance – unisce cosmologia indigena e questioni socio-ambientali a un’aspra critica alla cultura dominante. Prima della morte nel 2021, la sua indagine si era concentrata sul concetto di txaísmo, un approccio alla creazione di forme di relazione tra il mondo indigeno e il mondo occidentale basate sulla reciprocità, e non più sull’estrattivismo coloniale. I dipinti della serie Transmakunaimî: o buraco é mais embaixo, che nel titolo richiamano il già citato Makunaimî, sono rappresentazioni astratte di scene che sembrano provenire dall’orizzonte dell’esistenza. Le energie spirituali che trascendono i confini temporali sono raffigurate mediante colori densi e vibranti, ed emergono dal caos per poi ricomporsi in forma di animali, piante e masse terrestri. Alcuni di questi dipinti descrivono il rapporto di Makunaimî con le forze vitali dell’Amazzonia caraibica, altre, come A vaca e A luta do boi com Makunaimî (entrambe del 2017), ritraggono l’invasione coloniale. Anche quando le immagini sono vicine all’astrazione totale, i dipinti di Esbell esprimono la continuità e la potenza della natura in risposta allo sfruttamento della società dominante. Come scrive l’artista: “Di un cespuglio, non importa quanto siano minuti i suoi rami, contiene tutto l’antidoto contro quel veleno che è la megalopoli”. – IW

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Jaider Esbell, Maikan e Tukui (Raposas e Beija-flores), 2020. Acrilico su tela, 100 × 75 cm. Photo Filipe Berndt. Collezione privata. Courtesy Galeria Jaider Esbell de Arte Indígena Contemporânea; Galeria Millan. © Jaider Esbell Estate

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In senso orario dall’alto a sinistra: Dalla serie Transmakunaimî: o buraco é mais embaixo Jaider Esbell, A vaca, 2017. Acrilico su tela, 89 x 90 cm. Photo Marcelo Camacho. Collezione privata. Courtesy Galeria Jaider Esbell de Arte Indígena Contemporânea. © Jaider Esbell Estate Jaider Esbell, Espírito dos Caxiris, 2017. Acrilico su tela, 89 × 90 cm Jaider Esbell, A origem das lagartas de fogo, 2017. Acrilico su tela, 89 × 90 cm Jaider Esbell, Latinoamérica, 2017. Acrilico su tela, 89 × 90 cm Photo Filipe Berndt. Collezione privata. Courtesy Galeria Jaider Esbell de Arte Indígena Contemporânea. © Jaider Esbell Estate

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In senso orario dall’alto a sinistra: Dalla serie Transmakunaimî: o buraco é mais embaixo: Jaider Esbell, Muiraquitãs, 2017. Acrilico su tela, 89 × 90 cm Jaider Esbell, A origem das lagartas de fogo, 2017. Acrilico su tela, 89 × 90 cm Jaider Esbell, A luta do boi com Makunaímî, 2017. Acrilico su tela, 89 × 90 cm Jaider Esbell, Pajés, 2017. Acrilico su tela, 89 × 89 cm Photo Marcelo Camacho. Collezione privata. Courtesy Galeria Jaider Esbell de Arte Indígena Contemporânea. © Jaider Esbell Estate

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S H E R O A N AW E H A K I H I I W E

1971, Sheroana, Venezuela Vive a Mahekototeri e Caracas, Venezuela

Cimentandosi nel disegno, nella pittura e nella stampa, Sheroanawe Hakihiiwe imprime sulla pagina la sapienza, la spiritualità, il lavoro e l’estetica della vita indigena sopravvissuta alla colonizzazione. Artista yanomami nato a Sheroana, una piccola comunità india sulle rive dell’Orinoco superiore nell’Amazzonia venezuelana, Hakihiiwe inizia a produrre carta negli anni Novanta, studiando con l’artista messicana Laura Anderson Barbata, che gli insegna diverse tecniche basate sull’uso di polpe derivate da fibre naturali. Su fogli fabbricati partendo da piante disponibili localmente, come shiki, àbaca, corteccia di gelso, canna da zucchero o banane, l’artista traccia delicate linee tratteggiate, cerchi, griglie, curve, intrecci e ghirigori che con modalità intime e personali rimandano a forme di conoscenza ancestrale. La simbologia di Hakihiiwe testimonia tradizioni culturali e pratiche sociali della propria comunità di origine, attingendo a un vasto repertorio di segni artistici, impiegati soprattutto nella fabbricazione di ceste e nella pittura sul corpo, associata ai riti cerimoniali. Nella cultura yanomami queste forme d’arte sono praticate soprattutto dalle donne e l’artista le ha apprese dalla madre. La tutela della conoscenza è un concetto essenziale nell’opera di Hakihiiwe e, come egli stesso ha affermato in diverse interviste, il rimando a motivi, forme e modelli antichi è parte di uno sforzo volto a conservarla. Allo stesso modo, per Hakihiiwe la superficie della carta porta con sé una risonanza tanto concettuale quanto pratica: non solo questo supporto può essere prodotto a partire da materiali locali, legando quindi qualsiasi segno tracciato su di esso a un luogo specifico, ma ha anche la capacità di attraversare il tempo e lo spazio. In una recente serie di delicati monotipi, Hakihiiwe compone astrazioni dell’ambiente attraverso attente ripetizioni ritmiche di motivi ricorrenti nella cultura yanomami e di nuovi simboli, creati osservando la giungla o la vita della comunità. Riferendosi a insetti, animali e piante, le linee e i triangoli tratteggiati in opere come Iri mamiki (2021) suggeriscono rami in boccio; in Yaro shinaki (2021), le foglie a forma di losanga di un albero di neem; o in Omawe (2021), la forma delicata di una libellula. Altri, come Hahoshi (2021) presentano analogie naturali meno concrete, tuttavia il riferimento fa pensare ai movimenti ascendenti e discendenti dei corpi celesti. Queste opere, insieme, formano un compendio grafico in costante espansione di simboli e segni yanomami. – MW

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Dall’alto in basso: Sheroanawe Hakihiiwe Hahoshi, 2021. Monostampa su carta di gelso, 76 × 144 cm Kepo, 2021. Monostampa su carta di gelso, 76 × 137 cm Mapuu thoki, 2021. Monostampa su carta di gelso, 76 × 144 cm Photo María Teresa Hamon. Courtesy ABRA Gallery. © Sheroanawe Hakihiiwe

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Dall’alto in basso: Sheroanawe Hakihiiwe Omayari misi, 2021. Monostampa su carta di gelso, 76 × 144 cm Pasho shina, 2021. Monostampa su carta di gelso, 76 × 144 cm Peripo, 2021. Monostampa su carta di gelso, 76 × 144 cm Photo María Teresa Hamon. Courtesy ABRA Gallery. © Sheroanawe Hakihiiwe

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Dall’alto in basso: Sheroanawe Hakihiiwe Puu nasipe wayurime, 2021. Monostampa su carta di gelso, 76 × 131.5 cm Shapono, 2021. Monostampa su carta di gelso, 76 × 144 cm Yoa, 2021. Monostampa su carta di gelso, 76 × 142 cm Photo María Teresa Hamon. Courtesy ABRA Gallery. © Sheroanawe Hakihiiwe

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E M M A TA L B O T

1969, Stourbridge, UK Vive a Londra, UK

Nei suoi incantati dipinti su seta che figurano su epiche guaine simili a tende, l’artista britannica Emma Talbot intende dimostrare che gli esperimenti formali possono essere liberatori a livello politico. Come spiega lei stessa, durante tutta la sua formazione artistica ha vissuto il predominio dei modi modernisti del fare pittura – il telaio rettangolare, i rigidi angoli della tela, la distanza critica fra artista e opera –, decidendo, tuttavia, che il fatto che ciò fosse quello che conosceva, non significava che fosse anche ciò di cui aveva bisogno. Citando l’influenza dalla teorica della letteratura e scrittrice femminista francese Hélène Cixous sull’écriture féminine, ovvero sulla scrittura femminile, cioè il tentativo di iscrivere il femminile nel linguaggio di un testo, nelle sue prime opere Talbot inizia a concepire il supporto tessile e le sue caratteristiche formali – il modo in cui scorre, si piega e come la sua superficie assorbe la pittura; la sua forza, il suo peso, l’irregolarità e l’immediatezza – come mezzo per esprimere un linguaggio artistico femminile. Anche i suoi disegni su sottili fogli di carta fatta a mano e le soffici sculture composte di tessuto cucito e cartapesta veicolano la strumentalizzazione femminista che Talbot fa dei materiali, come se fossero immaginati al di fuori dei confini dei “dati di fatto” da lei descritti. Segnati anche dall’influenza del pensiero postantropocentrico e postumano, i suoi enormi dipinti, disegni, animazioni e sculture tessili riuniscono forme figurative semplificate, motivi mitologici, schemi ritmici, colori vivaci e testi calligrafici che insieme esprimono aspetti della vita personale e delle esperienze interiori di Talbot, arrivando a toccare tematiche che spaziano dalla tecnologia alla natura, all’urbanistica e all’ecopolitica, fino alla pandemia e all’invecchiamento. Partendo dal titolo dello storico dipinto di Paul Gauguin D’où venonsnous? Que sommes-nous? Où allons-nous? (1897–1898), realizzato in un momento di profonda crisi e di una resa dei conti esistenziale nella carriera dell’artista, l’opera di Talbot Where Do We Come From, What Are We, Where Are We Going? (2021) affronta l’ansia esistenziale e il desiderio di fuga avvertiti dagli esseri umani nel comune presente di catastrofe climatica. Mettendo in scena una critica implicita all’autoesilio di Gauguin nella colonia francese di Tahiti, dove è ambientato il dipinto, Talbot ricopre la propria opera con testi che sollevano interrogativi su che cos’è la natura e su come – o se – vi si possa effettivamente “fare ritorno” in modo etico. – MW

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Emma Talbot, veduta dell’installazione, Emma Talbot. Sounders of the Depths, Kunstmuseum Den Haag, L’Aia, 2021. Photo Peter Cox. Courtesy l’Artista; K21 Kunstmuseum The Hague; Galerie Onrust Amsterdam; Petra Rinck Galerie Düsseldorf. © Emma Talbot Pagine successive: Emma Talbot, Ghost Calls, 2020. Acrilico su seta, 300 × 1500 cm. Photo Ruth Clark. Courtesy l’Artista; DCA Dundee Scotland; Galerie Onrust Amsterdam; Petra Rinck Galerie Düsseldorf. © Emma Talbot

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FIRELEI BÁEZ

1981, Santiago de los Caballeros, Repubblica Dominicana Vive a New York City, USA

Le opere di Firelei Báez, realizzate per mezzo di pittura, disegno e installazioni, mostrano riferimenti visivi che spaziano dalla mitologia alla fantascienza, fino alle narrazioni della diaspora africana. Riesaminando antichi racconti popolari tramandati nel corso del tempo, Báez riflette sul tema della resistenza nera, immaginando nuove interpretazioni e possibilità di divulgazione per le pagine di storia sulla tratta degli schiavi oltreoceano. Postulando il sé come mutevole e sconfinato, Báez indaga i diffusi racconti sull’identità e sulla soggettività nera, mentre i suoi protagonisti rivelano la fragilità di gerarchie costruite privilegiando alcune narrazioni rispetto ad altre. In una recente serie di dipinti, l’artista raffigura forme ibride che oscillano tra avatar femminili, piante, paesaggi e specchi d’acqua, disponendoli sopra alcune riproduzioni ingrandite di materiale storico rinvenuto, quali mappe di rotte commerciali e diari di viaggio. In questo modo arricchisce i racconti dimenticati della resistenza nera e valorizza il contributo, spesso ignorato, reso dalle donne e dalla mitologia femminile. Le immagini di opposizione sono un motivo ricorrente nell’opera di Báez. Il titolo della sua installazione immersiva A Drexcyen Chronocommons (To Win the War You Fought It Sideways) (2019) rappresenta una risposta alla mitologia acquatica afrofuturista elaborata dai Drexciya, duo di musica elettronica di Detroit, che descrive un mondo sottomarino popolato da una nuova generazione di umani-anfibi, i figli mai nati delle donne africane in stato di gravidanza gettate in mare dalle navi schiaviste. Insieme a una mappa raffigurante l’allineamento stellare all’inizio della rivoluzione haitiana, l’installazione presenta anche ritratti di donne nere che indossano il tignon, il copricapo imposto alle donne di colore libere nella Louisiana del XVIII secolo, durante la dominazione spagnola. In un gesto di ribellione, le donne si riappropriarono di questo strumento di repressione trasformandolo in un indumento alla moda. I nuovi dipinti di Báez per Il latte dei sogni, realizzati stratificando colate di vernice che si diramano verso l’esterno della tela, sono volti a dare forma alla memoria. Báez compie gesti calligrafici astratti, che si confondono suggerendo organismi acquatici o ciocche di capelli. Il segno grafico rappresenta il punto di partenza del suo coinvolgimento personale nei confronti della memoria culturale della diaspora africana, definito dall’artista come “una fusione tra l’illusorio corpo dipinto e la materialità della mia stessa presenza”. – LC

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Firelei Báez, On rest and resistance, Because we love you (to all those stolen from among us), 2020. Olio, acrilico su tela, 121,9 × 152,4 cm. Collezione privata. Photo Phoebe d’Heurle. Courtesy l’Artista; James Cohan, New York. © Firelei Báez

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Firelei Báez, Untitled (Drexciya), 2020. Olio, acrilico su tela, 228,6 × 291,5 cm. Collezione Suzanne McFayden. Photo Phoebe d’Heurle. Courtesy l’Artista; James Cohan, New York. © Firelei Báez Firelei Báez, To breathe full and free: a declaration, a re-visioning, a correction (19°36'16.9"N 72°13'07.0"W, 42°21'48.762" N 71°1'59.628" W), 2021. Installazione tecnica mista con suono, acrilico, polistirene espanso, compensato, alluminio, gomma, telo perforato, 6 × 22,86 × 8,15 m; 32 tracce audio, 48 min 22 sec (in loop). Veduta dell’installazione, ICA Watershed, Boston, 2021. Photo Chuck Choi. Courtesy l’Artista; James Cohan, New York. © Firelei Báez

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S A N D R A VÁ S Q U E Z D E L A H O R R A

1967, Viña del Mar, Cile Vive a Berlino, Germania

Sandra Vásquez de la Horra è cresciuta in Cile durante la dittatura militare di Pinochet (1973–1990) per poi lasciare il Paese negli anni Novanta e studiare in Germania. Dedita principalmente al disegno, l’artista talvolta realizza sculture pieghevoli a forma di casa, su cui raffigura creature ibride e fantastiche che appartengono al regno delle fiabe, dei sogni e dell’horror. Immerge i propri disegni in cera d’api fusa, conferendo agli sfondi un caratteristico color burro. Questo processo di conservazione sigilla la carta, evocando toni religiosi e aggiungendo uno strato di vulnerabilità alla natura del materiale. Influenzata dalla letteratura, nella sua opera Vásquez de la Horra combina testi in spagnolo, inglese e tedesco e manifesta una speciale attrazione per l’Antipoesia del cileno Nicanor Parra: l’uso di una lingua prosaica, che fonde ironia e tragedia, per rappresentare il comico e l’ordinario. Nei disegni di Vásquez de la Horra appaiono come emblemi molti simboli tratti da culture indigene e marginalizzate. Una figura ricorrente è lo scheletro agghindato Santa Muerte, come in Der Tod und das Mädchen (2015). In Lazarus (2017), un Lazzaro risorto dai lineamenti asiatici procede affiancato da due cani, in riferimento alla migrazione cinese verso l’America Latina alla fine del XX secolo. Los vientos (2016), ispirato alla canzone Angelitos negros della cantante spagnola Lola Flores, raffigura due donne yoruba, appartenenti a un gruppo etnico originario dell’Africa occidentale, che soffiano vento sulle vele di una barca tracciandone la rotta. La figura femminile è spesso centrale nei disegni di Vásquez de la Horra, che la raffigura come Madre Terra e creatrice, ma anche come creatura violata o remissiva. Disposte in una struttura lignea simile a una casa progettata dall’artista, le opere qui esposte mostrano corpi femminili che si fondono con paesaggi surreali (Erupciones [2019] e Flotante y su genealogía [2020]), che si dissolvono nella luce (Saludo a Olorun, 2021) o che diventano vettori o corollari di testi (América sin Fronteras [2017] e La Voz de un Pueblo que lucha [2019]). In una nuova serie di lavori a matita, acquerello e cera, Vásquez de la Horra piega la carta a fisarmonica per portare le sue figure in uno spazio scultoreo, enfatizzando la fisicità, la consistenza e la fattura dei segni grafici. Nel complesso, la sua pratica artistica esplora temi che spaziano tra mortalità, rinascita, sessualità, miti, riti, tradizioni e religioni, ed esamina la violenza e il soggiogamento subiti dalle popolazioni di discendenza africana nel corso della storia dell’America Latina. – LC

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Sandra Vásquez de la Horra, La verdad es demasiado grande, 2017. Disegno in 2 parti, grafite, sanguigna su carta, cera, 125 × 102 cm. Photo Eric Tschernow. Courtesy l’Artista. © Sandra Vásquez de la Horra

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Arsenale


Sandra Vásquez de la Horra, PACHAMAMA, 2019. Disegno (leporello), grafite, acquarello su carta, cera, 234 × 49 cm. Photo Eric Tschernow. Arthena Foundation, Düsseldorf. Courtesy l’Artista. © Sandra Vásquez de la Horra

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Sandra Vásquez de la Horra, Cosmic Matroshka, 2020. Disegno in 3 parti, grafite, acquarello, gouache su carta, cera, 200 × 101 cm. Photo Eric Tschernow. Courtesy Michael Haas Gallery, Berlin. © Sandra Vásquez de la Horra

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CANDICE LIN

1979, Concord, USA Vive a Los Angeles, USA

Candice Lin è nota per il suo inventivo uso dei materiali: che siano tè, tintura madre ricavata dai cactus o funghi e pipistrelli morti, sono tutti impiegati enfatizzandone le peculiarità, compresi gli odori e i sapori. Le diverse installazioni di Lin incorporano foglie di tabacco essiccate e pressate, Indigofera tinctoria, semi di papavero, lardo, fusioni in metallo, zucchero, fango proveniente dal letto del Tamigi e persino chiazze di cocciniglia, il rosso carminio ottenuto da insetti schiacciati che progressivamente macchiano il pavimento dello spazio espositivo. Tuttavia, l’obiettivo primario di Lin non è la semplice creazione di oggetti, quanto scavare in profondità nella memoria culturale che i mezzi artistici utilizzati racchiudono. Insieme, i suoi materiali evocano retroscena storici di pratiche artigianali, lavoro manuale, rituali, botanica, commercio globale, nonché la poderosa violenza della brama di possesso coloniale occidentale. Nella sua pratica artistica basata sulla ricerca, Lin adotta tattiche di esposizione spesso associate all’antropologia e alla storia naturale, che vengono reindirizzate e riformulate per accentuare, criticare e interrogare in modo complesso le storie coloniali radicate nei materiali e nelle suddette discipline. Xternetsa nasce da opere precedenti di Lin: l’installazione Seeping, Rotting, Resting, Weeping (2021), che comprende una tenda di stoffe indaco simile a un tempio, gatti in ceramica e un’animazione video che guida i visitatori nei movimenti del Qi gong, e gli oggetti esposti sui tavoli di The Mountain (2016), che includono, tra gli altri, dipinti, bachi da seta vivi, piante di gelso, frammenti di ceramiche e un’iguana impagliata. Riconfigurati in Xternetsa, questi tavoli ci accompagnano attraverso fasi trasformative, in cui i cambiamenti della materia fanno eco a momenti di transizione nelle storie dell’umanità: i fanghi provenienti dalle paludi di Saint Malo, primo insediamento asiatico negli USA, sono cotti per realizzare ceramiche; l’amido ricavato da piante di kudzu bollito è trasformato in bioplastica, mentre piante tradizionali cinesi come ginseng e Dong quai sono placcate in rame. Xternetsa riporta in vita il personaggio storico conosciuto come “George Psalmanazar”, un europeo che nel XVIII secolo diceva di provenire da Formosa, l’odierna Taiwan. L’uomo metteva in scena la sua falsa identità consumando pubblicamente oppio e carne cruda, dormendo in posizione verticale e scrivendo opere pseudoetnografiche in cui descriveva la lingua, i riti e i costumi del suo presunto luogo d’origine. Esaminando l’etnia come atto performativo che si intreccia a nozioni di animalità, ebbrezza e contaminazione, i toraci e i corpi delle figure in ceramica si aprono per rivelare armadi pieni di tinture, veleni e diorami di laboratori alchemici gestiti da demoni felini. – MW

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Questa pagina e successive: Candice Lin, Seeping, Rotting, Resting, Weeping, 2021. Pannelli indaco stampati a mano (katazome) e disegnati a mano (tsutsugaki), barra d’acciaio, tappeti colorati, ceramica smaltata, resina epossidica, piume, tessuto stampato a blocchi e stampato digitalmente (maschere), campanelli, nappe, piccoli oggetti vari, dimensioni adattabili. Veduta dell’installazione, Walker Art Center, Minneapolis, 2021–2022. Courtesy l’Artista; Galleria François Ghebaly

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AAG E GAU P

1943, Børselv, Sápmi/Norvegia Settentrionale – 2021, Karasjok, Sápmi/Norvegia Settentrionale

Lo scultore, scenografo e attivista politico Aage Gaup emerge come figura centrale dell’arte Sami e norvegese negli anni Settanta. Dopo gli studi presso la Trondheim Academy of Fine Art nel Sud della Norvegia, ottiene un incarico in una scuola elementare di Láhpoluoppal, nella Norvegia settentrionale, e si trasferisce nella vicina cittadina di Máze. Nel 1978, fonda insieme a otto artiste e artisti Sami il gruppo Máze, la cui sede serve da base all’attivismo organizzato per le proteste, in seguito note come “Alta Action”, contro la costruzione della diga lungo il vicino fiume Alta. Primo esempio di insurrezione di una popolazione indigena in Europa, tali proteste segnano un punto di svolta nel movimento per la rappresentanza politica e culturale dei Sami nella loro terra ancestrale, chiamata Sápmi, che si estende nel Nord di Norvegia, Svezia e Finlandia, fino alla Russia nordoccidentale. Gaup è noto soprattutto per le monumentali sculture lignee, sia figurative sia astratte. Nelle sue opere si innestano al contempo la conversazione modernista e le convenzioni pittoriche, le prospettive spirituali e i simboli cosmologici dei Sami. Gaup si è impegnato molto al servizio delle popolazioni indigene e profughe in ogni luogo del pianeta. L’opera in legno scolpito intitolata Forest Being (2016) è realizzata in onore delle popolazioni indigene del Sudamerica, allontanate a forza dalle loro case nella foresta pluviale. Gimme Shelter (2004) è ideata da Gaup per dare voce ai rifugiati di tutto il mondo e, nel 2014, viene esposta presso la sede della Tromsø Art Association per raccogliere fondi destinati all’acquisto di protesi per i bambini di Gaza. Per Il latte dei sogni espone l’opera Sculpture I & II (1979), una scultura che ricorda un’onda, sospesa a mezz’aria, che attraversa lo spazio espositivo. Le tre fasce di colore blu in basso, giallo nel mezzo e arancione in alto, evocano un fiume con le sue rive e, forse, un cielo o un’alba che lo sovrastano. L’onda è sostenuta da una struttura costituita da grossi rami, simile a un doppio trespolo per uccelli, a richiamare la presenza degli alberi lungo gli argini. L’artista descrive l’opera anche in termini musicali, facendo riferimento alla struttura dello joik, forma di canto tradizionale Sami. Purtroppo, Gaup è venuto a mancare improvvisamente nel dicembre 2021. – MK

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Aage Gaup, Sculpture I & II, 1979. Legno, vernice, viti, fili, 62 × 78 × 274 cm e 65 × 75 × 298 cm. Photo Nordnorsk Kunstmuseum / Kim G. Skytte. Collezione e Courtesy Nordnorsk Kunstmuseum, Tromsø, Norvegia

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ZHENG BO

1974, Pechino, Cina Vive sull’isola di Lantau, Hong Kong

L’attività di Zheng Bo è tutta incentrata su relazioni onnicomprensive e multispecie. Attraverso una pratica artistica volta all’impegno sociale ed ecologico, Zheng traccia un percorso alternativo che toglie enfasi alla visione antropocentrica del mondo adoperandosi, invece, per realizzare un’interconnessione tra tutti gli esseri viventi. Lavorando a Hong Kong ma viaggiando spesso, l’artista ha dedicato gli ultimi dieci anni allo studio delle piante, seguendo gli insegnamenti di esperti di biologia e botanica e creando al contempo rituali artistici e quotidiani che si concentrano sulla cura interspecie. Zheng è molto interessato alla politica e alle dinamiche di potere create da e per gli esseri umani. Realizza quotidianamente performance, video, laboratori comunitari e disegni, in cui forza le nozioni standard di coesistenza umanavegetale, consentendo al pensiero immaginativo di condurre verso quella che concepisce come una vitalità postumana. L’artista si prefigge di onorare la conoscenza e i legami che esistono naturalmente tra piante, animali e uomini. Zheng, inoltre, decide di operare deliberatamente su una differente scala temporale, decelerata e insensibile alle incessanti bizzarrie della produzione capitalista. Per il progetto del 2020 intitolato Drawing Life, si è dedicato a una pratica quotidiana di disegno, costituita da passeggiate e tempo trascorso a osservare e disegnare la flora circostante, in un’immersione lunga un anno, per la quale aveva a disposizione solo tre matite e un taccuino. Le opere di Zheng muovono e si sviluppano l’una dall’altra. In Pteridophilia, una serie di performance e video iniziata nel 2016 e tuttora in corso, l’artista esplora le possibilità erotiche esistenti tra piante – in particolare felci – e uomini queer. In questi lavori il sesso ha luogo in varie forme, superando provocatoriamente la mera sensualità in favore di atti di piacere estremo. Le curiosità eco-sessuali di Pteridophilia sono state sviluppate ulteriormente in un’opera che unisce film e danza intitolata Le Sacre du printemps (Tandvärkstallen) (2021), frutto della collaborazione con cinque danzatori scandinavi riunitisi in una foresta della contea di Dalarna, in Svezia. Qui la compagnia ha coltivato rapporti che si sono spinti oltre le felci, alimentando, attraverso tatto e movimento, i desideri sessuali collettivi con pini, muschi e l’interazione tra umani. I danzatori hanno trascorso un’intera settimana nella foresta di conifere agitando, venerando, facendo stormire e abbracciando gli alberi con lussuria. L’obiettivo ultimo di Zheng è far trionfare l’uguaglianza interspecie attraverso scambi sensibili e dimostrare che il pensiero e l’essere non sistemici possono condurre a una politica più sana tra molteplici forme di vita. – IA

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Zheng Bo, Le Sacre du printemps (Tandvärkstallen) (stills), 2021. Video in 4K, colore, suono, 20 min. Courtesy l’Artista; Edouard Malingue Gallery, Hong Kong. © Zheng Bo

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N O A H D AV I S

1983, Seattle, USA – 2015, Ojai, USA

L’opera dell’artista e curatore Noah Davis osserva la vita contemporanea afroamericana attraverso una lente peculiare, incisiva, intima e spesso melanconica. Dopo gli studi di pittura alla Cooper Union School of Art di New York, nel 2004 si trasferisce a Los Angeles. Nel 2012, con la scultrice Karon Davis, sua moglie, fonda un importante spazio gestito da artisti, l’Underground Museum, per portare l’arte d’avanguardia in un’area principalmente abitata da neri e ispanici, senza accesso a istituzioni culturali. Scomparso a soli trentadue anni, Davis ha realizzato circa quattrocento opere tra dipinti, collage e sculture. Le schiette rappresentazioni della vita afroamericana di Davis dialogano con una generazione precedente di artisti, come Fairfield Porter, Jacob Lawrence e Palmer Hayden, ma la sua opera è parimenti influenzata dalla figurazione di Marlene Dumas e Luc Tuymans. I dipinti di Davis sovrappongono ricordi e immaginazione, attingendo a fotografie, alla storia dell’arte occidentale e alle esperienze personali dell’artista. In alcuni dipinti, Davis innesta soggetti fantastici nella bellezza eccentrica della quotidianità. Isis (2009) ritrae Karon in un costume dorato, con due grandi ventagli dispiegati come ali, nelle vesti della dea egizia della magia; il dipinto ricorda come il sacro possa trovarsi nella vita di tutti i giorni. The Conductor (2014) è parte di una serie dedicata alle potenzialità dell’arte in un quartiere a basso reddito come Pueblo del Rio, città giardino edificata a Los Angeles nel 1941: il dipinto raffigura un uomo in smoking che dirige un’orchestra invisibile dal portico di casa, sconfinando nuovamente nel surreale. Lo sguardo acuto di Davis si rivolge anche alla storia in 40 Acres and a Unicorn (2007), in riferimento ai “quaranta acri e un mulo” che si diceva sarebbero stati assegnati alle famiglie dei neri, una volta liberati alla fine della Guerra civile americana; con amara ironia, il Realismo Magico del dipinto evoca la delusione di fronte agli sforzi del governo statunitense, volti non tanto a realizzare il diritto dei neri a possedere e lavorare la terra, quanto a fornire manodopera salariata alle piantagioni. Infine, l’uomo ritratto in The Future’s Future (2010) è connesso a una sorta di simulatore di realtà virtuale, circondato da piante verdeggianti che paiono proiezioni da un regno digitale. Seppure tragicamente breve, la carriera artistica di Davis lascia opere che testimoniano un approccio in cui la pittura è una porta che si affaccia sulla memoria, sulla storia e su mondi che trascendono quello in cui viviamo. – IW

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Noah Davis, Isis, 2009. Olio, acrilico su lino, 121,9 × 121,9 cm. Collezione privata. Courtesy The Estate of Noah Davis; David Zwirner. © The Estate of Noah Davis

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Noah Davis, 40 Acres and a Unicorn, 2007. Acrilico, gouache su tela, 76,2 × 66 cm. Collezione privata. Courtesy The Estate of Noah Davis; David Zwirner. © The Estate of Noah Davis Noah Davis, The Conductor, 2014. Olio su tela, 175,3 × 193 cm. The Estate of Noah Davis. Courtesy The Estate of Noah Davis; David Zwirner. © The Estate of Noah Davis

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I B RA H I M E L- S A L A H I

1930, Omdurman, Sudan Vive a Oxford, UK

L’artista, intellettuale e poeta sudanese Ibrahim El-Salahi è uno dei capostipiti del Modernismo africano. Apprezzato per il carattere lirico e onirico dei suoi disegni e dipinti, El-Salahi fonde elementi di calligrafia araba, tradizione ornamentale sudanese e spiritualismo islamico insieme a convenzioni formali di astrazione pittorica, apprese studiando alla Slade School of Fine Art di Londra negli anni Cinquanta. Con il pittore Ahmed Shibrain, El-Salahi è uno dei fondatori della Scuola di Khartum, movimento artistico modernista caratterizzato dall’interesse per la conservazione e l’esplorazione del patrimonio estetico sudanese, in seguito all’indipendenza nazionale proclamata nel 1956. Tra la fine degli anni Sessanta e l’inizio degli anni Settanta, El-Salahi assume il ruolo di funzionario pubblico con l’incarico di istituire il Dipartimento della cultura del Paese e conduce per diversi anni un programma televisivo, intitolato Bayt Al-Jak (La casa di Jack), dedicato all’arte, alla cultura e ai temi sociali. Nel 1975, tuttavia, El-Salahi, ingiustamente accusato di aver preso parte a un tentativo di colpo di Stato, viene detenuto per sei mesi senza processo nel famigerato carcere di Kober. L’artista ha raccontato che, durante la prigionia, disegnava di nascosto su frammenti di cemento che poi interrava affinché non venissero scoperti. Dopo il rilascio, realizza Prison Notebook (1976), opera fondamentale costituita da immagini e prosa. Le due serie di disegni intitolate Pain Relief (2016–2019) e Behind the Mask (2020–2021) testimoniano la capacità di El-Salahi di lavorare in condizioni di estremo disagio fisico. Afflitto da un dolore costante e limitato nei movimenti a causa di problemi di salute, l’artista crea queste opere da seduto, tracciando a penna decine di disegni su materiali a portata di mano, come buste postali usate o il retro delle confezioni dei farmaci. Nei disegni della serie Behind the Mask, le linee vigorose rispecchiano l’ansia e l’irrequietezza provate durante la pandemia da Covid-19. Ritraendo figure e volti esagerati, astrazioni lineari dissonanti e paesaggi intricati, delimitati da cornici rettangolari corrispondenti alle pieghe della scatola su cui disegna, i nuovi disegni di El-Salahi rispecchiano la claustrofobia vissuta durante la pandemia attraverso composizioni allo stesso tempo soffocanti e stravaganti. Nonostante tutto, come racconta lui stesso, quando è immerso nel disegno riesce momentaneamente ad alleviare l’esperienza del dolore e a ritrovare la dimensione meditativa dell’immaginazione. – MW

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Ibrahim El-Salahi, Behind the Mask, 2021. Penna, inchiostro sul verso di una scatola di medicinali, 11 × 19,2 cm. Photo Justin Piperger. Courtesy l’Artista; Vigo Gallery

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Ibrahim El-Salahi, Behind the Mask, 2020. Penna, inchiostro sul verso di una scatola di medicinali, 17,9 × 10,3 cm. Photo Justin Piperger. Courtesy l’Artista; Vigo Gallery

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Ibrahim El-Salahi, Behind the Mask, 2021. Penna, inchiostro sul verso di una scatola di medicinali, 14 × 13 cm. Photo Justin Piperger. Courtesy l’Artista; Vigo Gallery

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ALI CHERRI

1976, Beirut, Libano Vive a Parigi, Francia

L’opera di Ali Cherri spazia tra film, video, installazioni, disegni e performance. Nella sua pratica artistica, Cherri affianca le pressanti realtà politiche di un’infanzia trascorsa a Beirut durante la decennale Guerra civile libanese a momenti della storia. Posti lungo un continuum temporale, mondo antico e società contemporanea, paesaggio e memoria collettiva emergono come spazi di mitopoiesi, sia delle origini sia del progresso senza fine. Nelle multiformi opere dell’artista, l’archeologia e le relative pratiche di classificazione e museificazione degli oggetti assurgono spesso a emblema dei vari tipi di finzione, che si materializzano nella costruzione del passato. Nella sua nuova videoinstallazione multicanale intitolata Of Men and Gods and Mud (2022), Cherri rivolge l’attenzione alla diga di Merowe, una delle maggiori opere idroelettriche del continente africano, che si trova lungo il Nilo, nel nord del Sudan. La storia della diga si dispiega attraverso quella di un mattonaio, le cui attività quotidiane evocano una visione poetica e soprannaturale dello sviluppo, della catastrofe geologica e del lavoro manuale. Ultimo capitolo di una trilogia iniziata con The Disquiet (2013) e proseguita con The Digger (2015), in cui l’artista esplora le tematiche del disastro umano e ambientale, nonché la storia delle rovine e della cartografia in Medio Oriente, Of Men and Gods and Mud immagina l’ardua costruzione di una diga come la creazione di un portale verso un mondo fantastico. Nel film, un mattonaio stagionale trascorre i suoi giorni nella calura, impegnato nell’estenuante antico compito di plasmare il fango in mattoni; durante la notte, in segreto, costruisce una struttura di fango e scarti che si trasforma in una creatura mistica dalla presenza corporea. Immaginata come un mostro, questa creatura funge da metafora della devastazione provocata dalla costruzione della diga, la cui realizzazione, a partire dall’inizio del millennio, ha determinato il trasferimento forzato dall’area circostante di oltre cinquantamila persone e la riduzione dei lavoratori del fango a manovalanza esiliata e temporanea. Nel riflettere sull’immaginario che circonda il fango e il diluvio, come i miti egizi sulle esondazioni del Nilo, la leggenda ebraica del golem, l’arca di Noè, i mostri dei B-movie, Cherri coglie un’ulteriore associazione con questi eventi naturali, profondamente radicata tanto nel mito quanto nella storia: la creazione dell’Altro. Allontanato dalla propria casa, chi è vittima dell’esilio per ragioni ambientali diviene straniero, ed è reso mostruoso. Tuttavia, concepito come prodotto della feconda immaginazione del mattonaio, il mostro diventa un ricettacolo generativo della potenziale capacità radicale del regno della fantasia di creare un mondo nuovo e migliore. – MW

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Ali Cherri, Grafting (G), 2018. Testa di Eros in marmo, figura di protezione Lobi dal Burkina Faso, legno, ala di ghiandaia essiccata. 50 × 15 × 15 cm. Courtesy l’Artista; Galerie Imane Farès, Paris. © Ali Cherri

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Ali Cherri, Untitled, 2022. Installazione video multicanale, 20 min (in loop). Courtesy l’Artista; Galerie Imane Farès, Paris © Ali Cherri

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JESSIE HOMER FRENCH

1940, New York City, USA Vive a Mountain Center, USA

Autoproclamatasi “pittrice narrativa locale”, Jessie Homer French è conosciuta per la sua pittura paesaggistica e di genere, che attraverso combinazioni contraddittorie e immagini oniriche approda a misteriose e indimenticabili istantanee di vita, morte e natura. Dopo aver vissuto nelle zone rurali di British Columbia, Oregon, New York, e più di recente nei pressi delle San Jacinto Mountains nel deserto della California meridionale, l’artista parla del sentimento di interiorizzazione dei paesaggi in cui ha abitato; in molti dei suoi delicati dipinti di piccole dimensioni, la natura incontaminata della Costa occidentale, soprattutto della California meridionale, è mostrata con una tale ricchezza di dettaglio da farli risultare tanto eccentrici quanto meditazioni sull’ambiente americano e sul precario ruolo che la specie umana esercita al suo interno. Evocative della tradizione pittorica bucolica, territoriale e realista americana, le opere di Homer French sono intrise di un’atmosfera pacata e al contempo densa dal punto di vista esistenziale, e spesso suggeriscono immagini di immobilità, alienazione, morte, degrado e disastro. I suoi soggetti sono definiti da forme semplici, avvolte da campiture cromatiche intense e uniformi, spesso catturate da prospettive irregolari: coyote che si aggirano nel deserto tra gli alberi spinosi di Yucca, pesci che guizzano oltre i massi di ruscelli scoscesi mentre il bagliore di un lampo illumina le montagne sullo sfondo, un cervo che giace morto tra i ciuffi d’erba. I cimiteri compaiono assiduamente. In Winter Burial (2020) lastre di pietra costellano un desolato terreno innevato; Bitterbrush and Sagebrush, Bridgeport Cemetery, e Island Deer (tutti del 2020) mostrano corpi vestiti che riposano in pace nelle proprie bare deposte all’interno di tombe, sullo sfondo di paesaggi invernali. Tra gli inquietanti temi trattati da Homer French ritroviamo anche lo spettro delle catastrofi naturali, tra cui gli incendi che devastano la Costa occidentale americana come in Burning e ON FIRE (entrambi del 2020). Mojave Stealth Bombers (2013), in cui un velivolo sorvola un campo d’aviazione e un parco eolico sullo sfondo di un arido paesaggio desertico, ritrae una scena minacciosa, simbolo del duro scontro tra la natura e la violazione perpetrata dall’uomo. – MW

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Jessie Homer French, Oil Platform Fire, 2019. Olio su tela, 61 × 61 cm. Courtesy l’Artista; Various Small Fires Los Angeles/ Seoul; MASSIMODECARLO. © Jessie Homer French

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Jessie Homer French, Island Deer, 2020. Olio su tela, 61 × 76,2 cm. Courtesy l’Artista; Various Small Fires Los Angeles/Seoul; MASSIMODECARLO. © Jessie Homer French Jessie Homer French, Chernobyl, 2017. Olio su tela, 91,4 × 91,4 cm. Courtesy l’Artista; Various Small Fires Los Angeles/Seoul; MASSIMODECARLO. © Jessie Homer French

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S O LA N G E P E S S OA

1961, Ferros, Brasile Vive a Belo Horizonte, Brasile

Traendo ispirazione da una ricerca visiva che spazia in svariati ambiti, quali la pittura rupestre preistorica, la Tropicália (movimento tropicalista), la Land Art, l’architettura barocca, le sontuose vesti papali cerimoniali, l’Arte Povera, la livrea degli uccelli della foresta pluviale, la poesia e la tradizione artigianale degli interni brasiliani, l’artista Solange Pessoa crea installazioni, disegni, dipinti e sculture che pongono l’osservatore in uno spazio in cui vivere una sublime esperienza sensoriale. Influenzata dagli esperimenti di altre artiste brasiliane come Lygia Clark, Tarsila do Amaral e Maria Martins, Pessoa instaura una relazione profonda e immaginaria con il paesaggio del Brasile sudorientale e con i legami concettuali tra corpo e natura; Clark, della quale Pessoa nel 1993 ha co-curato una mostra al Museu de Arte di Belo Horizonte, rimane un soggetto di grande fascino e oggetto di studio. Dagli anni Ottanta, Pessoa fa confluire materiali organici, tra i quali pietra, piume, cuoio, capelli, olio, grasso, rami d’albero, sangue animale e muschio all’interno della sua opera enigmatica e fantastica, creando forme primordiali che pulsano di vita e, al contempo, appaiono ammutolite dallo spettro della morte. Nella sua maturità Pessoa continua a esplorare il legame tra corpo e natura, così come tra cultura e paesaggio. Gli intensi disegni in bianco e nero, che comprendono la serie Sonhíferas (2020–2021), raffigurano sinuose creature e insetti durante la metamorfosi. Nell’allestimento della mostra, questi disegni sono generalmente presentati come installazioni a tutta parete, così da avvolgere l’osservatore in un paesaggio popolato dalle sue creature astratte. Pessoa applica questo tipo di esperienza rituale anche al processo di creazione delle sue sculture ricorrendo alla steatite, una comune pietra tenera usata sin dall’antichità nella regione brasiliana di Minas Gerais per la produzione di ciotole, piani di cottura e pipe, e ampiamente impiegata nel corso del XVIII e XIX secolo per la realizzazione di statue e edifici civili, militari o religiosi. La serie di sculture scolpite in steatite (pedra-sabão) dimostra la duttilità dei materiali come risorse metaforiche che connotano la genesi del processo e della costruzione, della natura e della cultura. Presentate in un’installazione di quasi cinquanta sculture di volume, densità e morfologia variabili, le opere di Nihil Novi Sub Sole (2019–2021) formano gruppi botanici che danno vita a percorsi destinati ai visitatori. Da questa prospettiva, la loro natura tattile e sensuale crea un ambiente di sottile mistero, un’esperienza visiva che racchiude allo stesso tempo la sfera sensoriale e la capacità percettiva. – MW

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Solange Pessoa, Nihil Novi Sub Sole, 2019–2021. Pietra saponaria, dimensioni variabili. Photo João Vargas. Courtesy l’Artista; Mendes Wood DM Sao Paulo, Bruxelles, New York Pagine successive: Solange Pessoa, Sonhíferas, 2020– 2021. Quattordici dipinti. Olio su tela, 158 × 150 cm ciascuno. Photo Daniel Mansur. Courtesy l’Artista; Mendes Wood DM Sao Paulo, Bruxelles, New York

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Arsenale




P R A B H A K A R PA C H P U T E

1986, Sasti, India Vive a Pune, India

L’artista indiano Prabhakar Pachpute è noto per la versatilità del suo lavoro, in cui la sfera politica e personale si fondono con quella surreale. Nato nel villaggio di Sasti, situato nel distretto di Chandrapur nello Stato del Maharashtra, Pachpute proviene da una famiglia di minatori che da generazioni lavorano nelle aspre condizioni di quella che è conosciuta come la “cintura del carbone” locale. Nell’affrontare i temi che hanno fortemente segnato le esperienze di vita della sua comunità, quali fatica, consunzione, sradicamento, migrazione e degrado ambientale, l’opera di Pachpute è spesso permeata da venature malinconiche o elementi fantastici, che ammantano i suoi messaggi di un magnetismo affascinante e allo stesso tempo inquietante. Conosciuto per gli immensi disegni a parete realizzati a carboncino, raffiguranti paesaggi distopici che l’industria ha prima sfruttato e poi abbandonato, Pachpute realizza anche piccole opere su carta e animazioni stop-motion a carboncino, spesso associate a sculture; il suo mezzo elettivo – il carboncino – è un riferimento poetico sia al passato famigliare sia al tema dominante della sua pratica. Nelle oniriche installazioni murali e negli ambienti immersivi, la presenza di motivi surreali – tra cui ibridi uomo-macchina, figure senza volto e paesaggi immaginari – si mescola a strategie ben note nelle storie dell’avanguardia, utilizzate come veicolo per creare una visione alternativa del mondo sullo sfondo del conflitto e della meccanizzazione. La scena surreale raffigurata in Unfolding of the Remains-II (2022) è in parte ispirata alla scoperta di una nave da guerra risalente all’età romana, rinvenuta in una miniera della Serbia orientale, dov’era rimasta sepolta per tredici secoli. Larga dieci metri e collocata su una parete caratterizzata da campiture a carboncino, la tela pone l’osservatore sull’orlo di una miniera, mentre gli animali tradizionalmente impiegati nelle operazioni di estrazione e quelli sradicati come conseguenza, attraversano un paesaggio desolato. In lontananza, forme vagamente meccaniche e biomorfe – incluso uno spaventapasseri scheletrico, con tubi di scarico al posto delle braccia – ricordano l’invasione dell’industria e delle infrastrutture umane nel paesaggio. Compattando molteplici temporalità in un’unica immagine evocativa, il dipinto di Pachpute non solo rende omaggio allo scorrere e alla perdita del tempo, ma ne testimonia anche le conseguenze. – MW

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Prabhakar Pachpute, Sea of Fists, 2019. Carboncino, acrilico a parete, compensato ritagliato, dimensioni variabili. Photo Dani Bapista. Courtesy Experimenter, Kolkata; Jameel Arts Centre, Dubai

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Prabhakar Pachpute, The close observer, 2020. Acrilico, carboncino su tela, 213 × 487 cm. Photo Amol K. Patil. Courtesy l’Artista; Experimenter, Kolkata; Artes Mundi 9; National Museum, Cardiff, Wales

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I G S H AA N A DA M S

1982, Città del Capo Vive a Città del Capo, Sudafrica

Combinando insieme tessitura, installazione, scultura e performance, Igshaan Adams sottolinea gli aspetti sociali, spirituali e politici del tessuto. Concepiti come un mezzo malleabile che può abbracciare molteplici direzioni concettuali, i suoi tessuti evocano la matericità concreta dell’abbigliamento, dei mobili imbottititi e di altri tipi di superfici come tappeti da preghiera, pavimenti e percorsi pedonali che racchiudono svariate storie personali. Cresciuto a Bonteheuwel, un sobborgo di Città del Capo dove un tempo vigeva la segregazione, Adams si è formato in un contesto estremamente difficile, nei confronti del quale ha conservato un’identità razziale, religiosa e sessuale complessa e sfaccettata. Il suo approccio ai materiali e all’iconografia deriva dal suo status di pluralità e di liminalità, che traccia con l’ausilio di elementi domestici che hanno plasmato le suddette identità ibride. Di struttura complessa e dalle grandi dimensioni, gli arazzi di Adams sono ispirati ai pattern dei pavimenti di linoleum a motivi geometrici presenti nelle case di amici e vicini di Città del Capo. Cuciti con frammenti di legno, plastica, perline, conchiglie, filo e corda di provenienza locale ed evocativi di quei motivi scandinavi, vittoriani e mediorientali che hanno influenzato i disegni originali dei pavimenti, i suoi manufatti sono profondamente legati tanto al commercio delle materie prime, quanto all’ambiente locale dell’Africa postcoloniale. Quando sono concepite come superfici usurate che portano le tracce del ripetuto passaggio delle persone, queste opere ispirate ai pavimenti di linoleum si caricano di un significato ulteriore: sono la testimonianza di storie e ricordi personali che successivamente si intrecciano al mito. In altri casi, Adams immortala altri tipi di movimento, attingendo alle “linee del desiderio”, ossia percorsi improvvisati nati come conseguenza dell’erosione dovuta al traffico pedonale e utilizzati nel corso dell’apartheid per collegare le comunità che il governo mirava a tenere forzatamente separate. Per Il latte dei sogni, Adams si concentra sulle linee del desiderio collocate tra la stazione ferroviaria di Bonteheuwel ed Epping, uno dei distretti industriali della città per i quali in molti transitano in cerca di lavoro. Per quanto Adams immagini l’esistenza di questo arido cammino come simbolo di una resistenza collettiva a favore di una comunità storicamente perseguitata, allo stesso tempo ricolloca l’eco simbolica della linea del desiderio nella sfera del trascendente. Presentati accanto a un’installazione in fil di ferro aggrovigliato ispirato alle eteree nuvole di polvere create dalla danza indigena riel della provincia del Capo Settentrionale – spesso descritta come “danza nella polvere” –, i percorsi di fortuna nati dalla necessità vengono trasposti in un segno edificante di gioia collettiva. – MW

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Igshaan Adams, Gesteelde Vuur vanaf die Altar (stolen fire from the altar), 2021. Corda in nylon e poliestere, catena bianca, catena d’argento, filo, spago di cotone, 268 × 189 cm. Photo Jason Wyche. Instituto Inhotim Collection, Minas Gerais, Brazil. Courtesy l’Artista; Casey Kaplan, New York. © Igshaan Adams Pagine successive: Igshaan Adams, Bonteheuwel / Epping, 2021. Legno, legno dipinto, plastica, osso, perline di pietra e vetro, conchiglie, corda di poliestere e nylon, corda di cotone, catena a maglie, filo (memory e acciaio zincato), spago di cotone, 495 × 1170 × 325 cm. Photo Mario Todeschini. Courtesy l’Artista; blank projects, Cape Town; Casey Kaplan, New York. © Igshaan Adams

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TA U L E W I S

1993, Toronto, Canada Vive a New York City, USA

Nell’ambito della sua pratica improntata alla matericità, Tau Lewis trasforma, grazie a certosini processi di cucitura e impuntitura, tessuti e artefatti di recupero in talismani immaginari ed esseri magici che popolano mondi fantascientifici. Evocando le opere delle trapuntatrici di Gee’s Bend, i tessuti di Faith Ringgold, gli assemblage di Betye Saar, e le oniriche “casette” di Beverly Buchanan, tramite il suo elaborato processo Lewis, alla stregua delle artiste che l’hanno preceduta, crea dei monumenti sovversivi, rendendo omaggio alle filosofie dell’ingegnosità materica come un gesto rappresentativo delle comunità diasporiche per mezzo di materiali designati al riutilizzo. Attivando la malleabilità ideologica dei tessuti e la loro storica associazione alla manodopera femminile, Lewis azzera lo spazio tra la sfera artistica e quella politica, soprattutto tra le pratiche tradizionalmente descritte come artigianato, ritualità o arte. Le morbide sculture e i viticci pendenti di fiori che occupano intere sale della serie Triumphant Alliance of the Ubiquitous Blossoms of Incarnate Souls (T.A.U.B.I.S) (2020) sono emblematiche dell’approccio sfaccettato dell’artista, che mette i tessuti e la realizzazione manuale al centro di una ricerca su identità, corpo e natura. L’opera Opus (The Ovule) (2020), una gigantesca scultura rosa e gialla di una testa con occhi sporgenti, la bocca spalancata e una lingua ancora più mastodontica, è realizzata con pezzi di tessuti tinti a mano, pellame di recupero, iuta, metallo, spille da balia, ganci metallici e fil di ferro, con alcuni “oggetti segreti”. In Symphony (2021), i materiali recuperati danno vita a una figura che indossa una crinolina, la cui struttura a gabbia ricorda una dimora, un rifugio e un ventre materno. Come ha sottolineato l’artista, questi corpi di fantasia sembrano nascere da un giardino artigianale, contenitori protettivi in opposizione al mito secondo cui non può esistere una relazione di cura e guarigione tra il corpo nero e il paesaggio. Con la sua nuova serie, Divine Giants Tribunal, Lewis presenta maschere gigantesche di tre metri di altezza: Sol Niger (With my fire, I may destroy everything, by my breath, souls are lifted from putrified earth); Angelus Mortem; e Vena Cava (tutte del 2021). Cucite a mano con ritagli di tessuto, di pelliccia e di pelle – molti dei quali recuperati da precedenti progetti –, questi volti monumentali stabiliscono una discendenza materiale non solo con il lavoro precedente di Lewis ma anche con la simbologia e gli oggetti mitici che sono analogamente radicati nella natura stessa dei loro componenti e della loro funzionalità. Ispirandosi alle maschere yoruba e agli scritti del drammaturgo nigeriano Wole Soyinka, i cui significativi testi sull’argomento rappresentano un importante contributo, Lewis mette in scena le mitologie mistiche radicate in queste maschere, che continuano a caricarsi di nuovi significati e di forme di vitalità nel presente. – MW

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Tau Lewis, Sol Niger (With my fire, I may destroy everything, by my breath, souls are lifted from putrified earth), 2021. Pelle riciclata, nylon rivestito, armatura in acciaio, 304,8 cm × 310 cm × 122 cm. Photo Pierre Le Hors. Courtesy l’Artista; Stephen Friedman Gallery. © Tau Lewis, 2021 Pagine successive: Sol Niger (dettaglio)

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LA SEDU DEL

MARIANNE BRANDT R E G I NA C A S S O L O B RAC C H I GIANNINA CENSI ANNA COLEMAN LADD ALEXANDRA EXTER E L S A V O N F R E Y TA G - L O R I N G H O V E N KA R LA G RO S C H FLORENCE HENRI HANNAH HÖCH REBECCA HORN K I K I KO G E L N I K LILIANE LIJN LOUISE NEVELSON ANU PÕDER L AV I N I A S C H U L Z E WA LT E R H O L D T S O P H I E TA E U B E R -A R P M A R I E VA S S I L I E F F

C

ONE I Z

ORG B Y


Anche se il concetto esiste dagli albori dell’era meccanica, il termine “cyborg” – parola composta che combina “cibernetico” e “organismo” – è stato usato per la prima volta nel 1960 dagli scienziati Manfred E. Clynes e Nathan S. Kline. A differenza del robot o dell’androide, il cyborg è un essere umano integrato con una tecnologia artificiale che gli conferisce funzioni o capacità potenziate. Nel 1985 Donna Haraway ha riproposto il termine per spiegare come i confini tra umano, animale e macchina fossero stati irreversibilmente violati. Identificando il corpo femminile come luogo in cui questi confini appaiono più vulnerabili, Haraway vede il cyborg come una personificazione dell’identità ibrida che segnala l’inizio di un nuovo futuro, postumano e postgender. Questa presentazione riprende la cornice teorica di Haraway per considerare le artiste incluse come cyborg: corpi ibridi il cui lavoro abbraccia concezioni dell’“io” estese, relazionali o prostetiche, che comprendono, ma al tempo stesso superano, l’idea di una protesi tecnologica. Lavorando all’interno e alla periferia delle celebri avanguardie novecentesche – in particolare, l’attrazione dadaista per l’ibridazione meccanica e gli esperimenti teatrali e fotografici della Bauhaus –, ognuna di queste artiste immagina il corpo cyborg come chiave di una soggettività moderna e genuinamente nuova. Le artiste in mostra si appropriano inoltre degli stereotipi sessisti, come la donna-macchina, la vamp, o l’“Eva futura” per reclamare una capacità di azione consapevole da parte degli oggetti delle fantasie maschili. Alcune di queste artiste creano immagini che incarnano la mediazione dell’io tramite apparati tecnologici o materiali, come negli autoritratti rifratti dallo specchio di Marianne Brandt, nei fotomontaggi semiastratti di Florence Henri, nell’immagine di una intimità affettiva forgiata con acciaio e ingranaggi da Rebecca Horn, o nelle maschere prostetiche per i veterani di guerra realizzate con grande cura da Anna Coleman Ladd – le uniche vere protesi presenti. L’intricata installazione scultorea di Louise Nevelson evoca il funzionamento interno delle prime macchine, mentre nei quadri di Kiki Kogelnik i corpi e le loro interrelazioni sono trattati come dispositivi formali e cromatici per costruire un’io esploso e robotico. In altri casi, le immagini o forme umanoidi vengono utilizzate per rappresentare l’io come costruito a partire da – o integrato con – materiali esterni, ad esempio nei fotomontaggi di Hannah Höch, in cui le forme corporee sono composte con immagini di recupero. In modo simile, le vivaci figurine in alluminio di Regina Cassolo Bracchi, le sculture e busti simili a manichini di Anu Põder e i totem di Liliane Lijn giocano nello spazio tra umano e oggetto antropomorfico. I decori corporei, invece, sono usati per creare identità esuberanti e sfacciatamente moderne nei costumi e nelle maschere teatrali di Karla Grosch e Lavinia Schulz. Sulla mostra vegliano quattro “sentinelle” – Giannina Censi, Alexandra Exter, Marie Vassilieff ed Elsa von Freytag-Loringhoven –, ognuna delle quali rappresenta un diverso paradigma del cyborg attraverso una radicale, relazionale e olistica espressione di sé. Marianne Brandt, Spiegelungen (Stilleben aus Metall und Glas). Bauhaus Dessau (dettaglio), 1928–1929. Courtesy Stiftung Bauhaus Dessau (I 11953 F) / © (Brandt, Marianne [geb. Liebe]) VG Bild-Kunst, Bonn (Jahr) / Image by Google

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L E P RO D U T T R I C I C Y B O RG Matthew Biro

Lavinia Schulz e Walter Holdt, Tanzmaske “Technik”, fotografia di Minya DiezDührkoop, 1924. Courtesy Museum für Kunst und Gewerbe Hamburg

Nel corso della storia, il rapporto dell’artista con la tecnologia – nel senso dei mezzi di rappresentazione adottati o degli strumenti e delle macchine disponibili nei mondi vitali contemporanei – è stato, a volte, il risultato di un interesse consapevole. Nel XX secolo, tuttavia, con il boom della produzione di massa e la crescita dell’industria culturale, questo tema – in sostanza il modo in cui la tecnologia diventa estensione del corpo e il modo in cui ci cambia – si è trasformato in un’indagine di enorme importanza. Durante le rivoluzioni delle avanguardie degli anni Dieci e Venti del Novecento, le artiste e gli artisti di sinistra abbracciarono la macchina e le strategie di automatizzazione/dequalificazione per minare tradizioni di pittura e scultura diventate sempre più astratte e autonome. Attraverso la meccanizzazione misero in discussione l’idea dell’artista come “genio”, o come isolato soggetto “espressivo” e operarono e si organizzarono per riportare l’arte a servizio della vita, esortando gli artisti a immaginare nuove forme di identità, comunità e giustizia sociale. Le artiste e gli artisti dell’avanguardia si impadronirono inoltre delle nuove tecnologie della fotografia e della cinematografia, in parte con l’intento di raggiungere un pubblico più ampio, ma anche perché desideravano influire sulle persone con mezzi a maggiore partecipazione collettiva: una cultura visiva prodotta in serie che attraversasse classi, nazionalità e persino lingue. Infine, impiegarono la tecnologia per rappresentare gli effetti della meccanizzazione sul corpo, sulla mente e sul mondo: immaginarono cyborg e ambienti in rete, scenari che anticipavano le odierne teorie del postumanesimo. Il termine “cyborg” fu coniato nel 1960 da Manfred E. Clynes e Nathan S. Kline come neologismo per indicare un ibrido macchina-uomo (o animale)

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autoregolante, un corpo senziente alterato in modo da poter vivere in ambienti ostili1. Come da me sostenuto, tuttavia, la figura apparve in ambito visivo già negli anni Dieci e Venti del Novecento, dove veniva collegata dagli artisti e da altri produttori culturali ai “nuovi” uomini e donne che gli stessi vedevano emergere nelle moderne società industriali2. Il cyborg, in altre parole, esisteva visualmente – sia nell’arte dell’avanguardia sia in un’ampia gamma di cultura visiva – ben prima che ci fosse un termine che lo designasse. Benché apparisse regolarmente in forme ipermascolinizzate o iperfemminilizzate, fu anche ripetutamente sfruttato negli anni Dieci e Venti – e poi in seguito – come figura indicante l’identità ibrida, anticipando il cyborg postumano teorizzato da Donna Haraway negli anni Ottanta e Novanta. In Haraway, il cyborg era più di una mera fusione fra umano e macchina3. Indicava piuttosto una nuova interpretazione ibrida dell’identità umana, che destabilizzava le fondamentali distinzioni tradizionalmente usate per strutturare il sé occidentale e le sue società, demarcazioni che separavano generi, razze, etnie, nazionalità, classi, religioni, sessualità, gruppi anagrafici e persino specie. Il cyborg, inoltre, era una creatura dell’informazione: non solo le sue parti erano sostituibili e le sue capacità estendibili, ma poteva essere programmato, compilato, codificato con nuove conoscenze e comportamenti. Ciò significava la dipendenza da più ampi ambienti in rete, progettati per estenderne le capacità e i poteri, ma che nel contempo esercitavano grande sorveglianza e controllo. Amplificando gli avvertimenti di Norbert Wiener, il fondatore della cibernetica, Haraway sosteneva che la crescita della tecnologia stava rendendo le società umane più stratificate e bellicose. Da un lato c’erano i lavoratori cyborg, “le masse di donne e uomini di tutti i gruppi etnici, ma soprattutto di colore, […] confinate in un’economia del lavoro a domicilio, nell’analfabetismo di vario tipo, nell’impotenza e nel generale esubero, controllate da apparati repressivi alto-tecnologici che vanno dall’intrattenimento alla sorveglianza e alla sparizione”4. Dall’altro c’era la forza lavoro cibernetica altamente specializzata, l’élite tecnologico-industriale, presente principalmente nelle società capitaliste degli Stati Uniti e dell’Europa. Sorretta a livello internazionale da leggi, governi e industrie culturali, l’economia sempre più globale e digitale ha “femminilizzato” il lavoro. Ha introdotto nella forza lavoro un numero sempre maggiore di donne e reso tutti i suoi soggetti sempre più vulnerabili e precari, creando così disparità sempre maggiori di ricchezza e potere. Già dai primissimi esordi, le artiste furono determinanti nello sviluppo del cyborg come avatar dell’identità ibrida, oltre che più in generale nella complessa trasformazione tecnologica dell’arte messa in atto dall’avanguardia storica, probabilmente la sua eredità più importante. Per Walter Benjamin, il tragico teorico marxista dell’arte e della cultura, la tendenza politica di un’opera d’arte – il suo esplicito messaggio di sinistra – valeva ben poco se espressa attraverso una forma reazionaria. In L’autore come produttore sosteneva che “ci troviamo nel bel mezzo di un imponente processo di fusione e rinnovamento delle forme letterarie, processo di rifusione in cui molte delle antitesi per cui noi eravamo abituati a pensare potrebbero perdere la loro efficacia”5. Ciò che Benjamin chiedeva all’autrice e all’autore di sinistra, e implicitamente alle artiste e agli artisti visuali dell’avanguardia, era un’opera

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che trascendesse il “processo di razionalizzazione” e trasformasse gli spettatori in collaboratori, se non addirittura in produttori6. “È dunque determinante”, affermava, “il carattere paradigmatico della produzione, che può in primo luogo avviare alla produzione altri produttori, e in secondo luogo mettere a loro disposizione un apparato migliorato. E questo apparato è tanto migliore quanto più porta i consumatori alla produzione, e cioè quanto più è in grado di trasformare lettori o spettatori in collaboratori”7. Come una più attenta revisione della documentazione storica sta ora dimostrando, le donne dell’avanguardia storica hanno aperto la strada come produttrici artistiche in questo senso benjaminiano. Fautrici di una rivoluzione artistica e al tempo stesso politica, erano collaborative, orientate alla tecnologia e dedite all’espansione dei mezzi artistici e delle spettatrici o degli spettatori con cui venivano a contatto. Come gruppo, potrebbero essere definite “produttrici cyborg”, artiste che non solo hanno rappresentato la nuova identità ibrida di corpo e mente, ma che hanno anche progettato la trasformazione delle forme artistiche moderne accogliendo molteplici vie di rappresentazione tecnologica. Hanno immaginato i cyborg in numerosi media e cercato di trattare i propri “apparati” – le proprie modalità di produzione artistica – in modo tale da trasformare i consumatori in produttori. Sebbene le produttrici cyborg non siano scomparse con la conclusione dell’avanguardia storica degli anni Trenta (è anzi vero il contrario), esse appaiono negli anni Dieci e Venti con potente chiarezza e intensità. Per questo motivo, una breve disamina della figura che ne emerge può illuminare importanti percorsi che continuano a svilupparsi ai giorni nostri. Baroness Elsa von Freytag-Loringhoven, 1920–1925 ca. Photo Bain News Service, Publisher. Library of Congress, George Grantham Bain Collection

Alexandra Exter, Guardian of Energy (costume design for the film Aelita by Yakov Protazanov), 1924. The J. M. Kaplan Fund, Inc. Inv.: 341.1977, Digital image, The Museum of Modern Art, New York/Scala, Florence

Come Irene Gammel, Amelia Jones e altre hanno dimostrato in modo convincente, la baronessa Elsa von Freytag-Loringhoven, l’artista dadaista, poetessa e icona femminista a lungo marginalizzata, potrebbe in definitiva essere più importante per l’arte moderna e contemporanea del collega (e non corrisposto “amore”) Marcel Duchamp, se non altro in termini di potenziale critico delle sue scoperte formali e concettuali8. Le estemporanee performance di strada della baronessa – interventi nella vita quotidiana di New York, resi eccentrici dall’anticonformismo e persino dall’aggressività di abiti, trucco, linguaggio e azioni – costituirono probabilmente le opere d’arte più radicali prodotte dagli appartenenti al Dada newyorkese. Agghindata con oggetti comuni e prodotti in serie, raccolti o rubati per strada e nei grandi magazzini della città, la baronessa metteva in scena un rifiuto aggressivo dei modelli e delle convenzioni tradizionali, in particolare quelli incentrati sul genere, sulla sessualità e sul decoro in tutte le sue forme. Queste performance urbane erano fondamentalmente femministe in quanto esplicita opposizione alle richieste patriarcali primarie; ad esempio, che le donne dovessero rimanere sessualmente passive e sottomesse al desiderio e alla guida maschili. Ed erano anche primordialmente cyborg poiché fondevano l’umano con la macchina e sovvertivano in vari modi le distinzioni tra generi, specie ed etnie. La baronessa creò inoltre collage, readymade e assemblage e pare abbia avuto un ruolo importante nella scelta di Fountain (1917), uno dei readymade più iconici di Duchamp9. Ma i suoi contributi più cruciali rimangono le effimere performance cyborg, che tanto hanno scioccato e sconvolto i colleghi maschi, e che sono state tramandate fino ai giorni nostri attraverso una varietà di fonti, tecnologiche e non. Questi materiali includono fotografie, dipinti, oggetti

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e assemblage, oltre a linguaggio e scrittura: le sue poesie, nonché critiche e analisi da parte di diverse voci moderniste, da Ezra Pound a Djuna Barnes. E forse perché queste performance possono essere rappresentate solo come una serie di assenze, sembrano aver avuto un effetto sotterraneo ma potente sull’arte performativa dai suoi inizi fino ai giorni nostri.

Hannah Höch, Das schöne Mädchen, 1920. Photo Hermann Buresch. Photo Hermann Buresch. Collezione privata. Firenze/bpk, Bildagentur fuer Kunst, Kultur und Geschichte, Berlin. © 2021 Foto Scala Firenze

Se la baronessa incarnava il lato performativo della produttrice cyborg, Hannah Höch, la dadaista berlinese, ne rappresentava le tendenze più fotografiche, cinematografiche e di design. Anche Höch, ovviamente, si esibiva in performance e come la dadaista zurighese Sophie Taeuber-Arp realizzava bambole geometrizzate, simili a marionette, con le quali occasionalmente recitava, forse a voler evocare una presa di coscienza dei modi in cui il genere veniva impresso durante il gioco dell’infanzia. Ma la sua importanza risiede maggiormente nello sviluppo di un’enigmatica iconografia “suturata” che esplorava molteplici tipologie di esistenza transumana in modo estremamente sensuale e investito di corporalità. Più di ogni altra artista negli anni Venti, Höch concepiva il corpo umano come sostanzialmente mutevole, interconnesso e trasformabile; e lo ha fatto in modo scioccante e nuovo, un modo che univa piacere e violenza e destabilizzava la separazione tra vivi e morti. Sviluppando la nuova strategia “anti-arte” del fotomontaggio – un mezzo d’avanguardia che, come i readymade o l’assemblage, voleva essere più collaborativo e collettivo rispetto ai tradizionali mezzi artistici quali la pittura e la scultura –, Höch immaginò ed elaborò i cyborg come figure che non solo fondevano esseri umani e macchine, ma anche razze, generi, specie e fasce di età. Come la baronessa, Höch aveva un progetto femminista; voleva minare i concetti patriarcali che esercitavano la differenza sessuale come mezzo di controllo sociale e di oppressione. Ma ancor più della baronessa, Höch immaginò un nuovo essere umano libero dai tradizionali vincoli categoriali: creando ripetutamente nei suoi fotomontaggi corpi compositi, nonché mescolando queste chimere a elementi aggiuntivi presi dalla natura o dalla cultura, rese visibili e comprensibili ai propri spettatori la mutazione, l’eterogeneità e la disgregazione della differenza. Per Benjamin, il paradigmatico “autore come produttore” era maschio: Sergej Tret’jakov, scrittore d’avanguardia, poeta, drammaturgo, giornalista e attivista comunista. E mentre un certo numero di artisti maschi dal secondo decennio del XX secolo aveva pure assunto il ruolo del produttore cyborg, le donne dell’avanguardia hanno svolto una parte diversa, e forse molto più importante, nello sviluppo di questa complessa rete formale e iconografica dell’immaginario postumano. L’artista cyborg non è quindi mai stato necessariamente solo donna. Ma occupandoci delle radici di questa figura nell’arte prodotta dalle donne negli anni Dieci e Venti, emerge un diverso insieme di questioni, che oggi appaiono di particolare urgenza. L’artista cyborg che viene alla luce quando tracciamo le genealogie femminili nell’arte a partire dall’avanguardia storica è una figura complessa e potente, una chimera che riconosce la propria posizione sia come soggetto sia come oggetto di rappresentazione, nonché una creatrice che si pone come obiettivo di accrescere la nostra consapevolezza dei vari mezzi di significazione che collegano artista e pubblico tra loro e con i loro mondi. Infine, la produttrice cyborg è antipatriarcale, anticoloniale e antirazzista, un avatar contrario a tutte le forme di fascismo e totalitarismo e dedito al sovvertimento delle tradizionali differenze e alla rappresentazione e costruzione di nuove forme di eterogeneità e affiliazione.

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Dalla sua comparsa più di un secolo fa, la figura dell’artista cyborg è rimasta un modello potente e affascinante per le produttrici culturali, un ideale che oggi non mostra alcun segno di affievolimento. Infatti, come viene suggerito dal lavoro di Marie Vassilieff, Alexandra Exter, Natal’ja Gončarova, Ljubov’ Popova, Ol’ga Rozanova, Varvara Stepanova e Nadežda Udal’cova – che non solo hanno immaginato con forza la fusione dell’essere umano con la macchina attraverso varie forme di pittura d’avanguardia (dal Cubismo al Raggismo), ma hanno anche ampliato i mezzi con cui lavoravano per includere, in un certo numero di casi, il design della moda, dei costumi, delle scenografie teatrali, dei libri, dei tessuti, della carta da parati, e persino la produzione di poesia sonora –, questo saggio ha a malapena tracciato gli esordi della produttrice cyborg. La vediamo riapparire prepotentemente anche nell’arte performativa femminista a partire dagli anni Sessanta (si pensi a Cut Piece di Yoko Ono, 1964), così come nella critica dei media postmoderna dagli anni Settanta in poi (ad esempio, Cindy Sherman e Carrie Mae Weems), ma ci vorrebbe troppo spazio per ricordare tutte le importanti iterazioni10. Se concludo con un solo esempio contemporaneo di cyborg come produttrice, non è perché oggi manchino casi convincenti da scoprire. In questo momento, tuttavia, possiamo ritenere Hito Steyerl una dei suoi avatar più importanti, per la forza e la complessità con cui la sua arte collega l’umano al non umano, attraverso la mediazione tecnologica. Combinando entrambi gli aspetti del cyborg femminista d’avanguardia – quelli performativi, linguistici e letterari della baronessa, così come la sensibilità sovversiva rispetto ai media di Hannah Höch –, dalla fine degli anni Novanta Steyerl ha prodotto una significativa raccolta di lavori, un eterogeneo corpus che adotta un atteggiamento produttivo nei confronti del suo pubblico, esplorando la condizione postumana verso cui sempre più tendono i nostri mondi.

Marie Vassilieff, Danseuse américaine (d’après les traits d’Isadora Duncan), 1920 ca. Collezione Claude Bernès. Photo P. Delbo. © Marie Vassilieff

Benché sia talvolta definita una regista, Steyerl opera con molteplici media ad alta e bassa tecnologia tra cui la scultura, il fotomontaggio, il video, l’installazione, la performance, il suono e il linguaggio; in effetti, i suoi testi teorici – in cui espone una teoria critica dei media che si occupa del teso rapporto tra arte, lavoro, capitale, guerra e tecnologia – non possono essere separati dai suoi film, forse i suoi lavori più noti. Oltre all’impegno con numerosi mezzi di significazione, ciò che rende Steyerl una produttrice emblematica è il modo in cui cerca di educare e responsabilizzare il pubblico. In generale, la sua arte esorta gli spettatori a riconoscere i modi in cui i mass media e le tecnologie visive come film e video (nonché i sistemi di sorveglianza) hanno influenzato la nostra vita. Ma più di questo, tracciando il movimento delle immagini mentre trasformano persone ed eventi reali in rappresentazioni che possono poi essere manipolate e controllate, Steyerl rivela la nostra condizione postumana, il fatto che siamo fondamentalmente mutevoli sia in termini di corpo che di anima. Come ha sostenuto Haraway, l’emergere del cyborg ha posto fondamentali questioni politiche. Creatura dell’immaginazione e al tempo stesso della realtà, riflette il mondo mediato dalla tecnologia e offre suggerimenti su come gli esseri umani potrebbero adattarsi per esistere, nel bene e nel male, al suo interno. Da un lato, il cyborg ha permesso alle produttrici culturali di immaginare nuove forme di esistenza sociale, vita famigliare, sessualità,

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spiritualità, relazioni economiche e identità. Dall’altro, ci ha ricordato che siamo solo ingranaggi in una macchina più grande. Oggi, ha suggerito Haraway, siamo tutti cyborg – indipendentemente dal fatto che si accetti o meno questa denominazione. E come suggerisce la tradizione della produttrice cyborg, dobbiamo tutti operare in modo vigile e intenso per decidere che cosa significhi in definitiva la nostra mediazione tecnologica – per noi stessi, le nostre società e la Terra su cui esistiamo. Matthew Biro è professore di Arte moderna e contemporanea presso il Dipartimento di Storia dell’arte dell’Università del Michigan. È autore di Anselm Kiefer and the Philosophy of Martin Heidegger (Cambridge University Press, 1998), The Dada Cyborg: Visions of the New Human in Weimar Berlin (University of Minnesota Press, 2009), e Anselm Kiefer (Phaidon Press, 2013). Oltre alle numerose pubblicazioni in riviste accademiche, firma anche saggi e recensioni sull’arte, il cinema e la fotografia per varie riviste fra cui “Artforum”, “Art in America”, “The Brooklyn Rail”, “Contemporary”, “Art Papers” e “The New Art Examiner”.

1

Manfred E. Clynes, Nathan S. Kline, Cyborgs and Space (1960), in The Cyborg Handbook, a cura di Chris Hables Gray, New York, Routledge, 1995, 29–33. 2 Matthew Biro, The Dada Cyborg: Visions of the New Human in Weimar Berlin, Minneapolis (MN), University of Minnesota Press, 2009. 3 Donna Haraway, A Cyborg Manifesto: Science, Technology, and Socialist Feminism in the Twentieth Century (1985), in Haraway, Simians, Cyborgs, and Women: The Reinvention of Nature, New York, Routledge, 1991, 150 (tr. it. Manifesto cyborg. Donne, tecnologie e biopolitiche del corpo, Milano, Feltrinelli, 1995). 4 Haraway, Manifesto cyborg, cit., 100. 5 Walter Benjamin, L’autore come produttore, in Benjamin, Opere complete, a cura di Rolf Tiedemann, Hermann Schweppenhauser ed Enrico Ganni, Torino, Einaudi, 2004, VI, 46. 6 Benjamin, L’autore come produttore, cit., 52. 7 Ibid., 54. 8 Si veda Irene Gammel, Baroness Elsa: Gender, Dada, and Everyday Modernity. A Cultural Biography, Cambridge (MA), The MIT Press, 2002; e Amelia Jones, Irrational Modernism: A Neurasthenic History of New York Dada, Cambridge (MA), The MIT Press, 2004. 9 Gammel, Baroness Elsa, cit., 220–228. 10 Si veda, ad esempio, la tagliente analisi di Cut Piece di Ono, in cui Julia Bryan-Wilson sostiene come l’opera sia un esempio di arte performativa femminista che va ben oltre la semplice critica dello sguardo maschile. Sebbene Ono inviti il pubblico a tagliare pezzi dei

suoi vestiti, esponendosi così alla minaccia di violenza da parte degli spettatori armati di forbici, mantiene il controllo del lavoro collaborativo, impostando attentamente i parametri della performance e dirigendo gli operatori di ripresa per catturare il pubblico mentre interagisce con lei. Sia interprete che regista dell’opera d’arte, Ono mescola più media (performance, fotografia, film e stampati prodotti in serie) per criticare la storia dominante dell’arte moderna in cui gli artisti maschi hanno spesso dimostrato il loro merito artistico attraverso la loro rappresentazione – o travisamento – dei corpi femminili. Inoltre, attraverso gli abiti rovinati e la nudità parziale – che evocano non solo lo sgancio della bomba atomica sul Giappone quando l’artista era bambina, ma anche i combattimenti in Vietnam – Ono condanna anche lo sviluppo della guerra nel XX secolo, che sempre più colpisce le popolazioni civili (e quindi molte più donne e bambini). Ciò che rende Ono un tipico esempio di produttrice cyborg è la sua distruzione creativa di molteplici contrapposizioni binarie – Sé/Altro, performer/pubblico, unicità/riproduzione di massa, passato/ futuro e (attraverso la sua stessa persona) Oriente e Occidente –, oltre che la sua politica radicalmente di sinistra. Usando mezzi tecnologici per inveire contro gli effetti deleteri del mondo in rete, Ono rivisita il passato, invitando gli spettatori della metà degli anni Sessanta a immaginare un futuro migliore. Si veda Julia Bryan-Wilson, Remembering Yoko Ono’s Cut Piece, in “Oxford Art Journal”, 26(1), 2003, 99–123.

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Elsa von Freytag-Loringhoven

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Marianne Brandt, Stilleben mit Bauhausstoff, Kugeln und Wellpappe (Selbstportrait). Bauhaus Dessau, 1928–1929. Fotografia in bianco e nero, 17,7 × 23,8 cm. Courtesy Stiftung Bauhaus Dessau (I 11949 F) / © (Brandt, Marianne [geb. Liebe]) VG Bild-Kunst, Bonn (Jahr) / © (Gropius, Walter) VG Bild-Kunst, Bonn (Jahr) / Image by Google 2 Marianne Brandt, Das Atelier in der Kugel II (Selbstportrait). Bauhaus Dessau, 1928–1929. Fotografia in bianco e nero, 17,7 × 23,7 cm. Courtesy Stiftung Bauhaus Dessau (I 11951 F) / © (Brandt, Marianne [geb. Liebe]) VG Bild-Kunst, Bonn (Jahr) / © (Gropius, Walter) VG Bild-Kunst, Bonn (Jahr) / Image by Google 3 Marianne Brandt, Selbstporträt mit Schmuck zum Metallischen Fest im Bauhaus Dessau, 1929. Fotografia in bianco e nero, 23,6 × 17,7 cm. Courtesy Stiftung Bauhaus Dessau (I 11952 F) / © (Brandt, Marianne [geb. Liebe]) VG Bild-Kunst, Bonn (Jahr) / Image by Google 4 Florence Henri, Autoportrait, 1928. Stampa fotografica ai sali d’argento. Courtesy Archives Florence Henri © Martini & Ronchetti 5 Alexandra Exter, Costume design for Aelita for the movie Aelita, the Queen of Mars and the play Aelita, staged by Yakov Protazanov. Mezhrabprom-Rus’ Film Company, USSR, Moscow, 1924. Carta, inchiostro, vernice bronzo, gouache, 69,3 × 46 cm. © St Petersburg State Museum of Theatre and Music. Gift of International Charitable Foundation “Constantine”. Collezione Nina e Nikita Lobanov-Rostovsky 6 Bambola parlante inventata da Thomas Edison e sviluppata dalla Edison Phonograph Toy Manufacturing Company, 1887–1890 ca. Stampa, bianco e nero, 25,4 × 20,32 cm, n.d. Fotografia originale, 1890–1899 ca. 7 Marie Vassilieff, Costume Arlequine pour le Bal banal, 1924. Stampa ai sali d’argento, 22 × 17 cm. Fotografia P. Delbo. Collezione Claude Bernès. © Marie Vassilieff 8 Marie Vassilieff, Mask and doll portrait, c. 1928. Stampa ai sali d’argento, 23.8 × 17.8 cm. Photo Nicolas Brasseur. Collezione privata. © Marie Vassilieff 9 Alexandra Exter, Costume design for a female character in Aelita, the Queen of Mars, 1924. Gouache, inchiostro e grafite su carta, 48,26 × 32,7 cm. Dono di The Tobin Endowment, TL2001.61. McNay Art Museum. © 2021 McNay Art Museum/Art Resource, NY/Scala, Firenze 10 Glastanz, by Oskar Schlemmer, 1929. Fotografia in bianco e nero, 17,4 × 11,4 cm. Photo Robert Binnemann. Courtesy Bauhaus-Archiv, Berlin 11 Marionette Guard after a design by Sophie Taeuber for the play “King Stag”, fotografia di Ernst Linck, 1918. Fotografia in bianco e nero, 15,6 × 11,5 cm. Courtesy Stiftung Arp e.V., Berlin/Rolandswerth. © Stiftung Arp e.V., Berlin/Rolandswerth

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Giannina Censi, Danza aerofuturista, 1931. Fotografia in bianco e nero, 24 × 18 cm. Foto Santacroce, Milano, 1931. Courtesy Mart, Archivio del ’900, Fondo Censi Regina Cassolo Bracchi, Danzatrice, 1930. Alluminio, 45 × 30 × 15 cm. Photo © Alessandro Saletta and Piercarlo Quecchia – DSL Studio. Collezione Archivio Gaetano e Zoe Fermani. Courtesy GAMeC – Galleria d’Arte Moderna e Contemporanea di Bergamo Regina Cassolo Bracchi, L’amante dell’aviatore, 1935. Alluminio, 60 × 48,8 × 9,5 cm. Photo © Alessandro Saletta and Piercarlo Quecchia – DSL Studio. Collezione Museo Regina Cassolo, Castello Sangiuliani – Comune di Mede. Courtesy GAMeC – Galleria d’Arte Moderna e Contemporanea di Bergamo Baroness von Freytag-Loringhoven Working as a Model, Dicembre 1915. Fotografia, stampa ai sali d’argento, 32,34 × 26. Photo Bettmann via Getty Images Elsa von Freytag-Loringhoven, Portrait of Marcel Duchamp, fotografia di Charles Sheeler, 1920. Stampa ai sali d’argento, 20,32 × 15,24 cm. Photo Ben Blackwell. The Bluff Collection Elsa von Freytag-Loringhoven e Morton Schamberg, God, fotografia di Morton Schamberg, 1917 ca. Stampa ai sali d’argento, 24,1 × 19,2 cm. Photo Sepia Times via Getty Images Lavinia Schulz e Walter Holdt, Maskenfigur “Toboggan Frau”, 1924 (replica 2005–2006). Lino, fili, 188 × 135 × 107 cm. Photo Maria Thrun. Collezione Museum für Kunst und Gewerbe Hamburg Lavinia Schulz e Walter Holdt, Maskenfigur “Bertchen” A (schwarz), 1924 (replica 2005–2006). Materiale tessile, trapunta, 163 × 115 × 110 cm. Photo Joachim Hiltmann. Collezione Museum für Kunst und Gewerbe Hamburg Anna Coleman Ladd, Painted Metal Facial Prosthesis, 1917–1920. Rame zincato, occhiali in vetro, 10 × 15,5 × 12 cm. Collezione The British Association of Plastic, Reconstructive and Aesthetic Surgeons. © BAPRAS Hannah Höch, Deutsches Mädchen, 1930. Collage su cartoncino, 21,6 × 11,6 cm. Photo Anja Elisabeth Witte. Collezione Berlinische Galerie, Landesmuseum für Moderne Kunst. © VG Bild-Junst, Bonn Fotografie che documentano la creazione di maschere cosmetiche di Anna Coleman Ladd per i soldati rimasti gravemente sfigurati durante la Prima guerra mondiale, 1920. 2 fotografie, 14 × 11 cm ciascuna. Anna Coleman Ladd papers, 1881–1950. Archives of American Art, Smithsonian Institution

23 Anu Põder, Before Performance, 1981. Oggetti preconfezionati, tessuto, metallo, 160 × 50 × 50 cm. Photo Stanislav Stepaško. Collezione Art Museum of Estonia, Tallinn / Eesti Kunstimuuseum. Courtesy Maarja Kask. © Anu Põder 24 Anu Põder, Composition with a Male Head, 1984. Tessuto, rete metallica, plastica, 20 × 28 × 58 cm. Photo Hedi Jaansoo. Collezione Art Museum of Estonia, Tallinn / Eesti Kunstimuuseum. Courtesy Maarja Kask. © Anu Põder 25 Rebecca Horn, Kiss of the Rhinoceros, 1989. Costruzione in acciaio, alluminio, motori, dispositivi elettrici, 250 × 540 × 28 cm. Photo Gunter Lepkowski, Berlin. Courtesy l’Artista; Sean Kelly Gallery, New York; Thomas Schulte Gallery, Berlin; Galleria Trisorio, Naples, Italy; Galeria Pelaires, Palma-Illes Balears, Spain. © Rebecca Horn / VG Bild Kunst 26 Liliane Lijn, Heshe, 1980. Figura femminile, acciaio cromato, fibre sintetiche, prisma ottico in vetro ottico, 196 × 72 × 63 cm. Photo Lewis Ronald. Courtesy l’Artista; Rodeo, London/ Piraeus. © Liliane Lijn 27 Louise Nevelson, Homage to the Universe, 1968. Legno dipinto di nero, 284,5 × 862,5 × 30,5 cm. Courtesy Gió Marconi, Milano. © SIAE 28 In alto a sinistra: Kiki Kogelnik, Artificial Man in Four Parts 1, 1967. Olio e acrilico su tela, 126,5 × 177 cm. Collezione e courtesy Kiki Kogelnik Foundation. © 1967 Kiki Kogelnik Foundation. All rights reserved 29 In basso a sinistra: Kiki Kogelnik, Artificial Man in Four Parts 2, 1967. Olio e acrilico su tela, 126,5 × 177 cm. Collezione e courtesy Kiki Kogelnik Foundation. © 1967 Kiki Kogelnik Foundation. All rights reserved 30 In alto a destra: Kiki Kogelnik, Artificial Man in Four Parts 3, 1967. Olio e acrilico su tela, 126,5 × 177 cm. Collezione e courtesy Kiki Kogelnik Foundation. © 1967 Kiki Kogelnik Foundation. All rights reserved 31 In basso a destra: Kiki Kogelnik, Artificial Man in Four Parts 4, 1967. Olio e acrilico su tela, 126,5 × 177 cm. Collezione e courtesy Kiki Kogelnik Foundation. © 1967 Kiki Kogelnik Foundation. All rights reserved 32 Kiki Kogelnik, Broken Robots, 1966. China, inchiostro e matita colorata su carta, 59 × 74 cm. Collezione e courtesy of Kiki Kogelnik Foundation. © 1966 Kiki Kogelnik Foundation. All rights reserved 33 Kiki Kogelnik, Liquid Injection Thrust, 1965, Olio e acrilico su tela, 139,5 × 93,5 cm. Collezione e courtesy of Kiki Kogelnik Foundation. © 1965 Kiki Kogelnik Foundation. All rights reserved

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BIO GRAFIE DELLE ARTISTE

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MARIANNE BRANDT 1893, Chemnitz, Germania – 1983, Kirchberg, Germania Nel 1924, anno in cui viene ammessa alla Bauhaus di Weimar e produce il primo di una serie di oggetti in ferro che inaugureranno la sua pionieristica carriera nel design industriale, l’artista tedesca Marianne Brandt realizza anche due collage astratti e le sue prime fotografie documentarie. Benché siano meno conosciute degli oggetti di design, queste opere coincidono con l’inizio di una produzione visiva che, pur accompagnando l’artista per almeno un decennio, rimarrà inedita per i successivi trent’anni. Collage e fotografie, tuttavia, sono un elemento preziosissimo per comprendere la sensibilità artistica di Brandt e – i primi sotto forma di visioni frammentate, le seconde come lucide cronache di vita personale – forniscono un punto di vista esemplare su diversi aspetti della modernità tedesca.

Impressiones (1926), o lo sguardo provocante della donna che fuma la pipa in Helfen sie mit! (Die Frauenbewegte) (1926) mostrano una figura femminile che sembra la vera protagonista delle grandi rivoluzioni moderne. In un gruppo di fotografie che la ritrae nel suo studio insieme agli oggetti di sua creazione, la stessa Brandt dimostra di aderire alla nuova sensibilità e appare al contempo femminile e mascolina, delicata nei lineamenti e resa androgina da un taglio di capelli bubikopf (alla maschietta). L’immagine che l’artista dà di sé in Selbstporträt mit Schmuck (1929) diventa il manifesto della nuova generazione di donne e il suo corpo, più armato che ingioiellato, rivendica il diritto di essere consapevolmente mostrato. – SM

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REGINA CASSOLO B RAC C H I 1894, Mede, Italia – 1974, Milano, Italia

Tra il 1924 e il 1932, Brandt realizza una cinquantina di montagen o photomontagen. Ognuno di questi è costituito da una tavola di colore neutro su cui l’artista assembla ritagli di giornali e riviste, creando una commistione di immagini in bianco, nero, seppia e colori. Sia che celebrino o critichino la società, sia che sottolineino alcune sfaccettature o semplicemente descrivano alcuni costumi sociali, questi lavori sono caratterizzati dalla ricorrente presenza di figure femminili che rivelano l’attitudine di Brandt rispetto al cambiamento del ruolo della donna, e al contempo rappresentano i tratti fondamentali del movimento femminista tedesco conosciuto come Neue Frau (Donna nuova). Le gambe incrociate, nude, al centro di Pariser

Abbandonato il Naturalismo della sua prima produzione in marmo e gesso, Regina Cassolo Bracchi – più semplicemente nota come Regina – inizia a realizzare gli iconici oggetti in metallo che la renderanno l’unica scultrice donna del Futurismo all’inizio degli anni Trenta. Come le colleghe e i colleghi dell’avanguardia, l’artista è mossa da una generale fascinazione per le tecniche e i materiali tipici della produzione industriale e, grazie alla sovrapposizione, intersezione e sfogliatura di sottili lamine in alluminio, realizza delle snelle silhouette a tutto tondo e dei pannelli simili ad altorilievi. Nonostante la freddezza e la spigolosità del materiale conferiscano un alone di avveniristica brutalità, queste sculture simili a robot

rimandano a un apparente movimento che, come dimostrano lo slancio della famosa Danzatrice (1930) o la posa sinuosa della ragazza in Aerosensibilità (1935), si esprime con vibrante lirismo. Specie quando femminili, i soggetti rappresentati da Regina assumono pose così plastiche e leggere da mostrare gli aspetti più astratti e sensibili dell’immaginario tecnologico cui tradizionalmente si riferisce il Futurismo. L’opera intitolata L’Amante dell’aviatore (1935), ad esempio, rappresenta una giovane donna che, con le braccia incrociate sulla testa e il volto leggermente reclinato, ha l’aria trasognata e sembra immersa nei più profondi pensieri. Il suo corpo è definito da Regina come una “scatola spaziale” e sebbene la sua immagine sia incisa su due taglienti lastre di alluminio sovrapposte, diventa la sede di un dinamismo delicato, decisamente spirituale e sicuramente più psicologico che fisico. Nel 1948, dopo circa un decennio di occasioni espositive al fianco di, tra gli altri, Filippo Tommaso Marinetti, Benedetta e Fillìa, Regina si avvicina ai codici visivi del Movimento Arte Concreta (MAC) e le sue sculture assumono una dimensione ancora più sensoriale. Le Strutture, così Regina battezza uniformemente le opere di questo periodo, sono realizzate per mezzo dell’assemblaggio di forme pure in Plexiglas, nylon, rhodoid, fil di ferro e sembrano modelli in scala di strani paesaggi astronomici. Mentre l’uso dei materiali industriali le permette di porsi in continuità con l’immaginario tecnologico del Futurismo, la trasparenza delle superfici produce effetti percettivi inediti e fortemente contemplativi. È soprattutto nei suoi ultimi anni che Regina dimostra come la sua tempra avanguardista richiami a una risolutezza mentale che, versatile e accomodante, si esprime secondo una sensibilità spirituale, a tratti cosmologica. – SM

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GIANNINA CENSI

ANNA COLEMAN LADD

1913, Milano, Italia – 1995, Voghera, Italia

1878, Bryn Mawr, USA – 1939, Santa Barbara, USA

LE BAMBOLE PA R L A N T I D I E D I S O N

Nel luglio del 1917, sulla prima pagina del noto giornale “L’Italia futurista”, Filippo Tommaso Marinetti firma un nuovo manifesto dell’avanguardia italiana dedicato alla danza, che sostiene l’urgenza di inaugurare un movimento del corpo disarmonico, asimmetrico, dinamico e sgraziato come quello delle macchine cui deve ispirarsi. Nonostante il testo sia il punto di partenza di una serie di sperimentazioni che porteranno, tra le altre, alla nascita della famosa Danza dell’elica (1924), il Futurismo otterrà i più completi e soddisfacenti risultati coreutici soltanto negli anni Trenta, grazie all’impeto sperimentale della diciassettenne Giannina Censi. La danzatrice non è solo la prima a eseguire un nuovo tipo di movimento cosiddetto “aero-estetico” ma, da ballerina classica, ha la possibilità di coreografarlo nel rispetto delle tante suggestioni che l’hanno preceduta. Come aveva già suggerito il manifesto di Marinetti, la danza di Censi vuole esprimere il lirismo che gli esponenti del Secondo Futurismo riconoscono nella moderna tecnologia aeronautica e, fin dalla prima tournée conosciuta come Simultanina (1931), utilizza gestualità geometriche, ritmiche e scattanti che coinvolgono tutto il corpo in un singolare plasticismo. Nelle famose Danze aerofuturiste (1931), ad esempio, Censi indossa una tuta e una calotta da aviatore disegnati da Enrico Prampolini in tessuto metallico, che, cromati come una vera e propria carrozzeria, la fanno apparire come un cyborg: una visione celestiale metà donna e metà macchina. Così vestita, la danzatrice si muove al ritmo di poche note musicali e alterna spasmodicamente braccia e gambe assecondando le declamazioni parolibere di Marinetti. Talvolta assume innaturali pose scultoree documentate da un’ampia serie di fotografie, che esprimono tutto il pathos necessario a trasmettere una sensazione di volo o, più semplicemente, forniscono un’immagine dell’atletismo proposto dal Futurismo. In altre e più radicali sperimentazioni, definite Tereodanze, Giannina Censi improvvisa le sue coreografie in assoluto silenzio mentre è circondata da alcuni dipinti futuristi e sembra immersa nella vertiginosa distesa celeste di cui ogni esperienza di volo ha bisogno. Grazie a questa scenografia, il corpo della danzatrice può definitivamente trasformarsi nella macchina aeronautica tanto celebrata dall’avanguardia o trasferire al suo pubblico le emozioni provate dall’aviatore, simulando quella che le futuriste i futuristi dell’aeropittura chiamano “sensazione extraterrestre”. – SM

Quando l’artista americana Anna Coleman Ladd torna a Parigi nel 1917, dopo esservi cresciuta alla fine del secolo precedente, la Francia è stravolta dalla Grande Guerra e, sebbene sia destinata a salire sul carro dei vincitori l’anno successivo, è impegnata ad arginare le drammatiche conseguenze economiche e sociali causate dal conflitto. La stessa Coleman Ladd, che al momento del trasferimento gode di una discreta fama come scultrice neoclassica negli ambienti dell’alta borghesia statunitense, si arruola come volontaria nella Croce rossa americana e, appena arrivata a Parigi, avverte immediatamente la necessità di gestire l’emergenza dei reduci di guerra – che oltre a tornare dal fronte feriti, mutilati o destinati a una disabilità permanente, sono spesso sfigurati in volto. Venuta a conoscenza di uno studio londinese che si sta occupando del medesimo problema creando delle protesi facciali per i soldati inglesi, Coleman Ladd persuade la Croce rossa a fondare un simile dipartimento per la Francia e, nell’unico anno che dedica al progetto, produce un centinaio di maschere facciali per reduci. I numeri raggiunti dall’artista sono sorprendenti se si considera che ogni maschera veniva realizzata artigianalmente con l’aiuto di soli quattro collaboratori e richiedeva circa un mese di preparazione. Dopo uno studio della mutilazione effettuato sulla ferita cicatrizzata, Coleman Ladd procedeva con un’analisi dei connotati fisici del paziente e, grazie al confronto con fotografie precedenti alla guerra, realizzava il primo calco in gesso. Questo veniva successivamente colato in argento e, dopo essere stato colorato a olio nel corso di diverse sedute, veniva completato da altri particolari, come occhiali, baffi o piccole imperfezioni in grado di restituire verosimiglianza al nuovo volto dei soldati. Raggiungendo risultati estetici e funzionali di gran lunga superiori a quelli prodotti dall’omologo dipartimento inglese, lo studio prevedeva anche un trattamento psicologico dei pazienti: questi uomini, d’altronde, erano ormai considerati mostruosità e, spesso in maniera opposta rispetto al loro status prebellico, si trovavano a gestire improvvisamente la loro inadeguatezza. Ben lontana dall’uso provocante e bizzarro che ne fanno le colleghe e i colleghi avanguardisti negli stessi anni, Anna Coleman Ladd propone le sue maschere come uno strumento prezioso e dimostra come scienza e arte possano collaborare per un obiettivo comune, riparando e potenziando il corpo dell’individuo moderno. – SM

(1887–1890 ca.) Nel 1877 l’inventore americano Thomas Alva Edison annuncia la nascita del fonografo: un semplice cilindro ricoperto di stagno che, azionato per mezzo di una manovella, registra e – per la prima volta – riproduce brevi tracce audio. Benché si tratti di un dispositivo ancora rudimentale e la qualità del suono sia decisamente modesta, in pochi anni la tecnologia di questa macchina parlante sembra prestarsi alle più varie finalità applicative e, oltre a diventare un prezioso strumento in ambito professionale, viene utilizzata anche per l’intrattenimento. Spinto da una fede smodata nel progresso e capace di prevedere le ricadute delle sue invenzioni sulla nascente società di massa, Edison dapprima distribuisce la sua invenzione in luoghi come fiere e luna park e poi immagina che una versione in miniatura del fonografo possa essere inserita dentro i giocattoli, in modo da renderli parlanti. A tal scopo, nel 1887 l’inventore fonda addirittura la Edison Phonograph Toy Manufacturing Company e, in vista del Natale 1890, commercializza il primo stock di bambole. Le cosiddette Talking Dolls (bambole parlanti) sono dei manichini alti circa sessanta centimetri i quali, ciascuno con la propria acconciatura e un viso in ceramica diversamente decorato, presentano arti in legno dipinto e un torace in lega metallica. Proprio quest’ultimo, opportunamente forato per la diffusione del suono, diventa l’alloggio di un fonografo estraibile. Ogni cilindro è un pezzo unico e, inciso con famose filastrocche della cultura popolare americana come Mary Had a Little Lamb o Hickory Dickory Dock, riproduce le voci di diciotto diverse operaie della Edison Company. Galvanizzata dalla novità, la stampa celebra l’invenzione di Edison portando alla compagnia un immediato, seppur effimero, successo. Nell’arco di un mese, infatti, molte delle bambole vengono restituite al fornitore perché considerate difettose o, secondo i più, decisamente poco gradevoli. Già registrate in precarie condizioni di isolamento, le loro voci vengono ulteriormente distorte dal rimbombo della cassa metallica fino a trasformarsi in urla stridule e quasi demoniache. Più che un giocattolo, dunque, la bambola è definitivamente diventata quell’automa perturbante per cui la modernità prova un misto di fascino e repulsione. Dopo i primi tentativi di perfezionare la merce e non poche reticenze nell’ammettere il fallimento, lo stesso Edison descrive le sue creazioni come “little monsters” (piccoli mostri) e le ritira dal mercato distruggendo gli esemplari invenduti. – SM

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ALEXANDRA EXTER

E L S A V O N F R E Y TA G L O R I N G H OV E N

KA R LA G RO S C H

1882, Białystok, Impero Russo (attuale Polonia) – 1949, Fontenay-aux-Roses, Francia Difficile stabilire se la sensibilità artistica di Alexandra Exter sia più vicina al Costruttivismo, al Cubismo o al Futurismo: le sue opere ricorrono alle tre estetiche in maniera interscambiabile e, nel segno della fascinazione tecnologica che le accomuna, ne propongono una perfetta sintesi. Dopo aver studiato a Kiev e aver viaggiato molto tra Mosca, Parigi e Roma, Exter inizia a dipingere figure geometriche che abbandonano la monumentale staticità della pittura accademica e sono attraversate da un radicale dinamismo futurista. Anche nei tanti progetti scenografici per il teatro che l’artista realizza a partire dagli anni Venti, ogni costume, oggetto o dettaglio è concepito come un elemento mobile ed è studiato in perfetta continuità formale con la scena, mentre la narrazione è proiettata in contesti fantastici, utopici e irreali, anche quando la drammaturgia è tra le più classiche – come Otello o Romeo e Giulietta. Non a caso, nel 1924, Exter ottiene l’unica grande commissione per il cinema e realizza i costumi e le scene del primo colossal sovietico di fantascienza: Aelita. Basato sull’omonimo romanzo di Aleksej Tolstoj del 1922 e diretto dal regista Yakov Protazanov, il film sembra anticipare la stessa fascinazione per la tecnologia che tre anni più tardi, nel 1927, avrebbe reso celebre anche la pellicola di Fritz Lang Metropolis. Il film muto racconta la storia di un ingegnere russo, che dopo aver intrapreso un viaggio distopico su Marte ed essersi innamorato della sua regina – Aelita appunto –, riconosce nella donna una tiranna e si rivolta contro di lei. Sia nei bozzetti che nella realizzazione cinematografica, Alexandra Exter costruisce un’ambientazione in linea con i contenuti fantascientifici del romanzo e immagina un legame estetico tra il mondo alieno e quello tecnologico-industriale. I marziani si distinguono dagli esseri umani per una serie di accessori eccentrici che, resi filmicamente grazie all’uso di celluloide, Plexiglas e materiali leggeri, nei bozzetti appaiono come strane protesi metalliche utili a potenziare il corpo per renderlo una macchina ibrida. Tra tutti, Aelita spicca per magnificenza: indossa una corona fatta di sottili aste disposte a raggera e un lungo vestito livido e verdastro si avvita vorticosamente sul suo corpo seminudo fino a trasformarsi in un busto imbullonato. È un’amazzone iconica e severa, che Exter rende potente e minacciosa grazie alla tecnologia o – forse – come la tecnologia. – SM

1874, Swinemünde (Świnoujście), Impero Tedesco (attuale Polonia) – 1927, Parigi, Francia Anche per gli abitanti del Greenwich Village abituati a considerare il quartiere newyorkese come il ritrovo delle personalità più libertine e bohémienne, Elsa Plötz, meglio nota come baronessa Elsa von FreytagLoringhoven, deve essere apparsa come l’incarnazione della follia più assoluta. Arrivata negli Stati Uniti agli inizi degli anni Dieci dopo una serie di peripezie sentimentali e continui spostamenti tra Berlino, l’Italia e il Canada, la baronessa guadagna il titolo nobiliare sposando l’erede di un casato tedesco decaduto ma, senza alcun sostegno economico, è costretta a posare come modella per giovani artisti, esibirsi come soubrette nei locali del Village e cedere alla più sfrenata cleptomania. Le fotografie che ritraggono questi momenti, e più in generale gli anni newyorkesi, mostrano una donna di mezza età, talvolta seminuda e impegnata in strane pose, che ha il corpo addobbato con oggetti per lo più rubati o trovati nella spazzatura. In una di queste immagini, ad esempio, la baronessa si trova in un caotico interno domestico e, con le braccia all’indietro come fosse pronta a saltare, indossa un elmetto con una lunga piuma e una tutina a righe che le fascia il ventre come un ingranaggio. Sembra un cyborg erotico, esempio di ciò che definisce femminilità “teutonica”, che scompagina tutti i canoni identitari e assume la stessa estetica ibrida e ammaliante dei lavori che produce negli stessi anni. Nonostante la sua personalità adombri la produzione artistica, Elsa von Freytag-Loringhoven scrive una serie di componimenti poetici pubblicati sulla rivista letteraria “The Little Review” e realizza alcuni oggetti scultorei simili ai readymade dell’adorato amico Marcel Duchamp, che le valgono il titolo di “Mother of Dada”. A partire dal 1917 – e forse fino al suo ritorno in Europa nel 1926 – la baronessa inizia a produrre degli strani assemblaggi con gli stessi materiali che è solitamente abituata a indossare e, in uno di questi, ritrae proprio l’artista francese come un calice di vino da cui sembra fiorire un meraviglioso bouquet di piume. Portrait of Marcel Duchamp (1920) – o anche l’intreccio di tubi che intitola irriverentemente God (1917 ca.) e realizza insieme all’artista dadaista Morton Livingston Schamberg –, intrappolano la stessa aria ironica, sensuale e solenne che la baronessa trasmette decorando il proprio corpo e, similmente, diventano il simulacro di una complessa, contraddittoria e trasformista identità moderna. – SM

1904, Weimar, Germania – 1933, Tel Aviv, Palestina Mandataria (attuale Israele) Per quanto siano lacunosi, gli studi sulla danzatrice e atleta tedesca Karla Grosch restituiscono il profilo di un’artista perfettamente in linea con la temperie culturale della Repubblica di Weimar e, più esattamente, con le ricerche creative promosse dalla Bauhaus. Formatasi secondo i principi della danza espressionista e allieva della nota ballerina Gret Palucca, Grosch adotta uno stile ritmico e dinamico che, nella scuola tedesca in cui sarà docente di ginnastica per qualche anno dal 1928, si esprime grazie a movimenti fortemente teatrali e gestualità geometriche. Le poche foto che documentano la pratica del suo approccio coreutico sono scattate dal pittore e fotografo T. Lux Feininger e si riferiscono a una collaborazione teatrale tra Grosch e Oskar Schlemmer. Quest’ultimo, infatti, direttore della scuola di teatro della Bauhaus, nel 1929 scrittura la danzatrice come interprete del suo lavoro Materialtänze e, al Volksbühne di Berlino, le affida l’esecuzione di due particolari coreografie dedicate al metallo (Metalltanz) e al vetro (Glastanz). Se la prima si caratterizza soprattutto per una scenografia fatta di lamiere tra cui l’artista compie incredibili gesti atletici, la seconda evidenzia una forte attenzione ai costumi, dove Grosch è estremamente limitata nei movimenti e, sopra una tuta nera aderente, indossa una gonna fatta di lunghe e sottili aste di cristallo. Una calotta trasparente le avvolge la testa mentre le sue mani brandiscono due clave di vetro e una luce accecante alle sue spalle si riflette sul materiale restituendo l’immagine di una strana divinità metà umana e metà robotica. In perfetto stile futurista e in linea con la fascinazione per la tecnologia che Schlemmer condivide con le avanguardie europee, le immagini documentali delle coreografie sembrano alludere a una nuova dinamica tra corpo e mente: al variare del primo, modificato dai costumi e dalle atmosfere avveniristiche, la mente diventa più potente e si dota di un’intelligenza espansa e artificiale come gli innesti della sua struttura fisica. Gli effetti di questa evoluzione postumana, tuttavia, non sembrano duraturi né efficaci, o almeno non lo sono per la danzatrice. Nel 1933, poco dopo aver lasciato la Bauhaus ed essersi trasferita a Tel Aviv, Karla Grosch viene colpita da un arresto cardiaco durante una nuotata in mare e muore a soli ventinove anni. – SM

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Arsenale


diverse tradizioni artistiche non europee, l’artista ottiene delle figure ibride che sembrano minare la supremazia culturale allora riconosciuta all’Occidente colonialista. Anche in Der heilige Berg (1927) – un collage della serie etnografica in cui i corpi di due scalatori hanno grandi sculture asiatiche al posto della testa –, ad esempio, Höch dimostra che le sue figure grottesche non sono solamente bizzarre, ma forniscono una singolare, e forse cinica, immagine del progresso. – SM

presentata alla mostra Magiciens de la Terre, tenutasi nel 1989 al Centre Pompidou e alla Grande Halle de La Villette di Parigi, considerata da molti come la prima esposizione globale di arte contemporanea. L’opera respira nelle aperture e chiusure ritmiche dei suoi bracci in acciaio. Horn riesce a rendere questo gesto del corpo umano in una figura cyborg che fonde animale, metallo e pezzi meccanici, mettendo così in discussione il primato o la purezza della forma umana. – MK

1889, Gotha, Germania – 1978, Berlino, Germania

(p. 516)

( p p . 5 1 8 –5 1 9 )

REBECCA HORN

K I K I KO G E L N I K

Uno dei primi e più famosi fotomontaggi realizzati da Hannah Höch si intitola Das schöne Mädchen (1920) e rappresenta l’immagine decostruita di una giovane donna: seduta al centro di una caotica composizione di ritagli di giornale, con una lampadina al posto della testa e una serie di oggetti meccanici intorno, la ragazza è sovrastata da una voluminosa chioma di capelli femminili evidentemente fuori scala. Reso disomogeneo dal montaggio di figure umane e tecnologiche, il suo corpo appare ibrido, robotico e a tratti bestiale come richiede il Dadaismo. Al momento della realizzazione del lavoro, infatti, Höch è l’unica artista donna ufficialmente riconosciuta all’interno dell’avanguardia berlinese e, benché sia sottovalutata dai colleghi uomini del movimento – primo fra tutti il compagno Raoul Hausmann –, ne approccia i codici visivi con una sensibilità innovativa e ambiguamente femminista. I fotomontaggi realizzati almeno fino agli anni Trenta, in effetti, prima che il nazionalsocialismo li consideri “degenerati”, sono popolati da figure grottesche e bizzarre che, anche quando sembrano forti e potenti come suggerisce il corpo tecnologico della ragazza in Das schöne Mädchen, sono vittime di una generale frammentazione. Nel lavoro intitolato Deutsches Mädchen (1930) – un montaggio in cui due occhi sproporzionati e una frangia scura vengono sovrapposti ai delicati lineamenti di una giovane donna –, l’artista dà forma a una figura femminile mostruosa e deforme, tutt’altro che fiera e seducente come vorrebbe il nascente movimento femminista. Höch considera la Neue Frau (Donna nuova) come una moda e, prelevando le immagini dei suoi montaggi dalle stesse riviste che ne celebrano il successo, propone un’identità instabile più affine alla complessità della donna moderna e più utile a combattere gli stereotipi di cui questa è vittima.

1944, Michelstadt, Germania. Vive a Odenwald, Germania

1935, Graz, Austria – 1997, Vienna, Austria

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FLORENCE HENRI 1893, New York City, USA – 1982, Compiègne, Francia Questa artista è presente anche in La culla della strega. Per leggere la biografia dell’artista, cfr. p. 116.

(p. 514)

HANNAH HÖCH

Lo stesso atteggiamento critico emerge anche dalla ventina di collage della serie Aus einem ethnographischen Museum (1924–1930). Unendo immagini di corpi alla moda con iconografie riconducibili alle più

“Per me l’arte è anarchia”, dice Rebecca Horn, un’artista che rifiuta ogni confinamento e sfida continuamente i limiti del corpo, degli oggetti, dell’architettura e dei supporti artistici. All’inizio degli anni Settanta Horn inizia le performance di estensione corporale, durante le quali applica al proprio corpo varie strutture in legno, metallo e tessuto, come ali di tela che toccano terra, guanti dalle lunghe dita seducenti, una maschera ricoperta di matite e un imponente corno di unicorno. Relegata in un sanatorio in giovane età a causa di una terribile malattia polmonare, Horn forza i confini tra il sé e ciò che lo circonda, mettendo in discussione la fine del corpo e l’inizio di ciò che lo contiene. Negli anni successivi l’opera dell’artista si amplia, alternando protesi per il corpo a sculture cinetiche e installazioni, oltre a film, in cui spesso figurano le sue sculture mobili, tra cui Der Eintänzer (1978), La Ferdinanda: Sonate für eine Medici-Villa (1981) e Buster’s Bedroom (1990), con l’attore canadese Donald Sutherland come protagonista. Tra le sculture cinetiche più degne di nota si ricordano The Feathered Prison Fan (1978), un ventaglio di piume che diventa un bozzolo-abitazione; Concert for Anarchy (1990), un pianoforte appeso al soffitto capovolto che espelle i propri tasti a intermittenza; e Tower of the Nameless (1994), un’installazione di violini che suonano meccanicamente. In tutti i suoi lavori si rileva una tensione che risiede nella forma del corpo e in quello spazio che precede immediatamente il momento del contatto. In Kiss of the Rhinoceros (1989) due enormi bracci metallici, ciascuno culminante con un corno di rinoceronte in metallo, formano un cerchio quasi completo. I bracci si allontanano lentamente l’uno dall’altro e quando i corni si toccano, all’apice del cerchio, vengono attraversati da una scarica di elettricità. Kiss of the Rhinoceros è stata

Persino dopo sessant’anni, nell’immaginario collettivo la Pop Art evoca all’istante immagini della cultura consumistica del dopoguerra: gigantesche rappresentazioni di prodotti preconfezionati, stelle del cinema, illustrazioni di fumetti. Pochi mesi dopo l’arrivo di Kiki Kogelnik a New York, nell’aprile del 1961, l’amico Claes Oldenburg avvia la propria galleria-negozio, The Store, dove vendeva versioni in gesso di articoli comuni presenti sugli scaffali dei negozietti di quartiere del Lower East Side. Nei sei mesi successivi all’apertura di The Store, Andy Warhol esordisce con i suoi leggendari dipinti di lattine di Campbell’s Soup. Kogelnik, tuttavia, seppure ispirata dall’implicita fantasia della varietà nell’emergente panorama mediatico della cultura di massa, è allo stesso tempo affascinata e in netto contrasto con l’utopia della Pop Art. “Non è la Coca-Cola ad attrarmi […] ciò che mi coinvolge è la bellezza tecnica dei razzi, delle persone che volano nello spazio e delle persone che diventano robot”, dichiara1. L’arte di Kogelnik contiene una sarcastica critica femminista alla tecno-politica dell’epoca della Guerra fredda e all’interno di questa visione concepisce il corpo come una forma di tecnologia che modella la femminilità e il desiderio. L’artista è conosciuta soprattutto per i dipinti di sagome umane appiattite, solitamente composte a partire da immagini ritagliate e realizzate con colori vivaci sovrapposti, creando un effetto a raggi X. Ispirata dalle speculazioni degli anni Sessanta sulla confluenza tra arte e tecnologia, Kogelnik vede le macchine come prodotti guidati da principi di controllo e di liberazione. Nelle sue colorate sagome cyborg, come quelle di Cold Passage o M (entrambe del 1964), le eleganti rappresentazioni dei corpi ai raggi X sono realizzate con parti ritagliate, necessariamente anonime e disumanizzate, quando traslate attraverso i meccanismi feticizzanti della macchina. In Female Robot (1964), tale approccio compie un passo avanti con l’inclusione di un paio di forbici,

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La seduzione del cyborg


un altro strumento di frammentazione del soggetto. Eppure, queste immagini sono anche stranamente liberatorie. Nella suite di dipinti Artificial Man in Four Parts (1967), il corpo robotico è mostrato in bianco e nero, presentato come se fosse stato direttamente scansionato da una macchina a raggi X. Evidenziando le parti fondamentali di un essere umano ottimizzato – il cervello, il cuore, la mano, gli organi sessuali –, il corpo appare generativo, portatore di militanza femminista più che di regolamentazione di genere. – MW 1

Kiki Kogelnik, citata in The Fashions: Kiki is Kicks, in “Women’s Wear Daily”, 22 giugno 1966, 12.

(p. 517)

LILIANE LIJN

Negli anni Settanta e Ottanta, la seconda ondata del movimento femminista la spinge ad applicare l’approccio multimediale alla forma umana, focalizzandosi in particolare sull’idea della perdita del corpo femminile in una società sempre più meccanizzata. Nelle sculture umanoidi Feathered Lady (1979) e Heshe (1980), Lijn adotta un approccio antropomorfico con cui crea una sagoma femminile futuristica e ambigua – in parte macchina, in parte animale e vegetale – usando morbidi piumini per la polvere e fibre sintetiche a cui si contrappongono materiali industriali come corde di pianoforte, acciaio e prismi ottici di vetro, che riflettono e reindirizzano la luce. In Gemini (1984), Lijn ricorre nuovamente a elementi contrastanti, in questo caso utilizzando come dispositivo formale cinetico le funzioni di tensione e rilascio delle molle metalliche, ampliando così la propria ricerca di una nuova forma femminile. – MW

1939, New York City, USA. Vive a Londra, UK Da oltre sei decenni Liliane Lijn opera nei campi dell’arte, della poesia e della scienza, creando sculture, installazioni, dipinti e video che affrontano concetti legati al Surrealismo, alla mitologia, al pensiero femminista e al linguaggio. Quando Lijn compare sulla scena artistica di Parigi alla fine degli anni Cinquanta, la tecnologia, nell’immaginario occidentale del dopoguerra, è considerata un freddo strumento di calcolo, fatto di manopole e pulsanti lampeggianti, una fantasia di ordine e precisione, una creazione umana ma senza alcuna traccia di un corpo sensibile. Nonostante il perseverare di questa immagine, per molti giovani artisti come Lijn i nuovi dispositivi e apparecchi tecnologici – e la loro capacità di movimento, di comprendere i fenomeni cerebrali e corporei, di creare mondi utopici – costituiscono una fonte di ispirazione per nuovi percorsi formali e un rinnovato strumentario di mezzi e materiali. Nei primi anni di attività, Lijn sperimenta con luce, energia e movimento, in particolare creando le Poem Machines meccanizzate: cilindri mobili stampati con parole che girano ad alta velocità fino a creare un effetto di vibrazione. Attingendo all’idea di scrittura automatica dei surrealisti, alle tecniche di cut-up rese popolari dai poeti Beat e ai modelli di interferenza osservati al Palais de la Découverte di Parigi, queste macchine intaccano, come in un tempo cinematografico, il mito del rapporto unico e soggettivo del poeta con la parola. Mentre turbinano, le loro funzioni motorizzate tolgono il controllo dalle mani dell’artista, forgiando così un tipo di scultura cinetica che, in modo autoriflessivo, considera le implicazioni del proprio status di opera d’arte in movimento.

(p. 517)

LOUISE NEVELSON 1899, Perejaslav, Governatorato di Poltava dell’Impero Russo (attuale Ucraina) – 1988, New York City, USA Louise Nevelson (nata Leah Berliawsky) crea imponenti ed eleganti sculture durante l’intero dopoguerra, periodo in cui perfeziona la sua pratica artistica più nota, che la vede recuperare pezzi di legno – spesso oggetti domestici e ornamenti architettonici – dalle strade di New York per poi organizzarli in elementi modulari, sovrapposti in maniera irregolare, che infine dipinge con un unico colore. Se da un lato è attratta dagli scarti di legno per il significato che permea la loro memoria materiale e per il loro intrinseco potenziale di riutilizzo, la sua conoscenza del legno è anche personale. Prima che, all’inizio del XX secolo, la sua famiglia fuggisse a Rockland (Maine), dalla Russia – dove l’allora Governatorato zarista di Poltava imponeva alle famiglie ebraiche restrizioni violentemente repressive e insostenibili –, il padre lavorava come taglialegna e commerciante di legname, professione che avrebbe continuato anche negli Stati Uniti, dove in seguito aprirà un deposito di rottami. Per questo motivo, le sue composizioni di scarti raccolti per strada acquistano un significato più profondo: sono costruzioni formali, ma anche fabbricazioni personali di un passato complesso. Se osservata frontalmente, la scultura Homage to the Universe (1968) racchiude molti aspetti della pittura astratta degli anni Cinquanta, il decennio in cui Nevelson comincia a costruire i suoi peculiari muri-rilievo con strati di griglie di legno sovrapposte. Richiamando l’Espressionismo Astratto e l’attrazione del Colour Field

per le vaste campiture di colore, con un uso di materiali non tradizionali e la sperimentazione di gesti formali audaci, questa scultura innovativa crea un ambiente ricco e sensuale, che immerge gli spettatori in uno spazio sconfinato di ombra, mistero e profonda complessità. Ricoperta da uno strato uniforme di vernice nera opaca, che da lontano crea l’illusione di una superficie piena e compatta, la stratificazione di Homage to the Universe deriva, in parte, dal parsimonioso metodo di costruzione, e da un uso ponderato del colore. Nevelson parla spesso del nero, il colore che utilizza più di frequente nelle sue sculture, come colore della grazia, della dignità e della magnificenza. Nel corso degli anni Sessanta, Nevelson attribuisce a molte sue grandi opere il titolo di Homage (Omaggio), come rimando a questioni sociali, religiose e personali, fra cui la morte di sei milioni di ebrei nella Shoah, ricordata nelle famose sculture Homage to 6,000,000 I e II (1964). In alcuni di questi lavori, l’artista rende invece omaggio a concetti più ampi: la luna, il mondo. Con Homage to the Universe il tributo tende a un effetto celestiale, per esprimere la meraviglia e lo sgomento suscitati dalla profondità e dall’infinitezza dell’universo. – MW

(p. 515)

ANU PÕDER 1947, Kanepi, Estonia – 2013, Tallinn, Estonia Quando nel 1970 la scultrice Anu Põder inizia a frequentare la Scuola d’arte di Tartu nell’Estonia occupata dai sovietici, le banalizzazioni visive del Realismo Socialista dominano la produzione artistica del tempo, tra monumenti glorificanti Lenin, massicci busti bronzei di politici, dipinti esageratamente ottimisti che plaudono ai successi di progetti come le proprietà agricole collettive. Tuttavia, nella scultura radicalmente riconcettualizzata di Põder, la brutale permanenza del bronzo lascia il posto alla natura effimera di tessuto, legno, iuta, cera, sapone, colla e gesso; il potere propagandistico dei volti di leader severi lascia il posto a corpi frammentati e sensuali mentre l’ideologia imposta dallo Stato fa spazio a rapporti evocativi tra sfera personale e politica. La vita di Põder attraversa uno dei periodi più ricchi e complessi dell’Europa orientale del XX secolo: la nuova occupazione sovietica dell’Estonia negli anni Quaranta, la riconquista della sovranità nazionale nel 1988, l’indipendenza nel 1991. La sua opera si pone come risposta ai profondi cambiamenti culturali, soprattutto per quanto riguarda la vita delle donne con i loro desideri, le aspettative connesse alle loro responsabilità e al ruolo di madri, custodi e figure idealizzate in una società in rapido mutamento.

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Negli anni Ottanta e Novanta, Põder sviluppa un approccio che impiega manichini e bambole, elementi usati frequentemente nel Surrealismo, per rappresentare fantasie di cyborg o automi. Unendo immagini di parti del corpo frammentate – alternativamente tagliate, degradate, ferite e incomplete – a materiali spesso fragili o effimeri, Põder crea una serie di sculture dove la rappresentazione del corpo femminile emerge come un’inquietante controfigura, la cui profonda materialità è soggetta a processi di ibridazione, trasformazione, decadimento, o proiezione di desideri. Una delle prime sculture, Before Performance (1981), è un manichino acefalo a grandezza naturale realizzato in tessuto e plastica, ricoperto da misure riferite a proporzioni corporee idealizzate; il corpo stesso è diviso in zone, come la carcassa di un animale pronta per il macello. In contrasto con un corpo pronto per essere fatto a pezzi, in Figure Which Was Made to Walk (1984) le varie parti restano a malapena unite. Nelle sculture successive, come With a Trombone from the Gill of Lasnamäe (Pink Bird) (1988), il corpo viene spinto ulteriormente nel regno dell’uomo-macchina. Ancora una volta modellate con pezzi di plastica rosa carne per simulare la pelle, le forme astratte possono essere lette, in maniera intercambiabile, come parti di strumenti, arti umani, o tubi usati in edilizia: il doppio di un essere umano, che ne registra la vulnerabilità e la malleabilità corporea. – MW

(p. 513)

L AV I N I A S C H U L Z E WA LT E R H O L D T 1896, Lübben (Spreewald), Germania – 1924, Amburgo, Germania 1899 – 1924, Amburgo, Germania Durante la Repubblica di Weimar, la danza assume un nuovo ruolo nell’avanguardia e Lavinia Schulz incarna il modello di un nuovo tipo di danzatrice. Insieme al marito e collega Walter Holdt, tra il 1919 e il 1924 porta in scena ad Amburgo la danza espressionista con uno stile che si esprime attraverso l’atto di “strisciare, scalpitare, accovacciarsi, rannicchiarsi, inginocchiarsi, inarcarsi, camminare a grandi passi, balzare e saltare con effetti diagonali e spiraliformi nello spazio dedicato alla performance, con le braccia proiettate in avanti o nell’atto di afferrare… occasionalmente intervallati da pause”1. Schulz deve questa tecnica alla danzatrice e coreografa espressionista Mary Wigman, pioniera di uno stile corporeo estemporaneo e turbolento slegato dalla narrazione. Considerata un’espressione accessibile per le donne dell’epoca, la danza diviene presto parte del repertorio della vita moderna.

Schulz e Holdt creano una serie di costumi fantastici e futuristici che, portati sul palcoscenico di Amburgo, trasformano i danzatori in opere d’arte ibride che condensano danza, moda e musica. Evocativi dei costumi realizzati negli anni Venti da Oskar Schlemmer e Xanti Schawinsky per la Bauhaus, questi capi spesso culminano con bizzarre teste robotiche o di rettili dai nomi eccentrici. A differenza di quelli delle loro controparti della Bauhaus, i costumi della coppia sono ispirati alla natura e al regno animale. Realizzate con materiali quali legno, cuoio, corda, metallo e cartone, le opere ispirate agli insetti come Maskenfigur “Toboggan Mann” (1924) sono stravaganti capi realizzati per metà con stoffa rossa e per metà con tessuto a variopinte geometrie, completati da grandi maschere che ricordano la testa di un insetto; la fumettistica opera informe Tanzmaske “Technik” (1924) presenta un paio di occhi posticci che sporgono dalla faccia triangolare. Sebbene molti dei loro oggetti non siano sopravvissuti fino a oggi, nel 1924 una ventina di creazioni di Schulz e Holdt entrò a far parte della collezione del Museum für Kunst und Gewerbe di Amburgo, poco dopo l’omicidio-suicidio di Schulz e del marito, travolti da un devastante dissesto finanziario. Nel 1980, il museo ha rinvenuto nelle loro scatole originali i costumi e una serie di fotografie di danzatori abbigliati e mascherati scattata nel 1924 da Minya Diéz-Dührkoop; i capi e le fotografie documentano come l’opera di Schulz rappresenti una testimonianza significativa della straordinaria creatività e maestria della cultura della danza durante la Repubblica di Weimar. – MW 1

K.E. Toepfer, Empire of Ecstasy: Nudity and Movement in German Body Culture, 1910–1935, Berkeley, University of California Press, 1997, pp. 215–216.

Werkbund, un’associazione svizzera di artisti professionisti. Dal 1916 al 1929 Taeuber-Arp insegna design tessile presso la Scuola d’arti e mestieri di Zurigo, impiego che le consente di mantenere se stessa e il marito, l’artista Jean Arp. Dopo il trasferimento a Zurigo nel 1915, Taeuber-Arp inizia a realizzare opere tessili e dipinti geometrici non figurativi che definisce “concreti”. Le sue attente composizioni di cerchi, quadrati, linee diagonali e altre forme gettano un ponte tra il nascente movimento costruttivista e il design di tessuti. A Zurigo, si unisce a un circolo di artisti frequentato anche da Emmy Hennings, Tristan Tzara e Hugo Ball. Firmataria del Manifesto Dada, Taeuber-Arp si esibisce spesso al famoso Cabaret Voltaire, per il quale realizza anche scenografie, costumi e marionette. Nel 1926, Taeuber-Arp si trasferisce in Francia, dividendo il proprio tempo fra Strasburgo e Parigi. Qui entra a far parte dei gruppi di artisti non figurativi Cercle et Carré e Abstraction-Création, e fonda e dirige la rivista costruttivista “Plastique”. Nel 1940, poco prima dell’occupazione nazista, lascia la capitale francese per dare vita a una comune di artisti a Grasse, sempre in Francia, insieme a Sonia Delaunay, Susi Gerson e altri. Nel 1942 ritorna in Svizzera, dove muore a causa di un avvelenamento accidentale da monossido di carbonio all’età di cinquantatré anni. – MK Questa artista è presente anche in Una foglia una zucca un guscio una rete una borsa una tracolla una bisaccia una bottiglia una pentola una scatola un contenitore, cfr. p. 375.

(p. 508)

M A R I E VA S S I L I E F F 1884, Smolensk, Russia – 1957, Nogent-sur-Marne, Francia

(p. 510)

S O P H I E TA E U B E R -A R P 1889, Davos, Svizzera – 1943, Zurigo, Svizzera Sophie Taeuber-Arp è una figura centrale del movimento dadaista e un’influente artista modernista, in grado di oltrepassare i confini tra belle arti e artigianato. Pur avendo vissuto due conflitti mondiali, produce opere in cui, su tutto, trionfano la gioia e il colore. Artista eclettica e universale, Taeuber-Arp spazia tra pittura, scultura, design di tessuti, danza, marionette, illustrazione, decorazione d’interni e architettura. Studia design tessile presso la Scuola d’arti e mestieri di San Gallo e danza nella scuola di Rudolf Laban a Zurigo, ed è inoltre membro della Schweizerischer

Tra le poche immagini che ritraggono l’artista Marie Vassilieff, una in particolare sembra riassumere l’originalità della sua attività artistica: vestita con un eccentrico costume da Arlecchino disegnato per il “Bal Banal” – una festa per gli immigrati russi tenutasi a Parigi nel 1924 – l’artista appare seduta su uno sgabello e, con gambe e braccia aperte e piegate sui fianchi, guarda lo spettatore attraverso una maschera di metallo. Mentre le geometrie dell’abito ricordano l’estetica cubista della sua prima formazione, la postura descrive Vassilieff come una sorta di macchina robotica e, con grande teatralità, richiama i modellati delle centinaia di bambole che l’artista realizza nel corso della sua lunga, seppur misconosciuta, carriera artistica.

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Qualche tempo dopo il suo arrivo nella comunità artistica di Montparnasse e l’apertura di un atelier frequentato dai più illustri membri dell’avanguardia parigina presto conosciuto come “Académie Vassilieff”, a partire dagli anni Dieci, l’artista si dedica alla creazione di una serie di marionette artigianali. A differenza di quelle dadaiste prodotte negli stessi anni dalle colleghe Sophie Taeuber-Arp, Emmy Hennings o Hannah Höch, le sue bambole non hanno alcuna funzione teatrale, piuttosto sono il frutto di una più generale fascinazione avanguardista per il fantoccio: un oggetto scultoreo o un bizzarro ritratto che è in grado di riprodurre le sembianze del corpo umano. Vassilieff ne realizza poco più di un centinaio e, a eccezione della comune fattura, solitamente in materiali semplici come tessuto riciclato, segatura, cartapesta, fili di ferro, si lascia ispirare da due immaginari differenti. Alcune di loro hanno solo la testa e sembrano riferirsi a un’estetica “primitiva”, certamente derivata dalla dilagante fascinazione per l’esotico diffusa nei circoli intellettuali della Francia colonialista; altre invece, sicuramente più numerose e definite portraits de poupées, sono dei fantocci anatomicamente completi che, con pochi ma azzeccati dettagli, forniscono un’immagine caricaturale dei tanti personaggi che gravitano intorno all’Académie. Sebbene oggi siano conservati solo pochi esemplari di entrambe le tipologie di bambole, un numero consistente di scatti di Pierre Delbo permette ancora oggi di apprezzarne la qualità formale. Il suo stile fotografico le immortala come fossero le vere celebrità di cui rappresentano fattezze e, oltre a permettere un facile riconoscimento dei vari Le Corbusier, Josephine Baker o Jean Cocteau, offre una preziosa e curiosa testimonianza della vivacità sociale e intellettuale della comunità parigina. – SM

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K A P WA N I K I WA N G A

1978, Hamilton, Canada Vive a Parigi, Francia

Kapwani Kiwanga, artista canadese che vive a Parigi, attinge alla sua formazione in antropologia per esplorare molteplici temi, come ad esempio storie di emarginazione e l’impatto dell’imperialismo sul mondo. La sua pratica artistica basata sulla ricerca, nella quale rientrano cinematografia, scultura, performance e installazioni, richiama sia la lotta al colonialismo sia l’attenzione ai sistemi di potere attraverso una commistione di strategie concettuali, architettoniche e formali. Descritto come una combinazione tra passato, presente e futuro, il lavoro dell’artista si pone come veicolo per generare una visione di possibilità all’interno di un mondo spaccato. In progetti recenti come Plot (2020), un’installazione site-specific realizzata per la Haus der Kunst di Monaco, Kiwanga unisce la ricerca d’archivio e la botanica a interventi spaziali. La sala centrale del museo fa da sfondo a tre dipinti semitrasparenti di grandi dimensioni che giocano sui toni del verde, dell’arancione, del blu e del viola, con l’intento di evocare i colori che caratterizzano il vicino Englischer Garten. Oltre a scomporre le monumentali barriere dell’ambiente costruito e richiamare i pittoreschi spazi locali, queste tende svolgono anche la funzione di contenitori di sculture ibride in metallo, materiali gonfiabili e piante. Ispirati alle teche di Ward del XIX secolo – contenitori in vetro utilizzati per importare piante straniere in Europa da luoghi remoti –, le sculture aggiungono complessità all’installazione, suggerendo come l’architettura e la natura siano state manipolate nel corso della storia per servire i desideri e le ideologie dell’umanità. In opere come Dune (2021), l’arte di Kiwanga si ispira a un altro elemento organico soggetto allo sfruttamento umano: la sabbia utilizzata nel fracking. Composta da sabbia proveniente dal sud del Texas, un prodotto usato per l’estrazione di petrolio e gas dalle rocce di scisto, l’installazione Dune suggerisce le modalità con cui i materiali organici possono essere utilizzati a scapito della stessa natura e dell’umanità. Per Il latte dei sogni, l’artista si cimenta in una nuova installazione che fonde gli aspetti spaziali, materiali e concettuali trattati nei suoi ultimi progetti. In quest’opera Kiwanga crea un ambiente ispirato ai colori del deserto al tramonto, che include grandi dipinti semitrasparenti su tela abbinati a una serie di sculture in vetro contenenti sabbia. Ancora una volta, attingendo alle teche di Ward e al fracking, Kiwanga definisce la sabbia come materiale politico – che simboleggia contemporaneamente il danno provocato dall’industria petrolifera, la materia prima del vetro e un richiamo alla sempre crescente aridità del pianeta. – MW

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Kapwani Kiwanga, Vivarium: Apomissis, 2020. PVC, acciaio, vernice, 295 × 238 × 300 cm. Veduta della mostra, Plot, Haus der Kunst, Monaco di Baviera, 2020. Photo Dominik Gigler. Courtesy l’Artista; galerie Tanja Wagner, Berlin. © Kapwani Kiwanga Pagine successive: Kapwani Kiwanga, Landscape: Foreground, Middle ground, Background, 2020. Tessuto Trevira, vernice colorata per tessuto, dimensioni variabili. Veduta della mostra, Plot, Haus der Kunst, Monaco di Baviera, 2020. Photo Dominik Gigler. Courtesy l’Artista; galerie Tanja Wagner, Berlin. © Kapwani Kiwanga

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NO OR ABUARAFEH

1986, Gerusalemme Vive a Gerusalemme e Maastricht, Paesi Bassi

Tra video, performance, pubblicazioni e scritti, l’artista palestinese Noor Abuarafeh crea un corpus complesso che testimonia le modalità di fabbricazione, documentazione e interpretazione della storia, con particolare riferimento allo sfaccettato contesto culturale e politico proprio della Palestina. L’arte di Abuarafeh coglie un mondo che emerge da narrazioni, ricordi e archivi; attraverso le loro riproduzioni, ripetizioni e lacune, l’artista immagina materie e mitologie poetiche alternative per il futuro. In anni recenti, Abuarafeh esamina il fenomeno della produzione della storia attraverso i processi di conservazione di oggetti, opere d’arte e immagini che si verificano nei musei e nelle mostre, talvolta concentrandosi su esempi in divenire, come il caso del primo Palestinian Museum. Riflettendo su ciò che gli individui, le autorità e gli interessi privati scelgono di salvaguardare o di rivestire di un eccezionale valore, Abuarafeh articola la tensione tra ciò che viene incluso nel progetto di costruzione di una nazione e ciò che viene escluso, o nemmeno preso in considerazione. Il cortometraggio intitolato Am I the Ageless Object at the Museum? (2018) si inserisce in un progetto pluriennale che traccia parallelismi tra diversi spazi destinati alla conservazione e all’esposizione: il museo, lo zoo e il cimitero. Una voce fuori campo accompagna gli spettatori attraverso alcuni parchi zoologici in Palestina, Svizzera ed Egitto. Proprio come i musei, questi luoghi si conformano a uno standard in cui gli animali sono raccolti, ingabbiati, esibiti per il consumo del pubblico e assoggettati a dinamiche di potere impari tra chi osserva e chi è osservato. Alternati a immagini provenienti da musei di storia naturale, con i loro mammiferi impagliati e gli insetti spillati in teche di vetro, anche gli animali vivi finiscono con l’apparire come oggetti. Insieme a una critica implicita alle pratiche di collezionismo e al loro rapporto con nazionalismo e colonialismo, Abuarafeh presenta anche delle associazioni fantastiche, con zoo che si estendono oltre quanto è esplicitamente reso disponibile al pubblico. Nel raccontare ricordi d’infanzia sui segni zodiacali, sull’evoluzione degli ippopotami e sulla simbologia mitica della balena, la voce narrante immagina di essere essa stessa un grande cetaceo, esposto alla luce del sole e alla natura, come se quel corpo fosse anche il suo. – MW

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Noor Abuarafeh, Am I the Ageless Object at the Museum? (stills), 2018. Installazione video, tecnica mista, 15 min. Veduta della mostra, The Moon is a Sun Returning as a Ghost, Al-Ma’mal Foundation for Contemporary Art, Gerusalemme, 2019. Courtesy l’Artista; Fondazione Al-Ma’mal

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TAT S U O I K E D A

1928, Saga, Giappone – 2020, Tokyo, Giappone

Operando nelle immediate vicinanze di complessi militari e basi navali statunitensi in Giappone durante e dopo la Seconda guerra mondiale, Tatsuo Ikeda compone un vocabolario visivo che rifugge l’ordine e il realismo. Disegnando e dipingendo, soprattutto su carta, con l’utilizzo di materiali economici come cera, inchiostro, penna, matita e acquerello, Ikeda crea scene surreali in cui corpi mutanti si fondono con architetture quasi irriconoscibili su sfondi di disegni vorticosi, celestiali, fatti di linee astratte o senza gradiente. Quello ritratto da Ikeda è un corpo che entra ed esce da un buco nero, o che magari semplicemente esiste in un paesaggio postnucleare. Ci sono occhi che fissano, protrusi al di fuori dei corpi, vacui e smarriti, e orifizi increspati che creano l’illusione di passaggi a un altro stato dell’essere. Ikeda vive per quasi un secolo e plasma la propria carriera artistica intorno ai tumulti sperimentati in prima persona in seguito alle vicende politiche occorse fra Stati Uniti e Giappone, quali l’essere selezionato come pilota kamikaze a quindici anni (la guerra termina prima che possa essere mandato in una missione suicida), il periodo post-guerra atomica segnato dai continui test statunitensi nel Pacifico, e la rapida e tossica ripresa industriale del Giappone. Dopo la guerra, Ikeda si trasferisce a Tokyo e si iscrive alla Tama Art and Design School, dove si lega a gruppi d’avanguardia. Si unisce alle fila di una generazione di artisti giapponesi che realizzano opere fortemente espressive, cariche della volontà di rivendicare identità e cultura personali e contraddistinte da ideali politici marcatamente antimperialisti, antinazionalisti e pacifisti. La produzione artistica di Ikeda è costituita di molti capitoli, contraddistinti dalla realizzazione di serie sviluppate nell’arco di diversi anni e sempre in reazione o in relazione all’attualità. Uno di questi corpus di opere è intitolato Elliptical Space e viene creato tra il 1963 e il 1965 dopo il Trattato di mutua cooperazione e sicurezza firmato tra Stati Uniti e Giappone, che impegnava le due nazioni e difendersi reciprocamente se attaccate e che permetteva il perdurare della presenza militare statunitense in Giappone. Questo fatto demoralizza Ikeda, che sposta il proprio ambito di interesse dal più ampio paesaggio sociale all’esplorazione dell’anatomia e della coscienza umana a livello microbiotico. In questi dipinti la suggestione di pianeti orbitanti diventa un tutt’uno con forme corporee surreali, composte da centinaia di figure contornate che si incastrano come pezzi di un puzzle. Nella vasta produzione di Ikeda, le sue opere esprimono l’unicità dell’artista, la sua sensibilità e percezione dell’ordine naturale delle cose.– IA

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Tatsuo Ikeda, BRAHMAN: Chapter 3: Floating Sphere-2, 1977. Acrilico su carta, 39,5 × 39,5 cm. Courtesy Fergus McCaffrey, New York, Tokyo. © The Estate of Tatsuo Ikeda Tatsuo Ikeda, BRAHMAN: Chapter 4: Helix Granular Movement-4, 1979. Acrilico su carta, 39,5 × 39,5 cm. Courtesy Fergus McCaffrey, New York, Tokyo. © The Estate of Tatsuo Ikeda


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Tatsuo Ikeda, Elliptical Space 2, 1964. Inchiostro, pittura a olio, acquarello su carta, 33 × 41,9 cm. Collezione privata. Courtesy Fergus McCaffrey, New York, Tokyo. © The Estate of Tatsuo Ikeda Tatsuo Ikeda, BRAHMAN: Chapter 2: Space Egg-2, 1976. Acrilico su carta, 39,5 × 39,5 cm. Courtesy Fergus McCaffrey, New York, Tokyo. © The Estate of Tatsuo Ikeda Tatsuo Ikeda, Untitled, 1963. Conté, penna su carta, 39 × 30,5 cm. Courtesy Fergus McCaffrey, New York, Tokyo. © The Estate of Tatsuo Ikeda

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LIV BUGGE

1974, Oslo Vive a Oslo, Norvegia

Sin dall’infanzia l’artista norvegese Liv Bugge si trova in perfetta sintonia con la magia del vivere accanto agli animali. Cresciuta in una famiglia che praticava la corsa con i cani da slitta, Bugge ha trascorso molto tempo in un campo per l’addestramento cinofilo, trovando tra le decine e decine di husky i propri amici e compagni di giochi. Come racconta l’artista, grazie a loro ha imparato un modo di vivere basato sulla collaborazione e sulla comunicazione non verbale, maturando interesse verso la complessità di cicli vitali sovrapposti, temi i cui confini Bugge sperimenta nella propria arte, spesso nella forma di immagini in movimento combinate a elementi scultorei. In tutta l’opera di Bugge, la collaborazione è rappresentata accanto a strutture di potere e sistemi di controllo; la conversazione e il dialogo sono immaginati attraverso i sensi, come il tatto; i meccanismi che separano la vita umana da quella non umana e la società strutturata dallo stato selvaggio sono mostrati nella loro complessità. Alle volte, si scopre che situazioni a prima vista caratterizzate da vulnerabilità o conflitto non presuppongono necessariamente violenza: l’esperienza sensoriale tattile suggerisce piuttosto un rifiuto diretto dell’essere umano quale oggetto e soggetto primo di conoscenza e sentimento. La videoinstallazione intitolata PLAY (2019) presenta filmati 16mm che ritraggono un branco di husky siberiani. Le immagini sono mostrate in casse di legno dotate di proiettori. Queste strutture, che ricordano cucce per cani, sono disseminate sul pavimento senza determinare la logica narrativa dei filmati che contengono. Al contrario, restano indipendenti dai movimenti dei cani che, a loro volta, oppongono resistenza al confinamento predeterminato dagli schermi. Le riprese sono state effettuate in un campo scandinavo innevato con l’aiuto dei famigliari dell’artista. Tuttavia sono gli husky, e non gli umani, a essere al centro dell’opera. Siedono fermi, saltano, giocano e annusano. Si mordono a vicenda e puntano lo sguardo fisso dall’interno dei recinti. Vagano liberi dentro e fuori l’inquadratura. Rappresentata nella sua quotidianità e senza alcuna enfasi, la vita di questi husky suggerisce un modello di sopravvivenza diverso da quello dell’aggressione e della forza. Al contrario, ciò che determina il contenuto e della composizione dell’opera è un tacito rapporto di collaborazione tra umani e animali. – MW

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Liv Bugge, PLAY, 2019. Film 16mm trasferito su video HD, cucce per cani, europallet. Photo Jean Baptiste Beranger. Courtesy l’Artista

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ELIAS SIME

1968, Addis Abeba Vive ad Addis Abeba, Etiopia

Le astrazioni su larga scala di Elias Sime sono composte da migliaia di cavi elettrici, tasti di digitazione, microchip e componenti hardware per computer. L’artista inizia a concentrarsi sui materiali elettronici circa dieci anni fa, dopo una lunga carriera nell’assemblage e nelle installazioni architettoniche in Etiopia, suo Paese natale. Nella pratica artistica di Sime è costante la sperimentazione con i materiali di recupero. Solito operare con materiali da costruzione organici, come il fango o la paglia, e con filo sintetico da cucito applicato su tela per creare collage con tappi di bottiglia, plastica, pelle di animali e altri oggetti raccolti in diversi contesti nel corso del tempo, l’artista incorpora strumentazioni tecnologiche obsolete come naturale prolungamento di una pratica materica, utilizzando comuni oggetti di scarto. Sime è interessato all’intreccio di storie e vite umane che accidentalmente toccano e plasmano le sue opere. Le tre nuove composizioni realizzate per Il latte dei sogni (Red Leaves; due Veiled Whispers; tutte del 2021) sembrano derivare dalla pittura astratta a campiture di colore, ma inglobano anche materiali tecnofili, con le tonalità rosa, verde e viola che si potrebbero trovare in una cassetta di vecchi cavi di entrata e uscita. Da alcuni dei pannelli fuoriescono forme tridimensionali di piccolo formato. L’uso che Sime fa del colore, dei motivi e delle griglie è spesso una citazione di paesaggi aerei: definite distese di campi, strade e architetture come osservate da un velivolo o da un satellite. Le vedute naturali segnate dal lavoro e dall’avanzamento umano entrano a far parte del ciclo di cui parla tutta l’opera di Sime: le risorse della terra che, passando da una mano all’altra, cambiano forma. Coerente con l’incursione nella serie di materiali elettronici è anche la ricerca di Sime sugli antichi rituali etiopi dell’intaglio, della tessitura e della costruzione: l’artista è desideroso di porre in relazione una lunga tradizione di storia orale e tecniche vernacolari con oggetti contemporanei prodotti in serie che, allo stesso modo, presentano una densa stratificazione di informazioni, da come vengono manipolati fisicamente ai loro metadati. Gli assemblaggi multimediali di Sime si focalizzano sulla produzione di rifiuti da parte dall’essere umano, e lo fanno servendosi di tecniche artigianali specializzate che richiedono tempi estremamente lunghi. L’artista non forza ad affrontare temi ambientalisti, ma condivide la propria sincera fascinazione per l’intreccio tra la produzione naturale e sintetica dei materiali. Nel fare ciò, mostra la sua decennale preparazione tecnica e l’attenzione per motivi e colori, unitamente a sottili suggestioni figurative o realistiche, in grado di riunire i cicli vitali di centinaia di persone, spettatori compresi. – IA

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Elias Sime, Tightrope: Narcissism, 2017. Componenti elettronici di recupero, filo su pannello, 162,6 × 241,3 cm. Courtesy l’Artista; James Cohan, New York. © Elias Sime

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Questa pagina e pagina 544: TIGHTROPE: ECHO!?, 2020 (dettagli) Pagina a fianco: Elias Sime, TIGHTROPE: ECHO!?, 2020. Cavo elettrico e componenti di recupero, 365,8 × 320 × 3,2 cm. Photo Phoebe d’Heurle. Courtesy l’Artista; James Cohan, New York. © Elias Sime

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M E D I TA Z I O N E S U L L A S E C O N D A C R E A Z I O N E Achille Mbembe

In che cosa consiste la natura umana e, al di là di questo, che cos’è la vita? Che cosa ci rende esseri morali? Qual è il nostro destino sulla Terra? Per molto tempo soltanto teologi, metafisici e filosofi dell’esistenza sembrarono porsi simili domande. Questioni che, per quanto strano possa sembrare, oggi si ripresentano anche e soprattutto fra gli scienziati. La riflessione su come finisce la vita si è fatta più intensa nel contesto dei lockdown imposti dal Coronavirus e del numero di morti in costante crescita. Ma mentre in passato si trattava di stabilire se l’essere umano fosse soprattutto corpo o mente, oggi il dibattito verte sul fatto se sia materia e solo materia, o se, alla fine, sia solo una somma di processi fisici e chimici. La discussione verte anche su quello che può essere il futuro della vita in un’epoca di estremismi, e sulle condizioni in cui termina la vita. Corpo, materia e vita sono tre concetti ben distinti. Non è necessario aderire al Cristianesimo per comprendere che in ciascun corpo umano, nella sua unità organica, risiede qualcosa che non è soltanto materia. A questo qualcosa sono stati attribuiti svariati nomi da diverse culture e in diverse epoche. Qualunque siano le diversità culturali, la verità del corpo umano sarà stata quella di resistere a qualsiasi riduzionismo. Lo stesso vale per quello che potremmo definire il corpo, e persino la carne, della Terra. Il corpo della Terra è riconoscibile nella sua abbondanza. Ne è esempio

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tipico l’esplosione virale che stiamo attualmente sperimentando su scala globale. Agli occhi di molti, questo virus è la dimostrazione del potere pressoché infinito della natura, nel quale vedono un evento di portata cosmica, una premonizione di disastri a venire. Per altri, rappresenta la conseguenza logica di un mondo senza Dio, che accusano la modernità di avere iniziato. Per loro, questo mondo, apparentemente libero ma in realtà lasciato a se stesso e senza alcun ricorso, non ha fatto altro che soggiogare gli esseri umani alle costrizioni di una natura che si è ora trasformata in potere arbitrario. In realtà, l’assenza di Dio non è certo ciò che caratterizza il mondo di oggi. Né la presenza aggressiva e vendicativa di Dio, nella forma della violenza di un virus o di altre calamità naturali, costituisce il tratto distintivo dei nostri tempi. Il segno distintivo del XXI secolo è il ritorno all’animismo. Insieme all’escalation tecnologica, le trasformazioni del capitalismo hanno portato a un duplice eccesso: un eccesso di pneuma (respiro) e un eccesso di manufatti, la trasformazione di manufatti in pneuma (nel senso teologico del termine). Niente traduce questo eccesso meglio dell’universo tecno-digitale che è diventato il doppio del nostro mondo, l’incarnazione oggettuale del pneuma. La caratteristica distintiva dell’umanità contemporanea è quella di attraversare costantemente schermi per essere immersi in macchine dell’immagine, che nel contempo sono macchine del sogno. La maggior parte di queste immagini sono animate. Producono ogni sorta di illusioni e fantasie, a partire dalla fantasia dell’autogenerazione. Soprattutto, consentono nuove forme di presenza e circolazione, incarnazione, reincarnazione e persino resurrezione. Non solo la tecnologia è diventata teologia, è diventata escatologia. In questo universo, non solo è possibile dividersi in due o esistere in più di un luogo alla volta, e in più di un corpo o in più di una carne. In realtà, è anche possibile avere doppi, ovvero altri sé, un incrocio tra il proprio corpo e l’immagine del proprio corpo sullo schermo. Inoltre, attraversare gli schermi è diventata l’attività primaria dell’umanità contemporanea. Ci autorizza a uscire dai confini del corpo e a lanciarci in ogni sorta di mondo parallelo, compreso l’aldilà, senza rete di sicurezza. Nell’essere trasportata dall’altra parte dello schermo, l’umanità può essere presente a se stessa mantenendo contemporaneamente una distanza da sé. L’animismo contemporaneo è, inoltre, il risultato di una vasta riconfigurazione dell’umano e del suo rapporto con il vivente. Ha così inizio l’era della seconda creazione. Si tratta ora di catturare tecnologicamente l’energia del vivente e scaricarla nell’umano, in un processo che richiama alla mente la prima creazione. Questa volta, però, il progetto è quello di trasferire tutti gli attributi del vivente in componenti organico-artificiali dotati essenzialmente delle caratteristiche della persona umana. Questi componenti sono chiamati a operare come doppi umani. Mentre in passato l’animismo era ritenuto una reliquia dell’oscurantismo delle cosiddette “società primitive”, ora è compatibile con l’intelligenza artificiale, i supercomputer, i nanorobot, i neuroni artificiali, i chip RFID e i cervelli telepatici. Questa seconda creazione, tuttavia, è fondamentalmente profana. Procede attraverso un triplice processo di decorporazione, ricorporazione e transcorporazione che strumentalizza il corpo umano nel tentativo di trasformarlo in un veicolo di ibridazione e simbiosi. Questo triplice processo è sacramentale. È la pietra angolare delle nuove religioni tecnologiche. Si appropria delle categorie fondamentali del mistero cristiano, per meglio destabilizzarle, a cominciare dalla creazione

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stessa, dall’incarnazione, dalla trasfigurazione, dalla resurrezione, dall’ascensione, e anche dall’Eucaristia (questo è il mio corpo). Con la cibernetizzazione del mondo, sia l’umano che il divino vengono scaricati in una moltitudine di oggetti tecnologici, schermi interattivi e macchine fisiche. Questi oggetti sono diventati veri e propri crogioli in cui si forgiano visioni e credenze, le metamorfosi contemporanee della fede. Da questo punto di vista, le religioni tecnologiche contemporanee sono espressioni di animismo. Ma ne differiscono anche in quanto sono governate dal principio dell’artificio, mentre l’animismo ancestrale era governato da quello della forza vitale. Nell’animismo ancestrale, infatti, né il corpo né la vita esistevano senza aria, senza acqua e senza un terreno comune. Nei sistemi di pensiero precoloniali africani, ad esempio, la vita e il corpo, e di conseguenza l’essere umano, erano fondamentalmente aperti all’aria e al respiro, all’acqua e al fuoco, alla polvere e al vento, agli alberi e alla loro vegetazione, agli animali e al mondo notturno. Tutto era vivo, all’intersezione dei linguaggi. Questa porosità essenziale era ciò che determinava la sua essenziale fragilità. Si pensava che l’avventura umana sulla Terra si svolgesse nella realtà dell’aria e del respiro e poteva durare solo se si fosse creato un luogo per la rigenerazione dei cicli vitali. La vita consisteva nel mettere insieme assolutamente tutto. Era una questione di composizione e non di eccesso. Come luogo di nascita dell’umanità, l’Africa ha forse sperimentato più forze catastrofiche di altre parti del globo. Da ciò ha imparato che la catastrofe non è un evento che accade una volta per tutte, e poi se ne va dopo aver compiuto la sua macabra opera, lasciandosi dietro un mondo di rovine. Per molti popoli è un processo senza fine, che si accumula e si sedimenta. In queste condizioni, aprire canali per un mondo più respirabile potrebbe essere il fondamento di una nuova etica nell’era virale. Poiché l’era virale è il corollario dell’Antropocene, la trasformazione irreversibile degli ambienti e l’espansione di una nuova forma di colonialismo: il colonialismo tecno-molecolare. L’era del brutalismo, ovvero dell’ingresso forzato, è un’era in cui le macchine del sogno e le forze catastrofiche diventeranno attori sempre più visibili della storia. L’aria che respiriamo sarà sempre più carica di polvere, gas tossici, sostanze e rifiuti, particelle e granulazioni, insomma di emanazioni di ogni sorta. Invece di uscire dal corpo grazie a tecnologie di visualizzazione immersiva, si tratterà poi di ritornarvi, soprattutto attraverso gli organi più esposti all’asfissia e al soffocamento. Tornare al corpo significa anche tornare alla terra, intesa non come suolo, ma come evento che, alla fine, sfida fondamentalmente i confini degli stati. Intesa in questo modo, la Terra appartiene a tutti i suoi abitanti, senza distinzione di razza, origine, etnia, religione o anche specie. Non presta attenzione all’individuo cieco o alla singolarità nuda. Ci ricorda quanto ogni corpo, umano e non, per quanto singolare, porti su di sé e in sé, nella sua essenziale porosità, i segni non del diafano universale, ma della comunanza e dell’incalcolabilità.

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Achille Mbembe è docente di Storia e Politica presso la University of the Witwatersrand di Johannesburg e membro del Wits Institute for Social and Economic Research (WISER). Vincitore dell’Ernst Bloch Prize nel 2018, è autore di Sortir de la grande nuit. Essai sur l’Afrique décolonisée (2010), Critique de la raison nègre (2013), Politiques de l’inimitié (2016), e Brutalisme (2020), tutti pubblicati da La Découverte. Le sue opere sono state tradotte in tredici lingue, tra cui On the Postcolony (University of California Press, 2001), Critique of Black Reason (Duke University Press, 2017), Necropolitics (Duke University Press, 2019), e Out of the Dark Night: Essays on Decolonization (Columbia University Press, 2021).

Meditation on the Second Creation (Meditazione sulla seconda creazione) è apparso su “e-flux journal”, 114, 2020 (https://www.e-flux.com/journal/114/ 364960/meditation-on-the-secondcreation). Tradotto e ristampato per gentile concessione dell’editore e dell’ autore. Copyright © 2020 e-flux e l’autore.

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I L N U OVO CO R O N A: UN VIRUS P O STUM AN O N. Katherine Hayles 17 aprile 2020

Il nuovo Coronavirus è postumano in almeno due sensi. Il primo e più ovvio, perché è incurante delle intenzioni, delle motivazioni e dei desideri umani. Negli Stati Uniti – nonostante lo spaventoso bilancio riguardante le vittime – il virus ha Il secondo senso è più tecnico, ma non difficile da prodotto l’interessante spettacolo dei politici comprendere. In termini evolutivi, umani e virus incapaci di costruire “fatti alternativi”, oltre un hanno adottato strategie diametralmente opposte. certo punto: il punto marcato dai corpi accaGli esseri umani hanno raggiunto la supremazia tastati negli obitori. Come osservato da molti, il all’interno della propria nicchia evolutiva svilupvirus non distingue tra democratici e repubblicani, pando una maggiore complessità cognitiva, liberali e conservatori, cristiani ed ebrei, evangelici espandendo il linguaggio con i relativi cambiae musulmani, e questo – in un Paese profondamente menti nel cervello e nel corpo, producendo diviso come gli Stati Uniti – ha aperto nuove possibilità strutture sociali elaborate e, nella storia di dialogo. Governatori astuti, come ad esempio Gavin umana molto recente, aumentando le Newsom in California, stanno riconoscendo i vantaggi proprie capacità con dispositivi tecnici offerti dall’anteporre le politiche alla politica, astenendosi avanzati, inclusa l’intelligenza artificiale. dalle critiche, anche quando meritate, a Donald Trump. Il I virus, al contrario, si sono evoluti verso Congresso degli Stati Uniti si è riunito con notevole velocità una maggiore semplicità. Si replicano per approvare lo stimulus bill, e persino Trump ha dovuto smordirottando il macchinario della celluzare le sue prime affermazioni in cui definiva il virus una “bufala la e usandolo per proliferare, il che dei democratici”, per adottare un approccio maggiormente basato consente loro di avere un genoma sui fatti (tuttavia sempre con un pizzico di propaganda). molto più piccolo della cellula stessa, caratteristica che favorisce una rapida replicazione.

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In generale, quindi, queste due strategie appaiono del tutto contrarie. La ricerca recente sta tuttavia dipingendo un quadro più complesso. Come sostiene Annu Dahiya, l’idea che i virus non possano replicarsi senza cellule (perché usano il macchinario cellulare per produrre copie di se stessi) è ora messa in discussione1. La studiosa riporta una serie di esperimenti, condotta nei primi anni Settanta presso il laboratorio di Sol Spiegelman dell’Università dell’Illinois UrbanaChampaign, che lo dimostra con elegante semplicità. Dopo aver provato che l’RNA virale potrebbe effettivamente autoreplicarsi, anche se in vitro piuttosto che in vivo, Spiegelman ha combinato in una provetta l’RNA del batteriofago Qß, l’enzima RNA replicasi e sali. Dopo la replica virale ha quindi diluito la soluzione più volte, scartando la maggior parte del terreno di coltura e aggiungendo altro terreno di coltura arricchito con RNA replicasi e nutrienti. Ciò equivale a creare un ambiente in cui, per usare un’analogia umana, il 90 per cento della popolazione muore e il restante si disperde sul terreno precedentemente occupato, quindi ne muore il 90 per cento e così via. Questo crea un’intensa pressione selettiva che favorisce quelle entità che possono replicarsi più velocemente. Come riassume Dahiya: “Gli RNA virali replicanti di maggior successo hanno via via accorciato le loro sequenze durante ogni trasferimento seriale. Ciò li ha portati a perdere quasi tutte le informazioni genetiche che non si riferivano al legame dell’RNA replicasi. Mentre il batteriofago Qß iniziale aveva 3600 nucleotidi, il fago RNA alla fine dell’esperimento ne possedeva solo 218”2. Risultati simili sono stati ottenuti da Thomas Ray nel suo esperimento Tierra, progettato per creare simili condizioni competitive in un ambiente simulato all’interno del computer, dove specie artificiali competevano per il tempo di CPU in cui replicarsi. Ray scoprì che nel giro di ventiquattro ore si era sviluppata un’intera ecologia complessa, comprese specie che (come i virus) avevano perso la porzione del loro codice di replica e usavano invece il codice di altre specie per svolgere il compito. Il genoma accorciato ha permesso loro di replicarsi a una velocità maggiore, dando un vantaggio selettivo rispetto alle specie con codici più lunghi. Inoltre, queste specie sono state a loro volta parassitate da altre che avevano perso porzioni ancora maggiori di codice e utilizzato quello dei replicatori simil-virali per effettuare la loro replicazione (che a sua volta si basava sui codici più lunghi della specie che avevano parassitato), una strategia che Ray definì “iperparassitismo”. Questi risultati ci spingono a vedere, nella situazione attuale, una battaglia campale tra diverse strategie evolutive. Dal lato umano ci sono i vantaggi della cognizione avanzata, inclusi ventilatori, dispositivi di protezione individuale e, naturalmente, la corsa per trovare un vaccino. Dal lato del nuovo Coronavirus ci sono i vantaggi di una replicazione rapida, consentita da un genoma molto corto, e la possibilità di un contagio estremo grazie alla capacità di disperdersi nell’aria e di resistere per molte ore su una varietà di superfici. Ricerche recenti indicano che le persone possono essere molto contagiose prima di mostrare i sintomi, il che ha portato a etichettare il nuovo Corona come un virus stealth, o “ad azione furtiva”. (Forse la strategia della furtività si è sviluppata per garantire la massima diffusione, prima che gli individui diventassero troppo malati per muoversi). In termini evolutivi, il nuovo Coronavirus ha vinto il jackpot, avendo compiuto con successo il salto dai pipistrelli al grande mammifero più popoloso del pianeta, l’essere umano. Confrontando le due strategie, finora il punteggio è incredibilmente unilaterale: Coronavirus, 140.000 e oltre – umani, 0. In mezzo a tutto il dolore, la sofferenza e la pena che questo virus ha causato agli esseri umani, c’è qualche lezione che potremmo imparare, un qualcosa di positivo che possiamo trovare nel caos globale e nelle macerie? Oltre a imporre al discorso politico vincoli basati sulla realtà, il virus ci colpisce come una mazzata in testa; con una forza terrificante ci ricorda che, sebbene gli esseri umani siano dominanti

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all’interno della propria nicchia ecologica, ne esistono molte altre che possono sovrapporsi ad essa e che operano secondo regole completamente diverse. Il virus urla a volume assordante che siamo esseri interdipendenti, non solo l’uno con l’altro, ma anche con l’intera ecologia della Terra. E infine, rende spaventosamente chiaro quanto siamo impreparati: impreparati ad affrontare gli effetti del virus, certo, ma altrettanto impreparati ad affrontare le sfide filosofiche poste dal dover ripensare la nostra situazione in termini che rendano giustizia sia alle capacità uniche degli esseri umani, sia alle limitazioni e interdipendenze da cui dipendono tali capacità. Questa interdipendenza è illustrata attraverso i nuovi tipi di storie delle origini che si stanno scrivendo a proposito dell’emergere della vita sulla Terra. Le recenti scoperte di antichi virus giganti, con genomi grandi quasi quanto i batteri, suggeriscono che essi potrebbero aver giocato un ruolo cruciale. Questi giganti contengono geni che codificano per il macchinario di traduzione, cosa che in precedenza si credeva esistesse solo negli organismi cellulari. Inoltre, includono molteplici geni che codificano per enzimi, che catalizzano amminoacidi specifici, un altro compito svolto dalle cellule. Indagando su queste complessità, ricerche recenti stanno accumulando prove che elementi simili a virus potrebbero aver catalizzato alcune delle fasi critiche della vita, tra cui l’evoluzione del DNA, la formazione delle prime cellule e la scissione evolutiva nei tre domini di Archaea, batteri ed eucarioti. I virus moderni potrebbero essersi evoluti dagli antichi giganti attraverso processi di smantellamento simili a quelli descritti sopra, liberandosi di parti del loro genoma per facilitare una replicazione più rapida. Oltre alla partecipazione dei virus negli inizi della vita, un altro tipo di interdipendenza è dato dalla scoperta dell’antico DNA virale all’interno delle cellule staminali umane. Queste ultime sono fondamentali per la riproduzione umana perché sono pluripotenti, avendo la capacità di trasformarsi in tutti i diversi tipi di cellule del corpo man mano che il feto cresce. Studi recenti hanno scoperto che una classe di retrovirus endogeni, nota come HERV-H, ha un DNA attivo nelle cellule staminali embrionali umane, ma non in altri tipi di cellule. Inoltre, i ricercatori hanno scoperto che se questa attività viene soppressa aggiungendo frammenti di RNA, le cellule trattate cessano di agire come staminali e iniziano invece a comportarsi come fibroblasti, ovvero cellule comuni nei tessuti connettivi animali. Senza la pluripotenza fornita dalle cellule staminali, la riproduzione umana non potrebbe funzionare. Ironia della sorte, quindi, la contaminazione virale che rappresenta una minaccia mortale per gli esseri umani contemporanei è anche, in un’altra veste, essenziale per la loro riproduzione. Queste complessità suggeriscono che una semplice contrapposizione binaria di noi contro loro, umani contro virus, è troppo semplice per costituire una formulazione adeguata a comprendere la nostra relazione reciproca e quella con le più grandi ecologie in cui siamo immersi. Se il nuovo Coronavirus è postumano, altri virus, come quelli nelle cellule staminali, sono umani nel loro/nostro nucleo. È necessario quindi un approfondito ripensamento dei concetti e del lessico con cui descrivere e analizzare queste complesse interdipendenze, e dei modi in cui gli esseri umani, come specie, sono reciprocamente interdipendenti. La pandemia offre l’occasione per ripensare le modalità con cui possiamo identificarci gli uni con gli altri e con forme di vita radicalmente diverse da noi. Per cominciare, vorrei suggerire tre termini da tenere in considerazione3. Il primo è l’essere umano come specie-in-comune: un’idea che enfatizza le caratteristiche comuni che tutti gli esseri umani condividono, nonostante le differenze etniche, razziali, geopolitiche e di altro tipo esistenti. Possiamo osservare sprazzi di quest’idea nel corso della storia, inclusa l’attuale pandemia, una situazione che travalica tutti i confini e le differenze geopolitiche per colpire gli esseri umani

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ovunque. Il secondo termine è specie-in-biosimbiosi: un’idea che riconosce i modi in cui le diverse specie si compenetrano, ad esempio nel bioma umano. Il terzo è specie-in-cybersimbiosi: sottolinea i modi in cui gli agenti artificiali, in particolare le intelligenze artificiali, collaborano attivamente con gli umani per plasmare il nostro mondo condiviso. Offro questi brevi tratti come primo passo verso quello che potrebbe essere un quadro più ampio. Nonostante i suoi effetti devastanti, la pandemia ci invita a elaborare nuovi approcci, testare nuove idee e suggerire formulazioni che possano portare a futuri migliori per noi e per gli organismi piùche-umani con cui condividiamo il pianeta. N. Katherine Hayles, professoressa emerita di Inglese presso la cattedra James B. Duke della Duke University e Distinguished Research Professor of English presso l’Università della California, Los Angeles, insegna e scrive sui rapporti tra letteratura, scienza e tecnologia nel XX e XXI secolo. Ha pubblicato dieci libri e oltre cento articoli peer-reviewed, inoltre è membro dell’American Academy of Arts and Sciences. Il suo libro più recente è Unthought: The Power of the Cognitive Nonconscious (University of Chicago Press, 2017).

Novel Corona: Posthuman Virus (Il nuovo Corona: un virus postumano) è apparso su “Critical Inquiry”, 47(S2), 2021, 68–72. Ristampato e tradotto per gentile concessione dell’editore e dell’autrice. Copyright © 2021 The University of Chicago Press. Segnaliamo il numero speciale Posts from the Pandemic, a cura di Hank Scotch, disponibile su: https:// www.journals.uchicago.edu/toc/ ci/2021/47/S2. 1

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Si veda Annu Dahiya, The Conditions of Emergence: Towards a Feminist Philosophy of the Origins of Life, tesi di dottorato, Duke University, 2020. Ibid., 166. Sto sviluppando questi termini in modo più approfondito in un libro di prossima pubblicazione.

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S U L L A T E C N O D I V E R S I TÀ Yuk Hui e Anders Dunker in conversazione 9 giugno 2020

Il filosofo Yuk Hui si rifiuta di arrendersi davanti a una visione deterministica dell’evoluzione tecnologica. Ci esorta a “ricosmicizzare la Terra”, il che presuppone che dobbiamo resistere al e superare il paradigma universale occidentale della tecnologia prometeica e della cultura monotecnologica, riscoprendo una “tecno-diversità”1, ovvero una molteplicità di cosmotecniche “caratterizzate da dinamiche diverse tra il cosmo, l’etica e il tecnico”2. Per Hui, ci sono diverse località e comunità che, attraverso l’organizzazione di progetti collettivi, sono in grado di reinventare il proprio pensiero tecnologico e filosofico così come il proprio futuro. AD

Esiste una valida alternativa alla planetarizzazione

della tecnologia – quella che tu definisci una “sincronizzazione” della storia della tecnologia? YH Al posto di una storia universale, che descrive una tecnologia con vari stadi di sviluppo, se facciamo un piccolo passo indietro potremmo descrivere lo sviluppo tecnologico come un coinvolgimento di diverse cosmotecniche. La chiamo “tecnodiversità”. Qui dobbiamo riprendere in mano la questione della località e pensarla in termini di sistemi di conoscenza. Per Michel Foucault questi sistemi di conoscenza sono “epistemi” intesi come modi di vita, cioè modi di percepire e ordinare l’esperienza, producendo certe forme di conoscenza.

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In altre parole, luoghi e tempi diversi hanno dei propri epistemi.

Che cosa bisognerebbe fare perché questa diversità non venga annullata dalla completa sincronizzazione dello sviluppo culturale?

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Prima di tutto dobbiamo riconoscere la diversità; poi dobbiamo svilupparla ulteriormente. Mi si permetta di fare un esempio. Sono cresciuto a Hong Kong, dove mio padre gestisce una farmacia cinese che vende piante ed erbe. I farmacisti cinesi percorrono sentieri di montagna raccogliendo erbe da trasformare in medicinali. La medicina cinese si basa sulla cosmologia taoista, con Yin, Yang e cinque elementi/movimenti conosciuti anche come qi. Se da una prospettiva occidentale ti avvicini a un medico cinese e chiedi: “Puoi per favore mostrarmi il tuo qi e dimostrare che esiste?”, la risposta non potrà che essere negativa. Se non puoi dimostrare l’esistenza dell’energia alla base della tua pratica, come puoi dire di praticare una scienza? Qui sta il problema. Ma questo non significa che la medicina cinese non sia scientifica. Come scienza empirica, funziona da duemila anni sulla base di un’epistemologia diversa. In precedenza, a Hong Kong, se andavi da un medico cinese l’assicurazione medica non ti copriva perché la medicina cinese è vista come non scientifica.

YH

AD

È così che la tecnologia occidentale si afferma come universale,

monopolizzando la credibilità ed emarginando quanto è visto come diverso? YH Non sto cercando di contrapporre il relativo all’universale, o contrastare il particolare con l’universale, com’è stato invece affermato nella storia della filosofia. Vorrei piuttosto sottolineare che l’universale è solo una dimensione dell’esistente. Tu e io siamo entrambi umani, ma siamo esseri umani individuali e diversi. Allo stesso modo, la tecnologia ha alcuni tratti universali: da una prospettiva antropologica, è un’estensione del corpo e un’esternalizzazione della memoria, anche se questi gesti non funzionano allo stesso modo in tutte le culture. La scrittura cinese e l’alfabeto latino sono entrambi esternalizzazioni della memoria, ma hanno basi filosofiche diverse. La scrittura è un sistema sia per la memoria sia per l’educazione della sensibilità, e può essere vista anche come una tecnologia per preservare la singolarità della nostra cultura. Non possiamo affermare che il fonogramma sia superiore al pittogramma o viceversa.

AD

Anche concedendo che la diversità tecnologica abbia i suoi

vantaggi, può bastare la promozione della diversità per contrastare l’imminente e fatale disastro ecologico, che secondo te lo sviluppo tecnologico sincrono sta generando? Non è anche indispensabile cambiare in blocco le nostre tecnologie su scala globale? YH Il pensiero occidentale fa sempre una distinzione tra il bene e il male e cerca di rimuovere quanto è da considerare malvagio. Seguendo Platone e Derrida, Bernard Stiegler afferma che la tecnologia è sempre sia veleno che cura, e aspira a separare il pharmakon buono dal pharmakon cattivo. Per me, questo è estremamente problematico. Non credo si possa raggiungere un accordo globale su ciò che è bene e ciò che è male. Anche se abbiamo problemi comuni

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che cerchiamo di risolvere, non esiste un unico modo per rispondere al collasso degli ecosistemi. Dobbiamo capire che la variazione è una conseguenza dell’adattamento locale. La biodiversità si sviluppa a causa delle variazioni climatiche, delle nicchie biologiche e delle relazioni tra particolari piante, animali e microrganismi. Qualcosa di simile dovrebbe valere per le tecnologie. AD

Cos’è esattamente la cosmotecnica? YH Per i greci, kosmos significa un mondo ordinato. Allo stesso tempo, il concetto indica cosa si trova oltre la Terra. La moralità è prima di tutto qualcosa che riguarda il regno umano. La cosmotecnica, come la definisco, è l’aggregazione dell’ordine morale e dell’ordine cosmico attraverso le attività tecniche. Se confrontiamo la Grecia antica e la Cina antica, vediamo che hanno concezioni molto diverse del cosmo e anche della moralità. La mediazione tra loro avviene anche in modi diversi, con tecnologie diverse.

AD

In Recursivity and Contingency, parli della necessità

di “ricosmicizzare il mondo”. Prendi in prestito questo termine da Augustin Berque, che ha sottolineato come il mondo moderno non abbia più un cosmo, inteso come ordine morale e significante, e come la colonizzazione da parte dell’Occidente abbia defraudato le altre culture delle loro concezioni distintive del cosmo. Dice che l’universo, com’è descritto dalla scienza, non ha nulla a che vedere con il cosmo classico, dal momento che la spiegazione scientifica non ha alcun significato morale. Questo significa che ci troviamo di fronte al compito di ricosmicizzare non solo il nostro mondo, ma l’universo stesso? L’universo, scoperto dall’astronomia, è ancora in attesa di ricevere un giusto significato morale? YH Quando pensiamo all’astrofisica, vediamo l’universo come un sistema termodinamico che si muove inesorabilmente verso la distruzione e la morte termica, dove le stelle non hanno nulla a che fare con noi. In questo senso, sembra assurdo ricosmicizzare la Terra e l’universo; non può portare che al misticismo superficiale e all’ingenuità. L’astrofisica ci comunica solo alcuni fatti sull’universo, non aspira a comunicare come vivere alla luce delle recenti scoperte astrofisiche. “Ricosmicizzare” non significa restituire un po’ di fascino mistico alle stelle e al cosmo, o conferire alla tecnologia un significato mistico, piuttosto capire che abbiamo il dovere di sviluppare modi di vivere che risolvono il conflitto tra scienza moderna e tradizione, tra tecnologia e misticismo, sia che scegliamo di parlare del Dao di Laozi o del Sein di Heidegger. Dobbiamo trovare un posto al non razionale in una cultura che è altrimenti razionale o irrazionale; il modo, ad esempio, in cui la poesia dà un posto a ciò che è sconosciuto nella comunicazione, tramite un uso non convenzionale e paradossale del linguaggio.

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Che dire delle persone che vogliono sviluppare nuove tecnologie

per fondare una nuova vita nello spazio? Anche questo rappresenta una cosmotecnica? Come, ad esempio, i miliardari delle astronavi

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Bezos e Musk, che sognano colonie nello spazio e una colonizzazione di Marte? YH C’è uno straordinario passo nella Gaia scienza (1882) di Nietzsche, dove si parla dell’“orizzonte dell’infinito”. Descrive i moderni che hanno abbandonato la terra alla ricerca dell’infinito, eppure, quando si trovano in mezzo all’oceano, non c’è niente di più spaventoso per loro dell’infinito, non hanno più una casa cui tornare. Il desiderio dell’infinito ci trasporta verso il disumano. Per Jean-François Lyotard, ci sono infiniti sia positivi che negativi, collegati a diverse forme di razionalità. La disumanità positiva ci imprigiona in rigidi sistemi tecnologici, come il sistema di credito sociale in fase di attuazione in Cina. Il disumano positivo è quello che è “interiorizzato in me più di me stesso”, come lo è Dio per sant’Agostino, ad esempio. Noi umani portiamo in noi qualcosa di disumano, che è irriducibile per l’umano e che mantiene la più alta intimità con noi. I miliardari delle astronavi, che sono tutti transumanisti, vogliono superare il finito: il finito della vita umana e della vita in quanto tale. Questo desiderio di vita eterna implica anche un mercato infinito. In un certo senso, lo stesso accade nell’esplorazione spaziale: gli investitori vogliono trarre profitto dalla Terra abbandonando il suo significato, come se lasciare il nostro pianeta fosse una questione di lasciare un’astronave per entrare in un’altra. Questo non significa che io veda il viaggio nello spazio come irrilevante o pericoloso in sé, o che sia sbagliato cercare di capire l’universo, ma la conquista che vediamo oggi mi sembra essere solo una preparazione per il consumismo di domani.

AD

In Recursivity and Contingency, interpreti esplicitamente

il pensiero organico di Kant come una prima forma di teoria cibernetica. Heidegger ha notoriamente sottolineato che la cibernetica stava per prendere il sopravvento sul nostro pensiero, o almeno sulla forma filosofica del pensiero che cerca di riflettere sul mondo e svolgere un ruolo attivo nella storia. Com’è possibile che l’idea di sistemi di autoregolazione organica potesse sembrare così promettente e inclusiva all’inizio, e tuttavia sia finita per diventare una tale minaccia per la filosofia? YH La cibernetica è stata promossa come un tentativo di trascendere le molte contraddizioni della scienza. Hans Jonas, allievo di Heidegger, ne parla nel suo libro Organismo e libertà. Verso una biologia filosofica (1966). Dice che con la cibernetica abbiamo, per la prima volta, una teoria unificata non dualistica. Invece di pensare in termini di contraddizioni logiche, pensiamo in termini di processi: input, output e cicli di feedback. Nel Novecento, il pensiero organicista è stato ulteriormente elaborato nella filosofia di Alfred North Whitehead, ma è anche diventato parte dello sviluppo pratico della tecnologia. Due secoli dopo che Kant voleva salvare la filosofia dalla meccanica ricorrendo all’organico, questo modo di pensare è diventato parte della tecnologia. Usare il pensiero organico, basato sulla tecnologia, per criticare la tecnologia moderna diventa un errore, un errore fuori luogo,

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come direbbe Whitehead. Quando l’organico si è già fuso con la tecnologia, il pensiero cibernetico è giunto al termine. AD

Finiamo poi in una posizione in cui una critica della tecnologia

funziona come parte dello stesso sistema tecnologico, cioè dove la critica diventa solo un altro pezzo di input, un altro ciclo di feedback programmato nel macchinario? Se pensiamo davvero in modo cibernetico, quando ripariamo o aggiorniamo una macchina, un programma o un meccanismo, non stiamo anche diventando una parte del macchinario, uno strumento per il suo miglioramento? YH Sì, secondo quella che chiamiamo “cibernetica di secondo ordine”, gli esseri umani e le macchine sono collegati in un movimento ricorsivo, che diventa un esempio di quello che per Hegel è una “dialettica padrone-schiavo”.

AD

Per Hegel questa dialettica riguardava il potere, la conoscenza

e il riconoscimento. Il padrone sfrutta lo schiavo per lavoro e servizi. Ma chi è il padrone e chi è lo schiavo qui? YH Le macchine sono schiave ma allo stesso tempo padrone perché gli esseri umani devono servire loro e arrivare a dipendere da loro. Una volta che ci vediamo come servitori delle macchine, arriviamo a ciò che Hegel definisce la “coscienza infelice”. Per superare la coscienza infelice, abbiamo bisogno di una riconciliazione hegeliana o di una volontà di potenza nietzschiana. Al momento, tuttavia, c’è difficoltà a ottenere il riconoscimento dalle macchine a meno che non le codifichiamo per subordinarsi incondizionatamente a noi; questo è quanto è stato proposto nella cosiddetta AI-ethics, o etica dell’intelligenza artificiale.

AD

Per avere una vera scelta rispetto alla crescente influenza delle

nuove tecnologie, dobbiamo anche presumere che l’evoluzione tecnologica non sia determinata, cioè che avremmo potuto sviluppare tecnologie radicalmente diverse da quelle che abbiamo oggi. Siamo davvero liberi di scegliere e plasmare le tecnologie di domani? YH La storia è contingente, il che significa semplicemente che avrebbe potuto essere diversa. Se i mongoli avessero conquistato il mondo intero, avremmo una storia mondiale diversa e probabilmente un’altra comprensione della storia in quanto tale. Alla luce di ciò, è importante essere aperti a futuri diversi, immaginare numerose possibilità.

AD

Il determinismo tecnologico, così onnipresente nella Silicon

Valley, non è forse soltanto frutto di un eccesso di montatura, di hype, come a dire: “Queste interruzioni sono inevitabili, quindi è meglio anticipare che preoccuparsi di resistere”?

Questa retorica è la ragione per cui tutte queste aziende tecnologiche impiegano futurologi. Il peggiore è Ray Kurzweil, ovviamente, che dice che la cosiddetta “singolarità” è alle porte e per il 2025 saremo immortali. Lo dico in tutti i miei libri: non dobbiamo cedere a questo tipo di propaganda deterministica della Silicon Valley. Dobbiamo opporci attivamente.

YH

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AD

Che dire di Neuralink, il progetto di ricerca di Elon Musk

che mira a collegare i computer al cervello? Che cosa pensi delle sue argomentazioni secondo cui gli esseri umani dovrebbero fare un upgrade per rimanere rilevanti quando l’intelligenza artificiale inizierà a superarci? YH È molto vago, se non illogico, affermare che noi dobbiamo essere più avanti rispetto alla tecnologia, poiché se questo “noi” è inteso come l’umanità, allora la tecnologia stessa ne è un elemento costitutivo. “Noi” ci troveremo solo a essere sempre in ritardo; possiamo solo cercare di non essere troppo in ritardo. La ricerca sull’interfaccia umanità-macchina esiste da molto tempo e il desiderio di perfezionare l’essere umano è stato una delle principali motivazioni per quella ricerca, nota anche come transumanesimo. In passato, il perfezionamento dell’essere umano si è fatto tramite l’educazione, mentre nella visione di Musk, l’educazione sarà sostituita da un apparato microchip-cervello.

AD

Allora verso dove andiamo? YH Gli esseri umani hanno creato per se stessi una decisione problematica: “sconnettere” o “connettere”. La biotecnologia sta introducendo una nuova eugenetica, che è al centro della biopolitica del nostro secolo. Affinare l’intelligenza porta a migliori possibilità di occupazione e maggiore successo. Nel famoso film d’animazione giapponese Ghost in the Shell (1995), gli anarchici che decisero di sconnettersi dalla rete furono alla fine rastrellati e trasformati in cyborg.

AD

Quindi, qual è il messaggio? L’idea generale è che non

dobbiamo sconnetterci da queste reti biopolitiche e dagli incombenti aggiornamenti dei nostri corpi e delle nostre vite? YH Proprio perché la nostra idea di “progresso” implica un movimento storico verso un unico obiettivo, resiste a ogni frammentazione e diversità nell’evoluzione. Di conseguenza, la libertà e la democrazia sono messe a rischio. Inoltre, per l’ideologia della Silicon Valley libertà e democrazia sono sempre più obiettivi inconciliabili. Gli ingenti investimenti nelle biotecnologie ci preparano a un periodo in cui i limiti etici saranno superati o messi da parte perché le tecnologie di intervento biologico possano circolare liberamente sul mercato. Questa è una forza immensa che tutti avvertono, ma nessuno sa come si manifesterà o come vi reagiranno le persone. Per me, questo è il punto in cui la tecnodiversità diventa importante e decisiva. Se non riusciamo a dimostrare che ci sono delle alternative, l’ideologia transumanista conquisterà il mondo intero.

AD

La globalizzazione e la sincronizzazione della tecnologia

rappresentano un livello di rischio storico-mondiale? Questi fattori sono presenti nella crisi climatica, dato che l’atmosfera terrestre assorbe i sottoprodotti della tecnologia moderna? Possiamo dire che il riscaldamento globale è un’universalità negativa, come fa Dipesh Chakrabarty, definendo l’umanità per mezzo di un complesso di problemi comuni su larga scala?

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YH Quello che oggi chiamiamo “Antropocene” è una conseguenza dell’espansione tecnologica e industriale seguita alla Seconda guerra mondiale. L’industrializzazione negli ultimi settant’anni è la causa diretta del surriscaldamento globale e della nascita dell’Antropocene. Ma questo non implica che possiamo o dovremmo tentare di eliminare l’industria per risolvere i nostri problemi. Siamo diventati dipendenti da una forma di vita industriale, quindi l’unica soluzione concepibile è cambiare le nostre industrie.

AD

Anche coloro che promuovono l’agricoltura biologica

sottolineano che la sovrapproduzione è dannosa, a causa dello sviluppo della monocoltura e dell’uso diffuso di fertilizzanti chimici e pesticidi che contribuiscono alla distruzione della diversità biologica e culturale. Secondo te, una varietà di tecniche agricole locali potrebbe essere considerata un esempio di tecnodiversità? YH Assolutamente. Se vuoi evitare l’uso di pesticidi, scoprirai presto che c’è una serie di approcci alternativi, tra cui le rotazioni di particolari combinazioni di colture. Ci sono anche, ad esempio, tecniche specifiche per l’allevamento di alcuni insetti che si nutrono a loro volta di insetti dannosi. Questo è un esempio di tecnodiversità. La mia proposta è di organizzare un progetto collettivo per avanzare e discutere questioni riguardanti la tecnodiversità e il futuro della filosofia. Questo, aggiungo, non è un compito per una persona sola, è un compito per un’intera comunità.

AD

Nel tuo libro sulla cibernetica, discuti anche di James Lovelock

e della sua ipotesi Gaia. Qual è la relazione tra la tua revisione delle moderne tecnologie e una cibernetica planetaria? YH Lovelock era un ex dipendente della NASA. Aveva lavorato presso il Jet Propulsion Laboratory studiando l’atmosfera di Marte. Confrontare l’ambiente desertico privo di vita di Marte con la Terra vivente lo ha ispirato a sviluppare la sua ipotesi Gaia, secondo cui il nostro pianeta funziona come un sistema cibernetico che si stabilizza attraverso processi organici. Ha aggiunto un altro elemento: tramite la tecnologia possiamo “svegliare Gaia”. I satelliti e le antenne, ad esempio, sono estensioni tecnologiche che danno a Gaia nuovi sensi e unità tecnologica – il primo Lovelock era un cibernetico. Eppure, anche con tutti i nostri satelliti e antenne, non abbiamo ancora svegliato Gaia. Abbiamo appena iniziato la tecnicizzazione della Terra. Poiché la cibernetica sembra trascendere il divario tra tecnologia e natura, si è tentati di vederla come una soluzione universale, un nuovo universalismo. Per comprendere davvero la Terra in termini cibernetici, avremmo bisogno di sottoporla a diversi esperimenti, come fosse una scatola nera dove poter scoprire, attraverso tentativi ed errori, che cosa funziona e che cosa no. Ma quante volte possiamo rischiare la distruzione della Terra nel tentativo di far funzionare questa visione cibernetica? Quando pensiamo agli esseri umani e alla Terra come a un sistema cibernetico, abbiamo già perso il mondo.

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AD

In che modo? YH Perché ridurre il mondo è perdere il mondo. Questo è quello che Heidegger chiama “l’oblio dell’Essere”. L’oblio non è qualcosa che accade perché trascuriamo l’Essere, o perché non riusciamo a dare all’Essere un posto nella nostra comprensione del mondo, piuttosto perché pensiamo che il mondo intero sia trasparente e penetrabile alla nostra comprensione, pensiamo che tutto possa essere calcolato. La prima cosa che dobbiamo fare è riprendere in mano la distinzione tra ciò che è calcolabile e ciò che è incalcolabile. Allora, dobbiamo imparare di nuovo come affrontare il mondo, così come l’Ignoto.

Anders Dunker è uno scrittore e giornalista norvegese che attualmente vive a Los Angeles. Il suo ultimo libro raccoglie una serie di interviste, Rediscovering Earth: Ten Dialogues on the Future of Nature (O/R Books, 2021). Yuk Hui è autore di On the Existence of Digital Objects (University of Minnesota Press, 2016); The Question Concerning Technology in China: An Essay in Cosmotechnics (Urbanomic, 2016–2019; tr. it. Cosmotecnica. La questione della tecnologia in Cina, Produzioni Nero, 2021); Recursivity and Contingency (Rowman & Littlefield International, 2019) e Art and Cosmotechnics (University of Minnesota Press, 2021).

L’intervista originale è stata commissionata dalla rivista pan-scandinava “Vagant” ed stata pubblicata in norvegese su “Vagant” (aprile 2019), con il titolo Spørsmålet om teknologien i Kina (www.vagant.no). La traduzione inglese, On Technodiversity: A Conversation with Yuk Hui, è di Anders Dunker ed è stata pubblicata per la prima volta sulla “Los Angeles Review of Books” del 9 giugno 2020 (https://lareviewofbooks. org). Tradotto, editato e ristampato con il permesso degli editori e dell’autore. Copyright originale © 2019 “Vagant” e Anders Dunker. Copyright traduzione inglese © 2020 “Los Angeles Review of Books”. 1 2

Yuk Hui, Machine and Ecology, in “Angelaki”, 25(4), 2020, 65. Ibid., 54.

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Teresa Solar, Flotation Line, 2018. Tessuto, resina, ceramica, tecnica mista, dimensioni variabili. Photo Guadalupe Ruiz. Courtesy l’Artista; DER TANK, Institut Kunst Basel

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Arsenale


TERESA SOLAR

1985, Madrid Vive a Madrid, Spagna

Attraverso l’uso di forme corporee, la registrazione del movimento e una predilezione per le esperienze sensoriali, l’arte di Teresa Solar allude a entità materiali in trasformazione. Sospese tra il biologico e l’industriale, il tangibile e il mitico, le sue opere di scultura, disegno e video presentano un mondo ibrido, modulato dalla finzione e dal racconto, dalla storia naturale, dall’ecologia e dall’anatomia. Nella sua pratica scultorea, installazioni su larga scala e oggetti di piccole dimensioni realizzati con materiali contrastanti appaiono sovente in famiglie di sculture sorelle; insieme, queste entità variabili fungono da ecosistemi di pensiero, in cui il significato si genera nella transizione da un elemento materiale a un altro. Per Solar, l’argilla, in particolare, assume un significato cruciale: come sostanza geologica primordiale e parte costitutiva dell’ambiente edificato, è naturalmente intrisa di storie di autoprotezione, isolamento e trasformazione. In molti progetti recenti, Solar indaga queste problematiche mediante sculture che assumono sembianze zoomorfe o che assomigliano ad appendici corporee. Nella sua mostra Flotation Line (2018) presso der TANK di Basilea, sculture zoomorfe sospese attingono a riferimenti letterari, tra cui il Leviatano di Thomas Hobbes e Moby Dick di Herman Melville. Appese come pendoli, queste appendici evocano una mitologia latente, ma anche un animale o una carcassa. In altre opere, come ad esempio l’ambizioso progetto Osteoclast (I Do Not Know How I Came to Be on Board This Ship, This Navel of My Ark) (2021), allestito per la Biennale di Liverpool del 2021, Solar crea una flotta di cinque kayak rossi lunghi sei metri che ricordano delle ossa umane. Hermaphrodite (2021) allude a un organo riproduttivo in crescita, che sembra appena dissotterrato; l’incongruità tra l’esterno fossiliforme e l’interno di un rosso vivace, lucidato con cura, suggerisce un modo di reimmaginare la tradizione geologica, mentre l’oggetto si situa tra lo spazio tecnicamente progettato e la forma corporea. La nuova serie Tunnel Boring Machine (2022) comprende tre grandi sculture ispirate ad animali e a forme di vita preistorica, reminiscenti di branchie di pesci, chele, pinne di delfino, becchi, pale e remi. Attraverso una finitura lucida – in netto contrasto con il fango torbido e astratto da cui emergono le creature, progettate con cura –, queste opere sono testimoni di una concezione astratta del tempo: sono invenzioni di finzione e simulazione, composizioni che ricorrono alla pelle terrestre rimasta a lungo nascosta. – MW

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Teresa Solar, Tunnel boring machine, 2021. Ceramiche, metallo, resina, 50 × 200 × 80 cm. Photo Marta de Muga. Courtesy l’Artista; Joan Prats Gallery, Barcelona Pagine successive: Teresa Solar, Tunnel boring machine, 2021. Argilla, resina, 173 × 124 cm. Supportata da 1646. Photo Jhoeko. Courtesy Travesia Cuatro Gallery

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Ö Z L E M A LT I N

1977, Goch, Germania Vive a Berlino, Germania

Özlem Altın si avvale di un vasto repertorio di immagini autoprodotte e recuperate da fonti diverse. Testi, riproduzioni e stampe da libri, fotografie prese da riviste o sul web, materiali artistici provenienti da collezioni museali, nonché dipinti e fotografie originali sono assemblati dall’artista in collage stratificati e installazioni site-specific. In compilazioni che spesso nascono dall’intuizione o da sillogismi, queste immagini appaiono dinamicamente contestualizzate in frammenti ritagliati, rilavorati e affioranti da strati di inchiostro o colore. Se da un lato Altın fa riferimento alle strategie visive di appropriazione e ricombinazione di immagini e testi dei mass media utilizzate nella storia dell’arte del XX secolo come critica della cultura popolare, dall’altro le sue opere sottolineano narrazioni e interconnessioni che nascono accostando immagini disparate. In questi racconti il corpo è reso centrale ed è presentato, secondo le parole dell’artista, “come mezzo per diffondere conoscenza, esperienze, comunicazione e scambio”. In molti casi, i simboli corporei non appartengono solo a persone, ma anche ad animali e figure mitologiche come sirene, aironi, pesci e serpenti, che insieme esprimono uno stato ibrido: si manifestano come forme in parte umane in parte animali, in un amalgama di frammenti di gesti e posture interconnessi. Per Il latte dei sogni, la ricerca artistica di Altın abbraccia le mitologie che circondano la nascita e i modi in cui questa altera il corpo, tanto dal punto di vista chimico quanto da quello sensoriale. Numerose altre opere recenti di Altın evocano le qualità mitiche delle forme corporee. Portal (Highpriestess) (2019) giustappone il corpo di una donna al becco sottile di un airone, evocando associazioni con le divinità sacre dell’antica mitologia egizia. In altri lavori, gli stessi elementi si realizzano in imponenti montaggi fotografici. Per l’opera di grandi dimensioni Topography (Of Time, of Body) (2019) la ricerca di Altın attinge agli archivi dei musei, che l’artista combina con immagini e fotografie originali provenienti dalla propria collezione. Partendo da fotografie di oggetti dall’archivio del Göteborgs naturhistoriska museum in Svezia, la tela si popola di immagini disparate di corpi – una donna incinta, la schiena di un uomo, forme animali – su cui l’artista dipinge direttamente, così da celare determinati elementi della composizione. Insieme, questi corpi animati si mescolano ed emergono da uno strato di inchiostro materico insieme a oggetti inanimati, come pietre e ornamenti; osservate nel loro intreccio, queste forme variegate diventano esseri ibridi autonomi, al tempo stesso corporei e privi di vita. – MW

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Özlem Altın, The Lovers (Intuition), 2017. Inchiostro, lacca, pittura a olio su stampa fotografica, 92,5 × 91,5 cm. Photo Markus Krottendorfer. Courtesy l’Artista. © Özlem Altın

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Özlem Altın, Untitled (grow in the dark I), 2019. Inchiostro su stampa fotografica, 100 × 91,4 cm. Photo Ivo Corrà. Courtesy l’Artista. © Özlem Altın

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Özlem Altın, Portal (Highpriestess), 2019. Tecnica mista su stampa fotografica. Veduta dell’installazione, 16th Istanbul Biennial, Istanbul, 2019. Photo Sahir Ugur Eren. Courtesy l’Artista. © Özlem Altın

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A L L I S O N K AT Z

1980, Montréal, Canada Vive a Londra, UK

Un’evidente curiosità per il quotidiano anima il linguaggio pittorico di Allison Katz, con cui l’artista esprime una verve irriverente abbinata a una virtuosistica padronanza delle proprietà dei materiali. Sperimentando liberamente con le convenzioni della pittura, Katz descrive la propria opera in termini di “voce” anziché “stile”. La voce, nelle parole dell’artista, è “un qualificatore più idoneo per termini quali sensibilità, stile o temperamento, perché implica dialogo, scambio e influenza”1. In effetti, molti dei suoi dipinti alludono alla ritrattistica o includono parti di corpi; altri rappresentano galli, scimmie, auto, fiori, fate o altre creature immaginarie, le cui sembianze variano per tono, effetto figurativo o metodo. Dopo l’università, Katz prosegue gli studi sotto la guida di personalità autorevoli, come Charline von Heyl, Amy Sillman e Jutta Koether, pittrici celebrate per aver traghettato il mezzo artistico verso territori avanzati e sperimentali. Se considerata in relazione a queste ultime, anche Katz attinge a un panorama molto variegato di riferimenti, dissolvendo le distinzioni fossilizzate che la storia dell’arte associa alla pittura, in una certa misura anche in risposta alla folle velocità della produzione e della distribuzione di immagini nell’era dei social media. Le nuove opere di Katz per Il latte dei sogni (tutte del 2022) attingono ai cliché associati a Venezia sin dalle sue origini: acqua, sdoppiamento, rifrazione e rispecchiamento. Birth Canal ritrae un canale di Montréal, città natale di Katz, come surrogato delle famose vie d’acqua veneziane. In Milk glass, la tela è percorsa dall’immagine riflessa di due piovre realizzate in vetro di Murano. Be nice, il cui titolo gioca sulla quasi omonimia con “Venice”, raffigura un momento di tregua tra due galli da combattimento, in riferimento all’importanza storica della città, posta al centro tra arti ed economia. Night Philosophy cita simultaneamente il re biblico Nabucodonosor raffigurato da William Blake – tragico simbolo di hybris – e Giovani spartani che si esercitano di Edgar Degas (1860 ca.), il ritratto di un gruppo di lottatori adolescenti. Infine, Portrait of the Artist as a young girl(s) è ispirata da una fotografia a esposizione multipla di Katz realizzata da un’amica della nonna dell’artista, che incidentalmente evoca tanto la favola Cappuccetto Rosso, quanto lo sfuggente personaggio centrale di A Venezia… un dicembre rosso shocking, classico della cinematografia thriller-horror. Insieme, queste opere presentano un complesso di immagini e motivi associati all’ambientazione veneziana, sospeso tra autofinzione e implicazioni psicologiche. – MW

1

Frances Loeffler, Interview with Allison Katz, in “The White Review”, settembre 2015 (www.thewhitereview.org/feature/ interview-with-allison-katz).

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Allison Katz, The Dining Room at Monkton (Mae West Lips), 2021. Olio su serigrafia, 160 × 145 cm. Photo Zhang Hong. Collezione privata. Courtesy l’Artista; Antenna Space, Shanghai, China. © Allison Katz

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Allison Katz, Noli Me Tangere!, 2021. Olio, acrilico, riso su tela, 200 × 220 cm. Photo Farzad Owrang. Collezione privata. Courtesy l’Artista; Luhring Augustine, New York. © Allison Katz Allison Katz, S.O.S., 2019. Acrilico, riso, sabbia su tela, 225 × 170 cm. Photo Filippo Armellin. Collezione privata. Courtesy l’Artista; Gió Marconi, Milano. © Allison Katz

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J A M I A N J U L I A N O -V I L L A N I

1987, Newark, USA Vive a New York City, USA

Jamian Juliano-Villani afferma di trattare la propria pittura come la televisione. Ampi, sgargianti, confusionari, volgari: i suoi dipinti attraggono l’osservatore con la vivacità tipica dei cartoni animati, ma sotto la superficie, come in molta cultura pop americana, l’umorismo e l’erotismo corrono paralleli alla fragilità e al trauma. A testimoniare uno stato di velocità e disordine, le sordide narrazioni psicologiche dell’artista filtrano la storia della pittura attraverso l’insana sensibilità della cultura delle immagini del XXI secolo. Juliano-Villani compone i propri acrilici ad aerografo in modo intuitivo, attraverso un processo che lei stessa descrive come “Photoshop dei poveri”; attingendo a un repertorio di immagini tratto da film, meme, stock di fotografie, storia dell’arte e carta stampata collezionata sin dalle superiori, realizza opere che, pur caotiche, fungono da accurati specchi dell’anarchia della vita quotidiana. Costellati da giustapposizioni insolite e spesso volutamente oscene, dipinti recenti come Chef Mike e Origin of the World (entrambi del 2020) citano con verve comica famose opere d’arte del passato, in questo caso il ritratto di famiglia nel giorno del Ringraziamento in Libertà dal bisogno (1942), di Norman Rockwell, e L’origine del mondo (1866) di Courbet, che all’epoca scandalizzò il pubblico francese. In Chef Mike, JulianoVillani turba l’idealizzato pranzo festivo con un microonde che si apre ogni dieci secondi facendo risuonare musica dance ad alto volume. Nella sua interpretazione dell’Origine del mondo, invece, ritrae un girino fumettistico con pene umano: tramite l’ammiccante stravaganza surreale dell’opera, le intense discussioni su genere, sessualità e voyeurismo che da tempo accompagnano l’originale di Courbet sono rappresentate in modo ridicolo e inquietante. I nuovi dipinti di Juliano-Villani per Il latte dei sogni nascono dal recente interesse dell’artista per la cinematografia, in particolare per i paesaggi carichi di emotività in film come I racconti del cuscino (1996), dramma erotico di Peter Greenaway, e Beloved (1998), adattamento diretto da Jonathan Demme del romanzo “gotico sudista” Amatissima di Toni Morrison. Affascinati dalla nostalgia di cui sono investite le immagini dei paesaggi – nostalgia che agli spettatori offre un senso di storicità e finalità che si dimostra poi falso –, questi dipinti affrontano l’immaginario come fosse insieme radicato nella storia e perennemente attuale. Per Juliano-Villani, la malleabilità dei tropi cinematografici (nelle parole dell’artista, le “ombre che permangono dopo aver distolto lo sguardo”) è indicativa della temporalità frustrata della pandemia da Covid-19, in cui l’accessibilità a immagini provenienti da ogni momento del passato si scontra con l’implacabile carattere dell’hic et nunc. – MW

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Jamian Juliano-Villani, Chef Mike, 2020. Acrilico su tela, microonde, 228,6 × 177,8 cm. Photo Charles Benton. Courtesy l’Artista; JTT, New York; MASSIMODECARLO

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Jamian Juliano-Villani, Little Girls Stretching, 2020. Acrilico su tela, 218,44 × 325,12 cm. Photo Charles Benton. Courtesy l’Artista; JTT, New York; MASSIMODECARLO

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Jamian Juliano-Villani, Origin of the World, 2020. Acrilico su tela, 127 × 188 cm. Photo Charles Benton. Courtesy l’Artista; JTT, New York; MASSIMODECARLO

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T E T S U M I KU D O

1935, Osaka, Giappone – 1990, Tokyo, Giappone

L’estesa pratica dell’artista giapponese Tetsumi Kudo affronta l’impatto che il consumismo di massa, il degrado ambientale e l’ascesa della tecnologia hanno avuto sull’esperienza umana. Nato nel 1935 a Osaka da due insegnanti d’arte, Kudo apparteneva a una generazione estremamente scettica rispetto alla società tradizionale a seguito degli avvenimenti della Seconda guerra mondiale. Negli anni Cinquanta, da studente presso l’Università delle arti di Tokyo, Kudo mantiene un atteggiamento ostile nei confronti dell’istruzione e della pedagogia tradizionali, indirizzandosi piuttosto a letture autonome di astrofisica, teoria degli insiemi e meccanica quantistica e organizzando mostre d’arte indipendenti con i suoi compagni di studi. Figura essenziale nello sviluppo dell’Anti-Arte a Tokyo, Kudo partecipa regolarmente all’annuale e anticonvenzionale Yomiuri Indépendant Exhibition – al tempo, lo spazio più significativo per l’arte contemporanea di tutto il Giappone – esponendo opere che manifestano una critica acuta al consumismo rampante e all’ortodossia politica caratteristici del Paese nel periodo della ripresa postbellica. Nel 1962 Kudo si trasferisce a Parigi, dove entra in contatto con il movimento neoavanguardista del Nouveau Réalisme. Nella capitale francese, Kudo inizia a realizzare opere che incorporano prodotti comuni – bambole, utensili da cucina, transistor, circuiti stampati e terrari, per citare solo alcuni degli oggetti e gadget tecnologici utilizzati – facendosi guidare dall’intuizione per cui, in una “nuova ecologia” in cui esseri umani, natura e tecnologia sono diventati interconnessi, i valori etici sono intercambiabili tanto quanto le merci di largo consumo. Questo ethos è particolarmente evidente in due opere, entrambe intitolate Your Portrait (1966 e 1970–1979): nella prima, un bulbo oculare in resina di poliestere verniciata fissato all’anta di una scatola cubica in pannello forato dimostra l’impossibilità di guardare simultaneamente verso l’interno e verso l’esterno; nella più recente, a guardia di un acquario ben tenuto si trova paradossalmente una figura umana rinsecchita, simile a un cadavere. Cultivation (1972) presenta una collezione di cactus curatissimi e ironicamente imprigionati in un’allegra gabbietta di colore rosa fluo. Kudo impiega spesso colori fluorescenti per conferire una sconcertante aura high tech a forme naturali, come nel caso dei luminosi Flowers (1967–1968) del suo Garden of the Metamorphosis in the Space Capsule (1968) o delle tonalità acide, evocative dei misuratori di radioattività, dei falli ritratti in Pollution-cultivation-nouvelle écologie (1971). Le sue visioni di un mondo postnaturale non sono né celebrative né minacciose; piuttosto, colgono il distacco ambiguo di un mondo riplasmato dal desiderio umano. – IW

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Tetsumi Kudo, Garden of the Metamorphosis in the Space Capsule (vista interna), 1968. Legno dipinto, fiori artificiali, tessuto, luce ultravioletta, 350,5 × 350,5 × 350,5 cm. Photo Stefan Altenburger Photography Zürich. Courtesy Hiroko Kudo; the Estate of Tetsumi Kudo; Hauser & Wirth. © 2022 Artists Rights Society (ARS), New York / ADAGP, Paris

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Tetsumi Kudo, Garden of the Metamorphosis in the Space Capsule (vista interna), 1968. Legno dipinto, fiori artificiali, tessuto, luce ultravioletta, 350,5 × 350,5 × 350,5 cm. Photo Stefan Altenburger Photography Zürich. Courtesy Hiroko Kudo; the Estate of Tetsumi Kudo; Hauser & Wirth. © 2022 Artists Rights Society (ARS), New York / ADAGP, Paris Tetsumi Kudo, Cultivation, 1972. Gabbia dipinta, legno, plastica, cotone, vernice, gusci di lumache, vernice spray, terriccio artificiale, capelli, resina, termometro, 27,9 × 34,6 × 19,4 cm. Photo Pierre Le Hors. Courtesy Hiroko Kudo; the Estate of Tetsumi Kudo; Hauser & Wirth. © 2022 Artists Rights Society (ARS), New York / ADAGP, Paris

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MARIANNA SIMNETT

1986, Londra, UK Vive a Berlino, Germania

Come una storia tratta dalle favole dei fratelli Grimm, l’opera dell’artista britannico-croata Marianna Simnett racchiude alcuni degli aspetti più intriganti della mitologia e delle tradizioni popolari: il loro disinvolto gusto del macabro. Con i suoi intensi film, installazioni sonore, performance e sculture, Simnett crea delle storie profondamente ambigue, moralmente sconcertanti e spesso terrificanti che portano alla luce le condizioni in cui, come essere umani, percepiamo i nostri corpi e desideri. Caratterizzate da visioni fantastiche e da una struttura narrativa tipica delle favole, spesso densamente popolate da bambini e animali, le sue opere giocano anche con l’estetica biomedica, che si traduce spesso in eventi cruenti e sgradevoli. Nel film The Needle and the Larynx (2016) – influenzato dai lavori provocatori delle esponenti della performance e della Body Art degli anni Settanta VALIE EXPORT, Marina Abramović, e ORLAN –, Simnett si reca da un chirurgo che le inietta del botox nella laringe, una procedura a cui si sottopongono coloro che desiderano una voce più bassa. Girato in un brutale stile slow motion, il film segue l’ago del chirurgo entrare, rovistare e uscire dalla gola; l’ansia che attanaglia il pubblico continua anche quando, quarantotto ore dopo, Simnett parla del trauma della procedura con la sua nuova voce più profonda. In altri film, come The Bird Game (2019), che abbina elementi tratti dalla Bella addormentata nel bosco e dalle Metamorfosi di Ovidio, il corpo vulnerabile viene ulteriormente esplorato come luogo di mutazione, sia per gli esseri umani sia per gli animali, soprattutto nel suo essere soggetto a controllo, violazione e contaminazione. Protagonista di The Bird Game è un corvo malvagio e scaltro che cattura alcuni bambini vestiti con costumi Disney, iniziandoli a un gioco inquietante e complesso che culmina con la loro morte. In una storia di sofferenza e trasformazione, l’ascendente del corvo sui bambini è assimilabile all’impatto che ha su noi spettatori, che osserviamo il film in preda al panico. L’ultima installazione di Simnett per la 59. Esposizione Internazionale d’Arte, The Severed Tail (2022), affronta il legame innegabile tra animali e umani da una prospettiva mitologica e storica, raffigurando la coda come una parte rilevante del corpo, rappresentativa del nostro “io animale”, un’appendice che il genere umano ha perso durante il processo evolutivo. Ambientato in un club feticista dove i personaggi esibiscono code e costumi elaborati, il video fantastico a tre canali intreccia riferimenti ansiogeni, violenti e talvolta esplicitamente sessuali: la mozzatura inferta agli animali, feti provvisti di coda e mutazioni genetiche. – MW

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Marianna Simnett, The Udder (still), 2014. Video digitale in HD, suono, 15 min 30 sec (in loop). Courtesy l’Artista; Jerwood/FVU Awards. © Marianna Simnett Marianna Simnett, The Bird Game (still), 2019. Video digitale in HD con audio surround 5.1 trasferito da film 16mm, 20 min. Courtesy l’Artista; FVU; the Rothschild Foundation; the Frans Hals Museum. © Marianna Simnett Pagine successive: Marianna Simnett, Blood in My Milk, 2018. Installazione video HD a cinque canali con audio surround 9.1, 73 min. Veduta dell’installazione, New Museum, New York City, 2018. Photo Maris Hutchinson / EPW Studio. Courtesy l’Artista. © Marianna Simnett

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J OA N NA P I O T ROWS KA

1985, Varsavia Vive a Varsavia, Polonia e Londra, UK

Le fotografie psicologicamente cariche di Joanna Piotrowska indagano il comportamento umano e le dinamiche che sottendono i rapporti famigliari, esplorando l’interazione tra intimità, violenza, controllo e autodifesa. Sovvertendo le norme sociali, l’artista cattura momenti di cura e attenzione unitamente a gerarchie di potere, ansia e convenzioni imposte all’interno dell’ambiente domestico. Nella serie Frantic (2016–2019), l’artista invita i soggetti ritratti a costruire rifugi di fortuna all’interno delle proprie case, avvalendosi degli oggetti domestici disponibili. Sebbene l’attività possa ricordare l’innocente costruzione dei fortini nella quale si cimentano i bambini, allo stesso tempo aiuta a svelare la casa come uno spazio carico di emozioni complesse e di memorie racchiuse. La vulnerabilità delle installazioni evoca la condizione precaria dei senzatetto, mentre la scarsa protezione offerta dai fragili assemblaggi implica una critica al consumismo capitalista. Le persone che abitano queste strutture improvvisate sono ritratte in pose ambigue, quasi intrappolate o in uno stato di letargia, i corpi ridotti a oggetti inanimati. Untitled (2017) ritrae una coppia accovacciata a malapena riparata dalla struttura costruita, mentre un secondo Untitled (2017) cattura l’immagine di una giovane donna che giace sul pavimento circondata da cuscini e coperte – per antonomasia oggetti di conforto – con le braccia alzate in segno di resa e lo sguardo fisso nel vuoto. Nella serie Self-Defense (2014–2015), i soggetti di Piotrowska assumono pose criptiche, non immediatamente decodificabili. Realizzate in bianco e nero, le fotografie raffigurano giovani donne, il più delle volte ritratte nella propria camera, nell’atto di compiere i gesti e le azioni illustrate nei manuali di autodifesa. Una donna tiene i pugni stretti rivolti verso il proprio volto, mentre un’altra, in una posizione contorta come fosse posseduta, si dirige verso l’osservatore strisciando sul pavimento. Ponendo l’autodifesa al centro del contesto domestico, la serie richiama la violenza strutturale nei confronti delle donne in una società patriarcale, ma anche la possibilità di ribellarsi a tale cultura. Attraverso immagini sconcertanti, Piotrowska sfida le narrazioni convenzionali costruite attorno alla famiglia e all’ambiente domestico, e la loro tensione inconciliabile rispetto alla realtà del più ampio contesto sociopolitico. – LC

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Joanna Piotrowska, Untitled, 2017. Stampa manuale ai sali d’argento. Courtesy Southard Reid; Galeria Madragoa; Galerie Thomas Zander; Galeria Dawid Radziszewski

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Joanna Piotrowska, Untitled, 2016–2018. Stampa manuale ai sali d’argento, 120 × 95 cm. Courtesy Southard Reid; Galeria Madragoa; Galerie Thomas Zander; Galeria Dawid Radziszewski Joanna Piotrowska, Untitled, 2013–2022. Stampa manuale ai sali d’argento, 130 × 160 cm. Courtesy Southard Reid; Galeria Madragoa; Galerie Thomas Zander; Galeria Dawid Radziszewski Joanna Piotrowska, Untitled, 2017. Stampa manuale ai sali d’argento, 51 × 41 cm. Courtesy Southard Reid; Galeria Madragoa; Galerie Thomas Zander; Galeria Dawid Radziszewski

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C A R O LY N L A Z A R D

1987, Upland, USA Vive a New York City e Filadelfia, USA

Il video di dieci minuti Crip Time (2018) di Carolyn Lazard cattura un paio di mani intente a deporre decine di pastiglie in un portapillole settimanale le cui etichette “mattino”, “mezzogiorno”, “sera” e “prima di dormire” sono logorate dall’utilizzo. Bianche, rosse e ovali, beige, probabilmente riempite di polvere, le pastiglie hanno dimensioni difficilmente ingeribili. Girato dall’alto e accompagnato dal suono delle pastiglie che fuoriescono dai rispettivi contenitori a prova di bambino, il video rappresenta una riflessione sulla temporalità della malattia e della terapia. Con un passato da regista, Lazard esplora questo concetto attraverso video, sculture, installazioni e performance silenziose e concettuali sostenute da impattanti testi autoteorici come How to Be a Person in the Age of Autoimmunity (2013) e The World Is Unknown (2019). Attingendo all’intimo collegamento tra scultura e immagini in movimento, le opere di Lazard si focalizzano sulla resistenza che il corpo umano oppone in maniera intrinseca ai ritmi e alle aspettative dell’economia capitalista. Ne Il latte dei sogni vengono presentate opere sviluppate a partire dalla mostra SYNC, un’esplorazione ininterrotta del rapporto fra tempo, fatica e debilitazione. La modalità d’azione in queste opere si esplica nell’osservazione e nell’attesa, due elementi costanti. Installati come televisori, una serie di lavandini riformulano la nostra concezione di spazio domestico. Workers’ Comp (2021) è concepita come poltrona elettrica reclinabile in funzione di regolazione e supporto, un oggetto principalmente associato alla convalescenza e all’ascolto televisivo, mentre l’opera Privatization (2020) richiede la collocazione di un numero adeguato di purificatori con filtro HEPA sulla base delle dimensioni dello spazio espositivo. Cinema 1, Cinema 2 (2020) rappresenta il fulcro e il focolare domestico. L’illusione del fuoco è creata con il supporto di un loop tremolante ottenuto con tecniche cinematografiche: uno schermo appannato sul quale viene proiettata la luce. Al centro dell’installazione si erge Half Life (2021): una clessidra appartenente a un altro tempo che scorre a una velocità differente. Lo scorrere del tempo si manifesta tramite la polvere tossica proveniente da uno degli innumerevoli siti industriali che minano inesorabilmente l’autonomia fisica delle comunità di colore nel mondo. Infine, il disegno Carolyn Working (2020), una delicata raffigurazione dell’artista a letto mentre fissa un computer portatile, riconduce l’osservatore a parte del lavoro che ha dato vita a questa serie di opere. – MW

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Carolyn Lazard, Lazy Boi, 2020. Poltrona reclinabile elettrica, 101,60 × 85,09 × 93,98 cm. Collezione privata. Courtesy l’Artista; Maxwell Graham/Essex Street, New York. © Carolyn Lazard

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Carolyn Lazard, veduta dell’installazione, SYNC, Maxwell Graham/Essex Street, New York City, 2020. Courtesy l’Artista; Maxwell Graham/Essex Street, New York. © Carolyn Lazard Carolyn Lazard, TV1 (Dead Time), 2020. Acciaio inossidabile, 55,88 × 63,50 × 17,78 cm. Collezione privata. Courtesy l’Artista; Maxwell Graham/Essex Street, New York. © Carolyn Lazard Carolyn Lazard, Cinema 1, Cinema 2, 2020. Fuoco, durata infinita. Collezione privata. Courtesy l’Artista; Maxwell Graham/Essex Street, New York. © Carolyn Lazard

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RA P H A E LA VO G E L

1988, Norimberga, Germania Vive a Berlino, Germania

Le creature del mondo naturale esercitano un grande fascino sull’artista tedesca Raphaela Vogel, che nelle sue ambiziose installazioni multimediali, sospese tra scultura, video e readymade, impiega di frequente parti di animali naturali e sintetiche, come pelli di alci, bovini, capre, leoni, frammenti di cuoio, dinosauri giocattolo e statuette di cavalli. Spesso, alle forme di animali scuoiati, l’artista associa video realizzati per mezzo di tecnologie digitali avanzate, come scanner e droni e sofisticate tecniche di montaggio, accompagnandoli talvolta con stridenti colonne sonore dark metal. Ciò che Vogel presenta in queste opere è una sorta di favola: nella creazione di mondi oscuri ed enigmatici, i suoi ambienti rievocano miti, relitti e sacrifici rituali tratti tanto dalla storia dell’arte e della letteratura quanto dall’immaginazione dell’osservatore. In opere spettrali come Clown Grock gefangen von Andromeda (2020), un’installazione costituita da pelli animali dipinte di grigio e verde acido e da un video proiettato attraverso una delicata gabbia per uccelli in filo metallico, Vogel riproduce forme prese in prestito dal dipinto Perseo e Andromeda (1602) di Giuseppe Cesari, tra cui il volto contorto della testa mozzata di Medusa. Altre opere, come quelle presentate nella personale del 2018 intitolata Gregor’s Loch (Galerie Gregor Staiger, Zurigo), accennano sia al protagonista della Metamorfosi di Kafka, Gregor Samsa, sia al nome del gallerista ospitante. Qui le pelli animali sono appese e dotate di appendici simili a code, oppure sono dipinte con i volti di altre creature viventi, realizzando una loro propria metamorfosi. Questa modalità di sperimentazione sul corpo trasfigurato compare nuovamente ne Il latte dei sogni il modello anatomico di un pene, gigantesco e colorato, si mostra afflitto, in maniera quasi fumettistica, da diverse patologie e condizioni indicate in una serie di targhe esplicative: cancro alla prostata e ai testicoli, condilomi genitali, disfunzione erettile. Così malconcio, il pene scolpito è accasciato su un carro preceduto da un gruppo di giraffe bianche che lo trainano con protervia, come fosse un nobile aristocratico o il membro di una famiglia reale immaginaria. Collocandosi nel dominio del fantastico, l’umorismo della composizione di Vogel propone un altro effetto: nella visione dell’artista il corpo frammentato vive esperienze proprie. – MW

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Raphaela Vogel, The (Missed) Education of Miss Vogel, 2021. Installazione in più parti, 17 pelli di animali, penna, gesso a olio, pittura a olio, colla per pelle, pelle di capra, pelle di pecora, pelle di alce, corda. Courtesy l’Artista; BQ, Berlin Pagine successive: Raphaela Vogel, Können und Müssen (Ability and Necessity), 2022. Elastomero poliuretanico, acciaio, ottone, modello anatomico, 220 × 135 × 1030 cm. Photo Kati Göttfried, Vienna. Courtesy l’Artista; BQ, Berlin; Meyer Kainer, Vienna; Galerie Gregor Staiger, Zurich

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LOUISE BONNET

1970, Ginevra, Svizzera Vive a Los Angeles, USA

Louise Bonnet inizia il suo percorso creativo lavorando come illustratrice e graphic designer. Nel 1994 decide di concedersi un anno sabbatico a Los Angeles e lascia Ginevra, dove non farà più ritorno. Bonnet inizia a rivolgere la propria attenzione alla pittura nel 2008, realizzando dipinti acrilici su carta che ritraggono persone come Yoko Ono o altri personaggi tratti da film quali Shining e Arancia meccanica. Cinque anni più tardi, incoraggiata da alcuni amici artisti, Bonnet si cimenta nella pittura a olio, un passo che nelle parole dell’artista ha rappresentato una svolta definitiva. Infatti, la pittura a olio consente a Bonnet di manipolare la luce e creare volume, al fine di rappresentare le eccentriche figure della sua immaginazione, per le quali oggi è famosa. Caratterizzate da tonalità gioiello, le grandi tele di Bonnet faticano a contenere figure in tensione, colte nell’atto di arrampicarsi o strisciare, rannicchiate e in equilibrio all’interno dei margini dell’opera. Tra le fonti d’ispirazione, l’artista cita il Cubismo di Pablo Picasso, il fumettista Robert Crumb, così come la pittura medievale e rinascimentale. Mentre all’interno dei suoi dipinti alcuni tipici tratti fisici di genere, quali seni e capezzoli, sono manifestamente dichiarati, Bonnet racconta che il suo interesse non è precisamente rivolto ai temi di genere ma piuttosto alle modalità attraverso cui il nostro corpo ha la meglio su di noi. Bonnet spiega che sebbene crediamo di avere il controllo del nostro fisico, in realtà quest’ultimo ci inganna costantemente, poiché è fallace, ostativo o trasudante liquidi come urina, saliva, sangue o latte. Per Il latte dei sogni, Bonnet realizza Pisser Triptych (2021–2022), un nuovo trittico di grandi dimensioni che ricorda una pala d’altare. L’opera fa riferimento ai cicli di consumo e di scarto che gli esseri umani perpetuano nei confronti della Terra, raccogliendo e trasformando le materie prime solo per rigurgitarne incessantemente le scorie alla fine del processo. Bonnet afferma che i liquidi corporei in eccesso concorrono a inquinare il paesaggio circostante e allo stesso tempo contribuiscono a fertilizzarlo e arricchirlo. Il punto cruciale sta nel divario tra la nostra sensazione di controllo e la nostra effettiva capacità di avere il controllo del nostro corpo, dei nostri comportamenti e delle nostre deiezioni. In quest’opera, l’urina assume una natura mutaforma, simboleggia la salute e la prosperità, il liquido seminale e l’acqua santa, la devastazione che infliggiamo alle cose sulle quali contiamo per la nostra sopravvivenza e – forse, soprattutto – l’assurdità del disgusto e della vergogna per il nostro stesso corpo. – MK

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Louise Bonnet, Kneeling Sphinx 2, 2021. Olio su lino, 76,2 × 101,6. Collezione privata. Photo Jeff McLane. Courtesy l’Artista; Gagosian. © Louise Bonnet Pagine successive: Louise Bonnet, Pisser Triptych (dettaglio), 2021–2022. Olio su lino, trittico. Pannello di sinistra: 213,36 × 177,8. Pannello centrale: 213,36 × 365,76. Pannello di destra: 213,36 × 177,8 cm. Dimensioni complessive variabili. Photo Joshua White. Courtesy Gagosian. © Louise Bonnet

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L U YA N G

1984, Shanghai Vive a Shanghai, Cina

L’artista new media LuYang realizza installazioni immersive con tecnologie avanguardistiche che calano i visitatori nel suo mondo materiale simil-videogame tramite video, scultura, luce e suono. Le installazioni sono visivamente chiassose e sviluppano una miscela che va dall’estetica degli anime giapponesi alle esplorazioni scientifiche reali e di finzione, fino all’iconografia religiosa e agli immaginari umoristici/sardonici della cultura tecnologica contemporanea. Le installazioni di LuYang, spesso retroilluminate, presentano tutta la gamma cromatica RGB in più schermate che lampeggiano contemporaneamente e su vinili che coprono intere pareti, elementi scultorei, bozzetti e imponenti oggetti gonfiabili. Lo spazio risuona, attraversato da colonne sonore energiche di musica techno, lirica, o death metal. Per LuYang, il massimalismo è un understatement. La ricerca di LuYang è finalizzata a comprendere il mondo intorno a noi, con un interesse specifico per la scienza, la religione e la tecnologia e il modo in cui queste vengono filtrate e spesso mercificate dalle pratiche culturali. L’umorismo è parte essenziale del suo lavoro e viene usato per fare satira sull’esperienza umana nei suoi intrecci con la teoria, il dogma, il rituale e il consumo. Nel suo nuovo anime per la 59. Esposizione Internazionale d’Arte, intitolato DOKU – Digital Descending (2020–in corso), l’artista crea una narrazione fittizia, contraddistinta dall’inserimento – e dall’ironia – di molte notizie della vita reale e di elementi storici. Nel film, lo spettatore viaggia con il protagonista, Doku, in un percorso che comprende sei reincarnazioni spirituali (tra cui il paradiso e l’inferno), uno sciamano vendicativo e gli ansiosi passeggeri di un aereo. Gli ambienti di LuYang sono inclini alla distopia, ma la sua ispirazione proviene da paesaggi e rovine presenti in tutta la storia dell’umanità. Ama distorcere i propri riferimenti, intervenendo fortemente su elementi e scenari, digitalizzandoli e rendendoli apocalittici, per ricondurli alla sua personale interpretazione del concetto buddhista del “mondo materiale”, legata alla distruzione dell’universo. Da lontano gli spazi di LuYang ricordano la frenesia multisensoriale di un centro commerciale o di una casa degli specchi. Le sue opere bizzarre ed euforiche nascono dalla sua ricerca nei laboratori di neuroscienze, da influenze hip hop, da uno stile goth street e dalla pratica dell’otaku (termine giapponese che indica l’ossessione per i computer e le nicchie culturali più popolari, come gli anime e i manga), oltre a ciò che immaginiamo possano contenere gli angoli più reconditi della sua mente. Il mondo di LuYang riflette il dinamismo dell’attuale momento storico in Cina e le sue interpretazioni in una cultura globalizzata. – IA

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LuYang, DOKU - LuYang’s digital Reincarnation, 2020–in corso. Un avatar digitale su diverse piattaforme e media. Courtesy l’Artista

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LuYang, Material World Knight, 2018. Video a tre canali, 22 min 15 sec. Courtesy l’Artista

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K E R S T I N B R ÄT S C H

1979, Amburgo, Germania Vive a New York City, USA e Berlino, Germania

Kerstin Brätsch dipinge ad ampio spettro per esplorare i modi in cui il corpo può essere espresso dal punto di vista psicologico, paranormale, fisico e sociale. L’artista attinge alla storia della pittura intesa in senso esteso, che comprende tecniche diverse, come mosaici, vetrate colorate, marmorizzazione della carta e stucco marmo, e spazia tra molteplici modalità di produzione, dalla pittura a olio su Mylar agli ibridi digitali, da installazioni a collaborazioni poliedriche. In tutta l’opera di Brätsch si ritrova costante il desiderio di disancorare le pennellate, invitando i glifi gestuali a vagare liberi nello spazio, tra supporti e mezzi diversi. Brätsch si avvale di sensitivi e chiaroveggenti per mettere in discussione la propria fede nella pittura, esaminando le dimensioni mistiche dei dipinti attraverso le loro infinite letture potenziali: trasudanti strati geologici, cristalli sfavillanti o volti astratti di creature e personaggi sorridenti in un vorticoso abisso. Le collaborazioni sono essenziali nelle pratiche proteiformi di Brätsch, che dematerializzano le storie della pittura canonica. Attraverso le collaborazioni, l’artista mette in discussione la soggettività attribuita al “pittore” e sovverte la nozione modernista di creazione artistica quale atto solitario, prevalentemente maschile. Tra le più importanti figurano DAS INSTITUT, con Adele Röder, e KAYA, con Debo Eilers. Nella continua ricerca di nuovi materiali, Brätsch ha inoltre collaborato con illustri maestri artigiani, come lo svizzero Urs Rickenbach (vetrata artistica), l’italiano Walter Cipriani (stucco marmo) e il tedesco Dirk Lange (marmorizzazione). All’interno di strutture di supporto chiaramente visibili, quali cornici di alluminio o acciaio, l’artista mobilita sofisticate tecnologie dei materiali con esiti ipnotici. Stone Mimicry (2021–2022) combina vetrate colorate, stucco marmo e una grande panca a mosaico site-specific che diventa un “dipinto di pietra”. I lavori in vetro colorato utilizzano frammenti di materiali provenienti da fonti diverse, come vetrate di chiese e stemmi araldici, in cui Brätsch incastona gioielli in vetro, sezioni di agata e porzioni di vetro tirato. In Fossil Psychic for Christa e Brushstroke Fossil for Christa (entrambi del 2019–2021), il gesto pittorico diventa un corpo di frammenti fossilizzati, quasi l’esito di un processo geologico. I colori vivaci evocano mostri prescienti, inglobando il passato nel presente, come una runa o un insetto intrappolato nell’ambra. Preso nell’insieme, l’intero ambiente diventa un dipinto sezionato nelle sue parti costitutive, ognuna delle quali dialoga con la luce, il materiale, la forma e le strutture per ampliare i confini di ciò che un dipinto può essere davvero. – MK

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Kerstin Brätsch, Brushstroke Fossils for Christa (Stucco Marmo) MAN, 2019–2021. Photo Andrea Rossetti. Courtesy l’Artista; Gladstone Gallery, New York/Brussels

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Kerstin Brätsch, Secreta_Secretorum_Seele (Seitenstechen), 2012–2021. Lucido, smalto, gioielli in vetro, agate sezionate, bordatura di finestre da chiesa, piombo, vetro trafilato su vetro antico, 90 × 60 cm. Photo Andrea Rossetti. Courtesy l’Artista; Gladstone Gallery, New York/Brussels; Gió Marconi, Milano Kerstin Brätsch, Nammu (Mutter), 2012–2021. Schwarzlot, lucido, gioielli in vetro, agate sezionate, piombo, vetro trafilato su vetro antico, 90 × 60 cm. Photo Andrea Rossetti. Courtesy l’Artista; Gladstone Gallery, New York/Brussels; Gió Marconi, Milano

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Kerstin Brätsch, Ectoplasmic Ash, 2021. Gioielli in vetro, agate sezionate, vetro trafilato, schegge di vetro antico, bordatura di finestre da chiese, piombo su vetro antico, 90 × 60 cm. Photo Andrea Rossetti. Courtesy l’Artista; Gladstone Gallery, New York/Brussels; Gió Marconi, Milano Kerstin Brätsch, Sunswallower (Pharmakeia), 2012–2021. Lucido, smalto, gioielli in vetro, vetro trafilato, bordatura di finestre da chiesa, piombo su vetro antico, 90 × 60 cm. Photo Andrea Rossetti. Courtesy l’Artista; Gladstone Gallery, New York/Brussels; Gió Marconi, Milano

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MIRE LEE

1988, Seul, Corea del Sud Vive ad Amsterdam, Paesi Bassi

Le installazioni di Mire Lee constano di sculture cinetiche che evocano la tensione degli stati di vitalità e nelle quali materiali organici e sintetici collidono, si fondono e si autodistruggono. Spesso composti da motori antiquati, barre in acciaio e tubi in PVC riempiti di grasso, silicone e olio, questi apparati animatronici assomigliano nello stesso tempo a macchine e a organi interni. Schizzano, ruttano, gorgogliano, sgocciolano e sbavano. Strisciano e si contorcono, sono preda di convulsioni e si dimenano sul pavimento, secernono liquidi viscosi che sputacchiano rumorosamente emettendo suoni fin troppo umani. Per Lee, il processo di creazione di questi oggetti sensoriali rappresenta intrinsecamente un’attività legata al corpo e al tatto; come lei stessa racconta: “Tocco e sento il materiale da vicino, ficco le mie mani in ogni apertura possibile, uso i denti per far presa, mi piego, mi allungo e striscio attorno alla scala dell’opera”. In una recente serie di sculture dal titolo Carriers (2020), Lee enfatizza ulteriormente la qualità tattile dei materiali utilizzati e le diverse tensioni psicologiche che questi rivelano, che spaziano da tenerezza e violenza fino al dominio e alla sottomissione o alla tentazione e alla repulsione. Ispirandosi al concetto di vorarefilia o vore – ovvero la parafilia, che prevede di essere ingoiati o di ingoiare un’altra persona viva, e in base alla quale l’atto del divorare viene percepito come l’unione tra esseri viventi –, Lee crea situazioni in cui materiali diversi tra loro si cibano l’uno dell’altro. Simile a un apparato digerente, Carriers funziona tramite la suzione di una materia liquida che, assistita da una pompa peristaltica, viene convogliata e fatta circolare disordinatamente attraverso la struttura della scultura. Per Il latte dei sogni Lee realizza una nuova opera che estende il concetto di contenitore – o di recipiente che contiene la vita – a una struttura scultorea, collegata a una pompa e ad alcune sculture in ceramica provviste di fori, dai quali stilla argilla liquida, una sostanza destinata a seccare, stratificarsi e fessurarsi nel corso del tempo. Nell’enfatizzare la condizione infinita e aperta dei fori intesi come sistema, queste opere sottintendono azioni che avvengono all’interno e all’esterno del corpo: il pompaggio del sangue, la secrezione del sudore sulla superficie cutanea, il movimento dei liquidi negli organi. Affiancate da panchine che fungono anche da sculture – una delle quali a sua volta secerne un misterioso liquido viscoso – queste opere sembrano rimandare agli ambienti in cui le suddette funzioni corporee si esplicano, dando vita a un paesaggio affettivo, una casa con dei buchi. – MW

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Mire Lee, Carriers: Offsprings, 2021. Silicone, glicerina pigmentata, tanica in metallo, pompa peristaltica, altri materiali vari, ca. 150 × 280 × 310 cm, dimensioni variabili. Photo Frank Sperling, HR Giger e Mire Lee. Veduta della mostra, HR GIGER & MIRE LEE, Schinkel Pavillon, Berlin, 2021–2022. Courtesy Tina Kim Gallery, New York. © Mire Lee

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Mire Lee, Carriers: Offsprings, 2021. Silicone, glicerina pigmentata, tanica in metallo, pompa peristaltica, altri materiali vari, ca. 150 × 280 × 310 cm, dimensioni variabili. Photo Frank Sperling, HR Giger e Mire Lee. Veduta della mostra, HR GIGER & MIRE LEE, Schinkel Pavillon, Berlino, 2021–2022. Courtesy Tina Kim Gallery, New York. © Mire Lee Mire Lee, Horizontal Forms, 2020. Frammenti di un vecchio lavoro, resina, metallo, glicerina, altri materiali vari, ca. 50 × 60 × 230 cm. Photo Yonje Kim. Courtesy l’Artista. © Mire Lee

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SANDRA MUJINGA

1989, Goma, Repubblica Democratica del Congo Vive a Oslo, Norvegia e Berlino, Germania

Spaziando tra sculture, video, performance e musica, la pratica artistica multidisciplinare di Sandra Mujinga è motivata da un profondo interesse per il corpo e per la sua assenza. Nelle inquietanti installazioni di quest’artista, figure incappucciate dall’aspetto spettrale, sculture che sembrano realizzate con pelli scuoiate e fantastiche creature ibride diventano strumenti di osservazione: seppure ipervisibile nella forma, spesso immersa in una cruda luce fluorescente, la fisicità dei corpi è oscurata o resa impercettibile, la loro presenza segnalata solo dall’involucro esteriore, guscio, pelle o indumento che sia. Traendo ispirazione dalle strategie di sopravvivenza degli animali, come mimetismo e adattamento notturno, dal concetto di “costruzione di mondi” della fantascienza, dal postumanesimo, dall’Afrofuturismo e dagli scritti di pensatrici speculative come Octavia E. Butler, Nnedi Okorafor, N.K. Jemisin, Donna Haraway e Anna Tsing, l’artista propone un mondo immaginario in cui l’esistenza cibernetica non è necessariamente una minaccia per l’autonomia e in cui, al contrario, l’ibridismo funge da protezione. Mókó, Libwá, Zómi e Nkáma, quartetto di sculture presentate in un’installazione del 2019, sono corpi privi di sostanza. Vibranti nella luce verde al neon, le quattro figure incappucciate di dimensioni esagerate, il cui titolo è reso nella lingua bantu lingala, sono costituite da mantelli con sembianze umane, privi di corpi da coprire. Con lunghi arti di stoffa che evocano tentacoli e proboscidi, appendici con cui piovre ed elefanti si proteggono e alimentano, questi esseri umanoidi si sono evoluti per adattarsi alla nostra realtà contemporanea di catastrofe ambientale al rallentatore. Rappresentazioni futuristiche di corpi incombono sugli osservatori anche nelle sculture in tulle del 2020 intitolate Míbalé, Mísató, Mínei e Mítáno. Nel portamento simili a poderose sentinelle, queste figure dalle braccia allungate fanno la guardia, le loro forme selvagge sono un simbolo di autosufficienza, in cui la mutevolezza rende possibili nuovi mondi. La vulnerabilità di tale posizione è evidenziata nelle sculture di Reworlding Remains (2021) e Sentinels of Change (2021). Qui, le tipiche figure di Mujinga, realizzate con tessuti riciclati, traggono ispirazione da fossili di dinosauri che l’artista percepisce in rapporto alla costruzione e alla distruzione di architetture. Presupponendo un corpo speculativo, queste sculture, costruite sui resti immaginati di specie estinte, occupano uno spazio liminale in cui decadimento e ricostruzione coesistono nella stessa sequenza temporale. – MW

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Sandra Mujinga, Ghosting, 2019. PVC morbido, denim, pittura acrilica, pittura a olio, glicerina, aste filettate, innesto per asta, 600 × 700 cm. Photo David Stjernholm. Kunsthal Charlottenborg, Copenaghen. Courtesy l’Artista; Croy Nielsen, Vienna; The Approach, London © Sandra Mujinga Pagine successive: Sandra Mujinga, Sentinels of Change, 2021. Due sculture, luce verde, 270 × 100 × 35 cm; ca. 800 × 300 × 200 cm. Photo Mathias Völzke. Courtesy l’Artista; Croy Nielsen, Vienna; The Approach, London

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M A RGU E R I T E H U M E AU

1986, Cholet, Francia Vive a Londra, UK

Da un certo punto di vista le sculture sovrannaturali e biomorfiche dell’artista francese Marguerite Humeau potrebbero essere uscite da un’opera di fantascienza, parte di un mondo in cui la tecnologia ipermoderna e le attrezzature mediche hanno soppiantato la vita umana. Ma da un’altra angolazione, è difficile operare una distinzione fra le sue creature sintetiche sinistramente lisce e i corpi gonfi degli esseri primordiali. Per quanto l’artista concepisca le proprie installazioni su larga scala come macchine del tempo, le ha anche definite come “macchine dello spazio”: queste mappano un passato originario e un lontano futuro in cui i corpi sono sussunti, o sostituiti, da quelli di altre specie, che siano animali, minerali o altro. Una tale ambivalenza fra scienza e antichi miti, robot e fossili, ingegneria biomedica e scoperte archeologiche, è una caratteristica peculiare della pratica di Humeau, che si realizza in spazi fisici, da leggersi come templi per cyborg e laboratori dell’estinto. Lavorando con la consulenza di ricercatori provenienti dalla zoologia, dalla biologia e dalla paleontologia, Humeau ha tinto tappeti con ogni sostanza chimica proveniente dal corpo umano; ha creato paesaggi sonori da cui emergono magicamente suoni di animali preistorici; ha creato versioni contemporanee delle statuette di Venere di era paleolitica; ha fatto scorrere latte di ippopotamo rosa in vene simulate. In alcune opere recenti, fra cui le sculture futuristiche in polistirolo dalla superficie rosa e grigia The Dancer I, The Dancer II, The Dancers III & IV (tutte del 2019), come anche nei nuovi lavori prodotti per la Biennale Arte 2022 composti da alluminio, sale, rifiuti plastici rinvenuti nell’oceano e alghe, Humeau attinge alla ricerca sui rituali d’estasi, sugli stati di trance, sulla morfologia animale e sul cambiamento climatico. Interpretando i riti come espressione di coscienza, l’artista mette in scena sinuose sculture marine come se fossero catturate in un momento di estasi religiosa, suggerendo in tal modo un livello di autocoscienza del corpo che non è solito associare agli animali. Nell’affrontare questioni legate alla vita e alla morte, affiora una sorta di sublime comprensione della mortalità, che può esistere oltre il dominio degli umani – variamente permeata da memorie antiche riemerse da un passato millenario o da un futuro governato da inquinamento e aumento del livello dei mari –, come anche l’esperienza del momento presente. – MW

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Marguerite Humeau, The Dancers III & IV, Two marine mammals invoking higher spirits (dettaglio), 2019. Polistirene, resina poliuretanica, fibra di vetro, scheletro d’acciaio, particelle di inquinamento, 251 × 214 × 240 cm. Veduta dell’installazione, the Prix Marcel Duchamp, Centre Pompidou, Parigi, 2019. Photo Julia Andréone. Courtesy l’Artista; C L E A R I N G, New York, Brussels; White Cube, London, Hong Kong. © Marguerite Humeau

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Marguerite Humeau, The Dancers III & IV, Two marine mammals invoking higher spirits (dettaglio), 2019. Polistirene, resina poliuretanica, fibra di vetro, scheletro in acciaio, particelle di inquinamento. Photo Julia Andréone. Courtesy l’Artista; C L E A R I N G, New York, Brussels; White Cube, London, Hong Kong. © Marguerite Humeau Marguerite Humeau, The Prayer, A marine mammal invoking higher spirits, 2019. Polistirolo, resina poliuretanica, fibra di vetro, scheletro in acciaio, 295 × 100 × 204 cm. Veduta della mostra, Mist, C L E A R I N G, Brussels, 2019. Photo Eden Krsmanovic. Courtesy l’Artista; C L E A R I N G, New York, Brussels; White Cube, London, Hong Kong. © Marguerite Humeau

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Z H E N YA M A C H N E VA

1988, Leningrado (attuale San Pietroburgo), Russia Vive a San Pietroburgo, Russia

Ciminiere fatiscenti, grovigli di cavi elettrici in disuso, congegni meccanici fossilizzati, monumenti statuari abbandonati: i piccoli arazzi delicati di Zhenya Machneva, realizzati in cotone, lino e fibre sintetiche, trasformano i fantasmi delle lucenti fantasie d’acciaio su cui doveva fondarsi la fortuna economica dell’Unione Sovietica in un universo misterioso e sconcertante. Nata a Leningrado (ora San Pietroburgo) poco prima della caduta dell’URSS, Machneva sfida l’estetica predominante che ritrae le aree postindustriali – siano esse nell’ex Unione Sovietica, negli Stati Uniti o altrove – come luoghi decadenti ma romantici, senza prendere atto delle forze politiche e sociali che ne hanno ostacolato la sopravvivenza. Ispirata da una visita alla fabbrica di apparecchiature telefoniche di Leningrado in cui suo nonno ha lavorato per quarant’anni, Machneva inserisce la propria famiglia in un racconto sulla deindustrializzazione, intrecciando immagini di vetusti stabilimenti produttivi, paesaggi industriali e oggetti meccanici con il presente digitale. Creati su telai manuali, una pratica caratterizzata da un preciso lavoro artigianale, gli arazzi di Machneva si contrappongono alla velocità e all’efficienza delle tecnologie contemporanee, ma allo stesso tempo rispecchiano l’etica del lavoro che per prima ha reso possibile l’industrializzazione. Gli esponenti del Modernismo canonico, che operano alla confluenza tra Futurismo, Surrealismo e Dadaismo, si misurarono con gli effetti interiori e psicologici occorsi all’alba dell’era industriale mettendo in scena le proprie ossessioni meccaniche. Analogamente, le macchine e gli oggetti raffigurati da Machneva sono sottilmente antropomorfizzati, aspetto ulteriormente amplificato dai titoli spesso metaforici che accompagnano ciascuno dei lavori dell’artista, molti dei quali esprimono forme di vita chiare o sublimate. In opere come Elephant Head, Portrait e Totem (tutte del 2020), o A Dog (2021), gli omologhi umani e animali mettono in discussione l’idea di una tecnologia puramente dominata dalla logica. A girl (2022) suggerisce una rappresaglia degli ibridi uomo-macchina immaginati dalle avanguardie dell’inizio del XX secolo, evidenziando nelle composizioni approssimativamente antropomorfiche una vistosa mancanza di dettagli umanoidi identificabili. Anche in Echo (2021), opera ispirata da un forno che Machneva ha rinvenuto all’interno di un deposito ferroviario in disuso alla periferia di Budapest, l’artista costruisce una composizione simile a una maschera partendo da bulloni, guarnizioni e cavi serpeggianti. L’immagine di un automa cablato con un filo duttile sintetizza il gioco tra il processo decisamente low tech di Machneva e le immagini quasi meccaniche che questo produce.– MW

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Zhenya Machneva, Echo, 2021. Arazzo tessuto a mano, 165 × 125 × 4 cm. Photo Iona Didishvili. Courtesy l’Artista. © Zhenya Machneva

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Zhenya Machneva, Elephant head, 2020. Arazzo tessuto a mano (cotone, sintetico), 121 × 116 cm. Photo Gui Gomes. Collezione privata. Courtesy l’Artista. © Zhenya Machneva Zhenya Machneva, Totem, 2020. Arazzo tessuto a mano (cotone, lino, sintetico), 187 × 192 × 4 cm. Photo Aurélien Mole. Courtesy Galerie GP & N Vallois, Paris. © Zhenya Machneva

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D ORA BUD OR

1984, Zagabria, Croazia Vive a New York City, USA

Pur essendosi formata come architetto a Zagabria, sua città natale, Dora Budor non pratica l’architettura in senso tradizionale; al contrario, il suo lavoro ne sfida la concezione come sistema fisso, chiuso e inanimato. Nelle sue opere d’arte immersive, usa il linguaggio di un’architettura “minore” e, ponendosi contro la ricerca estetica nella realizzazione degli edifici, si impegna in una politica di demolizione selettiva. Negli interventi e nelle installazioni site-specific – spesso adattando una vasta gamma di readymade tra oggetti e infrastrutture – lo spazio si anima generando un effetto di disorientamento. Nel tentativo di aggirare la preminenza del carattere visivo, la produzione dello spazio è affrontata come un progetto ideologico e viene connotata in base ai generi. Attraverso questo processo, sistemi complessi e psicologicamente evocativi, strutture edificate, interni ed esposizioni divengono elementi di contronarrazione. Descrivendo le proprie attività nel contesto della costruzione del mondo, procedimento mediante il quale si creano nuove realtà e finzioni riciclando ciò che già esiste, Budor suggerisce una lotta in favore della totalità dell’immaginazione. Per Il latte dei sogni, Budor presenta Autophones (2022), sculture risonanti in cui sono integrati dei vibratori. Concepita come esperienza visiva, spaziale e acustica, l’opera è l’estensione di un progetto per una sua mostra personale programmata nel 2022 presso la Kunsthaus Bregenz. La presentazione nell’edificio d’ispirazione brutalista consiste nell’inserimento, all’interno dei condotti dell’aria celati nelle pareti, di sex toy vibranti i cui riverberi viaggiano attraverso il sistema di ventilazione fino a raggiungere le sale espositive. Trasformando l’infrastruttura sottostante in uno strumento acustico, l’aria stessa diventa mezzo di creazione artistica. Per la 59. Esposizione Internazionale d’Arte, Budor pervade di un’energia libidinale invisibile le forme associate alla potenza industriale. Realizzati in collaborazione con un laboratorio di costruzione di strumenti musicali, gli idiofoni di Autophones sono ricavati da un legno selezionato per le specifiche proprietà acustiche, con alloggiamenti ripresi da stampi tradizionalmente usati nei macchinari industriali, come il martello pneumatico del XX secolo, ora inattivo, visibile all’interno dello stesso spazio espositivo. Con un parziale rimando alla storia dell’Arsenale, che un tempo ospitava i cantieri navali e la fabbrica d’armi della Serenissima, l’opera instaura collegamenti incrociati tra produzione industriale, privatizzazione del piacere e controllo biopolitico. – MW

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Dora Budor, The Preserving Machine, 2018–2019. Uccello robotico biomimetico, involucro in vinile colorato, sistema di navigazione audio-movimento personalizzato computerizzato, detriti, parti dell’edificio provenienti dal cantiere della sala da concerto Musiksaal (elementi del 1886, 1905, 1930), modello architettonico di facciata di Herzog de Meuron. Dimensioni variabili. Photo Philipp Hänger / Kunsthalle Basel. Saastamoinen Foundation, Finland. Courtesy l’Artista. © Dora Budor

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M O N I RA A L QA D I R I

1983, Dakar, Senegal Vive a Berlino, Germania

Per Monira Al Qadiri, la manna della modernizzazione negli Stati del Golfo Persico è un gioco a somma zero, una manifestazione parassitaria del capitalismo in cui le risorse della Terra sono drenate in modo dissennato, in un’accelerazione crescente e insostenibile. Nata in Senegal ma cresciuta in Kuwait, Al Qadiri ha dedicato l’ultimo decennio alla ricerca di mezzi artistici per descrivere la vita nel Golfo del XXI secolo, realizzando sculture e video nei quali adotta molteplici strategie visionarie per spiegare lo sbalorditivo sviluppo urbano ed economico della regione. Rappresentando l’impatto dell’industria petrolifera, nonché i danni ambientali e l’amnesia storica che lo accompagnano come un qualcosa di alieno ma al contempo spaventosamente seducente, l’interpretazione che Al Qadiri dà della cosiddetta “petrocultura” si manifesta attraverso scenari speculativi ispirati da una molteplicità di fonti: dalla fantascienza alle soap opera arabe, dalle immagini dei giacimenti petroliferi kuwaitiani in fiamme ai tempi della Guerra del Golfo fino alla melanconica musica tradizionale, dalla pesca delle perle ai macchinari per la trivellazione. Sospesi tra distruzione, feticismo e prodigio, gli oggetti di Al Qadiri estraggono impressioni del presente attraverso le multiformi contraddizioni di consumo e desiderio. In anni più recenti, Al Qadiri rivolge la propria attenzione agli aspetti simbolici del petrolio, realizzando opere dall’aspetto sovrannaturale che indugiano tanto sulla trascendenza magica del paesaggio del Golfo Persico – specialmente i vasti deserti dell’interno e le claires che alimentano la pratica millenaria delle immersioni per la pesca delle perle – quanto sulla meccanica dell’estrazione petrolifera. Associando la lucentezza del petrolio a quella delle perle, Holy Quarter (2020), un video girato nel “Quarto vuoto”, ossia il deserto che si estende nella regione al confine tra Emirati Arabi Uniti, Arabia Saudita, Yemen e Oman, è accompagnato da sculture in vetro globulari sparse sul pavimento come grosse gocce di petrolio alieno. In modo analogo, OR-BIT 1-8 (2016–2018) raffigura il carattere inquietante e poderoso delle attività di estrazione petrolifera: piccole sculture multiformi, realizzate a stampa 3D e rivestite di vernici iridescenti per carrozzeria, incarnano teste di trivella magicamente sospese nell’aria grazie a un modulo di levitazione magnetica inserito alla base di ciascuna. La nuova installazione di Al Qadiri, intitolata ORBITAL (2022), realizza lo stesso concetto, ma su scala monumentale: le luccicanti teste di trivella ruotano nell’aria destando stupore e meraviglia; tuttavia, come rappresentazione dei macchinari utilizzati per perforare la crosta terrestre e accedere ai giacimenti di petrolio, questi diventano i terrificanti emblemi della devastazione ambientale in atto. – MW

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Monira Al Qadiri, OR-BIT 1-8, 2016–2018. Serie di 6 sculture levitanti stampate in 3D, vernice automobilistica, 30 × 30 × 30 cm ciascuna. Photo Raisa Hagiu. Courtesy l’Artista. © Monira Al Qadiri

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J E S FA N

1990, Scarborough, Canada Vive a New York City, USA e Hong Kong

Le sculture di Jes Fan sono spesso realizzate combinando sostanze effimere, da sfere in vetro soffiato a mano iniettate di melanina, muffe nere e capsule riempite con semi di soia, fino a sapone ad alto contenuto di testosterone, cosmetici ricchi di estrogeni e l’urina di sua madre. Attraverso l’ausilio di questi materiali evocativi, Fan propone uno strumento critico per esplorare caratteristiche che definisce sia politicamente controverse sia palesemente assurde, perfino scontate. Sperimentando con marker biologici che concorrono alla formazione dell’identità, e conseguentemente alla costruzione del corpo umano connotato per razza e genere, le opere di Fan evidenziano l’inquieta intersezione tra biologia e identità. A dispetto della natura organica dei materiali impiegati, l’opera di Fan è anche profondamente incentrata sullo status dell’oggetto. Formatosi come vetraio, Fan crea spesso globi in vetro soffiato a mano che inietta con sostanze ormonali. Materiale notoriamente mutevole, durante il processo della sua creazione il vetro cambia di forma e di aspetto; una volta plasmato, la trasparenza che lo connota e l’idoneità a contenere oggetti accentuano ulteriormente il suo potenziale di molteplicità. In sculture come Systems II (2018), oggetti in vetro rigonfi che contengono granelli sospesi e gocce di melanina, testosterone ed estrogeno si afflosciano addossati a rigide strutture in resina e metallo. Se da un lato questi manufatti fungono da contenitori per ciò che viene loro iniettato, dall’altro richiamano orifizi e organi, strutture interne di altro tipo. Nella sua nuova opera per Il latte dei sogni, Fan colloca alcuni calchi di corpi umani su una struttura architettonica lineare. Simulando seni rovesciati o rientranze simili a ombelichi, i calchi contengono forme in vetro che sembrano trasudare dalle loro fessure. Queste forme sono organiche, sembrano antropomorfe e allo stesso tempo sfuggono a qualsiasi definizione statica. Concepita come la summa dei temi e delle forme che hanno contraddistinto l’opera di Fan fino a oggi, la nuova scultura esplora le ghiandole e l’interiorità della vita attraverso un approccio animistico agli oggetti e un’esplorazione scultorea della fitta correlazione tra corpo e tecnologia. – MW

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Jes Fan, Diagram XII, 2021. Resina, vetro al selenio, pigmenti, 38,1 × 40,6 × 17,8 cm. Photo Pierre Le Hors. Collezione the Kadist Art Foundation. Courtesy l’Artista; Empty Gallery, Hong Kong. © Jes Fan Pagine successive: Jes Fan, Visible Woman, 2018. Resina stampata in 3D, tubi in PPE, pigmenti, 152 × 196 × 15 cm (dittico). Veduta dell’installazione, Mother is a Woman, Empty Gallery, Hong Kong, 2018. Photo Michael Yu. Courtesy l’Artista; Empty Gallery, Hong Kong. © Jes Fan

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S O N D R A P E R RY

1986, Perth Amboy, USA Vive a Newark, USA

Arthur Jafa ha definito l’arte di Sondra Perry un “non-corpo di opere”, alludendo a come il corpo, in particolare quello nero, nella visione di Perry si trovi in un costante divenire. Smembrato e ricomposto, invisibile o ipervisibile, con il suo “non-corpo” interdisciplinare l’artista esamina con rigore il processo di disumanizzazione del corpo degli afroamericani da una prospettiva storica e personale, impiegando strategie visive tratte dall’informatica e dai media digitali per riflettere in modo critico sulla tortuosa complessità di esperienza e identità. Le poetiche opere di Perry comprendono installazioni e video in cui abbonda la tecnologia della rappresentazione, strumenti di facile accesso come avatar, software di modellazione 3D, frammenti di video da YouTube e fondali blue screen (utilizzati per sostituire in postproduzione lo sfondo delle riprese video), che insieme conferiscono un’aura fai-da-te alla sbalorditiva estetica cibernetica dell’artista. Al centro di tutto questo, Perry giustappone cultura digitale e discorso politico, realizzando una confluenza teorica, tanto fondamentale quanto troppo spesso trascurata, tra sociologia dei media e teoria critica della razza. Nata a Perth Amboy, cittadina costiera del Jersey Shore, negli ultimi anni Perry ha ripercorso più volte la violenta storia del Middle Passage, spesso inserendo se stessa in immagini che raccontano della tratta atlantica degli schiavi africani e della devastante brutalità inflitta ai prigionieri. L’installazione immersiva Typhoon Coming On (2018) è ispirata da Slave Ship (Slavers Throwing Overboard the Dead and Dying, Typhoon Coming On) (1840), un dipinto di William Turner che raffigura l’annegamento di centotrentatré schiavi, messo crudelmente in atto dal capitano di una nave negriera britannica al fine di incassare l’assicurazione per la “perdita di merci”. L’olio di Turner è qui modificato digitalmente e combinato alla proiezione di superfici oceaniche policrome realizzate tramite il tool Ocean Modifier del software Blender. Anche in Flesh Wall (2016–2020), ammirato di recente sugli enormi schermi digitali di Times Square, l’artista impiega lo stesso software, questa volta per animare immagini della propria pelle, ingrandita al punto da risultare irriconoscibile. Realizzando ancora una volta un collegamento tra cultura e storia personale, tra memoria e realtà, Lineage for a Phantom Zone (2021–2022) ruota intorno al Trade Winds, salone di parrucchiere che si trovava nello stesso edificio del suo studio a Newark, e alla ricerca infruttuosa condotta dall’artista per individuare il terreno, in Carolina del Nord, in cui sua nonna nacque e lavorò come mezzadra. Filmato usando una lente anamorfica e presentato in un’installazione immersiva in cui spicca un divano simile a quello della nonna, questo racconto onirico riflette sui modi in cui la narrazione storica costruisce l’esperienza vissuta e su come l’immaginazione collettiva possa detenere un potere trasformativo. – MW 634


Sondra Perry, Lineage for a Phantom Zone (still), 2021. Video HD, 5 min 49 sec. Courtesy l’Artista; Bridget Donahue NYC

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TISHAN HSU

1951, Boston, USA Vive a New York City, USA

Noto per forme che evocano motivi biologici e virtuali, Tishan Hsu focalizza la propria ricerca artistica sulla progressiva integrazione della tecnologia con il corpo. “Considero me stesso un cyborg: Google è la mia memoria”, ha dichiarato recentemente. È significativo rilevare, tuttavia, che negli anni Ottanta, quando l’artista inizia a creare dipinti futuristici dagli angoli arrotondati e sculture dalle forme architettoniche, molti degli effetti dell’esperienza cibernetica erano ancora lontani dall’essere determinati. Nei primi anni Ottanta Hsu lavora come elaboratore di testi in uno studio legale di Wall Street, dove incontra i computer prima che fossero accessibili al grande pubblico. I suoi primi lavori consistono in dipinti dotati di protuberanze e rigonfiamenti, o sculture piastrellate che riproducono l’effetto fisico e materico delle ore trascorse immerso in quella dimensione tecnologica. Conservando l’essenziale fisicità degli incontri umani con esperienze mediate proto-digitalmente, queste opere evocano non solo la simulazione generata dalla tecnologia, ma anche il suo impatto sul corpo. Saturi di cariche elettrostatiche, rumore bianco, frammenti di dati digitali, superfici ruvide, orifizi fluttuanti e membra disgiunte, questi lavori dissolvono il confine tra schermo e carne. Alla fine degli anni Ottanta e negli anni Novanta, Hsu inizia a impiegare tecniche serigrafiche per enfatizzare ulteriormente la confluenza tra vita analogica e vita digitale. In queste opere, la raffigurazione ravvicinata della carne umana realizzata a pastello viene integrata da immagini di bocche di pesci, fessure per bancomat, manopole di termostati e illustrazioni tratte da libri di medicina che, nella loro galassia di forme, esprimono una sensualità manuale. Le opere più recenti di Hsu, murali e scultoree, affrontano il paradigma biotecnologico emergente. In Blue Interface (2019–2021) e signal. noise/membrane (2020), Hsu utilizza tecniche di fabbricazione innovative e nuovi materiali, in particolare silicone e resine alchidiche, per creare immagini che richiamano orifizi corporei, materiale organico o processi di crescita biotica. L’allucinogena grafica raster di Watching 2 (2021) è adornata da un capezzolo, un ombelico, il display di un termometro digitale a infrarossi e immagini distorte legate alle tecnologie di sorveglianza, che insieme si combinano come una maglia fitta, tra interno ed esterno, digitale e umano. Phone-Breath-Bed e Breath 3 (entrambe del 2021), incorporando il calco in silicone di volti addormentati, si focalizzano sulle tecnologie in grado di rendere le persone acorporee e connesse a un tempo, con un particolare sguardo alle apparecchiature biomediche. Alla radice di queste opere troviamo la questione degli effetti della tecnologia sull’essere umano, che possono essere di volta in volta distorsivi, di sorveglianza, o generatori di vita – MW

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Tishan Hsu, Blue Interface, 2019–2021. Getto d’inchiostro a sublimazione, tela metallica in acciaio inossidabile, silicone su alluminio, 154,9 × 121,9 × 7,6 cm. Courtesy l’Artista; Empty Gallery, Hong Kong; Miguel Abreu Gallery, New York. © Tishan Hsu / Artists Rights Society (ARS), New York

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Tishan Hsu, Phone-Breath-Bed (dettaglio), 2021. Policarbonato, silicone, tela metallica in acciaio inossidabile, getto d’inchiostro UV, legno, acciaio, plastica, 115,6 × 195,6 × 121,9 cm. Veduta dell’installazione, skin-screen-grass, Miguel Abreu Gallery, New York City, 2021. Courtesy l’Artista; Empty Gallery, Hong Kong, Miguel Abreu Gallery; New York. © Tishan Hsu Tishan Hsu, Watching 2, 2021. Getto d’inchiostro UV, silicone su legno, 182,9 × 121,9 × 7,6 cm. Courtesy l’Artista; Empty Gallery, Hong Kong, Miguel Abreu Gallery; New York. © Tishan Hsu

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GEUMHYUNG JEONG

1980, Seul Vive a Seul, Corea del Sud

Il tecnocapitalismo ci fa sfrecciare verso una società nativa digitale, eppure c’è ancora qualcosa di profondamente inquietante nell’interazione umano/non umano. La coreografa e artista performativa Geumhyung Jeong usa il proprio corpo e figure animatroniche, costruite a partire da pezzi autoprodotti, per sottolineare le relazioni perturbanti che si sono sviluppate fra persone e macchine. Nelle performance più estreme, Jeong compie azioni sensuali con e per i suoi robot, confondendo il proprio corpo con la loro controparte prostetica in manifestazioni d’affetto fisiche, sensoriali. La sua opera occupa uno spazio intermedio: una familiarità con la tecnologia che genera un senso di disagio, una sensibilità verso gli oggetti che non è consensuale, una rivelazione bellissima e respingente di opposizione e similarità tecnosociali. Pur avendo appreso da autodidatta le basi della programmazione e della meccanica, Jeong ha intenzionalmente mantenuto una qualità dilettantistica, da gioco, quasi sperimentale nei suoi esseri ingegnerizzati. Non si tratta di macchine sofisticate e dalla potenza elevata. Sono rudimentali eppure reattive, seducenti eppure umili. Il loro carattere ludico è evidenziato da un curioso assemblaggio di protesi. In una forma espositiva clinica, sterile, o addirittura feticista, Jeong crea linee e file di oggetti che differiscono in ogni installazione, ma che possono includere strumenti medici o pezzi meccanici: ruote, cavi, modelli anatomici e manichini smontati, che sono la linfa vitale dei suoi robot. Accanto all’allestimento degli oggetti si trovano video informativi che illustrano il processo di costruzione operato dall’artista, come si trattasse di una lezione video. Nelle installazioni pienamente compiute di Jeong confluiscono film, oggetti, sculture robotiche e performance, tutti tesi ad accentuare l’alternanza di elementi animati e inanimati, nonché la cruda realtà di un divario fra umano e digitale che, pur riducendosi sempre più, resta apertamente problematico. I “giocattoli” esposti sono robot autoprodotti dall’artista grazie alle sue conoscenze da autodidatta nella programmazione di meccanismi e circuiti elettrici, in un processo da lei paragonato al cucire punto dopo punto. Se inizialmente possono sembrare robusti e funzionali, questi robot rivelano la loro fragile instabilità quando iniziano a muoversi. Jeong infonde nei suoi “giocattoli” una goffaggine che evoca nell’osservatore umano il desiderio di coccolarli e prendersene cura: crea così momenti di incontro fra l’umano e la macchina, che testano la nostra capacità di provare empatia per le entità non umane, quando queste sembrano avere bisogno del nostro aiuto. – IA

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Questa pagina e successive: Geumhyung Jeong, Toy Prototype, 2021. Veduta dell’installazione, National Museum of Modern and Contemporary Art, Korea. Photo Kanghyuk Lee. © Geumhyung Jeong

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E L I S A G I A R D I N A PA PA

1979, Medicina, Italia Vive a New York City, USA e Palermo, Italia

Per need ideas!?!PLZ! (2011), Elisa Giardina Papa seleziona una serie di video con pochissime visualizzazioni, realizzati e caricati su YouTube da adolescenti per richiedere consigli e idee sugli argomenti da trattare nei loro video. Drawing from Life (2011) comprende ritratti digitali di sconosciuti su Chatroulette, un sito web di videochat anonime e casuali, molto popolare nei primi anni dieci del Duemila. Il progetto Technologies of Care (2016) rivolge l’attenzione al lavoro di assistenza e raccoglie le conversazioni dell’artista con operatori freelance che prestano la propria manodopera immateriale attraverso piattaforme online, fornendo servizi come contenuti ASMR, coaching per siti di incontri o performance fetish. Nel suo complesso l’opera di Giardina Papa inquadra, tramite ricerche approfondite e un umorismo noir, le modalità in cui si presentano e si realizzano il genere, la sessualità e il lavoro nell’economia digitale del XXI secolo, un contesto in cui fantasia, piacere e cura esistono in un continuum di auto-ottimizzazione, estrazione di dati e un perpetuo profitto per società anonime. La nuova videoinstallazione di Giardina Papa, intitolata “U Scantu”: A Disorderly Tale (2022), ha origine, nelle parole dell’artista, dall’archivio “socio-poetico e socio-magico” dei rituali e dei racconti tramandati oralmente di generazione in generazione in Sicilia e, più in generale, nel Mediterraneo. Il progetto è costituito da immagini in movimento e ceramiche realizzate con la collaborazione di artigiani siciliani. La scenografia è offerta dalla città postmoderna di Gibellina Nuova, l’incompiuta e spopolata “utopia concreta” costruita dopo il devastante terremoto del Belice del 1968, e la narrazione segue un fittizio gruppo di ragazze ribelli ed emarginate, che trascorrono il proprio tempo pedalando sulle loro biciclette personalizzate con potenti impianti stereo. Modellato sulle storie delle donne di fora, espressione traducibile con “donne di fuori”, a metà tra streghe e fate, il racconto visivo ultraterreno di “U Scantu”: A Disorderly Tale è intessuto di riferimenti alle favole siciliane, alle preghiere delle inciarmatrici (guaritrici), alle fiabe in dialetto che l’artista ricorda di aver ascoltato da bambina e ai processi dell’Inquisizione spagnola istituiti a Palermo tra il XVI e il XVII secolo, in cui le storie delle donne di fora erano spesso usate come strumento per perseguitare la popolazione che le narrava. Attingendo alla storia, al folclore e alle tradizioni orali, questo magico collage digitale presenta il fantastico accanto alle conseguenze reali delle narrazioni, dando vita a un racconto che genera uno spazio immaginario oltre le categorie predeterminate di umanità e femminilità. – MW

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Elisa Giardina Papa, “U Scantu”: A Disorderly Tale (storyboard preparatorio), 2022. Video, installazione di ceramica, dimensioni variabili. Courtesy l’Artista. © Elisa Giardina Papa

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J A N I S R A FA

1984, Atene Vive ad Atene, Grecia e Amsterdam, Paesi Bassi

Janis Rafa realizza inquietanti fiabe in forma di film, video, installazioni e narrazioni cinematografiche in cui mette in relazione persone ed esseri non umani, come animali e piante, sia vivi sia defunti. Cani randagi, piccioni morti, galline razzolanti, carcasse di animali investiti e selvaggina abitano rovine abbandonate, sontuose dimore vuote, cittadine industriali e lugubri comunità che un tempo dovevano essere urbane, e ora appaiono in uno stato temporale sospeso, come se esistessero al contempo in un passato remoto e in un futuro distopico. Queste atmosfere oniriche e allegoriche sono pervase dall’abbandono fisico e da promemoria simbolici sull’ineluttabilità della morte. Un tema comune alle narrazioni di Rafa, sempre caratterizzate da complesse coreografie, è quello delle forme rituali di commiato o avvicinamento ai morti, come inumazioni, cremazioni, scavi e pratiche archeologiche. Per Rafa questo approccio diviene un mezzo narrativo circolare, che esprime il primato dell’agentività animale e porta alla luce le soggettività che esistono oltre la vita umana nel contesto ambientale sempre più precario in cui viviamo. Nonostante gli elementi fantastici, i suoi film sono ben lontani dall’essere opere fantasy di evasione. Il cortometraggio di Rafa intitolato Lacerate (2020) è stato originariamente commissionato dalla Fondazione In Between Art Film nell’ambito di un’iniziativa dedicata al tema della violenza domestica e di genere contro le donne. Come un memento mori animato, l’opera è meticolosamente messa in scena tra i resti decadenti di una residenza opulenta, brulicante di cani irrequieti che si aggirano ansimando e addentando pezzi di carne, oggetti e mobili disseminati qua e là. Illuminate da un raggio di luce naturale, carcasse di uccelli morti dalle penne variopinte sono accatastate insieme a patate e cipolle, sotto il rubinetto aperto di un lavabo. Fastosi vassoi di frutta e tazze di latte sono lasciati a marcire sul tavolo da pranzo. Un uomo barbuto che sanguina dal collo è disteso sul pavimento; i cani lo annusano e lo urtano come fanno con ogni altro pezzo di carne. Ispirato all’iconografia di dipinti a tema biblico, come la famosa opera dell’esponente del Barocco secentesco Artemisia Gentileschi intitolata Giuditta che decapita Oloferne, raffigurante un episodio popolarmente interpretato come vendetta proto-femminista, anche Lacerate realizza un’allegoria dell’autodifesa contro la violenza di genere, coniugando simbolismo storico-artistico e immagini angosciose, da incubo. Cogliendo il momento successivo alla violenza, l’opera non si concentra sulle azioni degli esseri umani, ma su quelle dei cani, concepiti tanto come protettori quanto come canali di accesso alle parti indomite dell’individuo. – MW

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Janis Rafa, Lacerate (stills), 2020. Video a canale singolo, audio, 16 min. Courtesy l’Artista; Fondazione In Between Art Film. © Janis Rafa

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LY N N H E R S H M A N L E E S O N

1941, Cleveland, USA Vive a San Francisco, USA

Da oltre cinquant’anni, Lynn Hershman Leeson dà vita a innovazioni tecnologiche provocatorie e concettualmente prescienti che analizzano in modo rigoroso le dinamiche di potere. Le sue opere includono installazioni, performance, fotografie, video, media interattivi e Net Art, ed esplorano temi quali sorveglianza, privacy, intelligenza artificiale, cibernetica e ingegneria genetica. Molti dei suoi primi progetti pionieristici vedono l’artista stessa come soggetto di performance di lunga durata, costituendo insieme una riflessione e una forma di difesa rispetto alla cultura in cui è nata e cresciuta. Dal 1972 al 1979, Hershman Leeson impersona una donna fittizia in una performance nota come Roberta Breitmore, personaggio che l’artista non si limita ad abbigliare e curare, ma di cui vive realmente l’esistenza spingendosi, nelle sue vesti, a ottenere una patente di guida o a recarsi dallo psichiatra. Hershman Leeson usa personaggi come Roberta Breitmore per esplorare in modo creativo la costruzione dell’identità. Analogamente, i suoi lavori sugli organismi cibernetici e sull’intelligenza artificiale sondano i modi in cui rappresentiamo noi stessi. Ne sono un esempio alcuni video e film realizzati tra gli anni Novanta e i primi Duemila, come Seduction of a Cyborg (1994), allegoria dell’annessione della tecnologia al corpo, in cui una donna cieca accetta di sottoporsi a un trattamento che le consentirà di vedere attraverso lo schermo di un computer, o Teknolust (2002), commedia fantascientifica su una biogenetista che crea tre cloni cyborg usando il proprio DNA. Queste opere mostrano la complessità della tecnologia, insieme strumento di controllo, visione e percezione, ma anche mezzo di autoaffermazione. La serie di stampe su specchio intitolate Missing Person amplia la valenza dell’identità cyborg estendendola al regno dell’estinzione digitale attraverso la presentazione di ritratti fotografici di persone inesistenti. Creata mediante tecnologie di intelligenza artificiale, Missing Person, Cyborg (2021) ritrae una donna bionda, che guarda placida davanti a sé. Le piccole cifre appena visibili accanto agli occhi e sul collo, tuttavia, rivelano i difetti del sistema di AI, e in questo modo il carattere artificioso di questo essere umano dalle fattezze così realistiche diventa palese. Anche il video Logic Paralyzes the Heart (2021), in cui la voce narrante è una cyborg di sessantuno anni, è una presa di posizione sull’integrazione del corpo con i sistemi digitali e militari di controllo in continua crescita. Qui i cyborg sono rappresentati come software complici, la cui sopravvivenza dipende dall’interazione umana. All’interno di questo angosciante sistema, gli individui sono trasformati nei loro dati il che, nell’era della sorveglianza, non è molto più dell’analogo di chi sono. – MW

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Lynn Hershman Leeson, Missing Person, Cyborg, 2021. Stampa digitale d’archivio su Plexiglas al rovescio su specchio, persone generate completamente da un sistema di Intelligenza Artificiale sul sito “Generated Photos”, 76,2 × 76,2 cm. Photo Hotwire Productions LLC. Courtesy l’Artista; Bridget Donahue Gallery, New York; Altman Siegel Gallery, San Francisco; Waldburger Wouters Gallery, Basel; ShanghArt China. © Lynn Hershman Leeson

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Lynn Hershman Leeson, Logic Paralyzes the Heart (still), 2021. Video digitale, 13 min 35 sec. Courtesy l’Artista; Altman Siegel, San Francisco; Bridget Donahue, New York. © Lynn Hershman Leeson

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BA R BA RA K RU G E R

1945, Newark, USA Vive a Los Angeles, USA

Nella galassia delle sperimentazioni con il linguaggio condotte dagli artisti nel corso del XX secolo – nei manifesti futuristi, nella Poesia Concreta, nelle istruzioni Fluxus e nei contributi pubblicati nelle riviste concettuali –, l’audace opera fatta di immagini e testi di Barbara Kruger è riconosciuta per la potenza retorica e l’urgenza visiva. All’inizio della sua carriera, tra gli anni Sessanta e Settanta, Kruger lavora come grafica e photo editor per riviste come “Mademoiselle”, “Vogue”, “House & Garden” e “Aperture”. Qui sviluppa la sensibilità grafica che in seguito le sarebbe stata strumentale nella pratica critica e artistica, in cui utilizza ingrandimenti di foto in bianco e nero tracciati da stringati aforismi nelle font Futura Bold Oblique o Helvetica Ultra Condensed, sovraimpressi su fasce rosse o nere, secondo uno schema ormai iconico. Alla fine degli anni Settanta, Kruger inizia a realizzare opere che esaminano l’ideologia dei mass media da una prospettiva femminista, realizzando lavori che si interfacciano con le tattiche emergenti della teoria culturale postmoderna e con le critiche autoriflessive della rappresentazione, associate al gruppo generalmente conosciuto come Pictures Generation. Per Kruger, l’eredità dell’Arte Concettuale sull’uso del linguaggio coincide con l’interesse per l’utilizzo massmediatico di parole e immagini al fine di forgiare desideri e identità. I testi che compaiono nei suoi lavori comprendono spesso allocutivi e pronomi personali come “I” (io) e “you” (tu, voi): “Your Gaze Hits the Side of My Face” (Il tuo sguardo colpisce il mio profilo), “I shop therefore I am” (Compro dunque sono), “Your body is a battleground” (Il tuo corpo è un campo di battaglia), coinvolgono sia l’artista che gli osservatori nel processo critico. Nel corso degli anni, la metodologia di Kruger si amplia fino a comprendere l’ingrandimento su larga scala e la spazializzazione della sua pratica visiva attraverso l’utilizzo di immagini fisse e in movimento. La nuova installazione per Il latte dei sogni dissemina immagini e testi di Kruger sulle pareti, sul pavimento e sulle colonne e comprende tre video a canale singolo. Posizionata all’estremità dell’edificio delle Corderie, l’opera è allestita in modo da adattarsi ai parametri spaziali dell’ambiente che la ospita. Le imploranti espressioni di comando (“PLEASE CARE”, “PLEASE MOURN”, che invitano all’interessamento e al rimpianto) invitano l’osservatore a un incontro diretto, o addirittura a uno scontro con l’opera d’arte, utilizzando la formula ironicamente disincarnata tipica della pratica di Kruger per richiamare l’attenzione sulle viscere e sulle deiezioni del nostro corpo. – MW

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Barbara Kruger, Untitled (No puedes vivir sin nosotras / You can’t live without us), 2018. Veduta dell’installazione, Art Basel Cities: Buenos Aires, Silos de la Antigua Junta Nacional de Granos, Puerto Madero, Argentina, 2018. Courtesy l’Artista; Sprüth Magers

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Barbara Kruger, veduta dell’installazione, FOREVER, Sprüth Magers, Berlin, 2017–2018. Photo Timo Ohler. Courtesy l’Artista; Sprüth Magers

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Barbara Kruger, veduta dell’installazione, Belief + Doubt, Hirshhorn Museum and Sculpture Garden, 2012–in corso. Photo Cathy Carver. Courtesy l’Artista; Sprüth Magers

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DEI GUFI E DELLE COSE Jack Halberstam

La civetta di Minerva inizia il suo volo soltanto sul far del crepuscolo. – G.W.F. Hegel

Nell’oscurità della sera le stelle sono visibili anche dalla città. Mi dirigo a tutta velocità nel crepuscolo verso il mio appuntamento con la natura selvaggia. Per la prima volta in oltre un secolo, a Central Park è stato avvistato un gufo delle nevi. Sono un osservatore ornitologico occasionale, ma gufi, falchi e uccelli rapaci selvatici mi trascinano fuori dalla mia tana urbana per un’escursione. Solitamente, com’è ovvio, la natura selvaggia non può essere rintracciata o evocata e quindi devo sperare in avvistamenti occasionali e accidentali: un dilettante come me non può “trovare” un volatile da osservare. Devo affidarmi alla fortuna ed essere nei paraggi quando arriva. Un simile avvistamento, uno dei miei ricordi più preziosi, avvenne a Los Angeles, durante un decennio in gran parte non sempre felice. La mia compagna mi aveva riferito che dalla nostra camera da letto a Mount Washington, un quartiere collinare sul lato est della città, aveva sentito nel cuore della notte il verso di un gufo. Deridendola, le risposi che era impossibile e non ci pensai più. Ma una notte, nell’ora più profonda e più buia, si udì un inconfondibile fischio provenire dall’esterno. Mi precipitai alla finestra e, aprendo la tenda, mi ritrovai faccia a faccia con un grande gufo cornuto – appollaiato su un cavo della linea elettrica proprio di fronte a me – che mi osservava sorpreso quanto

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me. Forse per lui ero io quello selvatico, un incontro raro e non proprio desiderato con un umano sbigottito. Un incontro che la creatura accortamente evitò. Non appena mi resi conto della sua presenza, il gufo era già sparito. Nelle prolungate chiusure che hanno caratterizzato l’anno appena trascorso, il mondo non umano ha trovato pace e tranquillità e – godendo dell’improvvisa cessazione del costante e catastrofico inquinamento – le creature che si stavano lentamente estinguendo sono tornate alla vita, avanzando esitanti sull’orlo delle possibilità, per poi spiccare il volo maestose nell’aria libera dagli aerei, scivolare sulle acque prive delle solite enormi navi da crociera che sputano liquami, strisciare nei boschi senza intrusi umani. Avvertendo una riduzione di rumore e impatto ambientale, il mondo al di là dell’umano si fa timidamente avanti. Nicole Eisenman, From Success to 2004. Courtesy l’Artista; La natura selvaggia, dopo la pandemia, non è semplicemente la Obscurity, Hauser & Wirth. © Nicole Eisenman ricomparsa di creature non umane, bensì un’apertura nello spazio e nel tempo imposta all’uomo da entità non umane, in questo caso un virus invisibile e mortale, senza dubbio uno dei tanti a venire. Arrestando il flusso della vita quotidiana in un mondo capitalista, il Covid si è espresso attraverso i nostri corpi in forma di quesito, ovvero: che cosa accadrà poi? Personalmente non ho alcuna risposta, nessuno ce l’ha. Ma, come gli animali non umani con cui condividiamo lo spazio, anche noi potremmo voler spiccare il volo ai primi segnali che il mondo si sta “riaprendo”. La risposta al cosa succederà dopo, potrebbe essere: nulla.

In altre parole, noi siamo il disastro ambientale che stavamo aspettando. Non chiediamoci ora se l’umano può sopravvivere al Covid, ma se il mondo può sopravvivere al riemergere dell’umano. L’umano è un concetto complesso, inafferrabile e pericoloso, di cui dovremmo sicuramente imparare a fare a meno. L’altro, rispetto all’umano, è stato identificato come selvatico, come mostruoso, come cyborg, come un usa e getta razzializzato, come forme di vita vegetali. Possiamo trovare la nostra strada oltre l’umano in questo cruciale momento di fragilità planetaria? Alcuni artisti ci mostrano come farlo evocando sogni di mutazione queer e femministi. Mentre i Coronavirus mutano intorno a noi, trovando crepe nell’armatura umana e producendo varianti nell’attraversare milioni di sistemi immunitari, anche l’umano deve mutare e staccarsi da quella sua forma che ha imposto tale distruzione. L’umano non può risolvere il disastro che l’umano ha provocato. È tempo di collaborare con la natura selvaggia, di ritornare a essere cosa, di esigere quiete e silenzio e di vedere nell’attività frenetica un sintomo del capitalismo razziale. Proprio come in passato sono stato attratto da rappresentazioni astratte del queer e del transgender perché evitano le restrizioni dell’identità, ora voglio rompere con l’umano trovando immagini queer e femministe dell’essere cosa. Si prenda questo dipinto di Nicole Eisenman, From Success to Obscurity (2004). Qui, Eisenman dipinge La Cosa, un tragico supereroe della Marvel Comics, come simbolo del fardello della mutazione. Come molti supereroi, i superpoteri della Cosa sono un miracolo e al tempo stesso un ostacolo. La Cosa, nel fumetto Marvel, era un pilota collaudatore esposto a radiazioni in seguito alle quali si ritrova con una pelle spessa, una forza sovrumana ma anche la sensazione di essere intrappolato nel proprio corpo, murato e bloccato dietro la propria facciata. Mentre la trasformazione della Cosa è stata interpretata come un sintomo di sofferenza maschile, la formulazione di “intrappolato nel corpo sbagliato” punta verso una lettura trans* della limitazione materiale. Nella narrativa trans*, questa idea di corpo intrappolato in un altro forse non funziona più come tropo convenzionale, ma aleggia come senso più generale di errore, un senso che si collega a una definizione dell’umano che si stacca dall’essere cosa.

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Secondo le formulazioni eteronormative e normative del genere dell’umano, il corpo è leggibile, disponibile, nudo e fluido. In risposta, Eisenman presenta la forma umana come congelata, intrappolata, sequestrata e bloccata. Più che cercare il riconoscimento sotto forma di diritti o approvazione, questa figura murata è l’oscurità stessa, che non si presta all’iscrizione o al salvataggio. Nel dipinto intitolato From Success to Obscurity, La Cosa tiene in mano una lettera che inizia con “Dear Obscurity”. La Cosa non è semplicemente caduto in disgrazia: è l’incarnazione stessa di un fallimento che non può essere ribaltato. Eisenman cattura il tormento del passaggio dal successo all’oscurità, ma nel farlo, chiarisce che non possiamo sfuggire alla trappola del corpo – non con la droga, né con la medicina, non attraverso la volontà o l’immaginazione –, il corpo è un ingombro, un peso tanto quanto può essere un veicolo e un contenitore. Qui, La Cosa apprende con dolore che la sua trasformazione lo ha consegnato all’oscurità, ma al contempo – come chiarisce il brillante libro di Ramzi Fawaz sui fumetti Marvel – questa trasformazione lo allontana dall’orbita della famiglia nucleare, dalla normatività, dalla leggibilità. I suoi superpoteri e la sua capacità di aiutare, trasformare, sopravvivere si basano sulla sua mostruosa superficie1. Il suo essere cosa lo rende queer. La Cosa legge una lettera, e il fatto che sappia leggere ricorda il mostro di Frankenstein che, nella storia senza tempo di Mary Shelley, sedeva recluso dietro un muro in un cottage e osservava un bambino che imparava a leggere, imparando così a leggere egli stesso. Mentre nella storia di Shelley l’acquisizione dell’alfabetizzazione avrebbe dovuto umanizzare il mostro, in realtà lo isolò ancora di più, lo rese più consapevole della sua differenza, della sua irriducibile mostruosità. L’immagine con cui si chiude il romanzo, quella del mostro che insegue il suo creatore umano attraverso un paesaggio di neve e ghiaccio, inquadra la condizione umana come fuga da un incubo creato da noi stessi, ma anche come fallimento nel vedere nella forma non umana del mostro una possibilità di cambiamento. Nel mostro che insegue l’umano, mentre l’umano fugge dal danno che ha prodotto, prende forma un’allegoria. Il romanzo di Shelley e i molti mostri che ha generato, incluso il dipinto di Eisenman, ha offerto all’inizio del XIX secolo, e di nuovo offre, un’immagine della fine dell’umano. Pur non essendo nel romanzo motivo di gioia, offre comunque una nuova logica della temporalità. L’umano, nell’era del crollo, sarà per sempre “dopo”. E all’arte non resta che guardare indietro, perché il futuro è solo ghiaccio e oscurità. Frankenstein, La Cosa, zombi, vampiri e tanti altri mostri forgiati dalla fragilità umana nascono tutti da tassonomie razziali all’interno delle quali l’illeggibilità di genere (che cos’è?) si fonde con la distinguibilità razziale per creare incubi ibridi dalle paure dei bianchi. Quegli incubi ricompaiono come arte, come arte nera, come arte che si forma intorno alla notte, intorno all’essere neri, intorno alla mostruosità e intorno al nulla. Untitled (WE ARE NOT) (2019–2020) di Adam Pendleton, ad esempio, usa un alfabeto scolpito per esprimere un tonante rifiuto al mondo bianco dell’essere propulsivo, al mondo che dice “noi siamo il mondo”, a quel “noi” che immagina la mondizzazione e le dà forma consegnando tutto il resto all’oscurità.

Adam Pendleton, Untitled (WE ARE NOT), 2019–2020. Courtesy l’Artista; David Kordansky Gallery, Los Angeles

“Quando si rompe qualcosa”, scrive Akwaeke Emezi nello straordinario romanzo Acquadolce, “prima di rimetterne insieme i pezzi bisogna studiare il disegno dei frantumi”2. Questo romanzo sull’essere moltitudine si basa sulle cosmologie nigeriane dell’individualità per prendere le distanze dalle eziologie occidentali dell’identità transgender e presentare

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la transizione come esplorazione, in parte spirituale e in parte fisica, del corpo. Nel romanzo la rottura del sé non è il suo disfacimento ma il suo stato costante, e il “modello di frantumazione” deve essere studiato non semplicemente con l’obiettivo di riassemblare, bensì come modo per capire che cosa significa rompere. La rottura e la frantumazione del mondo – (WE ARE NOT) –, che potrebbe rappresentare un’espressione di ciò che Fred Moten definisce “l’estetica nera”, riecheggiano nel romanzo di Emezi in cui vari avatar sgomitano per occupare un posto negli spazi vestibolari della mente e del corpo. Il corpo si rompe, il corpo si scompone, il corpo si ricompone in modo diverso e trova solo alcuni dei pezzi dell’essere nero, rottura, spirito e carne. I corpi ricomposti che il mondo presenta come mostruosi o pazzi o distrutti costituiscono in realtà porte d’accesso ad altre comprensioni delle relazioni umane/non umane. Il Covid ha spezzato il mondo e la mondanità e, allo stesso tempo, ha confermato opposizioni ormai logore tra popolazioni protette e popolazioni di scarto. I ricchi hanno continuato a salvare i ricchi abbandonando le moltitudini alla malattia, allo sfratto, all’indigenza e alla disperazione. Che una parte del mondo animale avanzasse esitante verso la luce è stata una magra consolazione in un periodo di devastazione. Tuttavia, quando arrivai a Central Park in una sera nevosa nel profondo dell’inverno Covid e vidi una piccola folla fissare l’oscurità, mi sentii spinto a unirmi a loro. Anch’io speravo in un barlume di meraviglia nel cuore tetro della violenza del mondo. Mi unii al gruppo sul sentiero e anch’io scrutai la notte. Qualcuno mi passò il suo binocolo e individuai una sagoma bianca appollaiata sulla recinzione. Poi improvvisamente il gufo prese il volo e lo vedemmo svolazzare nel campo visivo come un fantasma, come un presagio di qualcosa. Era l’imbrunire, il gufo sembrava fuori posto nel parco urbano, ma il suo volo mi prese, ci prese tutti, alla sprovvista. Il gufo era un avvertimento? Un promemoria che la saggezza arriva sempre troppo tardi? Con un verso cupo, il gufo segnalò la sua partenza e mentre, volando basso, attraversava il prato, il pubblico umano si disperse e tornò all’attività di sopravvivenza. Jack Halberstam insegna Gender Studies e Inglese presso la Columbia University. Ha pubblicato sette libri tra cui: Female Masculinity (Duke University Press, 1998), In a Queer Time and Place (New York University Press, 2005), The Queer Art of Failure (Duke University Press, 2011), un testo breve dal titolo Trans*: A Quick and Quirky Account of Gender Variance (University of California Press, 2018) e Wild Things: The Disorder of Desire (Duke University Press, 2020). Nel 2018, “Places Journal” gli ha conferito l’Arcus/Places Prize per il suo innovativo contributo al rapporto tra genere, sessualità e ambiente costruito. Attualmente, Halberstam sta completando il secondo volume sul selvatico intitolato The Wild Beyond: Music, Architecture and Anarchy.

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Ramzi Fawaz, The New Mutants: Superheroes and the Radical Imagination of American Comix, New York, New York University Press, 2016. Akwaeke Emezi, Freshwater, New York, Grove, 2018 (tr. it. Acquadolce, Milano, il Saggiatore, 2019).

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GLOSSARIO lacunoso e in ordine di apparizione, dal 9 marzo 2020 al 26 aprile 2021, parziale e sentimentale, come la memoria

Chiara Valerio

Il corpo è il nostro primo dispositivo. È il mezzo attraverso cui scambiamo informazioni con le circostanze, occupiamo lo spazio e lo percepiamo. Mentre ascolto alla radio le misure immaginate e previste per il contenimento dei contagi, mi ricordo che, tra i carcerati, una delle patologie più diffuse è la miopia. Per via dell’orizzonte corto. Mi chiedo se alla fine di queste chiusure esisteranno ancora le sensazioni o saranno rimasti solo i ricordi delle sensazioni. È appena cominciata, ho appena compiuto quarantadue anni e, guardando la laguna di Venezia, mi chiedo se, come tutti i processi, dalla termodinamica in poi, anche questo si rivelerà irreversibile. Penso al mio gatto che, quando fuori dalla finestra non ci sono uccelli cui rivolgere stridule grida di guerra, si volta verso la foto di una cornacchia che afferra una colomba e ad essa rindirizza le medesime stridule grida di guerra. Ordino su Internet un poster New Age raffigurante un vasto arcipelago (forse le Andamane, non lo affiggerò mai), e mi tranquillizzo. Guardo, annuso, tocco, assaggio, ascolto (piove) e scommetto sul corpo. Il corpo è il nostro primo dispositivo. O R IZ ZO N T E

Di mestiere leggo. Leggo anche quando scrivo. Il 9 marzo, mentre l’Italia chiude, torno in treno da Venezia a Roma, con il gatto in spalla, per ricongiungermi alla mia compagna, e la prima cosa che perde di interesse sono i manoscritti. Mancava, nelle pagine, quella specie di apocalisse relazionale e collettiva che occupava la mia curiosità. Certo, perché prima della riflessione, della preoccupazione, dell’analisi, è arrivata la meraviglia per una cosa mai vista e immaginata. Il mondo che torna a manifestarsi nella sua imprevedibilità. Il mondo, nella sua incomprensibilità, era tornato “vasto e largo”. Da quando ho imparato a farlo, ho sempre letto. Non ricordo un giorno in cui non abbia letto qualcosa e invece, fino alla fine di marzo, i manoscritti, ma anche i libri stampati, mi ispiravano diffidenza. Poi ho capito, i libri ancora inediti sono oggetti relazionali, si leggono, se ne discute, si sceglie se pubblicarli o no, e dunque quando manca la relazione – assenti gli esseri umani con il loro corpo e le loro insistenze, i loro pregiudizi e gli entusiasmi – quando manca la relazione, deve esserci il canone. Per questo ho ripreso Il conte di Montecristo di Alexandre Dumas, non lo leggevo dai miei sedici anni. L’ho sfilato dalla libreria perché ricordavo che Dantès sa aspettare. Nei quattordici anni chiuso al buio, o in penombra, nel Castello d’If, prima di imparare – grazie all’abate Faria – la matematica, la geometria e la chimica, la letteratura e l’anatomia che lo sosterranno quando entrerà in possesso di un’immensa ricchezza, Dantès apprende, da solo, l’attesa. L’attesa è propedeutica all’avventura di Montecristo. L’attesa, quando la ricchezza potrebbe stordirlo, gli dà la struttura per l’altra attesa: la vendetta. Il conte di Montecristo mi ha restituito d’improvviso l’adolescenza: pagine da leggere perché ne va della tua integrità di vivente. DA N T ÈS

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Nel primo mese di lockdown, Montecristo mi ha ricordato che l’attesa è un sentimento propedeutico e che il suo esercizio può durare più del previsto, anzi la durata dell’attesa è imprevista, non dipende solo da te. L’attesa è dunque un sinonimo, se non una forma, della relazione, e scoraggiarsi non è mai avventuroso. L’ottimismo, anche quando sembra stolido, assicura l’avventura e non è una nota di carattere, ma una prassi. Segnare sul muro una tacca ogni giorno, per impedire al tempo di assemblare i giorni in un archetipo di giorno e dimenticarli. La tacca sta lì a ricordarci di contare. Il conteggio stesso, con simboli più complessi delle tacche, è stato un’azione ripetuta e ripetitiva. L’analfabetismo scientifico e la disaffezione italiana per i numeri sono deflagrati in una fiducia religiosa nei grafici, nelle curve, negli istogrammi. I grafici venivano commentati come fotografie di paesaggi, la cui unica informazione percepibile era l’estinzione della specie. ZO O M Di tutte le piattaforme il cui utilizzo si è diffuso dalla fine di aprile, Zoom è quella il cui nome mi ha creato più problemi. E se non problemi, domande. In un mondo in cui la definizione delle immagini si è abbassata tanto da poter suscitare emozioni e ricordi anche in formato Instagram, Zoom – l’ingrandimento già nel nome – ha imposto una riflessione sul corpo, e sulla rappresentazione del sé. Se Wittgenstein nel Tractatus ha scritto che il mondo è l’insieme dei fatti e delle sue rappresentazioni, Zoom ha mostrato quanto nella rappresentazione di sé, il privato giochi un ruolo consistente. Lo spazio privato. Forse anche Google Meet o Houseparty o Microsoft Teams, e altre piattaforme di cui ignoro sigla e marchio lo hanno fatto, ma non a partire dal nome. Siamo diventati le nostre rappresentazioni, nelle nostre stanze. Il corpo è latore di verità, lo è sempre stato. Mi guardo parlare riflessa nello schermo e penso a quei film di spionaggio con la macchina della verità. Persone interrogate connesse a elettrodi che misurano veridicità e plausibilità delle risposte, in base a impulsi elettrici, emissioni del corpo. Mi guardo parlare nello schermo e penso che non siamo in grado di misurare la verità o la plausibilità delle nostre parole senza il corpo. Si può fare, ma non sappiamo ancora farlo. Si può fare, ma ancora non lo abbiamo fatto. Le nostre verità hanno una prossemica. Sappiamo giudicare abbastanza esattamente se una persona mente o no, quando l’abbiamo davanti, fisicamente. La nostra razionalità ha la nostra età, ma il nostro istinto è più vecchio, ha l’età della nostra specie, dunque è più veloce. Un ragionamento talmente veloce che lo chiamiamo istinto. Mi guardo parlare nello schermo e penso che la matematica sia l’unico linguaggio che conosco nel quale la verità non ha un corpo a sostenerla, sostentarla, incarnarla. Nella misura in cui la verità è una relazione, siamo sulla soglia, privi del corpo, privati degli altri sensi, di non poterla valutare. In una poesia di qualche anno fa, Patrizia Cavalli scriveva: “Io non mi fido di chi non ha l’olfatto”1. Privata dei sensi, tranne vista e udito, senza odorato, gusto e tatto, mi spavento, penso di non capire e forse non capisco.

Ascolto il sostantivo “modello” affiancato all’aggettivo “matematico” e penso a chi, da Pitagora in avanti, talvolta spaventandosi, ha cercato di comprendere il mondo attraverso i simboli e ha intuito che è il principio di causa-effetto ad averci fatto evolvere, e non l’evoluzione che ci ha imposto di pensare in termini di causa-effetto. A un certo punto della voce relativa su Wikipedia leggo: “Spesso il modello è una rappresentazione della realtà non perfetta, ma comunque fedele”2. E mi chiedo quali sono, se esistono, le rappresentazioni perfette. Mi osservo nello schermo, in una riunione Zoom e penso “non perfetta, ma fedele”. Perfetto si usa per i corpi, fedele per le relazioni o per le idee. La perfezione non è una relazione, la fedeltà sì. Mi guardo e penso che vorrei essere fedele. Solo che per essere fedeli ci vuole memoria. Le immagini che passano veloci e compresse da un dispositivo all’altro non possono essere fedeli. Tecnicamente. La nostra rappresentazione è una impressione e niente altro. Il mondo è l’insieme dei fatti e delle sue impressioni, questo vorrei dire a Wittgenstein, sperando mi smentisca. MODEL LO

Non penso che il virus si combatta con i libri, ma so che Primo Levi ha raccontato nella Tregua di essere sopravvissuto alla disumanizzazione grazie ai gesti della vita di prima, come lavarsi e farsi la barba, pur avendo a disposizione

P R IMO L E VI

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solo acqua sporca. Io credo a Primo Levi. Così, come quasi tutti, ho accettato di seguire le regole diffuse da medici e ricercatori per evitare il contagio e rallentarlo. Nei libri non c’è la soluzione ma ci sono altri modi di vita, nel tempo e nello spazio. E pensare che il proprio modo di vita e di consumo non sia l’unico è un principio di soluzione. Nei modelli matematici di diffusione delle epidemie e, in generale quando si parla di soluzione, si valutano le condizioni al contorno. La soluzione non esiste in sé, dipende dalle condizioni al contorno. La soluzione dunque, anche in matematica, è relazionale. In base a certe caratteristiche, una stessa equazione può ammettere o non ammettere soluzione. Primo Levi ha raccontato com’è sopravvissuto, praticamente ed emotivamente, a un flagello esterno grazie anche a una prassi. Ebbe fortuna, ma aveva una prassi. Così mi lavo le mani, di continuo. Anche se dopo un anno e mezzo mi sento Lady Macbeth. Nel caso della signora, il lavarsi le mani era indotto da una indelebile macchia di sangue dovuta a una indelebile colpa. E nel mio caso? Sono una donna occidentale bianca nata alla fine degli anni Settanta del Novecento. Probabilmente, dal punto di vista sociale, assomiglio più ai nonni che ai genitori. Nati all’inizio degli anni Cinquanta del Novecento, i miei genitori hanno fatto parte della generazione che ha lottato e ottenuto divorzio, assistenza sanitaria e ammortizzatori sociali. Io lavoro a partita iva e ho il minimo di tutto ciò, quando ce l’ho. Per me la parola “ferie” e la parola “tredicesima” sono come la domanda che Lady Violet pronuncia in Downtown Abbey: “What is a weekend?”. Il virus si è diffuso anche per carenze relazionali, democratiche, di giustizia sanitaria ed equità sociale. “Esiste nell’aiutare gli altri una vaga passione omicida che è difficile contenere in un sentimento meno sanguinario”3. Lo Stato ci aiuta, ci sgrava fiscalmente. Io aiuto, noi aiutiamo. Non potendo liberarci degli altri, vettori di infezione, li aiutiamo. Gli altri, non potendosi liberare di noi, vettori di infezione, ci aiutano. F LEU R JA E G GY

A fine maggio, in una casa che affaccia su una piazza senza alberi, nonostante si vedano da una finestra i platani che inverdiscono gli argini del Tevere, mi manca qualcosa. Mi manca il verde. Il prezzemolo appassisce nei bicchieri con l’acqua, il basilico pure, la menta sopravvive. Così, appena è possibile uscire, la mia compagna e io andiamo al vivaio. Dietro il muro di kenzie e ficus scorgiamo una pianta che sembra un papiro. Penso ai rotoli egizi e sorrido. Il papiro non solo è verde ma mi ricorda qualcosa, rinverdisce stanze e memoria. Ci avviciniamo, non è un papiro, è una palma. Mi informo, digito, ne trovo la rappresentazione – l’impressione. Una palma vittoriana. Da salotto. PA R LO U R PA L M

SA K E M U LE Non potendo uscire, ogni sera, la mia compagna e io cuciniamo cibi di un Paese diverso. Per lei è un’avventura, non ha mai cucinato. È l’unica persona che conosco a cui piace mangiare e a cui difetta la curiosità per le preparazioni. La cucina la annoia, la annoiava anzi. Cominciando a cucinare riconosce eccessi mitologici, vanterie. Una sera, mentre siamo in Messico, Marcella prepara i Margarita seguendo le proporzioni di Carlos Herrera (½ tequila, ¼ triple sec, ¼ succo di lime) e shakerando il tutto. Assaggia e le si illuminano gli occhi. Protesta contro chi si vantava di fare il migliore Margarita di Roma, forse d’Europa, forse del mondo. Forse anche di Marte dopo The Martian di Ridley Scott. Io mi ricordo di Albert Speer, l’architetto del Reich, chiuso nel carcere di Spandau a Berlino. Quando sono andati a prenderlo per il processo, l’hanno trovato a Cordova. Speer, ogni giorno, nella sua ora d’aria, sceglieva la pianta di una città e la riduceva alle misure del cortile nel quale gli era consentito camminare. Noi facciamo così in cucina. Ci abituiamo. Nonostante a settembre 2020 tutto sembri più aperto, e lo sia, continuo a muovermi come fossi in casa, davanti allo schermo. Riscalo tutto. Faccio insomma il contrario di Speer e non mi sento un essere umano migliore.

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Con il primo caldo tornano le formiche. Le seguo lungo i muri di casa. Anche i ragni. La pianta ha cambiato il microclima. La parlour palm, una palma di relazione. Ci sono più insetti. Anche nella madia, le farfalle del riso e della pasta paiono più allegre. Un giorno, da una zanzariera strappata entra una vespa lunga una falangina più una falangetta del dito indice della mia mano destra. Lo scopro poggiando la mano sul davanzale dove arranca. Il gatto si tiene lontano. Mi sovvengono gli studi di Giorgio Vallortigara sulle vespe, capaci di riconoscere i volti delle altre vespe. Riconoscere un volto ha a che fare con la coscienza, questo capisco. Vado in cucina, prendo un bicchiere, torno e ci chiudo sotto la vespa. La osservo nella sua teca di vetro. Non conosco il funzionamento dei suoi occhi ma so delle aberrazioni dei miei, aggravate da lunghe settimane senza orizzonte. Resto ferma, vorrei imparasse il mio volto. Il gatto rimane lontano. Ho più neuroni della vespa, dunque posso conservare più informazioni. Significa che spostandomi dal centro, da questo centro dal quale il virus irradia, da questo umanesimo deleterio, posso ricordare il volto della vespa. E se posso, voglio. Non voglio come una prepotenza, vorrei come una preghiera. FO RMICH E

P LAST I CA Il 18 aprile sul “Marine Pollution Bulletin” leggo cosa accade quando la plastica finisce negli oceani. Cosa vuoi che faccia la plastica? mi domando. La plastica galleggia, totalmente o parzialmente. Immagino un volume archimedeo di plastica, che prima somiglia a un esperimento da laboratorio di fisica, poi, piano piano si sfalda in microplastiche, infine viene mangiata dai pesci. Ogni tanto, quando cucino il pesce al forno, sento odore di plastica bruciata e mi preoccupo. Ma poi penso che “microplastica” non è un modo di dire, indica una unità di misura. Dalla Conferenza generale dei pesi e delle misure del 1960, “micro” indica, nel Sistema internazionale, un milionesimo di parte, 10–6. 10–6 è molto piccolo, perciò è irragionevole che riesca a vederlo o a sentirne l’odore. Preferisco pensare che il pesce nel forno non abbia ingoiato la microplastica. Ryota Nakajima, ricercatore di biologia marina della Japan Agency for Marine-Earth Science and Technology, ha valutato che nei mari finiscono ogni anno più di dieci milioni di tonnellate di plastica, e la plastica che galleggia è solo una piccola percentuale di quella sommersa. Dieci milioni di tonnellate. Una tonnellata è 1000 kg, 103, dieci milioni di tonnellate sono 10 per 106 per 103 kg, cioè 10 gigagrammi. Non so immaginarmi la quantità, così penso alla memoria del mio telefono, 128 gigabyte. Mi pare innocuo, ma non riesco a ingannarmi. Improvvisamente penso agli iceberg, la cui superficie emersa è una piccolissima percentuale di quella sott’acqua e capisco che la natura trasforma tutto in se stessa. La plastica si comporta come gli iceberg. La natura disantropizza i prodotti dell’antropizzazione, li inserisce in un ciclo più ampio, se ne appropria. Polvere alla polvere, plastica all’iceberg. Sandra Savaglio, astrofisica, alla mia domanda sull’ossessione di trovare nell’universo forme di vita simile alla nostra, ha risposto che finora non ne abbiamo trovate perché è possibile che, proprio come noi, esse sviluppino la pulsione di morte prima della capacità tecnica e culturale di mandare messaggi nell’universo. Sia micro che giga sono unità di misura inserite nel Sistema internazionale nel 1960, esistevano, ma non erano standardizzate – fino a lì, immagino, per descrivere il mondo erano sufficienti millimetri e milioni. Poi tutto si è fatto più grande e più piccolo. E adesso siamo ancora qui. Dove? Nella natura umana.

Chiara Valerio (Scauri, 1978) è una scrittrice, curatrice editoriale e conduttrice radiofonica. Ha scritto romanzi, racconti, saggi e testi di critica letteraria e tradotto Virginia Woolf. Collabora con “la Repubblica”, “L’Espresso” e “Vanity Fair”, su Rai Radio 3 collabora con il programma Ad alta voce e conduce, settimanalmente, L’isola deserta. Dal 2017 è responsabile della narrativa italiana per Marsilio Editori. Ha un dottorato in matematica, e il suo ultimo libro si intitola La matematica è politica (2020). I suoi libri sono pubblicati da Einaudi. 1 2 3

Patrizia Cavalli, La patria, Roma, nottetempo, 2011. Cfr. https://it.wikipedia.org/wiki/ Modello_matematico. Fleur Jaeggy, Le statue d’acqua, Milano, Adelphi, 1980.

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I L LU NG O V I AG G IO DE L L A S IG NOR I NA C L A R A (monologo quasi teatrale di un rinoceronte in cattività) Igiaba Scego

Ho scoperto la storia di Clara al museo Ca’ Rezzonico di Venezia, dedicato al Settecento veneziano. Mi trovavo lì per lavorare a un progetto sul ghetto ebraico della città curato dal professor Shaul Bassi dell’Università Ca’ Foscari e da Beit Venezia. Il progetto, “Re-Imagining the Ghetto”, spingeva artisti di tutto il mondo a ragionare sul ghetto veneziano, luogo di reclusione degli ebrei, come spazio del contemporaneo. Il ghetto è stato prigione, ma è stato anche luogo di culture che si sono incontrate e hanno fatto fiorire arte, pensiero, creatività. “Ghetto” poi è una parola che da Venezia è partita per indicare altri spazi di reclusione (i ghetti slum di Nairobi, i ghetti di Los Angeles, il ghetto di Varsavia), dove però, proprio a causa della chiusura, diventavano spazi in cui il margine si faceva mondo, arte, vita, resistenza, martirio. Io ero una tra le artiste e gli artisti chiamati a ragionare sul ghetto. E quando a Ca’ Rezzonico ho visto il dipinto di Pietro Longhi con le maschere e al centro il rinoceronte, ovvero la nostra Clara, ho pensato di parlare del corpo che si fa ghetto. Clara dono coloniale, imprigionata, che io, figlia di rifugiati, volevo liberare con l’arte. Ho prodotto un libro per bambini su Clara. Ma la mia ossessione per lei era ancora troppo forte. Ed è nato in modo molto naturale un monologo per il pubblico adulto (qui presentato nella sua forma ridotta), un work in progress che chissà dove mi porterà, dove Clara parla della sua disgraziata condizione di prigioniera e di come il colonialismo ha agito sul pianeta – e sta agendo attraverso il neocolonialismo – con le sue modalità tossiche. Per me Clara è una vittima di un sistema che odia il nostro pianeta.

Pietro Longhi, Il rinoceronte, 1751 © Archivio Fotografico – Fondazione Musei Civici di Venezia

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L’ospite più atteso del Carnevale di Venezia del 1751 si chiamava Clara. Era un rinoceronte indiano. Rhinoceros unicornis. Una femmina.

Ora sono gigantesca. Ora sono enorme. Piena di lardo. Ora sono un rinoceronte adulto – quasi adulto – e rompo le porcellane con i garofani. Il servizio preferito di Lord Sichterman.

Non dovevo crescere. Non dovevo crescere così tanto. Ieri ho rotto le porcellane di Lord Sichterman. Quelle con il garofano al centro. Garofani rossi. Mi piacciono i garofani. Anche se non li ho mai visti dal vivo. Devono avere un buon profumo. Nel nostro giardino ci sono solo fiori di loto. Banali fiori di loto. Odore pungente. Quasi di ratto. Ma è un odore che alla fine non mi dispiace. Mi fa pensare a mia mamma. Ah la mia mamma… Ero piccola piccola quando la mamma è stata uccisa dai bracconieri.

L’ho sentito mentre diceva alla governante: “La bambina non può più stare con noi. Dobbiamo trovare un’altra casa alla cucciola”. Lui mi ha guardato con benevolenza. La sua solita benevolenza. Mi ha sorriso. Ma era un sorriso diverso dal solito. Sembrava un addio. Era un addio.

§ Lord Sichterman era un bell’uomo. Piaceva alle donne. Piaceva agli uomini. Tutti gli facevano grandi sorrisi e grandi inchini. Tutti avevano paura dei suoi occhi di ghiaccio. Tutti gli portavano rispetto. Era un uomo potente. Era il direttore della Compagnia olandese delle Indie orientali, distretto del Bengala. Comandava sui mari, sulle terre, sui venti. Dominava i sogni, i desideri, i piccoli capricci. Aveva amanti, schiavi, rubini, smeraldi. Aveva denaro e palazzi. Aveva le stelle, la luna, ed era suo (solamente suo!) il primo raggio di sole del mattino. Il mio Lord Sichterman, lui aveva tutto, aveva anche me.

Mi aveva raccolto, amato, coccolato, viziato. Mi faceva mangiare dal suo piatto. Io lo leccavo con calma, quel meraviglioso piatto decorato. Volevo che quel momento non finisse mai. Annusavo i mobili, inalavo il fumo dei sigari, guardavo estasiata l’erba lussureggiante del giardino e poi gli alberi che con la loro maestosità sovrastavano la mia piccola figura. Piccola… Quando Lord Sichterman mi ha trovata ero davvero un batuffolo. Ed ero spaventata da morire. È stato lui a togliermi dalla casa di quel re cattivo che aveva ordinato ai bracconieri di uccidere la mia mamma.

Ricordo tutto… Ma fingo con me stessa di non ricordare. Ero sola quel giorno. Sola vicino al corpo caldo di colei che mi aveva messo al mondo. Ah mamma mi manchi tanto! La tua pelle ruvida odorava di fiume. E io odoravo ancora del tuo ventre. Ero piena di te e tu di me. Ma poi sono arrivati i bracconieri. Ti hanno uccisa. Ti hanno seviziata. Il tuo corpo trafitto da frecce avvelenate. Ricordo poco di quel maledetto giorno. Ricordo che ti hanno allontanata da me. Ti hanno trascinato per una zampa. Grondavi sangue mamma. Grondavi paura. I tuoi occhi sbarrati me li porto ancora dentro. Eri bella mamma.

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Piaghe blu che stentavano a cicatrizzarsi. “La regaleremo questa qua”, disse sprezzante. “Sarà fatto”, risposero in coro i lacchè. Quando è apparso Lord Sichterman con la sua parrucca barocca e il suo gilet color cielo ho capito di aver trovato una nuova mamma, una specie di futuro. E mi sono accontentata.

Eri la mia mamma. Eri tutto per me. Odoravo del tuo ventre. Ero piena di te e tu di me. Fu allora che gli assassini, i tuoi assassini mamma, mi hanno presa e portata dal loro re. Aveva la faccia piena di piaghe il re. §

Mi impongo di dimenticare la mia mamma. Lei non esiste più e anche il suo ventre mi sembra la casa appartenuta a un altro. Siccome non ricordo, non voglio ricordare, non so dire cosa ho fatto dopo che me l’hanno ammazzata. Forse mi sono nascosta. O forse Lord Sichterman mi ha trovata subito e mi ha salvata. No il Lord è arrivato dopo… prima ci sono state le mani sudicie dei lacchè del re. Le mani che mi hanno strappato alla mia mamma.

E tutto il dolore. Le avranno strappato subito il corno? Ci cacciano per quel maledetto corno. Dice la leggenda, quella stupida leggenda, che il corno accresca la virilità dei maschi umani. Ci uccidono solo per scopare un po’ più a lungo. Per non fare brutta figura. Insomma ci uccidono per niente.

Tutto è così confuso in me. Mamma però non ha gridato. È morta in silenzio. Di questo sono sicura. Quel silenzio era così assordante. Rumoroso. In quel silenzio era racchiusa tutta la rabbia che non vedevamo. Tutta la rabbia di mia madre. §

Lord Sichterman, la mia nuova mamma, abitava in un sontuoso palazzo a Chinsurah. Eravamo l’India delle meraviglie. L’India scrigno d’oro del mondo. Intorno a noi ricchezze a profusione. Il sale, le spezie, il salnitro, l’indaco, la seta. E poi quella mussola così fine che mai potrei dimenticare. Lord Sichterman diceva che le donne in Olanda, la sua natia Olanda, andavano pazze per la mussola di Chinsurah. Era così morbida quando si mischiava ai loro piccoli sogni e ai gemiti sottili della biancheria da letto. Così candida la nostra mussola che spesso si confondeva con il latte che Lord Sichterman sorseggiava avido a colazione. E anche Chinsurah era un po’ come la mussola. Era lieve, quasi una nuvola. Io ci stavo bene a Chinsurah. Lord Sichterman, ricordo, mi ha sempre permesso di dormire dentro casa. Ero una della famiglia. Ero anch’io a mio modo una Sichterman… una Sichterman di Groninga, la città più importante dell’Olanda settentrionale. § “Mangi quanto un esercito, cucciola!”, mi diceva il buon Lord. “Sei un salasso, mio bel rinoceronte!”. Io ci vedevo sempre meno. Ero sempre stata miope, come ogni esemplare della mia specie.

Gli occhi erano da tempo scivolati dentro le pieghe della mia pelle ruvida. Persi dentro tonnellate di carne e sangue. Mettevo a fuoco con lentezza il mondo intorno a me. Mi muovevo anche con lentezza.

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Non volevo crescere. Non volevo diventare grande. Ma a ogni minuto il mio corpo si riempiva di nuova linfa e nuova carne. Ero piena di me. Troppo piena. La stanza non mi conteneva più. I miei giorni a Chinsurah stavano volgendo al termine.

Invece il mondo correva. Correvano gli schiavi, i bambini, persino le lente formiche correvano più di me. Era così frustrante essere così lenti in mezzo a tutta quella velocità. Cominciai a odiare il mio corpo. La mia stazza. Il tempo che ci metteva a percorrere un corridoio. §

Voglio essere olandese. Voglio essere come Jan Albert Sichterman, olandese purosangue. Olandese fin dai talloni. Ma sono un rinoceronte, la mia stazza va contro il mio desiderio. Da una settimana il buon Lord non mi accarezza più. Quasi non mi guarda. Ieri ho sentito mentre confabulava con la governante. Diceva: “Verranno a prenderla”. Vedete? La condanna è stata emessa. Il boia è già per strada.

Sogno in olandese. #######Ogni notte. #####A volte anche di giorno. Ad occhi aperti. Ad occhi chiusi. Ho sognato sempre in olandese. Questo fa di me una di loro? Non so rispondere. Tiro fuori la lingua. È spessa. Spugnosa. La guardo. Inorridisco. La mia lingua è opaca. La mia lingua è indiana. Troppo indiana. Non voglio essere indiana. Non voglio. §

Lord Sichterman non lo sa. Lui non sa che parlo olandese. Lui vede l’indiana, la selvaggia, la suddita. Lo vedo dal suo sguardo che si è stancato di me. Stancato di avere un’indiana dentro casa. § Mi ha venduta. Il mio Lord mi ha venduta. Alla fine quello che più temevo è successo. § Il mio nuovo padrone odora di pesce. Anch’io odoro di pesce. Tre uomini ogni giorno mi ungono di uno strano olio pastoso che dà sollievo ai miei tormenti. I primi due giorni su questa nave sono stati orribili. Non ho mangiato quasi niente. Il nuovo padrone mi ha fatto mandare pagnotte e fieno. Ma io quasi non ho toccato cibo. Non voglio andare in Europa. Fatemi scendere da questa nave, da questa prigione, da questo ghetto galleggiante. Ho fame ora. La nostalgia fa venire fame. Vorrei avvicinarmi alle pagnotte, al fieno. Ma lo stomaco brontola. La testa gira. Mi sento leggera e pesante allo stesso tempo. La corazza che mi riveste si sta squarciando.

“Voglio che arrivi viva in Europa!”, ha gridato il Capitano infuriato. “Se muore vi riterrò personalmente responsabili e pagherete caro l’affronto”. Gli uomini hanno cominciato a sudare, a tremare. “Messere io avrei un’idea”, disse uno di loro, il più basso, capelli color sabbia. “Sputa il rospo, bestia”, replicò il Capitano. “Dovremmo darle un po’ di birra, fa passare il mal di mare… con me la birra ha funzionato la prima volta”. “Birra? A un rinoceronte?”, replicò perplesso il Capitano. Ma volle lo stesso, nonostante i dubbi, dare ascolto al ragazzo… perché di ragazzo si trattava.

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Fu così che fui iniziata alla birra. Mi piacque. E cominciai, ubriacandomi, la mia nuova vita. § L’Europa è fredda. Piove sempre. Io tremo. Per non pensare al freddo mangio. Fieno, pagnotte, bucce d’arancia, erba. E poi barili d’acqua a più non posso. La gola arde. Quando l’acqua non mi basta tracanno birra e mi stordisco. Faccio le bizze se non mi danno la birra. Agito la testa. Grugnisco come i vili maiali. E birra mi danno. In grande quantità. § più a starmene qui fermo. Sono due anni che sto fermo. Già due anni da quando sono tornato dall’India con la bestia. Mi manca il mare. Il profondo blu del mare”. “Davvero Amsterdam non la trattiene più?”. “No, non mi trattiene, non mi ha mai trattenuto. È una tomba Amsterdam. Una tomba per le mie ambizioni”. “Ma il rinoceronte… come farà?”. “Ho un piano”, disse ridendo il Capitano. Era una risata spaventosa. “Questa bestiaccia mi renderà ricco più di Creso”, aggiunse, “siamo rimasti fermi troppo a lungo. È giunta l’ora di muoversi, di raccogliere i sesterzi”.

Il Capitano viene raramente a trovarmi. A lui non piaccio. Non crede che io sia buona. Ogni tanto viene il signor veterinario. Tutti gli fanno grandi sorrisi e salamelecchi. Soprattutto il Capitano lo tiene in grande considerazione. Ieri gli ho sentito dire: “Allora la nostra bestia sarà in grado di viaggiare?”. “E, di grazia, dove la vuole portare ?”, chiese perplesso il signor veterinario. “In giro per il mondo la voglio portare. A Parigi. A Venezia. Dal papa, nella nebbiosa Inghilterra”. “Lei è matto o cosa?”. “Forse sarò matto… ma non ce la faccio §

Sono confusa. Stordita. Dove sono? Sono ad Hannover? A Vienna? A Monaco? A Francoforte? Ditemi dove sono. § Ogni città mi sembra uguale. La gente urla. Quando mi vede urla. “Eccolo”, e mi indicano. Usano sempre il maschile. Non lo sanno che sono una femmina? La mia corazza non ama il freddo. E si spacca. Si spacca tutta. Mi guardo intorno. Vedo solo pini e sentieri di pietra.

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Mi portano su un carro. Sono trainata da cavalli e muli. A ogni stazione di sosta i cavalli e i muli sono sostituiti da altri più freschi. Peso. Loro più di tanto non mi possono tirare. A volte anche gli uomini aiutano gli animali. Sudano tutti. Puzzano. Mi stordiscono con i loro odori caserecci. Invidio i cavalli. Nonostante la fatica amoreggiano tra di loro e si scambiano sguardi di intesa. Sono tra simili. Si capiscono. Io invece sono sola su un carro pieno di fieno e di merda, la mia, quella dei cavalli, degli umani. Oltre alla mia povera mamma, non ho mai visto un mio simile in questa vita. Non ho amici con il mio volto. Non avrò nessun amore. § Ora sono in Francia. Ed è venuto il re con il suo codazzo di leccapiedi. È venuto da me il re in persona a omaggiarmi. Dovrei essere contenta. Ma non lo sono. Il re di Francia mi è indifferente. Ma lui invece è seriamente interessato al mio grosso corpo. Sembra uno sposo. Non ha badato a spese, il re di Francia, per vedermi. Non badano mai a spese questi nobilastri. Pagano al Capitano tutto quello che lui chiede. E lui chiede, chiede… Sempre di più chiede… Volete il rinoceronte? Allora mettete mano al borsello. E tutti, ricchi e poveri, ognuno come può, tira fuori chi una moneta di rame, chi d’argento, chi di stoffa, chi la fica. Federico II di Prussia ha sborsato 12 ducati, ben 12 ducati, per stare una mezz’ora con me. E il giorno dopo ha avuto ancora voglia. Ancora bisogno. Ma ha detto al Capitano: “Non le darò più di 6 ducati. Sono generoso solo una volta a settimana”. Il re aveva una lunga parrucca bianca, le gambe arcuate e il ventre molle. Aveva uno sguardo di ferro che mi ha messo un po’ di paura. Si è guardato intorno per un po’, e con un certo disgusto ha chiesto: “E questa roba cos’è?”. “Caga molto, Clara”, gli ha detto il Capitano. “Si chiama Clara?”. Era veramente stupito. Il mio nome gli sarà sembrato parecchio bizzarro. “L’ha chiamata così un gruppo di giovinastri prussiani e da allora le è rimasto appiccicato, sono cose che capitano”.

“Non è un brutto nome, però francamente un po’ ridicolo per un rinoceronte, non trova?”, e poi ha riso. Da solo. Per ore. Io lo facevo ridere. La mia stazza. Il mio nome minuto. “Caga molto, Clara?”, ha infine chiesto dopo che la marea di risate era cessata. “Discretamente. Si difende, la fanciulla”. E giù altre risate. “Però è bellina”, e si è avvicinato a me. “Stia attento, sire”, disse allarmato qualcuno alle sue spalle. Ma Luigi XV era troppo preso da me. “La voglio toccare. Voglio toccarle il corno. Capitano mi aiuti, di grazia. Si sbrighi”. E quando mi toccò lo vidi vibrare come la corda di un’arpa. Era teso. Emozionato. Divertito. “È bella Clara. Molto bella”. E poi rivolgendosi ai suoi lacchè, “non trovate che Clara sia bella, splendente, un raggio di sole?”. La corte annuì, sorpresa. “La voglio Capitano, a quanto me la fa?”. “Non è in vendita”. “Sono il re di Francia e la voglio! Mi dica la cifra e gliela darò seduta stante!”. “Le ho detto che Clara non è in vendita”. Perché il Capitano non mi voleva vendere? Perché così tanta resistenza? “Non mi faccia perdere la pazienza, Signor Capitano”. “E va bene sire, voglio 100.000 scudi, né uno scudo di meno né uno di più. Cifra tonda. E direi onesta per un rinoceronte di tal fatta”. “Ma nessuno, nemmeno io che sono il re di Francia possiede una tale cifra”. “Questa è la cifra sire. Prendere o lasciare”. Mi lasciò con rammarico. Il re di Francia… il mio sposo.

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§ In Francia non ho mai respirato. Ero diventata un oggetto di moda in Francia. Ed ecco che sono stata trasformata in portagioie, orologi, parrucche. Sì, persino parrucche! I francesi ci tengono alla moda. Almeno quelli ricchi. Ma io l’ho vista dal mio carretto, la miseria che c’è in Francia. Il potere è in mano a poche persone. Il resto del popolo muore di fame. Sono magri, stanchi, arrabbiati. Scheletri che vagano per Parigi in cerca di dignità e di un tozzo di pane. Il popolo ha fame, in Francia. Il popolo un giorno si arrabbierà. Ah quanto vorrei arrabbiarmi pure io. § Dicono che Venezia sia bella. Ma io non ho visto ancora nulla. Nemmeno la laguna, ho visto. § Il Capitano è sempre ubriaco ormai. Per reggere le tappe di questo viaggio forzato deve bere molto. Così dimentica la stanchezza. Non mi sopporta quasi più. Ogni volta che può mi insulta. Mi chiama bagascia o bestiaccia. Se non fossi il suo investimento mi picchierebbe brutalmente, mi ucciderebbe forse. Per sfogarsi malmena i servi. Sono sempre diversi i servi. Non sono mai gli stessi. È difficile seguire questa carovana di dolore. § La ragazza veneziana si è tolta la maschera. “Ciao”, mi ha detto. Mi ha sorriso. Mi ha accarezzato tutta. “Che bella che sei. Lo sapevo che eri bella da togliere il fiato”. Bella io? Lei era bella. Aveva capelli di seta e guance rotonde. Gli occhi profondi e una voce che mi ricordava Chinsurah. “Sono scappata di casa”, mi ha detto. “Scappata dal ghetto”. E poi ha cominciato a ridere. “Tanto non si accorgeranno di niente. Tornerò in tempo. L’importante è non farsi scoprire dai cristiani… dai veneziani”. Il viso si rabbuiò un attimo al pensiero di essere scoperta. Ma poi una letizia naturale la rianimò. “Sai, è la prima volta che vengo a Venezia”, mi ha detto. “Anch’io”, volevo farle eco. Ma non sapevo parlare la sua lingua. Mi limitai a guardarla, placida e in attesa. “Da noi al ghetto ebraico Venezia non si vede

per niente. I palazzi sono troppo alti, coprono la visuale”. Venezia… Deve essere bella Venezia. Che peccato non vederla. Il mio unico piacere ormai è guardare le città, così do un senso a questo mio peregrinare senza fine. Ed ecco che il gotico di Lipsia si mischia con le parrucche di Parigi, il Colosseo di Roma con i presepi viventi di Napoli. Mi annoto nella testa tutti i dettagli, le spigolature, le sfumature. Ogni città ha un odore. Roma puzza di bruciato, Parigi invece di piscio, mentre Napoli è una rosa rossa che profuma di mare. Invece Venezia ha lo stesso odore di questa ragazza. Odore di zafferano. Odore di sogno. Sarà per i capelli suoi biondi. Sarà per la sua risata. “Povero animale…”, ha esclamato affranta. “Ma tu stai male? Cosa ti è successo al naso?”. Ha visto il pus, l’assenza del corno. “Ma qui c’è dell’acqua, che fortuna!”. E in un attimo si è tolta la sottana e ha cominciato a pulirmi.

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“Che cattiva gente a lasciarti così”. Poi si è accucciata accanto a me, come un cucciolo con la sua mamma. “Anche tu, vecchia mia, non hai mai visto Venezia”. Usava un tono colloquiale che quasi mai nessuno ha utilizzato con me. Io sono solo una macchina per fare soldi. Sono solo sesterzi per quel lurido Capitano. E gli altri, tutti gli altri, o mi deridono o mi guardano con eccessiva meraviglia. Nessuno entra in contatto con i miei occhi. Con i miei desideri. Mi hanno tolto dalla mia terra senza darmene un’altra. Ma questa ragazza è diversa, per lei conto qualcosa. Mi tratta come una sua vecchia amica.

“Allora te la racconto io Venezia. Tu chiudi gli occhi”. E in un salto, la sua mano mi ha coperto gli occhi. “Venezia si può vedere anche in sogno”, mi ha detto. “Io nel ghetto, lì dove hanno rinchiuso tutti noi ebrei, la vedo ogni volta che voglio Venezia. Basta chiudere gli occhi. Ti insegno io come si fa”. Davvero mi insegnerà a sognare? “Sarà facile vecchia mia. Basta crederci”. E per un attimo anch’io sono stata felice. Ho chiuso gli occhi e sono tornata a Chinsurah.

Clara muore a Londra nel 1758. Aveva solo vent’anni. Muore giovane. La durata media della vita di un rinoceronte è di circa cinquant’anni. Igiaba Scego è una scrittrice e ricercatrice freelance nata a Roma nel 1974. Figlia di genitori somali in fuga dal regime dittatoriale di Siad Barre, si è sempre occupata di colonialismo e postcolonialismo. I suoi libri includono i romanzi Oltre Babilonia (Donzelli, 2008) e Adua (Giunti, 2015); il libro di memorie La mia casa è dove sono (Rizzoli, 2010), vincitore del Premio Mondello; il saggio Roma Negata (Ediesse, 2014) e il libro per bambini Prestami le ali. Storia di Clara la rinoceronte (Rrose Sélavy, 2017). Il suo ultimo romanzo, La linea del colore (Bompiani), vincitore del Premio Napoli, è uscito nel 2020. Nel 2021 le è stato conferito il Premio letterario Matilde Serao del “Mattino” e il Premio internazionale Viareggio Rèpaci.

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Diego Marcon, The Parents’ Room (still), 2021. Film 35mm, animazione CGI, colore, suono, 6 min 53 sec (in loop). Courtesy l’Artista; Fondazione Donnaregina per le arti contemporanee, Napoli

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D I E G O M A RC ON

1985, Busto Arsizio, Italia Vive a Milano, Italia

L’ultimo film/opera video di Diego Marcon The Parents’ Room (2021) si sviluppa in un loop i cui momenti iniziale e finale sono contrassegnati dall’immagine computerizzata di un merlo che atterra in picchiata su un davanzale innevato. Quando l’uccello inizia il proprio canto, la scena si sposta dalla finestra all’interno di una stanza dove un uomo è seduto sul bordo di un letto sfatto con una donna sdraiata accanto. Sulle note di un coro, l’uomo inizia un monologo che gravita attorno al racconto della propria furia omicida e suicida. Le vittime che fanno il proprio ingresso in scena, una dopo l’altra, sono la moglie, la figlia e il figlio. Attraverso la narrazione e numerose reiterazioni, l’elemento umano che emerge in quest’opera – un aspetto nel quale si potrebbe trovare conforto – è oscurato dall’ombra sinistra di ciò che appare come un agghiacciante aldilà. Marcon rivela un approccio estremamente meticoloso a tutti i livelli di produzione, che lui stesso arriva a definire quasi maniacale e compulsivo. Il film ricorda l’animazione stop-motion, tuttavia l’artista ottiene questo risultato con l’ausilio di attori reali, allontanandosi dall’effetto glitch per entrare nella sfera del realismo. Al fine di rendere più complessi i movimenti e l’aspetto dei suoi personaggi, Marcon ha minuziosamente realizzato le maschere sintetiche che gli interpreti indossano sulle parti scoperte del corpo, quasi fossero un secondo strato di pelle di consistenza gommosa, simile a quella delle bambole. Modellate sugli effettivi lineamenti degli attori, queste protesi diventano inquietanti sosia inanimati, al punto tale che sembra esserci qualcosa di straniante nelle figure animate, quasi fossero cadaveri più che esseri viventi. L’opera di Marcon si addentra nella “zona perturbante”, teorizzata dal pionieristico studioso di robotica Masahiro Mori, come una dimensione che emerge quando l’estremo realismo rappresentativo e l’antropomorfismo diventano improvvisamente sgradevoli, suscitando di conseguenza una reazione emotiva di repulsione e inquietudine. Questa sensazione è particolarmente caratteristica della robotica e dell’animazione. In molte delle sue opere video, come The Parents’ Room, Monelle (2017) e Ludwig (2018), Marcon canalizza la zona perturbante insieme a una certa verosimiglianza o a una sembianza di vivida realtà. Manipolando ogni elemento del set, dalle luci ai costumi, dal suono al copione, i personaggi di Marcon, sui quali i suoi film sono sempre incentrati, fanno accapponare la pelle allo spettatore, suscitando al contempo un senso di avversione e di inquietante familiarità. – IA

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Diego Marcon, The Parents’ Room (stills), 2021. Film 35mm, animazione CGI, colore, suono, 6 min 53 sec (in loop). Courtesy l’Artista; Fondazione Donnaregina per le arti contemporanee, Napoli

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RO B E RT G RO S V E N O R

1937, New York City, USA Vive a East Patchogue, USA

Sin dagli anni Sessanta Robert Grosvenor si dedica all’elaborazione di un linguaggio artistico eclettico, impiegando concetti architettonici e dinamiche spaziali nella realizzazione di sculture che trasmettono solenne austerità e ammiccante malizia. Le sue opere sono state incluse in mostre collettive fondamentali che hanno contribuito a canonizzare la scultura minimalista come Primary Structures, allestita nel 1966 presso il Jewish Museum di New York City, e Minimal Art, presso il Gemeentemuseum Den Haag a L’Aia, nel 1968; tuttavia, la sua pratica artistica si è presto discostata dal Minimalismo, resistendo a ogni tentativo di netta categorizzazione. Diversamente dagli artisti a lui contemporanei che teorizzano il ricorso a materiali e processi di fabbricazione industriale, Grosvenor si distingue per la scelta di realizzare con le proprie mani le sculture, anche quelle che appaiono prodotte industrialmente, partendo da materiali a basso costo. Di certo, l’approccio di questo artista è caratterizzato da un connubio di sensualità ed eccentricità che evoca le fantasie dell’era spaziale dei suoi esordi, ma anche un futuro più nebuloso. Untitled (1987–1988) è una struttura realizzata con lamiera ondulata, che si presenta come un guscio vuoto, una sorta di vestigio di un evento apocalittico. Costituita dalle fiancate del caravan in cui Grosvenor conserva gli attrezzi nel proprio studio, la scultura non ha copertura, né pianale, né ruote. Rappresentando un’architettura senza gli elementi necessari alla sua funzionalità, l’opera mette in scena un ambiente che appare immaginario pur occupando uno spazio fisico. Nelle opere più recenti, come Untitled (2018) e Block of Water (2019), Grosvenor prosegue la sua indagine sui sistemi costruiti, creando strutture misteriose che materializzano l’atto di trattenere, contenere o proteggere. Untitled, un container con le pareti interne rivestite d’oro, custodisce uno scooter di colore rosso, isolato e posto a distanza dall’osservatore. Block of Water è una piscina rettangolare improvvisata, fatta di blocchi di cemento e che, riempita d’acqua, funge da protezione, ma è tuttavia effimera. Pur sostenute da un’economia della forma, le opere di Grosvenor mantengono una distinta stranezza trovandosi a una peculiare distanza cognitiva dalle forme e dagli spazi cui somigliano. Non propriamente una piscina, né un capanno per gli attrezzi, né un’autorimessa, queste strutture rimodulano le aspettative rispetto alla percezione di un oggetto all’apparenza solido: sono un tranello per la mente. – MW

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Robert Grosvenor, Untitled, 1987–1988. Acciaio, plastica, 190,5 × 243,8 × 622,3 cm. Photo Rita Burmester. Courtesy l’Artista; Paula Cooper Gallery, New York; Fundação de Serralves, Porto. © Robert Grosvenor

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Robert Grosvenor, Untitled, 2018. Acciaio, legno, gomma, pittura murale dorata, 259,1 × 243,8 × 609,6 cm. Photo Steven Probert. Courtesy l’Artista; Paula Cooper Gallery, New York. © Robert Grosvenor Robert Grosvenor, Block of Water, 2019. 108 blocchi di cemento, rivestimento in gomma, acqua, 91,4 × 304,8 × 548,6 cm Courtesy l’Artista; Paula Cooper Gallery, New York; Karma, New York. © Robert Grosvenor

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P R E C I O U S O KOYO M O N

1993, Londra, UK Vive a New York City, USA

Precious Okoyomon – che pratica poesia, arte e cucina – realizza topografie scultoree composte di materiali vivi, in crescita, in decomposizione e morenti, tra cui terra, rocce, acqua, fiori selvatici, lumache e piante rampicanti. Il processo di trasformazione è messo in atto grazie a paesaggi in continuo mutamento ed è rappresentato anche attraverso le complesse risonanze culturali intrinseche negli elementi presi in prestito dalla natura, ambito che per Okoyomon è in sé imprescindibile dall’impronta storica della colonizzazione e della schiavitù. Per la mostra Earthseed al MUSEUM MMK FÜR MODERNE KUNST di Francoforte (2020), l’artista popola un’intera stanza con giovani piante rampicanti di kudzu – specie infestante la cui coltivazione è illegale nella maggior parte degli Stati Uniti –, che proliferano massivamente tra sculture a grandezza naturale fatte di lana grezza, filo e terra. Il kudzu è una pianta originaria del Giappone e di altre zone dell’Asia, introdotta per la prima volta dal governo degli Stati Uniti nelle fattorie del Mississippi nel 1876 e poi seminata diffusamente negli anni Trenta e Quaranta come metodo per contrastare l’erosione del suolo locale, che si era degradato a causa della coltivazione intensiva di cotone durante lo schiavismo. Diffusa in tutto il mondo, è tuttavia una specie infestante incontrollabile, capace di soffocare altre piante, nota come “il rampicante che mangiò il Sud”. Con la sua opera, Okoyomon rende più complessa la storia del kudzu, la cui eliminazione dagli Stati Uniti meridionali oggi potrebbe causare, all’opposto, un’erosione devastante. Per l’artista, la pianta diviene metafora dell’intrecciarsi di schiavitù, razzializzazione e diaspora con la natura, oltre che la materializzazione di ciò che consideriamo “infestante”, sebbene porti cambiamento e rivitalizzazione. Nell’opera per Il latte dei sogni, To See the Earth before the End of the World (2022), il cui titolo è tratto da una poesia di Ed Roberson, le sculture di Okoyomon sono disposte sullo sfondo di un campo di piante selvatiche; qui il kudzu riappare accanto a un intreccio di fiumi e canne da zucchero, queste ultime coltivate nell’orto della nonna dell’artista durante gli anni dell’adolescenza in Nigeria. Come il kudzu, anche la canna da zucchero è una pianta la cui stessa essenza è satura delle circostanze economiche e storiche legate alla tratta transatlantica degli schiavi. Seguendo l’esempio dell’opera teatrale Monsieur Toussaint di Edouard Glissant, la cui nativa Martinica era un tempo uno dei maggiori produttori di zucchero al mondo, in questa installazione Okoyomon intende invocare una politica di rivolta e rivoluzione ecologiche. – MW

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Questa pagina e successive: Precious Okoyomon, veduta della mostra, Earthseed, MUSEUM MMK FÜR MODERNE KUNST, Francoforte, 2020. Photo Axel Schneider. Courtesy l’Artista; MUSEUM MMK FÜR MODERNE KUNST; Quinn Harrelson Gallery

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GIULIA CENCI

1988, Cortona Vive a Cortona, Italia e Amsterdam, Paesi Bassi

Utilizzando oggetti quotidiani di recupero ed elementi modellati per comporre sculture e installazioni immersive, Giulia Cenci rende ibrido il naturale e il sintetico per esplorare i temi della tecnologia e della natura. Gli oggetti, fusi e rifusi in un processo alchemico, vengono aggregati in composizioni site-specific. I calchi di parti del corpo umano e animale, ottenuti con l’uso di manichini, vengono rimodellati in creature diverse, come lupi o cavalli, mentre altri elementi evocano frammenti di arti. Questi sono poi abbinati a fusioni di residui industriali in gomma e metallo – rottami meccanici provenienti da veicoli e impianti – che puntano il dito contro gli eccessi delle modalità di produzione del capitalismo. I materiali sono quindi rivestiti di componenti organici, come grafite, polvere di marmo e ceneri, a creare un effetto cartilagineo che rende visibile l’interno. Con la sovrapposizione di più livelli esterni, la stratificazione risultante richiama quella della pelle e del corpo umano. Derivati da strutture preesistenti, i vari componenti sono trasformati in masse organiche irriconoscibili, resi avulsi dalla loro funzione originaria, irriducibili alla serialità. In alcuni casi, le sculture sono collegate da cavi o steccature che creano linee di sospensione orizzontali e verticali. Smantellate per essere riassemblate, le sezioni riproducono le tensioni del corpo. All’interno dell’ammasso composito di frammenti fabbricati rimane un senso di incompletezza che implica la possibilità di aggiungere e sottrarre elementi: un vasto paesaggio con una latente capacità di metamorfosi. Rivestite di resine e materiali di colore grigio, le membra disarticolate trasmettono un senso di macabro, all’apparenza sottoposte a un processo di decomposizione, o come torturate e scuoiate. L’opera è intrisa di un’ambiguità temporale che mescola l’archeologia preumana con un luogo postumano di distruzione e costruzione. Nel creare oggetti complessi attraverso processi di trasformazione, frammentazione e ibridizzazione, Cenci genera un impulso verso la disgregazione e la disintegrazione delle distinzioni gerarchiche tra macchine, animali, piante, batteri ed esseri umani. L’opera di Cenci per Il latte dei sogni è un percorso che si estende per centocinquanta metri attraverso un ambiente realizzato con rottami di macchine per l’agricoltura industriale. L’armatura risultante è popolata di frammenti di corpi umani e animali, ciascuno fuso a partire dall’alluminio recuperato da componenti automobilistici, alcuni dei quali appaiono in più iterazioni. Mediante questa progressione spazializzata di figure chimeriche, Cenci esplora le condizioni che sottendono la produzione industriale degli alimenti e, quindi, la vita stessa. – LC

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Giulia Cenci, archipelago (dettaglio), 2018. Schiuma, gomma, ossa nere, dimensioni variabili. Photo Davide Battista. Courtesy l’Artista; INCURVA, Favignana (IT). © Giulia Cenci

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Giulia Cenci, lento-violento (defeated) (dettaglio), 2020. Metallo, acrilico, oggetti trovati, polvere dello studio, polvere di marmo, cenere vulcanica, cenere dalla stufa dell’artista, osso nero, 213 × 771 × 690 cm. MAXXI, Rome collection. Photo Giorgio Benni. Courtesy l’Artista; SpazioA, Pistoia; MAXXI, Roma. © Giulia Cenci Giulia Cenci, figura che divora sé stessa (dettaglio), 2021. Metallo, acrilico, polvere dallo studio, cenere dalla stufa dell’artista, 310 × 103 × 44 cm. Photo Serge Domingie. Courtesy l’Artista; SpazioA, Pistoia; Museo Novecento, Firenze. © Giulia Cenci

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V I RG I N I A OV E RT ON

1971, Nashville, USA Vive a New York City, USA

Virginia Overton è conosciuta per le sue installazioni scultoree sitespecific che esplorano il potenziale inespresso degli oggetti associati alla produzione industriale e infrastrutturale. La sua pratica non prevede distinzioni gerarchiche tra materiali, processi o luoghi. Overton ricontestualizza oggetti quotidiani, residuali o scartati per giungere a una trascendenza poetica attraverso la materia da cui derivano. Tra i materiali utilizzati spesso si trovano corda, pezzi di automobili, travi, lampade, legname, ceppi, cemento e gli annessi macchinari, come gru, pick-up e carriponte che li sollevano e li spostano. Accanto alle risorse di origine industriale, l’artista indaga le stratificazioni storiche di un luogo, integrandole con i materiali, spesso ottenendo un effetto fenomenologico effimero o lirico. I materiali scelti hanno sovente un comportamento performativo, modificando un luogo, ostruendo, bisezionando o amplificando le sue caratteristiche intrinseche. Cresciuta in una fattoria del Tennessee, Overton ha una grande dimestichezza con la coesistenza di natura e industria: sono interdipendenti e nessuna rivendica un valore maggiore, poiché ciascuna svolge un ruolo complementare all’interno di un rapporto simbiotico. Per Il latte dei sogni, l’artista presenta due sculture all’Arsenale, cuore dell’industria navale di Venezia sin dall’inizio del XII secolo, noto anche per la produzione di cordami. Da una gru in loco, Overton fa pendere una sfera che ricorda i galleggianti di vetro usati dai marinai per tenere a galla reti da pesca, palangari e palamiti, nei toni rosa brillante dei lampioni che si possono osservare a Venezia. Racchiusa in una rete annodata a mano che ricorda i metodi tradizionali di legatura dei galleggianti marittimi, la boa di Overton sale e scende con la marea, evidenziando la variabilità della laguna. Non lontano dalla boa ondeggiante, una seconda scultura comprende una costruzione di grandi dimensioni a forma di tulipano, in cemento, con aperture perforate. Tre segmenti incastrati in perpendicolare creano una struttura verticale punteggiata da “finestre” circolari in vetro rosa. Creati a partire da stampi preesistenti solitamente usati per tunnel architettonici, gli archi formano un’apertura triangolare volta al cielo. Ulteriori elementi modulari sono disposti verso l’acqua come petali battuti dal vento. Questi fungono da panchine, offrendo ai visitatori un momento di riposo tra le stratificazioni storiche – fisiche e psicologiche – dell’Arsenale. La scena scultorea interattiva di Overton trasforma l’uso convenzionale dei materiali, permettendo alle strutture di essere sperimentate in modo nuovo. – MW

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Virginia Overton, Untitled (Chime), 2021. Trave di acciaio, metallo misto, vernice, cavo d’acciaio, 320 × 167,6 × 45,7 cm. Photo The Ranch. Courtesy l’Artista; Bortolami; The Ranch, Montauk, NY. © Virginia Overton

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Pagina a fianco e questa pagina: Virginia Overton, Sculpture Garden, 2016. Sistemi di aerazione per mulini a vento in acciaio zincato verniciato a polvere, taniche in acciaio zincato verniciato, panche in legno, acqua, passacavi in gomma, tubo dell’aria in poliuretano, piante acquatiche, luci subacquee, dimensioni variabili. Veduta dell’installazione, Virginia Overton: Sculpture Gardens, Whitney Museum of American Art, New York City, 2016. Photo Ron Amstutz. Courtesy l’Artista; Whitney Museum of American Art, NY. © Virginia Overton

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WU TSANG

1982, Worcester, USA Vive a Zurigo, Svizzera

L’opera di Wu Tsang pone l’accento sulle intersezioni tra collaborazione, strategie performative, processi sperimentali, estetica e narrazione, ed è lo stato ibrido di tale approccio a formare il nucleo essenziale della sua pratica artistica. Nell’ultimo decennio, Tsang ha realizzato film, installazioni immersive e performance che affiorano da un linguaggio visivo che l’artista descrive come “intermezzo”, uno stato di inseparabilità e flusso non riducibile alle nozioni statiche di identità, esperienza o comprensione binaria. Questo rapporto è ampiamente evidenziato per mezzo di rappresentazioni formali e concettuali, come motivi compositivi che enfatizzano la stratificazione e lo sdoppiamento, la fusione dei generi del documentario e della fiction e l’abbinamento di performance e filmati, in una miscela di presenza dal vivo e immagini in movimento. Questa fluidità si manifesta anche nell’autorialità, spesso collaborativa, delle opere di Tsang. Frutto di partnership con personaggi impegnati nel campo dell’arte, della musica, della danza e della letteratura, come i performer del collettivo Moved by the Motion e il poeta e accademico Fred Moten, l’opera di Tsang evoca la capacità dell’arte di esprimere una molteplicità di voci, nonché le potenzialità radicali insite in concetti quotidiani come comunicazione, improvvisazione, partecipazione e gioco. Alla 59. Esposizione Internazionale d’Arte Tsang presenta Of Whales (2022), una videoinstallazione e audio multicanale basata sul proprio adattamento cinematografico del capolavoro di Herman Melville Moby Dick, nonché su ambienti oceanici psichedelici generati mediante tecnologie di realtà estesa (XR). Riproducendo il cupo surrealismo e l’oscura magia del classico del 1851, Of Whales rimette a fuoco le profonde meditazioni del materiale originale su temi quali conoscenza, narrazione, prospettiva, esotismo ed erotismo, adottando una lente postcoloniale e reinquadrando i personaggi centrali e la valenza storica del romanzo attraverso strategie cinematiche illusorie e metaforiche. Immaginata dal punto di vista della balena e dell’eterogenea ciurma di marinai a bordo della baleniera Pequod, quest’opera complessa colloca la narrazione di Melville nel contesto della storia marittima, nella nascita transatlantica del capitalismo moderno e nelle proteste di massa, tutti fenomeni che caratterizzarono la metà del XIX secolo. In questo quadro, l’immensità e il caos dell’oceano diventano il simbolo dell’ignoto; i riflessi, osservabili nell’installazione e in tutta Venezia, indicano la presenza di prospettive oblique e complicano l’idea che ogni punto di vista sia unico o inequivocabile. – MW

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Questa pagina e successive: Wu Tsang, Moby Dick (still), 2022. Film. Prodotto da Schauspielhaus Zürich. Courtesy l’Artista; Galerie Isabella Bortolozzi, Berlin; Cabinet Gallery, London; Antenna Space, Shanghai. © Ante Productions

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TOURMALINE

1983, Boston, USA Vive a New York City, USA

Tourmaline è un’attivista, scrittrice e regista la cui pratica artistica esamina la rimozione delle comunità nere, queer e trans dalla storia. Combinando narrazioni ammalianti, scenari onirici e una cinematografia lussureggiante, i suoi film riflettono sulle lacune della storia, tessendo i ritratti di icone queer, drag queen e attiviste e attivisti per i diritti civili di gay e trans, i cui contributi culturali sono troppo spesso appiattiti, patologizzati o del tutto trascurati. Nei suoi ritratti cinematografici sperimentali, figure come le attiviste per la liberazione omosessuale e i diritti dei transgender Miss Major Griffin-Gracy (The Personal Things, 2016), Marsha P. Johnson e Sylvia Rivera (Happy Birthday, Marsha!, 2018), nonché la leggendaria drag queen Egyptt LaBeija (Atlantic Is a Sea of Bones, 2017), prendono vita in narrazioni che giocano con le informazioni comunemente offerte dalla storia ufficiale o rinvenibili negli archivi. Sostenuto dalla studiosa Saidiya Hartman, questo approccio speculativo, da lei definito “fabulazione critica”, analizza le modalità di creazione della storia e la selezione dei soggetti da rimuovere dalla narrazione collettiva, usando contestazioni e controstorie per riflettere su “ciò che avrebbe potuto essere”. Tourmaline stessa descrive questa tattica come “attingere alla corrente di ciò che è già qui”. Mescolando fatti storici e immaginazione, Mary of Ill Fame (2020–2021) dà forma a una storia di fantasia incentrata sulla lavoratrice del sesso trans nera Mary Jones (interpretata da Rowin Amone). La donna, realmente esistita, era parte di una comunità di girls of ill fame (“ragazze di malaffare”) e, negli anni Trenta dell’Ottocento, fu rinchiusa nel carcere di Sing Sing a New York per aver rubato il portafoglio a un uomo. Riprendendo il cortometraggio del 2019 intitolato Salacia, Mary of Ill Fame immagina Mary Jones nel Seneca Village, una comunità newyorkese indipendente, formata da piccoli proprietari per lo più afroamericani liberi e immigrati irlandesi, che si trovava sul terreno oggi occupato da Central Park tra l’Ottantaduesima e l’Ottantanovesima strada e che fu espropriato e distrutto dall’amministrazione cittadina proprio per fare spazio al parco. Combinando immagini di Jones in brutale reclusione e nella sua graziosa casa nel Seneca Village, nella pittoresca scenografia dell’allora rurale fiume Hudson, Tourmaline costruisce, immaginandolo, lo spazio di potere, libertà e piacere che la vera Jones avrebbe meritato. – MW

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Tourmaline, Salacia (still), 2019. Video digitale trasferito da film 16mm, suono, 6 min 4 sec. Courtesy l’Artista; Chapter NY, New York Tourmaline, Mary of Ill Fame (still), 2020–2021. Film 16mm, suono, 17 min 14 sec. Courtesy l’Artista; Chapter NY, New York

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SIMNIKIWE BUHLUNGU

1995, Johannesburg Vive a Johannesburg, Sudafrica e Amsterdam, Paesi Bassi

Simnikiwe Buhlungu pone al centro della propria indagine la produzione della conoscenza, il modo in cui essa si diffonde e chi ne è l’artefice. Attraverso film, suono, installazioni e testi, Buhlungu impiega storie e fenomeni quotidiani per introdurre gli osservatori a considerazioni metaforiche e teoriche sui modi in cui conosciamo il mondo e vi esistiamo. Per l’installazione sonora What We Put in the Skafthini (2021), ad esempio, l’artista ha registrato su audiocassette le proprie osservazioni sullo skafthini – così è chiamato in Sudafrica il portapranzo simile a un contenitore ermetico in plastica –, descrivendolo come un “corpo di archiviazione per l’avvenire”, un oggetto che ingloba tanto un desiderio futuro, quanto uno scopo utilitaristico. La recente opera video intitolata My Dear Kite (You Can But You Can’t) – Late Yawnings 01h43 (2020) segue da vicino il volteggiare di un aquilone bianco accompagnato dall’ipnotica voce narrante di Buhlungu, che immagina di farlo volare mentre si trova nel proprio studio ad Amsterdam durante il primo lockdown per Covid-19, nel 2020. Per Il latte dei sogni, Buhlungu realizza And the Other Thing I Was Saying Was: A Conver-Something (2022), un’installazione costituita da theremin (sintetizzatori elettronici analogici) che esplora il numero incalcolabile di manifestazioni del sogno. Per l’artista, esso esiste sotto forma di riferimenti storici, avvenimenti ordinari e come articolazioni e scostamenti del linguaggio che danno l’avvio a uno stato corporeo alterato. Per Buhlungu i theremin sono eloquenti perché sintetizzano il suono in assenza di contatto fisico; toni, narrazioni e pause si generano attraverso l’interazione del campo elettromagnetico dei nostri corpi con quello dello strumento. I theremin presenti nell’installazione si attivano con l’avvicinarsi dell’osservatore: alcuni incarnano narrazioni collegate alla riflessione più ampia di Buhlungu sui sogni, altri contengono paesaggi sonori contestuali. Le narrazioni comprendono la testimonianza della musicista sudafricana Miriam Makeba sull’esilio dal suo Paese natale, il racconto dell’autrice statunitense di origine nigeriana Sefi Atta su come sia divenuta scrittrice grazie alla capacità di sognare, il suono delle pozzanghere e, infine, rumori interstiziali da una Ted Talk del 2015 tenuta dall’autore keniota Binyavanga Wainaina. I paesaggi sonori sono costituiti da registrazioni di ibis hadada riprese in natura, campionature da un pianoforte elettrico Fender Rhodes, rumore rosa ed elementi percussivi, tutti pronti a intrattenere una sorta di conversazione, la “conver-something” del titolo, che esiste in modo incongruo oltre la lingua parlata. – MK

Simnikiwe Buhlungu è tra i quattro beneficiari della borsa di studio per l’edizione inaugurale della Biennale College Arte, un’iniziativa lanciata nel 2021. Quest’opera è fuori concorso.

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Simnikiwe Buhlungu, What We Put In The Skafthini (A Mixtapenyana), 2021. Audiocassetta, 9 min 57 sec. Commissionato da Stedelijk Museum, Amsterdam. Courtesy l’Artista

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A N D RO E RA DZ E

1993, Tbilisi Vive a Tbilisi, Georgia

Andro Eradze è un artista che si esprime con film, fotografie e installazioni, presentando spesso i propri lavori fotografici e video in contesti espositivi inaspettati. Ispirato dalle teorie contemporanee sulle relazioni interspecie di Donna Haraway e John Berger, Eradze popola le sue immagini di piante e animali che sembrano andare oltre i confini delle inquadrature. Per Mouth of Darkness (2020), Eradze propone le fotografie di un coyote e di un pipistrello imbalsamati ripresi con dispositivi per la visione notturna, installando le caratteristiche immagini verdi all’aperto, tra finte piante di plastica e metallo disposte in uno spazio fatiscente a Tbilisi. In Wave (Gesture) (2018), per la Tbilisi Architecture Biennial, allestisce in un modesto salotto famigliare la proiezione di riprese effettuate nella National Parliamentary Library della Georgia, collocandovi anche uno squalo gonfiabile radiocomandato. I film di Eradze si svolgono tra l’umano e il non umano, esplorando una miriade di forme di vita animata. Con una lenta panoramica, la videocamera segue scene al limite dell’indefinito: il lento bruciare di un fuoco da campo, una foresta di alberi sferzati dal vento durante una tempesta, un campo da calcio allagato. Accompagnati da colonne sonore inquietanti e trascendenti, le opere sembrano una selezione dei momenti di transizione di un normale film commerciale, e inducono nello spettatore un senso di grande attesa. Così Eradze gioca con le aspettative tipiche della costruzione delle narrazioni cinematografiche, televisive e persino fotografiche, dando origine a racconti emotivi privi di un soggetto chiaramente definito. Per Il latte dei sogni, presenta Raised in the dust (2022), una nuova videoinstallazione. L’opera nasce dalla conclusione del componimento Mangiatore di serpenti (1901) del poeta georgiano classico VazhaPshavela, il cui protagonista possiede il dono di comprendere il linguaggio della natura, ma dovendo scegliere tra il legame con questa e le responsabilità sociali, alla fine si piega a queste ultime. Il film è ambientato in una foresta dalla vegetazione lussureggiante e avvolgente. Uno dopo l’altro fanno la loro comparsa animali imbalsamati, bruscamente disturbati dal frastuono dei fuochi d’artificio di Capodanno. In aperta critica a una celebrazione tutta umana che per gli uccelli e gli altri animali selvatici risulta molesta, tossica e persino fatale, il film ricolloca i fuochi d’artificio trasformandoli in un punto di accesso al lato oscuro e mitologico della foresta, mondo di piante, animali e fantasmi. – MK

Andro Eradze è tra i quattro beneficiari della borsa di studio per l’edizione inaugurale della Biennale College Arte, un’iniziativa lanciata nel 2021. Quest’opera è fuori concorso.

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Andro Eradze, Nightvision, limited access (still), 2021. Video HD, 2 min 53 sec. Courtesy l’Artista

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AKI SASAMOTO

1980, Kanagawa, Giappone Vive a New York City, USA

Impiegando scultura, suono, video e disegno, l’approccio “performance/installazione” di Aki Sasamoto mette in discussione le sfumature della vita quotidiana, soffermandosi su argomenti quali le voglie improvvise, il bucato, la spazzatura, la pulizia e l’amore all’interno di scenari surreali, con impassibile umorismo e in una logica da flusso di coscienza. “Il mio modus operandi assomiglia alla pesca”, afferma l’artista. “Getto una rete e attendo il perfetto allineamento degli eventi. Lascio in sospeso una molteplicità di cose e in qualche modo ordino le connessioni allineandole a riferimenti apparentemente slegati”. Come pesci catturati da una rete nel mare, le idee o le domande di Sasamoto si cristallizzano attraverso un sistema di improvvisazione organizzata. Le sue installazioni – spesso realizzate disponendo meticolosamente oggetti alterati a livello scultoreo – forniscono gli strumenti che permettono agli scenari di prendere vita, esattamente come uno spartito; tuttavia, è attraverso il corpo in movimento nel tempo e nello spazio che le storie si articolano e le connessioni prendono forma. Lottando con il rapporto tra caos e controllo, l’arte di Sasamoto condivide il processo e l’interesse con movimenti artistici come Neo-Dada e Gutai, ma attraverso modalità del tutto personali. Esposte nel Giardino delle Vergini all’interno di un edificio a sé stante, le componenti dell’opera di Sasamoto Sink or Float (2022) sembrano levitare. Sulla sommità di tavoli ricavati da lavandini in acciaio inossidabile, provvisti di migliaia di minuscoli fori attraverso i quali viene soffiato un flusso d’aria – la stessa tecnologia impiegata nei piani industriali Airfloat –, alcuni oggetti selezionati effettuano movimenti caotici, improvvisati, determinati in tempo reale. A un’estremità dello spazio, incorniciato da una struttura di condotti per il riscaldamento, ventilazione e condizionamento dell’aria, si trovano un forno girarrosto e un frigorifero portatile trasformati in light boxes. Presentando l’ambiente da lei costruito come una macchina onnicomprensiva, Sasamoto impiega il caos controllato per trasformare la quotidianità in una dimensione fantastica, invitando l’osservatore a risintonizzare la propria percezione di ciò che nella vita di tutti i giorni appare come banale. – MW

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Aki Sasamoto, random memo random, 2017. Performance, installazione con vari supporti, dimensioni variabili. Courtesy l’Artista; Take Ninagawa, Tokyo Pagine successive: Aki Sasamoto, Spirits Cubed, 2020. Performance, installazione con vari supporti, dimensioni variabili. Photo Naoya Hatakeyama. Collezione Hirosaki Museum of Contemporary Art. Courtesy l’Artista; Hirosaki Museum of Contemporary Art

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M A R I A N N E V I TA L E

1973, East Rockaway, USA Vive a New York City, USA

Marianne Vitale crea monumenti dagli spettri dell’espansione industriale americana – ponti, rotaie, motori di treni merci, dighe, fabbriche, depositi – come aspra critica al crollo della società occidentale contemporanea. L’artista ammacca, brucia, rompe e ricostruisce, costringendoci a interrogare la nostra stessa storia attraverso gli oggetti che abbandoniamo in nome del progresso. In Patron (2009), video presentato alla Biennale del Whitney di New York nel 2010 che l’ha resa celebre, Vitale sbraita comandi autoritari diretti agli spettatori, ripetutamente chiamati “patrons!” (benefattori), affinché questi spalanchino la bocca per la somministrazione forzata dell’amara medicina: una chiamata alle armi contro il “Neutralismo” e il compiacimento. Le opere di Vitale sono enormi, brutali, spietate. L’artista brucia ponti ormai da quindici anni: prima costruisce nel suo studio modelli in scala di strutture che si possono trovare in tutto il Nord America per poi portarle all’aperto, bruciarle e quindi esporne gli scheletri carbonizzati. In una performance del 2019, incendia un ponte sulla cima di una montagna innevata a Gstaad, in Svizzera. L’opera Thought Field (2016) è costituita da novanta rotaie lunghe oltre dieci metri, per più di sessanta tonnellate di peso, allineate fianco a fianco per creare una scena imponente, con una chiara citazione dei codici del Minimalismo. Analogamente, nel corso di una recente residenza d’artista a Savenay, in Francia, Vitale trasforma alcuni detriti provenienti dai sistemi di trasporto in una costellazione di sculture, realizzando un’installazione permanente all’aperto intitolata The World, the Flesh and the Devil (2019), eretta nel sito di una diga costruita dagli americani nel corso della Prima guerra mondiale. Per Il latte dei sogni, Vitale presenta tre serie di opere esposte in un’area appartata del Giardino delle Vergini. Qui sono installati sette dei suoi ormai iconici ponti in bronzo bruciati, rovine architettoniche integrate nel paesaggio. Se i ponti rappresentano i punti di congiunzione spezzati di un futuro devastato dai cambiamenti climatici, The Bottle People (2020–2021), una serie di bottiglie da liquore avvolte in stoffa e fuse in bronzo, rappresenta un bestiario trasgressivo di antichi fantasmi microbici che emergono dalla terra cinerea. Decine di figure gesticolanti, sospese come se levitassero, raffigurano l’agonia, la disperazione, la speranza e l’ilarità, come personaggi in una pièce di Rabelais. Colte nel pieno di un movimento sfrenato e disposte su una griglia, potrebbero essere esposte in uno studio museologico. Infine, Cubes (2018) consiste dei resti arancioni carbonizzati di un treno merci che l’artista ha sezionato e ritagliato in perfetti cubi d’acciaio. Queste forme essenziali servono da paletti, o segnali, lungo il percorso che guida gli osservatori attraverso l’infestazione del giardino. – MK 706


Marianne Vitale, Bottle People, 2020. Vetro, gesso, metallo, dimensioni variabili. Collezione privata. Courtesy l’Artista

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Arsenale


Marianne Vitale, Harlem River, 2018. Bronzo, 177 × 202 × 55 cm. Collezione privata. Courtesy l’Artista

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Marianne Vitale, Goat Canyon, 2019. Bronzo, 162 × 401 × 96 cm. Collezione privata. Courtesy l’Artista

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Arsenale



DIGLIO A P NE A E L R TI EL D AP

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PA D I G L I O N E D E L L E A R T I A P P L I C AT E S O P H I A A L- M A R I A , T I G E R S T R I K E R E D

Promotori

La Biennale di Venezia con Victoria and Albert Museum, Londra Curatrice

Cecilia Alemani Artista

Sophia Al-Maria 1983, Tacoma, USA. Vive a Londra, UK

Sophia Al-Maria, artista, scrittrice e regista americana di discendenza qatariota, esplora gli echi del colonialismo e del razzismo nel loro permeare i rapporti umani attuali attraverso i pregiudizi intrinsecamente presenti nei nostri algoritmi e nelle macchine. L’opera di Al-Maria si interroga sull’alienazione e sulla disfunzione derivanti da una cultura di fatti alternativi e di storia insabbiata, individuando gli strascichi del colonialismo anche in ambiti all’avanguardia quali informatica quantistica, spazio virtuale e intelligenza artificiale. Tiger Strike Red (2022) è un nuovo video a canale singolo ideato per il Padiglione delle Arti Applicate nel contesto de Il latte dei sogni, e il terzo di una serie che include le opere precedenti BEAST TYPE SONG (2019) e Tender Point Ruin (2021). Traendo ispirazione dalla collezione di automi esposti al Victoria and Albert Museum di Londra, Al-Maria si accosta al singolare erotismo dell’automa conosciuto come “Tigre di Tippu”. Realizzata nel XVIII secolo per Tippu Sultan – re di Mysore, India del Sud –, la scultura meccanica rappresenta una tigre intenta a dilaniare un soldato britannico. Secondo Al-Maria, questo automa incarna il desiderio di vendetta nei confronti dell’oppressore colonialista e, attraverso l’allusivo dualismo uomo-bestia, la fantasia subconscia dell’inseminazione maschile. In Tiger Strike Red, la Tigre di Tippu diventa uno spirito guida proteiforme che invade le sale del museo e la cui voce è udibile fuori campo. Dalle sale espositive del Victoria and Albert Museum al dungeon di una dominatrice di Londra, fino a un rigattiere che vende reliquie tratto da un programma televisivo sulle tigri dell’India narrato da David Attenborough, performance e scrittura sono concepite come vere e proprie armi nell’arena dell’inarrestabile “battaglia dell’informazione”. Tiger Strike Red avanza la teoria che la proiezione non consensuale dello sguardo dell’Orientalismo (del maschio bianco) sia ancora presente nelle nostre visioni collettive del futuro, e suggerisce che i mostri immaginari evocati dal colonialismo britannico – siano essi la tigre di Mysore o le immagini di donne che indossano il niqab – siano ancora profondamente radicati nelle macchine e nelle tecnologie di oggi. – IW

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Sophia Al-Maria, BEAST TYPE SONG (still), 2019. Video HD a canale singolo, 38 min 3 sec. Courtesy l’Artista; Anna Lena Films, Paris; Project Native Informant, London

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Progetto Speciale



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E L I S A G I A R D I N A PA PA

1979, Medicina, Italia Vive a New York City, USA e Palermo, Italia

“U Scantu”: A Disorderly Tale (2022) di Elisa Giardina Papa reinterpreta il mito siciliano delle donne di fora (“donne di fuori”), che la tradizione orale descrive come femminee e mascoline a un tempo, umane ma in parte animali, benevole eppure vendicative. La videoinstallazione, che integra l’esposizione dell’artista alle Corderie dell’Arsenale, ritrae le donne di fora come adolescenti che percorrono le desolate architetture postmoderne di Gibellina Nuova pedalando sulle loro biciclette, personalizzate con potenti impianti stereo secondo la recente moda del bike tuning. Le scorribande di queste tuners sono inframmezzate da motivi testuali e visivi attinti da una raccolta di favole siciliane del XIX secolo, dai frammentari ricordi d’infanzia dell’artista riguardanti canzoni e storie antiche che le raccontava sua nonna, e dai processi dell’Inquisizione che, nel XVI e XVII secolo, perseguivano le donne che ritenevano essere, per l’appunto, donne di fora. “U Scantu”: A Disorderly Tale assegna una nuova funzione al magico, al rituale e al fantastico, riconoscendoli come forze radicali in grado di distruggere le categorie predeterminate di umanità e femminilità. Esposta nel Forte Marghera, deposito di esplosivi eretto nel XIX secolo ai margini della laguna per proteggere la città, l’installazione offre tutta la potenza deflagrante che si cela all’interno delle storie represse e soffocate. – IW

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Elisa Giardina Papa, “U Scantu”: A Disorderly Tale (storyboard preparatorio), 2022. Video, installazione di ceramica, dimensioni variabili. Courtesy l’Artista. © Elisa Giardina Papa

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Progetto Speciale



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ELENCO DELLE OPERE

Tutte le opere sono Courtesy l’Artista, salvo diversa indicazione. Le dimensioni sono espresse in centimetri, altezza × larghezza × profondità. In caso di copie da esposizione, vengono indicate le dimensioni dell’opera originale. L’elenco è completo e definitivo al 20 febbraio 2022. Le didascalie e i crediti delle immagini di questa pubblicazione sono stati redatti con la massima cura. Eventuali errori o omissioni non sono intenzionali e saremo lieti di includere didascalie e crediti appropriati nelle future edizioni qualora giungessero nuove informazioni all’attenzione della Biennale.

NO OR ABUARAFEH Am I the Ageless Object at the Museum?, 2018 Video 14 min 59 sec Con il supporto aggiuntivo di A.M Qattan Foundation

C A R LA AC C A R D I Verdi azzurro, 1962 Tempera alla caseina su carta applicata su tela 70 × 100 cm Collezione privata, Firenze Assedio rosso n. 3, 1956 Smalto su caseina su tela 97 × 162 cm Collezione privata, Firenze Senza titolo, 1967 Vernice su sicofoil 100 × 380 cm Collezione privata, Firenze Collisione dei tempi, 2011 Vinile su tela 80 × 100 cm Collezione Massimo De Carlo

I G S H AA N A DA M S Bonteheuwel / Epping, 2021 Arazzo intrecciato con installazione scultorea Legno, legno dipinto, plastica, osso, perle di pietra e vetro, conchiglie, corda di poliestere e nylon, corda di cotone, catena a maglie, filo (acciaio zincato) e spago di cotone 495 × 1170 × 325 cm Con il supporto aggiuntivo di blank projects; Casey Kaplan; The National Arts Council of South Africa

E I L E E N AGA R Wisdom Tooth, 1960 ca. Acrilico su tavola 58 × 69 cm Courtesy The Estate of Eileen Agar c/o The Redfern Gallery Sculpture consisting of a shell stuck on top of sea urchin mounted on a base made out of woven bark, n.d. Conchiglia e legno 14,5 × 10 × 10 cm Courtesy Tate Archive Sculpture consisting of a stone coloured orange and wrapped in small vertebrae strung on thick string, n.d.

Pittura acrilica o pennarello su pietra, osso e spago 15,2 × 7 × 5,5 cm Courtesy Tate Archive Photograph of rocks in Ploumanac’h, luglio 1936 Modern print da negativo in bianco e nero 15 × 15 cm. Negativo: 6,2 × 5,9 cm Courtesy Tate Archive Photograph of rocks in Ploumanac’h, luglio 1936 Modern print da negativo in bianco e nero 15 × 15 cm. Negativo: 6,2 × 5,9 cm Courtesy Tate Archive Photograph of “Le Lapin” rock in Ploumanac’h, luglio 1936 Modern print da negativo in bianco e nero 15 × 15 cm. Negativo: 6,2 × 5,9 cm Courtesy Tate Archive Photograph of “Bum and Thumb Rock” in Ploumanac’h, luglio 1936 Modern print da negativo in bianco e nero 15 × 15 cm. Negativo: 6,2 × 5,9 cm Courtesy Tate Archive Ceremonial Hat for Eating Bouillabaisse, 1936 Fotografia in bianco e nero Collezione privata Ristampa © Estate of Eileen Agar. All rights reserved 2022 / Bridgeman Images

M O N I RA A L QA D I R I Orbital, 2022 Plastica stampata in 3D, vernice automobilistica, modulo di levitazione 3 elementi, ca. 100 × 100 × 100 cm ciascuno Con il supporto aggiuntivo di Aga Khan Museum

S O P H I A A L- M A R I A

G E RT RU D A R N D T Maskenselbstbildnis, 1930 / 1996 8 fotografie dal portfolio Maskenselbstbildnisse: Maskenselbstbildnis Nr. 4 Maskenselbstbildnis Nr. 8 Maskenselbstbildnis Nr. 13 Maskenselbstbildnis Nr. 16 Maskenselbstbildnis Nr. 28 Maskenselbstbildnis Nr. 32 Maskenselbstbildnis Nr. 33 Maskenselbstbildnis Nr. 36 Stampe alla gelatina bromuro d’argento ca. 24,1 × 19,3 cm ciascuna Tutte le opere Museum Folkwang, Essen

R U T H A S AWA Untitled (S.030, Hanging Eight Separate Cones Suspended through Their Centers), 1952 ca. Filo di ferro 193,04 × 60,96 × 60,96 cm Collezione privata Untitled (S.273, Hanging Nine-Lobed, Single-Layered Continuous Form), 1959 ca. Filo di rame nichelato 238,76 × 45,72 × 45,72 cm Collezione privata Untitled (S.106, Hanging Five-and-a-Half Open Hyperbolic Shapes that Penetrate Each Other), 1958 ca. Filo di ottone 97,79 × 27,94 × 27,94 cm Collezione privata Untitled (S.182, Hanging Single-Section, Open-Window Form), 1962 ca. Filo di ottone 60,96 × 76,20 × 76,20 cm Collezione privata

Tiger Strike Red, 2022 Videoinstallazione Progetto Speciale, Padiglione delle Arti Applicate La Biennale di Venezia con Victoria and Albert Museum, Londra

Untitled (S.096, Hanging Single-Lobed, Five-Layered Continuous Form within a Form), primi anni 1960 ca. Filo di rame 55,88 × 59,69 × 58,42 cm Collezione privata

Ö Z L E M A LT I N

Untitled (S.101, Hanging Single-Lobed, Five-Layered Continuous Form within a Form), 1962 ca. Filo di ottone 58,42 × 91,44 × 91,44 cm Collezione privata

Translucent shield (calling), 2022 Stampa d’archivio e inchiostro su tela 111,7 × 600 cm © Özlem Altın Con il supporto aggiuntivo di SAHA Association; Institut für Auslandsbeziehungen - ifa

MARINA APOLLONIO Rilievo 703, 1964–1970 Alluminio, rosso fluorescente, Plexiglas 50 × 50 × 5 cm Collezione privata Rilievo 902, 1964–1969 Alluminio, verde fluorescente, Plexiglas 49,5 × 49,5 × 6 cm Collezione Prof. Ernesto L. Francalanci

Untitled (S.322, Hanging Two Interlocking Cones), 1951–1952 ca. Filo di ferro 33,02 × 45,72 × 43,18 cm Collezione privata Tutte le opere con il supporto aggiuntivo di David Zwirner

SHUVINAI ASHOONA Untitled, 2008 / 2009 Matita colorata e inchiostro su carta 56 × 76 cm Untitled, 2008 / 2009 Matita colorata e inchiostro su carta 56 × 76 cm

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A teenage magic magical magician and a male holding a drawing, 2012 Matita colorata e inchiostro su carta 49,8 × 65 cm Untitled, 2019 Matita colorata e inchiostro su carta 58,5 × 76 cm Untitled, 2021 Grafite, matita colorata e inchiostro su carta 128 × 249,5 cm

FIRELEI BÁEZ

DJUNA BARNES

something ephemeral and beautifully whole, when seen from the edge of one’s vision, too full when taken head on, 2022 Olio su tela 249,4 × 587,12 cm Con il supporto aggiuntivo di James Cohan, New York

Illustrazioni da Ladies Almanack, 1928 Pubblicato da Edward W. Titus, Parigi, 1928 Ristampe Courtesy Djuna Barnes papers. Special Collections and University Archives, University of Maryland Libraries

Tutte le opere con il supporto aggiuntivo di West Baffin Eskimo Cooperative

A geo and temporal anchor, a time capsule, a map (more so than the traced outline of a fabulated chart created for the consumption of a collective desire), 2022 Olio su tela 249,4 × 637,4 cm Con il supporto aggiuntivo di James Cohan, New York

B E L K I S AY Ó N

FELIPE BAEZA

Perfidia, 1998 Collografia su carta, 7 fogli 200 × 252 cm Courtesy Watch Hill Foundation and von Christierson Family

Encuentro Mágico, 2022 Collage su pannello di inchiostro, ricamo, acrilico, grafite, vernice e carta ritagliata 35,56 × 27,94 cm Con il supporto aggiuntivo di Maureen Paley, London

Untitled, 2021 Grafite, matita colorata e inchiostro su carta 127 × 244,5 cm

Nuestro deber, 1993 Collografia su carta 94 × 68 cm Courtesy Watch Hill Foundation and von Christierson Family Abasí, sálvanos!, 1989 Collografia su carta 70 × 50 cm Courtesy Watch Hill Foundation and von Christierson Family Sin título (La Soga Y el Fuego), 1996 Collografia su carta 71 × 94 cm Courtesy Watch Hill Foundation and von Christierson Family La pesca, 1989 200 × 140 cm Collografia su carta illuminata di blu, 4 fogli Courtesy Watch Hill Foundation and von Christierson Family Nlloro, 1991 Collografia su carta, 9 fogli 215 × 300 cm Courtesy Watch Hill Foundation and von Christierson Family Resurrección, 1998 Collografia su carta, 9 fogli 263 × 212 cm Courtesy Watch Hill Foundation and von Christierson Family Acecho, 1989 Collografia su carta 102,5 × 55 cm Courtesy Watch Hill Foundation and von Christierson Family Añoranza, 1998 Collografia su carta 200 × 142 cm Courtesy Laura Blanco and Robert F. Shainheit La consagración I, 1991 Monotipo su carta, 12 parti Trittico, parte 1. 223,5 × 300 cm Courtesy The State Russian Museum © The State Russian Museum 2022 La consagración II, 1991 Monotipo su carta, 12 parti Trittico, parte 2. 224 × 300 cm Courtesy The State Russian Museum © The State Russian Museum 2022 La consagración III, 1991 Monotipo su carta, 12 parti Trittico, parte 3. 225 × 300 cm Courtesy The State Russian Museum © The State Russian Museum 2022

Fragments, refusing totality and wholeness, 2021 Collage su pannello di inchiostro, ricamo, acrilico, grafite, vernice e carta ritagliata 40,64 × 30,48 cm Con il supporto aggiuntivo di Maureen Paley, London As bare as open flesh, 2022 Collage su pannello di inchiostro, acquarello, acrilico, e carta ritagliata 40,64 × 30,48 cm Con il supporto aggiuntivo di Maureen Paley, London Don’t draw attention to yourself you’re already…, 2022 Collage su tela di inchiostro, ricamo, spago, acrilico e carta ritagliata 91,14 × 76,2 cm Con il supporto aggiuntivo di Maureen Paley, London Emerging in difference, 2022 Collage su carta di inchiostro, grafite, glitter, polvere di interferenza, spago, acrilico e carta ritagliata 200 × 130,81 cm Con il supporto aggiuntivo di Maureen Paley, London Wayward, 2021 Collage su carta di inchiostro, carta ritagliata, grafite, spago e acrilico 167,64 × 121,92 cm Collezione Allison e Larry Berg Con il supporto aggiuntivo di Maureen Paley, London; Allison Berg e Larry Berg Por caminos ignorados, por hendiduras secretas, por las misteriosas vetas de troncos recién cortados, 2020 Collage su carta di inchiostro, flashe, acrilico, vernice, spago, tempera all’uovo e carta ritagliata su carta 35,2 × 43,5 cm Collezione Thelma e AC Hudgins Con il supporto aggiuntivo di Maureen Paley, London; Thelma e AC Hudgins; Allison e Larry Berg; Debi e Steven Wisch

JOSEPHINE BAKER Dans Revue des Folies Bergère, danse avec plumes..., 1925 Video digitale trasferito da film 56 sec Collezione Gaumont Actualité Courtesy GP archives

Ladies Almanack, 1972 Libro illustrato Ri-edizione dell’originale pubblicato nel 1928

M Á R I A B A R T U S Z O VÁ Untitled, 1984–1985 Gesso 11 × 11 × 12 cm Courtesy The Estate of Maria Bartuszová, Košice Untitled, 1984–1985 Gesso 17,5 × 17,5 × 20 cm Courtesy The Estate of Maria Bartuszová, Košice Untitled (dalla serie Endless Egg), 1985 Gesso 30,5 × 14,5 × 11 cm Courtesy The Estate of Maria Bartuszová, Košice Untitled, 1986 Gesso 15 × 13 × 11 cm Courtesy The Estate of Maria Bartuszová, Košice

B E N E D E T TA 5 tavole da Le forze umane. Romanzo astratto con sintesi grafiche, 1924 Inchiostro su carta 28 × 20 cm Collezione Marinetti Le forze umane. Romanzo astratto con sintesi grafiche Copertina del libro Foligno, Franco Campitelli Editore, 1924 Facsimile Courtesy Biblioteca comunale Augusta di Perugia

M I R E L LA B E N T I VO G L I O IN COLLABORAZIONE CON A N N A L I S A A L L O AT T I Storia del monumento Portfolio contenente 6 litografie 35 × 25 cm De Luca Editore, 1968 Archivio Mirella Bentivoglio; Collezione Paolo Cortese

M E R I KO K E B B E R H A N U Untitled LXIX, 2021 Acrilico su tela 182,9 × 121,9 cm Untitled LXX, 2021 Acrilico su tela 121,9 × 144,8 cm Untitled LXXI, 2021 Acrilico su tela 182,9 × 91,4 cm Untitled LXXII, 2021 Acrilico su tela 121,9 × 144,8 cm Untitled LXXIII, 2021 Acrilico su tela 182,9 × 91,4 cm Untitled LXXIV, 2022 Acrilico su tela 121,9 × 198,1 cm

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Elenco delle opere


TOMASO BINGA Dattilocodice (tavola 7), 1978 Testo dattiloscritto, inchiostro su carta 55 × 50 cm Con il supporto aggiuntivo di Galleria Tiziana Di Caro Dattilocodice (tavola 10), 1978 Testo dattiloscritto, inchiostro su carta 55 × 50 cm Dattilocodice (tavola 11), 1978 Testo dattiloscritto, inchiostro su carta 55 × 50 cm Collezione G. Colombo Con il supporto aggiuntivo di Galleria Tiziana Di Caro Dattilocodice (tavola 12), 1978 Testo dattiloscritto, inchiostro su carta 55 × 50 cm Con il supporto aggiuntivo di Galleria Tiziana Di Caro

C O S I M A VO N B O N I N WHAT IF THEY BARK 01-07, 2022 Plastica rinforzata con vetro (GRP), tessuto di lana, sciarpe, base in acciaio, ukulele, catene Dimensioni variabili: 2 squali con razzi, 100 × 100 × 70 cm ciascuno. 3 sgombri grandi, 190 × 130 × 120 cm ciascuno. 2 sgombri piccoli, 110 × 60 × 50 cm ciascuno VENICE 1984, 2022 Acciaio verniciato, motore da barca, plastica rinforzata con vetro, acciaio 250 × 300 × 75 cm HERMIT CRAB (GLASS VERSION), 2022 Betoniera in acciaio, resina epossidica, gomma 140 × 140 × 100 cm SCALLOPS (GLASS VERSION), 2022 Resina epossidica, legno, lacca, corda di canapa, ghirlanda luccicante 60 × 100 × 80 cm AXE, 2022 Legno, acciaio, vernice resina sintetica 100 × 45 × 9 cm Tutte le opere con il supporto aggiuntivo di Petzel Gallery, New York; Institut für Auslandsbeziehungen – ifa

LOUISE BONNET Pisser Triptych, 2021–2022 Olio su lino Dimensioni complessive variabili Trittico. Pannello di sinistra: 213,36 × 177,8. Pannello centrale: 213,36 × 365,76. Pannello di destra: 213,36 × 177,8 cm Con il supporto aggiuntivo di Gagosian

MARIANNE BRANDT

Selbstportrait, in der Kugel gespiegelt. Bauhaus Dessau, 1928–1929 Fotografia in bianco e nero 23,7 × 17,7 cm Ristampa Courtesy Stiftung Bauhaus Dessau (I 11948 F) / © (Brandt, Marianne [geb. Liebe]) VG Bild-Kunst, Bonn (Jahr) / © (Gropius, Walter) VG Bild-Kunst, Bonn (Jahr) / Image by Google Das Atelier in der Kugel I (Selbstportrait). Bauhaus Dessau, 1928–1929 Fotografia in bianco e nero 23,7 × 17,7 cm Ristampa Courtesy Stiftung Bauhaus Dessau (I 11950 F) / © (Brandt, Marianne [geb. Liebe]) VG Bild-Kunst, Bonn (Jahr) / © (Gropius, Walter) VG Bild-Kunst, Bonn (Jahr) / Image by Google Selbstporträt mit Schmuck zum Metallischen Fest im Bauhaus Dessau, 1929 Fotografia in bianco e nero 23,6 × 17,7 cm Ristampa Courtesy Stiftung Bauhaus Dessau (I 11952 F) / © (Brandt, Marianne [geb. Liebe]) VG Bild-Kunst, Bonn (Jahr) / Image by Google Spiegelungen (Stilleben aus Metall und Glas). Bauhaus Dessau, 1928–1929 Fotografia in bianco e nero 23,7 × 17,8 cm Ristampa Courtesy Stiftung Bauhaus Dessau (I 11953 F) / © (Brandt, Marianne [geb. Liebe]) VG Bild-Kunst, Bonn (Jahr) / Image by Google Marianne Brandt and Hans-Joachim Rose, Marianne Brandt (Selbst in einer Kugel spiegelnd), 1920–1929 Fotografia in bianco e nero 25,4 × 24,8 cm Ristampa Courtesy Stiftung Bauhaus Dessau (I 43086) / © (Brandt, Marianne [geb. Liebe]) VG Bild-Kunst, Bonn (Jahr) / © (Rose, Hans-Joachim [Hajo]) VG Bild-Kunst, Bonn (Jahr) / © (Gropius, Walter) VG Bild-Kunst, Bonn (Jahr)

K E R S T I N B R ÄT S C H ave Giotto_muro (with gratitude to Walter Cipriani), 2022 Parete dipinta a mano a tempera (pigmenti, legante, acqua) Dimensioni variabili ave Piero_muro (with gratitude to Walter Cipriani), 2022 Parete dipinta a mano a tempera (pigmenti, legante, acqua) Dimensioni variabili ave Pontormo_muro (with gratitude to Walter Cipriani), 2022 Parete dipinta a mano a tempera (pigmenti, legante, acqua) Dimensioni variabili

Stilleben mit Bauhausstoff, Kugeln und Wellpappe (Selbstportrait). Bauhaus Dessau, 1928–1929 Fotografia in bianco e nero 17,7 × 23,8 cm Ristampa Courtesy Stiftung Bauhaus Dessau (I 11949 F) / © (Brandt, Marianne [geb. Liebe]) VG Bild-Kunst, Bonn (Jahr) / © (Gropius, Walter) VG Bild-Kunst, Bonn (Jahr) / Image by Google

Lightchanger (AM), 2022 Pellicola plotter Oracal 8300 Transparent Cal 089 Dimensioni variabili

Das Atelier in der Kugel II (Selbstportrait). Bauhaus Dessau, 1928–1929 Fotografia in bianco e nero 17,7 × 23,7 cm Ristampa Courtesy Stiftung Bauhaus Dessau (I 11951 F) / © (Brandt, Marianne [geb. Liebe]) VG Bild-Kunst, Bonn (Jahr) / © (Gropius, Walter) VG Bild-Kunst, Bonn (Jahr) / Image by Google

Enki (Sohn), 2012–2021 Schwarzlot, lustro, gioielli in vetro, agate sezionate, vetro trafilato, piombo su vetro antico, con armatura d’artista in acciaio Vetro: ca. 90 × 60 cm. Acciaio: 490,2 × 3,6 cm Collection Eleanor e Bobby Cayre, New York

Ectoplasmic Ash, 2021 Gioielli in vetro, agate sezionate, vetro trafilato, schegge di vetro antico, bordatura di finestre per chiese, piombo su vetro antico, acciaio Vetro: ca. 90 × 60 cm. Acciaio: 490,2 × 3,6 cm

Hugin (Gedanke), 2012–2021 Schwarzlot, lustro, gioielli in vetro, bordatura di finestre per chiese, piombo e vetro trafilato su vetro antico, acciaio Vetro: ca. 90 × 60 cm. Acciaio: 490,2 × 3,6 cm Nammu (Mutter), 2012–2021 Schwarzlot, lustro, smalto, gioielli in vetro, agate sezionate, bordatura di finestre per chiese, piombo e vetro trafilato su vetro antico, acciaio Vetro: ca. 90 × 60 cm. Acciaio: 490,2 × 3,6 cm Collezione privata Secreta_Secretorum_Seele (Seitenstechen), 2012–2021 Lustro, smalto, gioielli in vetro, agate sezionate, bordatura di finestre per chiese, vetro trafilato, piombo su vetro antico, con armatura d’artista in acciaio Vetro: ca. 90 × 60 cm. Acciaio: 490,2 × 3,6 cm Wächter (life is Beautifool heiliger Johannes), 2012–2021 Schwarzlot, gioielli in vetro, agate sezionate, bordatura di finestre per chiese, vetro corona, frammenti di vetro antico, vetro trafilato, piombo su vetro antico, con armatura d’artista in acciaio Vetro: ca. 90 × 60 cm. Acciaio: 490,2 × 3,6 cm Collezione Defares Fossil Psychic for Christa (Stucco Marmo, with gratitude to Walter Cipriani), 2020 Gesso, pigmenti, colla, cera e olio su supporto a nido d’ape, feltro 110 × 140 × 4,8 cm Fossil Psychic for Christa (Stucco Marmo, with gratitude to Walter Cipriani), 2019–2021 Gesso, pigmenti, colla, cera e olio su supporto a nido d’ape, feltro 153 × 96 cm Brushstroke Fossil for Christa (Stucco Marmo, with gratitude to Walter Cipriani) _?, 2019–2020 Gesso, pigmenti, colla, cera e olio su supporto a nido d’ape, feltro ca. 189 × 65 cm Brushstroke Fossil for Christa (Stucco Marmo, with gratitude to Walter Cipriani) _L, 2019–2021 Gesso, pigmenti, colla, cera e olio su supporto a nido d’ape, feltro 65 × 47 cm Brushstroke Fossil for Christa (Stucco Marmo, with gratitude to Walter Cipriani) _Y, 2019–2021 Gesso, pigmenti, colla, cera e olio su supporto a nido d’ape, feltro 37 × 128 cm Fossil Psychic for Christa (Stucco Marmo, with gratitude to Walter Cipriani), 2020–2021 Gesso, pigmenti, colla, cera e olio su supporto a nido d’ape, feltro 112 × 149 cm Collezione privata, Vienna Brushstroke Fossils for Christa (Stucco Marmo, with gratitude to Walter Cipriani)_FACE, 2019–2021 Gesso, pigmenti, colla, cera e olio su supporto a nido d’ape, feltro 9 parti: ca. 300 × 300 cm nel complesso Brushstroke Fossils for Christa (Stucco Marmo, with gratitude to Walter Cipriani)_MAN, 2019–2021 Gesso, pigmenti, colla, cera e olio su supporto a nido d’ape, feltro 17 parti: ca. 325 × 240 cm nel complesso Fossil Psychic Stone Mimicry (Palladiana, Mosaico), 2021–2022 Vetro, cemento, marmi e pietre ca. 50 × 340 × 260 cm Tutte le opere con il supporto aggiuntivo di Gladstone Gallery; Gió Marconi, Milano; Walter Cipriani; Bernd Euler, Berlin; Glas Mäder, Rüschlikon; Mayersche Hofkunstanstalt, Munich; Institut für Auslandsbeziehungen – ifa

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D ORA BUD OR Autophones, 2022 Legno per liuteria, pelle di capra, acciaio, sex toys 4 sculture: 93 × 29 × 39 cm; 38 × 42 × 25 cm; 51 × 48,5 × 80 cm; 18 × 38 × 11 cm. Plinti: 200 × 358 × 17 cm ciascuno Sviluppato in cooperazione con Klang-Holz e.V., Berlin Con il supporto aggiuntivo di Antenna Space, Shanghai; Ammodo

E G L Ė B U DV Y T Y T Ė IN COLLABORAZIONE CON MARIJA OLŠAUSKAITĖ E JULIJA STEPONAITYTĖ Songs from the Compost: mutating bodies, imploding stars, 2020 Video in 4K, 30 min Commissionato da Nida Art Colony of Vilnius Academy of Arts nel contesto di 4Cs: From Conflict to Conviviality through Creativity and Culture e Riga International biennial of Contemporary art (RIBOCA) Con il supporto aggiuntivo di Mondriaan Fund; Lithuanian Council for Culture; Creative Europe Programme of the EU

LIV BUGGE PLAY, 2019 Videoinstallazione. Video HD trasferito da film 16mm, cucce per cani, europallet Con il supporto aggiuntivo di Norwegian Visual Artists Fund; Office for Contemporary Art Norway (OCA)

Self portrait (with Nazi badge between her teeth), 1945 Fotografia 13,3 × 8,3 cm Ristampa Self portrait (reflected image in mirror, chequered jacket), 1928 Negativo monocromo 11,8 × 9,4 cm Ristampa

Tavola VII da Le Cœur de Pic, 1936 Negativo monocromo 10 × 8 cm Ristampa

Leche del sueño, 2016 Libro illustrato Fondo de Cultura Económica, riedizione dell’originale pubblicato nel 2013

Feathers, Branch and Pen Nibs (senza titolo, da Le Cœur de Pic), 1937 Stampa monocroma con bordo di sottile linea nera 16 × 13 cm Ristampa

Illustrazioni da Leche del sueño, 2016 Facsimile © 2013, Herederos de Leonora Carrington © Estate of Leonora Carrington

Tavola XIX da Le Cœur de Pic, 1937 Negativo monocromo 10,5 × 8 cm Ristampa Tutte le opere sopra Courtesy the Jersey Heritage Collections Claude Cahun e Lise Deharme, Le Cœur de Pic, 2004 Libro illustrato Éditions MeMo, ri-edizione dell’originale pubblicato nel 1937

E LA I N E C A M E RO N -W E I R Low Relief Icon (Figure 1) e Low Relief Icon (Figure 2), 2021 Feretri militari americani, alluminio, lampadine con luce tremolante, cavi elettrici, nastro trasportatore, peltro, catena, carrucola, cavo aereo, attrezzi Dimensioni variabili Con il supporto aggiuntivo di JTT, New York; Hannah Hoffman Gallery, Los Angeles

CLAUDE CAHUN Je Tends les Bras, 1931 Negativo monocromo con una sfumatura rosa 11 × 9 cm Ristampa Self portrait (in robe with masks attached), 1928 Negativo monocromo 12 cm × 9,4 cm Ristampa Self portrait (in cloak with cloaked figure), 1939 Fotografia 11 × 8 cm Ristampa Keepsake, 1932 4 fotografie Negativo monocromo 11 × 8 cm Ristampe Hands and Table (untitled), 1936 Negativo monocromo 11 × 8 cm Ristampa

Portrait of Madame Dupin, 1949 Olio su tavola 44,45 × 15,24 cm Collezione Gertrud V. Parker Ulu’s Pants, 1952 Olio e tempera su pannello 54,5 × 91,5 cm Collezione privata

And the Other Thing I Was Saying Was: A Conver-something, 2022 Installazione sonora, tecnica mista Dimensioni variabili Biennale College Arte, La Biennale di Venezia

unser süden sommer 2021, 5.8.2021, 2021 Installazione ambientale composta da 28 dipinti e opere su carta Tecnica mista Dimensioni variabili Con il supporto aggiuntivo di Swiss Arts Council Pro Helvetia

Portrait of the Late Mrs Partridge, 1947 Olio su tavola 100,3 × 69,9 cm Collezione privata, Chicago

Je donnerais ma Vie from Le Cœur de Pic, 1936 Stampa monocroma con bordo bianco 24 × 18 cm Ristampa

SIMNIKIWE BUHLUNGU

MIRIAM CAHN

LEONORA CARRINGTON

Right Hand Left Hand, Grinds a Fantasizer’s Dust, 2021 Tessuto cementato, supporto per fondale funerario, tubi al neon, trasformatori, faretti, garza di seta 217,17 × 284,48 × 60,96 cm Con il supporto aggiuntivo di JTT, New York; Hannah Hoffman Gallery, Los Angeles Grazie alle donazioni al Canadian Friends Fund of La Biennale, presso KBF CANADA

M I L LY C A N AV E R O Untitled, 1982 Pennarello su carta 46,5 × 65 cm Untitled, 1985 Pennarello su carta 46,5 × 65 cm

R E G I NA C A S S O L O B RAC C H I Danzatrice, 1930 Alluminio 45 × 30 × 15 cm Collezione Archivio Gaetano e Zoe Fermani Bambina, 1930 Latta 47 × 17 × 17 cm Collezione Archivio Gaetano e Zoe Fermani L’amante dell’aviatore, 1935 Alluminio 60 × 48,8 × 9,5 cm Museo Regina Cassolo, Castello Sangiuliani - Comune di Mede La signora provinciale (Signora dell’800), 1930–1935 Alluminio e filo 60 × 48,8 × 9,5 cm Museo Regina Cassolo, Castello Sangiuliani - Comune di Mede Ritratto di ragazza, 1931–1932 Alluminio 42 × 42 × 7,5 cm Museo Regina Cassolo, Castello Sangiuliani - Comune di Mede Piccola italiana, 1935 Alluminio 74 × 31 × 15,5 cm Museo Regina Cassolo, Castello Sangiuliani - Comune di Mede Fanciulla con trecce, 1932–1933 Alluminio 47,7 × 36,5 × 5 cm Museo Regina Cassolo, Castello Sangiuliani - Comune di Mede Aerosensibilità, 1935 Alluminio 69,5 × 36,5 × 26 cm Museo Regina Cassolo, Castello Sangiuliani - Comune di Mede

Untitled, 1985 Pennarello su carta 46,5 × 65 cm

A M B R A C A S TA G N E T T I

Untitled, 1986 Pennarello su carta 46,5 × 65 cm

Dependency, 2022 Installazione Tecnica mista (tessuti, catene, corde, ceramiche, indumenti) Biennale College Arte, La Biennale di Venezia

Tutte le opere The Elmar R. Gruber Collection of Mediumistic Art

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Elenco delle opere


GIULIA CENCI dead dance, 2021–2022 Installazione composta dalle seguenti 12 opere: cosmogonia, 2021–2022 Metallo, resina acrilica, fibra di vetro, pittura al quarzo 200 × 300 × 200 cm scalata, 2021–2022 Metallo, resina acrilica, fibra di vetro, pittura al quarzo, catena di metallo 450 × 300 × 80 cm bolgia - ancore, 2022 Metallo, alluminio 200 × 70 × 400 cm bolgia - mangiatoia, 2022 Metallo, resina acrilica, fibra di vetro, pittura al quarzo 200 × 440 × 90 cm bolgia, 2022 Metallo, resina acrilica, fibra di vetro, pittura al quarzo 400 × 200 × 600 cm bolgia - mangiatoia #2, 2022 Metallo, resina acrilica, fibra di vetro, pittura al quarzo 200 × 440 × 90 cm bolgia - ancore #2, 2022 Metallo, alluminio 200 × 70 × 300 cm bolgia - guardiano, 2022 Metallo, resina acrilica, fibra di vetro, pittura al quarzo, alluminio 160 × 200 × 50 cm bolgia - guardiano #2, 2022 Metallo, resina acrilica, fibra di vetro, pittura al quarzo, aluminium 160 × 200 × 50 cm progresso scorsoio, 2021–2022 Metallo, resina acrilica, fibra di vetro, pittura al quarzo 200 × 440 × 2550 cm still life, 2022 Metallo, resina acrilica, fibra di vetro, pittura al quarzo Dimensioni variabili cosmoagonia, 2022 Metallo, resina acrilica, fibra di vetro, pittura al quarzo Dimensioni variabili Tutte le opere con il supporto aggiuntivo di Fondazione Sandretto Re Rebaudengo; Mondriaan Fund; SpazioA; Ammodo

GIANNINA CENSI Danza aerofuturista, 1931 Fotografia in bianco e nero 24 × 18 cm Ristampa Foto Santacroce, Milano, 1931 Danza aerofuturista, 1931 Fotografia in bianco e nero 24 × 18 Ristampa Foto Santacroce, Milano, 1931 Danza aerofuturista, 1931 Fotografia in bianco e nero 17.5 × 12.5 cm Ristampa Foto Santacroce, Milano, 1931

Danza aerofuturista, 1931 Fotografia in bianco e nero 15 × 10 cm Ristampa Foto Santacroce, Milano, 1931 Tutte le opere courtesy Mart, Archivio del ’900, Fondo Censi

GABRIEL CHAILE Rosario Liendro, 2022 Struttura in metallo, argilla 600 × 150 × 600 cm Irene Duran, 2022 Struttura in metallo, argilla e mattoni 300 × 150 × 150 cm Jose Pascual Chaile, 2022 Struttura in metallo, argilla e mattoni 300 × 150 × 150 cm Sebastiana Martínez, 2022 Struttura in metallo, argilla e mattoni 300 × 150 × 150 cm Francisco Chaile, 2022 Struttura in metallo, argilla e mattoni 300 × 150 × 150 cm Tutte le opere con il supporto aggiuntivo di Barro Gallery, Buenos Aires; ChertLüdde, Berlin; Ammodo

ALI CHERRI Of Men and Gods and Mud, 2022 Videoinstallazione a 3 canali 20 min Con il supporto aggiuntivo di Robert A. Matta Arts & Culture Association, [N.A!] Project; Galerie Imane Farès - Paris; Institut français Titans, 2022 3 sculture (terracotta, legno, metallo) e 6 disegni ad acquarello Base delle sculture: 60 × 60 cm Altezza: 180 cm ciascuna Disegni: 30 × 40 cm ciascuno Con il supporto aggiuntivo di Robert A. Matta Arts & Culture Association, [N.A!] Project; Galerie Imane Farès - Paris; Institut français

ANNA COLEMAN LADD Painted metal facial prosthesis, 1917–1920 Rame zincato, occhiali in vetro 10 × 15,5 × 12 cm Collezione The British Association of Plastic, Reconstructive and Aesthetic Surgeons Anna Coleman Ladd’s Studio for Portrait Masks in Paris, 1918–1919 Video digitale trasferito da film 6 min 22 sec Collezione The British Association of Plastic, Reconstructive and Aesthetic Surgeons Caudron and Cavallier playing cards, 1919 Negativo su vetro 12,7 × 17,78 cm Ristampa Recuperato dalla Library of Congress, American National Red Cross photograph collection Mrs. Anna Coleman Ladd and Mr. Caudron. Mrs. A. Coleman Ladd working on portrait mask, 1918 Negativo su vetro 12,7 × 17,78 cm Ristampa Recuperato dalla Library of Congress, American National Red Cross photograph collection

Three masks made by Mrs. Ladd for men with facial mutilations, 1918 Stampa fotografica in bianco e nero 11 × 16 cm Ristampa Recuperato dalla Library of Congress, American Red Cross Collection Caudron (front view), 1918 Stampa fotografica in bianco e nero 22 × 16 cm Ristampa Recuperato dalla Library of Congress, American Red Cross Collection Mutile before having mask made by Mrs. Anna Coleman Ladd, 1918 Negativo su vetro 17,78 × 12,7 cm Ristampa Recuperato dalla Library of Congress, American National Red Cross photograph collection Mutiles wearing a mask made by Mrs. Anna Coleman Ladd, 1918 Negativo su vetro 17,78 × 12,7 cm Ristampa Recuperato dalla Library of Congress, American National Red Cross photograph collection Masks by Anna Coleman Ladd, 1917–1919 Negativo su vetro 12,7 × 17,78 cm Ristampa Recuperato dalla Library of Congress, American National Red Cross photograph collection Paris. Mutile before wearing mask made by Mrs. Anna Coleman Ladd, of the American Red Cross, 1919 Negativo su vetro 17,78 × 12,7 cm Ristampa Recuperato dalla Library of Congress, American National Red Cross photograph collection Paris. Mutile [after] wearing mask made by Mrs. Anna Coleman Ladd, of the American Red Cross, 1919 Negativo su vetro 17,78 × 12,7 cm Ristampa Recuperato dalla Library of Congress, American National Red Cross photograph collection WWI soldier facial reconstruction documentation photograph, 1918 Stampa fotografica ai sali d’argento 12 × 18 cm Ristampa Anna Coleman Ladd papers, 1881–1950. Archives of American Art, Smithsonian Institution WWI soldier facial reconstruction documentation photograph, 1920 Stampa fotografica in bianco e nero 17 × 13 cm Ristampa Anna Coleman Ladd papers, 1881–1950. Archives of American Art, Smithsonian Institution WWI soldier facial reconstruction documentation photograph, 1920 Stampa fotografica in bianco e nero 17 × 13 cm Ristampa Anna Coleman Ladd papers, 1881–1950. Archives of American Art, Smithsonian Institution WWI soldier facial reconstruction documentation photograph, 1918 Stampa fotografica ai sali d’argento 12 × 18 cm Ristampa Anna Coleman Ladd papers, 1881–1950. Archives of American Art, Smithsonian Institution

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WWI soldier facial reconstruction documentation photograph, 1918 Stampa fotografica in bianco e nero 10 × 13 cm Ristampa Anna Coleman Ladd papers, 1881–1950. Archives of American Art, Smithsonian Institution WWI soldier facial reconstruction documentation photograph, 1920 Stampa fotografica in bianco e nero 14 × 11 cm Ristampa Anna Coleman Ladd papers, 1881–1950. Archives of American Art, Smithsonian Institution WWI soldier facial reconstruction documentation photograph, 1920 Stampa fotografica in bianco e nero 14 × 11 cm Ristampa Anna Coleman Ladd papers, 1881–1950. Archives of American Art, Smithsonian Institution

ITHELL COLQUHOUN The Pine Family, 1940 Olio su tela 46 × 54 cm The Vera and Arturo Schwarz Collection of Dada and Surrealist Art in the Israel Museum

M Y R L A N D E C O N S TA N T

Cromorilievo, inclinazione 30° - dal grigio 76 al 90, 1974 Tasselli di legno su tavola 50 × 50 × 10 cm Courtesy Archivio Dadamaino per conto di Nicoletta Saporiti Oggetto ottico dinamico, 1960–1961 Lastre in alluminio fresato su fili di nylon su struttura in legno 67 × 67 cm (96 × 96 cm diagonale) Collezione privata, Firenze Oggetto ottico dinamico indeterminato, 1963–1965 Lastre in alluminio fresato su struttura in legno 35 × 35 cm (50 × 50 cm diagonale) Collezione privata, Firenze

N O A H D AV I S 40 Acres and a Unicorn, 2007 Acrilico e gouache su tela 76,2 × 66 cm Collezione privata Untitled (Birch Trees), 2010 Olio e acrilico su lino con colla di coniglio 138 × 92,7 cm Collezione privata Isis, 2009 Olio e acrilico su lino 121,9 × 121,9 cm Collezione privata

Sirenes, 2020 Paillettes, perline di vetro, nappe di seta su tela 208 × 261 cm

The Conductor, 2014 Olio su tela 175,3 × 193 cm The Estate of Noah Davis

GUEDE (Baron), 2020 Paillettes, perline di vetro, nappe di seta su cotone 224 × 216 × 10,5 cm Laura Lee Brown and Steve Wilson, 21c Museum Hotels

The Future’s Future, 2010 Olio su tela 152,4 × 188 cm Collezione privata

Rasanbleman soupe tout eskòt yo, 2019 Paillettes, perline di vetro, nappe di seta su stoffa 236,22 × 314,96 cm Collezione Alan Faena

Tutte le opere con il supporto aggiuntivo di David Zwirner

JUNE CRESPO

POEMA (POEM), 1979 / 2014 Stampa a getto d’inchiostro in bianco e nero su carta cotone Fotografia di Fabiana de Barros Nel complesso 139,7 × 29,8 cm Ristampa

HELMETS (IX), 2022 Acciaio inossidabile, rivestimento in ceramica 45 × 64 × 36 cm. Supporto in acciaio: 95 × 115 × 72 cm HELMETS (X), 2022 Acciaio inossidabile, rivestimento in ceramica 38 × 90 × 60 cm. Supporto in acciaio: 95 × 115 × 72 cm HELMETS (XI), 2022 Bronzo, rivestimento in ceramica, tessuto 26 × 48 × 32 cm. Supporto in acciaio: 95 × 115 × 72 cm Tutte le opere con il supporto aggiuntivo di P420 Gallery; CarrerasMugica Gallery; Acción Cultural Española (AC/E); Etxepare Basque Institute

DA DA M A I N O Cromorilievo, inclinazione 5° - bianco + 14 varianti grigio, 1974 Tasselli di legno su tavola 50 × 50 × 10 cm Courtesy Archivio Dadamaino per conto di Nicoletta Saporiti Cromorilievo, inclinazione 10° - grigio dal 16 al 30, 1974 Tasselli di legno su tavola 50 × 50 × 10 cm Courtesy Archivio Dadamaino per conto di Nicoletta Saporiti

L E N O RA D E BA R RO S

VA L E N T I N E D E S A I N T - P O I N T Metachoric Gestures (Gestes Métachoriques), 1914–1923 10 xilografie originali, edizione limitata su carta Lafuma Pur Fil 19 × 14 cm ciascuna Adrien Sina, Feminine Futures

Senza titolo, 1928 Gouache su carta 11,2 × 9,3 cm Senza titolo, 1929 Gouache su carta 9,2 × 8,5 cm Senza titolo, 1929 Gouache su carta 10 × 10 cm Senza titolo. Gouache n°382, 1929 Gouache su carta 11 × 12 cm Senza titolo, 1929 Gouache su carta 16,5 × 16,5 cm Senza titolo, 1929 Gouache su carta 13 × 10,5 cm Senza titolo, 1929 Gouache su carta 16,2 × 19 cm Senza titolo, 1929 Gouache su carta 26,8 × 21 cm Senza titolo, 1929 Gouache su carta 10 × 10 cm Senza titolo, 1929 Gouache su carta 20 × 16 cm Senza titolo, 1929–1930 Gouache su carta 13,2 × 11,6 cm Senza titolo. Variante del n°953 bis, “Libro nero VIII”, 1930 Gouache su carta 20,5 × 16,5 cm Senza titolo. Gouache n°362, 1930 Gouache su carta 27 × 21 cm Senza titolo, 1930 Gouache su carta 20 × 16,5 cm Senza titolo, 1930 Gouache su carta 14,5 × 11,6 cm Senza titolo. Gouache n°17, 1932 Gouache su carta 15 × 11 cm Senza titolo, 1933 Gouache su carta 11,2 × 10 cm

LISE DEHARME

Senza titolo, 1933 Gouache su carta 11,9 × 10,6 cm

Oh! Violette, ou La Politesse des végétaux, 1969 Libro e 35 incisioni firmate Pubblicato da Eric Losefeld, Paris

Senza titolo, 1933 Gouache su carta 21 × 27 cm

S O N I A D E L A U N AY

AG N E S D E N E S

Senza titolo. Gouache F 5202, 1925 Gouache su carta da lucido 18 × 25 cm

Introspection I—Evolution, 1968–1971 Stampa monocroma 107,63 × 542,29 cm Introspection I—Evolution ritrae gli sviluppi evolutivi dall’Era Psicozoica e la separazione dell’uomo e della scimmia allo sviluppo dell’intelligenza e agli inizi della conoscenza, della scienza e dell’arte. Indaga anatomia comparata, genetica, fisica, biologia, citologia, ereditarietà, anatomia, mutazione, consapevolezza ambientale,

Senza titolo, 1925 Gouache su carta 10,5 × 9 cm Senza titolo, 1928 Gouache su carta 14 × 14 cm

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Elenco delle opere


relazioni logiche e sociali, superfici analoghe, genealogia, cartografia, comunicazione, astronomia, studi del tempo, linguistica, tecnologia a raggi X, misurazioni del tempo, e arte. Introspection II—Machines, Tools & Weapons, 1969–1972 Stampa monocroma 101,6 × 626,75 cm Introspection II—Machines, Tools & Weapons mappa la crescita della tecnologia attraverso i secoli dai primi strumenti ideati dall’umanità alla raffinatezza tecnica del XX secolo e si conclude con Human Hang-Up Machine.

M AYA D E R E N The Witch’s Cradle, 1943 Video digitale trasferito da film 16mm 12 min 40 sec Courtesy The New American Cinema Group, Inc./ The Film-Makers’ Cooperative

LUCIA DI LUCIANO Irradiazioni N.7, 1965 Morgan’s Paint su masonite 80 × 80 × 3 cm Irradiazioni N.9, 1965 Morgan’s Paint su masonite 80 × 80 × 3 cm Irradiazioni N.11, 1965 Morgan’s Paint su masonite 80 × 80 × 3 cm

BAMBOLE DI EDISON Fotografo sconosciuto, 1890–1899 ca. Fotografia bianco e nero della bambola parlante di Thomas Edison Ristampa 25,4 × 20,32 cm “Il signor Edison mostra i meccanismi della bambola parlante”, 1890 ca. Incisione, pubblicata originariamente in Frank Leslie’s Illustrated Newspaper (New York: Frank Leslie), ottobre 1890 Collezione privata Pubblicità per la “bambola parlante” nel giornale, 1890 ca. Collezione privata 2 pagine resoconto sulle bambole fonografiche di Thomas Edison, 1890 ca. Originariamente pubblicato in “La Nature, Revue des sciences et de leur application à l’art et à l’industrie”, 885 (Parigi: Libraires de l’Académie de médicine), 17 maggio 1890 Collezione privata

I B RA H I M E L- S A L A H I Behind the Mask, 2020–2021 99 disegni Penna e inchiostro sul retro di scatole di medicinali Dimensioni variabili Con il supporto aggiuntivo di British Council

SARA ENRICO The Jumpsuit Theme, 2022 Cemento, pigmento 33 × 125 × 35 cm The Jumpsuit Theme, 2022 Cemento, pigmento 37 × 228 × 50 cm The Jumpsuit Theme, 2022 Cemento, pigmento 45 × 190 × 50 cm

The Jumpsuit Theme, 2022 Cemento, pigmento 30 × 167 × 75 cm Tutte le opere con il supporto aggiuntivo di Ruben Levi

CHIARA ENZO Sterno, 2018 Tempera, pastello, matite colorate su cartoncino applicato su tavola di legno 10,2 × 10,8 cm Collezione privata Palmo, 2018 Acquarelli e matite colorate su cartoncino applicati su tavola di legno 10,8 × 10,75 cm Collezione Neri Pagnan Pareti, 2018 Tempera, pastello, matite colorate su cartoncino applicato su tavola di legno 10,9 × 10,9 cm A me stessa, 2019 Tempera, pastello, matite colorate su cartoncino applicato su tavola di legno 24 × 16,8 cm Senza titolo (doccia), 2019 Tempera, pastello, matite colorate su cartoncino applicato su tavola di legno 17,7 × 15 cm Senza titolo (pelle), 2019 Tempera, pastello, matite colorate su cartoncino applicato su tavola di legno 17,7 × 15 cm Due letti, 2020 Tempera, pastello, matite colorate su cartoncino applicato su tavola di legno 16 × 12,3 cm Lenzuolo II, 2020 Tempera, pastello, matite colorate su cartoncino applicato su tavola di legno 16,4 × 11,7 cm

Il prurito, 2021 Tempera, pastello, matite colorate su cartoncino applicato su tavola di legno 14,8 × 17,7 cm Senza titolo (piedi), 2021 Tempera, pastello, matite colorate su cartoncino applicato su tavola di legno 15 × 20 cm Sul bordo, 2021 Tempera, pastello, matite colorate su cartoncino applicato su tavola di legno 24 × 16,8 cm Dorso, M., 2022 Tempera, pastello, matite colorate su cartoncino applicato su tavola di legno 23 × 22 cm Lettiga, 2022 Tempera, pastello, matite colorate su cartoncino applicato su tavola di legno 23 × 22 cm Camera, 2022 Acquarello, pastello, matite colorate su cartoncino applicato su tavola di legno 14,9 × 17,5 cm

A N D RO E RA DZ E Raised in the dust, 2021 Video in 4K Biennale College Arte, La Biennale di Venezia

JAIDER ESBELL 17 dipinti dalla serie Transmakunaimî: o buraco é mais embaixo: Transformação/Ressurgência de Makunaimî, 2018 Acrilico su tela 89 × 90 cm Transformação/Ressurgência de Makunaimî, 2018 Acrilico su tela 89 × 90 cm

Dietro II, 2020, Tempera, pastello, matite colorate su cartoncino applicato su tavola di legno 16,4 × 11,7 cm Collezione privata, Milano

Transformação/Ressurgência de Makunaimî, 2018 Acrilico su tela 89 × 90 cm

Passo, 2020 Tempera, pastello, matite colorate su cartoncino applicato su tavola di legno 19 × 19 cm

Transformação/Ressurgência de Makunaimî, 2017 Acrilico su tela 89 × 90 cm

Senza titolo (sorella), 2020 Tempera, pastello, matite colorate su cartoncino applicato su tavola di legno 14,8 × 17,7 cm

Makunaimî Parixara, 2017 Acrilico su tela 90 × 90 cm

Lenzuolo III, 2020 Tempera, pastello, matite colorate su cartoncino applicato su tavola di legno 15,1 × 35,1 cm L’abisso, 2020 Tempera, pastello, matite colorate su cartoncino applicato su tavola di legno 29,1 × 15,1 cm Nuca, B., 2021 Tempera, pastello, matite colorate su cartoncino applicato su tavola di legno 19 × 19 cm Collezione Sandra e Giancarlo Bonollo Senza titolo (spots), 2021 Tempera, acquarello, pastello, matite colorate su cartoncino applicato su tavola di legno board 10,1 × 10,1 cm

Espírito dos Caxiris, 2017 Acrilico su tela 89 × 90 cm Pajés, 2017 Acrilico su tela 89 × 89 cm Muiraquitãs, 2017 Acrilico su tela 89 × 90 cm A cura dos sapos, 2017 Acrilico su tela 90 × 90 cm Roças de Makunaimî, 2018 Acrilico su tela 90 × 90 cm A origem das lagartas de fogo, 2017 Acrilico su tela 89 × 90 cm

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A luta do boi com Makunaimî, 2017 Acrilico su tela 89 × 90 cm A vaca, 2017 Acrilico su tela 89 × 90 cm Kanaimé, 2017 Acrilico su tela 90 × 90 cm Pajés comendo tanajura, 2018 Acrilico su tela 90 × 91 cm Latinoamérica, 2017 Acrilico su tela 90 × 90 cm Makunaímî deitado na rede universal, 2018 Acrilico su tela 89 × 90 cm Tutte le opere Courtesy Jaider Esbell Estate Con il supporto aggiuntivo di Galeria Jaider Esbell de Arte Indígena Contemporânea; Galeria Millan

JANA EULER great white fear, 2021 111 ceramiche smaltate su plinto Nel complesso 67 × 400 × 310 cm Fly (eternity), 2021 Olio su lino 260 × 240 cm Fly (moment), 2021 Olio su lino 240 × 260 cm Venice void, 2022 Olio su lino 205 × 400 cm Tutte le opere con il supporto aggiuntivo di Institut für Auslandsbeziehungen – ifa

M I N N I E E VA N S untitled, 1943 Matita colorata su carta 20,5 × 13 cm untitled, n.d. Penna e matita su carta 29,5 × 22,5 cm untitled, 1946, 1962–1963, 1968 Pastello a olio, matita e carta montati su tavola 52 × 66,5 cm untitled, 1967 Olio, inchiostro e carta su tavola 36,83 × 49,53 cm

Costume design for the Martian for the movie Aelita, the Queen of Mars and the play Aelita, staged by Yakov Protazanov. Mezhrabprom-Rus’ Film Company, USSR, Moscow, 1924 Carta, inchiostro, vernice bronzo, gouache 53 × 34,5 cm Facsimile © St Petersburg State Museum of Theatre and Music. Gift of International Charitable Foundation “Constantine”. Collezione Nina e Nikita Lobanov-Rostovsky Costume design for Aelita for the movie Aelita, the Queen of Mars and the play Aelita, staged by Yakov Protazanov. Mezhrabprom-Rus’ Film Company, USSR, Moscow, 1924 Carta, inchiostro, vernice bronzo, gouache 69,3 × 46 cm Facsimile © St Petersburg State Museum of Theatre and Music. Gift of International Charitable Foundation “Constantine”. Collezione Nina e Nikita Lobanov-Rostovsky Costume design for Gor, guardian of energy on Mars for the movie Aelita, the Queen of Mars and the play Aelita, staged by Yakov Protazanov. Mezhrabprom-Rus’ Film Company, USSR, Moscow, 1924 Carta, inchiostro, matita, vernice 53 × 46 cm Facsimile © St Petersburg State Museum of Theatre and Music. Gift of International Charitable Foundation “Constantine”. Collezione Nina e Nikita Lobanov-Rostovsky Costume design for the Chief of Atomic Power in Aelita, the Queen of Mars, 1924 Gouache, inchiostro e grafite su carta 48,58 × 31,43 cm Facsimile Dono di The Tobin Endowment, TL2001.57. McNay Art Museum. © 2021 McNay Art Museum/ Art Resource, NY/Scala, Firenze Guardian of Energy (costume design for the film Aelita by Yakov Protazanov), 1924 Inchiostro, gouache e matita su carta 54 × 36.2 cm Facsimile The J. M. Kaplan Fund, Inc. Inv.: 341.1977, Digital image, The Museum of Modern Art, New York/ Scala, Florence Costume design for a male character in Aelita, the Queen of Mars, 1924 Gouache, inchiostro e grafite su carta 48,26 × 32,7 cm Facsimile Dono di The Tobin Endowment, TL2001.62. McNay Art Museum. © 2021 McNay Art Museum/ Art Resource, NY/Scala, Firenze

J E S FA N yet to be titled, 2022 Resina a base d’acqua, fibra di vetro, vetro, pigmenti, incenso contenente legno di agar, legno di sandalo e polvere di makko 234 × 81 × 122 cm yet to be titled, 2022 Resina a base d’acqua, fibra di vetro, vetro, pigmenti, incenso contenente legno di agar, legno di sandalo e polvere di makko 142 × 105 × 88 cm Fragrant Harbour, 2022 Resina a base d’acqua, fibra di vetro, vetro, pigmenti, incenso contenente legno di agar, legno di sandalo e polvere di makko 190 × 127 × 67 cm Tutte le opere con il supporto aggiuntivo di Empty Gallery, Hong Kong Grazie alle donazioni al Canadian Friends Fund of La Biennale, presso KBF CANADA

S A F I A FA R H AT Diptyque Gafsa & ailleurs, 1983 Arazzo Dittico. 320 × 294 × 15 cm; 293 × 167 × 15 cm Collezione privata

S I M O N E FAT TA L By the Tigris (I), 2022 Grès 110 × 27 cm diam. By the Tigris (II), 2022 Grès 100 × 24 cm diam. Ishtar, 2022 Bronzo 90 × 22 cm diam. Con il supporto aggiuntivo di Balice Hertling, Paris; Karma International, Zurich; kaufmann repetto, Milano/New York; Tanit gallery, Beirut/Munich; Hubert Winter, Vienna Adam and Eve, 2021 Bronzo 190 × 78 × 82 cm Collezione privata, Svizzera Con il supporto aggiuntivo di kaufmann repetto, Milano/New York Tutte le opere con il supporto aggiuntivo di Institut français

C É L E S T I N FA U S T I N Pourtant ma Maison est Vide, 1979 Olio su tela 30,48 × 40,64 cm Collezione Marcus Rediker

untitled, 1960 ca. Olio, matita e matita colorata su tavola 48,5 × 59 cm

Yakov Protazanov, Aelita, 1924 Scene e costumi di Alexandra Exter Video digitale in 2k trasferito da film 16mm Estratti da 80 min 37 sec Courtesy Lobster Films Collection

Tutte le opere The Museum + The Gallery of Everything

J A D É FA D O J U T I M I

Respectez ce contrat, 1981 Olio su tela 40,64 × 60,96 cm Collezione Marcus Rediker

The Prolific Beauty of Our Panicked Landscape, 2022 Acrilico, olio e colore a olio su tela 300 × 500 cm

Jardin d’Eden, 1979 Olio su tela 101,6 × 152,4 cm Collezione Marcus Rediker

And that day, she remembered how to purr, 2022 Acrilico, olio e colore a olio su tela 300 × 500 cm

LEONOR FINI

ALEXANDRA EXTER Costume design for a female character in Aelita, the Queen of Mars, 1924 Gouache, inchiostro e grafite su carta 48,26 × 32,7 cm Facsimile Dono di The Tobin Endowment, TL2001.61. McNay Art Museum. © 2021 McNay Art Museum/Art Resource, NY/Scala, Firenze

Rebirth, 2022 Acrilico, olio e colore a olio su tela 250 × 400 cm Tutte le opere con il supporto aggiuntivo di Galerie Gisela Capitain; Pippy Houldsworth Gallery; Taka Ishii Gallery

L’Alcove, 1941 Olio su tela 73 × 97,8 × 5,08 cm Femme assise sur un homme nu, 1942 Olio su tela 33 × 46 cm Collezione privata

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Elenco delle opere


Les Cornes, 1973 Scultura dorata 15 × 14,5 × 4 cm Geneviève Sevin-Doering e Leonor Fini, Gold dress, 1965 170 × 40–170 × 40 cm Courtesy The Estate of Leonor Fini M6 Black pseudo-primitive surrealist mask, 1960 ca. Tessuto a doppia garza di cotone nero, stampo, finte perle, perline 17 × 24 × 22 cm Courtesy The Estate of Leonor Fini

E L SA VO N F R E Y TA G - L O R I N G H O V E N Baroness Elsa von Freytag-Loringhoven, 1920–1925 ca. Negativo su vetro 17,78 × 12,7 cm Ristampa Photo Bain News Service, Publisher. Library of Congress, George Grantham Bain Collection Baroness Elsa von Freytag-Loringhoven Working as a Model, 1915 3 stampe ai sali d’argento Ristampe Photos Bettmann via Getty Images Elsa von Freytag-Loringhoven and Morton Schamberg, God, fotografia di Morton Schamberg, 1917 ca. Stampa ai sali d’argento 24,1 × 19,2 cm Ristampa Photo Sepia Times via Getty Images Elsa von Freytag-Loringhoven, Portrait of Marcel Duchamp, fotografia di Charles Sheeler, 1920 Stampa ai sali d’argento 20,32 × 15,24 cm The Bluff Collection Limbswish, 1918–1920 Assemblage a tecnica mista 55 × 35 × 19 cm Collezione Mark Kelman, New York

K AT H A R I N A F R I T S C H Elefant / Elephant, 1987 Poliestere, legno, vernice 420 × 160 × 380 cm Con il supporto aggiuntivo di Institut für Auslandsbeziehungen – ifa

ILSE GARNIER Blason du corps féminin, 1979 Portfolio con 46 illustrazioni Pubblicato da Editions André Silvaire, Paris Courtesy Violette Garnier

AAG E GAU P Sculpture I & II, 1979 Legno, pittura, viti, e cavi 62 × 78 × 274 cm e 65 × 75 × 298 cm Nordnorsk Kunstmuseum, Tromsø, Norway Con il supporto aggiuntivo di Office for Contemporary Art Norway (OCA)

L I N DA GA ZZ E RA

NAN GOLDIN

Enrico Imoda, Album, 1909 Fotografie di sedute spiritiche tenute con la medium Linda Gazzera a Torino dal 1908 al 1909. 18 stampe ai sali d’argento e una stampa all’albumina, di diverse misure, inserite in un album in cartoncino Album: 14 × 19 × 2 cm Dono a Cesare Lombroso dal medico Enrico Imoda. Archivio storico del Museo di Antropologia criminale “Cesare Lombroso”, Università di Torino

Sirens, 2019–2021 Video a singolo canale 16 min 1 sec Con il supporto aggiuntivo di Marian Goodman Gallery

FICRE GHEBREYESUS Fish, 2008–2011 ca. Acrilico su tela 182,9 × 213,4 cm Courtesy The Estate of Ficre Ghebreyesus Nude with Bottle Tree, 2011 ca. Acrilico su tela 182,9 × 213,4 cm Collezione privata City with a River Running Through, 2011 Acrilico su tela non intelaiato 185,4 × 563,2 cm Collezione privata Seated Musician with Feathered Wing, 2011 Acrilico su tela Dittico. 61 × 121,9 cm ciascuno Nel complesso 130,6 × 128,3 cm Collezione privata Figure with Trees and Horse Head, 2011 ca. Acrilico su tela Dittico. 61 × 121,9 cm ciascuno Nel complesso 128,5 × 127,3 cm Collezione privata Tutte le opere con il supporto aggiuntivo di Galerie Lelong & Co., New York

E L I S A G I A R D I N A PA PA “U Scantu”: A Disorderly Tale, 2022 Video e installazione in ceramica Dimensioni variabili Con il supporto aggiuntivo di Berkeley Center for New Media (BCNM), Graffiti Art in Prison (GAP), Meyer Sound, Savant Studios, School of the Museum of Fine Arts at Tufts University “U Scantu”: A Disorderly Tale, 2022 Video e installazione in ceramica Dimensioni variabili Forte Marghera Progetto Speciale, La Biennale di Venezia

RO B E RT O G I L D E M ON T E S UP, 2021 Olio su tela 116,5 × 85,5 × 4,5 cm Collezione Beth Rudin DeWoody El Pescador, 2020 Olio su lino 196 × 257 × 4,5 cm Collezione Sifang Art Museum, Nanjing, China Endangered Species, 2021 Olio su lino 148,8 × 149,5 × 4 cm Collezione × Museum, Beijing Los poetas en el mar, 2021 Olio su lino 120 × 250 × 4 cm Collezione × Museum, Beijing El monje, 2021 Olio su tela 116,5 × 85,5 × 4,5 cm Collezione privata

J A N E G R AV E R O L L’École de la Vanité, 1967 Olio e collage su cartoncino 70,5 × 106,5 × 5 cm Collezione Anne Boschmans

LAURA GRISI Sunset Light, 1967 Neon, Plexiglas e acciaio 219 × 30 × 30 cm Sunset Light, 1967 Neon, Plexiglas e acciaio 52 × 16 × 16 cm Sunset Light, 1967 Neon, Plexiglas e acciaio 52 × 16 × 16 cm Tutte le opere con il supporto aggiuntivo di P420 Gallery

KA R LA G RO S C H Glastanz, di Oskar Schlemmer, 1929 Fotografia in bianco e nero 12 × 16 cm Ristampa Photo T. Lux Feininger © Estate of T. Lux Feininger Courtesy Bauhaus-Archiv, Berlin Glastanz, di Oskar Schlemmer, 1929 Fotografia in bianco e nero 12,9 × 9 cm Ristampa Photo Robert Binnemann Courtesy Bauhaus-Archiv, Berlin Glastanz, di Oskar Schlemmer, 1929 Fotografia in bianco e nero 17,4 × 11,4 cm Ristampa Photo Robert Binnemann Courtesy Bauhaus-Archiv, Berlin

RO B E RT G RO S V E N O R Untitled, 2018 Scooter e stand. Acciaio, legno, gomma e pittura muraria oro 259 × 243,8 × 609,6 cm Untitled, 1987–1988 Acciaio e plastica 190,5 × 243,8 × 622,3 cm Block of Water, 2019 108 blocchi di cemento, rivestimento in gomma, acqua 91,4 × 304,8 × 548,6 cm Tutte le opere con il supporto aggiuntivo di Paula Cooper Gallery, New York; Galerie Max Hetzler, Berlin, Paris, London

A N E TA G R Z E S Z Y K O W S K A Dalla serie Mama, 2018 20 fotografie 51,2 × 36,3 × 3,3 cm ciascuna Mama # 3; Mama # 5; Mama # 6; Mama # 13; Mama # 14; Mama # 17; Mama # 22; Mama # 32; Mama # 33; Mama # 35; Mama # 36; Mama # 38; Mama # 45; Mama # 50

Tutte le opere con il supporto aggiuntivo di Kurimanzutto, Mexico City / New York

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Mama # 25; Mama # 44 Collezione Adrian Slupski (CAS collection) Mama # 29 Collezione Siggi Seewald Mama # 31 Collezione privata Mama # 40 Collezione Anna Zacharzewska Mama # 47 Collezione privata Tutte le opere con il supporto aggiuntivo di Raster Gallery, Warsaw

S H E R O A N AW E H A K I H I I W E Hahoshi, 2021 Stampa monocromatica su carta di gelso 76 × 144 cm Ira mamiki, 2021 Stampa monocromatica su carta di gelso 76 × 144 cm Mapuu thoki, 2021 Stampa monocromatica su carta di gelso 76 × 144 cm Omawe, 2021 Stampa monocromatica su carta di gelso 76 × 144 cm Omayari misi, 2021 Stampa monocromatica su carta di gelso 76 × 144 cm Pasho Shina, 2021 Stampa monocromatica su carta di gelso 76 × 144 cm Pukupukumi, 2021 Stampa monocromatica su carta di gelso 76 × 144 cm Rerekewe, 2021 Stampa monocromatica su carta di gelso 76 × 144 cm Titiri, 2021 Stampa monocromatica su carta di gelso 76 × 144 cm Yaro shinaki ishi ishi, 2021 Stampa monocromatica su carta di gelso 76 × 144 cm Yaro shinaki wake wake, 2021 Stampa monocromatica su carta di gelso 76 × 144 cm Yaro shinaki, 2021 Stampa monocromatica su carta di gelso 76 × 144 cm Raeshi, 2019 Acrilico su carta di cotone 70 × 50 cm Titiri nahi, 2018 Acrilico su carta di canna 70 × 50 cm Hii nomawe hipa / Árboles muertos, 2018 Acrilico su carta di canna 70 × 50 cm Tutte le opere con il supporto aggiuntivo di ABRA Gallery

FLORENCE HENRI Portrait Composition. Petro (Nelly) van Doesburg, 1930 / 2014 ca. Stampa fotografica ai sali d’argento 40,5 × 30 cm

Portrait de Sonia Delaunay, 1931 / 2014 Stampa fotografica ai sali d’argento 40 × 30 cm Portrait Composition, 1930 / 2014 ca. Stampa fotografica ai sali d’argento 40,5 × 30 cm Portrait Composition, 1930 / 2014 ca. Stampa fotografica ai sali d’argento 40,5 × 30 cm Composition. The glory that was Greece, 1933 / 2014 ca. Stampa fotografica ai sali d’argento 40,5 × 50,5 cm Portrait Composition, 1930 / 2014 Stampa fotografica ai sali d’argento 30,2 × 40,5 cm Rome, 1933–34 / 2014 Stampa fotografica ai sali d’argento 50,5 × 40,5 cm Rome, 1933–34 / 2014 Stampa fotografica ai sali d’argento 50,5 × 40,5 cm Autoportrait, 1928 / 2014 Stampa fotografica ai sali d’argento 30 × 24 cm Autoportrait, 1938 / 2014 Stampa fotografica ai sali d’argento 40 × 30 cm Composition abstraite, 1928 / 1974 Stampa fotografica ai sali d’argento 17 × 24 cm Composition abstraite, 1932 / 2014 Stampa fotografica ai sali d’argento 30 × 40 cm Autoportrait, 1928 / 2014 Stampa fotografica ai sali d’argento 30,5 × 24 cm Tutte le opere Courtesy Archives Florence Henri

LY N N H E R S H M A N L E E S O N Logic Paralyzes the Heart, 2021 Video digitale 13 min 35 sec Commissionato da V-A-C Foundation, Venezia, IT Con il supporto aggiuntivo di Hotwire Productions LLC; Altman Siegel, San Francisco Logic Paralyzes the Heart (A Community of Missing People), 2021 Carta da parati. Stampa digitale d’archivio di persone completamente generate da un sistema di intelligenza artificiale sul sito “Generated Photos” Dimensioni variabili Con il supporto aggiuntivo di Altman Siegel, San Francisco Seeing Inside, 1964 Collage, carta da lucido, grafite e acrilico su carta 109,22 × 77,47 cm X-Ray Woman in Bathing Cap, 1966 Acrilico su compensato 73,66 × 58,42 cm Missing Child, Cyborg, 2021 Stampa digitale d’archivio su Plexiglas rovesciato su specchio, persone completamente generate da un sistema di intelligenza artificiale sul sito “Generated Photos” 76,2 × 76,2 cm Missing Person, Cyborg, 2021 Stampa digitale d’archivio su Plexiglas rovesciato su specchio, persone completamente generate da un sistema di intelligenza artificiale sul sito “Generated Photos” 76,2 × 76,2 cm

C H A R L I N E VO N H E Y L The August Complex, 2020 Acrilico su lino 208,3 × 198,1 cm Acidalia, 2021 Olio e acrilico su lino 218,44 × 198,12 cm Emblemata Nova, 2021 Acrilico su lino 208,3 × 198,1 cm Ninfa, 2021 Acrilico su lino 208,3 × 218,44 cm Pagan Prophet, 2021 Acrilico su lino 208,3 × 187,96 cm The Garden of Cyrus, 2021 Olio e acrilico su lino 208,3 × 187,96 cm The Nymphs, 2020 Acrilico su lino 208,3 × 182,88 cm Charline von Heyl Per Matt Haimovitz e Jeffrianne Young del Primavera Project Primavera 2020, 2020 Acrilico e carboncino su lino Trittico. Pannello #1: 208,3 × 187,96 cm. Pannello #2: 208,3 × 187,96 cm. Pannello #3: 208,3 × 182,9 cm. Nel complesso 208,3 × 558,8 cm Tutte le opere con il supporto aggiuntivo di Petzel Gallery, New York; Institut für Auslandsbeziehungen – ifa

HANNAH HÖCH Der heilige Berg, dalla serie Aus einem ethnographischen Museum Nr. XI Facsimile, originale del 1927 Collage su cartoncino 33,5 × 22,5 cm Berlinische Galerie - Museum for Modern Art, Photography and Architecture Deutsches Mädchen Facsimile, originale del 1930 Collage su cartoncino 21,6 × 11,6 cm Berlinische Galerie - Museum for Modern Art, Photography and Architecture

JESSIE HOMER FRENCH Winter Eden, Chernobyl, 2018 Olio su tela 55,88 × 71,12 cm Collezione Judi Roaman e Carla Chammas Bridgeport Cemetery, 2020 Olio su tela 76,2 × 101,6 cm Collezione privata Mojave Stealth Bombers, 2013 Olio su tela 33 × 123 × 4 cm Collezione privata Oil Platform Fire, 2020 Olio su tela 60,96 × 60,96 cm Collezione privata Island Deer, 2020 Olio su tela 61 × 76,2 cm Collezione privata

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Elenco delle opere


Burning, 2020 Olio su masonite 30,5 × 55,2 cm Collezione privata ON FIRE, 2020 Olio su compensato 29,2 × 81,3 cm Collezione privata Tutte le opere con il supporto aggiuntivo di VARIOUS SMALL FIRES, Los Angeles; MASSIMODECARLO

REBECCA HORN Kiss of the Rhinoceros, 1989 Costruzione in acciaio, alluminio, motori e dispositivo elettronico 250 × 540 × 28 cm Con il supporto aggiuntivo di Institut für Auslandsbeziehungen – ifa

G E O RG I A NA H O U G H T ON The Flower of William Stringer, 1866 Acquarello su carta e inchiostro su cartoncino, recto e verso 49 × 42 cm The College of Psychic Studies, London Con il supporto aggiuntivo di Acción Cultural Española (AC/E) The Spiritual Crown of Annie Mary Howitt Watts, 1867 Acquarello su carta e inchiostro su cartoncino 33 × 23 cm Collezione Vivienne Roberts Con il supporto aggiuntivo di Acción Cultural Española (AC/E)

S H E R E E H OVS E P I A N Deserted Body, 2022 Fotografia ai sali d’argento, ceramica, spago, chiodi, cornice d’artista in noce 80,1 × 64,7 × 8,9 cm Corporeal Nature, 2022 Fotografia ai sali d’argento, ceramica, spago, chiodi, cornice d’artista in noce 80,1 × 64,7 × 8,9 cm Life Study, 2022 Fotografia ai sali d’argento, ceramica, spago, chiodi, cornice d’artista in noce 95,25 × 49,5 × 8,9 cm Still Life, 2022 Fotografia ai sali d’argento, ceramica, spago, chiodi, cornice d’artista in noce 54,6 × 44,5 × 8,9 cm Virigule, 2022 Fotografia ai sali d’argento, ceramica, chiodi, cornice d’artista in noce 54,6 × 44,5 × 8,9 cm Mollusca, 2022 Fotografia ai sali d’argento, ceramica, legno, chiodi, cornice d’artista in noce 54,6 × 44,5 × 8,9 cm Euclidean Space, 2022 Fotografia ai sali d’argento, legno, spago, chiodi, cornice d’artista in noce 54,6 × 44,5 × 8,9 cm Tutte le opere con il supporto aggiuntivo di Rachel Uffner Gallery

TISHAN HSU Phone-Breath-Bed 1, 2021 Policarbonato, silicone, tela metallica in acciaio inossidabile, inchiostro UV, silicone su legno, acciaio, plastica Nel complesso 115,6 × 195,6 × 121,9 cm

Phone-Breath-Bed 2, 2021 Policarbonato, silicone, tela metallica in acciaio inossidabile, inchiostro UV, silicone su legno, acciaio, plastica Nel complesso 115,6 × 195,6 × 121,9 cm Watching 3, 2022 Inchiostro UV, silicone su legno 182,9 × 121,9 × 10,2 cm Breath 7, 2022 Inchiostro UV, silicone su legno 121,9 × 157,5 × 12,7 cm Grass-Screen-Skin 2, 2022 Inchiostro UV, tela metallica in acciaio inossidabile, silicone su legno 121,9 × 228,6 × 12,7 cm Blue Interface, 2019–2021 Inchiostro a sublimazione, tela metallica in acciaio inossidabile, silicone su alluminio 154,9 × 121,9 × 7,6 cm The Jared and Jani Stone Collection Tutte le opere con il supporto aggiuntivo di Miguel Abreu Gallery, New York; Empty Gallery, Hong Kong

M A RGU E R I T E H U M E AU Migrations, 2022 Installazione composta dalle 3 seguenti opere: El Niño, 2022 Resine e polimeri biologici e sintetici, sale, alghe, ossa, pigmenti, polvere minerale, plastica oceanica, vetro, struttura in acciaio inox 216,1 × 208,7 × 226,2 cm La Niña, 2022 Resine e polimeri biologici e sintetici, sale, alghe, ossa, pigmenti, polvere minerale, plastica oceanica, vetro, struttura in acciaio inox 3440 × 136,9 × 217,3 cm Kuroshio, 2022 Resine e polimeri biologici e sintetici, sale, alghe, ossa, pigmenti, polvere minerale, plastica oceanica, vetro, struttura in acciaio inox 283,1 × 281,2 × 327,3 cm Tutte le opere con il supporto aggiuntivo di C L E A R I N G New York/Brussels; White Cube, London and Hong Kong; British Council; Institut français; the Henry Moore Foundation

JAC Q U E L I N E H U M P H R I E S omega:), 2022 Olio su lino 4 pannelli: 281,9 × 254 cm ciascuno Con il supporto aggiuntivo di Greene Naftali Gallery, New York xxx*x, 2019 Olio su lino 289,6 × 322,6 cm Con il supporto aggiuntivo di Perić Collection :|:), 2020 Olio su lino 152,4 × 144,8 cm Collezione privata, Londra Tutte le opere con il supporto aggiuntivo di Galerie Gisela Capitain

K U D Z A N A I -V I O L E T H WA M I The wedding of the astronauts 1, 2022 Acrilico e olio su tela 180 × 140 × 3,5 cm

The wedding of the astronauts 3, 2022 Acrilico e olio su tela 180 × 140 × 3,5 cm The wedding of the astronauts 4, 2022 Acrilico e olio su tela 180 × 140 × 3,5 cm Ulteriori opere saranno in mostra Biennale College Arte, La Biennale di Venezia

TAT S U O I K E D A The Eye(s) Inside the Mouth, 1956 Inchiostro, acquarello, olio e pastello su carta 37 × 28,8 cm Hundred Masks, an Extra Edition: Peep, 1960–2008 Penna, Conté e acquarello su carta 35,7 × 24,5 cm Untitled, 1963 Conté e penna su carta 39 × 30,5 cm Elliptical Space 1, 1964 Inchiostro, pittura a olio e acquarello su carta 37,8 × 26,8 cm Elliptical Space 2, 1964 Inchiostro, pittura a olio e acquarello su carta 33 × 41,9 cm Elliptical Space, an Extra Edition, 1965 ca. Conté e acquarello su carta 40,6 × 32,4 cm Dissection Archaeology, 1969 Acquarello, olio e inchiostro su carta 52,2 × 38,3 cm Dissection Archaeology: Mandate, 1969 Olio, acquarello e inchiostro su carta 50 × 34,5 cm Dissection Archaeology: A Machine, 1969 Inchiostro e acquarello su carta 42 × 32 cm BRAHMAN: Chapter 2: Space Egg-2, 1976 Acrilico su carta 39,5 × 39,5 cm BRAHMAN: Chapter 2: Space Egg-5, 1976 Acrilico su carta 39,5 × 39,5 cm BRAHMAN: Chapter 3: Floating Sphere-2, 1977 Acrilico su carta 39,5 × 39,5 cm BRAHMAN: Chapter 3: Floating Sphere-6, 1978 Acrilico su carta 39,5 × 39,5 cm BRAHMAN: Chapter 4: Helix Granular Movement-4, 1979 Acrilico su carta 39,5 × 39,5 cm Tutte le opere courtesy The Estate of Tatsuo Ikeda Con il supporto aggiuntivo di Fergus McCaffrey, New York, Tokyo

S A O D AT I S M A I L O VA Chillahona, 2022 Video a 3 canali e ricamo con proiezione ca. 30 min Con il supporto aggiuntivo di Tselinny Center of Contemporary Culture; Institut français

The wedding of the astronauts 2, 2022 Acrilico e olio su tela 180 × 140 × 3,5 cm

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A L E T TA J A C O B S

LOÏS MAILOU JONES

Womb models by the Ateliers Auzoux, 1840 5 modelli in cartapesta 25 × 25 × 25 cm ciascuno University Museum Groningen

Africa, 1935 Olio su tela su tavola 61 × 51 cm The Johnson Collection, Spartanburg, South Carolina

De Vrouw. Haar bouw en haar inwendige organen, 1898 Libro stampato Pubblicato da Kluwer, Deventer, 1898 University Museum Groningen

GEUMHYUNG JEONG Toy Prototype, 2021 Sculture e videoinstallazione. Vari materiali tra cui profili in alluminio, simulatori medici, motori DC, schede Arduino, joystick Dimensioni variabili Commissionato e prodotto da National Museum of Modern and Contemporary Art, Korea Con il supporto aggiuntivo di Arts Council Korea; Korea Foundation

CHARLOTTE JOHANNESSON Our World, 1983 Stampa plotter originale 42 × 52 cm Peace, 1981–1986 Stampa plotter 42 × 52 cm Self-portrait, 1981–1986 Stampa plotter 42 × 52 cm Computer mind, 1981–1986 Stampa plotter 42 × 52 cm Pixel dream, 1981–1986 Stampa plotter 42 × 52 cm Walk, 1981–1986 Stampa plotter 42 × 52 cm Digital Human, 1981–1986 Stampa plotter 42 × 52 cm Take me to another world, 1981–1986 Stampa plotter 42 × 52 cm Antique, 1981–1986 Stampa plotter 42 × 52 cm Pray, 1981–1986 Stampa plotter 42 × 52 cm A note in space, 1981–1986 Stampa plotter 42 × 52 cm Black hole (purple blue), 1981–1986 Stampa plotter 42 × 52 cm Apple, 2019 Intreccio tessile 102 × 56 cm The Brain is wider than the sky, 2019 Intreccio tessile 125 × 58 cm Take me to another world, 2019 Intreccio tessile 107 × 59 cm The target is destroyed, 2019 Intreccio tessile 102 × 60 cm Tutte le opere con il supporto aggiuntivo di IASPIS

J A M I A N J U L I A N O -V I L L A N I Tannersville, 2021 Acrilico su tela 304,8 × 243,84 cm Windham, 2021 Acrilico su tela 304,8 × 243,84 cm Marquel, 2021 Acrilico su tela 304,8 × 243,84 cm W’re getting married, 2021 Acrilico su tela 182,88 × 243,84 cm Visiting Dr. Natasha, 2021 Acrilico su tela 182,88 × 243,84 cm The Gay Ghost, 2019 Acrilico su tela 213,4 × 243,8 × 3,8 cm Tutte le opere con il supporto aggiuntivo di MASSIMODECARLO

B I RG I T J Ü RG E N S S E N Strange Couple, 1973 Matita colorata su carta 81 × 62 cm Courtesy Estate Birgit Jürgenssen Frog Shoulder Belt (Addition to Human Motion Apparatus), 1974 Matita colorata su carta fatta a mano 45 × 62,5 cm Courtesy Estate Birgit Jürgenssen Fehlende Glieder (Missing Limbs), 1974 Matita colorata su carta fatta a mano 62,5 × 43,5 cm The VERBUND COLLECTION, Vienna Verwelkte Blümchen (Withered Little Flowers), 1974 Matita colorata su carta fatta a mano 62,2 × 44 cm The VERBUND COLLECTION, Vienna Untitled, 1974 Matita colorata su carta fatta a mano 62,3 × 43,6 cm Courtesy Estate Birgit Jürgenssen Untitled, 1974 Matita colorata su carta fatta a mano 43,6 × 62,2 cm Courtesy Estate Birgit Jürgenssen Coconut Crab Fight, 1971 Matita colorata su carta fatta a mano 44 × 62,4 cm Courtesy Estate Birgit Jürgenssen Untitled, 1977 Matita colorata su carta fatta a mano 56 × 39,5 cm Courtesy Estate Birgit Jürgenssen

Untitled (To Vault Over the Buck), 1979 Matita colorata su carta fatta a mano, rafforzata col bianco 45 × 62,5 cm Courtesy Estate Birgit Jürgenssen James 3:1-18 “The Tongue A Restless Evil” No. 7003, 1971 Matita colorata su carta fatta a mano 62 × 44 cm Courtesy Estate Birgit Jürgenssen Seven Mortal Sins, 1971 Matita colorata su carta fatta a mano 62,2 × 43,6 cm Courtesy Estate Birgit Jürgenssen Tutte le opere con il supporto aggiuntivo di Phileas – A Fund for Contemporary Art

I DA KA R Surreal Study, 1947 / 2016 ca. Fotografia, stampa moderna al bromuro 25,4 × 20,6 cm Lent by the National Portrait Gallery, London L’Étreinte, 1940 Fotografia 52 × 41 cm Ristampa Collezione privata

A L L I S O N K AT Z Birth Canal, 2022 Olio su lino 95 × 90 cm Milk glass, 2022 Olio e acrilico su lino 170 × 220 cm Be nice, 2022 Olio, acrilico e riso su tela 170 × 220 cm Night Philosophy, 2022 Olio, acrilico e sabbia su lino 110 × 105 cm Portrait of the artist as a young girl(s), 2022 Olio, acrilico su lino 230 × 150 cm

B R O N W Y N K AT Z Gõegõe, 2022 Reti recuperate, filo metallico, spugne, acido cloridrico e ruggine 80 × 600 × 200 cm

K A P WA N I K I WA N G A Sunset Horizon (phase I), 2022 Tessuto, pittura per stoffa Dimensioni variabili Sunset Horizon (phase II), 2022 Tessuto, pittura per stoffa Dimensioni variabili Sunset Horizon (phase III), 2022 Tessuto, pittura per stoffa Dimensioni variabili Sunset Horizon (phase IV), 2022 Tessuto, pittura per stoffa Dimensioni variabili

Untitled, 1974 Matita colorata su carta fatta a mano 62,4 × 87,5 cm Courtesy Estate Birgit Jürgenssen

Tutte le opere da Sunset Horizon con il supporto aggiuntivo Global Affairs Canada/Affaires mondiales Canada, Embassy of Canada to Italy/ Ambassade du Canada en Italie

Untitled, 1970 Matita colorata su carta fatta a mano 32,8 × 24,8 cm Courtesy Estate Birgit Jürgenssen

Hour glass #1, 2022 Vetro, sabbia silicea 165 × 50 × 40 cm

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Elenco delle opere


Hour glass #2, 2022 Vetro, sabbia silicea 200 × 60 × 50 cm

Artificial Man in Four Parts IV, 1967 Olio e acrilico su tela 126,5 × 177 cm

Hour glass #3, 2022 Vetro, sabbia silicea 180 × 55 × 30 cm

Moon, 1967 Acrilico, smalto e inchiostro su carta 62 × 44,5 cm

Tutte le opere da Hour glass con il supporto aggiuntivo di The Shifting Foundation

Untitled (Torso with Heart), 1967 Acrilico, pennarello, matita colorata e inserisci la tua lettera 39 × 34 cm

Tutte le opere con il supporto aggiuntivo di Galerie Tanja Wagner, Berlin; LUMA Foundation; Institut français Grazie alle donazioni al Canadian Friends Fund of La Biennale, presso KBF CANADA

K I K I KO G E L N I K Ikarus, 1965 Olio e acrilico su tela 129 × 104 cm Transparent Angel, 1965 Acrilico, smalto e china su carta 73 × 55 cm Mechanical Woman IV, 1965 Smalto e china su carta 73 × 58 cm Liquid Injection Thrust, 1965 Olio e acrilico su tela 139,5 × 93,5 cm Female Robot, 1964 Acrilico, smalto e china su carta 73 × 55 cm Robots, 1966 China, inchiostro e matita colorata su carta 57 × 75 cm M, 1964 Olio e acrilico su tela 203 × 142,5 cm Bomb for Alfonso, 1962 Olio su tela 183 × 151 cm

Tutte le opere collezione e courtesy Kiki Kogelnik Foundation, New York Tutte le opere con il supporto aggiuntivo di Kiki Kogelnik Foundation, New York; Phileas – A Fund for Contemporary Art

BA R BA RA K RU G E R Untitled (Beginning/Middle/End), 2022 Installazione site-specific, stampa su vinile Installazione video a tre canali (su 3 monitor a schermo piatto), suono Dimensioni variabili 5 min 35 sec Con il supporto aggiuntivo di Sprüth Magers; Maharam

T E T S U M I KU D O Garden of the Metamorphosis in the Space Capsule, 1968 Legno dipinto, fiori artificiali, stoffa, luce ultravioletta 350,5 × 350,5 × 350,5 cm Cultivation, 1972 Gabbia dipinta, legno, plastica, cotone, vernice, gusci di lumache, vernice spray, terriccio artificiale, capelli, resina, termometro 27,9 × 34,6 × 19,4 cm Your Portrait, 1966 Cassa in legno verniciato perforato, cotone, plastica, poliestere, resina, vernice 30 × 30 × 30 cm

Cold Passage, 1964 Olio e acrilico su tela 152 × 122 cm

Pollution - cultivation - nouvelle écologie, 1974 Serigrafia su carta 90 × 56,3 cm Courtesy Estate of Tetsumi Kudo

Mechanical Woman II, 1965 Smalto e china su carta 73 × 58 cm

Tutte le opere con il supporto aggiuntivo di Hauser & Wirth

Robots, 1966 Inchiostro e matita colorata su carta 56 × 38 cm

GA B R I E L L E L’ H I RO N D E L L E H I L L

Broken Robots, 1966 China, inchiostro e matita colorata su carta 59 × 74 cm Robots, 1966 Acrilico, acquarello e inchiostro su carta 58,5 × 39,5 cm Robots, 1966–1967 Inchiostro su carta 32,5 × 27,5 cm Untitled (Robots), 1967 Acrilico, smalto e inchiostro 73 × 58 cm Artificial Man in Four Parts I , 1967 Olio e acrilico su tela 126,5 × 177 cm Artificial Man in Four Parts II, 1967 Olio e acrilico su tela 126,5 × 177 cm Artificial Man in Four Parts III, 1967 Olio e acrilico su tela 126,5 × 177 cm

Spell #12, caves, 2020 Olio Crisco al tabacco, pittura a olio e altri materiali 43 × 37 × 4 cm Spell #13, for vomiting anger, 2020 Olio Crisco al tabacco, pittura a olio e altri materiali 30,5 × 22,9 cm Collezione Gochman Family e Forge Project Spell #8, sunset on clark, 2019 Olio Crisco al tabacco, pittura a olio, fiori di campo, lattina di birra, nastro adesivo 33 × 24,8 cm Collezione Chris e Petroula Asimakis Spell #1, 2018 Carta, Crisco, pittura a olio, fiori di campo, ciondolo a forma di serpente, linguetta di lattina di birra, ritagli di rivista 26,7 × 17,1 cm Collezione Tave Cole Counterblaste, 2021 Collant, tabacco, linguette di lattine di birra, fiori di campo, filo, ciondoli 24 × 200 × 66 cm

Dispersal, 2019 Tabacco Virginia, tabacco Perique, baccelli, filo, legno, palo trovato 109,2 × 46,41 × 3 cm Collezione privata Disintegration, 2019 Tabacco Virginia, tabacco Perique, baccelli, filo, legno, palo trovato 109,2 × 46,41 × 3 cm Collezione privata

L O U I S E L AW L E R No Exit, 2022 Installazione composta dalle seguenti opere: Hair (adjusted to fit), 2005 / 2019 / 2021 Materiale adesivo per pareti Dimensioni variabili per adattarsi alle proporzioni di un dato muro a ogni scala determinata dall’espositore Con il supporto aggiuntivo di Maharam Untitled (Ambient), 2021 Stampa a sublimazione su scatola museo 121,9 × 194 cm Untitled (Brass and Blue), 2021 Stampa a sublimazione su scatola museo 121,9 × 180,3 cm Untitled (Skylight), 2021 Stampa a sublimazione su scatola museo 121,9 × 200 cm Untitled (Second Night), 2021 Stampa a sublimazione su scatola museo 121,9 × 182,2 cm Untitled (Reflection), 2021 Stampa a sublimazione su scatola museo 121,9 × 176,8 cm Untitled (Sfumato), 2021 Stampa a sublimazione su scatola museo 121,9 × 182,9 cm Untitled (Intervals), 2021 Stampa a sublimazione su scatola museo 121,9 × 187,6 cm Untitled (First Night), 2021 Stampa a sublimazione su scatola museo 121,9 × 182,9 cm Untitled (Bullnose), 2021 Stampa a sublimazione su scatola museo 121,9 × 172,1 cm Untitled (Cadmium), 2021 Stampa a sublimazione su scatola museo 121,9 × 181,6 cm Tutte le opere con il supporto aggiuntivo di Sprüth Magers

C A R O LY N L A Z A R D TV5 (Videodrome), 2021 Acciaio inossidabile 55,8 × 83,8 × 25,4 cm Collezione privata TV7 (Cliffhanger), 2021 Granito 55,8 × 83,8 × 22,8 cm Collezione Maxwell Graham e Mackenzie Lew Graham, New York TV10 (Channel 4), 2021 Ceramica, carrello televisivo 91,4 × 76,2 × 50,8 cm Carolyn Working, 2020 Penna su carta 30 × 35 cm Collezione Eleanor and Bobby Cayre, New York

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Cinema 1, Cinema 2, 2020 Fuoco Infinite duration

Untitled, 2022 Marmo 54 × 67,5 × 107 cm

Workers’ comp, 2021 Poltrona reclinabile elettrica 101,6 × 85,1 × 93,9 cm

Tutte le opere con il supporto aggiuntivo di Casey Kaplan, New York; Mother’s Tankstation Limited, Dublin

Privatization, 2020 Aria purificata con filtro HEPA Dimensioni variabili in base allo spazio (ogni dispositivo purifica 17,56 metri quadri d’aria) The Museum of Contemporary Art, Los Angeles. Purchase with funds provided by the Emerging Art Fund Half Life, 2021 Clessidra, polvere di granito proveniente da McCoy Quarry, Glasgow Inc., King of Prussia, Pennsylvania 31,75 × 15,88 × 15,88 cm

MIRE LEE Endless House: Holes and Drips, 2022 Sculture multiple in ceramica su un’impalcatura, carbonato di litio e liquido di ferro ossidato, pompa, motore e materiali vari 1,8 × 2 × 4 m. Con il supporto aggiuntivo di Sundaymorning@ekwc Endless House: Holes and Drips (Sculpture #1), 2022 Cemento pigmentato e gesso bagnato con glicerina 44 × 55 × 107 cm Endless House: Holes and Drips (Sculpture #2), 2022 Cemento pigmentato e gesso bagnato con glicerina 40 × 46 × 94 cm Endless House: Holes and Drips (Sculpture #3), 2022 Cemento pigmentato, resina, motore, pompa, glicerina e altri materiali vari 28 × 80 × 95 cm Endless House: Holes and Drips (Sculpture #4), 2022 Cemento pigmentato, resina, motore, pompa, glicerina pigmentata e altri materiali vari 30 × 64 × 85 cm Endless House: Holes and Drips (Bench), 2022 Cemento pigmentato e gesso 44 × 54 × 200 cm Tutte le opere con il supporto aggiuntivo di Tina Kim Gallery; Mondriaan Fund, Korean Arts Management Service (KAMS); Ammodo

SIMONE LEIGH Brick House, 2019 Bronzo 487,7 × 279,4 × 279,4 cm Commissionata da High Line Art, presentata dalla High Line e NYC Parks Collezione privata Con il supporto di Hauser & Wirth

HANNAH LEVY Untitled, 2022 Vetro, acciaio inossidabile 260 × 300 × 208 cm Untitled, 2022 Silicone, acciaio nichelato 183 × 195 × 320 cm

TA U L E W I S Sol Niger (With my fire, I may destroy everything, by my breath, souls are lifted from putrified earth), 2021 Pelle riciclata, nylon rivestito, armatura d’acciaio 304,8 cm × 310 cm × 122 cm Angelus Mortem, 2021 Pelliccia riciclata (visone, castoro, volpe, coniglio, agnello e zibellino), nylon rivestito, armatura in acciaio 330 cm × 355,6 cm × 116,8 cm Vena Cava, 2021 Pelle riciclata, vernice acrilica, nylon rivestito, armatura in acciaio 330 cm × 310 cm × 122 cm Tutte le opere con il supporto aggiuntivo di Stephen Friedman Gallery Grazie alle donazioni al Canadian Friends Fund of La Biennale, presso KBF CANADA

SHUANG LI ÆTHER (Poor Objects), 2021 Video 18 min 28 sec Commissionato da Rockbund Art Museum, Shanghai Con il supporto aggiuntivo di Peres Projects, Berlin

M I N A L OY Househunting, 1950 ca. Assemblage di materiali vari 90 × 105,5 cm Collezione Carolyn Burke

L U YA N G DOKU - Digital Descending, 2020–in corso Animazione 3D in 4K 25 min Con il supporto aggiuntivo di ARoS Aarhus Art Museum; Kunstpalais Erlangen; BMW Art Journey

ANTOINET TE LUBAKI Untitled (three characters under a tree), 1929 ca. Acquarello su carta 52 × 66 cm Collezione privata Untitled (crocodile, fish, bird), 1929 ca. Acquarello su carta 52 × 73,5 cm

Z H E N YA M A C H N E VA Totem, 2020 Arazzo tessuto a mano 97 × 192 × 4 Echo, 2021 Arazzo tessuto a mano 165 × 125 × 4 cm A girl, 2022 Arazzo tessuto a mano 147 × 97 × 4 cm

LILIANE LIJN

Tutte le opere con il supporto aggiuntivo di Galerie Georges-Philippe & Nathalie Vallois

Gemini , 1984 Acciaio inossidabile, prisma ottico in vetro, filo armonico, perle di vetro, molle in acciaio cromato 190 × 100 × 60 cm

B AYA M A H I E D D I N E

Heshe, 1980 Acciaio cromato, fibre sintetiche, prisma ottico in vetro 196 × 72 × 63 cm Feathered Lady, 1979 Angolo in alluminio anodizzato, piumini, filo armonico, perline di vetro, prisma ottico in vetro 203 × 27 × 27,5 cm

CANDICE LIN Xternesta, 2022 Installazione Ceramica smaltata, ricettario d’artista rilegato e dipinto a rovescio, piani in vetro dipinti a rovescio con elementi di carta in collage, oggetti in ceramica e porcellana, bronzo fuso, alluminio e peltro, vasi e bottiglie di vetro con saldature in peltro, talismani d’argento e collage di carta, varie tinture tra cui sostanze abortive, foglie di indaco, cime di avena e Testoterone Chiaroveggente, bruciaincenso “ume”, spezie e incenso di resina, cristallizzatore di solfato di rame, iguana tassidermizzata con cristalli di solfato di potassio (III) di cromo, solfato di rame cristallizzato, terrario di vetro soffiato, bachi da seta morti, lardo profumato, cartapesta, materiale vegetale essiccato, rivestito in resina e scolpito in cera, erbe e funghi cinesi placcati in rame, bioplastica kudzu, radice di kudzu, reishi essiccato, alcol, lacca bianca urushi, liquido di riso fermentato, kombucha (tè nero, zucchero, lievito), fango di Saint Malo, strumenti per la fermentazione, rocce, minerali, erbe, galla di quercia, veleno 213,5 × 472,5 × 543,5 cm Con il supporto aggiuntivo di François Ghebaly Gallery, Los Angeles; the UCLA Faculty Career Development Award

Femme robe jaune cheveux bleus, 1947 Gouache su tavola 70 × 54 cm Collezione Jules Maeght, Paris Femme au panier et coq rouge, 1947 Gouache su tavola 73 × 91,5 cm Collezione Adrien Maeght, Saint Paul Femme robe à chevrons, 1947 Gouache su tavola 63 × 48 cm Collezione Adrien Maeght, Saint Paul

M A RU JA M A L L O Naturaleza viva VII, 1942 Olio su masonite 43,2 × 31,1 × 1,3 cm Collezione privata, Miami Naturaleza viva VIII, 1942 Olio su masonite 42,9 × 30,5 cm Collezione Carol Weisman Naturaleza viva XIV, 1943 Olio su masonite 42,9 × 30,5 cm Colección Leandro Navarro, Madrid Tutte le opere con il supporto aggiuntivo di Acción Cultural Española (AC/E)

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Elenco delle opere


J OYC E M A N S O U R Les Damnations, 1966 Libro illustrato con 11 incisioni a colori di Roberto Matta Pubblicato da Visat, Parigi, 1966 Collezione privata

home vs owner, 2020 Posate d’argento, supporto in tessuto realizzato da Louis Backhouse 25 × 43 cm

Saccades (Ref. A77), 1977 Disegno generato al computer stampato con plotter su carta 27,5 × 42 cm

Tutte le opere con il supporto aggiuntivo di Danish Arts Foundation; the Henry Moore Foundation

Saccades (Ref. B77), 1977 Disegno generato al computer stampato con plotter su carta 27,5 × 42 cm

B R I T TA M A R A K AT T - L A B B A

M A R I A S I BY L L A M E R I A N

Hurricane, 2021 Ricamo e appliqué 50 × 180 cm

Metamorphosis Insectorum Surinamensium, Tavola 1, 1719 Incisione su carta colorata a mano 52,07 × 36,83 cm Facsimile Photo Lee Stalsworth Courtesy the National Museum of Women in the Arts, Washington, D.C., Gift of Wallace and Wilhelmina Holladay

Finished drilled, 2021 Ricamo e appliqué 50 × 180 cm Milky way, 2021 Ricamo e appliqué 55 × 52 cm In the footsteps of the stars, 2021 Ricamo e appliqué 55 × 47 cm Global upwarms, 2021 Ricamo e appliqué 120 × 135 cm Summer, 1987 Ricamo 42 × 42 cm Čokču/Name on one mountain, 2021 Ricamo e appliqué 40 × 46 cm One day in November, 2021 Ricamo e appliqué 40 × 46 cm Between the trees, 1986 Ricamo 40 × 46 cm Tutte le opere con il supporto aggiuntivo di IASPIS

D I E G O M A RC ON The Parents’ Room, 2021 Video digitale trasferito da film 35mm, animazione CGI, colore, suono 6 min 23 sec Prodotto da INCURVA, Museo Madre Fondazione Donnaregina per le arti contemporanee, Primitive Film Realizzato grazie al sostegno di Italian Council (2019) Con il supporto aggiuntivo di ERMES ERMES, FIDLab, Fondazione In Between Art Film Courtesy l’Artista; Fondazione Donnaregina per le arti contemporanee, Napoli

SIDSEL MEINECHE HANSEN Maintenancer, 2018 Video digitale, suono 13 min 5 sec In collaborazione con Therese Henningsen Untitled (blueprint for sex robot), 2018 Disegno tecnico stampato su carta, penna e matita, cornice a cassetto in faggio su misura, antiacido / montaggio reversibile 207 × 144 cm Daddy Mould, 2018 Calco industriale in due parti fatto in fibra di vetro, resina e vaselina 149 × 37 × 92 cm; 149 × 48 × 89 cm Untitled (Sex Robot), 2018–2019 Bambola snodata in legno 176 × 25 × 40 cm Statens Museum for Kunst / National Gallery of Denmark

Metamorphosis Insectorum Surinamensium, Tavola 5, 1719 Incisione su carta colorata a mano 52,07 × 36,83 cm Facsimile Photo Lee Stalsworth Courtesy the National Museum of Women in the Arts, Washington, D.C., Gift of Wallace and Wilhelmina Holladay Metamorphosis Insectorum Surinamensium, Tavola 47, 1719 Incisione su carta colorata a mano 52,07 × 36,83 cm Facsimile Photo Lee Stalsworth Courtesy the National Museum of Women in the Arts, Washington, D.C., Gift of Wallace and Wilhelmina Holladay Metamorphosis Insectorum Surinamensium, Tavola 11, 1702–1703 Acquarello e bodycolor con gomma arabica su pergamena 35,09 × 28,5 cm Facsimile Courtesy Royal Collection Trust / © Her Majesty Queen Elizabeth II 2021 Metamorphosis Insectorum Surinamensium, Tavola 19, 1702–1703 Acquarello e bodycolor con gomma arabica su contorni leggermente incisi su pergamena 37,5 × 30,1 cm Facsimile Courtesy Royal Collection Trust / © Her Majesty Queen Elizabeth II 2021 Metamorphosis Insectorum Surinamensium, Tavola 48, 1702–1703 Acquarello e bodycolor con gomma arabica su contorni leggermente incisi su pergamena 38,4 × 27,7 cm Facsimile Courtesy Royal Collection Trust / © Her Majesty Queen Elizabeth II 2021

Saccades (Ref. C77), 1977 Disegno generato al computer stampato con plotter su carta 27,5 × 42 cm Saccades (Ref. E77), 1977 Disegno generato al computer stampato con plotter su carta 27,5 × 42 cm Transformation de carré concentrique (74.338-16.11.10), 1974 Disegno generato al computer stampato con plotter su carta Benson 50 × 35,5 cm Hypertransformation (74.282.17.04.56), 1974 Disegno generato al computer stampato con plotter su carta Benson 44 × 33 cm Transformation de carrés concentriques (76.101.12.25.00), 1976 Disegno generato al computer stampato con plotter su carta Benson 36 × 54 cm Transformation de carrés concentriques (76.101.12.29.53), 1976 Disegno generato al computer stampato con plotter su carta Benson 36 × 54 cm Transformation de carrés concentriques (ref. 76A), 1976 Disegno generato al computer stampato con plotter su carta Benson 36 × 54 cm Transformation de carrés concentriques (ref. 76C), 1976 Disegno generato al computer stampato con plotter su carta Benson 36 × 54 cm Transformation de carrés concentriques (74.338.15.53.16), 1974 Disegno generato al computer stampato con plotter su carta Benson 36 × 54 cm Transformation de carrés concentriques (75.137.12.27.42), 1975 Disegno generato al computer stampato con plotter su carta Benson 36 × 54 cm

VERA MOLNÁR

9 quasi-carrés (réf. 85C), 1985 Disegno generato al computer stampato con plotter su carta 29 × 29 cm

Histoire d’I (réf. B), 1977 Disegno generato al computer stampato con plotter su carta Benson 30 × 30 cm

Repentirs (ref. B), 1985 Disegno generato al computer stampato con plotter su carta 29 × 29 cm

Histoire d’I (réf. C), 1977 Disegno generato al computer stampato con plotter su carta Benson 30 × 30 cm

Repentirs (ref. 85A), 1985 Disegno generato al computer stampato con plotter su carta 29 × 29 cm

Histoire d’I (réf. D), 1977 Disegno generato al computer stampato con plotter su carta Benson 30 × 30 cm

Tutte le opere con il supporto aggiuntivo di Galerie Oniris, Rennes; Institut français

Histoire d’I (réf. E), 1977 Disegno generato al computer stampato con plotter su carta Benson 30 × 30 cm

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DELCY MORELOS

NADJA

P R E C I O U S O KOYO M O N

Earthly Paradise, 2022 Installazione site-specific Materiali vari: terra, argilla, cannella, chiodi di garofano in polvere, cacao in polvere, amido di manioca, tabacco, copaiba, bicarbonato e carbone in polvere Dimensioni variabili Con il supporto aggiuntivo di Ammodo

C’est moi, c’est encore moi, 1926 Rossetto e matita su carta; due disegni (recto e verso) e stampo delle labbra di Nadja, datati 1926 e indirizzati ad André Breton 9,2 × 11,6 cm

To See The Earth Before the End of the World, 2022 Installazione composta dalle seguenti opere:

S I S T E R G E RT RU D E M O RGA N

La fleur des amants, par Nadja, 1926 Matita su carta; disegno originale firmato sul retro; sul verso, poesia manoscritta dedicata ad André Breton 19,9 × 24 cm

untitled (New Jerusalem), 1960 / 1970 ca. Matita, penna, acrilico su cartoncino 27 × 36,4 cm

Autoportrait de Nadja , 1926 ca. Inchiostro su tovaglia di carta 23 × 16 cm

THE ROSEHILL MEMORiAL BAPTiST CHURCH, Columbus Ga., n.d. Acrilico, inchiostro su carta 28,6 × 42,9 cm

Mazda, Esquisse raturée, L’âme du blé, 1926 ca. Grafite 34,5 × 47,5 cm

Revelation I JOHN, 1970 ca. Acrilico, matita e inchiostro su due pannelli di cartone 55,6 × 76,2 cm CHRiST IS THE HEAD OF THiS HOUSE, 1970 Acrilico su carta 19,4 × 45,2 cm untitled (SABBATH DAY Poem), n.d. Pittura su carta 30,5 × 22 cm untitled (Revelation 7. chap), 1970 ca. Pittura su legno 82 × 39 cm New Jerusalem from the Prayer Room, 1970 ca. Acrilico, penna e matita su cartoncino 55,8 × 71,2 cm Tutte le opere The Museum + The Gallery of Everything, London

SANDRA MUJINGA Sentinels of Change, 2021 Installazione 301,3 × 255 × 798,6 cm and 270 × 100 × 35 cm Con il supporto aggiuntivo di Freunde der Nationalgalerie; Office for Contemporary Art Norway (OCA) Reworlding Remains, 2021 Installazione 3 elementi. 270 × 100 × 35 cm ciascuno Con il supporto aggiuntivo di Office for Contemporary Art Norway (OCA)

MRINALINI MUKHERJEE Vanshree, 1994 Fibra intrecciata e tinta 248,9 × 129,5 × 88,9 Collezione Jayashree Bhartia Pakshi, 1985 Canapa intrecciata e tinta 260 × 95 × 70 cm Collezione The Museum of Art & Photography (MAP), Bengaluru Rudra, 1982 Fibra di canapa 297 × 125 × 88 cm National Gallery of Modern Art, New Delhi. Ministry of Culture. Government of India Devi, 1982 Fibra 217 × 142 × 116 cm National Gallery of Modern Art, New Delhi. Ministry of Culture. Government of India

Le baiser qui tue, 1926 Matita su carta da lucido 36,5 × 25 cm Tutte le opere Chancellerie des Universités de Paris, Bibliothèque littéraire Jacques Doucet, Paris

LOUISE NEVELSON Homage to the Universe, 1968 Legno dipinto di nero 284,5 × 862,5 × 30,5 cm Con il supporto aggiuntivo di Gió Marconi, Milano

AMY NIMR Untitled (Fish and Skeletons), 1936 Acquarello su carta 55 × 42,5 × 3 cm Collezione Sheikh Hassan M. A. Al-Thani

Ikuenebe, I will Never Succumb to Evil, 2022 Lana grezza, filato, terra, sangue 170 × 120 × 126 cm Omoehi, Child of Destiny I am Blood, 2022 Lana grezza, filato, terra, sangue 175 × 95 × 100 cm Oseaghe, A Tree With No Wind Looking to God, 2022 Lana grezza, filato, terra, sangue 170 × 100 × 100 cm Ihoemoegbe, Memory Has Forsaken Me, All The Ties Untangle in my Silence, 2022 Lana grezza, filato, terra, sangue 168 × 98 × 104 cm Ehidiamen, Heaven Has Refused Me, Roots of Errant Fire, 2022 Lana grezza, filato, terra, sangue 159 × 100 × 95 cm Efua, The Sun is my Own Darkness Swallowed in Flames an Angel Reborn, 2022 Lana grezza, filato, terra, sangue 180 × 110 × 105 cm resistance is an atmospheric condition, 2020–2022 Piante di kudzu Dimensioni variabili suns of consciousness, 2022 Campi di canna da zucchero Dimensioni variabili the sky is always black, Fort Mose, 2022 Farfalle Dimensioni variabili

Untitled (Underwater Skeleton), 1942 Gouache su legno 63 × 54,5 × 5 cm Collezione Sheikh Hassan M. A. Al-Thani

Tutte le opere con il supporto aggiuntivo di LUMA Foundation; Ammodo

M AG DA L E N E O D U N D O

Der Spiegel der Genoveva, 1967 Stampa 25 × 17 cm Collezione privata

Untitled Vessel, 2020–2021 Ceramica 57 × 32 cm Wakefield Council Permanent Art Collection (The Hepworth Wakefield). Acquisito tramite grant da Art Fund, Arts Council England/V&A Purchase Grant Fund, Henry Moore Foundation and The Hepworth’s Collection Circle, 2021 Untitled Vessel, Symmetrical Series, 2017 Ceramica 63 × 34 cm Collezione privata Untitled Vessel, Symmetrical Series, 2017 Ceramica 63,5 × 33,3 cm Collezione privata Kikango II, 2013 Ceramica nera con sfumature scure-lucide cangianti e ocra/terracotta 60 × 24 cm Collezione privata Untitled Vessel, Symmetrical Series, 2009 Ceramica 51 × 23 cm Collezione privata Tutte le opere con il supporto aggiuntivo di the Henry Moore Foundation

MERET OPPENHEIM

O VA R TA C I Helicopter model wood, n.d Legno 30 × 27 × 20 cm Smoking phantoms, n.d. Cartapesta, metallo e legno 40 × 4 × 3 cm Untitled, n.d. Scultura 40 × 10 × 8 cm Four smoking phantoms and two smoking heads, n.d. Cartapesta, metallo e legno 43 × 35 × 8 cm Construction, n.d. Cartone e carta 35 × 40 × 20 cm Louise, n.d. Cartapesta dipinta, tessuto e legno 90 × 20 × 16 cm Verda, n.d. Cartapesta dipinta, tessuto e legno 165 × 35 × 11 cm Female figure in sarcophagus, n.d. Cartone dipinto e cartapesta dipinta 56 × 11 × 18 cm

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Elenco delle opere


Smoking phantom, n.d. Cartapesta, metallo e legno 41 × 6 × 9 cm Untitled, n.d. Gouache e pastello su tela/tessuto 127 × 15,5 × 4 cm Untitled, n.d. 2 bambole a grandezza naturale. Gouache e pastello su tela/tessuto 115 × 15 × 4 cm Untitled, n.d. 2 bambole a grandezza naturale. Gouache e pastello su tela/tessuto 130 × 30 × 4 cm Untitled, n.d. 2 bambole a grandezza naturale. Gouache e pastello su tela/tessuto 150 × 21 × 4 cm Untitled, n.d. Acquarello su carta 22 × 27,5 × 3 cm Frøken Ovartaci, n.d. Gouache e pastello su tela e lino 97 × 168 × 5 cm Helicopter sketch, n.d. Acquarello su carta 40,5 × 43 × 3 cm Women in music, n.d. n/a Gouache e pastello su carta 45 × 29 × 3 cm Main Building of the former psychiatric hospital in Risskov, n.d. Stampa a colori su cartoncino 97 × 67 × 3 cm Dragon boat Rodecia por Rodecianes, n.d. Gouache e pastello su carta 41 × 55 × 3 cm Untitled, n.d. Quadro 41 × 55 × 3 cm Untitled, n.d. Acquarello su carta 22 × 27,5 × 3 cm Untitled, n.d. 2 bambole a grandezza naturale. Gouache e pastello su tela/tessuto 125 × 22 × 4 cm Untitled, n.d. 2 bambole a grandezza naturale. Gouache e pastello su tela/tessuto 139 × 50 × 4 cm Untitled, n.d. 2 bambole a grandezza naturale. Gouache e pastello su tela/tessuto 166 × 28 × 4 cm Untitled, n.d. 2 bambole a grandezza naturale. Gouache e pastello su tela/tessuto 162 × 44 × 6 cm Untitled, n.d. 2 bambole a grandezza naturale. Gouache e pastello su tela/tessuto 148 × 13 × 4 cm Tutte le opere Collezione Museum Ovartaci Con il supporto aggiuntivo di Danish Arts Foundation

V I RG I N I A OV E RT ON Untitled (tulip), 2022 Installazione site-specific. Cemento armato, ottone e vetro 620 cm × 540 cm Con il supporto aggiuntivo di Bortolami Gallery, New York; Galerie Francesca Pia, Zürich; White Cube, London and Hong Kong; Corning Museum of Glass, Corning, New York; Kunstgiesserei St. Gallen, Switzerland Untitled (pink buoy), 2022 Vetro, corda Circonferenza 50,8 cm ciascuno Con il supporto aggiuntivo di Bortolami Gallery, New York; Galerie Francesca Pia, Zürich; White Cube, London and Hong Kong; Corning Museum of Glass, Corning, New York; Kunstgiesserei St. Gallen, Switzerland

A KO S UA A D O M A OW U S U Kwaku Ananse, 2013 Video 26 min Con il supporto aggiuntivo di Focus Features Africa First; IMCINE; Cortes Films, Obibini Pictures

P R A B H A K A R PA C H P U T E Unfolding of the remains-II, 2022 Acrilico e carboncino su tela Dittico. 213 × 487 cm ciascuno Nel complesso 213 × 975 cm Con il supporto aggiuntivo di EXPERIMENTER, Kolkata The underground nest over the dune-II, 2022 Polvere di pietra, polpa di carta, argilla rossa, gomma arabica, polvere di semi di tamarindo, legno, oggetti trovati e metallo 182 × 121 × 274 cm Con il supporto aggiuntivo di EXPERIMENTER, Kolkata

E U S A P I A PA L L A D I N O Ignoto, 1906–1909 ca. 5 modelli in gesso e stampi ottenuti da calchi realizzati durante le sedute spiritiche tenutesi all’inizio del ventesimo secolo: Modello in gesso di parte anatomica non identificata; Calco medianico in gesso (rilievo di volto umano); Calco medianico in gesso (calco negativo con impronta di mano); Calco medianico in gesso (calco in rilievo con convessità non identificabile); Calco medianico in gesso (calco negativo con concavità non identificabile) Eugenio Gellona (attribuite a), cartoline fotografiche, 1906–1907 5 fotografie di modelli in gesso ottenuti da calchi realizzati da Eusapia Palladino durante le sedute spiritiche tenutesi nel 1906 e 1907 a Genova alla presenza dello spiritualista Eugenio Gellona: Modello in gesso, recto e verso, 1906 (8,8 × 14 cm); 2 Calchi Medianici, recto e verso, 1906 (9 × 14 cm ciascuno); Calco Medianico, John o Gion King, recto e verso, 1907 (9 × 14 cm); Calco Medianico, John o meglio Gion King, recto e verso, 1907 (9 × 14 cm) Stampa ai sali d’argento Eugenio Gellona (attribuita a), Modello in gesso, recto e verso, 1906 Fotografia di modello in gesso, iscrizione sul verso Stampa ai sali d’argento 17,5 × 12,5 cm Fotografo non identificato, Seduta spiritica con la Palladino, 1909 Stampa ai sali d’argento 16,8 × 12 cm

Fotografo non identificato, Seduta spiritica con la Palladino, 1909 Fotografia stereoscopica Stampa su carta (recto) aristotipo 18 × 8,8 cm Tutte le opere sopra Museo di Antropologia criminale “Cesare Lombroso”, Università di Torino. © Museo “Cesare Lombroso” Fotografo non identificato, Levitazione al tavolo. Un medium e alcuni osservatori mentre performano una levitazione al tavolo, 1890 ca. 2 fotografie in bianco e nero Ristampe Fotografo non identificato, Volto medianico, 1897 Fotografia in bianco e nero Ristampa Fotografo non identificato, Palladino mentre fa levitare un tavolo, 1907–1908 Fotografia in bianco e nero Ristampa Tutte le opere sopra Courtesy Foto Scala/SPL History

V I O L E TA PA R R A Combate Naval I, 1964 Iuta con lanigrafia 165 × 214 × 6 cm Fundación Museo Violeta Parra El Circo, 1961 Iuta con lanigrafia 153 × 240,5 × 6 cm Fundación Museo Violeta Parra Árbol de la vida, 1963 Iuta con lanigrafia 166 × 127 × 6 cm Fundación Museo Violeta Parra

R O S A N A PA U L I N O from Wet Nurse series, 2005 Acrilico e grafite su carta 32,5 × 25 cm from Wet Nurse series, 2005 Acrilico e grafite su carta 32,5 × 25 cm Todos os fios que tecem o mundo, 2014 Acquarello e grafite su carta 32,5 × 25 cm Ninfa preparando o casulo, 2014 Acquarello e grafite su carta 32,5 × 25 cm Preparação do casulo, 2014 Acquarello e grafite su carta 32,5 × 25 cm Os fios que suportam o mundo, 2014 Acquarello e grafite su carta 32,5 × 25 cm from Carapace of Protection series, 2004 Grafite, pastello solubile in acqua e acrilico su carta 32,5 × 25 cm from Wet Nurse series, 2005 Acrilico e grafite su carta 32,5 × 25 cm Extreme protection against pain and suffering 2, 2011 Grafite e acquarello su carta 42,5 × 32,5 cm from Senhora das Plantas series, 2021 Grafite e acquarello on canvas 153 × 90 cm Collezione Frances Reynolds

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from Senhora das Plantas series, 2015 Acquarello e grafite su carta 32,5 × 25 cm Collezione Sofia Gotti from Carapace of Protection series, 2004 Grafite, pastello solubile in acqua e acrilico su carta 32,5 × 25 cm from Senhora das Plantas series, 2019 Acquarello e grafite su carta 37,5 × 27,5 cm Collezione Green Line Foundation from Senhora das Plantas series, 2019 Acquarello e grafite su carta 37,5 × 27,5 cm Collezione Green Line Foundation from Jatobá series, 2019 Acquarello e grafite su carta 65 × 50 cm Collezione Frances Reynolds from Jatobá series, 2019 Acquarello e grafite su carta 65 × 50 cm Collezione Frances Reynolds from Jatobá series, 2019 Acquarello e grafite su carta 65 × 50 cm Collezione Frances Reynolds from Jatobá series, 2019 Acquarello e grafite su carta 65 × 50 cm Collezione Inhotim Institute from Jatobá series, 2019 Acquarello e grafite su carta 65 × 50 cm from Jatobá series, 2019 Acquarello e grafite su carta 65 × 50 cm Kali, from Tecelãs series, 2003 Acrilico e grafite su carta 32,5 × 25 cm from Carapace of Protection series, 2004 Acquarello, acrilico e grafite su carta 32,5 × 25 cm from Carapace of Protection series, 2004 Acquarello, acrilico e grafite su carta 32,5 × 25 cm from Senhora das Plantas series, 2015 Acquarello e grafite su carta 32,5 × 25 cm from Senhora das Plantas series, 2015 Acquarello e grafite su carta 32,5 × 25 cm Tutte le opere con il supporto aggiuntivo di Mendes Wood DM

VA L E N T I N E P E N R O S E Le Fils du petit soldat, 1934 Collage su carta 31,4 × 44 × 2,2 cm The Penrose Collection and the Lee Miller Archives Le Home Guard, le fin de la guerre, les frères Papillon, 1938 Collage su carta 31,4 × 44,2 × 2,2 cm The Penrose Collection and the Lee Miller Archives

Le Saut de la servant, 1934 Collage su carta 31,2 × 44,2 × 2,2 cm The Penrose Collection and the Lee Miller Archives

J OA N NA P I O T ROWS KA

Les Fées 1, 1934 Collage su carta 31,3 × 44 × 2,1 cm The Penrose Collection and the Lee Miller Archives

Untitled, 2013–2022 Stampa a mano ai sali d’argento 130 × 160 cm

Ariane, 1934 Collage su carta 31,2 × 43,9 × 2,1 cm The Penrose Collection and the Lee Miller Archives La Stratégie militaire, 1934 Collage su carta 38,3 × 31,3 × 1,4 cm The Penrose Collection and the Lee Miller Archives Dons des Féminines, 1951 Libro stampato 33,5 × 25,5 × ,8 cm Pubblicato da Librairie Les Pas Perdus, Paris, 1951

ELLE PÉREZ Yet to be titled, 2022 Installazione di fotografie Stampe pigmentate d’archivio e stampe digitali ai sali d’argento Dimensioni variabili With the additional support of 47 Canal

S O N D R A P E R RY Lineage for a Phantom Zone, 2021–2022 Installazione. Divano con schermo video, tenda, video, suono Dimensioni variabili Con il supporto aggiuntivo di Rolls-Royce Motor Cars Ltd

S O LA N G E P E S S OA Sonhíferas, 2020–2021 Olio su tela 14 elementi. 158 × 150 × 5 cm ciascuno Con il supporto aggiuntivo di Mendes Wood DM Nihil Novi Sub Sole, 2019–2021 Pietra ollare scolpita Dimensioni variabili Con il supporto aggiuntivo di Mendes Wood DM

T H AO N G U Y E N P H A N First Rain, Brise-Soleil, 2021–in corso Installazione video a 3 canali, colore, suono 16 min Con il supporto di Han Nefkens Art Foundation e Tate St Ives

JULIA PHILLIPS Veiled Purifier, 2021–2022 Ceramica, seta, bronzo, marmo Dimensioni variabili Bower, 2021–2022 Ceramica, bronzo, granito, fissaggi di nylon Dimensioni variabili

Untitled, 2022 Stampa a mano ai sali d’argento 160 × 200 cm

Untitled, 2015 Stampa a mano ai sali d’argento 130 × 160 cm Untitled, 2016 Stampa a mano ai sali d’argento 130 × 160 cm Untitled, 2016 Stampa a mano ai sali d’argento 21,6 × 27,2 cm Untitled, 2022 Stampa a mano ai sali d’argento 21,6 × 27,2 cm Untitled, 2017 Stampa a mano ai sali d’argento 21,6 × 27,2 cm Untitled, 2017 Stampa a mano ai sali d’argento 21,6 × 27,2 cm Untitled, 2017 Stampa a mano ai sali d’argento 21,6 × 27,2 cm Untitled, 2017 Stampa a mano ai sali d’argento 21,6 × 27,2 cm Untitled, 2022 Collage di stampa a mano ai sali d’argento 70 × 60 cm Untitled, 2022 Collage di stampa a mano ai sali d’argento 40 × 40 cm Untitled, 2022 Collage di stampa a mano ai sali d’argento 60 × 30 cm Tutte le opere con il supporto aggiuntivo di Southard Reid; Galeria Madragoa; Galerie Thomas Zander; Galeria Dawid Radziszewski

ALEXANDRA PIRICI Encyclopedia of Relations, 2022 Azione performativa in corso Performer: Céline Bellut, Matilda Bjarum, Liliana Ferri, Daouda Keita, Raymond Liew Jin Pin, Melanie Lopez, Jared Marks, Emily Ranford, Valentina Restrepo, Robert Schulz, Jennifer Tchiakpe, Xiao Huang, Patrick Ziza Design delle mascherine: Andrei Dinu Con il supporto aggiuntivo di Audemars Piguet Contemporary; Ammodo; UniCredit Bank; European ArtEast Foundation; The Administration of the National Cultural Fund, Romania; Romanian Cultural Institute; Staatliche Kunsthalle Baden-Baden

Stabilizer, 2021–2022 Ceramica, bronzo, teca di vetro 137 × 61 × 28 cm Tutte le opere con il supporto aggiuntivo di Matthew Marks Gallery; Institut für Auslandsbeziehungen – ifa

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Elenco delle opere


ANU PÕDER

J A N I S R A FA

With a Trombone from the Gill of Lasnamäe (Pink Bird), 1988 Plastica, metallo e tessuto 83 × 53,4 × 54 cm

Lacerate, 2020 Video a singolo canale, suono 16 min Commissionato e prodotto da Fondazione In Between Art Film Con il supporto aggiuntivo di Mondriaan Fund

Composition with a Male Head, 1984 Tessile, filo metallico, rete e plastica 20 × 28 × 58 cm Before Performance, 1981 Oggetti preconfezionati, tessuto e metallo 160 × 50 × 50 cm Tutte le opere Art Museum of Estonia / Eesti Kunstimuuseum Con il supporto aggiuntivo di Estonian Centre for Contemporary Art, financed by Estonian Ministry of Culture

GISÈLE PRASSINOS

ALICE RAHON Thunderbird, 1946 Olio su tela 32,1 × 99,1 × 3,8 cm Untitled, n.d. Assemblage con legno dipinto, gusci di Olividae, fibre naturali, piume, sabbia, perline e chiodini in lega di ferro 55,9 × 29,2 × 10,2 Collezione privata

Portrait de famille, 1975 Arazzo, cotone, feltro e bottoni su supporto di iuta 77 × 105 cm

The Juggler, 1946 Marionetta 58,42 × 38,1 × 12 cm Collezione Francisco Magaña e Carlos Santos

Les Fiancés, 1975 Arazzo, cotone, feltro, filo dorato e bottoni 56 × 48 cm

C A RO L RA M A

La Mère et l’enfant, 1975 Arazzo, cotone, feltro e bottoni su supporto di iuta 64 × 50 cm

Appassionata, 1941 Acquarello su carta 33 × 23 cm Collezione privata

Portrait idéal de l’artiste, 1975 Arazzo, cotone, feltro e bottoni su supporto di iuta 103 × 58 cm Tutte le opere Collezione Bibliothèque historique de la Ville de Paris Brelin le frou ou le Portrait de famille, 1975 Libro Pubblicato da P. Belfond, Paris, 1975

CHRISTINA QUARLES Hangin’ There Baby, 2021 Acrilico su tela 196 × 244 × 5 cm (Who Could Say) We’re Not Jus’ as We Were, 2021 Acrilico su tela 178 × 330 × 5 cm Had a Gud Time Now (Who Could Say), 2021 Acrilico su tela 178 × 330 × 5 cm Gone on Too Long, 2021 Acrilico su tela 152 × 183 × 5 cm Don’t Let It Bring Yew Down (It’s Only Castles Burnin’), 2021 Acrilico su tela 213 × 244 × 5 cm Just a Lil’ Longer, 2021 Acrilico su tela 178 × 203 × 5 cm Tutte le opere con il supporto aggiuntivo di Hauser & Wirth

RAC H I L D E Monsieur Vénus, 1972 Libro con 35 incisioni autografe di Leonor Fini Pubblicato da Éditions d’art Agori, Parigi, 1972 (prima edizione 1884)

PA U L A R E G O Sleeper, 1994 Pastello su carta su alluminio 120 × 160 × 5 cm Collezione privata Metamorphosing after Kafka, 2002 Pastello su carta su alluminio 110 × 140 × 5 cm Kistefos museum, courtesy Christen Sveaas Art Foundation

Humpty Dumpty, 1989 Acquatinta Immagine: 32,6 × 21,2 cm. Carta: 52 × 38 cm Edizione di 50 Jack and Jill, 1989 Acquatinta Immagine: 32,3 × 21,5 cm. Carta: 52 × 38 cm Edizione di 50 Baa, Baa, Black Sheep, 1989 Acquatinta Immagine: 32,2 × 21,6 cm. Carta: 52 × 38 cm Edizione di 50 Little Miss Muffet I, 1989 Acquatinta Immagine: 22,6 × 21,3 cm. Carta: 52 × 38 cm Edizione di 50 Mary, Mary, Quite Contrary I, 1989 Acquatinta Immagine: 22,3 × 21,3 cm. Carta: 52 × 38 cm Edizione di 50 Who Killed Cock Robin? II, 1989 Acquatinta Immagine: 32,3 × 21,3 cm. Carta: 52 × 38 cm Edizione di 50 Hey diddle diddle, 1989 Acquatinta Immagine: 32,5 × 21,4 cm. Carta: 52 × 38 cm Edizione di 50 Three Blind Mice II, 1989 Acquatinta Immagine: 21,1 × 22,6 cm. Carta: 52 × 38 cm Edizione di 50 Old Mother Goose, 1989 Acquatinta colorata a mano Immagine: 32,4 × 21,3 cm. Carta: 52 × 38 cm Edizione di 50 Ladybird, Ladybird, 1989 Acquatinta colorata a mano Immagine: 21,1 × 22,6 cm. Carta: 52 × 38 cm Edizione di 50

Sit, 1994 Pastello su carta su alluminio 160 × 120 × 4,5 cm Collezione privata

How many Miles to Babylon?, 1989 Acquatinta Immagine: 32,2 × 21,1 cm. Carta: 52 × 38 cm Edizione di 50

Geppetto Washing Pinocchio, 1996 Pastello su carta su alluminio 170 × 150 × 6 cm Collezione privata

Hickety Pickety, 1989 Acquatinta Immagine: 22,3 × 21,4 cm. Carta: 52 × 38 cm Edizione di 50

Oratorio, 2009 Mobile in legno con pannelli laterali composti da 8 dipinti (matita conté su carta) e 8 figure 255 × 300 cm Collezione Ostrich Arts

A Frog he would a-wooing go I, 1989 Acquatinta Immagine: 22,3 × 21,6 cm. Carta: 52 × 38 cm Edizione di 50

Gluttony, 2019 Cartapesta, gouache, legno, pvc, metallo, cotone, tulle e tessuto 150 × 110 × 175 cm Collezione Ostrich Arts Snow White and her Stepmother, 1996 Pastello su carta su alluminio 177,8 × 149,8 cm The Whitworth, The University of Manchester The Blue Fairy Whispering to Pinocchio, 1996 Pastello su carta su alluminio 170 × 150 cm LaMA (Laurent and Margarida Saglio Collezione privata) Children and their Stories, 1989 Acquatinta Immagine: 33,9 × 52,3 cm. Carta: 56,9 × 75,7 cm Edizione di 75

Ring-a-ring o’ Roses, 1989 Acquatinta colorata a mano su chine-collé rosa Immagine: 21,2 × 22,6 cm. Carta: 52 × 38 cm Edizione di 50 Nursery Rhymes Libro illustrato Thames & Hudson, Londra, 2019 Riedizione dell’originale pubblicato nel 1994 Tutte le opere con il supporto aggiuntivo di Victoria Miro

EDITH RIMMINGTON The Decoy, 1948 Olio su tela 35,5 × 30,5 cm National Galleries of Scotland. Purchased by the Patrons of the National Galleries of Scotland 2002

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E N I F RO B E RT Sensazioni chirurgiche, 1917 Articolo pubblicato in “L’Italia futurista” (Milano), 11, 1917, p. 3 35,5 × 19,5 cm Facsimile Malattia + infezione, 1917 Articolo pubblicato in “L’Italia futurista” (Milano), 19, 1917, p. 3 16 × 14 cm Facsimile Un ventre di donna. Romanzo chirurgico, 1919 Copertina del libro Pubblicato da Facchi, Milano, 1919 Facsimile

LU I Z RO Q U E Urubu, 2020 Video Full HD trasferito da film Super8 Con il supporto aggiuntivo di VAC at University of Texas, Austin XXI, 2022 Video in 4K Con il supporto aggiuntivo di Isla Flotante; Mendes Wood DM

RO SA RO SÀ Le donne del posdomani, 1917 Articolo pubblicato in “L’Italia futurista” (Milano), 18, 1917, p. 1 20,5 × 12,5 cm Facsimile Come si seducono le donne, 1917 Illustrazione pubblicata in “L’Italia futurista” (Milano), 30, 1917, p. 1 16,8 × 25,1 cm Facsimile Le donne cambiano finalmente, 1917 Articolo pubblicato in “L’Italia futurista” (Milano), 27, 1917, p. 2 21 × 6,5 cm Facsimile

NIKI DE SAINT PHALLE Gwendolyn, 1966 / 1990 Resina di poliestere verniciata su base in metallo 262,3 × 200,3 × 125,1 cm Courtesy Niki Charitable Art Foundation Con il supporto aggiuntivo di Salon 94

G I O VA N N A S A N D R I Costellazione di lettere, 1977 Serigrafia su cartoncino 48,5 × 69,5 cm Collezione privata

P I N A R E E S A N P I TA K Offering Vessel, 2021 Acrilico, matita su tela 250 × 250 cm Breast Vessel in the Reds, 2021 Acrilico, matita, piume su tela 250 × 250 cm The Body and The Gold Breast, 2021 Acrilico, foglie oro su tela 250 × 220 cm Body Lyrics III, 2020 Acrilico su tela 200 × 150 cm

Offering Vessel II, 2021 Acrilico, carta su tela 250 × 250 cm Tutte le opere con il supporto aggiuntivo di Yavuz Gallery

AKI SASAMOTO Sink or Float, 2022 Installazione di vari materiali Dimensioni variabili Con il supporto aggiuntivo di The Agency for Cultural Affairs, Government of Japan (Bunkacho Art Platform Japan); Take Ninagawa, Tokyo; Bortolami, New York

A U G U S TA S AVA G E Lift Every Voice and Sing (The Harp), 1939 Bronzo 27,3 × 24,13 × 10,2 cm Thomas G. Carpenter Library, Special Collections and University Archives. Jacksonville, FL: University of North Florida

L AV I N I A S C H U L Z E WA LT E R H O L D T Maskenfigur “Toboggan Mann”, 1924 Replica 2005–2006 Lino, fili 180 × 137 × 90 cm Maskenfigur “Toboggan Frau”, 1924 Replica 2005–2006 Lino, fili 188 × 135 × 107 cm

Tanzmaske “Insektentänzer”, 1924, fotografia di Minya Diez-Dührkoop Carta ai sali d’argento 51,8 × 36,8 × 3,2 cm Ristampa Tanzmaske “Skirnir”, 1924, fotografia di Minya Diez-Dührkoop Carta ai sali d’argento 51,8 × 36,8 × 3,2 cm Ristampa Tanzmaske “Bibo”, 1924, fotografia di Minya Diez-Dührkoop Carta ai sali d’argento 51,8 × 36,8 × 3,2 cm Ristampa Tanzmaske “Springvieh”, 1924, fotografia di Minya Diez-Dührkoop Carta ai sali d’argento 51,8 × 36,8 × 3,2 cm Ristampa Tanzmaske “Insektentänzer”, 1924, fotografia di Minya Diez-Dührkoop Carta ai sali d’argento 51,8 × 36,8 × 3,2 cm Ristampa Tanzmaske “Toboggan Mann”, 1924, fotografia di Minya Diez-Dührkoop Carta ai sali d’argento 51,8 × 36,8 × 3,2 cm Ristampa Tanzmaske “Toboggan Frau”, 1924, fotografia di Minya Diez-Dührkoop Carta ai sali d’argento 51,8 × 36,8 × 3,2 cm Ristampa

Maskenfigur “Bibo”, 1924 Replica 2005–2006 Tela di sacco, nastro adesivo, fili, cera, legno, velluto 170 × 105 × 90 cm

Tutte le opere Collezione Museum für Kunst und Gewerbe, Hamburg

Maskenfigur “Springvieh” A, 1924 Replica 2005–2006 Tela di sacco, cartone, gesso, pelle, fibbia 200 × 160 × 85 cm

Googolplex, 1972 Video digitale trasferito da film 35mm 4 min 53 sec Immagini in movimento da Collections of The Henry Ford

Maskenfigur “Bertchen” A (schwarz), 1924 Replica 2005–2006 Materiale tessile, trapunta 163 × 115 × 110 cm Maskenfigur “Bertchen” B (weiß), 1924 Replica 2005–2006 Materiale tessile, trapunta 170 × 108 × 110 cm Tanzmaske “Technik”, 1924, fotografia di Minya Diez-Dührkoop Carta ai sali d’argento 51,8 × 36,8 × 3,2 cm Ristampa Tanzmaske “Toboggan Frau” and “Toboggan Mann”, 1924, fotografia di Minya Diez-Dührkoop Carta ai sali d’argento 51,8 × 36,8 × 3,2 cm Ristampa Tanzmaske “Toboggan Frau”, 1924, fotografia di Minya Diez-Dührkoop Carta ai sali d’argento 51,8 × 36,8 × 3,2 cm Ristampa Tanzmaske “Springvieh”, 1924, fotografia di Minya Diez-Dührkoop Carta ai sali d’argento 51,8 × 36,8 × 3,2 cm Ristampa

L I L L I A N S C H WA R T Z

Enigma, 1972 Video digitale trasferito da film 35mm 4 min 5 sec Immagini in movimento da Collections of The Henry Ford Mis-Takes, 1972 Video digitale trasferito da film 35mm 3 min 30 sec Immagini in movimento da Collections of The Henry Ford

AMY SILLMAN Untitled (Frieze for Venice), 2021 32 disegni Acrilico, inchiostro e serigrafia 152,4 × 101,6 cm ciascuno (dimensioni leggermente variabili) Con il supporto aggiuntivo di Gladstone Gallery Untitled (Frieze for Venice), 2021 71 disegni Acrilico, inchiostro, acquarello e matita, montati su 19 pannelli di varie dimensioni 30,48 × 35,56 cm ciascuno (dimensioni leggermente variabili) Con il supporto aggiuntivo di Gladstone Gallery

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Elenco delle opere


ELIAS SIME

M A RY E L L E N S O LT

Red Leaves, 2021 Fili elettrici intrecciati e altri componenti su pannelli di legno 205,7 × 602 × 17,8 cm

Zinnia, 1966 Inchiostro su carta 29 × 21 cm

Veiled Whispers, 2021 Fili elettrici intrecciati e altri componenti su pannelli di legno 279,4 × 200,7 × 20,3 cm Veiled Whispers, 2021 Fili elettrici intrecciati e altri componenti su pannelli di legno 200,7 × 317,5 × 17,8 cm Tutte le opere con il supporto aggiuntivo di James Cohan, New York

MARIANNA SIMNETT The Severed Tail, 2022 Installazione video a 3 canali Con il supporto aggiuntivo di Société, Berlin; Zabludowicz Collection; British Council

HÉLÈNE SMITH La Maison d’Astané, 1896–1899 ca. Gouache su carta 17 × 11,3 cm Facsimile Astané, 1896–1899 ca. Gouache su carta 11,5 × 18,3 cm Facsimile La Vilaine bête d’Astané, 1896–1899 ca. Gouache su carta 11,5 × 18,5 cm Facsimile Paysage martien, 1896–1899 ca. Gouache su carta 25,8 × 21 cm Facsimile Plante d’ornement martienne, 1896–1899 ca. Gouache su carta 11 × 18,5 cm Facsimile Tutte le opere Bibliothèque de Genève. Ms. fr. 7843/3

S A B L E E LY S E S M I T H Landscape VI, 2022 Neon 220,98 × 506,73 cm Con il supporto aggiuntivo di JTT, New York; Regen Projects, Los Angeles; Carlos / Ishikawa, London

TERESA SOLAR Tunnel Boring Machine, 2022 Argilla, resina 460 × 120 × 80 cm Tunnel Boring Machine, 2022 Argilla, resina 140 × 400 × 80 cm Tunnel Boring Machine, 2022 Argilla, resina 380 × 80 × 80 cm Tutte le opere con il supporto aggiuntivo di Thyssen-Bornemisza Art Contemporary; Travesía Cuatro Gallery; Acción Cultural Española (AC/E)

Forsythia, 1966 Inchiostro su carta 29 × 21 cm Geranium, 1966 Inchiostro su carta 29 × 21 cm Lilac, 1966 Inchiostro su carta 29 × 21 cm Crab, 1966 Inchiostro su carta 29 × 21 cm Wild Crab, 1966 Inchiostro su carta 29 × 21 cm

Marionettes, stage set (in the palace of the king): Angela and King Deramo, Freud Analyticus, and Minister Tartaglia; seated, Minister Pantalone and his son Leandro with Clarissa, Tartaglia‘s Daughter by Sophie Taeuber for the play “King Stag”, 1918, fotografia di Ernst Linck Fotografia in bianco e nero 16,3 × 22 cm Ristampa Stiftung Arp e.V., Berlin/Rolandswerth. © Stiftung Arp e.V., Berlin/Rolandswerth Marionettes, stage set (in the palace of the king): King Deramo, Statue, and Angela by Sophie Taeuber for the play “King Stag”, 1918, fotografia di Ernst Linck Fotografia in bianco e nero 13,9 × 22,5 cm Ristampa Stiftung Arp e.V., Berlin/Rolandswerth. © Stiftung Arp e.V., Berlin/Rolandswerth

T O S H I K O TA K A E Z U

Tutte le opere Collezione Museum of Contemporary Art, Antwerp / donation, Wilfried Wynants

Tamarind, 1962 ca. Grès smaltato 88,9 × 25,4 × 25,5 cm

P. S TA F F

Anagama Closed Form, 1980s ca. Porcellana smaltata 44,5 × 21,5 × 21,5 cm

On Venus, 2019 Videoinstallazione 13 min 6 sec Con il supporto aggiuntivo di Commonwealth and Council, Los Angeles; LUMA Foundation; British Council; the Henry Moore Foundation

S O P H I E TA E U B E R -A R P Formes géométriques et lettres (Pompadour), 1920 Perline di vetro, filo, cordone e tessuto 17,3 × 13 × 0,3 cm Stiftung Arp e.V., Berlin/Rolandswerth Ohne Titel (Kissenbezug), 1921–1924 Cotone su tela 66,3 × 94,4 × 2,7 cm Stiftung Arp e,V., Berlin/Rolandswerth

Pink Lady, 1980s ca. Porcellana smaltata 55 × 21 × 19 cm Cherry Blossom / Sakura, 2000s ca. Grès smaltato 132 × 59 × 59 cm Untitled Closed Form, 1960 Gres smaltato 17,5 × 16,5 × 16,5 cm Untitled (Red Spotted Closed Form), 1982 Porcellana smaltata 19 × 15,2 × 15,2 cm Untitled (Ocean Edge), 1992 Porcellana smaltata 19 × 12,7 × 12,7 cm

Marionette Guard after a design by Sophie Taeuber for the play “King Stag”, 1918, fotografia di Ernst Linck Fotografia in bianco e nero 15,6 × 11,5 cm Ristampa Stiftung Arp e.V., Berlin/Rolandswerth. © Stiftung Arp e.V., Berlin/Rolandswerth

Thistle Blue, 1980 ca. Porcellana smaltata 48 × 20 × 20 cm

Marionette, Freud Analyticus after a design by Sophie Taeuber for the play “King Stag”, 1918, fotografia di Ernst Linck Fotografia in bianco e nero 15,9 x12 cm Ristampa Stiftung Arp e.V., Berlin/Rolandswerth. © Stiftung Arp e.V., Berlin/Rolandswerth

Where Do We Come From? What Are We? Where Are We Going?, 2021 Acrilico su seta 310 × 1400 cm

Marionettes Truffaldino, Brighella, Smeraldina, and Dr. Complex after a design by Sophie Taeuber for the play “King Stag”, 1918, fotografia di Ernst Linck Fotografia in bianco e nero 11,9 × 17 cm Ristampa Stiftung Arp e.V., Berlin/Rolandswerth. © Stiftung Arp e.V., Berlin/Rolandswerth

Tutte le opere con il supporto aggiuntivo di Max Mara; British Council; the Henry Moore Foundation

Marionette, Truffaldino after a design by Sophie Taeuber for the play “King Stag”, 1918 Fotografia in bianco e nero, fotografia di Ernst Linck 16,9 × 11,5 cm Ristampa Stiftung Arp e.V., Berlin/Rolandswerth. © Stiftung Arp e.V., Berlin/Rolandswerth

Avatar, 1947 Olio su tela 35,6 × 27,9 cm Collezione privata, Chicago

Tutte le opere Collezione privata Courtesy Toshiko Takaezu Foundation

E M M A TA L B O T

Why Do We Think We Can Outwit Nature?, 2021 Installazione. Tecnica mista Dimensioni variabili

D O R O T H E A TA N N I N G Deirdre, 1940 Olio su tela 50,8 × 40,6 cm Collezione privata

740


BRIDGET TICHENOR

TOURMALINE

WU TSANG

Tarde Alegre, 1955 Olio su masonite 40 × 30 cm Collezione privata

Mary of Ill Fame, 2020–2021 Videoinstallazione 17 min 4 sec

Dueto Solitario, 1964 Olio su masonite 40,3 × 25,5 cm Collezione privata

T OY E N

Of Whales, 2022 Videoinstallazione VR Con il supporto aggiuntivo di VIVE Arts; VIA Art Fund; Galerie Isabella Bortolozzi; Antenna Space; Albyon Studio; LUMA Foundation

La Espera (The Wait), 1961 Olio su masonite 25 × 38 cm Collezione privata

T E C L A T O FA N O On the Way to Liberation (dalla serie Of the Female Gender), 1975 Argilla e ceramica smaltata 30 × 20 × 12 cm Collezione Luis Felipe Farias

The Shooting Gallery (Střelnice), 1939–1940 Portfolio di 12 stampe fotolitografiche Pubblicato da Fr. Borový, Prague, 1946 32 × 44 cm ciascuna Collezione privata

RO S E M A R I E T RO C K E L Fraction Bars, 2021 Lana acrilica su tela 50,2 × 100,8 × 2,2 cm Day Release, 2017 Lana acrilica su tela, con cornice in Plexiglas 83,5 × 83,5 × 5,6 cm (con cornice)

Vessel with Hands (dalla serie The Canned), 1969 Argilla e ceramica smaltata 26 × 18 × 18 cm Collezione Luis Felipe Farias

Cloud Gap, 2013 Lana acrilica su tela, con cornice in Plexiglas 70 × 80 × 2 cm Collezione privata

Women in History (dalla serie Of the Female Gender), 1975 Argilla e ceramica smaltata 23 × 18 × 10 cm Collezione Luis Felipe Farias

Room With a Thread, 2014 Lana acrilica su tela, con cornice in Plexiglas 85 × 70 × 2 cm

Vessel with Personage (dalla serie The Canned), 1969 Argilla e ceramica smaltata 40 × 24 × 24 cm Collezione Luis Felipe Farias Totem Tongue, 1966 Argilla e ceramica smaltata 28 × 10 × 4 cm Collezione Mrs. Cota Cohen Knobloch Green Dragon Habitat (dalla serie Habitat and Inhabitants), 1967 Gres modellato e smaltato a mano 28 × 13 × 13 cm Collezione Mrs. Cota Cohen Knobloch Wagon-Lits (dalla serie The Bed and its possibilities), 1971 Argilla e ceramica smaltata 14 × 22 × 11 cm Collezione Mrs. Cota Cohen Knobloch

J O S E FA T O L R À Dibujo escritura fluídica, 1954 Inchiostro e pennarello su carta 28 × 36,6 cm Collezione privata Courtesy Associaciò Cultural Josefa Tolrà Figura amb mantó bordado, 1946 Inchiostro e acquarello su carta 103 × 69,5 Collezione privata Courtesy Associaciò Cultural Josefa Tolrà Dibujo que marca los progresos del cualificativo astral, 1956 Penna blu su carta 27,4 × 36,6 cm Collezione privata Courtesy Associaciò Cultural Josefa Tolrà Cuaderno Primavera, 1946 Taccuino, pennarello, inchiostro e matita su carta 20 × 27 cm Collezione privata Courtesy Associaciò Cultural Josefa Tolrà Tutte le opere con il supporto aggiuntivo di Acción Cultural Española (AC/E); Institut Ramon Llull

Open Umbrella, 2015 Lana acrilica su tela, con cornice in Plexiglas 50 × 50 × 2 cm Collezione Marguerite Steed Hoffman Pinstripe 1, 2016 Lana acrilica su tela, con cornice in Plexiglas 50 × 50 × 2 cm Untitled, 1985 Lana beige e nera su tela, con cornice in Plexiglas 65,4 × 65,5 × 3 cm Collezione privata TV / SAG, 1994 Lana su tela, con cornice in Plexiglas 59,8 × 59,8 cm Till the Cows come Home, 2016 Lana blu scuro su tela, legno 296 × 296 × 5 cm Study for Till the Cows come Home, 2016 Lana blu scuro su tela, legno 100 × 100 × 5 cm The Same Different, 2013 Lana gialla su tela, legno 296 × 296 × 5 cm Study for The Same Different, 2013 Lana gialla su tela, legno 100 × 100 × 5 cm Color Assistant, 2018 Lana azzurra, legno, con cornice in Plexiglas arancione 100 × 100 × 5 cm Collezione privata Ulteriori opere saranno in mostra Tutte le opere con il supporto aggiuntivo di Sprüth Magers; Institut für Auslandsbeziehungen – ifa

“ T RO P I Q U E S ” Aimé Césaire, Suzanne Césaire, René Ménil (eds.), Tropiques n. 2 (July 1941), 1941 Copertina della rivista Facsimile Dono di Friends of the Thomas J. Watson Library (PQ3940 .A47 no.2 [July 1941]). New York, Metropolitan Museum of Art. © 2022. Image © The Metropolitan Museum of Art/Art Resource/Scala, Firenze

KAA R I U PS O N Portrait (Vain German), 2020–2021 Uretano, resina, acqua-resina, pigmento, carboncino, fibra di vetro e alluminio 74,3 × 58,4 × 7 cm Courtesy The Kaari Upson Trust Portrait (Vain German), 2020–2021 Uretano, resina, acqua-resina, pigmento, fibra di vetro e alluminio 74,3 × 58,4 × 7 cm Courtesy The Kaari Upson Trust Portrait (Vain German), 2020–2021 Uretano, resina, acqua-resina, pigmento, fibra di vetro e alluminio 74,3 × 58,4 × 7 cm Courtesy The Kaari Upson Trust Portrait (Vain German), 2020–2021 Uretano, resina, acqua-resina, pigmento, fibra di vetro e alluminio 74,3 × 58,4 × 7 cm Courtesy The Kaari Upson Trust Portrait (Vain German), 2020–2021 Uretano, resina, acqua-resina, pigmento, fibra di vetro e alluminio 74,3 × 58,4 × 7 cm Courtesy The Kaari Upson Trust Portrait (Vain German), 2020–2021 Uretano, resina, acqua-resina, pigmento, fibra di vetro e alluminio 74,3 × 58,4 × 7 cm Courtesy The Kaari Upson Trust Portrait (Vain German), 2020–2021 Uretano, resina, acqua-resina, pigmento, fibra di vetro e alluminio 74,3 × 58,4 × 7 cm Courtesy The Kaari Upson Trust Portrait (Vain German), 2020–2021 Uretano, resina, acqua-resina, pigmento, fibra di vetro e alluminio 74,3 × 58,4 × 7 cm Courtesy The Kaari Upson Trust Portrait (Vain German), 2020–2021 Uretano, resina, acqua-resina, pigmento, fibra di vetro e alluminio 74,3 × 58,4 × 7 cm Courtesy The Kaari Upson Trust Portrait (Vain German), 2020–2021 Uretano, resina, acqua-resina, pigmento, fibra di vetro e alluminio 74,3 × 58,4 × 7 cm Collezione privata, Los Angeles Tutte le opere con il supporto aggiuntivo di Sprüth Magers

A N D R A U R S U ŢA Canopic Demijohn, 2021 Cristallo 77,5 × 40,3 × 40,6 cm Impersonal Growth, 2020 Cristallo 67 × 54,6 × 17,8 cm Collezione privata Yoga Don’t Help, 2019 Cristallo 134,6 × 53,3 × 62,2 cm Dr. Joselito Cariño Cabaccan

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Elenco delle opere


Succubustin’ Loose, 2020 Cristallo 113 × 49,5 × 30,5 cm Collezione Raf Simons, Antwerp Terminal Figure, 2021 Cristallo 103,5 × 48,3 × 29,2 cm Canopic Jerrycan, 2021 Cristallo 78,7 × 34,9 × 5,4 cm Collezione privata Phantom Mass, 2021 Cristallo 76,8 × 61 × 48,3 cm Tutte le opere sopra con il supporto aggiuntivo di David Zwirner Half-Drunk Mummy, 2020 Cristallo al piombo 160 × 85,1 × 48,3 cm Collezione Raf Simons, Antwerp Con il supporto aggiuntivo di Ramiken; David Zwirner Predators ’R Us, 2019 Cristallo al piombo 74 × 132 × 69 cm Collezione privata Con il supporto aggiuntivo di MASSIMODECARLO

G R A Z I A VA R I S C O Schema luminoso variabile R, VOD LAB., 1964 Oggetto cinetico luminoso, scatola di legno nera, Perspex blu (metacrilato), motore elettrico 3/2 giri, lampada neon 91 × 91 × 12,5 cm Courtesy Archivio Grazia Varisco Schema luminoso variabile R. VOD DOM., 1964 Oggetto cinetico luminoso, scatola di legno nera, Perspex blu (metacrilato), motore elettrico 3/2 giri, lampada neon 91 × 91 × 12,5 cm Courtesy Archivio Grazia Varisco

R E M E D I O S VA R O La creación de las aves, 1959 Olio su masonite 54 × 64 cm Museo de Arte Moderno. INBAL-Secretería de Cultura Armonía (Autorretrato sugerente), 1956 Olio su masonite 75 × 92,7 cm Collezione Eduardo F. Costantini, Buenos Aires Simpatía (La rabia del gato), 1955 Olio su masonite 95,9 × 85,1 cm Collezione Eduardo F. Costantini, Buenos Aires La mujer Libélula (Dragonfly Woman), 1961 Olio, gouache, e inchiostro su carta montata su masonite 65,7 × 20 cm Collezione privata Tutte le opere con il supporto aggiuntivo di Acción Cultural Española (AC/E)

S A N D RA VÁ S Q U E Z D E L A H O R RA Las Cordilleras Encontradas, 2017–2021 Installazione composta delle seguenti opere: América sin Fronteras, 2017 Grafite, acquarello e cera su carta 213 × 157 cm

Saludo a Olorun, 2021 Grafite, acquarello, gouache e cera su carta 214 × 156 cm Janus, 2021 Grafite, acquarello, gouache e cera su carta 203 × 133 cm Soy energía, 2021 Grafite e cera su carta 213 × 157 cm No pasarán, los venceremos mi Amor, 2020 Grafite e cera su carta 204,5 × 134 cm La Voz de un Pueblo que lucha, 2019 Grafite, acquarello e cera su carta 236,2 × 108,6 cm Cosmic Matroshka, 2020 Grafite, acquarello, gouache e cera su carta 200 × 101 cm El Despertar de un Volcán, 2019 Grafite, acquarello, gouache e cera su carta 133 × 103 cm Todo tuyo, todo mio, 2020 Grafite, acquarello, gouache e cera su carta 134 × 102,5 cm El amanecer y el atardecer de las civilizaciones, 2021 Grafite, acquarello, gouache e cera su carta 49 × 74,3 × 41 cm Detrás de esa Nube hay un OVNI, 2021 Grafite, acquarello, gouache e cera su carta 105,5 × 77,8 × 10 cm Eclipse Solar, 2021 Grafite, acquarello, gouache e cera su carta 105,5 × 69,5 × 10 cm Pachita, 2021 Grafite, acquarello e cera su carta 121,5 × 72,5 × 10 cm Las cordilleras encontradas, 2021 Grafite, acquarello e cera su carta 220 × 76 × 10 cm Flotante y su genealogía, 2020 Grafite, acquarello, gouache e cera su carta 76,5 × 56,5 cm

Blaise Cendrars, 1923 Stampa ai sali d’argento Fotografia di P. Delbo 22 × 17 cm Charlotta Montcay de Montaray, 1920 ca. Stampa ai sali d’argento Fotografia di P. Delbo 22 × 17 cm Jenu, 1920 Stampa ai sali d’argento Fotografia di P. Delbo 22 × 17 cm Toti, 1920 Stampa ai sali d’argento Fotografia di P. Delbo 22 × 17 cm Alfred Flechtheim, 1920 Stampa ai sali d’argento Fotografia di P. Delbo 22 × 17 cm Jeanne Duc (modiste), 1922 Stampa ai sali d’argento Fotografia di P. Delbo 22 × 17 cm Danseuse américaine (d’après les traits d’Isadora Duncan), 1920 Stampa ai sali d’argento Fotografia di P. Delbo 22 × 17 cm Mlle Lane, 1925, fotografia n.d. Stampa ai sali d’argento 23 × 12 cm Alex Dianou, 1920 Stampa ai sali d’argento Fotografia di P. Delbo 17 × 11 cm Jean Cocteau & Dianou, 1920 Stampa ai sali d’argento Fotografia di P. Delbo 22 × 17 cm Sans titre (Costume pour le spectacle Les Voyelles, Exposition des Arts et Techniques, 1937), 1937 Stampa ai sali d’argento 24 × 17,7 cm Tutte le opere sopra Collezione Claude Bernés

Los Gemelos Mitológicos, 2020 Grafite, acquarello, gouache e cera su carta 76,5 × 57,5 cm

Mask and doll portrait, 1928 Stampa ai sali d’argento 23,8 × 17, cm Collezione privata

Erupciones, 2019 Grafite, acquarello, gouache e cera su carta 70,5 × 49,7 cm

CECILIA VICUÑA

La Dormida, 2021 Grafite e cera su carta 216 × 73,5 × 14 cm

Leoparda de Ojitos, 1977 Olio su tela di cotone 140,7 × 90,2 cm Collezione Beth Rudin DeWoody

Pacha-Mama, 2021 Grafite, acquarello, gouache e cera su carta 220 × 113,5 × 14 cm Atravesando el Aura, 2020 Grafite, acquarello, gouache e cera su carta 63 × 48,2 cm Tutte le opere con il supporto aggiuntivo di Institut für Auslandsbeziehungen – ifa

Paro Nacional, 1977–1978 Olio e pastello su carta 82,6 × 112,4 cm Collezione privata Llaverito (Blue), 2019 (dall’originale perduto del 1979) Olio su tela 109,2 × 91,4 cm Collezione privata

Costume Arlequine pour le Bal banal, 1924 Stampa ai sali d’argento 22 × 17 cm

La Comegente (The People Eater), 2019 (dall’originale perduto del 1971) Olio su tela 165,1 × 116,8 cm Collezione privata

Jean Borlin, 1920 ca. Stampa ai sali d’argento Fotografia di P. Delbo 22 × 17 cm

Martillo y Repollo, 1973 Olio su tela 90,81 × 71,12 Juan Yarur Torres Collection - Fundación AMA

M A R I E VA S S I L I E F F

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Bendígame Mamita, 1977 Olio su tela 140 × 120 cm Collezione privata

Förstärkare, 1964 Gouache su pannello di legno e garza 38 × 25 × 0,6 cm Collezione privata, Svezia

Virgen Puta, 2021 Olio su tela 157,48 × 132,08 cm

Oändligt variabel, 1968 Acrilico su pannello in legno 54 × 61 × 3 cm Collezione privata, Svezia

NAUfraga, 2022 Installazione site-specific Basuritas (detriti), ramoscelli, plastica, metallo, fili, bastoncini, materiali improvvisati e piccoli oggetti precari Dimensioni variabili Tutte le opere con il supporto aggiuntivo di Lehmann Maupin

NA N DA V I G O Cronotopo, 1964 Vetro e alluminio 60 × 60 × 20 cm Courtesy Archivio Nanda Vigo Diaframma, 1968 Vetro, alluminio e luce neon 100 × 100 × 25 cm Courtesy Archivio Nanda Vigo Cronotopo, 1964 Vetro e alluminio 60 × 60 × 20 cm Collezione privata

Minnescentrum – gott minne, 1967 Acrilico su masonite 90 × 78,70 cm Gothenburg Museum of Art, Sweden Kretsfamilj, 1964 Gouache su pannello e garza 36 × 31 × 2 cm The Bonnier Group, Stockholm, Sweden The Translator / Oversattaren, 1967 Acrilico su panello 118 × 44 × 2 cm The Bonnier Group, Stockholm, Sweden Pulsgivare, 1967 Acrilico su pannello di legno 80,5 × 75 × 2,5 Stockholm City Art Collection Radar, 1968 Acrilico su pannello 80 × 112,7 × 3 cm The Cultural Administration, Region Stockholm

Les Esprits Indien en face Colonisation, 2000 Olio su tela 60 × 105 × 3,8 Collezione Marcus Rediker

ZHENG BO Le Sacre du printemps (Tandvärkstallen), 2021 Video digitale in 4K, colore, suono 16 min Con il supporto aggiuntivo di Hong Kong Arts Development Council; DACE - Dance Art Critical Ecology; Finnish Cultural Foundation; Frame; Swedish Arts Council; Swedish Arts Grants Committee; Nordic Culture Fund; Nordic Culture Point; Färgfabriken; SKH

UNICA ZÜRN Untitled (interwoven double and multiple portraits showing Hans Bellmer), 1965 Inchiostro e gouache su carta 65 × 50 cm Collezione privata La Mort de Kennedy, 1964 China su carta 90 × 74 × 2,4 cm Collezione Karin e Gerhard Dammann, Svizzera

P O R T I A Z VAVA H E R A

Spegelförstärkare, 1967 Acrilico su pannello 80 × 80 × 4,5 cm Collezione privata

Kudonhedzwa kwemazizi (Fallen owls), 2022 Inchiostro da stampa a base oleosa e colore a olio su lino ca. 254,5 × 208,5 cm

Bottles and Bridges: Advances in Collective Obliteration, 2021 Installazione in bronzo, acciaio, cemento Dimensioni variabili

Iris XVIII Line, 2020 Acrilico su pannello 113,5 × 119 × 2,5 cm

Kudonhedzwa kwevanhu (Fallen people), 2022 Inchiostro da stampa a base oleosa e colore a olio su lino ca. 212 × 298 cm

RA P H A E LA VO G E L

Iris XX Daniel, 2021 Acrilico su pannello 135 × 140 × 2,5 cm

M A R I A N N E V I TA L E

Können und Müssen (Ability and Necessity), 2022 Elastomero poliuretanico, acciaio, ottone, modello anatomico 220 × 135 × 1030 cm Con il supporto aggiuntivo di BQ, Berlin; MEYER*KAINER, Vienna; Galerie Gregor Staiger, Zurich; Institut für Auslandsbeziehungen – ifa

Iris XXI Christopher, 2021 Acrilico su pannello 113,5 × 119 × 2,5 cm Iris XXIII Katarina, 2021 Acrilico su pannello 70 × 72 × 2,5 cm

Psychogräfin, 2022 Olio, pastello a olio, carboncino, colla per cuoio su pelle di cervo e vacchetta 377 × 325 cm Con il supporto aggiuntivo di BQ, Berlin; Institut für Auslandsbeziehungen – ifa

Iris XXIV Maja, 2021 Acrilico su pannello 71 × 74 × 2,5 cm

M E TA VA U X WA R R I C K F U L L E R

M A RY W I G M A N

Maquette per Ethiopia Awakening, 1921 Gesso dipinto 35,3 × 8,25 × 12,7 cm Danforth Art Museum at Framingham State University. Gift of the Meta V. W. Fuller Trust

Hexentanz (excerpt from the movie Mary Wigman Tanzt), 1930 Video digitale trasferito da film 2 min 13 sec Collezione Bundesarchiv-Filmarchiv, Berlin; Film: K164573-1 © Mary Wigman Stiftung / Deutsches Tanzarchiv Köln

L A U R A W H E E L E R WA R I N G Illustrazioni di copertina per “The Crisis” (New York, NAACP): aprile 1923, febbraio 1924, settembre 1924, aprile 1926, aprile 1927, Natale 1928 Facsimile Courtesy Schomburg Center for Research in Black Culture, Jean Blackwell Hutson Research and Reference Division, The New York Public Library

Kubatwa kwemazizi (Captured owls), 2022 Inchiostro da stampa a base oleosa e colore a olio su lino ca. 310 × 210 cm Kusimudzwa kwevanhu (Uplifted), 2022 Inchiostro da stampa a base oleosa e colore a olio su lino ca. 295 × 211 cm Tutte le opere con il supporto aggiuntivo di David Zwirner

Tutte le opere con il supporto aggiuntivo di Galerie Buchholz; IASPIS

MÜGE YILMAZ The Adventures of Umay Ixa Kayakızı, 2022 Installazione Dimensioni variabili Con il supporto aggiuntivo di SAHA Association

ULLA WIGGEN

FRANTZ ZÉPHIRIN

Trask, 1967 Acrilico su masonite 150 × 80 cm Moderna Museet, Stockholm. Purchase 1968

The Slave Ship Brooks, 2007 Olio su tela 76,2 × 101,6 × 3,8 cm Collezione Marcus Rediker

743

Elenco delle opere



BIENNALE COLLEGE ARTE

Biennale College è il progetto della Biennale di Venezia dedicato alla formazione e al supporto dei giovani in tutti i Settori Artistici e nelle attività proprie della struttura organizzativa della Biennale. Già attivo per i Settori di Cinema, Danza, Musica, Teatro e l’Archivio Storico delle Arti Contemporanee (ASAC), Biennale College nasce con l’obiettivo di promuovere giovani talenti, offrendo loro la possibilità di lavorare a stretto contatto con maestri internazionali per sviluppare opere che diventano parte dei programmi dei Settori Artistici. Per l’edizione inaugurale della Biennale College Arte, lanciata nel 2021, oltre 250 giovani artiste e artisti emergenti under 30 provenienti da 58 Paesi in tutto il mondo hanno aderito a un bando aperto. Più della metà le donne. I quattro progetti finalisti sono di: Simnikiwe Buhlungu 1995, Johannesburg. Vive a Johannesburg, Sudafrica e Amsterdam, Paesi Bassi Ambra Castagnetti 1993, Genova, Italia. Vive a Milano, Italia Andro Eradze 1993, Tbilisi. Vive a Tbilisi, Georgia Kudzanai-Violet Hwami 1993, Gutu, Zimbabwe. Vive a Londra, UK I quattro artisti e artiste hanno ricevuto una sovvenzione di 25.000 euro per la realizzazione della loro opera finale. Le opere sono presentate, fuori concorso, come parte della 59. Esposizione Internazionale d’Arte della Biennale di Venezia, Il latte dei sogni. Tutors: Barbara Casavecchia, Gianni Jetzer, Yasmil Raymond, Francesco Stocchi, Roberta Tenconi

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P RO G E T T I S P E C I A L I – S O S T E N I T O R I

C O S I M A VO N B O N I N

SIMONE LEIGH

WU TSANG

WHAT IF THEY BARK 01-07, 2022 VENICE 1984, 2022 HERMIT CRAB (GLASS VERSION), 2022 SCALLOPS (GLASS VERSION), 2022 AXE, 2022

Brick House, 2019

Of Whales, 2022

Con il supporto di: Hauser & Wirth

Con il supporto aggiuntivo di: Petzel Gallery, New York Institut für Auslandsbeziehungen – ifa

P R E C I O U S O KOYO M O N

Con il supporto aggiuntivo di: VIVE Arts VIA Art Fund Galerie Isabella Bortolozzi Antenna Space Albyon Studio LUMA Foundation

GIULIA CENCI

Con il supporto aggiuntivo di: LUMA Foundation Ammodo

dead dance, 2021–2022 Con il supporto aggiuntivo di: Fondazione Sandretto Re Rebaudengo Mondriaan Fund SpazioA Ammodo

K A P WA N I K I WA N G A Sunset Horizon (phase I), 2022 Sunset Horizon (phase II), 2022 Sunset Horizon (phase III), 2022 Sunset Horizon (phase IV), 2022 Hour glass #1, 2022 Hour glass #2, 2022 Hour glass #3, 2022

To See The Earth Before the End of the World, 2022

V I RG I N I A OV E RT ON Untitled (tulip), 2022 Untitled (pink buoy), 2022 Con il supporto di: White Cube, London and Hong Kong Bortolami Gallery, New York Galerie Francesca Pia, Zürich Kunstgiesserei St.Gallen, Switzerland The Corning Museum of Glass, New York

ALEXANDRA PIRICI Encyclopedia of Relations, 2022

Con il supporto aggiuntivo di: Global Affairs Canada/Affaires mondiales Canada, Embassy of Canada to Italy/Ambassade du Canada en Italie The Shifting Foundation LUMA Foundation Galerie Tanja Wagner, Berlin Institut français

BA R BA RA K RU G E R

Con il supporto aggiuntivo di: Audemars Piguet Contemporary Ammodo UniCredit Bank European ArtEast Foundation The Administration of the National Cultural Fund, Romania Romanian Cultural Institute Staatliche Kunsthalle Baden-Baden

Untitled (Beginning/Middle/End), 2022

CHRISTINA QUARLES

Con il supporto aggiuntivo di: Sprüth Magers Maharam

Hangin’ There Baby, 2021 (Who Could Say) We’re Not Jus’ as We Were, 2021 Had a Gud Time Now (Who Could Say), 2021 Gone on Too Long, 2021 Don’t Let It Bring Yew Down (It’s Only Castles Burnin’), 2021 Just a Lil’ Longer, 2021

L O U I S E L AW L E R

ANDRA URSUT A Canopic Demijohn, 2021 Impersonal Growth, 2020 Yoga Don’t Help, 2019 Succubustin’ Loose, 2020 Terminal Figure, 2021 Canopic Jerrycan, 2021 Phantom Mass, 2021 Half-Drunk Mummy, 2020 Predators ’R Us, 2019 Con il supporto aggiuntivo di: David Zwirner

CECILIA VICUÑA Leoparda de Ojitos, 1977 Paro Nacional, 1977–1978 Llaverito (Blue), 2019 (dall’originale perduto del 1979) La Comegente (The People Eater), 2019 (dall’originale perduto del 1971) Martillo y Repollo, 1973 Bendígame Mamita, 1977 Virgen Puta, 2021 NAUfraga, 2022 Con il supporto aggiuntivo di: Lehmann Maupin

Lista al 20 febbraio 2022

No Exit, 2022 Con il supporto aggiuntivo di: Sprüth Magers Maharam

Con il supporto di: Hauser & Wirth

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L E I S T I T U Z I O N I C H E S U P P O R TA N O L E A R T I S T E E G L I A R T I S T I

A C C I Ó N C U LT U R A L E S PA Ñ O L A ( AC / E )

H O N G KO N G A RT S DEVELOPMENT COUNCIL

LITHUANIAN COUNCIL F O R C U LT U R E

June Crespo Georgiana Houghton Maruja Mallo Teresa Solar Josefa Tolrà Remedios Varo

Zheng Bo

Eglė Budvytytė

IASPIS, THE SWEDISH ARTS GRANTS COMMIT TEE

M O N D R I AA N F U N D

A G E N C Y F O R C U LT U R A L A F FA I R S , G O V E R N M E N T O F J A PA N Aki Sasamoto

AMMODO Dora Budor Giulia Cenci Gabriel Chaile Mire Lee Delcy Morelos Precious Okoyomon Alexandra Pirici

BRITISH COUNCIL Ibrahim El-Salahi Marguerite Humeau Marianna Simnett P. Staff Emma Talbot

D A N I S H A R T S F O U N D AT I O N Sidsel Meineche Hansen Ovartaci

ESTONIAN CENTRE F O R C O N T E M P O R A RY A R T, F I N A N C E D BY E S T O N I A N M I N I S T RY O F C U LT U R E

Charlotte Johannesson Britta Marakatt-Labba Ulla Wiggen

INSTITUT FÜR A U S L A N D S B E Z I E H U N G E N – I FA Özlem Altın Cosima von Bonin Kerstin Brätsch Jana Euler Katharina Fritsch Charline von Heyl Rebecca Horn Julia Phillips Rosemarie Trockel Sandra Vásquez de la Horra Raphaela Vogel

INSTITUT FRANÇAIS Ali Cherri Simone Fattal Marguerite Humeau Saodat Ismailova Kapwani Kiwanga Vera Molnár

INSTITUT RAMON LLULL

Eglė Budvytytė Giulia Cenci Mire Lee Janis Rafa

N AT I O N A L A R T S C O U N C I L OF SOUTH AFRICA Igshaan Adams

O F F I C E F O R C O N T E M P O R A RY A R T N O RWAY ( O C A ) Liv Bugge Aage Gaup Sandra Mujinga

PHILEAS – A FUND F O R C O N T E M P O R A RY A R T Kiki Kogelnik Birgit Jürgenssen

S A H A A S S O C I AT I O N Özlem Altın Müge Yilmaz

Josefa Tolrà

SWISS ARTS COUNCIL P R O H E LV E T I A

KO R E A A RT S M A NAG E M E N T S E RV I C E ( K A M S )

Miriam Cahn

Mire Lee

Lista al 20 febbraio 2022

Anu Põder

E T X E PA R E B A S Q U E I N S T I T U T E

K O R E A F O U N D AT I O N Geumhyung Jeong

June Crespo

747






5 9. E S P O S I Z I O N E I N T E R N A Z I O N A L E D ’A R T E I L L AT T E D E I S O G N I LA BIENNALE DI VENEZIA Attività Editoriali e Web Responsabile

Flavia Fossa Margutti

VO LU M E 1

© by SIAE 2022

Managing Editor

Eileen Agar Marianne Brandt Leonora Carrington Ithell Colquhoun Katharina Fritsch Jane Graverol Hannah Höch Rebecca Horn Tishan Hsu Tetsumi Kudo Maruja Mallo André Masson Mrinalini Mukherjee Louise Nevelson Rosemarie Trockel Remedios Varo

Manuela Hansen Graphic Design e Layout

A Practice for Everyday Life, London Testi

Isabella Achenbach Liv Cuniberti Manuela Hansen Melanie Kress Stefano Mudu Ian Wallace Madeline Weisburg Testi pp. 87, 161, 255, 367, 499 di Ian Wallace Copyeditors

Nicola Giacobbo Supervisor Anna Albano Allison Grimaldi Donahue Camilla Mozzato Editorial Staff

Francesca Dolzani Ornella Mogno Traduzioni dall’inglese all’italiano

Teresa Albanese Traduzioni dall’italiano all’inglese

Johanna Bishop Traduzioni

Stefano Turon, Liberink Coordinator Traduzioni dall’inglese all’italiano

Oriana Bonan, Giulia Galvan, Giuliana Schiavi per Alphaville Roberta Prandin Traduzioni dall’italiano all’inglese

Salvatore Mele per Alphaville Copyediting traduzioni

Rosanna Alberti Caterina Vettore Fotolito e stampa

Graphicom Spa www.graphicom.it Viale dell’Industria 67, Vicenza

© La Biennale di Venezia 2022 Tutti i diritti riservati in base alle convenzioni internazionali sul copyright. Nessuna parte di questo libro può essere riprodotta o utilizzata in qualsiasi forma o mezzo, elettronico o meccanico, comprese fotocopie, registrazioni o qualsiasi sistema di archiviazione e recupero delle informazioni, senza il permesso scritto dell’editore. Le didascalie e i crediti delle immagini in questa pubblicazione sono stati compilati con la massima cura. Eventuali errori o omissioni non sono intenzionali e saremo lieti di includere crediti appropriati e risolvere eventuali problemi relativi al copyright nelle edizioni future se nuove informazioni saranno portate all’attenzione de La Biennale di Venezia.

Immagini in copertina e nel cofanetto

© Cecilia Vicuña. Courtesy l’Artista; Lehmann Maupin, New York, Hong Kong, Seoul, and London © Felipe Baeza. Courtesy l’Artista; Maureen Paley, London © Belkis Ayón Estate, Havana, Cuba © Tatsuo Ikeda. Courtesy Estate of Tatsuo Ikeda

Stampato su Munken Lynx Rough, carta naturale spessorata di pregio, genuina al tatto, prodotta con cellulose provenienti da foreste sostenibili. Certificata con marchio EU Ecolabel, FSC® e Cradle to Cradle® per un’economia circolare. La gamma Munken è distribuita in Italia da Polyedra Spa. ISBN 9788898727612 La Biennale di Venezia Prima edizione aprile 2022






PA R T E C I PA Z I O N I N A Z I O N A L I E D E V E N T I C O L L A T E R A L I


BIENNALE ARTE 2022

EXHIBITION PA R T E C I PA Z I O N I N A Z I O N A L I E D E V E N T I C O L L A T E R A L I


PA R T E C I PA Z I O N I N A Z I O N A L I

5

Dichiarazione di Roberto Cicutto Cecilia Alemani

8 10 12 14 16 18 20 22 24 26 28 30 32 34 36 38 40 42 44 46 48 50 52 54 56 58 60 62 64 66 68 70 72 74 80 82 84 86 88 90 92 94 96

Albania Argentina Armenia Australia Austria Repubblica dell’Azerbaijan Repubblica Popolare del Bangladesh Belgio Bolivia Brasile Bulgaria Repubblica del Camerun Canada Cile Repubblica Popolare Cinese Croazia Cuba Danimarca Egitto Estonia Finlandia Francia Georgia Germania Ghana Gran Bretagna Grecia Grenada Guatemala Ungheria Islanda Irlanda Israele Italia Costa d’Avorio Giappone Repubblica del Kazakhstan Kenya Repubblica di Corea Repubblica del Kosovo Repubblica del Kyrgyzstan Lettonia Libano

98 100 102 104 106 108 110 112 114 116 118 120

122 124 126 128 130 132 134 136 138 140 142 144 146 148 150 152 154 156 158 160 162 164 166 168 170 172

Lituania Granducato di Lussemburgo Repubblica di Macedonia del Nord Malta Messico Mongolia Montenegro Namibia Nepal Paesi Bassi Nuova Zelanda Paesi Nordici (Norvegia, Finlandia, Svezia) Sultanato dell’Oman Perù Filippine Polonia Portogallo Romania Russia Repubblica di San Marino Arabia Saudita Serbia Singapore Repubblica di Slovenia Repubblica del Sudafrica Spagna Svizzera Repubblica Araba Siriana Turchia Uganda Ucraina Emirati Arabi Uniti Stati Uniti d’America Uruguay Repubblica dell’Uzbekistan Repubblica Bolivariana del Venezuela Repubblica dello Zimbabwe Padiglione Venezia


E V E N T I C O L L AT E R A L I

236

Alberta Whittle: Deep Dive (Pause) Uncoiling Memory Angela Su: Arise, Hong Kong in Venice Angels Listening Apollo, Apollo Katharina Grosse Bosco Sodi at Palazzo Vendramin Grimani. What Goes Around Comes Around Catalonia in Venice_Llim Claire Tabouret: I am spacious, singing flesh Eugen Raportoru: The Abduction from the Seraglio Roma Women: Performative Strategies of Resistance Ewa Kuryluk I, White Kangaroo From Palestine With Art Future Generation Art Prize @ Venice 2022 Ha Chong-Hyun Heinz Mack – Vibration of Light Impossible Dreams Kehinde Wiley: An Archaeology of Silence Lita Albuquerque: Liquid Light Louise Nevelson. Persistence Lucio Fontana / Antony Gormley Pera + Flora + Fauna The Story of Indigenousness and the Ownership of History Road of Faith Rony Plesl: Trees Grow From the Sky Stanley Whitney: the Italian Paintings Take Your Time Times Reimagined: Chun Kwang Young Tue Greenfort: Medusa Alga Laguna Uncombed, Unforeseen, Unconstrained Vera Molnár: Icône 2020 With Hands Signs Grow Without Women “YiiMa” Art Group: Allegory of Dreams

240

Lista dei Partecipanti

178 180 182 184 186 188 190 192 194 196 198 200 202 204 206 208 210 212 214 216 218 220 222 224 226 228 230 232 234



D I C H I A R A Z I O N E S U L L A AT T U A L E I N VA S I O N E D E L L ’ U C R A I N A

La Biennale di Venezia, Istituzione in cui i popoli si incontrano attraverso le arti e la cultura, desidera esprimere la propria ferma condanna per l’inaccettabile invasione dell’Ucraina da parte del governo russo, messa in atto pochi giorni prima che questa pubblicazione andasse in stampa. La Biennale di Venezia vuole inoltre riaffermare il proprio impegno a collaborare in ogni modo alla partecipazione nazionale dell’Ucraina alla 59. Esposizione Internazionale d’Arte, garantendo la presenza dell’artista, della sua équipe e del suo lavoro. La Biennale di Venezia sarà sempre vicina a coloro che difendono la libertà di espressione e in particolare agli artisti e agli autori, molti dei quali hanno partecipato alle mostre e ai festival della Biennale, che si oppongono a tutti gli atti di aggressione contro i popoli, le comunità e gli individui. La Biennale di Venezia segue con apprensione lo svolgimento degli eventi in Ucraina nella speranza che la diplomazia internazionale metta fine ai lutti e alla sofferenza del suo popolo e ristabilisca piena libertà e la pace. Roberto Cicutto Presidente La Biennale di Venezia Cecilia Alemani Curatrice 59. Esposizione Internazionale d’Arte

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PAR T EC

A IP

ZIONI

NAZION

A

LI


ALBANIA

L U M T U R I B L L O S H M I . F R O M S C R AT C H

Commissario

L’opera di Lumturi Blloshmi (1944-2020), che comprende pittura, fotografia, installazione e performance, è caratterizzata da una velata ironia e da un personale modo di riflettere e superare la realtà in cui l’artista è vissuta. La sua dinamica personalità e autoconsapevolezza, alimentate da filosofia, poesia, sensualità e spiritualità, hanno dato forma a un particolare corpo di opere che testimonia il viaggio straordinario di uno spirito creativo che ha sofferto e ha creato nonostante i limiti politici, fisici e ideologici imposti dalla vita e dal particolare contesto dell’Albania comunista nel secondo dopoguerra.

Ministero della Cultura dell’Albania Curatore

Adela Demetja Partecipante

Lumturi Blloshmi Assistente del Curatore

Eni Derhemi Filmmaker

Tin Dirdamal Architetto dell’allestimento

Johanna Meyer-Grohbrügge Artista multimediale interattivo

Alexander Walmsley Con il supporto di

Ministero della Cultura dell’Albania Gwärtler Foundation

Coltivando e riadattando un approccio che trascende femminismo, nazionalità e stili artistici specifici, Blloshmi ha incessantemente opposto resistenza a diversi regimi e sviluppi, costruendo una pratica basata sulla propria esperienza personale, passando dal tipo (albanese, femmina, perseguitata politicamente, disabile) all’individualità, fino a diventare una degli artisti albanesi contemporanei più straordinari e innovativi. Essendo tuttavia ancora relativamente sconosciuta al mondo artistico nazionale e soprattutto internazionale, la sua opera rimane tuttora da esplorare ed esaminare a fondo. Lumturi Blloshmi. From Scratch è un progetto espositivo volto a presentare e ricollocare l’opera e la vita dell’artista nel contesto della storia dell’arte nazionale e internazionale. Il progetto consiste in una selezione delle opere di Blloshmi dagli anni Sessanta del Novecento al primo decennio del 2000 – autoritratti e composizioni in pittura e fotografia – che rivelano l’essenza estetica e la realtà personale dell’artista, ma anche lo specifico contesto politico e sociale in cui sono state create. Rimanendo fedele all’impulso senza filtri di esprimere la consapevolezza dell’esperienza, Blloshmi ha costantemente superato i confini degli stili formali, sperimentando materiali e combinazioni di diversi media per ottenere quanto da lei definito “uno specifico universo tangibile”. Situata formalmente entro i confini della figurazione, la sua opera altamente innovativa e immaginosa trasmette e riecheggia un senso di universalità e atemporalità. Il padiglione è concepito in modo tale da riflettere l’universo reale ma allo stesso tempo inafferrabile di Blloshmi e la sua apertura alle interpretazioni. L’artista è purtroppo deceduta nel novembre 2020 in seguito a un’infezione causata dal Covid-19. Due contributi video e media interattivi su di lei sono stati realizzati appositamente per il padiglione della Biennale in collaborazione tra la curatrice Adela Demetja e gli artisti Tin Dirdamal e Alexander Walmsley. Adela Demetja

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Lumturi Blloshmi, Ithaca, 1992. Olio su tela, 80 × 121 cm. Photo Albes Fusha. Courtesy Lumturi Blloshmi Estate Lumturi Blloshmi, The Medal, 2003. Olio su tela, 112 × 259,5 cm. Photo Albes Fusha. Courtesy Lumturi Blloshmi Estate

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Partecipazioni Nazionali


A RG E N T I NA

E L O R I G E N D E L A S U B S TA N C I A I M P O R TA R Á L A I M P O R TA N C I A D E L O R I G E N

Commissario

Il Surrealismo si fece strada come reazione salvavita – una propaggine metabolica della crisi di coscienza che si abbatté sul mondo occidentale successivamente alla Prima guerra mondiale. Le odierne crisi di coscienza – infinitamente diversificate, terribilmente amplificate e replicate – si diramano a un livello tale per cui la capacità dell’arte di generare reazioni salva-vita sembra essere una scienza perduta nel tempo o, nel migliore dei casi, una tradizione esoterica in grado di garantire la sopravvivenza affettiva di una microcomunità.

Paula Vázquez Curatore

Alejo Ponce de León Partecipante

Mónica Heller

Collocandosi all’estremità opposta dell’ambientazione profondamente controllata e professionale della Biennale, la filosofia fai-da-te di Mónica Heller appare più assimilabile alle tradizioni ermetiche. In qualità di esponente di spicco del longevo dibattito interno, tuttora in corso in Argentina, sul dilettantismo e sull’ingenuità come antidoti cognitivi alla sensibilità velleitaria dell’arte in un contesto capitalistico arretrato, Heller usa le maniere forti per plasmare il software, comprimendo il suo pungente lirismo all’interno di immagini a bassa risoluzione e poligoni. La “vivace densità” che si snoda ai margini del reale, e che pose le fondamenta del Surrealismo, potrebbe essere collegata alle sue animazioni e ai suoi paesaggi 3D, in considerazione del fatto che entrambi emergono come canali consoni allo sviluppo di una risonanza empatica nei confronti delle proprietà salva-vita. Inutile dire che questo non è un concetto definitivo: come l’arte contemporanea indubbiamente rafforza l’azione capitalistica, la sua opera digitale potrebbe anche evocare l’Inferno, dove il “movimento è energico ma le figure sono plastiche e rigide nella loro agonia, spaventosamente illuminate”. In El origen de la substancia importará la importancia del origen crea un ambiente distinto che trae ispirazione sia dal progetto architettonico multisensoriale delle sale da bingo che popolano le periferie argentine sia dalla “generosa esuberanza del tempo” surrealista. Dislocati all’interno del padiglione, schermi e proiezioni ospitano una galleria di personaggi che vivono all’interno di assurde narrazioni cicliche, riecheggiando non solo il formato *.gif e le sue nevrotiche variazioni ripetitive ma, soprattutto, il modo in cui la letteratura modernista e le composizioni musicali del dopoguerra – da Gertrude Stein a Leónidas Lamborghini, da Terry Riley a Mark E. Smith – identificarono nella ripetizione un effetto emancipatore. Alejo Ponce de León

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Mónica Heller, El origen de la substancia importará la importancia del origen, 2022. Video installazione con animazione 3D, dimensioni e lunghezza variabili. Fotogramma video

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Partecipazioni Nazionali


ARMENIA

GHARĪB ՂԱՐԻԲ

Commissario

“Si comincia con il semplice immaginare cose reali. Alla fine, le cose reali si manifestano”. G.I.G.

Arayik Khzmalyan (Ministero dell’Educazione, Scienze, Cultura e Sport della Repubblica di Armenia) Curatori

Anne Davidian Elena Sorokina

Sussurra in segreto, dissolviti nelle voci contraddittorie e rimuovi del tutto la tua presenza. La risonanza – non il suono in sé, ma la sua traccia – indugia nell’ambiente alle tue spalle.

Partecipante

Andrius Arutiunian Coordinamento

Gayané Khodaveerdi Astghik Marabyan Produzione locale

Marco Scurati

Gharīb è una parola che permea luoghi ed epoche del Caucaso e del Medio Oriente. Condivisa dalle lingue araba, armena e farsi, denota un senso di appartenenza e straniamento, evocando modalità di sradicamento ed estraneità. Da tempo gharīb è associata ad attività sommerse e clandestine di creazione musicale, centri ricreativi illegali, primi commerci di sostanze psicotrope e marginalità politica.

Apparizioni

Hallow Ground Hamed Ahmadi G.I. Gurdjieff Radik A Raimundas Malašauskas Urvakan Festival Progetto grafico

Sophie Rentien Lando (Espace Ness) Comunicazione

Silke Neumann e Zaida Violan, Bureau N Lilit Sokhakyan Con il supporto di

Boghossian Foundation Raffi e Taline Boladian Razmig e Ani Boladian Creative Industries Fund NL Calouste Gulbenkian Foundation Performing Arts Fund NL Sartis Un ringraziamento particolare a

Sona Dalalyan Adelina von Fürstenberg Miguel Magalhães Shogher Margossian Marianna Maruyama Gabrielė Mišeikytė Razmik Panossian Eliane Radigue Filipa Ramos Eloise Sweetman

Canzoni tra le pareti, cospiratori dietro le quinte. La risonanza come corpo soggiogante, vibrazioni simpatetiche che si piegano alle sue forze. Accordature alternative, canzoni di origine illecita, tradizioni di fabbricazione di strumenti musicali e delicate oscillazioni tra pensiero mistico e ciarlataneria trovano tutte spazio nel padiglione Gharīb. Qui, il gharīb si presenta come forma di dissonanza rispetto alle interpretazioni, tanto musicali quanto politiche, di tempo, ritmo e sintonia influenzate dall’Occidente. L’accordatura: gloriosa modalità per mettere a punto, eclissare e rafforzare frequenze, narrazioni e modalità dell’essere meticolosamente selezionate. Basta deviare appena qualche rapporto ed emerge un sistema perfettamente accordato, una potenza perfettamente pervasiva. La cosmologia Gharīb si svolge attraverso modalità di dissenso sonico, conoscenze popolari e caotici sistemi di elusività. Estrazione petrolifera e Cher, con i suoi trucchi di autotune; l’armoniosa legge del sette di Gurdjieff e i sistemi divini di digestione; ribelli tondrachiani emancipati; incantesimi allucinatori. Affiora una certa colonna sonora, costellata delle voci sommesse degli inascoltati, degli scomparsi e dei radicali. Andrius Arutiunian

e inoltre a

AGBU Milan Fondazione Berengo Consolato Onorario di Armenia a Venezia

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Andrius Arutiunian, Seven Common Ways of Disappearing, 2021. Frammento di partitura. Courtesy l’Artista

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Partecipazioni Nazionali


AUSTRALIA

DESASTRES

Commissario

M A R C O F U S I N AT O

Australia Council for the Arts Curatore

Alexie Glass-Kantor Partecipante

Marco Fusinato Partner formativo

University of Melbourne Partner per la mostra

Arup Artspace Denton Corker Marshall Partner del programma dei delegati della Biennale

Biennale of Sydney documenta fifteen The Hawai‘i Triennial artsACT CreateNSW DLGSC WA ArtsNT Arts Queensland Arts South Australia Arts Tasmania Creative Victoria L’Australia Council ringrazia Kerry Gardner AM presidente del Venice Council Chair e la generosità dei tanti filantropi di “Australia alla Biennale di Venezia” che hanno sostenuto DESASTRES.

Marco Fusinato è un artista e musicista bruitista contemporaneo la cui opera si esprime attraverso installazioni, riproduzioni fotografiche, design, performance e registrazioni. Da artista, concepisce il proprio lavoro come successione di progetti interconnessi, alcuni dei quali continuano attraverso numerose iterazioni. All’interno di questi progetti i lavori sono quasi sempre seriali e utilizzano specifiche strutture di sperimentazione, come per dimostrare una tesi. Operando tra discipline e campi culturali, Fusinato indaga le tensioni e le contraddizioni di forze opposte: cultura/istituzioni sotterranee, rumore/silenzio, minimalismo/massimalismo, purezza/contaminazione. Crea situazioni dinamiche in cui queste energie vengono catturate combinando l’appropriazione allegorica all’interesse per l’intensità di un gesto o di un evento. Da musicista, Fusinato esplora l’idea del rumore come musica, usando la chitarra elettrica e l’amplificazione di massa per improvvisare frequenze complesse, ad ampio raggio e di risonanza fisica. DESASTRES è un progetto sperimentale di rumore che sincronizza il suono con l’immagine. Il lavoro assume la forma di una performance solista durazionale come installazione. Per un totale di duecento giorni, durante gli orari di apertura della Biennale, l’artista si esibirà dal vivo nel padiglione utilizzando una chitarra elettrica come generatore di segnale nell’amplificazione di massa per improvvisare tracce di rumore, feedback saturo e intensità discordanti che innescano un diluvio di immagini su una parete LED autoportante dal pavimento al soffitto. Le immagini provengono da un flusso di parole inserite in una ricerca aperta su più piattaforme online. L’indicizzazione di massa è un disordine totale: un caos di immagini disparate e disconnesse generate casualmente. Non esiste un tema in quanto tale, piuttosto l’incontro immersivo con il suono e l’immagine in cui è dato al pubblico interpretare e dare un senso. L’intento è quello di creare una sorta di allucinazione, euforia nel disorientamento e spossatezza nella confusione.

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Marco Fusinato, una pagina della partitura per DESASTRES, 2022. Facsimile su carta manoscritta Edition Peters, 45,5 × 30,3 cm. Courtesy l’Artista e Galleria Anna Schwartz

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Partecipazioni Nazionali


AUSTRIA

I N V I TAT I O N O F T H E S O F T M A C H I N E A N D H E R A N G RY B O D Y PA R T S

Commissario

Jakob Lena Knebl e Ashley Hans Scheirl presentano installazioni al limite del teatrale in cui dispiegano il loro intero cosmo artistico – da dipinti, sculture, opere tessili, fotografie, testi e video, fino a una collezione di moda e una pubblicazione sotto forma di rivista. Questi “spazi del desiderio” sconvolgono le nozioni convenzionali delle presentazioni museali e sovvertono le gerarchie di arte e design, di cultura alta e bassa.

Ministero per le Arti, Cultura, Servizio Civile e Sport Curatore

Karola Kraus Partecipanti

Jakob Lena Knebl e Ashley Hans Scheirl Assistente artistico

Markus Pires Mata Gestione del progetto e della produzione

section.a, Vienna Stampa e media

Kathrin Luz Communication, Colonia Sponsorizzazioni e fundraising

Karin Kirste, Kunstnetzwerk, Vienna Progetto grafico

Yvonne Quirmbach, Berlino Alexander Nussbaumer, Vienna Supporto tecnico a Venezia

M+B Studio, Venezia Con il supporto di

Per conto del Ministero per Arti, Cultura, Servizio civile e Sport Sostenuto da

Land Niederösterreich Land Salzburg Stadt Salzburg Phileas Gallery Crone Georg Kargl Fine Arts Gallery Loevenbruck Dorotheum Tectus Insurance Brokers Zumtobel BIG Bundesimmobiliengesellschaft Porr Eva e Christoph Dichand Con il gentile supporto di

Geyer & Geyer Artbook Adrian and Toni Eternit Kohlmaier Adler Paliti Bio Kerzen Bioweingut Lenikus Stahl und Form SORAVIA Kunsttrans MAC Wiener Seife

Knebl e Scheirl pongono l’accento sull’architettura simmetrica del padiglione austriaco, in cui gli spazi sono allo stesso tempo divisi e collegati tramite un colonnato. Ciascuna delle due sezioni porta il marchio del duo artistico: le diverse posizioni vengono così distinte, ma si mantiene al contempo il dialogo tra le installazioni per enfatizzare il loro lavoro collettivo in punti precisi. Si assiste a una sorta di oscillazione, ad esempio, fra varietà di materiali, modalità operative, simboli e forme fra le due presentazioni, che vengono duplicate, rispecchiate e tradotte nella pratica artistica prediletta in ciascun caso. Le vaste installazioni di Jakob Lena Knebl rifuggono le classificazioni nette, infrangendo deliberatamente le norme abituali. L’attuale interrogarsi dell’artista sugli anni Settanta del XX secolo, sulle tematiche sociopolitiche e sulla storia del design di quel decennio riflette il potente influsso che quegli anni esercitano ancora oggi. In questo contesto, fra gli aspetti chiave si ritrovano l’identità e le possibilità della sua trasformazione, i luoghi della sua messa in scena e la questione legata alla coproduzione e ai meccanismi dell’esclusione. L’installazione di Ashley Hans Scheirl è una cabina autoritratto dell’artista come pittore/pittrice. Come nel proscenio di un teatro, vediamo una disposizione ben ripartita di oggetti scenici piatti che sono al contempo gli strati di questo dipinto estraibile. La scenografia è costruita con interventi architettonici, quadri, tappezzeria stampata e oggetti di vari materiali. Si tratta di un dipinto a nicchia, “accessibile”, e allo stesso tempo anche di una scena teatrale che viene spostata in platea e addirittura al di sotto di questa. L’installazione è caratterizzata da una giustapposizione dinamica e da un intreccio di diversi spazi, stili e pittogrammi apparentemente paradossali. I visitatori diventano protagonisti di questo spettacolo, azionando la scenografia con i loro stessi corpi. Karola Kraus

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Jakob Lena Knebl e Ashley Hans Scheirl. Photo Christian Benesch

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Partecipazioni Nazionali


REPUBBLICA D E L L ’A Z E R B A I J A N

B O RN T O L OV E

Commissario

DIVINA PERFEZIONE

Ambasciatore Mammad Ahmadzada Curatore

Emin Mammadov Partecipanti

Fidan Akhundova Agdes Baghirzade Infinity Sabiha Khankishiyeva Fidan Novruzova (Fidan Kim) Ramina Saadatkhan Zhuk (Narmin Israfilova) Esecutore

Heydar Aliyev Foundation, Baku, Azerbaijan Coordinamento

Narmina Khalilova Farhad Boyukzada Paolo De Grandis Carlotta Scarpa, PDG Arte Communications

È reale la vita che viviamo, o il nostro mondo altro non è che una simulazione ben congegnata? È possibile che l’universo sia stato creato – per errore, esperimento o persino puro divertimento – da un essere più intelligente di noi, da una civiltà più avanzata della nostra, tecnologicamente superiore? Esponendo l’opera di sette artiste azere contemporanee, Born to Love indaga il fenomeno della Coscienza infinita dell’Universo. Il numero delle partecipanti non è casuale: il sette è una cifra speciale sin dall’alba dei tempi, simbolo particolarmente fausto e protettivo che racchiude qualcosa di spirituale, eterno. Inoltre, le sette partecipanti richiamano le Sette principesse del filosofo azero Nezāmī di Ganjè, il cui poema ispirato alla leggenda del re sasanide Bahrām Gūr (420-439) narra le sette storie delle sette mogli del sovrano, ciascuna dimorante in un proprio palazzo, associato a un diverso colore, pianeta e giorno della settimana. In mostra, la profondità di pensiero insita in questo capolavoro letterario si rispecchia nello spazio dedicato a ciascuna delle sette artiste. Nella sua installazione, Narmin Israfilova (Zhuk) usa l’acqua come luogo della nascita, che origina nell’utero. L’arte di Infinity ci immerge nell’oceano, dove possiamo raccogliere le perle della percezione e della saggezza, in un tutt’uno con l’essenza della natura e del mondo. Ramina Saadatkhan unisce tecniche della Pop Art a elementi dell’Espressionismo astratto. Il progetto di Fidan Novruzova (Fidan Kim) riflette sull’evoluzione del genere umano, concentrandosi sul fondamentale principio della selezione naturale e sulla priorità imprescindibile della protezione ambientale. La figura scultorea di Fidan Akhundova ritrae le diverse fasi nella vita di una donna, segnate da dubbi e difficoltà, ma anche da una maggiore consapevolezza e libertà. Sabiha Khankishiyeva sfrutta ripetizione e simmetria, che generano armonia come nella geometria frattale, per far affiorare le connessioni tra subconscio, coscienza e mondo che l’occhio umano ama individuare. Agdes Baghirzade tenta di avvicinarci alla perfezione divina mediante immagini della vita che ci circonda, alludendo a significati nascosti che la macchina fotografica non può cogliere. Gli esseri umani sono alla costante ricerca di sé, attraverso la conoscenza sensibile del mondo, ma si può essere certi di ciò che si percepisce? Siamo davvero sicuri che un sogno è un sogno e che ad attenderci al risveglio ci sarà la realtà e non un altro sogno?

18


Fidan Akhundova, Saltation, 2022. Installazione scultorea. Rendering fotografico di Fidan Akhundova. Courtesy Fidan Akhundova

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Partecipazioni Nazionali


REPUBBLICA POPOLARE DEL BANGLADESH

TIME: MASK AND UNMASK

Commissario

La mostra inizia con l’espressione del pensiero del filosofo e poeta indo-bengalese Rabindranath Tagore, incentrato sull’armonica appartenenza dell’umanità alla natura, sul loro convivere come un’entità unica. Il percorso espositivo parte dalla rappresentazione di questi concetti attraverso una serie di dipinti che mettono in luce l’originaria sintonia tra l’essere umano e l’universo naturale, e prosegue poi con l’esposizione di altre opere che sottolineano il progressivo infrangersi di questo equilibrio. Questo concetto inizia a prendere corpo nella seconda sala, attraverso una straordinaria proiezione di immagini; la “cella caleidoscopica”, mirabile creazione artistica, sintetizza il passaggio dall’armonia iniziale al drammatico allontanamento dell’uomo dall’ambiente, in parte causato dallo sviluppo tecnologico e dal progresso economico: la crisi pandemica è l’esito di questo disastro ecologico.

Liaquat Ali Lucky Curatore

Viviana Vannucci Partecipanti

Mohammad Eunus Jamal Uddin Ahmed Mohammad Iqbal Harun-Ar-Rashid Sumon Wahed Promity Hossain Marco Cassarà Franco Marrocco Giuseppe Diego Spinelli Co-Curatore

Moinuddin Khalid Partnership

Schilpakala Academy Rossi Foundation WeStart Con il supporto di

Ministero della Cultura della Repubblica Popolare del Bangladesh

Il percorso espositivo si conclude nella terza sala, dove le opere dal linguaggio surrealista e astratto sono un’autentica rappresentazione della contraddizione che segna il momento attuale; il titolo Time: Mask and Unmask vuole significare proprio questa dicotomia che segna la vita dell’umanità da oltre due anni, nell’alternanza tra il “mascherarsi” e lo “smascherarsi”, tra la paura e la speranza. Il significato della mostra si ricollega, dunque, all’ideologia di Tagore nel suo significato metaforico: il tempo che nel suo scorrere rapido maschera, cioè nasconde, sorpassa, tutto ciò che c’è di effimero e superficiale, ma anche smaschera, cioè porta alla luce, tutto ciò che è vero: il ritorno alla sintonia tra l’umanità e la natura. Viviana Vannucci

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Harun-Ar-Rashid, Let’s Unmask the Harsh Reality through the Spectrum of Kaleidoscope, 2021. Particolare dell’installazione video caleidoscopica. 3 specchi inclinati. Un proiettore e un altoparlante sono collegati a un lettore multimediale per riprodurre video e audio, 320 × 320 cm Mohammad Eunus, Journey Toward Unknown Destination – 2, 2021. Tecnica mista su tela, 102 × 102 cm Jamal Uddin Ahmed, Winter, 2022. Acrilico su tela, 183 × 122 cm

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Partecipazioni Nazionali


BELGIO

T H E N AT U R E O F T H E G A M E

Commissario

F R A N C I S A LŸ S E I G I O C H I D ’ I N FA N Z I A È sorprendente quanta

Jan Jambon, Ministro-Presidente del governo delle Fiandre e Ministro fiammingo degli Affari Esteri, della Cultura, delle Telecomunicazioni e del Facility Management Curatore

Hilde Teerlinck Partecipante

poca attenzione gli etnografi abbiano riservato ai bambini e all’infanzia fino a poco tempo fa. Spettava ad altri – scrittori, artisti, studiosi di folclore e registi – esplorare il mondo esperienziale dei bambini. Francis Alÿs è uno di questi “altri” che hanno preso sul serio questo mondo: i suoi bambini si differenziano dagli adulti e contraddicono quei miti rassicuranti che spesso vengono creati su di loro.

Francis Alÿs Coordinamento per conto del governo delle Fiandre

Stan Van Pelt Responsabile del progetto

Alessandra Biscaro Partner istituzionali

KASK – YCP (Young Curators Programme), WIELS, Brussels Responsabile del padiglione

Giulio Piovesan Testi

Molti dei recenti film di Alÿs sui giochi infantili affrontano gli stessi temi dei precedenti lavori nella serie: la preoccupazione per le linee, di inclusione ed esclusione, e il modo in cui i bambini riutilizzano gli oggetti ordinari che trovano intorno a loro. Ma ora compaiono anche nuovi argomenti, più oscuri. Un esempio è Haram Football (o “calcio proibito”) (2017) girato in una Mosul solo recentemente liberata dall’ISIS. Qui, un gruppo di ragazzini nella città dilaniata dalla guerra gioca a calcio senza pallone. È un atto di coraggio e un affrontare il rischio tipico dei bambini, dato che solo due anni prima tredici ragazzi erano stati giustiziati dall’ISIS per aver guardato una partita di calcio in televisione.

David MacDougall Editor dei testi

Maria Isabel Conde Tchachenko Con il supporto principale di

Nationale Loterij – Loterie Nationale Proximus Art Collection Willame Foundation Con il supporto di

Eeckman Art & Insurance, Vidi-Square AV Solutions Amici del padiglione belga 2022

Harold & Clotilde Boël, Dirk Cavens, Michel & Virginie Cigrang, Jos & Kristine Claeys, Agustin & Isabel Coppel, Emilie De Pauw, Philippe & Béatrice le Hodey, Wolfgang & Martine de Limburg Stirum, Pieter & Olga Dreesmann, Filip Engelen en Mevr. Ann Gillis, Yann & Pascale Gérardin, Catherine Lagrange, Luc & Carine Haenen-Van Aelst, Jean-Claude & Nicole Marian, Michel & Stéphanie Moortgat, Christian Strenger, Christophe e Patricia Tanghe-Van Thillo, Paul & Fabienne Thiers, Alexandre & Corinne Van Damme, Christian & Nathalie Van Thillo, Friedrich & Sylvia von Metzler, Jean & Chantal Vandemoortele, Antoine & Sylvie Winckler Con il supporto aggiuntivo di

Borzi contract, Cinquefoglie Vini, Duvel Moortgat, Galerie Peter Kilchmann, Green Spin srl, INDYVIDEO, Jan Mot, Brussels, KPMG, KU Leuven, Mertens Frames, Samsung Climate Solutions, VERLATO+ZORDAN associati, David Zwirner

I bambini pensano in modo diverso dagli adulti e si organizzano secondo le proprie abitudini e credenze, trasmesse da un bambino all’altro; sono legati agli adulti, e in molti modi dipendono da loro, ma sono anche molto bravi a starsene per proprio conto. Grazie all’interesse di Alÿs per le diverse culture, Children’s Games avvicina questo progetto ai temi dell’antropologia. Il cinema etnografico è un’arte, e non solo un metodo, perché richiede il bilanciamento di molteplici variabili di intenzione, sensibilità e analisi. Le variabili possono essere personali, come il modo in cui si risponde a un’altra persona, o analitiche, come il modo in cui si interpreta un evento nella propria mente. Più di tutto, però, ci sono le innumerevoli variabili di caso e circostanze che hanno fatto sì che qualcuno arrivasse in un dato luogo e ne influenzasse gli avvenimenti; parte dell’arte di Francis Alÿs è proprio la sua abilità nell’inventare le proprie coincidenze. Ma nel realizzare Children’s Games si è trovato di fronte all’inventiva dei bambini: una capacità, questa, che sfida la sua. Questo saggio è una versione adattata del capitolo Francis Alÿs e i giochi dell’infanzia in Francis Alÿs – Children’s Games, Eye Filmmuseum, Amsterdam e nai010 Publishers, Rotterdam 2019. I video di Children’s Games sono disponibili su francisalys.com. David MacDougall

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Francis Alÿs, Artist Notebook, Sharya Camp, Dohuk, Iraq, 2016. Matita su carta, 13 × 42 cm. Courtesy l’Artista Children’s Game #23: Step on a Crack – Hong Kong, 2020. Still da video, 5’. In collaborazione con Félix Blume, Julien Devaux e Rafael Ortega. Courtesy l’Artista

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Partecipazioni Nazionali


BOLIVIA

WA R A WA R A J AW I R A

Commissario

A L L A S C O P E R TA D E L WA R A WA R A J AW I R A

Roberto Aguilar Quisbert – Mamani Mamani Curatore

Collective Warmichacha Partecipanti

Collective Warmichacha: Adriana Aneiva Guerra Ana Rosy Bustamante Villalobos Andres Armin Kuljis Molina Augusto Mendoza Caleb Rodriguez Claudio Fabian Vargas Hernani David Fernando Portillo Morales Fabiana Nicole Lopez Bruño Fatima Choque Gabriela Lugones Guzman Hector Canonge Illampu Adhemar Aguilar Jove Illimani Gabriel Aguilar Jove Iris Kiya Jacquelin Mamani Pacajes Jasmany E. Vasquez S. Javier Sebastian Abecia Achá Jessica Violeta Vásquez Velarde Joaquin Salvador Molina Saavedra Johnny Aduviri Rodriguez Jose Luis Saenz Nuñez Juan Carlos Usnayo Juan Pablo Villalobos Krystel Adeline Jiménez Loría Lenard Gery López Silva Luis Leonardo Calisaya Castillo Luis Oscar Jiménez Torres Maria Pereira Melvin Mariano Alarcón Campos Samuel Martínez Bejarano Santiago Romero Merida Solandré Vasquez Padilla Yody Ruben Quisbert Quispe

Immergendoci nella complessità del pensiero andino, affronteremo il cosmo e la natura umana, utilizzando come base del nostro lavoro diverse arti radicate nella cosmologia andina di Wara Wara Jawira (Fiume di stelle in lingua aymara). Questo fiume, o percorso di stelle, si snoda su tre livelli: Alaxpacha (Spazio infinito), Akapacha (Terra) e Manqha Pacha (Tempo e spazio delle profondità sotto la terra). L’opera, in tutta la sua esuberanza, costruirà e decostruirà l’idea di “assemblaggio”, permettendo ai visitatori di immergersi nella cosmologia andina mediante l’antica tecnica della tessitura. Tesseremo il nostro viaggio nell’intricato mondo della cosmologia andina. Legati in permanenza alla terra, gli uomini e le donne delle Ande che lavorano la terra, cacciano, allevano animali, alla fine del pomeriggio si riposano e sognano. Se il tempo e il lavoro lo consentono, quei sogni diventano fili che tessono una “stoffa di sogni”. Questo tessuto sarà una proposta estetica di incontro tra le arti, che consentirà a chi guarda non solo di vedere i tre livelli già citati, ma anche di sognare e intrecciare nella mente i propri sogni nel Wara Wara Jawira.

Collettivo Warmichacha

Assistente del Curatore

Judith Cuba Organizzazione

Illimani Aguilar Jove, Luis Leonardo Calisaya Castillo, Fatima Choque, Luis Oscar Jiménez Torres, Andres Armin Kuljis Molina, Augusto Mendoza, Joaquin Salvador Molina Saavedra, Claudio Fabian Vargas Hernani Assistente amministrativo

Kimberly Katherine Quiñonez Assistente degli artisti

Wara Eliana Carvajal Terrazas Con il supporto di

BACO (Bolivia Arte Contemporáneo) International fair by MIKO art Gallery

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Collettivo Warmichacha, Yakana constelación de la llama de la noche, 2022. Tecnica mista. Photo Collective Warmichacha. Courtesy Collective Warmichacha

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Partecipazioni Nazionali


BRASILE

C O M O C O RAÇ ÃO SA I N D O P E LA B O C A

Commissario

Jonathas de Andrade spesso basa le proprie opere d’arte su episodi e processi storici e utilizza un approccio talvolta spensierato e poetico, a volte ironico o quasi onirico, per proporre una riflessione sulla costituzione e sulle idiosincrasie di un ipotetico “popolo brasiliano”. A tale riguardo, uno dei progetti più longevi dell’artista è la serie di opere esposte al Museu do Homem do Nordeste, un museo concepito come possibile contrappunto all’omonimo museo antropologico realizzato a Recife da Gilberto Freyre nel 1979. Mentre il museo originale ripercorre l’identità regionale e la storia coloniale attraverso una collezione di artefatti e oggetti storici, il museo di De Andrade è incentrato sulle persone, e mette in luce come il rapporto tra potere e classe rechi le tracce e le conseguenze della storia. Nella sua installazione, l’artista imposta ancora una volta la propria opera sul profondo interesse nei confronti di una cultura autenticamente popolare – “popolare” in tutte le accezioni possibili di questo termine intrinsecamente complesso – utilizzando, come filo conduttore, l’ampia gamma di espressioni idiomatiche e modi di dire inerenti a metafore sul corpo umano. Liberamente ispiratosi all’estetica delle fiere scientifiche e alle sue esperienze di vita – sostenuto dai ricordi d’infanzia legati alla visita alla bambola Eva (una gigantesca bambola in vetroresina e gommapiuma alla quale il pubblico poteva accedere al fine di esaminare da vicino l’interno del corpo umano) – ha creato un’installazione caratterizzata da un fitto elenco di detti popolari e da una serie di opere bi e tridimensionali che danno vita alla straordinaria carica poetica di questi detti, rendendoli tangibili. Due immense orecchie poste all’ingresso e all’uscita del padiglione alludono all’espressione popolare Entrar por um ouvido e sair pelo outro, consentendo letteralmente ai visitatori di “entrare da un orecchio e uscire dall’altro”, mentre un pallone gonfiabile, che riempie lo spazio in vari momenti della giornata, fa riferimento a un’altra espressione: Coração saindo pela boca (Con il cuore in gola).

José Olympio da Veiga Pereira (Fundação Bienal de São Paulo) Curatore

Jacopo Crivelli Visconti Partecipante

Jonathas de Andrade Organizzazione

Fundação Bienal de São Paulo Ministero degli Affari Esteri / Ambasciata del Brasile a Roma Ministero del Turismo / Segreteria speciale della Cultura

Altri elementi, abbinati ad alcune opere collocate sulle pareti e a un video – altrettanto ispirati a detti popolari – completano questa installazione giocosa, interattiva, poetica e attuale. Nel complesso, le opere costituiscono un elenco parziale e allusivo, ma fortemente fisico, delle sensazioni provate da un immaginario corpo brasiliano, tradotte in espressioni dirette e talvolta divertenti, tuttavia capaci di catturare e trasmettere il momento storico che stiamo vivendo in tutta la sua complessità.

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Processo creativo di Entrar por um ouvido e sair pelo outro, l’artista al lavoro con lo scultore Silvio Botelho a Olinda, Pernambuco, Brasile, 2022

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BULGARIA

T H E R E YO U A R E

Commissario

Il progetto There You Are esplora la possibilità di trasformare lo spazio da fisico a simbolico, dove gli opposti esterno/interno, sopra/sotto, dentro/fuori assumono una nuova accezione nel contesto del corpo e della sua interazione con l’ambiente vitale. Seguendo la geometria delle sale dello Spazio Ravà e le proporzioni degli elementi d’arredo e dei dettagli degli interni, Michail Michailov realizza oggetti che costruiscono un assurdo palco minimalista sul quale si snoda la narrazione espositiva. Avvalendosi di svariati media (disegni, video, scultura, performance), l’artista crea territori meditativi che si focalizzano su aspetti imprevedibili dell’esistenza.

Iara Boubnova Curatore

Irina Batkova Partecipante

Michail Michailov Organizzazione

National Gallery, Sofia Gergana Mudova, MUSIZ Foundation Collaboratori

Hannes Anderle Donka Mishineva Kalin Trifonov Milena Kaneva Con il supporto di

Ministero della Cultura della Repubblica di Bulgaria

Al centro dell’installazione si trova una serie di disegni dal titolo Dust to Dust, intesa a catturare i dettagli microscopici dell’accumulo quotidiano, in realtà poco visibile, di rifiuti umani a partire dal 2014. Questo gesto artistico è inteso a misurare simbolicamente il tempo di ogni singola vita umana. Gli oggetti scultorei racchiusi all’interno della mostra – figure geometriche bianche munite di spazzole, manici di scopa, parti che ricordano aspirapolveri e simili – mantengono una tensione costante tra presenza e assenza all’interno dello spazio espositivo. Il tutto è potenziato dalle immagini e dai suoni della serie video Just Keep on Going, in cui Michail Michailov è catturato nell’atto di eseguire azioni cicliche prive di inizio o fine. Il materiale di scarto, magistralmente disegnato e trasformato in un’opera d’arte, unitamente ai surreali strumenti di pulizia, descrive metaforicamente la sofferta ricerca di significato nella narrazione della vita quotidiana. Ai fini del progetto, la finestra del padiglione è oscurata da una struttura che obbliga l’osservatore a introdurre la testa in un’apertura particolare per avere una visione della galleria. L’installazione Headspacing separa il corpo, che rimane all’esterno, dalla testa, il luogo dove si manifesta il campo del pensiero. In questo modo, l’osservatore si concentra su una sorta di ambiente laboratoriale, esaminando le profonde, essenziali caratteristiche delle cose, dove l’analisi istantanea generata dalla propria percezione può essere a malapena verbalizzata. Pertanto, gli oggetti in mostra esistono e al contempo sono assenti, trovandosi al confine tra il pensiero e la probabilità del suo essere formulato attraverso le parole. Irina Batkova

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Michail Michailov, particolare della serie Dust to Dust, 2014-2022. Matite colorate su carta. Photo Lisa Rastl. ©Michail Michailov

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Partecipazioni Nazionali


REPUBBLICA DEL C A M E RU N

THE TIME OF THE CHIMERAS

Commissario

Il Camerun è un paese che si sta impegnando per uscire dalle attuali divisioni interne, dove, dopo la fine del colonialismo, prima tedesco, poi inglese e francese, si sta vivendo una fase di forti tensioni, soprattutto fra aree anglofone e francofone. Lo sforzo del paese, per non restare ai margini dello sviluppo tecnologico e socio-economico in atto nel mondo, è sempre più incalzante nella partecipazione attiva al progresso internazionale. Tanti camerunensi sono espatriati, anche molti artisti, ma tutti, pur integrandosi nei paesi in cui si sono insediati, hanno conservato la propria identità nazionale e africana. I loro valori vanno al di là delle rivendicazioni postcoloniali: essi tendono a ripristinare la propria cultura per metterla in relazione con tutte le altre.

Armand Abanda Maye Curatori

Sandro Orlandi Stagl Paul Emmanuel Loga Mahop Partecipanti

Francis Nathan Abiamba (Afran) Angéle Etoundi Essamba Justine Gaga Salifou Lindou Shay Frisch Umberto Mariani Matteo Mezzadri Jorge R. Pombo NFT: Kevin Abosch João Angelini Marco Bertìn (Berxit) Cryptoart Driver Lana Denina Alberto Echegaray Guevara Genesis People Joachim Hildebrand Meng Huang Eduardo Kac Gyula Kosice Julio Le Parc Marina Nuñez Miguel Soler-Roig Miguel Ángel Vidal Burkhard von Harder Gabe Weis Clark Winter Shavonne Wong Wang Xing Alessandro Zannier ZZH Organizzazione

Origini Being 3 Global Crypto Art DAO Un ringraziamento particolare a

Marthe Beatrice Happi Paolo Mozzo Ji Xiaofeng Danesi SpA Professional Link srl

Gli artisti camerunensi sono consapevoli di questo bisogno di integrazione e le loro tematiche preferite sono quelle che mediano la condizione attuale con il contesto internazionale. Il padiglione pone a confronto quattro artisti camerunensi con quattro artisti internazionali, con l’obiettivo di creare un dialogo sul tema delle chimere e delle utopie possibili. Confronto e dialogo che si esprimono a 360 gradi con pitture, sculture, installazioni, performance e video. Un’attenzione particolare è rivolta alla tecnologia che, sempre di più, offre una via d’uscita possibile e un’occasione di sviluppo per le giovani generazioni camerunensi, esplorando in chiave internazionale il mondo emergente degli NFT, ai quali è stato riservato un ampio spazio dedicato in una storica esposizione, come mai visto prima alla Biennale. Dall’Africa, infatti, ci si devono aspettare forme innovative di emancipazione, consentite da un approccio sempre più democratico e diffuso nei confronti della finanza e dell’economia attraverso le nuove piattaforme digitali. Con la consapevolezza di perseguire un sogno, un’utopia possibile, gli artisti partecipanti si sono impegnati a dare forma, secondo la propria poetica e soprattutto la propria fantasia, a un’interpretazione condivisa di alcuni problemi che attanagliano il mondo intero, come la povertà, la fame, la giustizia, le pandemie, le divisioni etniche e l’emigrazione forzata. Sandro Orlandi Stagl

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Partecipanti: A) Afran, B) Angéle E. Essamba, C) Justine Gaga, D) Salifou Lindou, E) Shay Frisch, F) Umberto Mariani, G) Matteo Mezzadri, H) Jorge R. Pombo, courtesy ARTantide Gallery Progetto NFT, partecipanti: 1) K. Abosch, 2) J. Angelini, 3) M. Bertìn, 4) Cryptoart Driver, 5) L. Denina, 6) A. Echegaray Guevara, 7) Genesis People, 8) J. Hildebrand, 9) Meng Huang, 10) E. Kac, 11) G. Kosice, 12) J. Le Parc, 13) M. Nuñez, 14) M. Soler-Roig, 15) M.Á. Vidal, 16) B. von Harder, 17) G. Weis, 18) C. Winter, 19) S. Wong, 20) Wang Xing, 21) A. Zannier, 22) ZZH

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Partecipazioni Nazionali


C A NA DA

2011 ≠ 1848

Commissario

“Tutti i grandi avvenimenti e i grandi personaggi della storia si presentano, per così dire, due volte [...] la prima volta come tragedia, la seconda come farsa”1. Karl Marx

National Gallery of Canada Curatore

Reid Shier Partecipante

Stan Douglas Direzione del progetto

Jonathan Shaughnessy Sponsor presentatore

Royal Bank of Canada Partner

National Gallery of Canada Foundation Canada Council for the Arts Mecenate del padiglione del Canada

Reesa Greenberg Gli artisti canadesi a Venezia

Endowment Fund Donors Jackie Flanagan Reesa Greenberg Michael and Sonja Koerner Family Donald R. Sobey Family The Jack Weinbaum Family Foundation Sostenitori

Global Affairs Canada Numerosi sostenitori e partner da tutto il Canada e a livello internazionale Con il supporto aggiuntivo di

David Zwirner, New York/Londra /Parigi/ Hong Kong Victoria Miro, Londra/Venezia Stan Douglas Inc. Linda Chinfen Peter Courtemanche Brodie Smith

I disordini su scala continentale del 1848 videro la classe media e operaia europea allearsi contro l’assenza di libertà democratiche, le restrizioni alla libertà di stampa e l’inarrestabile dominio dell’élite aristocratica. Nel giro di qualche anno la maggior parte delle esili coalizioni si sgretolò, provocando le stoccate di Marx nei confronti dell’insediamento di Luigi Napoleone come imperatore di Francia nel 1852. Sebbene gli antichi poteri siano stati in grado di ricostituirsi, le “rivoluzioni borghesi” del 1848 incarnarono il desiderio di una riforma strutturale della democrazia europea parzialmente esaudito nel XX secolo. Probabilmente gli eventi del 2011 sono stati una reazione inconscia allo status quo economico e politico successivo alla grande recessione del 2008, comprese le proteste della Primavera araba, le rivolte di Londra, i movimenti di occupazione in diverse zone del mondo, così come la rivolta della Stanley Cup di Vancouver. Mentre il 1848 fu un anno di portata continentale, con le notizie delle rivolte diffuse dalla stampa, il 2011 è stato un anno di rilevanza globale con informazioni virali divulgate dai media elettronici. In Europa e nell’America settentrionale gli eventi sono stati semplicemente monitorati e ignorati; in Nordafrica e nel Medio Oriente soppressi o sovvertiti, con qualche eccezione di spicco, e poiché le cause alla base non sono mai state adeguatamente affrontate, nel decennio successivo si è assistito all’ascesa di un nazionalismo populista e allo scoppio di una guerra civile. 2011 ≠ 1848 indaga i diversi aspetti degli eventi del 2011 attraverso quattro fotografie documentarie su grande scala che ripropongono le proteste lungo l’Avenue Habib Bourguiba di Tunisi il 12 gennaio; le manifestazioni di Vancouver il 15 giugno; gli scontri tra i giovani e la polizia nel quartiere Hackney di Londra il 9 agosto; e l’arresto dei dimostranti del movimento Occupy Wall Street avvenuto il 1° ottobre a New York sul ponte di Brooklyn. Le foto sono accompagnate da ISDN, una videoinstallazione a due canali la cui premessa immaginaria ipotizza una collaborazione in tempo reale tra musicisti di Londra e del Cairo.

1

K. Marx, Il 18 Brumaio di Luigi Bonaparte, in K. Marx, F. Engels, Opere XI, agosto 1851 – marzo 1853, Roma 1982, p. 107.

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Stan Douglas, New York City, 2011-10-01, 2021. Stampa cromogenica su Dibond, 150 × 300 cm. Courtesy l’Artista, Victoria Miro e David Zwirner. ©Stan Douglas Inquadratura di Lady Sanity (sinistra) e TrueMendous (destra) per ISDN, 2022. Photo Alex Ward. Courtesy l’Artista, Victoria Miro e David Zwirner. ©Stan Douglas

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Partecipazioni Nazionali


CILE

T U R BA T O L H O L- H O L T O L

Commissario

Nella lingua dei Selk’nam, Hol-Hol Tol è il “cuore delle torbiere”. Ovunque, in questo mondo sempre più caldo e sempre più arido, le torbiere sono in pericolo. La loro conservazione è vincolata al benessere del genere umano e, in Patagonia, alla rinascita del popolo dei Selk’nam. Come le torbiere chiedono a gran voce di essere rappresentate quali ecosistemi viventi, così i Selk’nam rivendicano di essere riconosciuti come cultura vivente. La Fundación Hach Saye ci insegna che i diritti del popolo Selk’nam e quelli delle torbiere dipendono gli uni dagli altri. I Selk’nam abitavano la Terra del Fuoco da ottomila anni quando arrivarono le potenze coloniali che li avrebbero sterminati. Anche le torbiere, figure ancestrali per questo popolo indigeno, sono state devastate. Esse contribuiscono a regolare il clima del pianeta catturando il carbonio e immagazzinandolo in spessi strati di materiale organico inalterato (torba). Sebbene questa capacità le renda “uno dei più preziosi ecosistemi sulla terra” (Wildlife Conservation Society Chile), le torbiere costituiscono una tipologia di zona umida in larga misura trascurata, anche per via della loro struttura essenzialmente “sepolta”. Ciò aumenta la loro esposizione ad attività estrattive, minerarie e di drenaggio a fini di sviluppo e profitto; ma una volta drenate e distrutte, da pozzi di assorbimento del carbonio si trasformano in poderose fonti di emissione di gas serra.

Ximena Moreno Curatore

Camila Marambio Partecipanti

Ariel Bustamante Carla Macchiavello Dominga Sotomayor Alfredo Thiermann Organizzazione

Ministero delle Culture, Arti e del Patimonio nazionale del Cile Direzioni Affari Culturali del Ministero degli Affari Esteri del Cile Produzione

Juan Pablo Vergara Collaboratori creativi

Hema’ny Molina (scritti Selk’nam) Bárbara Saavedra (ecologia) Rosario (progetto Ureta) Mateo Zlatar (web design) Carola del Río (sviluppo web) Freja Carmichael, Caitlin Franzmann, Christy Gast, Randi Nygård, Renee Rossini, Karolin Tampere (odore) Sebastián Cruz (museografia) Nicolás Arze (direzione artistica) Benjamín Echazarreta (direzione fotografica) Isabel Torres (voci) Constanza Güell (catalogo) Fernanda Olivares (guida Selk’nam) Nicole Püschel (cambiamento climatico e biodiversità) Collaboratori istituzionali

Ensayos Wildlife Conservation Society Chile Parque Karukinka, Tierra del Fuego Fundación Hach Saye Greifswald Mire Center ProChile

Questi ecosistemi ci sfidano a creare una nuova estetica, torbida e plurivocale, che metta in evidenza le storie delle torbiere patagoniche intatte, enfatizzandone il ruolo di baluardo meridionale contro il cambiamento climatico e la perdita di biodiversità. Basato su oltre un decennio di cooperazione eco-culturale nella Terra del Fuoco, Turba Tol nasce dal lavoro del collettivo di ricerca Ensayos, una pratica transdisciplinare e collaborativa che ripensa il ruolo dell’arte creando comunità orientate alla conservazione e ad azioni ambientali coerenti. Per proteggere le torbiere patagoniche è necessario l’aiuto di tutti. Agli ensayistas che sostengono con forza la Patagonian Peatland Initiative si sono uniti la cineasta Dominga Sotomayor, l’architetto Alfredo Thiermann, l’artista del suono Ariel Bustamante, la storica dell’arte Carla Macchiavello, il produttore Juan Pablo Vergara, i designer Rosario Ureta e Mateo Zlatar, il direttore artistico Nicolás Arze e le conservatrici Fernanda Olivares e Isabel Torres. Camila Marambio

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Field Trip to the peatlands of Karukinka, Patagonia, 2022. Photo Benjamín Echazarreta. Courtesy Turba Tol Hol-Hol Tol

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Partecipazioni Nazionali


REPUBBLICA POPOLARE CINESE

M E TA- S C A P E

Commissario

Meta-Scape si ispira al concetto di jing1, rappresentato dalla poesia nel contesto letterario cinese tradizionale. Nel contesto della prospettiva contemporanea della teoria dei media, Meta-Scape pone in relazione l’immagine ecologica o di sistema presentata da “scape” con l’attuale contesto umano rappresentato da “uomo-tecnologia-natura”. “Scape” è un termine in evoluzione nella narrazione della cultura cinese tradizionale. Quando il pensiero dialettico di Grandezza e Piccolezza, radicato nel taoismo tradizionale, si è trovato in conflitto con i concetti di Antropocene e de-umanizzazione del tempo presente, si è reso evidente che le inquiete relazioni fra esseri umani e se stessi, nella società e anche nell’ambiente, dovevano essere indagate da una prospettiva di profonda consapevolezza ecologica. Se si guarda all’ascesa della civiltà cinese nel passato, i nostri antenati si erano già collocati in una visione sistematica di natura tramite l’interpretazione di “Scape”, e avevano compreso il significato della vita attraverso una coscienza dialettica interna.

China Arts and Entertainment Group Ltd. (CAEG) Curatore

Zhang Zikang Partecipanti

Liu Jiayu, Wang Yuyang, Xu Lei, AT Group (Central Academy of Fine Arts [CAFA] Institute of Sci-Tech Arts+Tsinghua Laboratory of Brain and Intelligence [TLBI] Group Project) Assistente del Curatore

Sun Dongdong Organizzazione

Ministero della Cultura e del Turismo della Repubblica Popolare Cinese

Meta-Scape intende ritrarre la “struttura della comprensione” creata dalla nazione cinese in un processo di inclusione e trasformazione del mondo, e di esplorazione delle pietre miliari della civiltà indicate dall’umanità per la coesistenza del mondo futuro utilizzando il concetto di “Scape” della cultura cinese tradizionale come concetto chiave. La mostra cerca di presentare l’attuale condizione umana di “uomotecnologia-natura” in un tono adeguato alle esigenze dell’individuo. Entrando nella sala espositiva, si può vedere l’opera scultorea di Wang Yuyang, Wang Yuyang#: Quarterly, sospesa a mezz’aria, un’opera che è generata dall’autoapprendimento e dal funzionamento di un programma informatico basato su un immenso database di informazioni. L’albero, in quest’opera unica, non è solo l’immagine di un albero, è un albero reale, richiesto dal cervello programmato, che è come un ponte tra il reale e il virtuale e ci permette di pensare alla spiritualità della vita, intrinseca nell’intelligenza artificiale, da una macro-prospettiva. Meta-Scape crea e presenta una coscienza cosmica simbiotica. Il punto di partenza è completamente diverso dal concetto popolare di “metaverso”. L’obiettivo della creazione “Scape” non è stabilire nuove divisioni, ma trascendere i confini della realtà, ristabilire un modo universale di guardare a se stessi, esplorando così la possibilità di costruire un futuro comune per l’umanità. Zhang Zikang, Sun Dongdong 1

Jing è un concetto della letteratura cinese legato all’idea di mondo interiore ed esteriore, soggettivo e oggettivo. In questo testo, è assimilato all’idea di “scape”, ossia il suffisso che nella lingua inglese viene utilizzato per comporre parole legate al paesaggio o, più in generale, a una scena di fronte agli occhi dello spettatore. Data l’intraducibilità di questo concetto si è scelto di lasciare il termine “scape”, senza traduzione, per associazione con il titolo del padiglione.

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Wang Yuyang, Wang Yuyang#: Quarterly, 2021. Resina, flavone, rame, bronzo, acciaio inox, albero, 400 × 800 × 260 cm. ©Yuyang Wang Studio AT Group (Central Academy of Fine Arts [CAFA] Institute of Sci-Tech Arts+Tsinghua Laboratory of Brain and Intelligence [TLBI] Group Project), Jungle, 2021. Deep learning di intelligenza artificiale, stampa speculare, dimensioni variabili. © Jiayuan Peng

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Partecipazioni Nazionali


C ROA Z I A

U N T I T L E D ( C R O AT I A N PAV I L I O N ) , 2 0 2 2

Commissario

I tassi di contagio delle nuove infezioni virali, le presunte manipolazioni elettorali, il divorzio Kardashian, le catastrofi ambientali, la Brexit e un numero sempre crescente di scandali legati alla corruzione politica: non c’è modo di sottrarsi alle notizie. Viviamo in un’epoca di abbondanza comunicativa, in cui i flussi di informazione in rete plasmano ogni aspetto della vita quotidiana. Non esistono notizie “neutrali”; nell’era “post verità” non esiste luogo in cui i reportage siano imparziali.

Ministero della Cultura e dei Media della Repubblica di Croazia Curatore

Elena Filipovic Partecipante

Tomo Savić-Gecan Organizzazione e produzione

KONTEJNER | bureau of contemporary art praxis – Olga Majcen Linn, Tereza Teklić Collaboratori

Irma Omerzo Tomislav Pokrajčić Jan Šnajder Ana Barić Sara Bakić Con il supporto di

Mato Perić e la Perić Collection Mondriaan Fonds Ministero della Scienza e dell’Educazione della Repubblica di Croazia Zagreb Tourist Board Il progetto è stato inoltre supportato grazie a una residenza dell’Art Explora Foundation, Parigi

Nel corso degli ultimi decenni, la singolare pratica concettuale dell’artista Tomo Savić-Gecan, croato di nascita e residente nei Paesi Bassi, ha rivolto l’attenzione agli invisibili complotti sociali, economici e politici che sottendono e informano la società contemporanea. Per il padiglione croato del 2022, Savić-Gecan realizza Untitled (Croatian Pavilion), un progetto discreto e radicale allo stesso tempo che mette profondamente in discussione il nostro rapporto con l’informazione, la tecnologia e il controllo. Avvalendosi dell’intelligenza artificiale per selezionare le informazioni dalle principali notizie di cronaca quotidiana, le gestisce attraverso un algoritmo e successivamente istruisce cinque performer che inscenano una serie di movimenti asciutti e scarni in spazi espositivi disseminati per Venezia. Il luogo in cui il visitatore potrà imbattersi nell’opera, per quanto tempo e quali gesti la caratterizzeranno quel giorno sarà un riflesso di ciò che sta accadendo nel mondo, di chi riferisce in merito e in che modo. Il vero tema indagato dall’artista, quindi, è il modo in cui noi cittadini siamo informati sul nostro presente e come siamo letteralmente plasmati dalle storie che ci vengono raccontate. Considerando che i media sono verosimilmente una macchina rivolta alla disciplina dei cittadini, all’organizzazione della percezione, un’espressione della politica e uno strumento ideologico, è più che giusto che la voce dei media informi ogni aspetto dell’opera. Tramite corpi che incarnano i cambiamenti delle notizie in una società del controllo, Savić-Gecan solleva quesiti di importanza vitale sul significato dell’essere umani quando la tecnologia digitale influenza così profondamente le relazioni tra le persone. Elena Filipovic

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Tomo Savić-Gecan, Untitled (Croatian Pavilion), 2022

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Partecipazioni Nazionali


CUBA

T E R R A I G N O TA ( P RO P O SA L S FO R A N E W WO R L D )

Commissario

Il padiglione della Repubblica di Cuba prende il titolo da un’espressione latina usata in cartografia per riferirsi a regioni ancora da esplorare, mappare o documentare: quei territori sconosciuti ancora in attesa di essere scoperti. Si ritiene che l’espressione sia apparsa per la prima volta nella Geografia tolemaica (Geōgraphikē hyphēgēsis), del 150 EV circa, e che fosse largamente utilizzata durante l’Età delle scoperte per descrivere l’esistenza di aree sconosciute o inesplorate sulle mappe. Accanto a Terra ignota troviamo anche Mare incognitum, rispettivamente “terra sconosciuta” e “mare sconosciuto”: entrambi rappresentano tanto i limiti della nostra conoscenza quanto il nostro obiettivo di espanderli. Nel corso del XIX secolo, anche prima dell’avvento della fotografia aerea e delle immagini satellitari, la Terra ignota è scomparsa dalle carte geografiche, sebbene i fondali oceanici rimangano in gran parte ancora non mappati. L’espressione è ormai una metafora di ciò che è “ignoto”. Tuttavia, ora che abbiamo iniziato a perlustrare altre superfici del sistema solare, siamo tornati a utilizzarla per descrivere le aree non identificate di lune e pianeti.

Norma Rodriguez Derivet Curatore

Nelson Ramirez de Arellano Conde Partecipanti

Rafael Villares, Kcho Giuseppe Stampone

Che cosa hanno in comune tutte le forme di vita sul nostro pianeta? L’acqua: siamo tutti fatti d’acqua, le maree che salgono e scendono collegano tutti gli esseri viventi all’universo in una danza coreografica. I fluidi compongono forme capricciose nella geografia dei nostri corpi mentre seguono il loro corso attraverso valli e pianure, giù per montagne, canyon e strette vallate. Potremmo in apparenza averlo scordato, ma siamo un tutt’uno con l’universo e questa è una delle ragioni per cui ne riproduciamo le forme. La vita è un viaggio attraverso il Mare incognitum, verso la Terra ignota. Cos’è in definitiva più importante: scoprire nuovi territori da conquistare al di là dei nostri confini fisici, sulla Luna o su Marte, oppure trovare nuove forme di armonia e integrazione tra l’uomo e la natura, liberandoci da una limitata visione antropocentrica, per raggiungere le rive di una nuova definizione di umanità? L’immaginazione è la più potente fonte di ispirazione; le nostre menti esplorano narrazioni innovative che potrebbero guidare la nostra nave verso terre inesplorate dove costruire un Nuovo Mondo, concentrandoci più sulle nostre somiglianze che sulle differenze. Nelson Ramirez de Arellano Conde

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Rafael Villares, Fragments of the World, 2018-2022. Installazione, dimensioni variabili. Courtesy l’Artista. ©Rafael Villares Giuseppe Stampone, Welcome to Gransasso, 2021. Grafite su tavola, modulo di dimensioni variabili. Photo Gino di Paolo. Courtesy l’Artista. ©Giuseppe Stampone

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Partecipazioni Nazionali


DA N I M A RC A

W E WA L K E D T H E E A R T H

Commissario

Con la sua installazione complessiva We Walked the Earth, l’artista Uffe Isolotto trasforma lo spazio espositivo del padiglione danese in uno strano ibrido a metà tra una fattoria tradizionale e una casa per i futuri abitanti di un mondo transumano. Tuttavia, l’installazione è un’immagine del presente. Un presente che sta vivendo un drammatico cambiamento. Un presente segnato da incertezza e disorientamento. Un presente impegnato a trovare risposte e soluzioni alle molteplici sfide che affronta. Un presente caratterizzato dalla nostalgia di un’innocenza passata e dalla speranza di una futura redenzione. Un presente espanso e franato in cui sono avvolte entità anticamente disparate. Passato e presente. Utopia e distopia. Biologia e tecnologia. Umano e animale. Un presente maledetto.

Danish Arts Foundation Curatore

Jacob Lillemose Partecipante

Uffe Isolotto Responsabile di progetto

Anette Østerby Project Manager

Tine Vindfeld Sovvenzionato da

Danish Arts Foundation Con il supporto di

New Carlsberg Foundation Augustinus Foundation Beckett-Fonden The Obel Family Foundation

We Walked the Earth utilizza effetti ipotetici e teatrali per mettere in scena il momento presente e alcune delle questioni sociali, ambientali ed esistenziali che racchiude, con una famiglia di centauri nel ruolo di protagonista. Invita il pubblico a immergersi in un mondo che, sebbene abbastanza familiare, non è più lo stesso. Un mondo alterato di cui non ci capacitiamo ancora e che, di conseguenza, pone alcuni quesiti fondamentali relativi al modo di vivere e lavorare; quesiti tangibilmente concreti per la famiglia di centauri. Dovremmo rivolgerci al passato o al futuro per sopravvivere in un’epoca che è incomprensibile e incontrollabile? Dovremmo adattarci o al contrario opporre resistenza al cambiamento? Dovremmo aggrapparci alle nostre convinzioni in merito a chi siamo, o dovremmo abbracciare le trasformazioni che attraversano i nostri corpi fisiologici e architettonici per diventare qualcun altro? Possiamo sopravvivere solo come qualcun altro? E in quel caso, come chi? We Walked the Earth è il frutto di lunghi anni di lavoro durante i quali Isolotto ha esplorato il punto di intersezione tra corpo e macchina. Quest’opera esplora l’esistenza umana oltre la glorificazione romantica di un originale mondo analogico o l’omaggio utopico al potenziale del progresso digitale. Affronta la complessità dell’esistenza sottolineando che può essere gestita solo se sfideremo le nostre convinzioni diffuse del mondo e di chi siamo. Jacob Lillemose

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Uffe Isolotto, We Walked the Earth, 2022. Photo Jakob Hunosøe

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Partecipazioni Nazionali


EGITTO

E D E N - L I K E G A R D E N P R E S E RV E D FOR THE CHOSEN ONES

Commissario

La Terra promessa... dove latte e miele scorrono a fiumi... Una terra di straordinaria fertilità... destinazione, scopo e serenità...Un’immagine stupefacente con un nucleo panteistico e sensuale, e inoltre sacro e profano...

Ministero della Cultura egiziano – Accademia d’Egitto a Roma Curatore

Mohamed Shoukry Partecipanti

Mohamed Shoukry Weaam El Masry Ahmed El Shaer Organizzazione

Ministero della Cultura egiziano – Accademia d’Egitto a Roma Con il supporto di

Commercial International Bank

Essere eterno di tentazione e desiderio... Una lotta fragile e incessante... Ridefinire l’umanità... Identità coerente e mondo diviso... Cerchi dell’essere... Coscienza scettica nell’infinità del tempo e dello spazio... Imprevedibilità... Incertezza... L’essere umano è rapito in una guerra eterna fra la propria natura istintiva e quella intenzionale. È possibile soddisfare l’istinto con cose finite, ma la volontà non ha limiti e si soddisfa solo con ciò che è infinito... se non si raggiunge un equilibrio – e non lo si raggiungerà mai – ecco la tragedia... L’essere sarebbe un mostro metamorfico, un sogno disordinato, come draghi che si fanno a brandelli nel fango... La pienezza dell’essere viene evocata davanti agli occhi nella sua più sacra maestosità; la si desidera con tutta la forza infinita della sua natura. Affrontiamo uno stato di confusione. Pensieri turbolenti ci travolgono. Cercare di capire e prendere consapevolezza: quali sono il significato e lo scopo della nostra vita? Si moltiplicano le domande mentre la nostra mente è incapace di trovare risposte. L’anima desidera uno spazio tranquillo, serenità. Questo stato si può raggiungere soltanto se troviamo una risposta esauriente e davvero convincente... Forse la salvezza risiede nella rinascita, da un utero in cui si sono formate tutte le cose, uno spazio di purificazione e salvezza per i miserabili che sono sfiniti dai dubbi della vita, desiderosi di pace eterna... Forse la sopravvivenza risiede in un tentativo futuristico di ottenere risposte che sono neutre e non discriminatorie. Alimentare gli algoritmi con i nostri dilemmi, nella speranza di interpretare ciò per cui non siamo stati in grado di trovare risposte definitive, nelle epoche. Potremmo rimanere sorpresi dalle immagini e dai suoni che si formano nell’utero del futuro. Ci farà rendere conto di ciò che le nostre menti non sono state capaci di comprendere, nella speranza che un confronto non programmato ci spieghi in un modo diverso le cose che ci circondano. Weaam El Masry, Mohamed Shoukry, Ahmed El Shaer

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Weaam El Masry, Mohamed Shoukry, Ahmed El Shaer, Eden-Like Garden 01, 2022. Installazione multimediale, 23 × 8 × 6 m, simulazione 3D. ©Weaam El Masry, Mohamed Shoukry, Ahmed El Shaer, Ministero della Cultura egiziano Weaam El Masry, Mohamed Shoukry, Ahmed El Shaer, Eden-Like Garden 05, 2022. Installazione multimediale, 23 × 8 × 6 m, simulazione 3D. ©Weaam El Masry, Mohamed Shoukry, Ahmed El Shaer, Ministero della Cultura egiziano

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ESTONIA

O RC H I D E L I R I U M . A N A P P E T I T E FO R A B U N DA N C E

Commissario

Messa in ombra dalla carriera del marito1, Emilie Rosalie Saal2 riuscì tuttavia a diventare un’artista dedita alla rappresentazione di esemplari unici di orchidee tropicali e piante rare. Un tempo suddita dell’impero russo in Estonia, Saal divenne parte dell’élite della società coloniale olandese nell’Indonesia del XIX secolo, avvalendosi della manodopera delle donne indigene per portare avanti la sua pratica.

Maria Arusoo (Estonian Centre for Contemporary Art, CCA) Curatore

Corina L. Apostol (Tallinn Art Hall, TAH) Partecipanti

Kristina Norman Bita Razavi Progettazione grafica

Laura Pappa

Orchidelirium mette in luce lo scollamento tra l’impulso di collezionare, consumare e mercificare i sistemi ecologici e la corrispondente violenza delle loro realtà.

Architetti

Aet Ader and Arvi Anderson, b210 Direzione tecnica

Tõnu Narro con

Mihkel Lember Villem Säre Aleksander Meresaar Erik Liiv Manager di produzione

Sten Ojavee, CCA Comunicazione

Kaarin Kivirähk, CCA Alexia Menikou Collaboratori creativi e consulenti per il progetto

Kristaps Ancāns, Sadiah Boonstra, Linda Kaljundi, Maija Karhunen, David Kozma, Saku Kämäräinen e Pietu Pietiäinen (Post Theatre Collective), Märt-Matis Lill, Àngels Miralda, Meelis Muhu, Mari Mägi, Behzad Khosravi Noori, Erik Norkroos (Rühm Pluss Null), Tammo Sumera, Iris Oja, Cärol Ott, Tuuliki Peil, Ulrike Plath, Karolin Poska, Teresa Silva, Eko Supriyanto Commissionato e prodotto da

Estonian Centre for Contemporary Art Coproduzione

Tallinn Art Hall, Rühm Pluss Null Finanziato da

Unendo passato e presente, le artiste Kristina Norman e Bita Razavi realizzano un ambiente espositivo immersivo. I film di Norman esplorano la residenza padronale come luogo di trasmissione culturale tra donne di classi diverse, la gabbia come spazio liminale di trasformazione tra sguardo interiore ed esteriore, il vivaio delle orchidee come luogo di circolazione del capitale e delle risorse naturali. L’intervento spaziale e la performance continuativa in sito di Razavi ricostruiscono le divisioni di classe che permeano l’architettura, spronando lo spettatore a riflettere sui sistemi di gerarchia e privilegio attraverso la performance, e affrontando allo stesso tempo cancellazioni storiche e narrazioni incomplete. In che modo gli artisti estoni contemporanei riflettono sul proprio patrimonio culturale e simultaneamente affrontano la storia coloniale e il dibattito neocoloniale del proprio paese? Il coreografo Eko Supriyanto realizza una performance site-specific che pone inoltre il seguente quesito: in che misura il colonialismo è realmente estinto? La performance porterà alla luce l’intrinseco colonialismo del sapere botanico, alla ricerca di una continuità con natura, genere e razza. L’opportunità di affrontare questi temi di attualità nel padiglione olandese Rietveld – che ha dato forma alla comprensione delle relazioni coloniali – è toccante. Nella mostra, lo spettatore avrà accesso agli immaginari ecologici decoloniali e alle ramificazioni socio-politiche dei modi coloniali di essere, pensare, fraintendere e fare. Corina L. Apostol

Ministero della Cultura dell’Estonia Con il supporto di

Cobalt Law Firm, Estonian Cultural Endowment, Estonian Film Institute, Kone Foundation, Post Theatre Collective, HIAP, Frame Contemporary Art Finland, Estonian Artists Association, Estonian Academy of Arts, Pallas Art School, DSV Transport and Logistics, Punch Drinks, Lincona

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Scrittore, giornalista, fotografo e cartografo, Andres Saal (1861-1931) nacque nella città di Tori Rural, allora appartenente all’impero russo. Tra il 1898 e il 1920 visse e lavorò in Indonesia, dapprima come direttore della tipografia E. Fuhri & Co., successivamente in veste di direttore del dipartimento di fotografia dell’Ente di Topografia di Batavia al servizio dell’esercito coloniale olandese. Nata a Tartu, Estonia, Emilie Rosalie Saal (1871-1954) studiò arte a San Pietroburgo. Tra il 1899 e il 1920 visse e lavorò a Giava. Nel 1926 la sua collezione di 333 disegni e dipinti raffiguranti la flora tropicale giavanese fu esposta al Museum of History, Science and Art di Los Angeles. Naturalizzata americana, si stabilì a West Hollywood, Los Angeles. Morì in California nel 1954.

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Emilie Rosalie Saal, Bamboo Orchid, ca. 1910-1920. Litografia, 63,5 × 48,3 cm. Courtesy Corina L. Apostol

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Partecipazioni Nazionali


FINLANDIA

C L O S E WAT C H

Commissario

La sicurezza, come concetto e come settore economico, contribuisce in modo importante a definire quali siano il nostro spazio pubblico e la tipologia di comportamento tollerata al suo interno. Close Watch, la videoinstallazione di Pilvi Takala, si basa sulla sua esperienza sotto copertura come guardia giurata per Securitas. L’installazione multicanale è incentrata su un workshop che l’artista ha sviluppato in risposta alle problematiche riscontrate nel corso di sei mesi di lavoro in uno dei maggiori centri commerciali della Finlandia.

Raija Koli (Frame Contemporary Art Finland) Curatore

Christina Li Partecipante

Pilvi Takala Organizzazione

Frame Contemporary Art Finland Project Manager

Maikki Lavikkala Coordinamento al progetto

Francesco Raccanelli Architetto della mostra

Studio L A Progetto grafico

Vela Arbutina Responsabile della comunicazione

Rosa Kuosmanen Con il supporto di

Saastamoinen Foundation Ministero dell’Educazione e della Cultura della Finlandia EMMA – Espoo Museum of Modern Art AVEK The Promotion Centre for Audiovisual Culture Helsinki Contemporary Carlos/Ishikawa Stigter van Doesburg The Finnish Cultural Foundation Ambasciata finlandese a Roma Arts Promotion Centre Finland

Mentre a livello globale il settore della sicurezza privata continua a crescere in modo esponenziale, le mansioni solitamente gestite dalle istituzioni di polizia statali vengono sempre più delegate al settore privato. In un contesto sottopagato, sottostimato e sottoregolamentato, che forma assume la responsabilità professionale? Quali sono le condizioni che permettono o incoraggiano l’uso del potere e con quale scopo? La cultura vigente in un posto di lavoro stabilisce i confini di ciò che viene considerato un comportamento accettabile. Il ruolo di una guardia giurata si apprende quasi interamente sul campo e viene tramandato da colleghi con più anzianità di servizio. In un ambiente ad alto tasso di stress, il sostegno collegiale è d’obbligo, ma che cosa accade se il compagno di lavoro è l’aggressore? Close Watch osserva come vengono negoziati i limiti del tollerabile e quali sono i momenti in cui è necessario uscire dai ranghi. La pratica artistica di Pilvi Takala rivela il non detto delle regole e delle norme della politica, della cultura e della società attraverso un lavoro sotto copertura, inscenando situazioni sociali e infiltrandosi nelle comunità. In Close Watch, l’artista cerca di individuare i confini che separano la sfera pubblica da quella privata, sorretti da una più ampia politica basata sulla razza, sul genere e sulla classe sociale. L’installazione multicanale viene mostrata all’interno di un’architettura espositiva site-specific che trasforma i locali del padiglione finlandese in un campo attivo per la politica sugli spazi. Rendendo visibili le gerarchie presenti nel settore della sicurezza privata, Close Watch riflette su come viene applicato il controllo e sul modo in cui, in ultima istanza, discipliniamo gli uni i comportamenti degli altri.

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Pilvi Takala, Close Watch, 2022. Videoinstallazione. Courtesy Carlos/Ishikawa e Helsinki Contemporary

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Partecipazioni Nazionali


FRANCIA

L E S R Ê V E S N ’ O N T PA S D E T I T R E

Commissario

Artista francese dall’identità plurale, Zineb Sedira ha costruito la propria opera su un percorso personale che attraversa Francia, Regno Unito e Algeria. Fin dall’inizio della sua carriera, si è concentrata sul rapporto fra memoria personale e tematiche universali, quali identità, memoria, discriminazione, razzismo, famiglia e libertà.

Institut français con Ministero per l’Europa e per gli Affari Esteri e Ministero della Cultura Curatori

Yasmina Reggad Sam Bardaouil & Till Fellrath Partecipante

Zineb Sedira Produzione esecutiva

ARTER Con il supporto di

Città di Gennevilliers Produzione del film

Fondation des Artistes Arts Council England Centre national du cinéma et de l’image animée – CNC (DICRéAM) In partenariato con

kamel mennour, Parigi Cineteca di Bologna Città di Parigi (Centre international des Récollets) Cinémathèque française PICTO Foundation INA – Institut national de l’audiovisuel CNC – Centre national du cinéma et de l’image animée In collaborazione con

Cinéma Jean-Vigo Cinema a Gennevilliers Ambasciata francese in Italia Institut français in United Kingdom Ambasciata francese in Algeria Ambasciata francese negli Emirati Arabi Uniti Villa Médicis The Third Line, Dubai

Zineb Sedira presenta una nuova installazione video che indaga le motivazioni alla base di film di profonda militanza politica e culturale che animarono il cinema degli anni Sessanta e Settanta del Novecento. Questo vivace periodo di attività artistica fu segnato dall’emergere delle prime co-produzioni fra Algeria, Italia e Francia, e dalla seconda ondata di decolonizzazione che ebbe luogo in larga parte nel continente africano. Il progetto di Zineb Sedira è al contempo testimonianza e ritorno di un sodalizio culturale e cinematografico nato in passato fra le due sponde del Mediterraneo, nella cornice dei mutamenti che fecero seguito all’indipendenza dell’Algeria. Sulle tracce di immagini scomparse e attingendo a un ampio patrimonio di materiale d’archivio, Zineb Sedira trasforma il padiglione francese in uno studio cinematografico. Les rêves n’ont pas de titre offre un’esperienza di “fiction del reale”, offuscando i confini fra memoria personale e memoria collettiva. Nel suo film, l’artista utilizza processi cinematografici come il remake e la mise en abyme e si ispira a molti generi diversi. Sullo sfondo, richiama l’attenzione sul film Les mains libres (1964, originariamente chiamato Tronc de figuier) del regista italiano Ennio Lorenzini, il primo lungometraggio nell’Algeria indipendente; per il progetto ha trovato e restaurato le bobine di questa prima coproduzione italo-algerina. Completano l’installazione cinematografica tre numeri della stessa pubblicazione – intitolata rispettivamente Algiers, Paris, e Venice – che richiamano certe riviste degli anni Sessanta e Settanta dedicate all’attivismo politico e al cinema. Per questo nuovo progetto Zineb Sedira ha collaborato con un gruppo curatoriale composto da Yasmina Reggad e dal duo Sam Bardaouil e Till Fellrath.

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Zineb Sedira, Les rêves n’ont pas de titre, 2022. ©Thierry Bal

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Partecipazioni Nazionali


G E O RG I A

I PITY THE GARDEN

Commissario

I Pity the Garden è l’opera di due artisti di Tbilisi, Mariam Natroshvili e Detu Jincharadze, su un presagio della fine. Tramite un’installazione video e un’esperienza VR il visitatore è trasportato nel realismo magico dell’Antropocene.

Magda Guruli Curatori

Giorgi Spanderashvili Khatia Tchokhonelidze Vato Urushadze Partecipanti

Mariam Natroshvili Detu Jincharadze Organizzazione

In-Between Conditions Partner locale

Nuova Icona Partner attivo

Spazio Punch Responsabile del progetto

Tamara Topuridze Progettazione sonora

Davit Khorbaladze Responsabile della tecnologia

Alex Lashkhi (StormBringer Studios OÜ) Progettazione della mostra

Luka Murovec (raumlaborberlin) Consulente scientifico di paleobotanica

Rafaël Govaerts, responsabile dei nomi di piante e funghi (Royal Botanic Gardens, Kew, Londra) Testi

Gabriel Adams Con il supporto di

Ministero della Cultura, dello Sport e della Gioventù della Georgia

Per gli artisti, nati qualche anno prima della dissoluzione dell’URSS, la sensazione della fine è parte intrinseca della memoria e della quotidianità. L’instabilità del sud globale genera una permanente, ma variegata, attesa della fine: una fine che non implica necessariamente la scomparsa ma può anche presupporre l’inizio di qualcosa di diverso, anche se spesso la drammaturgia degli eventi che l’accompagnano assomiglia a quella di una realtà distopica o di una fiaba dell’orrore. Un giardino metaforico vuoto che si secca, s’infuoca e muore. I Pity the Garden1 immerge lo spettatore in un ambiente costruito da forme narrative mitopoietiche. È un’osservazione sui segni della fine: l’orizzonte è infuocato, la città è svuotata, un cane abbaia incatenato al muro delle parole, un ufficio si sfascia, gli scaffali di un supermercato sono invasi dagli insetti. La scena centrale dell’esperienza VR è un giardino delle piante estinte: il giardino dei fantasmi, la crisi ecologica come un altro segno della fine. Il giardino virtuale raccoglie le piante estinte a seguito dell’intervento umano. L’opera mostra, con una narrazione non lineare, un giardino dell’Antropocene. L’ambiente svuotato sembra un videogame abbandonato, privo di presenza umana. Si vedono solo le orme lasciate da esseri umani, gli errori irrimediabili, le ferite della Terra. È un’opera poetica che ci parla, con la nuova lingua surreale dell’epoca tecnologica, di una fine e di un inizio. In-Between Conditions

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Il titolo del progetto ripropone i famosi versi della poetessa iraniana Forugh Farrokhzad (1934-1967) su un “giardino morente” che descrive, dalla spiccata prospettiva eco-femminista dell’autrice, il rapporto emotivo di una donna con il mondo circostante.

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Mariam Natroshvili e Detu Jincharadze, Silence, 2022. Immagine digitale dall’esperienza VR I Pity the Garden. Courtesy gli Artisti

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Partecipazioni Nazionali


GERMANIA

R E L O C AT I N G A S T R U C T U R E

Commissario

Nel suo progetto per il padiglione della Germania alla Biennale Arte 2022, l’artista Maria Eichhorn si focalizza sulla storia dell’edificio e la sua trasformazione.

Ellen Strittmatter (ifa) Curatore

Yilmaz Dziewior Partecipante

Maria Eichhorn Commissario aggiunto

Dorothea Grassmann (ifa) Assistente del Curatore

Leonie Radine Responsabile di progetto

Friederike Klussmann (ifa) Amministrazione

Tanja Spiess (ifa) Comunicazione

Leo & Wolf – Leonie Pfennig e Corinna Wolfien Gestione tecnica e supervisione architettonica

Clemens F. Kusch Martin Weigert Fotografia

Jens Ziehe Assistenti degli Artisti

Christian Eberhard Ben Mohai Monika Stalder Progetti e ricerche architettoniche

Arno Löbbecke Tour nei luoghi della memoria e della Resistenza

Giulio Bobbo, Luisella Romeo; Istituto Veneziano per la Storia della Resistenza e della Società Contemporanea (IVESER) Performance

Nkisi ossi Melika Ngombe Kolongo Jan St. Werner

Costruito nel 1909, il padiglione bavarese fu rinominato padiglione tedesco nel 1912. A quel tempo la sua architettura neoclassica era di scala più modesta e assomigliava ai vicini padiglioni inglese e francese. Nel 1938, il padiglione tedesco fu riprogettato con l’intento di riflettere i canoni estetici dell’architettura fascista. In aggiunta a una nuova facciata, fu realizzato un ampliamento posteriore su entrambe le gallerie laterali e il salone principale, con l’aggiunta di un’abside in fondo a quest’ultimo. La copertura del salone principale, innalzata di circa quattro metri, contribuì significativamente all’aspetto imponente del padiglione. A dispetto di alcune modifiche architettoniche apportate nel dopoguerra, l’edificio risente ancora del linguaggio formale dell’epoca fascista. Maria Eichhorn porta alla luce le tracce dell’edificio originale, celato dietro la riprogettazione del 1938, e conferisce nuova visibilità e tangibilità al padiglione bavarese del 1909, sia all’interno sia all’esterno. Il progetto comprende anche alcune visite a luoghi della memoria e della resistenza, condotte da Giulio Bobbo e Luisella Romeo e sviluppate con l’Istituto Veneziano per la Storia della Resistenza e della Società Contemporanea (IVESER). Il primo di questi itinerari è fissato per il 28 aprile 2022, in occasione del 77° anniversario della Liberazione di Venezia dall’occupazione tedesca a opera degli alleati. La pubblicazione, che rientra a pieno titolo nel progetto, include testi di autori e interlocutori quali Dana Andrei, Marco Baravalle, Giulio Bobbo, Yilmaz Dziewior, Maria Eichhorn, Hans Haacke, Adrian Iordăchescu, Vittoria Martini e Anh-Linh Ngo. Il progetto vanta inoltre il contributo di performance speciali a cura di Nkisi ossia Melika Ngombe Kolongo e di Jan St. Werner. Yilmaz Dziewior

Per conto di

Ufficio Affari Esteri di Germania In cooperazione con

ifa (Institut für Auslandsbeziehungen) Partner iniziali

ifa Freunde des Deutschen Pavillons / Biennale Venedig e. V. Con il supporto di

Città di Colonia, Ministero della Cultura e della Scienza dello Stato di Nord Reno-Westfalia, Kunststiftung NRW, Dipartimento per la cultura e l’Europa del Senato di Berlino, Russmedia, Galerie Barbara Weiss, Città di Bamberga 54


Mazzo di chiavi nella porta dell’ingresso principale del padiglione tedesco. Photo Jens Ziehe

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Partecipazioni Nazionali


GHANA

B L A C K S TA R – T H E M U S E U M A S F R E E D O M

Commissario

A sessantacinque anni dall’indipendenza, il Ghana è ancora alle prese con sistemi politici, economici, culturali, sociali e del sapere che non nascono dal suo contesto né vi si rivolgono. I sistemi creati all’interno delle sue comunità nel corso di millenni sono stati ritenuti inferiori rispetto a quelli definiti “universali” dai poteri dominanti. A mano a mano che superiamo i sistemi inadatti, se ne formano di nuovi, non ancora definiti, che attingono a una ricchezza di storie. Il titolo della mostra è ispirato alla stella nera che simboleggia il Ghana nella bandiera, nella nazionale di calcio e nei suoi monumenti più importanti; essa è diventata anche emblema del legame dell’Africa con la sua diaspora attraverso la Black Star Line di Marcus Garvey e il suo movimento Back to Africa, che vive ora una nuova primavera in Ghana con Beyond the Return; è inoltre descritta dai movimenti panafricanisti e anticolonialisti come la “stella polare della libertà africana”. Il padiglione indaga le nuove costellazioni della libertà nel tempo, nella tecnologia e attraverso le frontiere.

Akwasi Agyeman, CEO Autorità del Turismo del Ghana, Ministero per il Turismo, Arte e Cultura Curatore

Nana Oforiatta Ayim Partecipanti

Na Chainkua Reindorf Diego Araúja Afroscope

Na Chainkua Reindorf parte da tradizioni per lo più maschili legate al travestimento e alle società segrete e crea le proprie mitologie, in questo caso Mawu Nyonu, un’immaginaria società segreta composta da sette donne, tutte completamente padrone del proprio corpo e della propria sessualità, che vivono in armonia con gli elementi circostanti. Il concetto viene ulteriormente elaborato dall’opera Sunsum Kasa di Afroscope, che studia lo spirito che attraversa gli esseri umani e tutti gli elementi, servendosi della tecnologia per tradurre questo flusso vitale. Su questo tema verte anche l’opera di Diego Araúja, A Congress of Salt, in cui l’oceano Atlantico, un tempo agente separatore per tutti coloro che venivano strappati dalle coste occidentali del continente nella diaspora africana, ora agisce da unificatore. La mostra è promossa a partire dall’idea della curatrice Nana Oforiatta Ayim di un museo mobile che viaggia attraverso le comunità del Ghana in co-curatela e dialogo, con l’obiettivo di creare spazi accessibili, contestuali, inclusivi. Un museo che opera in spazi artistici che sostengono la sperimentazione e l’espressione e, fuori dai suoi confini, negli ambiti che favoriscono lo scambio e lo sviluppo; qui, all’interno della Biennale Arte, e anche in tutta Venezia, in una serie di workshop che indagano i collegamenti tra il Ghana e Venezia, con associazioni tra le perle di vetro e il lavoro di Reindorf, tra la conservazione delle lagune di Sakumono e di Venezia in Afroscope, la tutela delle paludi salmastre e delle foreste pluviali in Araúja, e anche nella musica e nel cibo. Nana Oforiatta Ayim

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Afroscope, Dreamer #0009, 2021, dalla serie Dreamers. Tecnica mista. ©Afroscope

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Partecipazioni Nazionali


G R A N B R E TA G N A

S O N I A B O Y C E : F E E L I N G H E R WAY

Commissario

Sonia Boyce ritrae incontri sociali intimi per esplorare le dinamiche interpersonali, spesso concentrandosi su gesti inaspettati. Operando con disegno, fotografia, video e installazione, l’indagine artistica di Boyce è incentrata sul modo in cui vengono rappresentate le identità, in particolare quando le persone sono consapevoli di essere viste dal pubblico.

Emma Dexter, direttore di Visual Arts al British Council Curatore

Emma Ridgway Partecipante

Sonia Boyce Contributi

Poppy Ajudha, Jacqui Dankworth, Sofia Jernberg, Tanita Tikaram, Errollyn Wallen Organizzazione

British Council Con il supporto di

Burberry Therme Group, Christie’s Henry Moore Foundation Art Fund, Newlands House Gallery Con un ringraziamento particolare a

Simon Lee Gallery Shane Akeroyd, Bianca e Stuart Roden The Lord Browne of Madingley Ebele Okobi Apalazzo Gallery, Girlpower Collection, Kiara Mughal, Oba Nsugbe, Simon Price, Andy Simpkin Con la gentile assistenza di

Sigrid e Stephen Kirk, MarGin e di coloro che desiderano rimanere anonimi Finanziato da

British Council Produzione

Niamh Sullivan, Rebecca Cooper, Neil Dawes, Claire Hayton, Frank Minoprio, Louise Morton Murray, Claire Renfrew, Zebastian Swartz, Richard Thomas, Michelle Tofi, Paul Wu, Abbey Road Studios, Atlantis Grammofon, BYOC Films, rtsound

Boyce è stata una figura chiave nel movimento British Black Arts negli anni Ottanta, partecipando attivamente a cruciali dibattiti e mostre per l’uguaglianza razziale. I suoi primi disegni e collage riflettevano la propria esperienza di genere e razza come parte della diaspora afrocaraibica in Gran Bretagna. Negli anni Novanta, Boyce si è allontanata dalle riconoscibili opere figurative di cui essa stessa è soggetto, per sviluppare nuove forme partecipative di creazione artistica attraverso conversazioni aperte, che proseguono l’esplorazione delle intersezioni tra soggettività personali e politiche. I cimeli della Devotional Collection, che abbraccia più di un secolo, rendono omaggio all’importante contributo delle musiciste nere britanniche alla vita emotiva del pubblico e alla cultura transnazionale ed è da queste fondamenta che scaturisce il suo nuovo incarico. Feeling Her Way, la vibrante installazione di Boyce negli spazi del padiglione britannico del 2022, immerge i visitatori nel suono del canto a cappella di cinque pionieristiche musiciste britanniche di colore. La mostra è costituita da carte da parati a tassellature, strutture geometriche dorate e immagini in movimento colorate che immergono lo spazio nel suono di voci che incarnano sentimenti di libertà, potere e anche vulnerabilità. L’installazione video centrale mostra un gioco vocale unico e giocoso in cui le cantanti, registrate agli Abbey Road Studios di Londra, per la prima volta, si incontrano, improvvisano e cantano a cappella. È segno della vitalità del gioco collaborativo e delle risposte intuitive come percorsi verso nuove possibilità, entrambi principi centrali della pratica artistica di Boyce. Emma Ridgway

Costruzioni

Peter Bellamy, Mark Curtis, Mark Jenkins, Beth Mills, John-Paul Somerville, Andrew Walsh, Nick Wesley, A. Bliss, Asylum SFX, K2 Screen, Omni Colour, Squire and Partners Gestione della produzione per la mostra

M+B Studio Progetto grafico

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Sonia Boyce, Untitled (Behind the scenes Boyce at Abbey Road Studios, London), 2021. Photo Sarah Weal ©Sonia Boyce Sonia Boyce, Untitled (Wallpaper), 2022. Dimensioni variabili. ©Sonia Boyce

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Partecipazioni Nazionali


GRECIA

O E D I P US I N S E A RC H O F C O L ON US

Commissario

U N U T O P I C O V I AG G I O AT T RAV E R S O I L T E M P O E L O S PA Z I O

National Gallery of Greece – Alexandros Soutsos Museum (rappresentato da Marina Lambraki-Plaka) Curatore

Heinz Peter Schwerfel Partecipante

Loukia Alavanou Curatore aggiunto

Giannis Arvanitis

Loukia Alavanou invita il pubblico a compiere un viaggio assai singolare. Il clou della sua installazione Oedipus in Search of Colonus è rappresentato da un film di venti minuti che traspone nel presente una tragedia di Sofocle risalente a quasi duemilacinquecento anni fa, narrandone la storia in una combinazione di docufiction, videoclip, farsa e con la più moderna tecnologia di realtà virtuale. Tristemente noto per la sua crudeltà, negli ultimi anni della sua vita Edipo viene bandito da Tebe e si reca a Colono per morirvi. Per la prima volta nella sua tragica vita, egli sfida la volontà degli dei: nonostante la loro resistenza, Edipo sceglie come ultima dimora Colono, un luogo a loro sacro.

Consulente per le ricerche

Yorgos Tzirtzilakis Progetto architettonico

AREA – Architecture Research Athens & Dimitris Korres Progettazione sonora

Manolis Manousakis Consulente di produzione

Christina Pigaki Responsabile di produzione

Olga Hatzidaki Art director

Phaidonas Gialis Comunicazione

Ute Weingarten & Alexandra Saheb – ARTPRESS Coordinamento mostra

Lina Tsikouta Coordinamento per il padiglione

Irini Sapka Organizzazione della comunicazione

Efie Agathonikou Collaboratori

Orestis Andreadakis Eleni Costopoulou Maria Mygadi Con il supporto di

Ministero della Cultura e dello Sport della Repubblica ellenica

Nella versione di Alavanou, girata in una baraccopoli abitata da una comunità rom, a raccontare la storia è un coro fuori campo. Tutti i ruoli sono interpretati da persone rom, attori dilettanti che con la loro recitazione sopra le righe conferiscono alla narrazione un effetto grottesco. Il loro problema principale è identico a quello dell’anziano Edipo. Come lui, i rom che oggi vivono a ovest di Atene, in un’area non lontana da Colono, lottano contro il destino. Sono spesso privi di una qualsiasi forma di cittadinanza e le autorità greche impediscono loro di scegliere un luogo di sepoltura vicino all’ultimo luogo di residenza. Oedipus in Search of Colonus è il primo film girato in realtà virtuale in Grecia che racconta un’unica storia. È stato realizzato con una complessa tecnologia a 360 gradi, che permette allo spettatore non soltanto di vedere, ma anche di sperimentare muovendo il capo l’intero scenario, fra spazi interni e droni che sorvolano gli insediamenti. Anche gli effetti sonori direzionali reagiscono, proprio come le immagini, ai movimenti dei fruitori. All’interno del padiglione greco sono state realizzate due cupole emisferiche che accolgono da tre a cinque sedie posturali basate sui progetti di Takis Zenetos, architetto greco dall’approccio utopico scomparso nel 1970. L’intero padiglione è avvolto nella semioscurità, che crea un’atmosfera a un tempo teatrale e misteriosa, e fa dello spazio un’isola che riflette su se stessa, al centro della più grande esposizione al mondo. L’arte come luogo impossibile. Utopia. Heinz Peter Schwerfel

Onassis Culture Thesaloniki Film Festival

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Loukia Alavanou, fotogrammi da On The Way to Colonus, 2020. Film VR360. Prodotto da VRS, a cura di Onassis Culture. ©Loukia Alavanou

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Partecipazioni Nazionali


G R E NA DA

A N U N K N O W N T H AT D O E S N O T T E R R I F Y

Commissario

Édouard Glissant, filosofo e poeta francese dell’isola caraibica della Martinica, parlando della civiltà dei Caraibi, ha detto: “Ci conosciamo come parte e come tutto, in un ignoto che non terrorizza. Piangiamo il nostro grido di poesia. Le nostre barche sono disponibili e le facciamo salpare per tutti”. Utilizzando il rituale che si ripete ogni anno del Shakespeare Mas, gli artisti esplorano le diverse tradizioni che hanno plasmato la cultura dell’isola di Carriacou, un’isola sorella che si rivela come fosse un teatro di strada, a cielo aperto.

Susan Mains Curatore

Daniele Radini Tedeschi Partecipanti

Cypher Art Collective of Grenada: Oliver Benoit, Billy Gerard Frank, Ian Friday, Asher Mains, Susan Mains, Angus Martin, Samuel Ogilvie Giancarlo Flati Identity Collective Anna Maria Li Gotti Nino Perrone Rossella Pezzino de Geronimo Marialuisa Tadei Organizzazione e altri collaboratori

Ezio Balliano Ivan Caccavale Luciani Carini Cristina Corvino Franca D’Alfonso Arianna Fantuzzi Elia Inderle Fernando Mangone Rina Mills Neil “Bassie” Matheson Peter Nussbaum Cosmosarte Simone Pieralice Fedora Spinelli Armando Velardo Con il supporto di

CIC Cuomo Photography Galleria d’Arte Studio C di Luciano Carini Fondo FORTITUDE 1780 Arteo Living ARTinGENIO Museum Bar Kaneva Coinsilium Group Limited Land Vorarlberg Studio Tecnico Marco Regalli, Vercelli Turcato Immobiliare Vercelli Casa della Cornice di Plassio Maurizio, Brandizzo Studio d’Arte 256, Vercelli Fondazione Velardo Ministero della Cultura di Grenada National Lottery Authority of Grenada Act—Art and Design, Grenada Insurance Consultants, Grenada The Tower Estate, Grenada Pure Grenada – Tourism Authority McGuinness Foundation

Questa intuitiva performance artistica è stata tramandata di generazione in generazione, basata sui testi di Shakespeare, in particolare su Giulio Cesare. La folla si raduna intorno agli interpreti cantando inni di incoraggiamento. La punizione per aver commesso un errore nelle battute comporta una frustata all’altro giocatore, talvolta non troppo scherzosa. Gli artisti di Cypher Art Collective di Grenada manifestano nella loro ricerca l’influenza di Africa occidentale, Francia, Regno Unito, Scozia e persino di Venezia, in Italia. Caratteristica unica di questa esplorazione è il film di Billy Gerard Frank che esplora, con uno sguardo storico, la vita dell’abolizionista Ottobah Cugoano, ribattezzato con il nome di John Stuart. Ridotto in schiavitù in Africa, portato a Grenada e poi in Inghilterra, è stato un personaggio trascurato dalla storia. Il suo libro Thoughts and Sentiments on the Evil and Wicked Traffic of the Slavery and Commerce of the Human Species, pubblicato in Inghilterra nel 1787, è una delle critiche più dirette alla schiavitù mossa da uno scrittore di origini africane. La mostra, armoniosamente, riflette anche sul “diritto all’opacità”, declamato da Glissant, a cui si collega il diritto alla diversità umana e culturale, al multilinguismo e alla multietnicità. Il “diritto all’opacità” significa guardare al fertile substrato culturale di ogni popolo e di ogni individuo. Da qui, citando il filosofo, una barca disponibile che salpa per intraprendere un viaggio dove ogni abisso deve essere incontrato e accolto in quanto memoria collettiva. Il tema del viaggio, come incontro e riscoperta, è quindi l’altro aspetto portante della mostra. Susan Mains, Daniele Radini Tedeschi

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Susan Mains, Shakespeare Mas Synthesis, 2022. Acrilico e tecnica mista su tela, 108 × 144 cm. Photo ©Susan Mains Asher Mains, Empathy of Place, 2022. Installazione, dimensioni variabili. Photo ©Asher Mains Oliver Benoit, Whipping the Mind, 2022. Pittura acrilica, particolare, 60 × 100 cm. Photo ©Oliver Benoit Billy Gerard Frank, Palimpsest, Tales of the Sea and Memory Cuguano, 2022. Fotogrammi da film. Photo ©John Johnston

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Partecipazioni Nazionali


G U AT E M A L A

INCLUSION

Commissario

Inclusion, l’imponente dipinto presentato dall’artista Chrispapita, suggerisce all’osservatore una riflessione sulla possibilità di rappresentare l’essere umano nella società, le sue relazioni e la sua storia. Chrispapita lancia un nuovo appello ad accettare le differenze e a rispettarle, poiché ogni singolo individuo fa parte di un tutto che chiamiamo umanità.

Felipe Amado Aguilar Marroquín, Ministro della Cultura Partecipante e Curatore

Christian Escobar “Chrispapita” Responsabile di progetto

Simone Piva Con il supporto di

Grupo Apolo ANACAFÉ Universidad Rafael Landivar Museo Ixchel CAMTUR Guatemala Invernowi

Nato e cresciuto in Guatemala, un paese multiculturale, multilingue e multietnico, nei suoi quadri dalle ampie proporzioni l’artista iperrealista vuole sottolineare la bellezza e la bontà d’animo della popolazione guatemalteca. Il colore, la varietà, la forza, il coraggio e la perseveranza di chi ha modellato questo paese e lo ha fatto con il proprio lavoro, con la propria speranza e la propria fede. Un’opera che è una summa delle emozioni passate, presenti e future, dei valori della società guatemalteca a duecento anni dalla sua indipendenza. Il bicentenario del Guatemala deve essere visto come punto di partenza per innescare cambiamenti in una società che si sforza di non ripetere gli errori del passato, imparando a perdonare e a guardare al futuro in modo positivo, con intraprendenza, empatia, forza, fede e patriottismo, concetti chiaramente espressi nell’opera. Secondo l’artista, “Inclusion è presente e futuro. Riempiremo i nostri bagagli con il passato e lo porteremo con noi per non dimenticare da dove veniamo, l’importanza di essere diversi e unici, questo è il messaggio che dobbiamo lasciare ai nostri figli”. L’opera, un acrilico su tela di 700 × 280 cm, è molto importante per l’arte guatemalteca, non solo per le dimensioni generose e per l’eccellenza nell’uso della tecnica, ma anche in quanto omaggio ai grandi muralisti latinoamericani come Diego Rivera e José Clemente Orozco, e per il richiamo ai grandi maestri del Barocco e del Rinascimento, come Caravaggio, principale fonte di ispirazione per Chrispapita. All’esposizione sono inoltre presenti video e immagini che permettono ai visitatori di apprezzare la ricchezza culturale del Guatemala. Simone Piva

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Christian Escobar “Chrispapita”, Inclusion, 2022. Acrilico su tela, 700 × 280 cm. Photo Roberto Andres ©Christian Escobar “Chrispapita”

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UNGHERIA

A F T E R T H E D R E A M S : I DA R E T O D E F Y T H E DA M AG E

Commissario

La mostra affronta le tappe della ricerca dell’identità. Il concetto di fondo, legato anche a una precedente esposizione dell’artista, si rifà al “dilemma del porcospino” di Arthur Schopenhauer. Si tratta di una metafora usata frequentemente dal filosofo, e poi da Freud ed esponenti della psicologia moderna, per esprimere la natura dell’intimità. L’essere umano, come essere sociale, è incapace di vivere da solo, e quindi cerca costantemente altri con cui condividere pensieri, sentimenti e amore.

Julia Fabényi Curatore

Mónika Zsikla Partecipante

Zsófia Keresztes Organizzazione

Ludwig Museum – Museum of Contemporary Art, Budapest Coordinamento del progetto

Géza Boros Anna Bálványos Zsigmond Lakó Comunicazione

Zsuzsanna Fehér Gabriella Rothman Progetto grafico

DE_FORM Design Agency Responsabile tecnico

Béla Bodor Con il supporto di

Ministero ungherese delle Capacità Umane

Sviluppando la linea di pensiero schopenhaueriana, il punto di partenza associativo della mostra veneziana è tratto da un episodio del romanzo del 1937 di Antal Szerb intitolato Il viaggiatore e il chiaro di luna. Quando il protagonista arriva a Venezia in luna di miele, parte da solo alla scoperta dei mosaici di Ravenna, sperando di riaccendere i ricordi della propria infanzia. Il “dilemma del porcospino” si sposa perfettamente con la storia del romanzo: i reperti delle culture passate fanno capire al protagonista non solo che gli individui traggono la propria identità dal proprio retroterra sociale e culturale, ma anche che il presente è inevitabilmente costruito sui frammenti del passato. La mostra non parafrasa gli eventi del romanzo, ma utilizza come analogia poetica l’esperienza mistica del protagonista alla vista dei mosaici, in particolare il momento in cui il suo senso di integrità viene infranto e la visione del mondo fin a quel momento incontrastata viene messa in discussione. È grazie all’esperienza del dubbio che si riesce ad affrontare il proprio sé in costante cambiamento. In quattro sezioni più ampie, la mostra esplora l’ambivalente relazione che lega passato e presente al futuro ed esamina le fasi attraverso le quali le persone tracciano la propria identità. Disposti all’interno delle stanze del padiglione e, nel reciproco riflesso, sganciandosi dal peso delle esperienze comuni e individuali, i frammenti di corpo – separati eppure esistenti come unica comunità – tentano di raggiungere la loro forma finale. Mónika Zsikla

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Zsófia Keresztes, After Dreams: I Dare to Defy the Damage, 2022. Immagine dello studio. Photo Dávid Biró. Courtesy l’Artista; Gianni Manhattan Zsófia Keresztes, After Dreams: I Dare to Defy the Damage, 2022. Particolare. Photo Dávid Biró. Courtesy l’Artista; Gianni Manhattan

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I S LA N DA

PERPETUAL MOTION

Commissario

Attraverso il suo percorso artistico, Sigurður Guðjónsson esplora i confini della materia e l’enigma sotteso agli oggetti intorno a noi. Nei suoi lavori coltiva un linguaggio artistico caratterizzato da un interesse per le trasformazioni che avvengono nell’interazione tra forma e ambiente. La sua ispirazione si esprime nel desiderio di svelare le cose nascoste, ingrandendole per capirne il contenuto. Questo processo creativo lo porta a progettare ambienti minimalisti, che si traducono poi in esperienze poetiche per il pubblico attraverso l’elemento visuale e quello acustico. La galleria viene trasformata in un set per l’osservazione di fenomeni nei quali il visitatore si trova immerso.

Auður Jörundsdóttir, Icelandic Art Center Curatore

Mónica Bello Partecipante

Sigurður Guðjónsson Paesaggio sonoro

Sigurður Guðjónsson Valgeir Sigurðsson Responsabile di progetto

Þórhildur Tinna Sigurðardóttir Con il supporto di

Ministero islandese della Cultura e degli Affari Business Iceland Berg Contemporary Reykjavik Art Museum

In Perpetual MOTION Sigurður Guðjónsson rivolge l’attenzione al flusso di energia continuo e imperturbabile che attraversa la natura. L’opera riunisce i concetti di spazio, energia e tempo in una scultura multisensoriale che invita l’osservatore a un’esplorazione della materia ai limiti della percezione. L’opera appare come un gigantesco schermo suddiviso in due assi perpendicolari che si incontrano a formare un angolo retto. Sull’asse orizzontale una proiezione al suolo occupa la maggior parte dello spazio, interagendo con il video lungo l’asse verticale, che si estende fino a sei metri d’altezza. I video ritraggono un cumulo di polvere di metallo mosso e ingrandito dalle lenti dell’artista. Il materiale si contorce e si deforma fino a perdere il sistema di riferimento. Il suono monolitico contrasta i flussi e riflussi dell’immagine in movimento. L’audio è tratto da una registrazione sul campo estremamente rallentata, che evoca le tonalità di un organo a canne. In una sinergia viscerale, la grana del video è accentuata da un suono elettromagnetico manipolato attraverso una sintesi granulare. L’opera combina abilmente un’immagine e un paesaggio sonoro intriganti che ci trasportano in un’esperienza visuale e acustica meditativa. Perpetual MOTION affronta il desiderio di uno stato disordinato attraverso un immaginario geometrico non disponibile in natura. Ispirato agli spazi dell’Arsenale, Perpetual MOTION è una celebrazione delle riprese cinematografiche e della visione, della sperimentazione poetica e degli spazi percettivi. Mónica Bello

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Sigurður Guðjónsson, Perpetual MOTION, 2022. Fotogramma da video. Courtesy l’Artista; Berg Contemporary

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Partecipazioni Nazionali


I R LA N DA

G AT H E R

Commissario

“Come la materia crea la materia e lo spazio crea spazio, così io sono una stanza e porto una stanza, allo stesso modo, che guardiate o meno”.1 La scultura e le opere con immagini in movimento di Niamh O’Malley ci trattengono nello spazio per cui sono state realizzate. Con acciaio, pietra calcarea, legno e vetro, l’artista modella e assembla oggetti per dare vita a un funzionale paesaggio di forme. Ad abitarlo e animarlo, sculture alte e autoportanti, a terra e a sbalzo, con immagini in movimento cadenzate o in loop.

Culture Ireland Curatori

Temple Bar Gallery + Studios Partecipante

Niamh O’Malley Sostenitori

Ireland at Venice è un’iniziativa di Culture Ireland, in partnership con Arts Council of Ireland Team curatoriale

Clíodhna Shaffrey Michael Hill Partner

Office of Public Works Dublin City Council Temple Bar Cultural Trust Dublin City Arts Office Mayo County Council Mayo Arts Service Mayo Creative Ireland ARUP Dublin Port Company iGuzzini TU Dublin Limerick School of Art and Design, TUS Institute of Art, Design & Technology, Dun Laoghaire Lismore Castle Arts The Model, Sligo Golden Thread Gallery, Belfast Temple Bar Gallery + Studios, Dublino

Sul pavimento giacciono forme ondulate di roccia calcarea, trapassate da profondi tagli e reminiscenti di canalette di scolo o aspre spaccature nella roccia sedimentaria erosa dal tempo. Ci sono allusioni a oggetti funzionali e a strutture familiari; l’ombra dell’architettura. Shelter ci invita a rifugiarci sotto la sua volta e ad alzare lo sguardo verso una ventola di vetro traslucido con foglie in rilievo. Vent riempie un intero schermo LED, concentrato su un singolo movimento in loop di lamelle che si aprono, si chiudono, dentro e fuori. Respirare. In più casi risultano dominanti i sistemi di supporto, che divengono parte del lavoro, non soltanto mezzo per esibirlo. Uno scaffale fuori misura contiene un assemblaggio di vetro colorato e metallo piegato a fisarmonica. Un intrico di profili in legno è sospeso a una barra d’acciaio. Queste sono superfici, e questa è una mostra in cui una parte dipende dall’altra, filtrando la luce, reggendo il peso e tenendo insieme un sistema di piani e forme. Le opere di O’Malley, scrive Lizzie Lloyd, “sono ricolme di bordi che delineano, si sovrappongono e si accostano ad altri bordi. I loro punti di incontro pongono l’accento sulle superfici levigate, butterate, impolverate e lucidate su cui i nostri occhi si poggiano e scivolano”. Questa mostra è un’esortazione a riunirsi. Invita alla comunità e alla mobilitazione. È sia induzione, sia richiesta, di tatto, incontro, occupazione di un luogo. Attira l’attenzione sulla propria ubicazione, verso la fine del tratto lungo dell’Arsenale; un luogo fatto di soglie, finestre, vetri, fori, scarichi, sfiati e un baluginare d’acqua e luce del sole. Le sculture di O’Malley inducono ad attivare, all’offrire protezione, al trasmettere sensazioni tattili e molto altro: afferrare, trattenere, accarezzare superfici, regalare un momento di equilibrio legato e precario.

1

Eimear McBride, estratto da QUARK, catalogo della mostra Gather, 2022.

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Niamh O’Malley, Vent, 2022. Fotogramma dal video digitale HD su monitor LED, 4’23” in loop, 160 × 150 × 30 cm. Courtesy l’Artista

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Partecipazioni Nazionali


ISRAELE

QUEENDOM

Commissari

Nella Queendom immaginata da Ilit Azoulay regna l’arte: le immagini assumono il potere, si liberano ed esigono di essere viste, le cornici premono contro le pareti, le forme si materializzano, si assiste a una loro transizione di genere, si sentono le loro voci. Queendom domanda: “Quanto può essere sovrana l’arte?”

Michael Gov Arad Turgeman Curatore

Shelley Harten Partecipante

Ilit Azoulay Organizzazione

Ministero della Cultura e dello Sport di Israele Ministero degli Affari Esteri di Israele Collaboratori

The Israel Lottery Council For Culture and Arts Partner

Jan Fischer Con il supporto di

Braverman Gallery Artis Outset Contemporary Art Fund Discount Bank The Philip and Muriel Berman Foundation Arkin Foundation

Il tema della proprietà delle immagini e dell’appropriazione culturale si pone al centro della scena. Affrancandosi dai vincoli della rappresentazione nazionale e maschile, Azoulay apre nuovi percorsi in un Medioriente che si immagina non patriarcale, transregionale, interconnesso, in cui le identità sono liquide, che accoglie le ambivalenze e apprezza le complessità. Queendom sembra emergere da un collasso dell’intero sistema, uscendo dal mondo del digitale e riversandosi nella nostra realtà. Fotomontaggi panoramici su larga scala offrono una sinfonia di fratture e guarigioni, mentre una traccia audio collaborativa riempie gli spazi con le sonorità di un linguaggio universale. È una narrativa rizomatica, basata sulla ricerca, in cui la Storia si fonde con le storie, inglobando immagini dell’archivio fotografico e documentale semidimenticato di David Storm Rice (1913-1962), ricercatore di manufatti medievali islamici in metallo, preziosi oggetti fabbricati in Medioriente, commerciati nel Levante, portati in Europa attraverso Venezia e ora per lo più esposti nei musei occidentali. Tramite l’artigianato digitale, Azoulay scompone gli oggetti fotografati da Rice, poi li “salda” digitalmente e li “intarsia” di nuovo su pannelli metallici. Le cartografie che ne derivano mettono in mostra vuoti, spostamenti e sostituzioni nelle geografie della conoscenza. Azoulay visualizza l’aldilà delle immagini e le loro trasformazioni. All’interno di questo spazio virtuale, che cosa ricordano le immagini così doppiamente rimosse dalla loro sorgente, e nel mondo di Internet, possono queste essere ricontestualizzate? Ciò che a prima vista può sembrare un’innocente incursione nel regno della fantasia è, in realtà, un appello ad assumersi la responsabilità della propria immaginazione. Shelley Harten

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Ilit Azoulay, Queendom Panel 3, 2022. Stampa inkjet, 200 x 150 cm. Courtesy l’Artista; Braverman Gallery. © Ilit Azoulay; L.A. Mayer Museum for Islamic Art, Gerusalemme Con: Homberg Ewer, 640 AH / AD 1242 d.C. Ottone con intarsio d’argento, Mosul, Jazira (attuale Iraq). The Keir Collection of Islamic Art in prestito al Dallas Museum of Art, Dallas, Texas, USA; Baptistère de Saint Louis, XIII-XIV secolo. Ottone battuto con intarsi in argento e oro, e niello, Siria o Egitto. The Louvre, Parigi, Francia; Ciotola, IX-XI secolo. Rame o bronzo, Iraq. Precedentemente collezione R. Ettinghausen, USA, ubicazione attuale sconosciuta; Ewer, fine del XII secolo. Bronzo con intarsio in rame e argento, Herat, Khorasan (attuale Afghanistan). Galleria Estense, Modena, Italia; Ewer, prima metà del XII secolo. Lamiera di ottone battuto con intarsio d’argento, Khorasan (attuale Afghanistan). The Cleveland Museum of Art, Cleveland, Ohio, USA; Bobrinsky Bucket, 559 AH / 1163 d.C. Bronzo con intarsi in rame e argento, Herat, Khorasan (attuale Afghanistan), Museo dell’Ermitage, San Pietroburgo, Russia; Specchio, XII-XIII secolo. Bronzo, Iran o Rum (l’attuale Turchia). Fondazione Max von Oppenheim, Colonia, Germania; Nisan Taşi, prima metà del XIV secolo. Ottone fuso con intarsi in argento e oro, mongolo-iraniano, iraniano o siriano. Museo Mevlana, Konya, Turchia; Piatto, 4° secolo. Argento con doratura, Iran o Asia centrale. The British Museum, Londra, UK

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Partecipazioni Nazionali


I TA L I A

STORIA DELLA NOTTE E DESTINO DELLE COMETE

Commissario

Direzione Generale Creatività Contemporanea,

Direttore Generale Creatività Contemporanea,

Ministero della Cultura

Ministero della Cultura

Onofrio Cutaia Curatore

Eugenio Viola Partecipante

Gian Maria Tosatti Ministero della Cultura Ministro della Cultura

Dario Franceschini Sottosegretario di Stato

Lucia Borgonzoni Capo di Gabinetto

Lorenzo Casini Segretario Generale

Salvatore Nastasi Capo Ufficio Stampa e Comunicazione

Mattia Morandi

Direttore Generale

Onofrio Cutaia Servizio I – Imprese culturali e creative, moda e design

Dirigente Maria Luisa Amante Servizio II – Arte contemporanea

Padiglione Italia Commissario

Onofrio Cutaia Curatore

Eugenio Viola Un’opera di

Gian Maria Tosatti

Dirigente Fabio De Chirico

Allestimento scenografico

Servizio III – Architettura contemporanea

con

Dirigente Luca Maggi

Marco Cristini e Francesca Guarnone

Coordinamento generale

Luci

Luciano Antonino Scuderi

Pasquale Mari

Coordinamento tecnico

Matteo Piccioni Staff del Direttore Generale

Eva Barrera Segreteria

Roberta Gaglione Personale di supporto

Sara Airò Chiara Francesconi Antonella Lucarelli Claudia Vitiello Amministrazione

Graziella D’Urso Comunicazione e Ufficio Stampa

Silvia Barbarotta Francesca Galasso

Margherita Palli

con

Gianni Bertoli Organizzazione generale e segreteria organizzativa

Chiara Bordin Assistente del Curatore

Matheew Steven Carrillo Marentes Coordinamento Studio Tosatti

Marta Ferrara Coordinamento Public Program

Adriana Rispoli Progetto grafico

Mosaico Studio Ufficio Stampa

PCM Studio di Paola C. Manfredi Produzione

La Biennale di Venezia

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Gian Maria Tosatti, Storia della Notte e Destino delle Comete, 2022. Dettaglio dell’installazione

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Partecipazioni Nazionali


L’arte può raccontare la complessità della contemporaneità, le sue contraddizioni e i suoi cortocircuiti, ma anche proporre immaginari in grado di rileggere la realtà, sollecitando sguardi visionari che si aprono al futuro. Seguendo questo presupposto, il Ministero della Cultura, attraverso la Direzione Generale Creatività Contemporanea, promuove, per il Padiglione Italia 2022, un progetto capace di costruire mondi nello stesso tempo reali e immaginari, che guardino al presente e alle sue criticità, ma anche alle sue potenzialità, proiettandosi verso un domani dai connotati indefiniti e da costruire. Lo stesso tema indicato dalla curatrice di Biennale Arte 2022 Cecilia Alemani, Il latte dei sogni, ispirato all’omonimo libro dell’artista surrealista Leonora Carrington, muove dall’idea che i mezzi messi a disposizione dell’arte possano offrire dispositivi in grado di reinventare l’esistenza per mezzo di un incessante processo di metamorfosi e di ripensamento, che possa mettere in discussione il concetto stesso di umano e che si interroghi sulle nozioni di identità, diversità, responsabilità nei confronti del pianeta. Ai mondi in trasformazione e a una sensibile attenzione all’ecosistema rimanda anche la proposta curatoriale di Eugenio Viola, Storia della Notte e Destino delle Comete, un progetto monografico – per la prima volta nella storia del Padiglione Italia – di Gian Maria Tosatti, che sin dal titolo evoca la possibilità di guardare con occhio decisamente critico, ma allo stesso tempo estremamente poetico, alle ripercussioni che i sistemi politico-economici dell’età contemporanea hanno sul mondo di oggi. Così il Padiglione Italia 2022 vuole presentare – attraverso una visione multifocale dei linguaggi della contemporaneità – non una mostra, ma un’esperienza immersiva all’interno degli spazi delle Tese delle Vergini all’Arsenale, fortemente trasformati dall’intervento dell’artista in un percorso visionario e a tratti distopico. Onofrio Cutaia Commissario Padiglione Italia 2022 Direttore Generale Creatività Contemporanea del Ministero della Cultura

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È scientificamente provato che esista una correlazione tra epidemie e progresso. Oggi si parla di spillover (salto di specie), per spiegare le epidemie più rovinose degli ultimi anni: Ebola, Sars, influenza aviaria, Aids, Covid-19. Questi fenomeni ci ricordano quanto l’urbanizzazione e le conseguenze legate allo sviluppo antropogenico abbiano alterato gli ecosistemi su scala planetaria. Alla luce degli scenari attuali, in che modo possiamo tornare a riflettere sull’ambiente? Che ruolo può giocare l’arte nella costruzione di un mondo migliore all’indomani della crisi? E quali, infine, le sue reali potenzialità nell’operare cambiamenti all’interno del corpo sociale? Questi interrogativi informano Storia della Notte e Destino delle Comete, una installazione ambientale di Gian Maria Tosatti che fonde una pluralità di linguaggi, come di consueto nella ricerca dell’artista: dai riferimenti letterari alle arti visive, dal teatro alla performance. Racchiusa in un prologo e due atti, narra del difficile equilibrio tra Uomo e Natura, tra sviluppo sostenibile e territorio, del bilico tra i sogni e gli errori del passato e le prospettive del futuro. La prima parte, la Storia della Notte, ripercorre metaforicamente l’ascesa e il declino del sogno industriale italiano, dalla metà degli anni Sessanta a oggi. Torna alla mente la distesa di capannoni diffusi fra Ragusa e Cremona, l’unico panorama paradossalmente omogeneo di un ipotetico viaggio nell’Italia di provincia che oggi ci mostra i muscoli fermi di macchine che “vorrebbero ancora lavorare” e riflettono la frustrazione di una classe operaia giunta al capolinea, tra sussidi di disoccupazione e ricollocamenti difficili. Questo scenario prepara l’epifania finale, l’ultimo atto, il Destino delle Comete, ossia dell’umanità che ha attraversato la terra in una traiettoria rapida e luminosa, senza che, in fondo, le fosse garantito di abitare questo pianeta per l’eternità. Qui, l’immaginario si ribalta in una vera e propria epifania, visionaria e catartica. Eugenio Viola Curatore Padiglione Italia 2022

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Partecipazioni Nazionali


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Gian Maria Tosatti, Storia della Notte e Destino delle Comete, 2022. Disegno

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Partecipazioni Nazionali


C O S TA D ’AV O R I O

T H E D R E A M S O F A S T O RY

Commissario

Le storie contribuiscono a definire il valore della creazione spontanea, quando si vuole interpretare e rappresentare la realtà socioeconomica del soggetto e del collettivo. Questa realtà genera un concetto ricorrente nella creatività degli artisti ivoriani, in particolare nella capacità delle nuove generazioni di fondere, attraverso l’arte, tradizioni e innovazione, memorie e sogni di un destino da costruire nel campo dell’arte contemporanea. L’arte, in effetti, non è altro che l’intersezione tra sogno e storia. Tra il soggetto che agisce, crea e si costituisce come autore e la sua opera che partecipa al patrimonio comune. E se questa storia ci è negata, allora dobbiamo sognarla.

Henri Koffissé N’koumo Curatori

Massimo Scaringella Alessandro Romanini Partecipanti

Aboudia Armand Boua Frédéric Bruly Bouabré Aron Demetz Laetitia Ky Yeanzi Con l’Alto Patrocinio di

Première Dame della Costa d’Avorio Organizzazione e coordinamento

Ministero della Cultura e dell’Industria delle Arti e dello Spettacolo della Costa d’Avorio Ambasciata della Repubblica della Costa d’Avorio in Italia Con il supporto di

Ministero della Cultura e dell’Industria delle Arti e dello Spettacolo della Costa d’Avorio Ministero degli Affari Esteri, dell’Integrazione Africana e della Diaspora della Costa d’Avorio Ambasciata della Repubblica della Costa d’Avorio in Italia Accademia di Belle Arti di Venezia

Aboudia descrive una società africana lacerata nel tessuto sociale, in cui i giovani forniscono nuova linfa vitale. Dipinti taglienti composti da volti contrastanti, sfumature erotiche e ritagli di giornale da cui emerge la vita urbana attuale. Auto, grattacieli, televisori, fotografie e frasi che ricordano l’arte di strada forniscono una sinfonia visiva il cui ritmo è il ritmo della vita. Armand Boua ritrae la condizione umana come risposta alla disumanità del mondo che lo circonda. Le sue osservazioni sui bambini sono tratte da scene di strada, dove le migrazioni urbane creano intrecci etnici, linguistici, culturali e sociali. Frédéric Bruly Bouabré è uno dei padri fondatori dell’arte contemporanea africana, le cui creazioni rappresentano religione e filosofia, tradizioni e leggende. Aron Demetz, interessato alla scultura come strumento epistemologico, rivolgendo l’attenzione alle forme plastiche non-occidentali, in particolare a quelle africane, esplora il mondo attraverso un universo scultoreo parallelo abitato da creature immaginarie. Laetitia Ky denuncia la metamorfosi dei corpi e le definizioni della condizione umana contemporanea. Le sculture che crea con i suoi capelli afro sono un potente strumento di comunicazione per sensibilizzare le coscienze su questioni di razza, genere e giustizia sociale. Yeanzi rielabora i temi biografici, la cronaca e la storia recente del suo paese e sviluppa un’iconografia in grado di trasformare le esperienze del passato in una forma espressiva per il futuro. Tramite i materiali utilizzati per le sue opere, in particolare l’utilizzo di detriti, l’artista rivela l’incomparabile bellezza e l’estetica dell’individuo, mettendo in discussione le montagne di rifiuti che soffocano le società contemporanee. Henri Koffissé N’koumo, Massimo Scaringella, Alessandro Romanini

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Aboudia, Armand Boua, Frédéric Bruly Bouabré, Aron Demetz, Laetitia Ky, Yeanzi, The Dreams of a Story, 2022

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Partecipazioni Nazionali


GIAPPONE

DUMB TYPE

Commissario

Un nuovo lavoro del collettivo di artisti Dumb Type. Gli specchi posizionati su quattro supporti a nord, sud, est e ovest del centro della sala espositiva ruotano ad alta velocità, riflettendo laser modulati per proiettare testi sulle pareti circostanti. I testi proiettati sono tutti tratti da un manuale di geografia degli anni Cinquanta del diciannovesimo secolo e pongono interrogativi semplici ma universali Che cos’è la Terra? Che forma ha la Terra? Di che cosa è composta la Terra? Che cos’è un Continente? Quanti Continenti ci sono? In quale Continente viviamo? Che cos’è un Oceano? Che cos’è un’Isola? Che cos’è una Montagna? Che cos’è un Vulcano? Chi governa un Impero? Chi governa un Regno? Chi governa una Repubblica? Qual è l’Impero più esteso del mondo? Qual è il Regno più esteso del mondo? Qual è la Repubblica più estesa del mondo? In quale parte della Terra viviamo? Quando guardi il Sole che sorge, quale Oceano c’è di fronte a te? Quando guardi il Sole che tramonta, quale Oceano c’è di fronte a te? Qual è l’Isola più estesa del mondo? Quanti Paesi ci sono? Come sono divisi? Qual è il Paese più a nord? Qual è il Paese più a sud? In quale Paese viviamo? Dov’è Cape Farewell? ... Il suono delle voci che leggono i testi è emesso da altoparlanti parametrici rotanti, che diventano fasci di suono fortemente direzionali che viaggiano nella sala, raggiungendo l’orecchio dei visitatori in modo improvviso e inaspettato. Quest’opera rispecchia l’imponente trasformazione dei modi in cui le persone comunicano e in cui percepiscono il mondo, una trasformazione generata dall’evoluzione e dalla crescita di Internet e dei social media e dalla pandemia globale. In opposizione ai discorsi che lo circondano, il centro della sala è uno spazio vuoto: un luogo che non esiste da nessuna parte, ma che, allo stesso tempo, potrebbe essere ovunque. Viviamo in un’epoca di post-verità e spazi liminali. Il centro è vuoto.

The Japan Foundation Partecipante

Dumb Type Membri del progetto

Shiro Takatani Ryuichi Sakamoto Ken Furudate Satoshi Hama Ryo Shiraki Takuya Minami Marihiko Hara Hiromasa Tomari Yoko Takatani Voci

David Sylvian Maria Takeuchi Kahimi Karie Niki Con il sostegno speciale di

Ishibashi Foundation

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Kazuo Fukunaga + Dumb Type. Photo courtesy l’Artista. ©Dumb Type

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Partecipazioni Nazionali


REPUBBLICA DEL K A Z A K H S TA N

L A I – P I – C H U – P L E E – L A PA . CENTRE FOR THE NEW GENIUS

Commissario

Nel padiglione inaugurale del Kazakhstan alla Biennale Arte 2022, il collettivo transdisciplinare ORTA allestisce un Centro per l’arte e la scienza basato sulle idee dell’artista, inventore, scrittore e “pazzoide urbano” Sergey Kalmykov che, pur essendo stato fonte d’ispirazione per generazioni di artisti nella regione, morì nel 1967 ad Almaty in uno stato di totale oblio. Kalmykov, che definiva se stesso “genio di primo rango della categoria interplanetaria assoluta”, assunse molteplici alter ego, il più importante dei quali fu il grandioso e immortale “Lai-Pi-Chu-Plee-Lapa”.

Meruyert Kaliyeva Curatore e partecipanti

Collettivo ORTA (Alexandra Morozova, Rustem Begenov, Darya Jumelya, Alexandr Bakanov, Sabina Kuangaliyeva) Organizzazione

Foundation for Contemporary Art in Kazakhstan A.Kasteyev Museum of Arts Ministero della Cultura e dello Sport del Kazakhstan Con il supporto di

Saby Foundation Nurlan Smagulov Foundation G&G Marusya Assaubayeva Foundation SAPAR Contemporary Gallery + Incubator Damiani Kazakhstan

Sin dalla fondazione nel 2015, il collettivo si dedica all’esplorazione delle dimensioni superiori dell’interazione umana creativa. La ricerca ha condotto alla conoscenza dell’arte di Sergey Kalmykov, che mentre era in vita non ottenne alcun riconoscimento, non tenne mai una mostra personale e, a oggi, non ha neppure una tomba. Eppure, fino all’ultimo giorno egli continuò a dipingere e disegnare, scrivere e inventare, considerando se stesso “il più felice divulgatore di fantascienza di tutti i tempi”. Nei suoi scritti torrenziali affermò ancora e ancora: “Sarò nei secoli accanto a Picasso e da Vinci perché sono un modesto genio professionista”. Il suo lascito conta oltre millecinquecento dipinti, ora in collezioni museali, e diecimila pagine manoscritte conservate con cura presso l’Archivio di Stato del Kazakhstan. Il collettivo Orta ha studiato i suoi testi trattandoli come sacri; ha svelato il peculiare complesso di principi che Kalmykov seguì per vivere una vita creativa così appagante, e di ispirazione per tantissime persone. Ha ideato un approccio stoico e immaginifico alla vita e all’arte, in grado di trasformare la realtà con il potere della fantasia e della libera creazione, chiamato The Art of the New Genius. Su quest’arte del nuovo genio si basa l’intera realizzazione del progetto del padiglione, che prevede anche la curatela e la creazione del vero “Centro per il nuovo genio”. Costituito da robot arrugginiti, una foresta di antenne per captare la luce della bellezza, una foto-piramide capovolta, supporti di memoria ricamati e un monumentale Generatore Circolare di Genio fatto di luce e cartone, il Centro è un macchinario/tempio funzionante, un’installazione performativa immersiva e una piattaforma per esperimenti scientifici destinata a condurre al dischiudersi del Portale sulla misteriosa quarta dimensione. Collettivo ORTA

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ORTA collective, Alexandra Morozova dentro il Generatore Circolare di Genio in luce e cartone, 2022. Photo ORTA collective. Courtesy e ©ORTA collective

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Partecipazioni Nazionali


K E N YA

E X E R C I S E S I N C O N V E R S AT I O N

Commissario

Exercises in Conversation esplora le relazioni e le dinamiche tra i partecipanti di una conversazione, l’interscambio di ruoli tra chi parla e chi ascolta, e come questa complessa relazione impatti, influenzi e occupi lo spazio di un racconto, della pedagogia e della storia. Sia nelle sue fondamenta concettuali che nell’approccio curatoriale, il progetto assume una posizione filosofica e metodologica. Attraverso una teoria della realtà soggettiva, postula il ruolo chiave della comprensione dell’attore o del soggetto relativamente a un particolare evento o fenomeno della sua vita, unitamente alla dialettica tra coinvolgimento, da un lato, e autonomia, dall’altro. Apre anche la strada a conversazioni sul piano globale e locale, lingua e traduzione, originalità e imitazione, silenzio e rumore cercando di incoraggiare l’esplorazione di altri dibattiti in atto.

Kiprop Lagat Curatore

Jimmy Ogonga Partecipanti

Dickens Otieno Syowia Kyambi Kaloki Nyamai Wanja Kimani

Il padiglione presenta opere di Dickens Otieno, Syowia Kyambi, Kaloki Nyamai e Wanja Kimani, che radicano la loro pratica artistica individuale nelle rispettive identità e storie e, al contempo, la realizzano tramite un uso raffinato del linguaggio, delle parole, dei significati e delle forme, oltrepassando i confini concettuali e materiali e, all’interno del processo, rispondendo alla natura caleidoscopica nella quale la contemporaneità kenyota continua a essere concepita. Il progetto esplora la sovrapposizione tra conversazione, racconto, conoscenza e storia, proponendo la fenomenologia come metodo per informare le nostre visioni, definire le nostre diverse posizioni, ampliare la nostra prospettiva del mondo circostante, e studiare le esperienze individuali e collettive a livelli molto più profondi. Assumendo un tono di conversazione scevro da momenti perentori e da rivendicazioni autoritarie, il progetto suggerisce una comprensione della coscienza generata attraverso l’esperienza piuttosto che tramite l’opera di una mente incorporea. Considera la coscienza come intenzionale: in altre parole quando cerchiamo di comprendere qualcosa, è sempre per uno scopo presente nella nostra mente. Nella sua veste di struttura fenomenologica, il progetto propone nuove relazioni tra la realtà come costrutto e l’immaginario come possibilità. La Biennale Arte 2022 chiede agli artisti di non rivelare chi siamo ma di farci carico delle ansie e dei timori del nostro tempo e mostrare chi e cosa possiamo diventare.

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Wanja Kimani, Image No. 1, Venus II, 2019. Fotogramma da film. Courtesy l’Artista Wanja Kimani, Image No. 2, Expectations, 2018. Immagine della performance. Photo © Annabel McCourt. Courtesy l’Artista

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REPUBBLICA DI COREA

GYRE

Commissario

Gyre. Tra le turbolenze di infinite aperture e implosioni, l’energia è attratta verso il centro dell’abisso oceanico. Le sue estremità vorticanti accumulano il materiale adiacente con una forza pari a quella del suo nucleo, formando un gorgo che si espande incessantemente; alla fine, il suo groviglio si scioglie e appaiono nuovi vortici. In questo indistinto, dilatato confine, dove una spirale finisce e un’altra inizia, regnano il movimento nell’immobilità e l’immobilità in movimento.

Arts Council Korea Curatore

Young-chul Lee Partecipante

Yunchul Kim Curatore aggiunto

Jungyeon Park Assistenti del Curatore

Kahee Jeong Catherine (Hyun Seo) Chiang Produzione

Studio Locus Solus (Earl Park, Gisu Chun, Hocheol Shin, Jangwoo Choi, Jisan Lee, Minji Lee, Minyoung Jung, Oui An, Songin Bang, Yeongho Kim) Responsabile del padiglione

Eun Jeong Kim Responsabile editoriale

Immaginate il mondo come un labirinto. Mentre i pianeti del sistema solare orbitano attorno alla galassia nei loro moti spiraliformi, le aurore sorgono radiose con raffiche di vento solare, una dopo l’altra. Onde prorompenti, polveri sparpagliate, correnti convettive del manto terrestre con innumerevoli frammenti di luce che penetrano tra gli alberi e placidi mulinelli sulle rive del mare: sono tutti vortici, grandi e piccoli. Ovunque, nella vita come nella morte, assistiamo a fenomeni circolari, e questi legami attorcigliati che turbinano costantemente senza fermarsi in alcun luogo diventano cose – cose che tornano a essere nuovamente cose in un mondo che torna a essere mondo.

Kyoo Lee Progetto grafico

OOST Design della borsa del padiglione

XLIM Progettazione del sito internet

OOST OKOK Services Segnaletica

OOST Comunicazione

Scott & Co.

In Gyre, l’artista Yunchul Kim immagina il padiglione coreano come un corpo aggrovigliato, una materializzazione della “mancanza di posizione” delle cose, presentando il suo approccio patafisico in cui è la mate-realtà a contare, e non la materialità verbalizzata. Oggetti e materiali senza nome si intrecciano a eventi cosmici, come ad esempio un turbinio di liquidi come scintille, l’acqua del mare che scorre attraverso micro-tubi e nodi giganti. Come i nostri corpi, i sensi, i significati, il tangibile e l’intangibile, le macchine, i non-umani, gli eventi e il mondo esterno vivono in un’incessante intra-azione, così il loro potenziale si fa strada e trascende i confini del loro valore culturale e sociale mentre sfociano, con modalità opposte, in nuovi orizzonti.

In partnership con

Hyundai Motor Company Ricerca

In collaborazione con Korea Institute for Advanced Study Con il supporto di

Barakat Contemporary Korean Air

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Yunchul Kim, Argos II – the Swollen Suns, 2022. Rivelatore di muoni, contatore Geiger Müller, vetro, alluminio, microcontrollore, 389 × 210 × 180 cm. Photo Studio Locus Solus. Courtesy l’Artista Yunchul Kim, Chroma V, 2022. Installazione cinetica cromatica, acrilico, alluminio, polimeri, LED, motore, microcontrollore, 235 × 800 × 225 cm. Photo Studio Locus Solus. Courtesy l’Artista

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REPUBBLICA D E L KO S OVO

T H E M O N U M E N TA L I T Y O F T H E E V E RY D AY

Commissario

I disegni di Jakup Ferri raffigurano soprattutto scene quotidiane incentrate su animali, bambini, acrobati, musicisti e attività sportive (quali nuoto, snorkeling, bicicletta). Inoltre, si caratterizza per l’aspetto vernacolare che si trasforma in surreale, o in magia come gli animali che parlano o suonano, le persone che si trasformano in uccelli, che suonano per gli animali o che addirittura si trasformano in animali o creature ibride. Molto spesso, assistiamo all’interazione poetica tra persone, animali e oggetti che si osservano l’un l’altro creando percorsi visivi, come dialoghi silenziosi.

Alisa Gojani-Berisha Curatore

Inke Arns Partecipante

Jakup Ferri Organizzazione

Ministero della Cultura, della Gioventù e dello Sport della Repubblica del Kosovo

Le opere di Ferri traggono ispirazione dai disegni infantili, dall’arte popolare e dalla cosiddetta Outsider Art. Ci immergiamo in scene intime tratte dalla vita quotidiana catturate con colori brillanti e popolate da protagonisti gioiosi. Recentemente, Ferri ha anche iniziato a interessarsi ad argomenti quali la mobilità e l’architettura utopica degli anni Sessanta, come la Walking City del gruppo Archigram. In origine dedito al disegno, circa dieci anni fa l’artista inizia a declinare questi disegni in svariati mezzi espressivi: dipinti, ricami e tappeti. Per quanto riguarda le opere tessili, è ricorso a collaboratori eccellenti: donne di paesi come Albania, Kosovo, Burkina Faso e Suriname, insieme alle quali l’artista ha realizzato tappeti e ricami avvalendosi di tecniche tradizionali quali punto croce, tentene, ricamo fatto a mano, Gobelin ecc. I tappeti della serie Tintirinti (2021), tessuti artigianalmente, sono il frutto di una stretta collaborazione tra l’artista e suo figlio Jip. A differenza dei dipinti e dei ricami ricchi di piccoli dettagli, queste opere si caratterizzano per la scelta di ampi motivi grafici. Ispirati ai videogiochi e all’estetica 8-bit, consistono di estese campiture cromatiche e, infatti, prendono spunto dagli avatar creati da Jip – teste o T-shirt – nel videogioco Animal Crossing. Inke Arns

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Jakup Ferri (in collaborazione con Jip Ferri), Tintirinti, 2021. Tappeti tessuti a mano (lana), dimensioni variabili. Photo Leonit Ibrahimi. Courtesy l’Artista. ©Jakup Ferri Jakup Ferri, Untitled, 2021. Olio e inchiostro su tela, 80 × 110 cm. Courtesy l’Artista. ©Jakup Ferri

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Partecipazioni Nazionali


REPUBBLICA DEL KY R G Y Z S TA N

G AT E S O F T U R A N

Commissario

Prendendo le mosse dal padiglione dell’Asia centrale del 2005, la Repubblica del Kyrgyzstan partecipa per la prima volta con un proprio padiglione presentando l’artista Firouz FarmanFarmaian. L’esposizione è un’indagine sulla sostanza immateriale della memoria, condotta mediante la ripresa di cosmogonie arcaiche in un viaggio che attraversa materiali sacri, semiologie derivate e piani spirituali. L’artista trae ispirazione da ciò che definisce “dislocamento nomade”, il risultato dell’esilio vissuto durante l’infanzia a seguito della rivoluzione islamica iraniana del 1979, che lo ha portato a indagare sul passato tribale del suo clan e, in questo caso, sui vincoli ereditari che lo legano all’Asia centrale, alla cultura kirghiza e ai miti e all’epica associati all’idea di Tūrān.

Saltanat Amanova Curatore

Janet Rady Partecipante

Firouz FarmanFarmaian Organizzazione

We R The Nomads Agency and Foundation

Approfondendo la propria visione etnogenetica, nel 2021 l’artista ha viaggiato fino alle remote regioni dell’Ysyk-Köl e del Naryn tra gli altipiani del Kyrgyzstan. Animato dagli stretti legami culturali con la terra natia, ha incanalato il patrimonio ancestrale in una ricerca sull’artigianato contemporaneo ispirato al poema epico del popolo kirghizo, l’epopea di Manas. L’immersione nelle culture tribali e nomadi ha portato a una collaborazione con artigiane locali e alla creazione di installazioni che incorporano tessuti attraverso elementi molteplici, come lana di yak grezza, feltro, yurta kirghizi e pigmenti tradizionali. Entrando in Gates of Turan si precipita in un vortice drappeggiato di scuri vessilli cosmici, investito dalla potente interazione di luci cinematiche, mappature video e paesaggi sonori. Il cuore dell’allestimento è il Tunduk, monumentale cupola che sovrasta uno spazio sacro cerimoniale in cui, su un candido tappeto di feltro Shyrdak, si svolgono performance multigenere. Nell’installazione dedicata al Kayakalak, dieci arazzi sono sospesi come vessilli tribali immaginari a simboleggiare le tribù alleate dell’eroe guerriero Manas, enfatizzando al contempo l’emblema nazionale del Kyrgyzstan. I feltri tradizionali sono reinventati per rappresentare un mitico mandala Oïmo, realizzato con la collaborazione di esperte artigiane kirghize. Gates of Turan offre al visitatore un prisma con cui penetrare la visione di FarmanFarmaian volta a comunicare con il futuro dal profondo dell’ancestrale, strumento per riflessioni spirituali più intense e mezzo per enfatizzare l’esigenza di entrare in contatto con la traccia positiva della nostra presenza su questa terra.

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Firouz FarmanFarmaian, Kayakalak Zero One Study, 2021. Pennarello acrilico, inchiostro di china su carta, 36 × 27 cm. Courtesy l’Artista

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Partecipazioni Nazionali


LETTONIA

S E L L I N G WAT E R B Y T H E R I V E R

Commissario

“Forse la casa non è un luogo, ma semplicemente una condizione irrevocabile”, scrisse James Baldwin, quasi a riecheggiare l’idea, radicata nel buddhismo zen, di uno stato incessante di presenza e illuminazione. Fu un maestro zen giapponese a scrivere in precedenza: “Da quarant’anni vendo acqua sulla riva di un fiume. Oh, oh! Le mie fatiche sono del tutto prive di merito”, esortandoci a comprendere che abbiamo già tutto ciò di cui abbiamo bisogno.

Solvita Krese, Latvian Centre for Contemporary Art – LCCA Curatori

Andra Silapētere Solvita Krese Partecipanti

Skuja Braden (Ingūna Skuja, Melissa D. Braden) Organizzazione

Ministero della Cultura della Repubblica di Lettonia in collaborazione con

Latvian Centre for Contemporary Art Architettura

Līva Kreislere Progetto grafico

Rūta Jumīte Produzione

Kitija Vasiļjeva Comunicazione

Olga Procevska, Igors Gubenko, Jekaterina Firjane (Copywriter / Levelup) Sofija Anna Kozlova (LCCA) Alexia Menikou Con il supporto di

Ministero della Cultura della Repubblica di Lettonia

In questa mostra, una casa e un fiume sono di nuovo metafore, usate per indicare stati di coscienza e per tracciare le coordinate mentali, fisiche e spirituali della società odierna. Questa casa è abitata da Skuja Braden, un insieme simbiotico ed essere integrale che le artiste Ingūna Skuja e Melissa D. Braden hanno creato lavorando e vivendo insieme per vent’anni. Skuja Braden fonde due diverse personalità, competenze, esperienze, conoscenze accumulate e contesti storici. È un corpo che cambia, interagisce, fluisce e reagisce ai fenomeni quotidiani, cercando modi per facilitare e perfezionare le diverse forme dell’esistenza umana. Nella mostra, la complessa installazione di Skuja Braden comprende un’anatomia completa della casa: camera da letto, cucina, studio, camera degli ospiti e aree con significati rituali. Qui convergono passato e presente, insieme a illusioni, religioni e convinzioni, consentendo non solo di riesaminare criticamente diversi modi di leggere la storia, ma anche di mettere alla prova la nostra prontezza sociale a superare le sfide del presente. La casa è richiamata dalle immagini in porcellana, un materiale che Skuja Braden padroneggia superbamente. La loro porcellana prende vita negli oggetti di uso quotidiano: fontane, tubi flessibili, corpi maschili e femminili, e natura. Una grande porcellana prende la forma di un letto che sembra essere stato scagliato in aria da un’onda invisibile. L’acqua che potrebbe circondare una casa è qui carica di conoscenza. Le artiste affermano che siamo tutti collegati attraverso il flusso e la continuità di liquidi diversi, e che l’acqua scorre attraverso e al di là di ogni differenza. La casa di Skuja Braden ci chiede di immergerci e dissolverci nella corrente connessa a livello globale, di stabilire un contatto, e di includere invece di creare e consumare in eccesso. Andra Silapētere, Solvita Krese

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Skuja Braden, Selling Water by the River (no.1), 2022. Porcellana, tecnica mista, dimensioni variabili. Photo ©Kristīne Madjare. Courtesy l’Artista. ©Skuja Braden (Ingūna Skuja e Melissa D. Braden)

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Partecipazioni Nazionali


LIBANO

T H E WO R L D I N T H E I M AG E O F M A N

Commissario e Curatore

The World in the Image of Man illustra l’incessante opera dell’immaginazione umana nei confronti della realtà circostante: mai come ora, la fantasia ispira e nutre le nostre vite quotidiane.

Nada Ghandour Partecipanti

Danielle Arbid Ayman Baalbaki Architetto di mostra

Aline Asmar d’Amman – Culture in architecture Organizzazione

Lebanese Visual Art Association – LVAA Assistente del Curatore

Dina Bizri

Nada Ghandour, curatrice del padiglione libanese, ci invita a compiere un viaggio simbolico all’interno della contemporaneità attraverso un tema, una città e due artisti che intrattengono un dialogo a distanza sul piano politico ed estetico, proponendo opere d’arte tanto distanti eppure estremamente vicine. Beirut, in qualità di città globale, è il luogo che incarna questo tema senza confini: tutti gli individui, indipendentemente dalla propria cultura, possono interpretarlo e appropriarsene attraverso la propria percezione.

Progetto grafico

Lara Nader Mouawad Coordinamento per i media

Nadine Katabi Team del progetto

Chérine Assouad Philippe Assouad Farida El Solh Charles Simon Thomas Consulenti

Charbel Abou Charaf – White & Case Nicole Araygi – Araygi & Maalouly Dania Bazzy – Visionbuz

Solo l’arte è in grado di cogliere il senso dei codici della nostra visione, trascriverli e farli riecheggiare in una forma o in un’altra. In tal modo, la monumentale installazione di Ayman Baalbaki e il video di Danielle Arbid procedono tra un’immagine mentale che diventa realtà grazie al gesto plastico di Baalbaki, e una realtà tangibile che diventa pura visione attraverso gli occhi di Arbid. Ai fini della loro riflessione artistica, i due artisti hanno scelto il tema del carattere urbano polisemico di Beirut, al centro degli sconvolgimenti innescati dalla crisi globale e dell’instabilità emotiva di una relazione tecnologizzata con il mondo.

Con il supporto principale di

Tariq e Diane Al-Ghussein Basel Dalloul – Ramzi e Saeda Dalloul Art Foundation (DAF) Adel Ghandour Dania Ghandour Randa e Ghassan Ghandour Souad Ghandour Groupe Begemot Groupe Vital Raffy Manoukian Nada Mikati Rana e Riad Zein

Il dialogo che i due artisti intrattengono con Beirut rivela l’esistenza di una competizione sempre più esasperata tra la dimensione materiale e quella virtuale: un cambio di paradigma che ha impattato il nostro ambiente e le nostre più svariate attività. L’architetto Aline Asmar d’Amman ha progettato una scenografia rispettosa dell’edificio delle Artiglierie e dedicata al dialogo permanente tra le opere d’arte. Nada Ghandour

Con il supporto aggiuntivo di

Catawiki The Elie Khoury Art Foundation (EKAF) Sito web

lebanesepavilionvenice.com

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Ayman Baalbaki, Janus Gate, 2021. Tecniche miste, 485 × 1100 × 290 cm. ©Marco Pinarelli Danielle Arbid, Allô Chérie, 2015-aggiornato 2022. Fotogramma da video, 21’. ©Danielle Arbid

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Partecipazioni Nazionali


LITUANIA

GUT FEELING

Commissario

Gut Feeling, dell’artista lituano Robertas Narkus, è un’opera complessa che si muove abilmente tra il desiderio sincero di cambiare il mondo, il credo nella promessa della collaborazione, le egocentriche ambizioni dell’artista e un ammiccamento alle strutture finanziarie, al progresso tecnologico e all’umorismo. Il termine “gut feeling” descrive un certo senso di intuizione, una sensazione che, secondo una tradizione quasi dimenticata e le ultime scoperte scientifiche, lega strettamente l’attività dell’intestino al cervello. In collaborazione con un noto esperto di fermentazione, scienziati, artisti, residenti e piccole imprese locali, Robertas Narkus ha creato, in uno degli ultimi campi non ancora gentifricati di Venezia, nel sestiere di Castello, una scultura sociale – una cooperativa surrealista che produce un misterioso prodotto a base di un’alga raccolta nelle acque locali. Questa specie di alga, Undaria pinnatifida, nota anche come wakame, è una pianta invasiva che si è diffusa dall’Estremo Oriente al resto del mondo – Venezia inclusa – a seguito della globalizzazione. È una delle risorse di cibo più nutrienti e rapidamente rinnovabili, apparentemente in grado di risolvere gli imminenti problemi alimentari della popolazione terrestre in rapida crescita.

Kęstutis Kuizinas Curatore

Neringa Bumblienė Partecipante

Robertas Narkus Soluzioni di fermentazione

David Zilber Ricerca, sviluppo e realizzazione

Evelina Bartusevičiūtė, Tomas Bekeris, Antanas Gerlikas, Gaetano di Gregorio, Albertas Mickėnas, Lukas Strolia, Erik Vojevodin Identità visiva

Nerijus Rimkus, Vytautas Volbekas Interventi architettonici

Petras Išora and Ona Lozuraitytė Modellazione 3D

Andrius Kirvela, Antanas Skučas Organizzazione

Contemporary Art Centre, Vilnius Comunicazione

Dovilė Grigaliūnaitė Simon Rees Produzione locale

Marco Scurati Coordinamento

Ieva Tarejeva Team tecnico

Audrius Antanavičius, Almantas Lukoševičius, Ilona Virzinkevič Presentato da

Lithuanian Council for Culture Con il supporto di

Justas Janauskas and Gabija Grušaitė, Lewben Art Foundation, JCDecaux Lithuania UAB Litena, autoriai, Girteka Logistics, Hotel PACAI , Sweden-Lithuania Cooperation Fund Galerija Vartai, Integrity PR, Technarium Lithuanian National Radio and Television, Žmonės artnews.lt

In parte ispiratosi alle collaborazioni e agli incontri che hanno galvanizzato le pratiche artistiche degli anni Novanta, il lavoro di Narkus si sviluppa nella tensione tra la forma dell’opera d’arte, la rappresentazione dell’idea e l’esperienza temporale e collettiva del suo sviluppo e percezione. Gut Feeling riunisce e coinvolge diversi gruppi sociali e individui – a volte anche caratterizzati da interessi e aspirazioni contrastanti – mentre il progetto stesso diventa uno strumento per promuovere questo tipo di incontri. Eppure, proprio come in tutta l’opera dell’artista, questo progetto include anche altri aspetti importanti. In qualità di iniziatore di numerose organizzazioni sperimentali di arte, gestione e produzione alimentare, Narkus trae spesso ispirazione dal mondo degli affari e delle start-up. Affiancando all’ottimismo e allo spirito di iniziativa il loro, spesso invisibile, sottoprodotto – l’amarezza della delusione – Narkus crea opere tragicomiche. Allo stesso tempo, in quello che può essere visto come un mix quasi casuale di oggetti alla moda e tendenze, frammenti delle ultime teorie e strategie di varie pratiche artistiche, Narkus costruisce una riflessione stratificata e deliberatamente iperbolica del tempo presente, aperta alla percezione e al nostro coinvolgimento. Neringa Bumblienė

Sito web

gutfeeling.xyz

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Robertas Narkus, So much time so little to do, 2022. Stampa C-print, 150 × 100 cm

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Partecipazioni Nazionali


G R A N D U C AT O D I LUS S E M B U RG O

T I N A G I L L E N . FA R AWAY S O C L O S E

Commissario

La pratica artistica di Tina Gillen, che affonda le proprie radici nella pittura, indaga le relazioni che intratteniamo con il mondo che ci circonda, concentrandosi in particolare sulle tematiche legate al paesaggio e all’abitare. Le opere di Gillen hanno spesso come punto di partenza motivi ispirati a un immaginario fotografico e mantengono intenzionalmente una certa ambiguità tra astrazione e figurazione, struttura e improvvisazione, superficie e traduzione dello spazio.

Ministero della Cultura, Lussemburgo Curatore

Christophe Gallois Partecipante

Tina Gillen Organizzazione

Mudam Luxembourg – Musée d’Art Moderne Grand-Duc Jean Con il supporto di

Kultur | lx – Arts Council Luxembourg LuXembourg – Let’s make it happen

Faraway So Close è una mostra pensata per le Sale d’Armi, databili al XV secolo e il cui utilizzo come deposito di armamenti le collega alla storia militare di Venezia: “Come integrare le mie opere all’interno di un luogo simile? Anziché optare per una scenografia intesa nel senso più classico del termine – ossia come la costruzione di un’architettura –, ho deciso di lavorare a partire dallo spazio, con lo spazio”, spiega l’artista. L’esposizione riunisce otto tele di grandi dimensioni, accolte in un dispositivo scenico ispirato ai fondali cinematografici dipinti, “come se fossero lì in maniera provvisoria, in attesa di essere di nuovo spostate, ricollocate”. La mostra rappresenta la continuazione delle recenti ricerche pittoriche di Tina Gillen intorno ai fenomeni naturali che sfuggono al controllo degli esseri umani. I dipinti che compongono l’installazione evocano, al contempo, i quattro elementi tradizionalmente associati alla struttura dell’universo (terra, acqua, fuoco e aria) e lo sconvolgimento climatico provocato dall’attività umana. Le opere rappresentano quelli che l’autrice francese Marielle Macé descrive, in ambito letterario, come dei “paesaggi incerti”. Nel cuore dell’installazione è collocato Rifugio (2022), un elemento scultoreo la cui forma è ispirata a un bungalow sul mare che l’artista ha raffigurato in un piccolo dipinto su carta intitolato Shelter (2018). All’interno dell’ambiente espositivo e posta in relazione con gli altri dipinti, tale struttura costituisce per l’artista uno spazio polisemico, luogo di ritiro e allo stesso tempo di apertura verso il mondo, rifugio e insieme spazio attraversato da una molteplicità di informazioni. Christophe Gallois

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Tina Gillen, Power II, 2022. Acrilico su tela, 380 x 270 cm. Photo We Document Art. Courtesy l’Artista; Mudam Luxembourg – Musée d’Art Moderne Grand-Duc Jean. ©Tina Gillen

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Partecipazioni Nazionali


REPUBBLICA DI M AC E D O N I A DEL NORD

LANDSCAPE EXPERIENCE

Commissario

L ’A S S U R D I TÀ D E L M A L E “L’uomo è l’unico essere a riferirsi consapevolmente alla propria esistenza”. E, nel contesto della filosofia dell’esistenza, sulla scia delle riflessioni di Sartre circa la libertà umana in termini di scelte personali, selezione delle opportunità e assunzione della responsabilità per gli eventi e dei relativi rischi, si giunge alla conclusione o alla contraddizione dell’insensatezza o assurdità dell’esistenza umana stessa, cosa di cui non mancano numerose conferme nel corso di tutta la storia dell’umanità.

Dita Starova Qerimi, NI National Gallery della Repubblica di Macedonia del Nord Curatori

Ana Frangovska Sanja Kojic Mladenov Partecipanti

Robert Jankuloski Monika Moteska Titolare del progetto

NI National Gallery della Repubblica di Macedonia del Nord Con il supporto di

Ministero della Cultura della Repubblica di Macedonia del Nord

In Landscape Experience, Robert Jankuloski e Monika Moteska riflettono proprio su questo tema, oltre che su molti altri substrati, affrontati in un progetto multimediale che comprende installazioni video, oggetti e fotografie. Nella loro ricerca artistica precedente, l’estetica dei paesaggi abbandonati (negletti), collocati in nuovi contesti, con nuovi strati di trascrizione delle disposizioni vita-morte, bello-brutto, salutarevelenoso era già presente. Landscape Experience, tuttavia, si spinge ancor più in profondità. Oltre ai “panottici di paesaggi trasformati”, il progetto mette in discussione il corpo, ossia l’essere umano quale simbolo di potere, ma anche come forza fragile e facile a sconfiggersi, nonché l’egemonia di capitale, politiche coloniali, ideologie e tecnologia che influenzano la distorsione dell’equilibrio tra vita umana, fauna e flora selvatiche e ambiente naturale all’interno dell’ecosistema. Con questo progetto trans-tattico multinazionale e attraverso un approccio critico-discorsivo, il duo Jankuloski-Moteska mette quindi in rilievo i pericoli in agguato qualora non si intraprendano serie misure sistemiche volte a vincere le massime sfide dell’Antropocene, scotto da pagare per il capitalismo, le politiche governative e l’abuso incontrollato delle risorse naturali del pianeta Terra sotto forma di guerre inconsulte (esplicite o implicite, reali o psicologiche, fisiche o chimiche) condotte nel nome degli ideali di qualcuno, ma di cui tutti siamo vittime, in special modo i più giovani, gli innocenti e gli idealisti. Può il bello essere al contempo subdolamente brutto? Può l’estetica asservirsi al male, ma con l’intento di tracciare il giusto cammino e tramutarsi in avvertimento? Attraverso un riesame della tesi della banalità del male, questi interrogativi sono probabilmente uno degli elementi chiave del progetto Landscape Experience. Ana Frangovska, Sanja Kojic Mladenov

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Robert Jankuloski, Monika Moteska, dal ciclo Landscape Experience 3. Installazione multimediale. Photo Robert Jankuloski

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Partecipazioni Nazionali


M A LTA

D I P L O M A Z I J A A S T U TA

Commissario

Diplomazija Astuta reinterpreta la Decollazione di san Giovanni Battista, la straordinaria pala d’altare maltese di Caravaggio, come un’installazione scultorea cinetica in cui la narrazione biblica si sovrappone al presente, traghettando il 1608 nel 2022, dal noetico al metafisico. Ricorrendo alla tecnologia a induzione, Sassolino fa scorrere piccole gocce di acciaio fuso da una struttura sovrastante all’interno di sette vasche rettangolari riempite d’acqua, ognuna delle quali rappresenta un soggetto della Decollazione.

Arts Council Malta Curatori

Keith Sciberras Jeffrey Uslip Partecipanti

Arcangelo Sassolino Giuseppe Schembri Bonaci Brian Schembri Organizzazione

Mary Ann Cauchi Romina Delia Responsabile di progetto

Nikki Petroni, Esther Flury Responsabile di produzione

Mauro Marcon, Diego Chiló Ingegneri

Ermene Spagnolo, Maurizio Munari, Michele Rodigliero Produzione tecnica

Susanna Sieff, Laura Dequal, Aldo Marcon, Beniamino Piotto, Andrea Bertizzolo, Ilario Munari, Eros Munari, Marco Calabria Comunicazione

Margaret London, Edoardo Monti Identità visiva

Sam Sciberras, Massimo Penzo, Daniel Haettenschwiller / Maximage Patronage

A contatto con l’acqua, l’acciaio fuso dalla tonalità arancio brillante sfrigola, si raffredda e arretra nell’oscurità. Per coreografare il ritmo e la frequenza di caduta del metallo incandescente, Schembri ha composto uno “spartito percussivo” basato su Ut queant laxis, l’inno attribuito a Guido d’Arezzo in onore di Giovanni Battista, con motivi ritmici tratti dai due inni che Carlo Diacono compose sulla scorta dello stesso testo latino e dal Missa Mundi di Charles Camilleri. L’intervento di Schembri Bonaci all’interno dell’installazione svolge, invece, un ruolo straordinariamente lenitivo inteso a racchiudere la conoscenza entro e oltre la nostra portata. Trasponendo lo Zeitgeist dell’Oratorio di San Giovanni Decollato alla Valletta nel padiglione maltese, Diplomazija Astuta ambienta gli immanenti temi caravaggeschi all’interno della vita moderna, invitando i visitatori ad attraversare uno spazio immersivo dove la tragedia e la brutalità dell’esecuzione di san Giovanni vengono sperimentate ai giorni nostri, le ingiustizie del passato vengono appianate, e i principi umanistici possono continuare a essere rispettati in futuro.

DMM.COM, Lisa e Thomas Blumenthal, Umberta Gnutti Beretta, Giuseppe Fortuna, Lino Dainese, Rino Mastrotto, Paolo Kauffmann, Silvia e Stefano Gris, Piero Atchugarry, Massimo Cocco, Massimo Giammetta, Sabina e Marco Rosa, Manuela e Carlo Bonetti, Lauria e Cristian Zanussi

Diplomazija Astuta ipotizza che lo stridore insito nel progresso industriale modernista sia culminato nella capacità auto-distruttiva del genere umano. A sua volta, affinché la società faccia proprio il futuro nel presente, il materiale emblematico del Modernismo, l’acciaio, deve essere fuso fisicamente, metaforicamente e spiritualmente per lasciare spazio al nuovo progresso.

Con il supporto di

Diplomazija Astuta è infestata dagli spettri della decapitazione di san Giovanni, dalle politiche in competizione, dalle tradizioni culturali e da una geopolitica strumentalizzata. Attraverso la rappresentazione della decapitazione di san Giovanni espressa con un linguaggio scultoreo contemporaneo, la tragedia biblica riecheggia gli attuali eventi mondiali, rivelando i punti oscuri e i fallimenti del progetto umanista nel corso dei millenni: inganno, negligenza mediatica e militarizzazione delle idee.

Department of Art and Art History, University of Malta, Ambasciata di Malta a Roma, Bank of Valletta, Malta Tourism Authority, TETIS Institute, Genova, Fondazione Gruppo Pittini, Marcon, C+Partners, Midsea Books, Valfer, C.E.I.A., Telwin, MTA, IZI Group, Matherika Group, En Joy Energia, Ailis, OMER, Ecobeton, La Barchessa di Villa Pisani by Agena

Keith Sciberras, Jeffrey Uslip

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Arcangelo Sassolino, Diplomazija Astuta (particolare), 2022. Acciaio, acqua, induzione, impianto elettrico. 590 × 1498 × 1498 cm. Photo Massimo Penzo

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Partecipazioni Nazionali


MESSICO

H A S TA Q U E L O S C A N T O S B R O T E N / UNTIL THE SONGS SPRING

Commissario

Hasta que los cantos broten / Until the Songs Spring esplora le modalità con cui Mariana Castillo Deball, Naomi Rincón Gallardo, Fernando Palma Rodríguez e Santiago Borja Charles si accostano a forme di conoscenza ancora non totalmente colonizzate dall’episteme moderno, che esistono nella resistenza e si attualizzano per affermare modi di vita opposti e alternativi rispetto alla visione antropocentrica modellata su un principio di progresso univoco e inequivocabile.

Diego E. Sapién Muñoz Curatori

Catalina Lozano Mauricio Marcin Partecipanti

Mariana Castillo Deball Naomi Rincón Gallardo Fernando Palma Rodríguez Santiago Borja Charles Organizzazione

Secretaría de Cultura, Gobierno de México INBAL – Coordinación Nacional de Artes Visuales Fundación INBA Fundación Jumex Fundación Coppel

Mettendo in discussione le pratiche di divisione caratteristiche della modernità egemone – tra natura e cultura, corpo e ragione, oggetti e soggetti – Until the Songs Spring tenta di attualizzare modi di pensare e di vivere il presente che ricongiungano ontologicamente gli esseri umani con ciò che la modernità qualifica, nel proprio modello epistemologico di sfruttamento, come “risorse naturali”. Il progetto punta ad affermare un concetto ampio e aperto di tecnologia, sgombro da forme di determinismo meccanicistico, che riconosca pratiche ancestrali, oggi chiamate “mestieri”, “riti”, “arti popolari” e simili, come modalità progredite ed efficaci di negoziazione tra diverse dimensioni dell’esperienza e campi della conoscenza. L’esposizione ambisce a costruire una realtà più democratica ed egualitaria, mobilitata da tecnologie che non prendono parte agli ingranaggi produttivi del capitalismo, nel tentativo di re-incantare un mondo dissacrato. Le opere esposte approfondiscono transazioni tra culture e forme di conoscenza che non si piegano alla musealizzazione esotizzante delle pratiche dissidenti. Contrapponendosi al mandato coloniale volto alla riduzione delle lingue non dominanti a espressioni culturali minori, le opere proposte offrono la possibilità di resistere alle devastanti manifestazioni di un inoperante Stato messicano monoculturale. L’esposizione costituisce uno sforzo collaborativo che abbraccia le tensioni intrinseche alla coesistenza di diverse visioni del mondo in una costruzione politica moderna come quella dello Stato-nazione. Immaginando futuri decoloniali potenzialmente in grado di affrancarci dalle realtà di oppressione che oggi soffocano forme diversificate di vita umana, non umana e più che umana, Until the Songs Spring propone una riarticolazione di mito e logos al fine di offrire una metodologia alternativa capace di sbloccare nuove realtà speculative. Catalina Lozano, Mauricio Marcin

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Fernando Palma Rodríguez, Veduta dell’installazione, Los Angeles, 2018. Dimensioni variabili. Courtesy House of Gaga Gallery

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Partecipazioni Nazionali


MONGOLIA

A J O U RN E Y T H RO U G H V U LN E RA B I L I T Y

Commissario

La pratica di Munkhtsetseg Jalkhaajav (Mugi) comprende sculture, dipinti, video e performance che esplorano i concetti di dolore, paura, guarigione e rinascita. Muovendo principalmente da una riflessione sulle proprie esperienze personali, Mugi indaga le complessità del corpo, della mente e dell’anima femminili e sulla connessione con il sé e la natura, cogliendo al contempo le tensioni tra diverse dimensioni. La sua opera peculiare, all’apparenza immaginaria eppure saldamente ancorata alla realtà, incarna forze invisibili, come spiriti, miti e metodi di guarigione tradizionali, mentre narra storie ponderate di donne, bambini non nati e dolorosi destini di animali.

Nomin Chinbat, Ministro della Cultura della Mongolia Curatore

Gantuya Badamgarav Partecipante

Munkhtsetseg Jalkhaajav – Mugi Organizzazione

Mongolian Contemporary Art Support Association Con il supporto di

Ministero della Cultura di Mongolia

Ispirato ai metodi di guarigione e terapia spirituale della tradizione mongola, il processo di produzione artistica di Mugi è profondamente intuitivo e rituale nel suo includere incarnazioni del soggetto che evocano forti sentimenti e giustapposizioni di elementi simbolici usati per guarire e proteggere. Nel creare tutto ciò, l’artista osserva ed esamina la natura della propria stessa ansia e del relativo processo di guarigione. I modi in cui strappa, taglia, combina e cuce i materiali implicano dolore, ansia, paura, speranza e pazienza, e danno luogo a narrazioni mediante un linguaggio particolare che manifesta i suoi sentimenti e visioni interiori. Nei suoi lavori, gli uccelli rappresentano la vitalità, la gravidanza, la guarigione e la protezione, mentre i corpi femminili incarnano la ricerca costante di una forza interiore, legata all’aspirazione di “divenire sana”. Il concetto di reincarnazione è l’interesse primario del suo percorso artistico. A Journey Through Vulnerability, quarta edizione del padiglione della Mongolia alla Biennale di Venezia, presenta una serie di installazioni comprendenti sculture morbide, collage e filmati, realizzati dall’artista nel corso degli ultimi quindici anni. Disseminate in tre sale che portano ciascuna un diverso titolo (Miscarriage, Dream of Gazelle e Pulse of Life), le opere raccontano storie differenti di donne e animali e propongono un viaggio attraverso il fragile, ma potente, mondo intimo di Mugi. Gantuya Badamgarav

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Munkhtsetseg Jalkhaajav (Mugi), Cosmic Bodies, 2014-2022. Tessuto elastico, spugna, fili, cavi, capelli sintetici, colla e olio su carta. Dimensioni variabili, altezza 250 cm. Photo Jantsankhorol Erdenebayar

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Partecipazioni Nazionali


M ON T E N E G RO

THE ART OF HOLDING HANDS / A S W E B R E A K T H RO U G H T H E S E D I M E N TA RY C L O U D

Commissario

The Art of Holding Hands / As We Break Through the Sedimentary Cloud costituisce un’esperienza simile a quella di un racconto fantascientifico su diversi futuri possibili attraverso gli sguardi multitemporali e intergenerazionali degli artisti provenienti da vari contesti sociali e storici stratificatisi sul territorio del Montenegro odierno. In questa parte della Terra, dove i paesaggi lacerati lasciano senza fiato, sofferente ormai da tre decenni, il futuro è già avvenuto, lo pensiamo attraverso i ricordi, lo esploriamo tra macerie e archivi.

Jelena Božović Curatore

Natalija Vujošević Partecipanti

Dante Buu Lidija Delić e Ivan Šuković Darko Vučković Jelena Tomašević Collezione d’arte dei Paesi non Allineati: Zuzana Chalupová René Portocarrero Artista anonimo iracheno Bernard Matemera Organizzazione

Centro d’Arte Contemporanea del Montenegro Ministero dell’Istruzione, della Scienza, della Cultura e dello Sport del Montenegro Sito web

montenegropavilion.com

Questa storia nasce ai margini del “mondo” attualmente chiamato capitalismo globale; nasce dagli spazi di una distopia acuta del “corpo” disintegrato (la società, la nazione, la natura) che, soggetto a costanti turbolenze, cambia e perde la sua solida membrana, galleggiando nel tempo e nello spazio come una nuvola di ideologie, avvenimenti, immagini, paure e sogni. Incarnando le proprie visioni con tecniche diverse – da pittura e installazioni, attraverso l’adozione di approcci rituali al lavoro manuale, fino alla poesia e agli archivi –, gli artisti ci presentano l’immaginazione e il potenziale terapeutico dell’arte, che scaturisce – anche a suo dispetto – dall’ambiente distopico del deserto post-sociale. Questi artisti assorbono le esperienze personali, le immagini del mondo e dell’ambiente in cui creano, e attraverso la loro arte proiettano realtà alternative, cosmologie personali, ma anche i possibili esiti dell’ansia del presente. La nuvola, nella quale levitano liberamente paesaggi, documenti, tempi futuri, amori, storie e persone, si distacca da un corpo collettivo che continua a disintegrarsi, e può essere vista come oscurità e caos senza speranza, fonte di ansia e pessimismo. Cerchiamo invece di considerare tutto questo come un’opportunità di liberarci dall’algoritmo e dalle competizioni e di esercitare la possibilità di creare un nuovo linguaggio immaginando un nuovo inizio. La mostra intreccia un testo poetico sperimentale che, con l’aiuto delle audioguide, ci accompagna attraverso la proiezione di diversi futuri possibili. Natalija Vujošević

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Darko Vučković, Soft Form IX, 2019. Porcellana, 13 × 18 × 13 cm. Photo e Courtesy l’Artista. ©Darko Vučković Jelena Tomašević, Guilty Knowledge, 2018. Installazione, tecnica mista, 10 × 10 × 6 cm. Photo e Courtesy l’Artista. ©Jelena Tomašević

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Partecipazioni Nazionali


NAMIBIA

A BRID GE TO THE DESERT

Commissario

T H E L O N E S T O N E M E N O F T H E D E S E R T Dal 2014 una serie di sculture realizzate con pietre del deserto e tondini di ferro ha iniziato a popolare uno degli angoli più remoti e incontaminati della terra: l’area nord-ovest del Namib. Queste sculture con fattezze umane sono state soprannominate The Lone Stone Men of the Desert: sono rappresentanti di diverse culture alla ricerca di un incontro, o forse persone pietrificate dalla bellezza della natura incontaminata?

Marcellinus Swartbooi, Direttorato delle Arti – Ministero dell’Educazione, Arti e Cultura Curatore

Marco Furio Ferrario Partecipante

RENN Direttore artistico

Monica Cembrola In collaborazione con

Ambasciata della Namibia in Francia e Italia Consolato della Namibia in Italia Console onorario della Namibia a Milano, Petter Johannesen Console onorario della Namibia a Roma, Valeria Tienghi Direttore aggiunto per le Arti Ministero dell’Educazione, Arti e Cultura, M’kariko Amagulu Direzione creativa installazioni

Amebe Design Comunicazioni

Jessica El Hefyan Contenuti creativi

Cleopatra Architetti del padiglione

Irene D’Agostino, Philippe Rahm Architectes, Marco Marino Comitato organizzatore

Lone Stone Men of the Desert Cultural Association Con il supporto di

Monica Cembrola per Art Foundation, Algorand, Anders Johansson, Antaares, Beatrice e David Pritzker, DB Schenker, Fritz Vorster, Gondwana, Hertz Namibia, Lucia Vullo e Angelo Varvello, MowaniChiwani Safari Camps, Okahirongo Elephant Lodge, Monica Cembrola per Art Foundation, Namibia Media Holdings, Onguma, Ruggero Ceriali, Tourismus Namibia of Namibia Media Holdings, Vellardi, Vento di Venezia, Windhoek Country Club by Legacy Hotels

Il complesso di tutte le statue e del paesaggio circostante può essere interpretato come un’unica e ampia opera sulle orme della Land Art, in cui la manipolazione del paesaggio non è tanto fisica, ma operata con l’impatto concettuale delle sculture sul contesto naturale. Le dune, le rocce, gli alberi rinsecchiti che accolgono queste sculture, assieme all’orizzonte infinito del deserto, sono certamente parte integrante dell’opera, che si estende così oltre i confini della definizione di sitespecific: non un dialogo fra contesto e opera, bensì inalienabile organicità di paesaggio e opera. Pur presentando elementi evidenti della Street Art come la serendipità dell’apparizione e il distacco ricercato dall’artista tramite l’anonimato, la distanza siderale da qualsiasi urbanizzazione ne determina la differenza. Sono evidenti anche le influenze della Pop Art, nel gioco iniziato dall’artista, che periodicamente sposta le opere coinvolgendo i visitatori in una costante “caccia al tesoro”; ma nemmeno questa categoria sarebbe pienamente calzante. Forse è necessaria una nuova definizione, che tenga conto degli elementi di continuità e discontinuità con questi movimenti artistici: “Desert Art”. Al di là delle definizioni di genere, l’opera ha sue caratteristiche distintive che la rendono al contempo attuale e in dialogo con una tradizione centenaria che affonda le sue radici nella Critica del Giudizio di Immanuel Kant: “l’arte può dirsi bella solo quando, pur essendo consapevoli che si tratta d’arte, ci appare come natura”. Così anche la provocazione di coloro che hanno realizzato il progetto – che preferiscono restare sconosciuti ed essere citati con lo pseudonimo RENN – evidenzia in modo particolare la necessità di riportare il focus sull’opera d’arte. “Art Before Artist” è una riflessione affidata in custodia al deserto più antico del mondo.

Un ringraziamento speciale a

Enzo Torri, Cecilia Montalbotti, Giovanna Saladanna, Simone Battani, Studio Architettura Caramob, Studio Grace

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RENN, My Backyard, 2019. Iron rod and desert stone. Photo @ RENN RENN, Rain for Shade, 2016. Iron rod and desert stone. Photo @ RENN

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Partecipazioni Nazionali


N E PA L

TA L E S O F M U T E D S P I R I T S – D I S P E R S E D THREADS – TWISTED SHANGRI-LA

Commissari

Gli altopiani dell’Asia da sempre emanano un senso di misticismo, sacralità e lontananza. Tuttavia, da secoli, fluidità e mobilità prosperano tra le comunità che li abitano, assieme a intersezioni tra saperi diversi come agricoltura, guerra, arti, commercio, filosofia e diplomazia.

Kanchha Kumar Karmacharya – Nepal Academy of Fine Arts Sangeeta Thapa, Siddhartha Arts Foundation Curatori

Sheelasha Rajbhandari Hit Man Gurung Partecipante

Ang Tsherin Sherpa Organizzazione

Siddhartha Arts Foundation Nepal Academy of Fine Arts Partner e sostenitore principale

Rubin Museum of Art Con il supporto di

Ministero della Cultura, Turismo e Aviazione Civile del Nepal Rossi & Rossi

Queste complessità tuttavia vengono spesso ridotte a un effetto “Shangri-La”, che persiste nell’immaginazione popolare occidentale. Questa feticizzazione innesca immagini paradossali delle comunità himalayane rappresentate come primitive, ma sapienti; prive di testimonianze storiche, ma ricche di saggezza spirituale; fisicamente robuste, ma materialmente deprivate. Contrapposta alla mitica utopia himalayana – avvolta nella felicità, longevità e beatitudine – si pone la realtà di popoli intricatamente interconnessi che molto spesso hanno vissuto lo sfollamento, la perdita e l’insormontabile compito di ricostituire la propria vita. A partire da XIX e XX secolo molti gruppi indigeni in Nepal sono stati intenzionalmente esclusi e oppressi attraverso meccanismi statali di cui beneficiavano sia le potenze regionali che quelle coloniali. Quando si è presentata l’opportunità di sfruttare la loro arte e il loro sostentamento attraverso il commercio internazionale, si è creato uno scenario che ha sintetizzato e impacchettato numerose pratiche artistiche in beni di consumo, nel contempo erodendone gli originari significati spirituali e vernacolari in chi li produce. Resoconti codificati in culture orali, lingue intrecciate e rituali quotidiani implicano delle storie himalayane intersezionali e connesse, rivolte al resto del mondo. In effetti, tali frammenti manufatti fungono da commento all’incertezza che sta alla base delle narrazioni emiche ed etiche con cui le comunità montane dell’Asia sono rappresentate e comprese. Tsherin Sherpa – che proviene da una stirpe di pittori thangka – collabora con altri artisti per attingere a concetti derivanti dalla loro storia himalayana condivisa – ovvero spiriti della natura, nomadismo, immagini polisemiche – e per esplorare in che modo questi siano stati adottati, smorzati, riappropriati, digeriti e rigurgitati, trascendendo di conseguenza le rispettive valutazioni all’interno dei mondi Bön, buddhista, indù, occidentale e capitalista. Sheelasha Rajbhandari, Hit Man Gurung

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Ang Tsherin Sherpa, Modelli di argilla e fusioni di bronzo estratti dagli stampi in un laboratorio a Kathmandu, 2022. Bronzo, dimensioni variabili. Photo Tsering Dorje Gurung Ang Tsherin Sherpa, Schizzo preliminare per una scultura di bronzo, 2021. Inchiostro su carta. Courtesy l’Artista; Rossi & Rossi

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Partecipazioni Nazionali


PA E S I B A S S I

W H E N T H E B O D Y S AY S Y E S

Commissario

When the body says Yes è la nuova video installazione immersiva di melanie bonajo, artist olandese, regist , sexological bodyworker, e insegnant di sessuologia somatica. L’installazione fa parte della ricerca dell’artista sull’attuale percezione dell’intimità in un mondo sempre più alienante e governato dalle merci. Per bonajo, il tatto può rappresentare un potente rimedio contro la moderna epidemia della solitudine.

Mondriaan Fund Curatori

Orlando Maaike Gouwenberg Geir Haraldseth Soraya Pol Partecipante

melanie bonajo Scenografia

melanie bonajo in collaborazione con Théo Demans Sito web

dutch-pavilion.com

Parlando del progetto, bonajo afferma: “L’amore non si impara nell’isolamento e, se tu lo hai provato, probabilmente l’avrà percepito anche qualcun altro. Abbiamo creato un incantesimo collettivo sotto forma di un camp del piacere positivo, un eros eco-erotico queer, celebrando il nostro legame attraverso il contatto fisico; un luogo di caos produttivo e cura reciproca, dove abbiamo imparato a conoscerci attraverso il tatto, stabilendo confini, dando e ricevendo consenso, affrontando i nostri demoni e uscendo dalla nostra zona di comfort, praticando terapie inconsuete e accettando ogni sentimento come valido. Abbiamo formato un gruppo internazionale di persone non binarie, molte delle quali con un’identità biculturale, esplorando la sessualità al di là della concezione occidentale, il significato che i nostri organi genitali hanno per noi e per gli altri, l’auto-espressione come forma di guarigione, il modo in cui la matrice del nostro corpo invia e riceve informazioni di vicinanza e tatto e come ciò prende vita mediante diverse strutture linguistiche. Conosci le dimensioni sensoriali del tuo No? Come ti senti quando il tuo corpo dice Sì?” When the body says Yes invita i visitatori a riflettere sul significato del contatto e dell’intimità in relazione al proprio corpo. Immersi in un’atmosfera morbida e sensuale, un rifugio ovattato dal mondo esterno, i visitatori possono esplorare il proprio “linguaggio tattile”. Per la Biennale Arte 2022, il Mondriaan Fund ha deciso di rompere con la tradizione e presentare il contributo olandese in una nuova location: la Chiesetta della Misericordia di Art Events, una chiesa sconsacrata del XIII secolo che si trova a Cannaregio.

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melanie bonajo, When the body says Yes. Photo Sydney Rahimtoola melanie bonajo, Big Spoon. Fotogramma da When the body says Yes. Courtesy l’Artista

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Partecipazioni Nazionali


N U O VA Z E L A N D A

PA R A D I S E C A M P

Commissario

La mostra Paradise Camp di Yuki Kihara riflette su questioni di rilevanza locale e globale muovendo dalla peculiare prospettiva fa‘afafine, termine che significa “come una donna” ed è utilizzato nelle Samoa per indicare un genere non binario. Kihara crea un mondo alternativo, queer, che nella sua umanità è al contempo polemico e ipnotico, mentre ritraccia le sofferenze della colonizzazione. Nel fare ciò, l’artista amplifica le voci della sua comunità nelle Samoa, “invertendo lo sguardo” in un profondo gesto di autoaffermazione e, al contempo, dando un tocco camp al concetto di paradiso.

Caren Rangi ONZM Curatore

Natalie King OAM Partecipante

Yuki Kihara Direttore del progetto

Jude Chambers Iniziativa guidata da

Creative New Zealand Arts Council of New Zealand Toi Aotearoa Partner principali

Museum of New Zealand Te Papa Tongarewa Museum of Applied Arts and Sciences Sydney Sostenitori

Tautai Contemporary Pacific Arts Trust Pātaka Art + Museum Con il generoso sostegno di

New Zealand at Venice sostenitori, donatori e Milford Galleries Partner digitale

Digital Art Networks Sostenitori del padiglione

Milford Galleries Pātaka Foundation

Le seducenti immagini di Kihara in Paradise Camp sono state riprese nelle Samoa e ritraggono una varietà di luoghi, da villaggi di campagna a chiese, da piantagioni a siti culturali, con i membri della sua comunità a formare cast e troupe. La fotografia performativa di Kihara ripropone una selezione di dipinti di Paul Gauguin in una serie di immagini incandescenti ed estremamente fedeli nei dettagli che riqualificano le opere dell’impressionista francese, realizzate durante il periodo che questi trascorse a Tahiti e nelle isole Marchesi tra il 1891 e il 1903. Kihara colloca le proprie fotografie sul vasto fondale di un paesaggio devastato dallo tsunami del 2009. Malgrado l’apparenza pittoresca, con arenili e palme che richiamano le brochure per turisti, lo sfondo ritrae in lontananza l’isola di Nu‘utele, che ai tempi della colonizzazione, prima tedesca e poi neozelandese, fu adibita a lebbrosario. Concepita otto anni fa, Paradise Camp ha visto la luce dopo una lunga gestazione ed è costituita da una serie di dodici tableau fotografici a colori saturi e da un “talk show” in cinque episodi, First Impressions: Paul Gauguin, in cui un gruppo di fa‘afafine commenta con arguzia i dipinti di Gauguin, intercalati da riprese di concorsi di bellezza fa‘afafine e contenuti provenienti dall’archivio personale di Kihara, tra cui poster, libri rari di esploratori del XIX secolo, facsimili di ritratti coloniali, pamphlet, notizie di stampa e materiali militanti. Tutte queste diverse componenti fondono ritrattistica, filmati, cimeli e performance per narrare storie di invasione e pregiudizio. Affrontando l’intersezionalità tra decolonizzazione, politica identitaria e crisi climatica, Paradise Camp di Yuki Kihara segna il tempo della nostra contemporaneità da una prospettiva distintamente Pasifika. Natalie King

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Yuki Kihara, Two fa’afafine (After Gauguin), 2020. Carta artistica Hahnemühle montata su alluminio, 94 x 72,4 cm. Courtesy l’Artista; Milford Galleries, Aotearoa/New Zealand

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Partecipazioni Nazionali


PA E S I N O R D I C I ( N O RV E G I A , FINLANDIA, SVEZIA)

T H E S Á M I PAV I L I O N

Commissari

In una storica prima volta, gli artisti sami Pauliina Feodoroff, Máret Ánne Sara e Anders Sunna trasformano il padiglione nordico in The Sámi Pavilion per rappresentare Sápmi, la loro patria sami. Atto di sovranità indigena sami, il progetto ruota intorno a tre elementi: le relazioni transgenerazionali, il sapere olistico sami e le prospettive spirituali sami.

Katya García-Antón, Office for Contemporary Art Norway (OCA) Leevi Haapala, Museum of Contemporary Art Kiasma / The Finnish National Gallery Gitte Ørskou, Moderna Museet Curatori

Liisa-Rávná Finbog Katya García-Antón Beaska Niillas Partecipanti

Pauliina Feodoroff Máret Ánne Sara Anders Sunna Assistenti dei Curatori

Liv Brissach (2020-22), Martina Petrelli (2022), Raisa Porsanger (2020-21) Collaboratori degli Artisti

Nadjib Achaibou, Asta Mitkijá Balto, Birit Haarla, Katja Haarla, Gaby Hartel, Marja Helander, Satu Herrala, Oswaldo Maciá, Hanna Parry, Outi Pieski, Ánde Somby, Eséte Eshete Sutinen, Káren E. M Utsi, Ulyana Yulina, la famiglia Sunna Registro degli ospiti

Hans Ragnar Mathisen International Indigenous Advisors

Brook Andrew, Wanda Nanibush Produzione e coordinamento

Office for Contemporary Art Norway Supervisione architettonica e produzione

M+B Studio, The Oslo School of Architecture and Design / Udaru Collaboratori

Evergreen Arts, Hans Gremmen con Inga-Wiktoria Påve e Fredrik Prost, Snowchange Cooperative, ZodiakCenter for New Dance, Deutchlandfunk Valiz, Sámi University of Applied Sciences, International Sámi Film Institute, aabaakwad, Art Gallery of Ontario, Riddu Riđđu Festival, TBA21–Academy

Il lavoro di Feodoroff, regista di teatro in lingua skolt sami, artista e custode della natura, originario della parte finlandese di Sápmi, parla del declino della vita collettiva sami, della cura della terra e della biodiversità dei fiumi causato dalla moderna deforestazione industriale. La performance Matriarchy mette in luce il disequilibrio delle relazioni di potere coloniale, che obbliga le popolazioni indigene a rinunciare a ciò che è essenziale per la loro vita, e lo controbilancia con performance matriarcali sami, generatrici di un futuro sovrano. Matriarchy porta in scena inoltre, sotto forma di asta, anche i paesaggi sami a rischio. Sara, che ha vissuto una grave perdita culturale e spirituale quando gli allevatori di renne (compresa la sua famiglia) sono stati costretti dalle leggi nazionali ad abbandonare il loro stile di vita, si concentra sulle renne come fondamento della vita sami. Gutted – Gávogálši è una costellazione di forme realizzate a partire da stomaci essiccati di renne, a forte impatto sensoriale, che collegano umani e renne attraverso un sentire, appunto, “di pancia”. La maestosa scultura rotante Ale suova sielu sáiget, che si compone di insaccati di piccoli di renna e piante essiccate, è una giostra della morte e della rinascita, di paura e consolazione. Il trittico si completa con il duo olfattivo Du-ššanahttanu-ššan, odori liquidi appositamente confezionati applicati a tendini di renne, evocando così una risposta fisica ed emotiva. Sunna proviene da una famiglia di allevatori di renne nella parte svedese di Sápmi; i suoi lavori dalla forte connotazione politica parlano della lotta della sua famiglia contro lo stato svedese per il diritto di allevare le renne della foresta. Illegal Spirits of Sápmi è un monumento agli sforzi collettivi di questa famiglia e consiste di cinque dipinti su supporti fatti a mano, con i relativi documenti processuali. Ogni supporto fa riferimento a un decennio, a partire dal 1971. Ad ogni dipinto è abbinato un diorama sonoro con la registrazione dei dibattimenti, una voce fuori campo e altre tracce registrate sul campo.

Con il supporto di

Ministero della Cultura e dell’Uguaglianza di Norvegia, Ministero degli Affari Esteri di Norvegia, The Sámi Parliament in Norway, Nordic Culture Point, The Fritt Ord Foundation, The Norwegian Film Institute, Canada Council for the Arts

Del programma di The Sámi Pavilion fanno parte aabaakwad 2022, conversazioni sull’arte indigena guidate da figure del mondo indigeno internazionale, e ÁRRAN 360°, film inediti a 360 gradi a cura di fartisti digitali di origine Sami, nel più ampio lávvu mai costruito. Liisa-Rávná Finbog, Katya García-Antón, Beaska Niillas

Sito web

oca.no/thesamipavilion 120


Pauliina Feodoroff, Matriarchy, 2022. Performance. Photo e Courtesy l’Artista. ©Pauliina Feodoroff Anders Sunna, Illegal Spirits of Sápmi, 2022 (particolare). Pittura a olio e acrilico, colore spray e collage su pannelli in MDF, scaffali in legno, diorama sonori, pentattico, 300 × 275 cm. Photo Piera Niilá Stålka. Courtesy l’Artista. ©Anders Sunna Máret Ánne Sara, Gutted – Gávogálši, 2022. Stomaci di renne essiccati, soluzione di ginepro (proprietà antifungine e antibatteriche), lenza, dimensioni variabili. Photo Karl Alfred Larsen. Courtesy l’Artista. ©Máret Ánne Sara

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Partecipazioni Nazionali


S U LTA N AT O DELL’ OMAN

D E S T I N E D I M AG I NA R I E S

Commissario

Destined Imaginaries presenta un nuovo corpus di opere firmate da tre generazioni di artisti contemporanei omaniti: Anwar Sonya, Hassan Meer, Budoor Al Riyami, Radhika Khimji e la compianta Raiya Al Rawahi. Ogni artista ha realizzato queste opere misurandosi con le domande poste dalla direttrice Cecilia Alemani, in modo particolare “Come sarebbe la vita senza di noi?”.

Ministero della Cultura, Sport e Gioventù, Sayyid Saeed bin Sultan bin Yarub Al Busaidi Curatore

Aisha Stoby Partecipanti

Anwar Sonya Hassan Meer Budoor Al Riyami Radhika Khimji Raiya Al Rawahi Commissario aggiunto

Sayyid Hilal Al Busaidi Consulente per lo sviluppo internazionale

Eman Rafay Architetto del padiglione

Haitham Busafi Team ministeriale

Samir Al Azri Balquees Hasan Mohammedi Ibrahim Saif Salem Bani Uraba Faisal Hashim Al-Shahab Con il supporto di

Occidental Petroleum Indian Fertiliser Compony Khimji Ramdas Omran Oman Air Asyad Collaborazioni istituzionali

Ministero del Turismo Ministero dell’Informazione In cooperazione con

Venice Art Factory WeExhibit

Destined Imaginaries si caratterizza per due concetti apparentemente opposti: destino, sorte o disegno; e immaginari collettivi, complessi di idee e valori nei quali potremmo scorgere il nostro mondo nel suo insieme. Complessivamente ispirate al paesaggio omanita e a esperienze universali di ampio respiro, queste opere cercano di identificare ciò che potremmo intravvedere nel futuro guardando noi stessi nel passato ed esplorando i paesaggi, i sistemi ambientali e i ricordi. Anwar Sonya ci accoglie all’ingresso del padiglione con una performance filmica vista attraverso la fusoliera di un aereo. Intitolata Speed of Art, quest’opera si inserisce in un’installazione creata dalla defunta artista Raiya Al Rawahi. Una riflessione congiunta di quanto è stato conquistato e perduto nello sforzo di “colmare il divario tra arte e tecnologia”. Reflection from Memories di Hassan Meer rappresenta un progetto in itinere che esplora la vita in Oman a cavallo tra gli anni Sessanta e Settanta. Invita gli spettatori a ricordare insieme a generazioni sovrapposte, che potrebbero scrutare indietro attraverso i resti del passato dal nostro momento contemplativo presente. Breathe di Budoor Al Riyami è un’installazione scultorea che trae ispirazione dalle imponenti catene montuose dell’Oman. Fatte di peridotite – una roccia ignea che emula il processo respiratorio – quando cade la pioggia o i ruscelli lambiscono la roccia, si assiste alla spontanea mineralizzazione della CO2. Il suo lavoro rivela la bellezza della resilienza della natura, nonostante i segni che abbiamo lasciato nel paesaggio. Infine, l’opera site-specific Under, Inner, Under di Radhika Khimji propone un insieme di tessuti, sculture e pareti ispirate al pesce cieco che vive nelle grotte di Al Hoota. Nelle sculture di Khimji questi pesci emergono dalle grotte incontrando lo sguardo dell’osservatore. Da tempo impegnate ad arricchire la cultura omanita, queste generazioni di artisti pionieristici ci consegnano una prospettiva di come potrebbe apparire il mondo in futuro e alcune possibili riflessioni intorno a temi quali ambiente, società e noi stessi.

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Anwar Sonya in Speed of Art di Raiya Al Rawahi, 2017-2022

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Partecipazioni Nazionali


P E RÙ

P E AC E I S A C O R RO S I V E P RO M I S E

Commissario

Nel maggio 1980, Fernando Belaúnde, cacciato dai generali nel 1968, fu eletto nuovamente presidente del Perù. Alla popolazione analfabeta fu permesso di votare e la stragrande maggioranza delle donne illetterate esercitò per la prima volta i propri diritti democratici. Ma il maggio 1980 fu anche il momento che Sendero Luminoso, un gruppo sovversivo di ispirazione maoista, scelse per manifestare la propria presenza. In Perù stava per iniziare un lungo periodo di inaudita violenza – con i civili coinvolti nel fuoco incrociato tra le forze armate e i piccoli e compatti squadroni di Sendero luminoso – conclusosi soltanto nel 1992.

Armando Andrade de Lucio Curatori

Jorge Villacorta Viola Varotto Partecipante

Herbert Rodriguez Produzione

Patronato Cultural del Perú Con il patrocinio di

Fundación Wiese El Comercio Con il supporto di

PromPerú (Peru Export and Tourism Promotion Board) Ministero degli Affari Esteri Ministero della Cultura Con la sponsorizzazione di

Instituto Cultural Peruano Norteamericano (ICPNA) Herlitzka + Faria Gallery Progettazione grafica

Michael Prado Coordinamento a Venezia

eiletz ortigas | architects

Herbert Rodríguez abbandonò l’istituto d’arte nel 1981. Nel 1985 finì a far parte del gruppo di giovani uomini e donne insoddisfatti e arrabbiati dei subterráneos (scena underground), a Lima. Rodríguez avrebbe sostenuto la loro causa anarcopunk producendo ogni sorta di materiale agit-prop ideato per i concerti underground: realizzato su carta scadente e destinato alla fugacità, se non addirittura alla distruzione, veniva invece rappezzato e riutilizzato da Rodríguez. Un imminente senso di disagio e indignazione permea le creazioni dell’artista, spesso repulsive ma comunque pervase da una forte visualità. Il consumismo, che la nuova democrazia incentivava in una popolazione oppressa e all’interno di un paesaggio di violenza strutturale, rappresentava un tema chiave dell’agit-prop. Immagini volgari di donne nude a tutta pagina dei tabloid e delle riviste pornografiche da quattro soldi venivano ritagliate e utilizzate per suscitare scandalo, ma anche per far aprire gli occhi sull’ipocrisia delle generazioni più anziane, viste come sostenitrici di uno status quo in cui il permissivismo solo in minima parte mascherava la volontà di controllare la popolazione maschile, attraverso la vendita del desiderio sessuale. Rodríguez lasciò questa scena nel momento in cui l’ambiguità nei confronti del furioso conflitto militare gli divenne inaccettabile, e nel 1989 si impegnò nella propria personale risposta a Sendero luminoso. Il teatro di guerra era il campus dell’Universidad Mayor de San Marcos, una roccaforte di Sendero luminoso a Lima. Il suo progetto Arte-Vida prevedeva la creazione di giornali murali in una modalità derivata dalle pratiche agit-prop, che lui stesso aveva a suo tempo sviluppato e impiegato. Stava rischiando la vita e lo sapeva. Per l’artista la libertà è un processo senza fine. Jorge Villacorta

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Herbert Rodríguez, Violencia Estructural Perú, 1988. Collage su carta, 130 x 72 cm. Photo Juan Pablo Murrugarra

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Partecipazioni Nazionali


FILIPPINE

A L L O F U S P R E S E N T, T H I S I S O U R G AT H E R I N G

Commissario

All of us present, This is our gathering [Andi taku e sana, Amung taku di sana] esplora i diversi aspetti della rappresentazione che operano attraverso le proprietà metaforiche della tessitura: l’ordito e la trama in ogni genere di situazione, gli intrecci di elementi che producono schemi di significazione categorica. L’idea di linguaggio nella sua forma polivalente di presenza significante viene esplorata attraverso la trasmutazione di unità integrali di dati, che ne simboleggiano il contesto originario, da un fenomeno all’altro, per arrivare a un risultato finale di interconnettività e comunicazione. In questa esposizione si segue un formato di eterogeneità che dà inizio a un processo collaborativo e interdisciplinare dove si sperimenta tramite suoni, trascrizioni, video e tessuti.

National Commission for Culture and the Arts (NCCA) – Arsenio “Nick” J. Lizaso Curatori

Yael Buencamino Borromeo Arvin Flores Partecipanti

Gerardo Tan Felicidad A. Prudente Sammy N. Buhle Agenzie di cooperazione

Department of Foreign Affairs (DFA) Office of Deputy Speaker and Congresswoman Loren Legarda

È così che due componenti della mostra si connettono l’una all’altra attraverso la traduzione. Speaking in Tongue è un’installazione video a due canali all’interno di un tunnel, che mostra la traduzione di un canto tradizionale in una partitura grafica dipinta dall’artista usando solo la propria lingua. L’altra componente, Renderings, è un’installazione multimediale che esplora la trasmissione del suono, generato dalle pratiche di tessitura indigene e tradotto in modalità creative di trascrizione, design, video e tessuti. Ognuno dei due canali implica una collaborazione tra chi crea e chi riceve, un processo interattivo che genera improvvisazione e trasformazione, sostanzialmente formando un linguaggio visivo unico. Per i due progetti, quindi, la traduzione artistica crea un sistema di interpretazione aperto, che si rivolge a un pubblico mondiale per uno scambio culturale. La traduzione dell’esperienza quotidiana, dei profili comportamentali e degli eventi ordinari in dati compressi – che fluiscono attraverso reti più ampie di snodi culturali, finanziari e sociali sotto forma di analisi statistiche e connotazioni simboliche, di conoscenza applicata o segno estetico – offre un’attenzione critica al processo di creazione di connessioni culturali, che ambisce all’universalità diplomatica. Riflettere su come la cultura sopravviva in un nuovo contesto ambientale e come, nel processo della sua trasformazione, possa stimolare la ricezione attraverso una diversità di rappresentazioni, generare impegno e cooperazione ponendo connessioni critiche: tutto ciò dovrebbe essere l’essenza di un’arte che prosperi grazie alla complessità e alla diversità.

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Gerardo Tan, Felicidad A. Prudente, Sammy N. Buhle, Rendering 1 (Iloilo – Ifugao) e Rendering 3 (Metro Manila – Ifugao). Veduta dell’allestimento, Vargas Museum, Quezon City 2019. Photo Gerardo Tan

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Partecipazioni Nazionali


POLONIA

RE-ENCHANTING THE WORLD

Commissari

Re-enchanting the World di Małgorzata Mirga-Tas è un lavoro ispirato a Palazzo Schifanoia, gioiello del rinascimento ferrarese. È un progetto che espande gli orizzonti dell’iconosfera tradizionale e della storia dell’arte europea integrando rappresentazioni della cultura rom, che è spesso ignorata. L’interno del padiglione polacco prevede un’installazione: dodici pannelli ricoperti da rappresentazioni su tessuti di grande formato dei mesi dell’anno che prendono spunto dagli affreschi rinascimentali a tema astrologico. I simboli di Palazzo Schifanoia, tra cui i segni zodiacali, il sistema dei decani, i cicli del tempo e la migrazione delle immagini attraverso il tempo e i continenti (tra India, Persia, Asia Minore, antica Grecia, Egitto ed Europa), rappresentano un punto di riferimento visivo e ideologico che l’artista trasla nella sua identità rom-polacca e nell’esperienza storica della più grande minoranza d’Europa.

Janusz Janowski (dal 2022), Hanna Wróblewska (fino al 2021) / Zachęta — National Gallery of Art Curatori

Wojciech Szymański Joanna Warsza Partecipante

Małgorzata Mirga-Tas Organizzazione

Zachęta — National Gallery of Art Con il supporto finanziario di

Ministero della Cultura e del Patrimonio Nazionale della Repubblica di Polonia Partner

Adam Mickiewicz Institute European Roma Institute for Arts and Culture Polish Institute a Roma Patrocinio dei media

Vogue Poland Sito web

labiennale.art.pl

Ognuno dei dodici mesi dell’anno è diviso a sua volta in tre parti. La fascia superiore presenta il ciclo dell’Esodo, dando spazio al mondo della mitologia rom, con la sua storia e il suo passato. Lo scopo è riappropriarsi e decolonizzare i dipinti originari, opera dell’incisore francese Jacques Callot, che mostravano una visione semi-coloniale dei nomadi, già confinati al ruolo di “altro” dell’Europa. La fascia centrale è uno spazio dedicato al reincanto del mondo attraverso la forza femminile, l’astrologia e i tarocchi. Così, le storie delle donne rom si mescolano ai segni zodiacali e ai decani, e le figure reali si fondono a quelle magiche, trasformando le donne in guardiane del fato o profetesse. La fascia inferiore ritrae invece scene quotidiane riprese dalla vita dell’artista nel villaggio di Czarna Góra sui monti Tatra. Molti tessuti del diorama arrivano direttamente dai guardaroba delle persone ritratte, “per portare l’elemento materiale nella pittura”, facendone un vettore di micro e macro storie. Il titolo del progetto viene dal libro di Silvia Federici Reincantare il mondo. Femminismo e politica dei “commons” (2018), che recupera l’idea di comunità e l’obiettivo di ricostruire le relazioni con gli altri, compresi gli elementi extra-umani. Come tale, il reincanto – un processo non violento in cui le donne giocano un ruolo chiave – rovescia le oscure sorti del mondo spezzando il suo incantesimo maligno. Małgorzata Mirga-Tas è un’artista, attivista e divulgatrice rom-polacca che lavora per cambiare il corso delle ingiustizie sociali decolonizzando la cultura romaní, quella polacca e quella europea, e costruendo un’iconografia positiva della più grande minoranza d’Europa. Wojciech Szymański, Joanna Warsza

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Małgorzata Mirga-Tas, Re-enchanting the World (March), 2022. Installazione tessile, 462 × 387 cm. Photo Bartek Solik. Courtesy l’Artista

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Partecipazioni Nazionali


PORTO GALLO

VA M P I R E S I N S PA C E

Commissario

Accorpando un nuovo film, poesia e un allestimento immersivo, Vampires in Space di Pedro Neves Marques prende la forma di un’installazione narrativa che trasforma il secondo piano di Palazzo Franchetti in un’inaspettata astronave, al cui interno si dipanano la malinconica esistenza, i drammi e le routine dei suoi cinque passeggeri nel corso di un viaggio plurisecolare verso un lontano esopianeta. Il progetto si contrappone allo stile gotico veneziano del palazzo con una sensibilità congetturale tipica della produzione di Neves Marques, rinomata per il suo spaziare tra arte, cinema, scrittura critica, narrativa e poesia.

Direção-Geral das Artes Curatori

João Mourão and Luís Silva Partecipante

Pedro Neves Marques Programma pubblico

Filipa Ramos Con il supporto di

Fundação EDP Fundação Carmona e Costa Fundação PLMJ Fundación Botín Galleria Umberto Di Marino Collezione E. Righi Matteo Novarese, Bologna Collezione Alloggia, Roma Collezione Renato Carraffa, Roma Collezione Agovino, Napoli AICEP Portugal Global RTP – Rádio e Televisão de Portugal CURA. Magazine Jornal de Letras

Vampires in Space si rifà alla figura e alle aspettative di ciò che consideriamo un “vampiro” per affrontare questioni come l’identità di genere, la famiglia non nucleare, la riproduzione queer, nonché il ruolo dell’intimità e della salute mentale ai nostri giorni. La presunta longevità del vampiro, qui rafforzata da una distanza geografica dal pianeta Terra e dal concetto di umanità, permette un esercizio retrospettivo in quella che potrebbe essere chiamata una “autofiction scientifica”, ancorata all’esperienza trans non binaria di Neves Marques, così come una critica politica alla lunga storia del controllo sui corpi e sul desiderio. Se i vampiri sono sempre stati un riflesso dei dibattiti epocali sul genere, a partire dall’epoca vittoriana per arrivare all’emancipazione femminista e alla crisi dell’AIDS, come rispondono oggi alla biotecnologia contemporanea o all’emancipazione delle vite e delle ecologie queer? Come è caratteristico del lavoro di Neves Marques, Vampires in Space è costruito sull’equilibrio tra una schietta critica sociopolitica, una speculazione narrativa non comune e il luogo creativo ed emotivo di un’esposizione in prima persona, invocando uno spazio di libertà intellettuale e poetica per l’arte. Al contempo divertente e tragico, garbato e liberatorio, Vampires in Space presenta un ciclo chiuso tra i ricordi delle vite passate e, forse, di quelle future, e la malinconica realtà di un viaggio verso un pianeta lontano: dopotutto, nello spazio è sempre notte e, nella loro immortalità, i vampiri sono gli esseri perfetti per affrontare l’incommensurabilità delle distanze siderali. João Mourão, Luís Silva

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Pedro Neves Marques, Vampires in Space, 2022. Fotogramma da film. Courtesy Galleria Umberto Di Marino; Foi Bonita a Festa

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Partecipazioni Nazionali


ROM A N I A

Y O U A R E A N O T H E R M E —A C AT H E D R A L O F T H E B O DY

Commissario

You Are Another Me—A Cathedral of the Body dell’artista e filmmaker Adina Pintilie, è un’installazione multicanale che nasce dalla continua ricerca sulla politica e sulla poetica dell’intimità e del corpo. Di fronte al riemergere, a livello globale, di ideologie di estrema destra e con l’aumento della polarizzazione fra persone e sistemi di pensiero, l’artista immagina un nuovo spazio per lo stare insieme, al di là di confini e binarismi; e offre un contributo all’attuale dibattito sulla rivisitazione dei canoni legati a genere, sessualità, abilità corporea e diversità, da un punto di vista radicato nella propria personale esperienza, situazione e ricerca. A partire da un procedimento che crea aggregazione, la metodologia idiosincratica di Pintilie esplora il ruolo centrale dell’intimità nella vita di tutti i giorni. Forte di una lunga collaborazione con i protagonisti dell’installazione, il suo universo artistico si concentra sulle pratiche corporee e sulle profonde indagini psicologiche ispirate alle costellazioni familiari, alla terapia del trauma e alla psicoterapia corporea.

Attila Kim Curatori

Cosmin Costinaș Viktor Neumann Partecipante

Adina Pintilie Responsabile di progetto

Corina Bucea Produzione artistica

Bianca Oana Progetto dei media per la mostra

Martin Backhaus Direttore della fotografia

George Chiper – Lillemark Progetto sonoro

Manuel Grandpierre Progetto installazione VR

Augmented Space Agency Mediazione ed educazione

Daniel Neugebauer, Larisa Oancea Comunicazione

Georgiana Petcu Sam Talbot Istituito da

Manekino Cultural Association Organizzazione

Ministero della Cultura, Ministero degli Affari Esteri, Romanian Cultural Institute Coproduzione

Manekino Films, Avanpost, Snaporazverein In collaborazione con

Eidotech, H3 & Haustik Con il supporto di

Haus der Kulturen der Welt (HKW), Goethe-Institut Bukarest, Württembergischer Kunstverein Stuttgart, Hamburg Ministry of Culture and Media, ARCUB, ERSTE Foundation, UNATC National University of Theater and Film Bucharest, CESI – Center of Excellence in Image Studies Bucharest, Università Iuav di Venezia, Tudor Havriliuc e David Corbell, Andrei Dunca, UniCredit Bank, ARAC Romanian Contemporary Art Association, Anca Poterașu Gallery, KGP Filmproduktion, Vinexpert, Grup Transilvae, Sky Tour, Christa Gebert, Spector Books, Dispozitiv Books, Cărturești, mediaTRUST, Motivation Romania Foundation, Mozaiq Association

Il padiglione romeno è concepito come luogo di riflessione sulle forme corporee delle pratiche spirituali e sul corpo (il proprio e quello degli altri) come dispositivo per elaborare storie, traumi e desideri, consapevoli e inconsapevoli. Suggerisce altre possibilità di vedere, pensare e relazionarsi destabilizzando la retorica visiva ormai cristallizzata e la politica dello sguardo. Sullo sfondo di complesse storie di normatività istituzionalizzata, con la consueta negazione del corpo e un clima di vergogna tradizionalmente corrosivo, Pintilie trasforma lo storico padiglione Romania in una cattedrale che celebra le connessioni fra corpi al di là di ogni preconcetto e crea spazio per esperienze trasformative. You Are Another Me—A Cathedral of the Body segna la nuova fase della ricerca multidisciplinare di Pintilie sull’intimità inaugurata con il lungometraggio Touch Me Not, Orso d’oro al Festival del cinema di Berlino nel 2018. La mostra trova il suo naturale prolungamento in un’installazione di realtà virtuale presso l’Istituto romeno di cultura e ricerca umanistica. Cosmin Costinaș, Viktor Neumann

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Adina Pintilie, You Are Another Me—A Cathedral of the Body, 2022. Installazione video a nove canali con (da sinistra a destra) i performer Hermann Mueller, Dirk Lange, Grit Uhlemann, Christian Bayerlein, Laura Benson, direttore della fotografia George Chiper-Lillemark. Courtesy l’Artista Adina Pintilie, YYou Are Another Me—A Cathedral of the Body, 2022. Installazione video a nove canali con il performer Christian Bayerlein, direttore della fotografia George Chiper-Lillemark. Courtesy l’Artista

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Partecipazioni Nazionali


RUS S I A

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Il 27 febbraio 2022, in seguito all’invasione russa dell’Ucraina iniziata il 24 febbraio, il Curatore Raimundas Malašauskas e gli Artisti Kirill Savchenkov e Alexandra Sukhareva hanno annunciato che non faranno parte del progetto del Padiglione russo alla 59. Esposizione Internazionale d’Arte. Il 1° marzo, la Commissaria del Padiglione Anastasia Karneeva ha comunicato a La Biennale di Venezia che il Padiglione della Federazione Russa rimarrà chiuso per la 59. Esposizione Internazionale d’Arte.

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Partecipazioni Nazionali


REPUBBLICA DI SAN MARINO

P O S T U M A N O M E TA M O R F I C O

Commissario

Nel percorso evolutivo della specie umana, la dimensione materiale del saper fare e modificare le cose si lascia spesso – talora positivamente, talora imprudentemente – guidare dalla dimensione immateriale del sogno. In particolare, da un sogno antico, quello di prolungare la vita, guarire le malattie, trasformare le caratteristiche fisiche, ibridare o fabbricare nuove specie, attuare la metamorfosi di un corpo in un altro.

Riccardo Varini Curatore

Vincenzo Rotondo Partecipanti

Elisa Cantarelli, Nicoletta Ceccoli, Endless, Michelangelo Galliani, Rosa Mundi, Roberto Paci Dalò, Anne-Cécile Surga, Michele Tombolini Comitato scientifico

Alessandro Bianchini, Cristian Contini, Roberto Felicetti, Fulvio Granocchia, Pasquale Lettieri, James Putnam, Riccardo Varini, Angela Vettese

Le biotecnologie stanno progressivamente trasformando in realtà questo desiderio. E con le scoperte scientifiche attuali il passaggio dalla biotecnologia alla biologia sintetica, supportata dalle nanotecnologie, non si muove più solo entro l’ottica riparativa o sostitutiva della dimensione imperfetta o caduca della natura, ma si dirige verso una vera e propria creazione di nuovi apparati biologici artificiali.

Organizzazione

FR Istituto d’Arte Contemporanea, Cris Contini Contemporary Responsabile del progetto

Sandra Sanson Progetto grafico

Rovai Weber Design Allestimento della mostra

Alfa Production, Baglietto Marine Steel, Aldo Cichero Design Consulenza

Alfredo Varone Esposizione nomade in laguna

Zepeling, Motonavi Giro Libero Sfilata di moda

Elisabetta Franchi Con il supporto di

Segreteria di Stato per l’istruzione e la Cultura, FR Art Collection, Cris Contini Contemporary, Fondazione Donà dalle Rose, Comac International AM Elenka, CEFI, Art Style Magazine, Amoretti, D’Amico D&D Italia Supporto aggiuntivo

Alluminio Sammarinese, Baulificio Italiano Sorelle Roncato, Fondazione Orestiadi, Museo delle Trame Mediterranee, Università degli Studi di San Marino, Usmaradio

Viene quindi spontaneo chiedersi dove si trovi il confine dell’umano o quali siano i limiti della natura, cioè fin dove possiamo dire di muoverci ancora all’interno della definizione di specie umana integrata in un contesto naturale e quando ne siamo decisamente usciti. Filosofi come Donna Haraway, Rosi Braidotti o Leonardo Caffo assumono come dato questa dicotomia del contemporaneo, registrando una divaricazione sempre più evidente tra una volontà di potenza antropocentrica verso una condizione sovrumana, iperumana o trasumana e una volontà di maggiore consapevolezza dei limiti e della finitezza delle cose ascrivibile alla figura del Postumano, portatore di nuovi valori etici, ambientali e sociali, filtro e insieme strumento di lavoro, per ri-avvicinarci come corpi, come organismi tra organismi, alla natura. Se vogliamo salvare le vite umane in quanto umane, abbiamo bisogno sia della tecnica sia dell’etica nella loro distinzione e cooperazione. Tutto ciò dimostra l’impossibilità di separare nettamente l’identità umana da quella personale. Siamo consapevoli che per salvare la persona umana bisogna salvare la vita umana intesa nella sua profonda relazione, Microcosmica, con la Natura, Macrocosmo. Il Postumano Metamorfico che ci piace intravedere nel nostro prossimo futuro sarà in grado di interagire col proprio Macrocosmo di riferimento immaginando altre forme di coesistenza e trasformazione e di creare nuove e alternative condizioni di esistenza rispetto a quelle a cui oggi siamo abituati.

Supporto tecnico

Antonella Modica Comunicazione

CSArt – Comunicazione per l’Arte, Frequenzagrafica Collaborazione

Istituti Scolastici Iervolino 136


Endless, The Endless Transfiguration (particolare), 2022. Collage su legno di disegni a mano e digitali

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Partecipazioni Nazionali


A R A B I A S A U D I TA

T H E T E AC H I N G T R E E

Commissario

The Teaching Tree trasforma una linea tracciata in tre dimensioni, formando un’installazione monolitica simile a un albero che occupa e consuma lo spazio abitato. L’opera site-specific è accuratamente realizzata a mano con materiale organico intrecciato che, attivato attraverso tremori e vibrazioni intermittenti, suscita una risposta viscerale nello spettatore.

Visual Arts Commission, Ministero della Cultura Curatore

Reem Fadda Partecipante

Muhannad Shono Assistente del Curatore

Rotana Shaker

L’opera di Muhannad Shono – dalle installazioni che hanno utilizzato robotica, materiali naturali e industriali, fino ai disegni e ai fumetti – è definita dalla messa in discussione di verità e ontologie; concetti elementari o pratiche di vita molto basilari, come l’impatto della scrittura o il potere della linea o la generazione del pensiero. Shono lo fa contrapponendo la tecnologia a miti, storie, tradizioni e natura. Le idee relative alla rigenerazione e alla rinascita sono preminenti nella sua pratica artistica, comprendente una serie di opere che interrogano il potenziale della linea disegnata. Nella sua opera, la caratterizzazione della linea nasce da un incontro personale e decisivo con i modi del passato e con le antiche credenze relative alle rappresentazioni figurative e all’atto di tracciare linee. Allo stesso modo, Shono si è ispirato alla figura di Al Khidr per indagare i cicli vitali e il potere della natura e della rigenerazione. Questi riferimenti hanno creato una pratica fantasiosa che rivendica e descrive la linea in modo tale da conferirle il potere di ridiventare, fiorire e crescere. The Teaching Tree fa riferimento alla linea disegnata, ma si è ampliato per incapsulare molte altre dimensioni. Questo oggetto diventa emblematico e dicotomico nel rappresentare varie strutture del potere, come la parola scritta, il segno inciso, e il suo effetto irreversibile sulla storia. Appare anche come l’incarnazione della tecnologia o forse un relitto alla deriva impregnato di nero petrolio fuoriuscito. In sostanza, è alla natura cui The Teaching Tree fa riferimento mentre si contorce, combattendo per la sopravvivenza, mutando pelle e dando vita alla speranza di rinascita e nuovi inizi. L’energia emanata dall’opera è indicativa della battaglia evolutiva che attualmente costringe gli organismi viventi a fare i conti con il prevalente istinto di sopravvivenza. I segni lasciati rimangono come segnali di avvertimento di lotte passate e a venire. Eppure, l’opera di Shono trasmette anche un messaggio di saggezza insito nella natura stessa, esortandoci a imparare da essa.

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Muhannad Shono, Impressione d’artista, 2022. Courtesy l’Artista. ©Muhannad Shono Muhannad Shono, Schizzo d’artista, particolare, 2022. Courtesy l’Artista. ©Muhannad Shono

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Partecipazioni Nazionali


SERBIA

WA L K I N G W I T H WAT E R

Commissario

D E N T RO I L Q UA D RO

Maja Kolaric Curatore

Biljana Ciric Partecipante

Vladimir Nikolic Organizzazione

Museum of Contemporary Art, Belgrade con il patrocinio di

Ministero dell Cultura e dei Media della Repubblica di Serbia Progettazione dello spazio

Segolene Doubernet Identità visiva

Toby Tam

Si entra in uno spazio che è una finzione. È un’astrazione del tempo e dello spazio. È pura pittura modernista attraverso la quale l’artista restituisce realtà al quadro. Si entra in una relazione mediata dalla tecnologia, invertita dall’artista. La relazione di cui si diventa parte sottolinea i rapporti con la tecnologia e la natura: in questo caso l’acqua come parte del nostro corpo, ma anche l’acqua come punto di connessione più che come separazione. Sottolinea una critica all’arte e il suo costante tentativo di reinventarsi allontanandosi dalla realtà.

N O I E L ’A C Q U A

Siamo tutti corpi composti da acqua. L’acqua intorno e dentro di noi ci permette di riflettere sulle ontologie relazionali e sulle nostre stesse relazioni con altri corpi d’acqua. I flussi d’acqua sfidano una considerazione occidentale del tempo lineare. Il suo movimento è tale che non ci permette di definirne l’inizio e la fine. Pensare con l’acqua suggerisce di “stare con il problema”, come sostiene Donna Haraway. Il nostro rapporto con il mare in parte, si è instaurato attraverso il cinema emerso all’inizio del XX secolo, quando l’immagine in movimento ritraeva spesso relazioni estrattiviste con il mare, mentre il nuoto diventava un hobby più che un’abilità di sopravvivenza.

TECNOLOGIA

Il legame dell’artista con la tecnologia è ossessivo quanto il suo legame con l’acqua. La presenza di questa relazione è resa invisibile dal distaccarsi dall’idea di spettacolarizzazione e di celebrazione della nuova tecnologia, ma l’artista fornisce le basi per ripensare gli strumenti e le metodologie usate per la creazione dell’immagine. Qui la tecnologia ci proietta in una posizione che propone l’ascolto delle immagini e il modo di ascoltare il silenzio. I gesti vengono ripetuti più e più volte in un loop costante. Come afferma Deleuze, “la ripetizione non cambia nulla nell’oggetto ripetuto, ma cambia qualcosa nella mente che lo contempla.”

L I B R O - O G G E T T O E S T E S O Un libro d’artista che accompagna la mostra approfondisce il discorso che la circonda. Il libro esplora l’editoria come incubatrice di diverse forme di pratiche editoriali, curatoriali e artistiche.

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Vladimir Nicolić, 800m, 2019. Sequenza di immagini CinemaDNG convertita in video 4K, 14’10’’. Courtesy l’Artista

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Partecipazioni Nazionali


SINGAPORE

PULP III: A SHORT BIO GRAPHY OF THE BANISHED BO OK

Commissario

Assumendo la forma di un libro, un film e un labirinto di carta, questa mostra personale rappresenta una tappa importante del progetto decennale di Shubigi Rao intitolato Pulp, in cui l’artista esplora la storia della distruzione dei libri e il futuro della conoscenza. Attingendo a una serie di filmati realizzati tra Venezia e Singapore, intrecciati a precedenti ricerche, Rao crea un’opera densamente stratificata che si pone come omaggio supremo ed elegia memorabile alle storie condivise dall’umanità e dalle comunità riunite attorno alla stampa.

Rosa Daniel – National Arts Council Curatore

Ute Meta Bauer Partecipante

Shubigi Rao Architetto

Laura Miotto Progetto grafico

Benson Chong and Felix Sng – Studio SWELL Libro Autore

Shubigi Rao Redazione

Leena Taneja Rao, Dan Koh Editore

Rock Paper Fire Singapore Tipografia

Grafiche Veneziane Film Regia, sceneggiatura e fotografia

Shubigi Rao Editing video

Daniel Hui Progetto sonoro

Zai Tang Labirinto di carta

Artwork di Shubigi Rao Responsabili del progetto

Mary Ann Ng, Tian Lim Assistente del Curatore

Kathleen Ditzig

Esplorando la precarietà e la tenacia delle lingue in via di estinzione, il futuro delle biblioteche pubbliche e alternative, il cosmopolitismo delle comunità regionali fiorite e tramontate nei centri antichi della stampa e del commercio, Rao traccia un vasto panorama di storie narrate da molteplici soggetti. Dal titolare di un negozio di libri d’antiquariato di Venezia al dinamico archivio IVESER (Istituto Veneziano per la Storia della Resistenza e della Società Contemporanea) che raccoglie le memorie delle donne partigiane e antifasciste veneziane, agli euroasiatici che cercano di rivitalizzare la lingua Kristang a rischio estinzione, a uno storico singaporiano della stampa che ripercorre il cosmopolitismo della stampa Malay attraverso la litografia fino all’archivio Hannae dei movimenti operai a Seul, Rao raccoglie mezze verità, dicerie, storie controverse e segreti: storie vitali spesso deliberatamente oscurate da chi detiene il potere e dagli opportunismi del capitalismo. Sostenuta da un metodo artistico intriso di fiducia e affinità, l’opera di Rao consegna queste storie al pubblico come semi di conoscenza con o scopo di far prosperare piccole biblioteche, opporre resistenza all’annientamento ed eludere le divisioni geopolitiche e culturali: all’interno del padiglione, cinquemila copie di Pulp Vol. III aspettano di essere diffuse nel mondo. In un’epoca di immensa decadenza umana e ambientale, la mostra rappresenta uno spazio inteso a promuovere la perseveranza del pensiero e del legame umano e un momento condiviso di ascolto generoso e di scrittura significativa.

Assistente dell’Artista

Davide Tolfo Realizzazione

Attitudine Forma Progetto delle luci

Jan Kroeze Consulenza audio-visiva

Eidotech Con il supporto di

Ministero della Cultura, Comunità e Gioventù, Singapore 142


Copertina del romanzo licenzioso scritto in alfabeto Jawi pubblicato da Qalam Press, Singapore, mostrato da Faris Joraimi, Singapore. Courtesy l’Artista. ©Shubigi Rao Copia contestata di Rosso veneziano di Pier Maria Pasinetti, censurato e da lui rinominato Amputazioni Bompiani, per rappresaglia a un’edizione del suo romanzo pesantemente tagliata e riveduta dall’editore Bompiani, Venezia. Courtesy l’Artista. ©Shubigi Rao

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Partecipazioni Nazionali


REPUBBLICA DI S L OV E N I A

WITHOUT A MASTER

Commissario

I suggestivi e deflagranti soggetti dei dipinti di Marko Jakše danno libero sfogo a impulsi ed esperienze propri di un artista intuitivo e geniale che sfida deliberatamente da oltre tre decenni le correnti post-concettuali moderne, scegliendo di rappresentare spazi dell’immaginazione umana attraverso un distinto linguaggio pittorico. Il risultato della sua prorompente vitalità è un universo fantastico e sconvolgente.

Aleš Vaupotič Curatore

Robert Simonišek Partecipante

Marko Jakše Organizzazione

Moderna galerija Association for Culture and Education KIBLA Eiletz Ortigas Architects Aurora Fonda Gorazd Krnc Ana Korenini, Borut Kovačec (VIKIDA) Jaka Železnikar Narvika Bovcon Con il supporto di

Ministero della Cultura della Repubblica di Slovenia

Jakše appartiene infatti alla tipologia di artisti che, alla teoria e all’abilità tecnica, preferiscono una creatività spontanea in cui il corpo gioca un ruolo fondamentale; da ammiratore della natura, la penetra con gli occhi innocenti di un bambino e la esamina nei suoi aspetti materiali e immateriali, suggerendoci in maniera ingegnosa e sensuale prospettive più percettibilmente concrete, psichedeliche o cosmiche. Immerse in una dimensione onirica, dalle tele emergono entità paradossali e contrastanti che entrano in relazione con simboli e reliquie di civiltà sepolte, con la spiritualità, la religione, la mitologia e la tradizione artistica. In queste visioni, l’artista ci rivela segreti, curiosità e miracoli di un antimondo di paesaggi archetipici e architetture senza tempo, dove il silenzio si fonde con il grido, la realtà con la metafisica e il secolare con il sacro. Nelle sue opere, la metamorfosi artistica si intreccia a quella fisica e spirituale, animali e creature prendono il sopravvento sugli esseri umani, mentre le specie esistenti sulla terra sono affiancate da ermafroditi e fantasmi provenienti da isole del sogno, da luoghi sconosciuti dell’universo, dal futuro. In uno stato di profondo sconvolgimento, gli animali urlanti e le creature ibride instaurano relazioni complesse tramite gesti rituali. Jakše, come numerosi altri artisti, tra cui Leonora Carrington, concepisce l’immaginazione come un libero gioco, manifestando sia quegli elementi bestiali e divini che si celano nell’uomo, sia aspetti di ordine sociale propri di esseri alieni e animali. In relazione al tema di questa Biennale Arte, i dipinti di Marko Jakše mettono in discussione l’idea del controllo sulla natura e sulle relative categorie dell’essere, i sistemi scientifici, la consapevolezza di cosa ci sia effettivamente di primordiale dentro e fuori da noi stessi, e, soprattutto, il modo in cui ogni cosa esiste. Le risposte dell’artista a queste domande si snodano dal dionisiaco nietzscheano alle allegorie metasimboliche e metaromantiche, riflettendo l’appassionante dramma delle passioni e dei desideri umani – misteriosi giochi senza regole. Robert Simonišek

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Marko Jakše, Black Sphere, 2021. Olio su tela, 189 × 97 cm. Photo Dejan Habicht. ©Moderna galerija

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Partecipazioni Nazionali


REPUBBLICA DEL S U DA F R I C A

INTO THE LIGHT

Commissario

Come altre nazioni, il Sudafrica è stato colpito dal Covid-19. Questa mostra vuole suggerire che, per quanto disastrosa sia stata la pandemia, dalle avversità possono nascere nuove opportunità.

Nosipho Nausca Jean Ngcaba Curatore

Amé Bell Partecipanti

Roger Ballen Lebohang Kganye Phumulani Ntuli Organizzazione

Zapparrata Gering Direzione del progetto

Michael Gering

Il lockdown ha portato a una “nuova normalità”, fatta di isolamento e restrizioni; tuttavia, seppure potenzialmente dannoso, questo isolamento forzato ci permette focalizzare l’attenzione non più all’esterno, bensì verso l’interno. Into the Light è un invito a cogliere questa opportunità per fare un passo nella luce, alla scoperta di noi stessi. Gli artisti partecipanti portano alla Biennale Arte 2022 un uso sofisticato di fotografia, nuovi media e tecnologia, rappresentando una dinamica e diffusa innovazione artistica proveniente dal Sudafrica.

Responsabile di progetto

Grace Rapholo Coordinamento per il progetto

Thuli Mlambo-James Editor

Richard Barnes Traduzioni

Maria Gering Amministrazione

Amanda Ballen Sarie Pretorius Laura Buccimazza Con il supporto di

Governo del Sudafrica, Dipartimento dello Sport, Arti e Cultura Supporto aggiuntivo

Barloworld Akwethu Engineering and Development

Roger Ballen espone il suo volume Theatre of the Apparitions: per realizzarlo ha tratto ispirazione dalle incisioni che le detenute di una prigione femminile ormai abbandonata avevano creato raschiando via la vernice usata per oscurare i vetri delle finestre; l’artista ha ideato delle tecniche specifiche per creare immagini retroilluminate, che ha poi fotografato. Queste immagini trasportano l’osservatore in un regno fantastico di visioni inquietanti, in cui forme facciali fossilizzate e figure smembrate interagiscono con ombre spettrali in rituali bizzarri. Lebohang Kganye utilizza fotografia, teatro, animazione, ritagli e scultura per realizzare la sua visione artistica autobiografica. Tratte da B(l)ack to Fairy Tales, le sue opere la ritraggono come Snow Black (Neraneve) in cammei realizzati a partire dalle fiabe della sua infanzia, che vengono però ambientate in una township africana. Kganye mette in discussione l’influenza pervasiva della mitologia fiabesca occidentale e il suo ethos basato sul “tutti vissero felici e contenti”, in netto contrasto con la povertà vissuta nella sua infanzia. L’opera di Phumulani Ntuli, come ad esempio Godide, si basa su geografie immaginarie, simulazione, archivio e rappresentazione, che egli esplora tramite una collisione tra documentario e finzione, usando collage, performance e animazione stop-motion. Un tema comune del suo lavoro è il modo in cui arriviamo a definire noi stessi per mezzo della realtà e della fantasia. Il layout espositivo permette allo spettatore di intraprendere un viaggio, simbolo di un processo di scoperta di sé e dell’entrata “nella luce”, e lo fa guidando i visitatori in un percorso attraverso diversi strati di esplorazione, che diventano a mano a mano più intimi e personali.

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Lebohang Kganye, Untitled 5, 2011. Stampa fotografica a getto d’inchiostro su carta di cotone, 59,4 × 84,1 cm Phumulani Ntuli, At the see, episodio 1, 2021. Fotogramma da video a canale singolo in 4K, 7’17”

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Partecipazioni Nazionali


S PA G N A

CORRECTION

Commissario

A prima vista, il progetto è alquanto semplice: raddrizzare il padiglione. Situato in un angolo dei Giardini, vicino all’ingresso, l’edificio è leggermente inclinato rispetto ai vicini Belgio e Paesi Bassi. Infilato in un angolo, sembra sbilanciato.

Ministero degli Affari Esteri, dell’Unione Europea e della Cooperazione della Spagna AECID Agencia Española de Cooperación Internacional para el Desarrollo Curatore

Bea Espejo Partecipante

Ignasi Aballí Organizzazione

Agencia Española de Cooperación Internacional para el Desarrollo (AECID), Acción Cultural Española (AC/E) Con il supporto di

Galería Elba Benítez, Madrid Galerie Nordenhake, Berlino Meessen De Clercq, Bruxelles

Ignasi Aballí si è imbattuto in questo evidente errore mentre studiava le planimetrie. La sua proposta cerca di risolvere il problema costruendo nuove pareti interne, identiche per dimensioni a quelle originali, con un angolo di 10 gradi, l’inclinazione necessaria per allineare l’edificio con quelli vicini. L’intervento sconvolgerà la memoria spaziale e modificherà lo spazio espositivo, la sua collocazione all’interno della Biennale e il suo rapporto con la città di Venezia. Perché correggere un padiglione precedentemente convalidato da qualcun altro? Perché confrontarlo con i suoi vicini? Perché questo sforzo titanico che alla fine comporterà una perdita di spazio? È qui che un’ambizione apparentemente semplice diventa molto più complicata. Da un lato, la nuova architettura disegna un’altra immagine del padiglione spagnolo e offusca qualsiasi concetto unitario di rappresentanza nazionale. Dall’altro, l’azione correttiva del padiglione manifesta l’impossibilità di coesistenza dei due spazi senza che entrambi debbano fare concessioni. A volte le murature originarie vengono annullate mentre in altri luoghi non c’è spazio sufficiente per quelle nuove. Come per il percorso architettonico, la visita al padiglione è deviata da continue digressioni, dal gioco di dimensioni e scala, presentazione e rappresentazione, letterale contro ricostruzione, simulazione sotto forma di veridicità. Parallelamente allo spostamento del padiglione, il progetto è completato dalla pubblicazione di sei libri su Venezia che tentano di “correggere” quanto di solito ci si aspetta da una guida turistica della città. Aballí individua un altro apparente errore in relazione alla città: Venezia è una delle città che attrae più visitatori al mondo e, al contempo, deve affrontare seri problemi dovuti al turismo di massa che la portano sull’orlo del collasso. Questa contraddizione spinge l’artista a vederla al rallentatore e attraverso la lente della propria pratica artistica. L’intero progetto è una meta-mostra e allo stesso tempo una smaterializzazione. È simile a una critica istituzionale obliqua e nascosta. A un’immagine spezzata di Venezia. A un’idea confusa della Spagna. Bea Espejo

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Ignasi Aballí, Correction, 2022. Veduta dell’installazione del padiglione spagnolo. Photo Adam Jorquera. Courtesy l’Artista Ignasi Aballí, Horizontes, 2022. Libro d’artista. Courtesy l’Artista. ©Ignasi Aballí

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Partecipazioni Nazionali


SVIZZERA

THE CONCERT

Commissari

Entrando nel padiglione, i piedi calpestano resti di carbone lasciati da sculture in legno bruciate. Di fronte all’ingresso, la grande finestra del corridoio filtra la luce, arancione come un tramonto, oppure si tratta di un’alba? Man mano che si procede, il rumore del calpestio si intensifica e le sculture iniziano ad apparire dalle loro ceneri, abbracciando la prototipica progressione spaziale dell’edificio di Bruno Giacometti. Latifa Echakhch crea una mostra simile a un’orchestrata esperienza di viaggio nel tempo. Un ambiente ritmico e spaziale che permette una percezione in senso antiorario del tempo e del proprio corpo, esplorando contemporaneamente continuità, movimenti e sequenze.

Swiss Arts Council Pro Helvetia Madeleine Schuppli, Head of Visual Arts Sandi Paucic, Project Leader Rachele Giudici Legittimo, Project Manager Curatori

Alexandre Babel Francesco Stocchi Partecipante

Latifa Echakhch Coordinamento di produzione

Maud Châtelet Progetto di illuminazione

Anne Weckström Progetto grafico

Norm Collaboratori

Tamarine Schreiber Rebiennale – R3B, Giulio Grillo, Alessandra Dal Mos, Paolo Burinato, Stefano Mandracchia, Mihovil Markulin, Paolo Ripamonti, Sylvain Croci-Torti Communication

Swiss Arts Concil Pro Helvetia – Chantal Hirschi, Ines Flammarion, Silvia Fleck, Tania Luchena, Pickles PR – Caroline Widmer, Zeynep Seyhun Supervisione architettonica

Maud Châtelet, Alvise Draghi Responsabile del padiglione e coordinamento in loco

Tommaso Rava Produzione per The Concert Compositori

Latifa Echakhch / Alexandre Babel Musicisti

Alexandre Babel con i solisti di Ensemble KNM Berlino Etichetta

Shelter Press Assistenti dei Commissari

Anita Magni, Jacqueline Wolf Con il supporto di

Dvir Gallery, Tel Aviv / Bruxelles; kamel mennour, Parigi; kaufmann repetto, Milano / New York; Pace Gallery, New York / Londra / Hong Kong / Seul / Ginevra / Palo Alto / East Hampton / Palm Beach

Proseguendo lungo il corridoio illuminato di arancione, ci si dimentica del pavimento e si entra nella galleria principale completamente oscurata, dove l’eco si dissolve. Il crepitio sotto i piedi, la percezione del proprio respiro e di altre presenze assumono una rinnovata valenza. Nella sala, alcune sculture effimere ispirate alla statuaria popolare emergono nell’illuminazione orchestrata da Anne Weckström, che cattura i ritmi composti dal percussionista Alexandre Babel. In questo modo si può vedere la musica, ma non la si può sentire. Più ci si addentra nello spazio, più il pavimento diventa morbido e silenzioso, e i suoni che provengono dal proprio corpo acquistano sempre maggior rilevanza: le pulsazioni del cuore reagiscono alla composizione della luce, mentre un’ondata di aria fresca allarga lo spazio. L’intervento ritmico delle luci detta la comparsa e scomparsa delle sculture, avvolgendo lo spettatore in una narrazione inquietante e silenziosa. Tornare indietro è come andare verso l’alba dopo aver attraversato la notte. Uno dopo l’altro i sensi riaffiorano, riappaiono il suono, la luce del giorno e il calore del sole, mentre le sculture scompaiono di nuovo nella cenere. Pur utilizzando l’edificio modernista di Giacometti, originariamente realizzato per l’esposizione di ernste Kunst (arte seria) Echakhch lo affronta in modo sottile e discreto con l’esplosione di vita celebrata dall’arte popolare del Carnevale. L’artista attinge al vocabolario delle costruzioni effimere dei carri carnevaleschi e al suo prodigioso ambito tematico e formale, affrontando preoccupazioni e controversie, sogni e utopie, giocando con armonie e dissonanze, con i sentimenti contrastanti di attesa e appagamento, con la distruzione e i ricordi. Francesco Stocchi

Supporto aggiuntivo

Allianz Swisse Siti web

biennials.ch prohelvetia.ch

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The Concert, veduta dell’entrata del padiglione svizzero. Photo DR. Courtesy the Artist; Dvir Gallery, Tel Aviv / Bruxelles; kamel mennour, Parigi; kaufmann repetto, Milano / New York; Pace Gallery, New York / Londra / Hong Kong / Seul / Ginevra / Palo Alto / East Hampton / Palm Beach. ©Annik Wetter

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Partecipazioni Nazionali


REPUBBLICA ARABA SIRIANA

THE SYRIAN PEOPLE: A COMMON DESTINY

Commissario e Curatore

Le creazioni degli artisti plastici siriani sono note per essere ricche di esperienza, pluralità di influenze, indirizzi e costituite da una pletora di tecniche e materie. L’arte ha da sempre rappresentato la chiave per plasmare la società, incoraggiando l’amore, la speranza e fornendo un’opportunità di rinascita. Le forme e il contenuto delle opere dei cinque artisti contemporanei siriani partecipanti alla Biennale Arte 2022, come previsto, riflettono tutti questi importanti obiettivi.

Emad Kashout Partecipanti

Saousan Alzubi Ismaiel Nasra Adnan Hamideh Omran Younis Aksam Tallaa Giuseppe Amadio Marcello Lo Giudice Lorenzo Puglisi Hannu Palosuo

Cinque artisti provenienti dalla Siria – una terra affascinante con un’antica civiltà molto avanzata per l’epoca, una terra di innovazione capace di annoverare una scultura risalente all’ottavo millennio a.C. – espongono esempi delle loro opere dopo un devastante periodo di guerra durato un decennio. In verità, sono stati tra i più colpiti dalle sue dure ripercussioni. Tuttavia, ciò non ha impedito loro di aggrapparsi alla vita, di restare uniti all’amata patria. Hanno tenuto duro, continuando a professare la loro creatività e abbracciando la nobile missione di diffondere una cultura di vita, bellezza e libertà di espressione. Benché abbiano visioni diverse della realtà e dell’universo che li circonda, plasmati dalle loro rispettive esperienze, ognuno di loro possiede uno stile distintivo, una tecnica particolare, una filosofia, punti di vista e atteggiamenti differenti nei confronti degli eventi che animano le loro opere. Tuttavia, sono tutti apertamente uniti da passione, umanità e profondo amore per il proprio paese, così come dalla comune identità culturale e da un ineluttabile destino condiviso. Questi cinque artisti, solidamente affermati sulla scena artistica nazionale e araba, vantano già numerose partecipazioni a manifestazioni internazionali e onorano la Biennale Arte insieme agli artisti internazionali del padiglione, portando con sé un messaggio di amore e di pace dalla Siria, terra di civiltà e fratellanza, dal forte e complesso patrimonio culturale profondamente radicato nella storia. Il ministro della Cultura in Siria

Loubana Mouchaweh

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Ismaiel Nasra, Love in the Time of Corona, 2021. Acrilico su tela, 120 × 80 cm. Courtesy l’Artista. ©Ismaiel Nasra Aksam Tallaa, Song, 2022. Acrilico su tela, 110 × 95 cm. Courtesy l’Artista. ©Aksam Tallaa

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Partecipazioni Nazionali


T U RC H I A

ONCE UPON A TIME...

Commissario

Füsun Onur è una pioniera dell’arte contemporanea e concettuale in Turchia. Da oltre cinquant’anni lavora sul concetto di limite, operando al di là dei confini di forme e movimenti definiti, realizzando opere sempre nuove in base al proprio istinto e intuito. Con le installazioni site-specific, con le scelte dei materiali e con lavori a un tempo umili e straordinari, ha creato un linguaggio suo proprio.

Istanbul Foundation for Culture and Arts (İKSV) Curatore

Bige Örer Partecipante

Füsun Onur Responsabile di progetto e di mostra

Selen Erkal Sviluppo economico e coordinamento di progetto

Duygu Şengünler Editor associati

Bige Örer Nilüfer Şaşmazer

Alla Biennale Arte 2022, l’artista espone l’installazione Once upon a time..., in cui sviluppa una storia che si diffonde tutt’attorno come una nuvola. Osservando con occhio critico la pandemia e la condizione contemporanea, entrambe fonti di rischio per il futuro del mondo, Onur racconta una battaglia congiunta di gatti e topi, uniti contro le logiche imperanti dell’antropocentrismo che danneggia la natura e il pianeta imponendo il proprio, arrogante, potere.

Design

Marcello Jacopo Biffi (Mousse) Progetto di mostra

Yelta Köm Assitente di progetto

Aslı Kocamaz Con il supporto di

Repubblica di Turchia, Ministero della Cultura e del Turismo Repubblica di Turchia, Ministero degli Affari Esteri SAHA Association

Piegando e modellando i propri personaggi con un sottile filo metallico, in queste sculture lineari Onur riesce a esprimere non solo i movimenti, ma anche i loro sentimenti. Per gli abiti usa carta crespa colorata e per le teste palline da ping-pong. Nel suo mondo in miniatura Onur inserisce molti altri elementi quotidiani, usando materiali trovati in casa: da letti, cuscini, sedie, libri, tappeti, e abiti, fino agli strumenti musicali e ai veicoli, come barche e automobili, che accompagnano i personaggi nel loro viaggio. Concepita come una serie di scene tratte da una fiaba, da una favola o da uno spettacolo teatrale, l’installazione permette di accedere a un nuovo, emozionante, mondo. Nelle proprie installazioni, Onur ha sempre preferito restare vicina al pavimento, non cerca di occupare la galleria o stabilire un legame verticale con questa, ma crea invece scenari orizzontali costellati di spazi vuoti e intermezzi. Questa esposizione presenta opere tanto fragili e delicate quanto semplici, allestite su piattaforme a diverse altezze attraverso cui l’osservatore potrà seguire in modo sequenziale gli eventi narrati. Così Onur evoca un microcosmo remoto che attira il visitatore, mostrando quanto i nostri mondi siano intrecciati con quelli dei personaggi. Ancora una volta l’artista rigetta ogni aspettativa per stabilire invece un proprio paradigma; ci dice qualcosa di significativo sui tempi in cui viviamo, offre un capolavoro nella concezione di mondi alternativi, creando nuove lingue, imparando dai non-umani, amando e vivendo insieme.

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Füsun Onur, Once Upon a Time..., 2022. Filo di metallo, carta crespa, palline da ping pong, dimensioni variabili. Photo Noyan Ayturan. Courtesy l’Artista

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Partecipazioni Nazionali


U GA N DA

RADIANCE – THEY DREAM IN TIME

Commissario

Per tutte le nazioni che presenziano a questo incontro globale è un importante momento storico, il padiglione inaugurale dell’Uganda alla Biennale Arte 2022 è terreno fertile per presentare le idee degli artisti Kerunen e Sekajugo affinché il pubblico possa approfondire la comprensione dell’intelligenza semantica delle tradizioni africane, in questo caso ugandesi, e apprezzarne la modernità.

Juliana Akoryo Naumo Curatore

Shaheen Merali Partecipanti

Acaye Kerunen Collin Sekajugo Organizzazione

Ministero del Genere, del Lavoro e dello Sviluppo sociale Con il supporto di

Stjarna.art, Brussels UNCC, Uganda National Cultural Centre Sito web

ugandapavilion.org

Radiance – They Dream in Time, curata da Shaheen Merali, è il risultato di una molteplicità di processi, ivi inclusi colloqui online e sopralluoghi in centri di eccellenza dedicati allo sviluppo delle pratiche e delle risorse artistiche attraverso un supporto curatoriale e organizzativo. I due anni di gestazione hanno assicurato il tempo necessario alla contemplazione, alla revisione e alla rivalutazione di numerose idee e conversazioni. L’Uganda, specie nella capitale Kampala e nell’importante centro di Jinja, ha fornito un’economia in rapida evoluzione in cui si è radicato un ambiente culturale che abbraccia l’africanità contemporanea nella sua relazione con design, testo, organizzazione di mostre, performance e contesto. Acaye Kerunen e Collin Sekajugo sono entrambi da tempo membri attivi di istituzioni artistiche, think tank, centri di design, coinvolti in seminari, workshop, residenze e organismi decisionali. Attraverso la propria opera, entrambi gli artisti portano in questa esposizione una prospettiva dell’Uganda post-indipendenza. Come le altre due ex colonie britanniche, Tanzania e Kenya, l’Uganda ha affrontato un’epoca di conflitto sulla storia dell’attribuzione di significato alle proprie contestazioni che ha comportato il recupero di modalità precoloniali. La capacità ugandese di accedere al mondo più ampio dell’immaginario globale si dimostra spesso doverosa nel momento in cui la nazione si muove verso una nuova realtà estetica, definendo la moltitudine di luoghi pubblici in cui l’iconografia dell’emancipazione diviene ubiqua. Le frequenti campagne nazionali stimolano le persone a dialogare e a sviluppare un rapporto con la propria cittadinanza, attraverso nuove banconote, la bandiera nazionale, i francobolli, la coscienza eretta su un consumo grafico che illumina gli obiettivi e la realtà interconnessa del paese. Proprio queste eterogeneità e molteplicità in seno all’Uganda rendono l’esposizione nazionale presso il Palazzo Palumbo Fossati un luogo adatto a celebrare il padiglione inaugurale del paese come primo modello di evento artistico globale.

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Acaye Kerunen, Kakare, 2022. Tecnica mista, 370 × 860 × 50 cm. ©Acaye Kerunen Studio Collin Sekajugo, Stock Image 017 – I Own Everything, 2019-2022. Acrilico, tessuto di corteccia e tecnica mista su tela, 190 × 300 cm. Photo Maximilien de Dycker. ©Collin Sekajugo Studio

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Partecipazioni Nazionali


UCRAINA

T H E F O U N TA I N O F E X H A U S T I O N . A C Q U A A LTA

Commissario

Il progetto The Fountain of Exhaustion. Acqua Alta è un tentativo di parlare del presente a partire dal contesto ucraino, al fine di rintracciare e rivelare in che modo una questione di interesse locale col tempo sia arrivata a riecheggiare un discorso globale.

Kateryna Chuyeva, Ministro aggiunto per l’Integrazione Europea del Ministero della Cultura e delle Politiche dell’Informazione dell’Ucraina Curatori

Lizaveta German Maria Lanko Borys Filonenko Partecipante

Pavlo Makov Collaboratori

Forma Architectural Studio 3Z Studio Perevorot.com IST publishing Vitaliy Kokhan Con il supporto di

The Naked Room gallery Internet Investments Group

Il padiglione espone le opere di Pavlo Makov, un artista di Kharkiv le cui pratiche, negli anni Novanta del XX secolo, comprendevano la ricostruzione della mitologia locale, la sovrapposizione della topografia sull’anatomia, l’accostamento di fiumi e sistemi riproduttivi e la trascrizione di testi narrativi su carta ingiallita, per farli sembrare documenti d’archivio abbandonati. L’impressionante quantità di fontane cittadine fuori uso ha ispirato Makov a produrre numerosi lavori, visibilmente collegati fra loro dal motivo dell’acqua. The Fountain of Exhaustion costituisce l’apice della serie, presentando un simbolo paradossale della vita: un fiume sfocia in un altro, eppure entrambi si esauriscono e si prosciugano. Ricorda l’artista, “Mi resi così conto che la società non era pronta per accogliere quest’opera, non riusciva ad affrontare la diagnosi che essa proponeva. Mi chiedevano sempre ‘Come mai esaurimento? Non sarebbe meglio abbondanza?’” Da allora la fontana non è mai stata inserita in uno spazio urbano e non è mai stata un oggetto funzionante, con un reale apporto di acqua. Il progetto ha acquisito rilevanza soltanto negli ultimi ventisette anni, dopo essersi affrancato dal contesto limitante della metropoli dell’Est europeo in cui era nato, per diventare raffigurazione dell’esaurimento globale di cultura, economia e politica. Rispetto all’attuale pandemia, rappresenta ora l’accumularsi dell’esaurimento. Una versione alta cinque metri di The Fountain of Exhaustion funge da oggetto attivo che preordina e trasforma lo spazio circostante imponendosi con la sua presenza sul fruitore. Il padiglione comprende anche materiali d’archivio e opere giovanili di Makov, non solo per mostrare il graduale sviluppo e la rivalutazione di The Fountain of Exhaustion, ma anche per presentare la pratica artistica nella sua continuità. The Fountain of Exhaustion di Makov si rivolge a noi sullo sfondo dell’esaurimento delle risorse naturali, della crisi di una democrazia ancora legittima, ma sempre meno oggetto di fiducia, per non parlare della rivalutazione delle nostre pratiche sociali, del nostro rapporto con la natura e del ruolo dell’artista nel mondo del cambiamento permanente.

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Pavlo Makov, The Fountain of Exhaustion alla confluenza dei fiumi Lopan e Kharkiv, 1995. Foto aumentata, matita, vernice, 22,6 × 41,3 cm. Courtesy l’Artista. ©Pavlo Makov Pavlo Makov accanto a The Fountain of Exhaustion montata in casa di Oleh Mitasov, 1996. Fotografia d’archivio, 16,5 × 17 cm. Courtesy l’Artista. ©Pavlo Makov

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Partecipazioni Nazionali


E M I R AT I A R A B I UNITI

MOHAMED AHMED IBRAHIM: BETWEEN SUNRISE AND SUNSET

Commissario

Il sole sorge dall’oceano Indiano, sulla costa orientale degli Emirati Arabi Uniti, sopra la città portuale di Khawr Fakkān. Già a metà pomeriggio, i monti Al Hajar proiettano la loro ombra sulla città, spegnendone i colori. Mohamed Ahmed Ibrahim è nato qui, ed è cresciuto immaginando il tramonto invisibile, sulla lontana costa occidentale.

Salama bint Hamdan Al Nahyan Foundation Curatore

Maya Allison Partecipante

Mohamed Ahmed Ibrahim Assistente alla curatela

Tala Nassar Collaboratore

New York University Abu Dhabi Progetto di mostra

Ibrahim ha sviluppato Between Sunrise and Sunset come un’unica opera commissionata per il padiglione degli Emirati Arabi Uniti. Decine di sculture biomorfiche a grandezza umana si raggruppano in colori e movimenti ondeggianti, suggerendo corpi o alberi, metamorfosi e mutazioni. Lo spettro dei colori muta nell’arco dell’installazione, dalle tonalità accese ai toni della terra, al bianco e nero intenso: dall’alba al tramonto.

Milk Train, Rome Progetto grafico

Iain Hector Larry Issa Con il supporto di

Ministero della Cultura e della Gioventù degli Emirati Arabi Uniti

Queste forme istintive evolvono da ciò che l’artista vede “nello spazio tra la pupilla e la palpebra” e dal suo dialogo fisico con i materiali. A mano, costruisce cartapesta su strutture libere che col tempo si muovono e assumono la loro posizione finale. Spesso incorporando terra, foglie, tè, caffè e tabacco, la consistenza e i colori delle forme derivano dalle materie prime impiegate. La pratica di Ibrahim abbraccia quasi quarant’anni di prolifica sperimentazione e produzione. L’artista è parte essenziale di un affiatato gruppo di artisti sperimentali e concettuali che dagli anni Ottanta guida l’avanguardia dell’arte visiva negli Emirati Arabi Uniti, dove il gruppo viene spesso definito “i cinque” (benché il numero effettivo cambi nel tempo). Ampiamente influente sulla scena artistica del Golfo, altrove è stato studiato soltanto in tempi recenti, quando ha iniziato a comparire nelle indagini di canonizzazione della regione. I suoi membri hanno incluso, tra gli altri, lo scomparso Hassan Sharif, Abdullah Al Saadi, Mohammed Kazem e Hussain Sharif. Nella sua Land Art, pittura e scultura, Ibrahim usa la ripetizione iterativa per creare schemi di linee o forme radicati nei suoi disegni “cifrati”. Questi spesso includono elementi simili a dita e rami che spuntano da cerchi e quadrati. Le sue sculture in cartapesta si evolvono dalle linee e dalle cifre e si trasformano ulteriormente in forme organiche, contemporaneamente invitando e rifiutando un’interpretazione figurativa. Piante? Corallo? Animali? Umani? Rocce? Città?

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Mohamed Ahmed Ibrahim, Dancer Contessa, 2020. Cartone, carta catramata, spago, cartapesta, tabacco, caffè, foglie, 120,5 × 62 × 42 cm. Courtesy padiglione Emirati Arabi Uniti; Lawrie Shabibi Gallery

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Partecipazioni Nazionali


S TAT I U N I T I D ’A M E R I C A

S I M ON E L E I G H : S OV E R E I GN T Y

Commissario

Caratterizzato da un interesse per la performatività e l’affezione, l’ampio corpus di lavori di Simone Leigh in scultura, video e performance analizza la costruzione della soggettività Black femme. Le grandi opere scultoree di Leigh uniscono forme derivate dall’architettura vernacolare e dal corpo femminile, rappresentandole con materiali e processi associati alle tradizioni artistiche dell’Africa e della diaspora africana, ridefinendo le nozioni di spazio, tempo ed esistenza. Per il padiglione degli Stati Uniti, Leigh presenta Sovereignty, una mostra che mescola storie e narrazioni disparate, tra cui quelle relative alle rappresentazioni rituali dei popoli Baga in Guinea, alla prima cultura materiale dei neri americani del distretto di Edgefield nella Carolina del Sud e alla storica Esposizione coloniale di Parigi del 1931. Con una serie di nuovi bronzi e ceramiche sia all’esterno che all’interno del padiglione, Leigh colma le lacune della documentazione storica proponendo nuove ibridazioni.

Jill Medvedow (ICA/Boston) Curatore

Eva Respini (ICA/Boston) Partecipante

Simone Leigh Partner formativi

Spelman College Peggy Guggenheim Collection Con il supporto di

Institute of Contemporary Art/Boston in partnership con il Bureau of Educational and Cultural Affairs of the U.S. Department of State Ford Foundation The Andrew W. Mellon Foundation eu2be Bloomberg Philanthropies, Paul e Catherine Buttenwieser, The Girlfriend Fund, Wagner Foundation Amy e David Abrams, Stephanie Formica Connaughton e John Connaughton, Bridgitt e Bruce Evans, James e Audrey Foster, Agnes Gund, Jodi e Hal Hess, Hostetler/Wrigley Foundation, Barbara e Amos Hostetter, Brigette Lau Collection, Kristen e Kent Lucken, Tristin e Martin Mannion, Ted Pappendick e Erica Gervais Pappendick, Gina e Stuart Peterson, Helen e Charles Schwab, Terra Foundation for American Art, VIA Art Fund Suzanne Deal Booth, Kate e Chuck Brizius, Richard Chang, Karen e Brian Conway, Steven Corkin e Dan Maddalena, Federico Martin Castro Debernardi, Jennifer Epstein e Bill Keravuori, Esta Gordon Epstein e Robert Epstein, Negin e Oliver Ewald, Alison e John Ferring, Helen Frankenthaler Foundation, Glenn e Amanda Fuhrman, Vivien e Alan Hassenfeld e la Hassenfeld Family Foundation, Peggy J. Koenig e Family, The Holly Peterson Foundation, Cindy e Howard Rachofsky, Leslie Riedel e Scott Friend, Mark e Marie Schwartz, Kim Sinatra, Tobias e Kristin Welo, Lise e Jeffrey Wilks, Kelly Williams e Andrew Forsyth, Nicole Zatlyn e Jason Weiner, Jill e Nick Woodman, Marilyn Lyng e Dan O’Connell, Kate e Ajay Agarwal, Eunhak Bae e Robert Kwak, Jeremiah Schneider Joseph, Barbara H. Lloyd, Cynthia e John Reed e sostenitori anonimi

Dal monumentale bronzo, D’mba, che occupa il piazzale del padiglione, all’intervento architettonico che trasforma la facciata dell’edificio, al film auto-etnografico e alla suite di sculture figurative esposte all’interno delle gallerie interne, le opere in Sovereignty contribuiscono collettivamente a estendere l’indagine di Leigh sul tema ricorrente dell’autodeterminazione. Il titolo della mostra parla di concetti di autogoverno e indipendenza, sia individuali che collettivi, e allude agli obiettivi anticolonialisti al centro del movimento della Negritudine. Essere sovrani significa non essere soggetti all’autorità di un altro, ai desideri di un altro o allo sguardo di un altro, ma piuttosto essere autori della propria storia. Oltre all’installazione del padiglione, la mostra veneziana di Leigh presenta Loophole of Retreat: Venice, una convention di più giorni di studiose e artiste nere in ottobre 2022, organizzata da Rashida Bumbray. Il progetto riflette l’etica collaborativa caratteristica della pratica di Leigh e rende omaggio a una lunga storia di collettività, comunanza e cura delle Black femme.

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Simone Leigh, Sentinel IV, 2020. Bronzo, 325,1 × 63,5 × 38,1 cm. Courtesy Matthew Marks Gallery. ©Simone Leigh

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Partecipazioni Nazionali


U R U G U AY

PERSONA

Commissario

Persona propone una riflessione critica che mette in luce un aspetto tanto semplice quanto complesso di tutte le società umane: il loro modo di coprire ed esibire i corpi, educarli e caratterizzarli. Il progetto fa riferimento ai vari modi in cui ogni essere umano, attraverso la caratterizzazione del proprio aspetto e la modalità con la quale entra in scena ogni giorno della sua vita, è percepito come persona.

Silvana Bergson Curatori

Laura Malosetti Pablo Uribe Partecipante

Gerardo Goldwasser Organizzazione

Presidenza della Repubblica dell’Uruguay – Presidente Luis Lacalle Pou Ministero degli Affari Esteri – Ministro Francisco Bustillo Bonasso Riccardo Varela Pablo Scheiner Claudio Scarpa Ministero dell’Educazione e Culture – Ministro Pablo da Silveira, Vice Ministro Ana Ribeiro Pablo Landoni Couture Mariana Wainstein Con il supporto di

Asociación Anna Lauram, São Paulo Brasile Fundaciòn Pablo Atchugarry, Uruguay Magma, Uruguay Herlitzka + Faria, Buenos Aires Argentina

Goldwasser ipotizza una tensione tra gli individui e la spersonalizzazione normativa entro una linea di riflessione legata al concetto di sartorialità, intesa come attività, modo di richiamare il soggetto a regole precise, ripetizione e istituzione di norme. Collegate alla memoria e al trauma, il punto di partenza tali questioni coincide con la storia di famiglia dell’artista, la cui opera si basa su un manuale tedesco di tecniche sartoriali ereditato dal nonno: un sarto ebreo riuscito a sfuggire al campo di concentramento di Buchenwald grazie alla sua professione. Le tonnellate di tessuto nero pronto a essere tagliato, le schiere di maniche, il metro, le dime da sartoria che organizzano gli spazi vuoti si stagliano come un incubo, in dialogo con quel Latte dei Sogni immaginato da Leonora Carrington, a sua volta sottoposta all’inaccettabile pressione omologatrice a metà del XX secolo, che è stato fonte di ispirazione anche per questa mostra. Nella nuova crisi mondiale post-pandemia, soverchiati dalla nuova percezione e dal nostro conseguente stato d’animo di fronte al pericolo di estinzione della nostra specie – l’unica in grado di annientare tutte le altre – questa mostra dall’impronta fortemente umanista ci mette di fronte a progetti, passati e presenti, che cercano di trasformare gli esseri umani in macchine infallibili, sincronizzate, ordinate, obbedienti, utili, e allo stesso tempo capaci di distruggere tutto ciò che sfugge al dominio o che sembra privo di utilità e ordine. Con Persona, Goldwasser ci invita ed esorta a scrivere la storia. A osservare e riflettere sulla rappresentazione dei corpi e la loro metamorfosi, sui dubbi che assalgono la scienza, l’arte e i miti del nostro tempo, in bianco e nero, come il manuale di sartoria, anonimo e senza data, ereditato dal nonno.

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Gerardo Goldwasser, Persona, 2022. Installazione, tecniche miste. Dimensioni variabili. Photo Rafael Lejtreger

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Partecipazioni Nazionali


REPUBBLICA D E L L ’ U Z B E K I S TA N

D I X I T A L G O R I Z M I —T H E GA R D E N OF KNOWLED GE

Commissario

Il padiglione presenta una riflessione sull’opera fondamentale di Muhammad ibn Mūsā al-Khwārizmī, eclettico scienziato nato e cresciuto nella città di Khiva, nell’odierno Uzbekistan.

Gayane Umerova – Art and Culture Development Foundation Curatori

Space Caviar (Joseph Grima, Camilo Oliveira, Sofia Pia Belenky, Francesco Lupia) Sheida Ghomashchi Partecipanti

Charli Tapp/Abror Zufarov CCA Lab Progetto di mostra

Space Caviar (Joseph Grima, Camilo Oliveira, Sofia Pia Belenky, Francesco Lupia) Responsabile di progetto

Madina Badalova

Il trattato Kitāb al-jabr wa al-muqābalah, redatto intorno all’anno 820 e diffuso in Europa in traduzione latina con il titolo Dixit Algorizmi, è il primo testo scientifico a presentare in modo sistematico l’algebra come disciplina matematica indipendente da geometria e aritmetica. Dalla latinizzazione del nome di al-Khwārizmī deriva la moderna parola “algoritmo”. L’accelerazione dell’innovazione, che tendiamo a considerare così caratteristica del nostro tempo, è spesso ritenuta il prodotto di una tradizione scientifica prevalentemente occidentale; la realtà, tuttavia, è più complessa e articolata: essa è infatti l’apice di secoli di ricerche che comprendono una molteplicità di civiltà, la realizzazione di un sogno antico come l’umanità stessa.

Gestione dei media locali

Nigora Tursunova Elmurod Nadjimov Installazione

We Exhibit Progetto grafico

Studio Folder Comunicazione

Cultural Counsel Supporto speciale

Saida Mirziyoyeva, Deputy Chairwoman of the Council of the Art and Culture Development Foundation of the Republic of Uzbekistan

Dixit Algorizmi—The Garden of Knowledge si prefigge di mettere in discussione la narrazione dominante sulle storie e geografie ufficiali dello sviluppo tecnologico, esplorando radici dimenticate e risonanze trascurate con luoghi, tempi e culture lontani. Il padiglione innesca interpretazioni divergenti della tecnologia come mezzo, riconoscendo variamente la profondità e la complessità del racconto delle sue origini. Che tali origini remote siano a un tempo dimenticate e riconosciute – benché quasi per caso – in un termine usato quotidianamente in tutto il mondo, è tanto ironico quanto appropriato. Le ricerche più significative di al-Khwārizmī si svolsero presso la Casa della Sapienza, centro internazionale di ricerca e istruzione superiore fondato a Baghdad dal califfo abbaside Hārūn al-Rashīd durante il suo regno (786-809). Il contributo di al-Khwārizmī fu essenziale in innumerevoli attività scientifiche; a lui si devono, per esempio, l’introduzione tra gli arabi dei numeri hindu, poi adottati universalmente, nonché testi sull’astrolabio e sulla meridiana e la rielaborazione del sistema tolemaico per calcolare le coordinate di centinaia di città e facilitare la navigazione. La Casa della Sapienza era un luogo di incontro e scambio, ed è opinione comune che fosse incentrata attorno ai giardini formali progettati secondo il tradizionale modello islamico. L’allestimento del padiglione uzbeco rimanda a tale tradizione islamica del giardino come luogo di incontro e scambio, ripensato come spazio tecnologicamente potenziato di ricerca, riflessione e sperimentazione.

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Garden of Knowledge

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Partecipazioni Nazionali


REPUBBLICA B O L I VA R I A N A D E L VENEZUELA

T I E R R A , PA Í S , C A S A , C U E R P O

Commissario

La mostra propone l’esplorazione dell’idea di corpo come presenza che partecipa trasversalmente a quattro livelli. Il corpo come metafora e vita, dalla dimensione ecologica della Terra, in una mediazione tra esseri umani e macrocosmo. Il corpo sociale nella sua azione politica come paese, quella dimensione spazio-temporale della geografia umana in cui la comunità, la consapevolezza storica, i valori dell’indipendenza e dell’autodeterminazione vengono meno nel dibattito delle idee e dei sistemi del mondo ai quali la società aspira.

Paola Posani Curatore

Zacarías García Partecipanti

Palmira Correa Mila Quast César Vázquez Jorge Recio Commissari aggiunti

Reinaldo Landaeta Díaz Tarim Gois Museografo

Servando García Fotografia e montaggio

Carlos Foucault Progettazione grafica

Álvaro Arocha Paz Castillo Redazione e traduzione

Il corpo che è tutt’uno con la casa, quella proiezione del suo essere che, designata come luogo più privato della vita, replica le funzioni biologiche e i delicati comportamenti della nostra psiche. Infine, il corpo come microcosmo, attore della vita e cellula di quella trama in cui l’atto di esistere esige di affrontare le situazioni, risentire dell’azione delle circostanze e delle loro conseguenze, a volte gravoso a causa del fardello delle ferite o dei disagi che la natura e l’essere umano affrontano con saggezza per guadagnare il riscatto, ripristinando abilità sorprendenti quali la creazione, esempio straordinario di riabilitazione e resilienza.

Karla Páez Con il supporto di

Ministerio del Poder Popular para la Cultura Ministerio del Poder Popular para las Relaciones Exteriores Instituto de las Artes de la Imagen y el Espacio Fundación Museos Nacionales Banco Central de Venezuela

Allo stato attuale delle cose, la Terra potrebbe essere il riflesso migliore della metamorfosi che il corpo e la psiche umana stanno subendo, il danno perpetrato dagli esseri umani verso se stessi e nei confronti del pianeta. Ciononostante, possiamo affermare che l’arte e la creazione ci consegnano sogni, illusioni e il bisogno di costruire un mondo migliore. Gli artisti che ci rappresentano sono testimoni di una volontà di riabilitazione attraverso l’arte come disciplina e scelta di vita. La casa de Palmira di Palmira Correa rappresenta il corpo che, giorno dopo giorno, riemerge nella creazione; il corpo come casa, laboratorio e ragion d’essere. Dislexia di Mila Quast e César Vázquez incarna la manifestazione psichica ed emotiva degli esseri in isolamento, determinata dalle circostanze contestuali che ostacolano la creazione. Mentre Suceso de Abril di Jorge Recio dimostra come attraverso l’impegno profuso nei processi di cambiamento e di giustizia sociale, gli eventi possano trasformare la vita e sfidare l’essere umano attraverso il corpo affinché riscopra le proprie capacità e ottenga il riscatto come progetto di vita.

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Jorge Recio, Senza titolo, 2002. 35mm, 36 × 25 cm. Photo e ©Jorge Recio Palmira Correa, Paisaje de Caracas, 2012. Acrilico su tela, 80 × 100 cm. Photo Carlos Foucault. ©Palmira Correa

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Partecipazioni Nazionali


REPUBBLICA DELLO Z I M BA BW E

I D I D N O T L E AV E A S I G N ?

Commissario

I did not leave a sign? Corrisponde alla magica e strana bellezza nell’imprevisto, nel perturbante, disprezzato e non convenzionale, che sono al centro di questa esplorazione di eredità. Ossessionati dallo spettro di un passato che non possiamo scrollarci di dosso, di un presente che non possiamo sopportare e di un futuro che non possiamo più immaginare con sicurezza, sosteniamo l’utilità di ravvivare storie di resistenza e sopravvivenza e di come porci nel cuore del caos.

Raphael Chikukwa – National Gallery of Zimbabwe Curatore

Fadzai Veronica Muchemwa Partecipanti

Wallen Mapondera Ronald Muchatuta Kresiah Mukwazhi Terrence Musekiwa

Questa è una mappa. Accettiamo il dolore come forma di elogio e di celebrazione per ciò che abbiamo perduto e a modo nostro ci addoloriamo senza rammarico. Lasciamo andare il dolore e l’angoscia senza nome e mettiamo da parte momenti di paura infondati. Amiamo e abbracciamo la morte. Accettiamo la morte come nostra grande maestra nella pienezza del vivere in equilibrio. Ci prendiamo cura dei vivi, dei morti, del futuro. Contempliamo questioni gravi in una serie di rituali per comprendere, interrogare, espandere ed estendere le concettualizzazioni di che cosa significa essere vivi e morti. Creiamo semioticamente significato e valore e meditiamo, vediamo e ascoltiamo ciò che le piccole azioni offrono a nuove narrazioni. Questo è un manifesto di amore e crisi. McLuhan ha predetto la violenza sensazionalistica della nostra esistenza attraverso il mezzo che si nutre delle paure e delle insicurezze delle persone: nessun corpo fisico, esseri disincarnati in un rapporto distaccato con il mondo che li circonda. Comprendiamo che la presentazione curata e disincarnata di se stessi dà potere agli agitatori, ma forse più pericolosamente, dà a ciascuno di noi una voce senza richiedere alle persone di vedere il nostro vero sé nelle nostre complessità umane, un contesto senza conseguenze. È criptomnesia. Riflettiamo su come navigare più dei mondi umani in un panorama mediatico disumanizzante e divisivo. Siamo selettivi su quali segni lasciare. Gengis Khan può testimoniarlo. Accettiamo l’invito ad aprire il nostro cuore per prenderci cura dei lasciti. Coltiviamo il luogo per il radicamento della potenzialità, delle vite. Ci chiediamo: dobbiamo arrenderci o trattenerci per ottenere maggiori possibilità di armonia? Quali cambiamenti sono necessari per garantire un futuro migliore a tutti gli altri? Quali storie danno energia e ispirano inclusione, co-creazione, gentilezza, magia, appartenenza e sicurezza? Quali percorsi restituiscono l’esperienza di un legame sacro con la natura e la tecnologia?

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Wallen Mapondera, Next

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Partecipazioni Nazionali


PA D I G L I O N E VENEZIA

A L L O RO

Commissario

Alloro è un viaggio che affronta il cambiamento, la metamorfosi, attraverso la natura e l’arte, che ha inizio nella psiche, in un luogo pulito, quasi asettico, perfetto e si conclude nel calore della madre Terra, un percorso che si compie nel movimento.

Maurizio Carlin Curatore

Giovanna Zabotti Partecipanti

Paolo Fantin, Oφcina Pino Donaggio Goldschmied & Chiari Ottorino De Lucchi Artefici del Nostro Tempo Organizzazione

Comune di Venezia, Direzione Sviluppo, Promozione della Città Tutela delle Tradizioni e del Verde Pubblico Fondaco Italia Partner istituzionali

Fondazione Musei Civici di Venezia Fondazione Teatro La Fenice Università Ca’ Foscari Ve.La, gruppo AVM Comitato scientifico

Marco Mastroianni Leonardo Cruciano e Baburka FX Nicola Ferrari Chiara Grandesso Nicola Picco Lorenzo Poggiali Con il supporto di

Pomellato

Un movimento in cui ogni singolo passaggio è scandito dal ritmo della musica; suoni che non sono un sottofondo, ma che nascono come un’opera. Tra il naturale e l’artificio, tra chi sei e chi vorresti essere, chi puoi diventare. Il movimento nasce nella mente riflessa sulla soglia di mondi enigmatici, sospesi tra l’alchimia e la magia, dove l’occhio si perde nel riconoscere diverse figurazioni stregate, mutanti e immaginarie, mostruose. La mente è libera di vedere, di percepirsi: portali della percezione e dell’immaginazione, immagini speculari che si riflettono tra loro, come specchi e macchie di Rorschach. Un tempio primordiale, l’archetipo, la nascita. Riflessi, percezioni, mutamenti e metamorfosi, parafrasando il filologo Piero Boitani nel suo commento al testo di Ovidio, governate dal “principio della continua trasformazione, perché ‘tutto muta, nulla muore; tutto scorre, e ogni immagine si forma nel movimento’. E per raccontare il divenire come forma più vera dell’essere occorre capacità di vedere i corpi, di ascoltarne le voci e di riprodurle con eco infinita: di comprendere fino in fondo le passioni che si agitano nell’animo di donne uomini dèi e che determinano, insieme al destino e al caso, le esistenze e il mondo”. E il movimento ritmato dalla musica conduce in un viaggio attraverso l’Io, come Dafne, una, nessuna, centomila, che unisce in sé l’aspetto materno e paterno, il suo legame con la terra e il suo essere linfa, liquido vitale: sinonimo di vita, di energia, di forza e di scelta, oggi, domani, per sempre, in eterno. Perché ognuno può scegliere di rinascere. Ed è l’arte che indaga con il suo linguaggio multiforme le fasi del cambiamento, a partire dal libero arbitrio e dalla libertà di scelta, che prendono forma nella pianta di alloro, simbolo di sapienza e di gloria, della vittoria, della fama, del trionfo e dell’onore, ma che pongono le radici nel passato, nell’archetipo, nella mente. I suoi rami, il suo cuore pulsante sono il ponte tra la parte mistica e magica e la parte terrena, materica, naturale e reale dell’oggi proiettata verso la speranza e il futuro.

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Paolo Fantin e Oφcina, Lympha, 2022. Installazione, tecniche miste di iperrealismo. ©Paolo Fantin e Oφcina

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Partecipazioni Nazionali


Goldschmied & Chiari, Doorway, 2022. Stampa su vetro e specchio, cornice oro, 140 cm ø, polittico, 300 × 230 cm, 4 opere 150 × 115 cm ciascuno cornice oro. ©Goldschmied & Chiari

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Ottorino De Lucchi, Best Wishes, 2022. Tecnica mista, colori vinilici e acquerello, foglia d’oro, 40 x 40 cm. © Ottorino De Lucchi

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Partecipazioni Nazionali



EVENT

I

COL

LA

TE

RALI


Alberta Whittle, Lagerah – The Last Born, 2022. Fotogramma – video a canale singolo. Photo Jaryd Niles-Morris. Courtesy l’Artista & Scotland+Venice. ©Alberta Whittle Alberta Whittle, Lagerah – The Last Born, 2022. Fotogramma – video a canale singolo. Photo Matthew Arthur Williams. Courtesy l’Artista & Scotland+Venice. ©Alberta Whittle

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A L B E R TA W H I T T L E : D E E P D I V E ( PA U S E ) U N C O I L I N G M E M O RY SCOTLAND + VENICE

Curatori

La presentazione di Scotland + Venice 2022 è un progetto multi-partner commissionato da Scotland + Venice, avviato da Glasgow International e supportato da Glasgow Life per mezzo di Tramway Partecipante

Alberta Whittle Con il supporto di

Commissionato da Scotland + Venice e co-commissionato e supportato nella produzione da Forma Arts & Media, Londra e Dovecot Studios, Edimburgo Sovvenzionato da

National Lottery attraverso Creative Scotland Sovvenzione aggiuntiva da

The Elephant Trust & Henry Moore Foundation Con supporto produttivo aggiunto da

Art Night, Glasgow Life, Glasgow Sculpture Studios and Visual Identities in Art & Design Research Centre, Faculty of Art, Design & Architecture, University of Johannesburg Scotland + Venice è una partnership con Creative Scotland, British Council Scotland, National Galleries of Scotland, Architecture & Design Scotland, V&A Dundee & Scottish Government Sito web

scotlandandvenice.com

Prendersi del tempo per immaginare e reimmaginare è al cuore del lavoro di Alberta Whittle, e aspetto centrale di deep dive (pause) uncoiling memory. All’interno di un ambiente immersivo l’artista ci incoraggia a rallentare, in modo da poter considerare eredità storiche ed espressioni contemporanee di razzismo, colonialismo e migrazione, e iniziare così a pensare al di fuori di questi ambiti dannosi. In due sale di un ex cantiere navale, Whittle presenta una serie di nuove opere di arazzi, film e sculture, connessi tra loro da un vocabolario condiviso di motivi e idee. Prodotta in collaborazione con una rete di artisti, coreografi e performer, l’installazione rivela diversi livelli di significato attraverso il collage di immagini, materiali e forme, e riafferma la motivazione dell’artista a manifestare autocompassione e cura collettiva come metodi chiave nella lotta contro l’anti-blackness. Entanglement Is More Than Blood, un arazzo di grandi dimensioni, è intriso del ricco simbolismo che l’artista collega a elementi quali acqua, porte, mani, serpenti e conchiglie. Fungendo da portale, l’arazzo continua l’indagine dell’artista sulle nozioni di nascita e morte; trasformazione e immortalità; salute e guarigione. Le immagini riecheggiano nel nuovo, ambizioso film dell’artista: Lagerah – The Last Born, un’opera ancorata alle teorie di abolizione, ribellione, conoscenza ancestrale e amore. Girato in Scozia, Londra e Barbados, con immagini riprese nell’Africa occidentale e a Venezia, il film mette a fuoco la forza delle Black womxn contemporanee. Whittle colloca Black Love in prossimità di siti storici legati al trauma. Gesti, rituali e momenti di intimità sono fortemente sostenuti da una profonda riflessione sul dolore, la perdita e il lutto, promemoria del trauma inflitto al Black body e del privilegio e potere dei bianchi. Il film e l’arazzo sono racchiusi all’interno di strutture simili a cancelli che dividono e contengono gli spazi, evocando recinzioni, barriere o soglie. È all’interno di queste forme scultoree che Whittle ci invita a fermarci, riflettere e ricordare. Scotland + Venice

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Eventi Collaterali


Angela Su, The Magnificent Levitation Act of Lauren O, 2022. Performance per il video. Foto Ka Lam. Video commissionato da M+. Courtesy l’Artista Angela Su, Laden Raven (dettaglio), 2022. Ricamo con capelli su tessuto, 290 × 140 cm Photo Lok Cheng. M+, Hong Kong. Commissionato da M+. Courtesy l’Artista

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A N G E L A S U: A R I S E , H O N G KO N G I N V E N I C E M + , W E S T K O W L O O N C U LT U R A L D I S T R I C T A U T H O R I T Y H O N G KO N G A RT S D E V E L O PM E N T C O U N C I L

Curatore

Freya Chou Partecipante

Angela Su Consulente curatoriale

Ying Kwok Commissari

Lo Chung Wing, Victor Wong Ying Wai, Wilfred Coordinamento a Venezia

Ritenuto uno dei suoi progetti più ambiziosi a oggi, la presentazione di Angela Su durante la 59. Esposizione Internazionale d’Arte intitolata Arise propone una narrazione speculativa intrecciando prospettive immaginarie. L’atto della levitazione funge da metafora organizzativa che riappare in tutte le sculture, immagini in movimento, ricami e installazioni di Su. L’artista veste i panni di svariati alter-ego fittizi per esplorare le molteplici valenze culturali e politiche dell’alzarsi in volo. Levitation tratta di questioni leggere e importanti al tempo stesso; si muove tra un’esperienza corporea viscerale e stati onirici di estasi che trascendono il corpo.

PDG Arte Communications Siti web

2022.vbexhibitions.hk mplus.org.hk hkadc.org.hk

Il fulcro dell’esposizione è un nuovo video intitolato The Magnificent Levitation Act of Lauren O. Questo pseudo-documentario racconta la storia di Lauren O, un personaggio immaginario che crede di poter levitare, e il suo coinvolgimento con Laden Raven, un gruppo di attivisti catalizzato dal movimento americano contro la guerra degli anni ‘60. Il video include found footage ed estratti di una nuova performance dell’artista. Intrecciando realtà e finzione, l’opera suggerisce uno spazio alternativo di azione e disturbo. Tracce di Lauren O e di Laden Raven sono integrate nella costellazione di opere d’arte esposte, invitando il pubblico a compiere un viaggio nel mondo immaginario costruito da Su. Arise è un assemblaggio di diverse espressioni contemporanee volte a mostrare in che modo una persona può affrontare un mondo mutato e mutevole. La finzione ci consente di creare questo mondo ibrido, uno spazio dove abbiamo modo di esplorare idee che non possono essere affrontate direttamente.

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Eventi Collaterali


Rachel Lee Hovnanian, Angels Listening, 2022. Performance, tecnica mista. Photo ©Giovanni Ricci-Novara

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ANGELS LISTENING C E N T R O S T U D I E D O C U M E N TA Z I O N E D E L L A C U LT U R A A R M E N A

Curatore

Annalisa Bugliani Partecipante

Rachel Lee Hovnanian Direttore

Minas Lourian Collaboratori

Rosellen Scaglione Otrakji Gabriele Da Prato Leonardo Gasperetti Fotografo

Giovanni Ricci-Novara

Un’installazione concepita come spazio meditativo per riflettere su tematiche connesse all’identità, alla conoscenza, al tempo e all’esperienza e alle relazioni interpersonali. Elementi fortemente alterati alla luce del distanziamento sociale pandemico e delle derive tecnologico-comunicative a esso connesse, che hanno sancito il definitivo predominio della tecnologia sulla conoscenza e sulla fede, l’esperienza e le relazioni interpersonali, provocando una radicale crisi identitaria. A legare il tutto, un’inevitabile riflessione metalinguistica, sul processo creativo e sul ruolo dell’arte in questa congiuntura storico-sociale. L’angelo è una figura universale, già presente nei testi religiosi zoroastriani e in quelli delle fedi monoteiste, cristianesimo, ebraismo e islam. Figura che condivide la natura umana e quella divina ed è allo stesso tempo al servizio del progresso spirituale dell’essere umano. Sette angeli muti, in bronzo bianco, disposti intorno a un confessionale, che rinunciano a impartire il loro perentorio annuncio all’umanità, per trasformarli in ascoltatori muti. Sette angeli, come sette sono i giorni della settimana, le bande di frequenza dello spettro visibile e sette le unità di misura fondamentali, che servono per avere una comprensione del mondo. Sette sono le stelle più luminose dell’Orsa maggiore e dell’Orsa minore, sette le virtù e le note musicali e sette sono i vizi capitali e i colori dell’arcobaleno. Sette sono i colli di Roma – fulcro della cultura occidentale – e sette è il numero buddista della completezza. Rachel Lee Hovnanian è un’artista, che vive a Miami, la cui pratica multidisciplinare esplora le complessità del femminismo moderno, gli ideali di perfezione e gli effetti spesso dannosi dei media sulla nostra psiche collettiva. La pratica artistica di Hovnanian fonde fotografia, video, scultura, pittura e installazioni per attingere alla propria educazione come donna cresciuta nella cultura del sud degli Stati Uniti, specificatamente a Houston, in Texas. Il suo lavoro approfondisce le usanze sociali radicate che rivelano la dicotomia tra i nostri sistemi di valori intrinseci e il nostro sé pubblico.

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Eventi Collaterali


Katharina Grosse, studio per Apollo, Apollo, 2021. Photo Daniela Görgens. ©Katharina Grosse e VG Bild-Kunst, Bonn, 2022

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A P O L L O, A P O L L O K AT H A R I N A G R O S S E F O U N D AT I O N L O U I S V U I T T O N

Curatore

Claire Staebler Partecipante

Katharina Grosse Sito web

fondationlouisvuitton.fr

Nata in Germania nel 1961, sin dalla fine degli anni Novanta, Katharina Grosse ha cercato di trasformare la propria tecnica pittorica, molto personale, in un potente strumento che potesse contribuire a cambiare il mondo. I suoi interventi, ampi e spettacolari, lasciano sempre un certo spazio alla casualità e indagano sulle potenzialità della pittura ben oltre i limiti di una cornice o di una tela, abbracciando pavimenti, pareti, soffitti, oggetti e interi paesaggi al fine di creare spazi pittorici multidimensionali. Dal 2013, Grosse ha ampliato la propria tecnica stampando fotografie su fondali in tessuto (poliestere e seta). In dialogo dinamico con l’architettura, le sue stampe a parete, in particolare al chi K11 art museum di Shanghai (2018) o più recentemente all’HAM di Helsinki (2021), mostrano immagini legate alla sua pittura, come foto dei suoi dipinti, viste del suo studio o le sue mani immerse nella vernice. Per la mostra all’Espace Louis Vuitton, Katharina Grosse dà nuova dimensione alla fusione tra pittura, stampa e scultura. In uno spazio nero che copre gran parte del pavimento e della parete, Apollo, Apollo offre l’immagine delle mani dell’artista stampate su una maglia metallica, raffigurante il momento in cui i confini tra il corpo e la materia colorata si confondono nell’atto creativo. Nel contesto e nell’immaginario veneziano, dai tessuti Fortuny, ai mosaici Terrazzo, fino all’onnipresenza dell’acqua e dei riflessi, la fluidità della maglia metallica e l’intensità dei colori di Apollo, Apollo assumono una particolare risonanza. La superficie riflette i movimenti dei visitatori e contribuisce a creare un vero effetto a specchio tipicamente veneziano. Tra trasparenza e opacità, lasciando filtrare la luce, Apollo, Apollo si apre a un mondo onirico in cui viene messa in discussione la propria percezione della realtà e dell’illusione.

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Eventi Collaterali


Bosco Sodi, Untitled, 2021-22. 195 sfere di argilla, dimensioni variabili. Dettaglio di una sfera. Foto Sergio Lopéz, 2022. Courtesy l’Artista. ©Bosco Sodi

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BOSCO SODI AT PALAZZO VENDRAMIN GRIMANI. WHAT GOES AROUND COMES AROUND F O N D A Z I O N E D E L L ’A L B E R O D ’ O R O

Curatori

Daniela Ferretti Dakin Hart Partecipante

Bosco Sodi Direttore

Béatrice de Reyniès Organizzazione

Dario Dalla Lana Anne-Sophie Dusselier In June Park Camilla Sironi Assistente dell’Artista

Manuel Ros Comunicazione

Casadorofungher Anna Mistrorigo Molly Taylor Progetto grafico

Tomomot Con il supporto di

Axel Vervoordt Gallery, Antwerp, Hong Kong Kasmin Gallery, New York Sito web

fondazionealberodoro.org

L’idea di installare temporaneamente a Palazzo Vendramin Grimani l’atelier di Bosco Sodi viene dal riconoscimento di alcune affinità elettive tra l’artista e Venezia, la cui forma nasce dall’azione delle acque sulle terre emerse. È su questo ordito mai ortogonale, e sulle fondamenta della vecchia casa-fondaco, che è stata costruita la facciata protorinascimentale, perfettamente inscritta in un quadrato. Nell’arte di Sodi vi è una medesima dialettica tra l’aspirazione a dare forma (una tela quadrata o circolare, una sfera o un cubo di argilla) e l’accettazione delle ragioni degli elementi: ad esempio nelle crepe, nei rigonfiamenti e nelle bruciature dati dall’azione del fuoco sulla terracotta. Egli si pone in ascolto della materia, in un processo creativo che è dialogo sempre aperto, analogo al Kunstwollen che Sergio Bettini, leggendo Proust, riconosce a Venezia: opera d’arte la cui forma non è data “una volta per sempre, ma continuamente si discioglie e si ricompone: e ad ogni istante, si crea di nuovo entro il nostro tempo: proprio per questo, essa non mente”. I dipinti di Bosco Sodi impiegano pigmenti puri come il rosso cocciniglia per il quale Oaxaca, in Messico, è famosa da tempo; lo applica sulla tela senza alcun soggetto che ne preveda l’uso: niente vesti cardinalizie, niente sangue versato da qualche eroe. La materialità molto grezza suoi dipinti e delle sue sculture interroga direttamente le finiture e i raffinati oggetti che costituiscono una parte così importante del patrimonio del palazzo. Gli scarti possono essere materia preziosa per una differente consapevolezza. Sodi è l’ultimo episodio di una lunga serie di alleanze commerciali che questa casa ha stretto. Il palazzo è suo, per un po’, ma come avvicinarvisi? Con quale combinazione di deferenza e assertività un figlio del nuovo mondo “veste i panni” della grande storia del palazzo? Sicuramente non stracciandoli per ricominciare ex novo. Non si entra in una sofisticata famiglia di cinquecento anni con l’intento di demolire. Le complesse eredità globali di queste storie aggiungono indubbiamente al tutto nuove stratificazioni, nuova energia.

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Eventi Collaterali


Lara Fluxà, SILT, 2022. Designer Carles Murillo

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C ATA L O N I A I N V E N I C E _ L L I M INSTITUT RAMON LLULL

Curatore

Oriol Fontdevila Partecipante

Lara Fluxà Collaboratori

Barcelona City Council Government of Catalonia Government of the Balearic Islands Siti web

llull.cat llim.llull.cat

Una pietra che si scioglie ma anche un liquido solido. Il vetro è l’incarnazione dell’ambiguità, per usare le parole del primo viaggiatore ad aver descritto l’industria vetraria veneziana. Si può dire la stessa cosa della città, che vive da secoli in equilibrio precario tra uno stato solido e uno liquido: Venezia sorge sui sedimenti creati dei fiumi che sfociano nella laguna, sotto la minaccia costante di dissolversi nelle acque dell’Adriatico. Llim (limo) si lega con discrezione ai canali e alle canne da soffio, li mette in relazione e, con i suoi circuiti di liquidi, assimila progressivamente gli strati che compongono il luogo. Senza poter distinguere la causa dall’effetto, così come l’interno dall’esterno, Llim si comporta a Venezia come una bottiglia di Klein: è una manifestazione concreta del comportamento viscoso della materia. Il fatto che una città sull’acqua sia diventata nel XIII secolo il centro occidentale della lavorazione del vetro si deve interamente alla viscosità: la proprietà del vetro e dell’acqua di passare in modo reversibile da uno stato all’altro della materia favorisce la collaborazione e la coesistenza dei due elementi. L’acqua ha un potere generatore perché può diventare limo entrando in contatto con la terra. Dal nero fango del Nilo, la terra fertile, viene il termine arabo khemia, alchimia. Nella malleabilità del vetro gli alchimisti hanno trovato una fonte di ispirazione e di conoscenza per la trasmutazione dei metalli umili. Llim non mira a ottenere l’oro o la quintessenza: smuove il fondale di Venezia con la stessa calma con cui metabolizza e restituisce la materia al suo luogo di origine. Orion Fontdevilla

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Eventi Collaterali


Claire Tabouret, L’Errante 1, 2013. Acrilico su tela, 27 × 22 cm. Photo Rebecca Fanuele. Courtesy l’Artista e Almine Rech. ©Claire Tabouret

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C L A I R E TA B O U R E T : I A M S PAC I O U S , SINGING FLESH FA B A F U N D A C I Ó N A L M I N E Y B E R N A R D R U I Z - P I C A S S O PA R A E L A R T E

Curatore

Kathryn Weir Partecipante

Claire Tabouret Assistente del Curatore

Sonia D’Alto Con il supporto di

Almine Rech Sito web

fabarte.org

Claire Tabouret: I am spacious, singing flesh presenta una nuova lettura critica dell’opera dell’artista in una notevole mostra di indagine curata da Kathryn Weir che affronta molteplici trasformazioni: di sé, dell’altro, delle identità collettive, della lotta, della liberazione, del rifugio. Nella mostra si crea anche un inaspettato dialogo con una serie di oggetti devozionali tratti da collezioni archeologiche e liturgiche italiane, invocando un confine ambivalente nella pratica di Tabouret, che apre a temporalità e soggettività multiple attraverso cui considerare relazioni alternative tra gli esseri umani, e tra gli esseri umani e il loro ambiente, in comunicazione con il soprannaturale di fronte alle crisi ecologiche e sociali. Le opere di Tabouret, appartenenti all’ultimo decennio della poliedrica pratica dell’artista, articolano i confini e le fluidità esistenti all’interno della soggettività e delle identità costruite, attraverso pittura, scultura, video e lavori su carta. Soggettività erranti e materialismo magico costituiscono gli assi tematici della mostra. Gradualmente, un potenziale sospeso e un attrito metafisico inscritti nelle opere vengono alla ribalta attraverso associazioni interne ed esterne, materiali e spirituali, visibili e invisibili. Nei mondi amniotici di Tabouret un linguaggio enigmatico di rituali e ripetizioni dispiega misteriosi stati di coscienza e coinvolge l’identità individuale in forze più ampie. Nella mostra, una condizione sdoppiata e multipla del sé viene indagata anche in relazione alla fertilità e alla maternità, in particolare attraverso l’inclusione di due Madri di Capua, celebri sculture ex voto ricavate dal tufo vulcanico nel periodo tra il 500 e il 200 AEV, una presenza magica che introduce una rinnovata connessione materiale alla terra. Processi di incarnazione e trasfigurazione, creature mostruose e inspiegabili, tutto è legato a una miracolosa possibilità di trasformazione. Come ha scritto Hélène Cixous nel Riso della Medusa (1975), “Io sono carne spaziosa che canta: su cui si innesta non si sa quale io; quale maschile o femminile, più o meno umano, ma soprattutto vivo, perché mutevole, io”. Kathryn Weir

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Eventi Collaterali


Eugen Raportoru, Oh, We Loved Role-Playing, Didn’t We, 2022. Particolare dell’installazione. Courtesy Ilina Schileru L’artista multidisciplinare Mihaela Drăgan accanto a The Abduction from the Seraglio, installazione dell’artista Eugen Raportoru, 2022. Courtesy Ilina Schileru

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E U G E N RA P O RT O RU : T H E A B D U C T I O N F RO M T H E S E RAG L I O RO M A WO M E N : P E R F O R M AT I V E S T RAT E G I E S O F R E S I S TA N C E E R I AC E U RO P E A N RO M A I N S T I T U T E F O R A R T S A N D C U LT U R E Curatore

Ilina Schileru Partecipanti

Eugen Raportoru Roma Women, Performative Strategies of Resistance Collaboratori

Ethel Brooks Ioanida Costache Mihaela Drăgan Carmen Gheorghe Delia Grigore Angéla Kóczé Dijana Pavlovic Alina Șerban Con il supporto di

Council of Europe The Alliance for the European Roma Institute for Arts and Culture Open Society Foundations Ministero Federale degli Affari Esteri ERSTE Stiftung Ufficio Nazionale Antidiscriminazioni Razziali (UNAR) Stiftung KAI DIKHAS Institutul Cultural Român (ICR Istituto Romeno di Cultura e Ricerca Umanistica di Venezia Partner

RomaMoMA Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti Siti web

eriac.org eriac.org/Abduction

I L R AT T O D A L S E R R A G L I O Basandosi sul patrimonio delle tre precedenti mostre rom a Venezia, la serie di installazioni dell’artista romaní Eugen Raportoru, The Abduction from the Seraglio, funge da sfaccettata e caleidoscopica capsula del tempo di elementi site-specific che popolano lo spazio domestico rom. Commissionata dall’Istituto Europeo per le Arti e la Cultura dei Rom (ERIAC), la mostra curata da Ilina Schileru ripercorre la storia della crescente presenza dei tappeti orientali nelle famiglie dell’Est Europa. La serie si basa sulla comprensione del significato delle narrazioni che tali oggetti incarnano, nonché sulla loro capacità di informare e riflettere la cultura, la vita e la distribuzione della conoscenza rom.

In quanto finestra su un altro mondo, il tappeto funge da mutevole vettore di significato e possibilità, mentre a un livello più profondo rappresenta una lunga tradizione nell’utilizzo di motivi orientali come veicoli di evasione fantastica. I tappeti fanno riferimento ai racconti orientalizzati dell’Altro, pur essendo letteralmente radicati nelle tradizioni iconografiche occidentali del paesaggio, della natura morta e della pittura di genere. La programmazione, che accompagna Roma Women: Performative Strategies of Resistance, sollecita gli interventi di una rete di collaboratori che esortano il pubblico a scavare nella storia del lavoro anonimo delle donne rom per sostenere la loro cultura e comunità e per onorare l’azione e il potere femminile, abitando mondi di loro creazione. Gli artisti invitano il pubblico a meditare sulla specifica configurazione spazio-temporale dei concetti di identità e storia, ma anche trauma, speranza, corpo e affezione. Puntando una lente d’ingrandimento sulla continua mistificazione, esotismo, femminilizzazione, sessualizzazione e criminalizzazione del corpo rom nella società occidentale, The Abduction invita a interrogarci in maniera critica sui legami tra potere e realismo, violenza e pittoresco. ERIAC

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Eventi Collaterali


Ewa Kuryluk, Theater of Love (particolare), 1986. Acrilico e pennarello su cotone grezzo. ©Ewa Kuryluk

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E WA K U RY L U K I , W H I T E KA N GA RO O S TA R A K FA M I LY F O U N D AT I O N A N N A A N D J E R Z Y S TA R A K

Curatore

Ania Muszyńska Partecipante

Ewa Kuryluk Collaboratori

Elżbieta Dzikowska, Presidente del consiglio della Fondazione Magdalena Marczak-Cerońska Kama Kieremkampt Sito web

starakfoundation.org

Incontrare Ewa Kuryluk significa entrare in contatto con la pienezza dell’umanesimo racchiuso in un’unica persona, un’artista, scrittrice, ricercatrice e viaggiatrice penetrante e sensibile. Piena di curiosità ed empatia, Kuryluk si interessa tanto ai grandi temi che riguardano l’umanità quanto ad argomenti più modesti; alle persone prossime e a quelle lontane, ai vicini e agli stranieri, alle piante, agli animali e al pianeta. È una viaggiatrice stimolante, che esplora i temi più profondi della propria biografia e intimità, ma anche le culture, le lingue, le tradizioni e i simboli. Affascinata dalla diversità e dalla ricchezza del mondo, è consapevole della sua fragilità e della sua più grande debolezza: l’umanità stessa. Racconta la gloria e la malvagità del mondo, a partire dalla sua autobiografia e dalla storia dei suoi cari, testimoni della complessità e della tragedia del secolo scorso. “La mia antenna è orientata verso l’apocalisse e le utopie. [...] Il mio sogno è quello di radicare l’individuo nell’umanità intera, nell’idea di una comunità globale, basata sul rispetto dei bisogni materiali e spirituali di ogni persona”, scrive Ewa Kuryluk in Podróż do granic sztuki (Viaggio ai limiti dell’arte, 1982). Questa esposizione è un incontro con l’artista e con l’intellettuale, un viaggio sulle tracce dei luoghi per lei importanti: Corinto, la “Little Italy” della Varsavia del dopoguerra, la “Little Venice” di Londra, e New York, dove ha abitato per quasi venti anni ed è stata fellow dell’Institute for the Humanities dell’Università di New York tra il 1982 e il 1985. La prosa postmoderna e i saggi eruditi della storica dell’arte lasciano qui spazio a una figlia sensibile, sorella e amante, la cui storia è racchiusa nelle installazioni effimere e personali fatte di tempo, aria e tessuto. Ewa Kuryluk è una delle più importanti artiste polacche contemporanee, conosciuta in tutto il mondo grazie a più di cinquanta mostre personali in Europa, negli Stati Uniti, in America del Sud, Canada e Giappone. Pioniera nelle installazioni tessili effimere, pittrice, fotografa, storica dell’arte, scrittrice e poetessa, i suoi lavori fanno parte di collezioni pubbliche e private in Europa e negli Stati Uniti.

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Eventi Collaterali


Samia Halaby, 911 Venetian Red, 2021. Acrilico su tela, 177,8 × 177,8 cm. Photo Courtesy Samia Halaby

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F R O M PA L E S T I N E W I T H A R T PA L E S T I N E M U S E U M U S

Curatore

Nancy Nesvet Partecipanti

Ghassan Abulaban Hanan Awad Ibrahim Alazza Jacqueline Bejani Karim Abu Shakra Lux Eterna Mohamed Khalil Mohammed Alhaj Nabil Anani Nadia Irshaid Gilbert Nameer Qassim Rania Matar Rula Halawani Salman Abu Sitta Samar Hussaini Samia Halaby Sana Farah Bishara Susan Bushnaq Taqi Sabateen Direttore esecutivo del progetto

Faisal Saleh Con il supporto di

Samar e William Langhorne Leila Bakr Wasef Jabsheh Salwa e Monther Farah Gisele e Maher Nasser Hanan e Farah Munayyer Najwa Jardali Nabila Mango Eman Khadra e Essam Ansari Maha Freij Ronnie Malley Artscope Magazine The Washington Report DaSilva Gallery

From Palestine with Art, promosso dal Palestine Museum US, documenta la ricchezza della tradizionale e contemporanea realtà artistica palestinese. Diciannove artisti di spicco, che attualmente operano in vari media, stili e temi, confermano l’impatto dell’arte palestinese sulla scena mondiale. Posto al centro della mostra su una mappa storica della Palestina, un ulivo custodisce le chiavi delle case dei rifugiati. Abiti storici palestinesi impreziositi di significato simbolico presentano motivi di ricamo tipici di ciascun villaggio. Un’installazione di due gruppi di keffiyah contiene storie scritte di esistenza diasporica. Alle pareti circostanti sono appesi dipinti e fotografie di paesaggi e architetture palestinesi che traggono ispirazione dalla memoria culturale e dall’osservazione diretta. Il fuoco dipinto è accostato ai lussureggianti verdi della vegetazione e agli azzurri del mare. Un ritrattista celebra cineasti, autori, architetti e artisti palestinesi. Le sculture richiamano visivamente percorsi ricordati. La tradizionale musica dello "ūd e della danza dabka che risuona nel cuore di ogni palestinese, così come le voci che recitano storie orali, si aggiungono ai segni, simboli e schemi tradizionali fatti rivivere dalla mostra per un pubblico contemporaneo. L’ottimismo nei colori, la determinazione nei tratti audaci, rivelano al mondo un popolo fiero che prospera e vede la bellezza circostante nonostante lo stato di oppressione e decenni di ingiustizia subìta. L’eredità culturale della Palestina, nella sua ricchezza, conferma un senso del luogo e dell’identità collettiva, ritratta dai suoi artisti, suonata dai suoi musicisti e mostrata affinché il mondo possa ascoltarla e vederla. Nancy Nesvet

Sito web

palestinemuseum.us

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Eventi Collaterali


Aziz Hazara, Bow Echo, 2019. Video digitale a 5 canali, 4’17’’. Courtesy l’Artista. Photo Maksym Bilousov. ©PinchukArtCentre Agata Ingarden, Rescue Dummies, 2021. Finestre di recupero da una palazzina per uffici, video di varia durata, suono, sculture in legno, persiane, costumi, abiti, tessuti, scarpe, imbragature, luci. Courtesy l’Artista. Photo Maksym Bilousov. ©PinchukArtCentre

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F U T U R E G E N E R AT I O N A R T P R I Z E @ VENICE 2022 V I C T O R P I N C H U K F O U N D AT I O N

Curatore

Björn Geldhof Partecipanti

Alex Baczynski-Jenkins Wendimagegn Belete Minia Biabiany Aziz Hazara Ho Rui An Agata Ingarden Rindon Johnson Bronwyn Katz Lap-See Lam Mire Lee Paul Maheke Lindsey Mendick Henrike Naumann Pedro Neves Marques Frida Orupabo Andres Pereira Paz Teresa Solar Trevor Yeung Calla Henkel e Max Pitegoff Yarema Malashchuk e Roman Himey Hannah Quinlan e Rosie Hastings Assistenti del Curatore

Oleksandra Pogrebnyak Daria Shevtsova Con il supporto di

PinchukArtCentre Sito web

pinchukartcentre.org pinchukfund.org

Future Generation Art Prize @ Venice 2022 presenta la sesta edizione del primo premio globale per l’arte con ventuno artisti provenienti da diciotto paesi di quasi tutti i continenti. In un mondo che non fa che precipitare da una crisi all’altra, l’esposizione suggerisce futuri potenziali per una realtà più inclusiva, ingenerata da esperienze passate, nuovi progressi tecnologici e dall’assoluta necessità di cambiare le strategie ecologiche. Ponendo l’enfasi sui flussi globali di manodopera, capitale e tecnologia, la geopolitica diventa un tema imprescindibile. Alcune opere riflettono sulle profonde ferite inflitte da colonizzazione, guerre continue e dal progressivo esaurimento delle risorse naturali, mentre altre esaminano il rapporto tra mondo naturale e spiritualità, proponendo la pratica intangibile dell’arte come strumento con cui le comunità possono prendersi cura l’una dell’altra. Si apre così la strada a proposte di future relazioni interumane e a una mutata visione di ciò che significa essere umani. L’esposizione svela una fragile intimità e tensione nel modo in cui oggi l’identità queer ha le potenzialità per cambiare il nostro mondo. Il Future Generation Art Prize è un premio globale per l’arte contemporanea che ambisce a scoprire e offrire riconoscimento e supporto duraturo a una futura generazione di artisti in tutto il mondo. Istituito dalla Victor Pinchuk Foundation nel 2009, costituisce un importante contributo alla libera partecipazione da parte degli artisti più giovani al dinamico sviluppo culturale di società in transizione globale. Insieme al premio in denaro e all’impegno a commissionare nuove opere, il Future Generation Art Prize incoraggia e rafforza in modo costante una scena artistica globale. Al concorso partecipano, attraverso un bando aperto e una procedura democratica, artisti al di sotto dei trentacinque anni provenienti da tutto il mondo. Per la precedente edizione del premio nel 2021, la rosa finale è stata selezionata da una commissione giudicatrice che ha valutato oltre 11.700 opere presentate da singoli artisti e collettivi provenienti da quasi duecento paesi in cinque continenti.

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Eventi Collaterali


Ha Chong-Hyun, Conjunction 74-24, 1974. Oil on hemp cloth, 200 x 100 cm. Photo Sang Tae Kim. Courtesy the Artist; Kukje Gallery Ha Chong-Hyun, White Paper on Urban Planning, 1967. Olio su tela, 112 × 112 cm. Photo Chunho An. Courtesy l’Artista; Kukje Gallery

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HA CHONG-HYUN K U K J E A R T A N D C U LT U R E F O U N D AT I O N

Curatore

Sunjung Kim Partecipante

Ha Chong-Hyun Coordinamento del progetto

Hyun-Sook Lee Tina Kim Jiwoong Jeong Soyoung Kim Stefano Coletto Sooyoung Choi Produzione e logistica

Kay Park Pia Sofyanti Collaboratori

Third Eye Palazzetto Tito (BLM) Con il supporto di

Kukje Gallery Tina Kim Gallery Sito web

kukjeacf.com

Ha Chong-Hyun è noto soprattutto come un artista Dansaekhwa, tuttavia tale definizione si applica solamente a una parte della sua produzione, dedicata all’esplorazione e alla comprensione dei materiali, in particolare delle loro caratteristiche estetiche e fisiche. Questa retrospettiva include lavori degli ultimi sessant’anni e presenta l’ampia varietà dei metodi di lavoro di Ha, dei materiali utilizzati, nonché la sua incessante passione e l’impegno per una sperimentazione creativa. Ha si forma come pittore e presto diviene uno degli artisti coreani più affermati durante la ricostruzione postbellica. Inizia la sua carriera sviluppando un proprio linguaggio artistico che va oltre i confini della pittura e riflette i suoi ampi interessi per l’ambiente sociale contemporaneo. Dopo la laurea, nel 1959, realizza lavori astratti ricollegabili al movimento informale coreano, ma le sue opere si distinguono dalla corrente principale grazie a un uso particolare di tonalità scure, create attraverso la combustione della tela. Ha riesce a evocare un potente equilibrio tra la raffinatezza estetica e lo spirito cupo di un’epoca ancora oscurata dai traumi bellici. Dopo aver partecipato alla Biennale di Parigi nel 1965, l’artista cambia approccio, esplorando il metodo tradizionale dell’arte decorativa coreana come il motivo dancheong, i colori, la tessitura. Tra il 1969 e il 1973, è membro dell’associazione Avant-Garde e realizza installazioni site-specific. Nello stesso periodo, inizia a creare lavori tridimensionali con oggetti comuni come filo spinato, gesso, legno e giornali. La serie Conjunction nasce nel 1974, rendendolo una figura di spicco del Dansaekhwa; realizza tali lavori premendo la pittura a olio bianca sul retro della tela in modo da far emergere il colore sulla parte frontale. In questo modo, Ha continua a sperimentare, cambia costantemente, innova la sua arte con tecniche e materiali aggiuntivi. La mostra presenta le sue opere, dal periodo informale e AG, fino all’ultima serie Post Conjunction (2010-). Questa esposizione cattura l’infinita energia creativa e sperimentale dell’artista, ma anche il suo ruolo pionieristico nello sviluppo dell’arte coreana contemporanea.

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Eventi Collaterali


Heinz Mack, The Garden of Eden (Chromatic Constellation), 2011. Acrilico su tela, 363 × 600 cm. Photo Weiss-Henseler Werbefotografie. Courtesy Archive Studio Mack Heinz Mack, In Memoriam Berlewi 1924 (Chromatic Constellation), 2000. Acrilico su tela, 215 × 273 cm. Courtesy Archive Studio Mack

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H E I N Z M A C K – V I B R AT I O N O F L I G H T B I B L I O T E C A NA Z I ONA L E M A RC I A NA

Curatore

Manfred Möller Partecipante

Heinz Mack Con il supporto di

Dirk Geuer, Geuer & Geuer Art, Düsseldorf Sito web

bibliotecanazionalemarciana.cultura.gov.it

L ’ E S S E N Z I A L I TÀ D E L L A L U C E Cinquantadue anni fa, Heinz Mack, uno dei più importanti rappresentanti dell’Arte cinetica, rappresentò la Germania alla 35. Esposizione Internazionale d’Arte. Nel 2014 l’artista, che aveva sviluppato il proprio linguaggio nella Light Art degli anni Cinquanta, espose l’installazione The Sky over Nine Columns, composta da nove smisurati pilastri dorati, davanti alla chiesa di San Giorgio Maggiore. Lo scultore e pittore tedesco, che ha compiuto novant’anni nel 2021, torna a Venezia con una mostra personale che presenta un suggestivo spaccato degli ultimi sessant’anni di attività. Attraverso un’imponente installazione nella storica sala del Sansovino della Biblioteca Nazionale Marciana, i monumentali dipinti di Mack, le stele di luce e una scultura a specchio si incontrano con i capolavori di Tiziano, Tintoretto e Veronese. Attraverso le opere di alluminio lucido e acciaio inossidabile che riflettono la luce, lo “spazio atmosferico” con i suoi dipinti rinascimentali viene assorbito e riflesso dalle sculture.

Mack, fondatore con Otto Piene nel 1957del gruppo ZERO, attraverso il principio della rotazione si spinge al limite di ciò che è tecnicamente possibile per smaterializzare la materia stessa, catturando e riflettendo olisticamente la luce attraverso il movimento di oggetti cinetici. La stele, che nell’opera di Mack può essere letta come la rappresentazione dell’uomo in piedi di fronte allo spazio immenso, acquisisce anche una dimensione metafisica, incarnando l’elemento che collega terra e cielo. Pioniere della Land Art, Mack posizionò già nei primi anni Sessanta le sue “opere di luce” e i suoi oggetti in paesaggi naturali incontaminati come il Sahara e l’Artico, con l’obiettivo di esplorare la luce nella sua purezza. La luce che si dispiega nel colore e nella struttura definisce i suoi caratteristici dipinti. Oltre ai formati di grandi dimensioni, principalmente in bianco e nero, in cui il tema della struttura è in primo piano, la mostra presenta anche una monumentale opera a colori intitolata The Garden of Eden. In quanto punto focale della mostra, il tema della luce e della struttura, che Mack ripensa continuamente, culmina in una pittura colorata e travolgente in cui la sequenza ritmica e l’intensità luminosa dello spettro cromatico danno all’opera un carattere enfaticamente contemplativo, che permetterà allo spettatore di comprendere quanto la luce sia essenziale per la nostra esistenza e per la conservazione della vita sulla terra. Janine Campbell-John

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Eventi Collaterali


Esposizioni di Taiwan, 1995-2019

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IMPOSSIBLE DREAMS TA I P E I F I N E A R T S M U S E U M O F TA I WA N

Organizzatore del Forum

Patrick Flores Con il supporto di

Ministero della Cultura di Taiwan Ministero degli Affari Esteri di Taiwan Taipei City Government Department of Cultural Affairs, Taipei City Government Sito web

tfam.museum

I sogni sono contenitori e visioni che complicano il tempo e le dimensioni; essi prevedono la possibilità di passare dalla realtà alla fantasia, dallo stato di coscienza alla sfera dell’inconscio e, in ultima analisi, liberano l’immaginazione. Allo stesso tempo, i sogni amplificano le paure, ripercorrono il dolore e le ansie, narrano nuovamente storie dalle origini straordinarie. La mostra affronta sia le tensioni sia i rischi derivanti dal trovarsi in altri mondi e diventare altro da sé. Impossible Dreams prende atto delle costrizioni scaturite dalla crisi imperante e, al contempo, mira alla realizzazione di una possibilità. Impossibile significa “non ancora possibile”, la descrizione di una condizione e della speranza di cose, persone e mondi futuri migliori. Come i sogni che emergono dai traumi, da corpi e spiriti che spaziano all’interno di differenti universi, questo progetto è un’opera della memoria e del confronto dialettico. Fin dall’inaugurazione della prima mostra avvenuta il 21 aprile 1995 in occasione della 46. Esposizione Internazionale d’Arte presso il Palazzo delle Prigioni, Taiwan ha organizzato tredici eventi che testimoniano una presenza solida e stimolante. In un pianeta in trasformazione, mortificato dalla pandemia e scandito da ritmi più pacati, il 2022 mette in pausa gli sforzi per lasciare spazio a una serie di opere taiwanesi già esposte alle precedenti Biennali di Venezia. Nella fattispecie, la collezione propone una riflessione sulla presentazione di contesti cruciali e prospettive culturali taiwanesi attraverso un’ampia panoramica dell’arte contemporanea, che offre una risposta brillante e risoluta alle istanze storiche, sociali e della vita quotidiana. È giunto il momento di raccogliere. Raccogliere i segni dei tempi. La mostra si snoda in due sezioni rispettivamente suddivise in un allestimento d’archivio e in un evento pubblico. Entrambe progettate per essere percorse come piattaforme che interagiscono e dialogano reciprocamente, ognuna delle due sezioni è stimolata dal materiale dell’altra. Lungi dall’essere iniziative curatoriali a sé stanti, esse si pongono come punto di incontro tra memoria (l’archivio) e presenza (l’evento), entrambe a sostegno della fiducia nel futuro. Se l’archivio diventa un evento estetico, l’evento diventa un archivio deliberativo. L’evento è un dinamico seminario di gesti performativi (dal dialogo agli interventi artistici), mentre l’archivio racchiude oggetti enigmatici (dalle opere d’arte alla performance). Tanto l’archivio quanto lo scambio discorsivo ruotano attorno ai seguenti quesiti e interessi: “Cosa definisce un padiglione? Qual è il ruolo di un padiglione?”, “Tempo, corpo, tecnologia”, “Ecologie della storia”, e “Libertà altrui/Altre libertà”.

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Eventi Collaterali


Kehinde Wiley, Sleep, 2008. Olio su tela, 335,28 × 762 cm. Courtesy Rubell Museum, Miami. ©Kehinde Wiley Kehinde Wiley, The Lamentation, 2016. Olio su tela, 243,84 × 487,68 cm. Courtesy Galerie Templon, Paris-Brussels. ©Kehinde Wiley

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K E H I N D E W I L E Y: A N A R C H A E O L O G Y OF SILENCE M U S É E D ’ O R S AY

Curatore

Christophe Leribault Partecipante

Kehinde Wiley Con il supporto di

GalerieTemplon Sito web

musee-orsay.fr

Kehinde Wiley: An Archaeology of Silence è una riflessione sulle brutalità del passato coloniale statunitense e mondiale attraverso il linguaggio dell’eroe caduto. L’esposizione comprende una raccolta di nuovi dipinti e sculture monumentali che ampliano il corpus Down del 2008. Ispiratosi inizialmente al Corpo di Cristo morto nella tomba di Holbein e a dipinti storici e sculture di guerrieri caduti o di figure in uno stato di riposo, Wiley realizza un’inquietante serie di corpi di persone nere in posizione prona, rielaborando così forme pittoriche classiche per creare una versione contemporanea della ritrattistica monumentale, in cui risuonano violenza, dolore e morte, ma anche estasi. In questo nuovo lavoro, Wiley approfondisce gli elementi tematici centrali di Down per riflettere sugli omicidi, in tutto il mondo, di giovani uomini neri. La tecnologia attuale consente agli osservatori di assistere a queste esplicite raffigurazioni della violenza contro il corpo dei neri che in passato erano state poste sotto silenzio. “È questa l’archeologia che cerco di disseppellire: lo spettro della violenza della polizia e del controllo dello Stato sui corpi di giovani di colore in tutto il mondo”, afferma Wiley. I nuovi ritratti raffigurano giovani uomini e donne neri in posizioni di vulnerabilità, a raccontare una storia di sopravvivenza e resilienza, rivelando la bellezza che può emergere dall’orrore. Le pose, mutuate da fonti storico-artistiche della tradizione dell’Europa Occidentale, fungono da splendide elegie in cui riecheggia una metafora centrale di gioventù e forza d’animo, e si presentano come monumenti alla capacità di resistenza e perseveranza di fronte alla ferocia, sfruttando una scala che si spinge oltre la mera corporeità per portarsi nella dimensione delle icone spirituali, dei martiri e dei santi. L’esposizione è curata da Christophe Leribault, presidente del Musée d’Orsay e del Musée de l’Orangerie.

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Eventi Collaterali


Lita Albuquerque, Najma Returns, 2021. Performance alla piana di Giza. Photo Rochelle Fabb. Courtesy immagine l’Artista

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L I TA A L B U Q U E R Q U E : L I Q U I D L I G H T BARD O LA

Curatori

Elizabeta Betinski Neville Wakefield Partecipanti

Lita Albuquerque Con il supporto di

Compound, Long Beach, California Kohn Gallery, Los Angeles, California Peter Blake Gallery, Laguna Beach, California Sito web

bardoLA.org

Il mondo immaginario di un paesaggio ibridato in cui scienza e finzione si fondono e agiscono sul corpo, sia fisico sia politico, per trasformare il regno del possibile è il tema dell’evento collaterale Liquid Light dell’artista losangelina Lita Albuquerque. L’astronauta del XXV secolo del film di Albuquerque trasporta una conoscenza ultraterrena attraverso i piani del celeste e del terrestre. La sua è una soggettività che si costituisce nello spazio, tra i recessi più remoti dell’immaginazione e la terra traumatizzata che le capita di scoprire. Il mondo che incontra è fatto di sale e miele; lì, i valori curativi degli opposti, radicati nelle loro storie più profonde di scambio e commercio, sono preservati come proiezione e mito. Come per i mercanti che arrivavano nella Venezia di un tempo, o i turisti che vi approdano oggi, è un incontro di stupore e preoccupazione: stupore per ciò che è sopravvissuto alla corruzione del tempo e preoccupazione per la sua continua sopravvivenza. Rispecchiando lo stato intermedio in cui si trova oggi l’umanità, anche l’eroina di Albuquerque è intrappolata tra la luce e l’oscurità, incapace di evitare una metamorfosi innescata dalla propria iniziale incapacità di comunicare la poetica dell’armonia cosmica agli abitanti della Terra. Amalgama di iconografia, storia personale e paesaggi emotivi che incarnano una mitologia profondamente personale, il film di Albuquerque viene esposto come un’installazione video trittico, che immerge lo spettatore nel viaggio della protagonista. Girato in Bolivia e montato e prodotto a Los Angeles, il film è esposto a Venezia di concerto con le componenti dell’installazione provenienti e create in loco in collaborazione con veneziani, dai soffiatori di vetro e artigiani, agli apicoltori e agricoltori. Acquistando materiali localmente, a Venezia e in Veneto, Albuquerque e bardoLA intendono essere parte della soluzione al problema rappresentato dalla notevole impronta di carbonio creata in nome dell’esposizione artistica e sostenere la comunità locale nei suoi sforzi verso un futuro sostenibile. L’installazione Liquid Light è quindi un’estensione simbolica della missione in nome della quale l’eroina di Albuquerque si sacrifica: riconnettere l’umanità alle nostre origini celesti che contengono il nostro pianeta, la Terra.

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Eventi Collaterali


Lynn Gilbert, Ritratto di Louise Nevelson, 1980. Photo ©Lynn Gilbert

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LOUISE NEVELSON. PERSISTENCE T H E L O U I S E N E V E L S O N F O U N D AT I O N

Curatore

Julia Bryan-Wilson Partecipante

Louise Nevelson Con il supporto di

Pace Gallery Galleria Gió Marconi

Presentata in occasione del sessantesimo anniversario dell’esposizione di Louise Nevelson nel padiglione americano alla 31. Esposizione Internazionale d’Arte, questa mostra si concentra sulla pratica che ha segnato il contributo più importante della Nevelson all’arte del Novecento: l’assemblage. La rassegna sottolinea la straordinaria capacità dell’artista di assemblare materiali diversi e riunisce oltre sessanta opere, trent’anni del suo lavoro: le celebri, monumentali sculture nere da muro, ma anche i meno conosciuti collage realizzati con materiali quotidiani come pagine di giornale, lastre di metallo, cartone, alluminio, carta vetrata, tessuto. Insieme, questi lavori dimostrano una notevole persistenza dell’impegno della Nevelson: da una parte sulla sua estetica decisa, dall’altra sull’etica del riutilizzo. Il titolo della mostra allude anche allo status unico della Nevelson tra le figure più influenti della storia dell’arte moderna. In un saggio pubblicato lo stesso anno della Biennale, la critica italiana Carla Lonzi, che più avanti sarebbe diventata un’importante attivista femminista, descriveva “la presenza nuova, proliferante, di un’ambiguità tutta femminile” nel lavoro della Nevelson. L’artista stessa descriveva il suo lavoro con termini ugualmente connotati dal genere, spiegando che “la parola creazione è come la terra, i vulcani, una madre con i dolori del parto…” L’uso che la Nevelson faceva di oggetti umili, scartabili – e il suo riqualificare oggetti familiari come testate di letti, scope, sedie, palette – evocava la sfera domestica, ma ha avuto anche una speciale risonanza in Italia negli anni Sessanta, durante l’emergere dell’Arte Povera. Oggi, Louise Nevelson è ampiamente riconosciuta come la genitrice di molte artiste femministe il cui lavoro rimette in uso oggetti domestici recuperati. Nonostante la ricezione critica dei suoi ambienti esposti nel padiglione americano sia stata ambivalente, la Biennale del 1962 ha segnato un punto di svolta nella carriera dell’artista. Tornare a riflettere su quell’evento sessant’anni dopo ci dà la possibilità di ripensare l’uso pionieristico che fece degli ambienti spaziali immersivi e di oggetti tradizionalmente considerati “di genere”. Disposta in modo non cronologico, a sottolineare piuttosto la continuità interna alla sua pratica di assemblaggio, Persistence riafferma la rilevanza del lavoro di Louise Nevelson per il pubblico contemporaneo. Julia Bryan-Wilson

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Eventi Collaterali


Antony Gormley, Model Model 5, 2022. Acciaio Corten da 3 mm, 19,7 × 51,5 × 122,5 cm. Photo Stephen White, London. ©Antony Gormley Lucio Fontana, Scultura spaziale, 1947. Bronzo, 56 × 52 × 27 cm. Collezione privata. Courtesy Loris Barbano

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L U C I O F O N TA N A / A N T O N Y G O R M L E Y ASSO CIAZIONE ARTE CONTINUA

Curatore

Luca Massimo Barbero Partecipanti

Lucio Fontana Antony Gormely Con il supporto di

B17 GALLERIA CONTINUA In collaborazione con

Fondazione Lucio Fontana FAI – Fondo per l’Ambiente Italiano

Lucio Fontana / Antony Gormley è una mostra costruita su una serrata, selettiva conversazione tra lavori che guardano all’implicazione di luce, spazio e assenza per entrambi gli artisti. Una selezione di disegni realizzati da Lucio Fontana tra il 1946 e il 1968 e una serie di opere su carta e quaderni di disegni che percorrono tutti gli aspetti della ricerca di Antony Gormley, insieme alla presenza di alcune sculture di entrambi gli autori. Tanto nella loro dimensione bidimensionale quanto in quella tridimensionale, il loro lavoro “abita” lo spazio e l’attenzione si sposta dall’oggetto nello spazio allo spazio stesso. Lo spettatore interagisce con l’opera, colma il vuoto che la circonda. Ogni singolo lavoro porta con sé la traccia della realtà del momento in cui il gesto, sia esso scultoreo o grafico, sprigiona la tensione energetica contenuta nella sua stessa esecuzione. Il segno diventa dunque anche una registrazione del tempo. Fontana e Gormley esprimono scultura al di là del tempo. Nelle opere di Lucio Fontana lo spazio diviene un luogo atemporale e astorico. “[...] io buco; passa l’infinito di lì, passa la luce, non c’è bisogno di dipingere [...] invece tutti hanno pensato che io volessi distruggere: ma non è vero io ho costruito, non distrutto” (Lucio Fontana). Segno e corpo dialogano intimamente nel percorso concettuale che sostiene la ricerca di Antony Gormley e che conduce alla totale rottura dei confini imposti tra il dentro e il fuori, lo spazio e il tempo. “Possiamo pensare ai nostri corpi meno come oggetti e più come luoghi, cos’è uno spazio umano in uno spazio, e – se pensiamo a noi stessi come a corpi abitati nello spazio – qual è il nostro contesto?” (Antony Gormley). Pensata come un dialogo tra la complessità del segno nell’opera del fondatore del movimento spazialista, qui rappresentato con rare sculture degli anni Trenta, e la relazione tra spazio e corpo nel lavoro di uno tra i più noti scultori-ricercatori del nostro secolo, la mostra Lucio Fontana / Antony Gormley ha anche un terzo elemento: il rapporto dell’opera con lo spazio espositivo. Per l’occasione, il curatore Luca Massimo Barbero e lo scultore inglese Antony Gormley hanno creato un’installazione in puntuale rapporto e dialogo con il Negozio Olivetti, realizzato da Carlo Scarpa nel 1958: le strutture e il ritmo dell’impianto architettonico creati dal grande architetto in relazione diretta con le opere.

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Eventi Collaterali


Kamal Sabran, Kelas Tidur, 2020. Performance. Foto Mhd Sany Mhd Hanif. Courtesy l’Artista. ©Kamal Sabran Kapallorek Artspace, Karoog Kiha Nyep, 2022. Fotogramma da video HD, 15’ in loop. Photo Ronnie Bahari. Courtesy the Artist. ©Kapallorek Artspace

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P E R A + F L O R A + FA U N A T H E S T O RY O F I N D I G E N O U S N E S S A N D T H E O W N E R S H I P O F H I S T O RY P ORT PEOPLE OF REMARKABLE TA L E N T S

Curatori

Amir Zainorin Khaled Ramadan Partecipanti

Azizan Paiman Kamal Sabran Kapallorek Artspace Kim Ng Projek Rabak Saiful Razman Stefano Cagol

I L P O S S E S S O D E L L ’ I N D I G E N E I TÀ E L A C O S T R U Z I O N E S O C I A L E D E L L A N AT U R A Natura: è possibile che sia solo uno

stato d’animo? Un sogno, un’idea ereditata da qualcuno che è venuto prima, un’idea per relazionarsi con chi verrà dopo? Ciò potrebbe dipendere dalla costruzione sociale della natura. Reinterpretare la storia dell’indigeneità e la storia naturale in relazione all’etica e all’estetica richiede uno sguardo più ravvicinato alla relazione attuale tra uomo e natura. Alcuni potrebbero persino sostenere che l’estetica della bellezza naturale possa diventare una guida al comportamento etico-sociale e portare allo sviluppo di un’identità culturale migliore.

Collaboratori

Aida Redza Ronnie Bahari Consulente curatoriale

Alfredo Cramerotti Curatori associati

Annie Jael Kwan Camilla Boemio Con il supporto di

Perak State Government, Malaysia Ministero del Turismo, Arti e Cultura della Malaysia National Art Gallery Malaysia Tourism Malaysia Tourism Perak Universiti Sains Malaysia Universiti Teknologi MARA Danish Arts Foundation MUSE Museo delle Scienze di Trento Provincia Autonoma di Trento Laterna Magica Museum, Denmark Chamber of Public Secrets George Town Festival 2022 Jambatan UOB Malaysia Art Events RogueArt Progetto realizzato per conto di

Perak State Government, Ipoh, Perak, Malaysia Commissario

Nur Hanim Mohamed Khairuddin Sito web

portipoh.com.my

In Art of Darkness : The Aestheticization of Black People in Fascist Colonial Novels, Rosetta Giuliani Caponetto sostiene che l’estetizzazione delle popolazioni autoctone e la produzione propagandistica di fotografie, disegni e resoconti scritti, soprattutto dei nativi africani, indichino che il colonialismo aveva trovato un potente strumento per catturare l’immaginazione occidentale rappresentando l’indigeno come un fantasma oscuro da conquistare. Tali narrazioni e raffigurazioni continuano a influenzare la percezione dell’indigeneità. Pertanto, afferrare e rappresentare la natura per come essa è vista e compresa nei contesti indigeni e riscrivere le storie degli indigeni indipendentemente dalla coscienza sociopolitica occidentale tradizionale è ancora un sogno irrealizzabile. Rimarrà dunque solo una possibilità teorica o una visione romantica futuristica? L’estetizzazione globale delle nozioni di popolo indigeno e indigeneità si esprimono in modi diversi. Non esiste un accordo consensuale su come documentare, archiviare o esporre eticamente o esteticamente la narrazione storica delle popolazioni indigene in tutto il mondo, inclusa la Malaysia. Le popolazioni indigene possono sfidare la storia tradizionale, scritta dai non indigeni? Sono libere di rivendicare collettivamente “la propria storia e le proprie narrazioni”, opponendosi al discorso dominante? La pratica dell’indigeneità può fornire strategie che resistono o rifiutano la violenza omogeneizzante o divisiva degli Stati-nazione? Pera + Flora + Fauna intende affrontare queste domande attingendo alle diverse prospettive dell’uomo, della natura e della loro interrelazione. Amir Zainorin, Khaled Ramadan

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Eventi Collaterali


Wenhua Dai, Ode to the Nymph of the Luo River, inchiostro a colori, rotolo di carta, 2021. Spruzzi di inchiostro su un lungo rotolo di carta di riso cinese tradizionale artigianale, 11 × 3,3 m. Photo Wenhua Dai. Courtesy Huacai Art Museum Wenhua Dai, With the Immutability of the Absolute, calligrafia e suono, 2021. Costruzione, 2 × 3,5 m. Photo Wenhua Dai. Courtesy Huacai Art Museum

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R O A D O F FA I T H F O N D A Z I O N E E M G D O TA R T

Curatore e Partecipante

Wenhua Dai Con il supporto di

Beijing Yixin Huacai shimmer Technology, Beijing HUA CAI ART MUSEUM, Beijing Thoth Hub Innovation Center, Shenzhen Musashino Art, Tokyo Academy of fine arts, University of Barcelona Sito web

emgdotart.org

A P R I T E I L M O N D O, L E P E R S O N E S O N O D I S P O S T E A C A M M I N A R E I N S I E M E Road of Faith è basata sull’esperienza

personale di Wenhua nel mondo. Si tratta di un percorso di risveglio nella scienza, nella filosofia e nell’arte, dove l’esistenza delle persone passa dall’affidarsi all’intuito all’opporre resistenza al controllo del desiderio primitivo e della sfera divina, dall’essere fatti al fare, dal prendere al dare. Ocean Bloom, Ode to the Nymph of the Luo River, e With the Immutability of the Absolute sono le tre sezioni che compongono la mostra intrecciandosi al tema de Il Latte dei Sogni e connesse a quest’ultimo attraverso la trasformazione del corpo, la dimensione umana e tecnologica, il genere umano e la Terra. In una certa misura, si tratta dello scambio e della promozione reciproca delle concezioni umanistiche tra Oriente e Occidente. Ocean Bloom è un’opera di intuizione. Carta di riso, pennello, inchiostro, feltro, fango e sabbia, così come musica originale, inchiostro a colori e immagini diventano un tutt’uno, in una combinazione di materiali rivelatrice dello stato più naturale della “deformazione”. L’opera letteraria ispirata al classico cinese Ci Fu (un componimento letterario, sentimentale o descrittivo, spesso in rima) Ode to the Nymph of the Luo River viene presentata con inchiostro a colori e tecnologia VR. Nel passaggio da due a tre dimensioni, supportato da una musica originale contenente fonemi dell’opera cinese e dell’opera occidentale che fungono da guida, il pubblico è in grado di percepire l’incessante conflitto e la lotta tra gli esseri umani e la loro avidità nel ciclo della reincarnazione. La scultura sonora e la tecnica dell’inchiostro ad acqua consentono al pubblico di muoversi nello spazio onirico e meditativo percependo tanto l’immutabilità quanto l’indistruttibilità. Wenhua ritiene che la bellezza priva di pensiero sia vuota. Veramente attraenti sono l’intensità del pensiero, la purezza di cuore e la spontaneità d’animo degli artisti. Nell’Oriente moderno, le mostre d’arte raramente integrano una molteplicità di presentazioni artistiche in un unico evento, mentre Dai Wenhua ci mostra un’altra possibilità. L’uguaglianza delle arti e degli esseri umani rivela le infinite forme della consapevolezza e della fede umana. Questa è anche la strada “suprema” verso la quale il mondo ci conduce. Il concetto curatoriale e il tempo di realizzazione delle opere vedranno l’epilogo perfetto l’ultimo giorno della Mostra. Wenhua Dai

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Eventi Collaterali


Rony Plesl, Trees Grow from the Sky, 2022. Cristallo fuso, 215-225 × ø 80 cm. Photo Petr Krejci. © Rony Plesl

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R O N Y P L E S L : T R E E S G R O W F R O M T H E S KY H O US E O F A RT C E S K E B U D E J OV I C E

Curatore

Lucie Drdova Partecipante

Rony Plesl Con il supporto di

PPF Foundation, Repubblica Ceca Ministero della Cultura della Repubblica Ceca

Rony Plesl si colloca tra i migliori artisti del mondo nel campo della scultura in vetro. La sua opera nasce da una profonda conoscenza del mestiere vetrario di qualità e da un amore profondo per la materia ambigua del vetro. Affascinato dalla sua incessante metamorfosi, Plesl ne ricerca la forma naturale, servendosi di tecnologie altamente innovative. La sua installazione veneziana presenta in anteprima mondiale una tecnologia di colata che permette di realizzare sculture senza alcuna limitazione.

Siti web

dumumenicb.cz ronypleslbiennale.com

Per questa mostra, l’artista ha scelto la chiesa di Santa Maria della Visitazione, fondendo il carattere sublime delle sculture in vetro con la purezza di uno spazio rinascimentale. Indagando l’essenza dell’esistenza umana, ci guida mentre cerchiamo la nostra strada nel mondo odierno. La costellazione di tre alberi verticali al centro della navata allude alla tesi francescana della complementarietà tra natura e uomo, ma anche a un’immaginaria rappresentazione del corpo umano. I tronchi di cristallo puro sono autentiche impronte di alberi vivi, di dimensioni maggiori del naturale. La perfezione della corteccia è accentuata dal carattere aptico del materiale, mentre la superficie luminosa e traslucida invita a guardare dentro, incoraggiando a interpretare: un viaggio immaginario attraverso un paesaggio, un’esplorazione della vera natura delle cose. L’ultimo albero si trova più in fondo nella chiesa, un’intersezione orizzontale dell’ambiente. La corteccia è costituita da figure umane, l’intero tronco è ricoperto da un bassorilievo di corpi di Gesù Cristo. In uno scenario onirico e surreale, l’oggetto in lucente vetro all’uranio color smeraldo ricorda un’antica colonna. La sua forma naturale che si fonde con i corpi moltiplicati del Figlio di Dio è esistenziale rispetto alla storia umana. Il genius loci rimanda al Rinascimento, che ha ravvivato l’interesse per l’individualità dell’uomo, per la scienza e le discipline artistiche. Domande essenziali sull’esistenza umana sembrano trasparire dalle pareti dei monoliti di vetro, e la loro urgenza è amplificata dallo spirito dello spazio sacro. L’installazione induce a un momento di pura quiete. Attraverso la contemplazione e l’introspezione, ci porta a una visione genuina e coraggiosa di noi stessi. Questo è ciò che l’artista ha cercato di creare, guidandoci verso la solitudine nella totale libertà mentale.

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Eventi Collaterali


Stanley Whitney, Here and There, 2001. Olio su lino, 136,5 × 152,4 cm. Courtesy Lisson Gallery. ©Stanley Whitney

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S TA N L E Y W H I T N E Y: T H E I TA L I A N PA I N T I N G S B U F FA L O A K G A R T M U S E U M

Curatori

Cathleen Chaffee Vincenzo de Bellis Partecipante

Stanley Whitney Con il supporto di

È dalla metà degli anni Settanta che il virtuosistico pittore astratto Stanley Whitney esplora le possibilità formali del colore all’interno di griglie in perenne evoluzione di blocchi policromi e campi gestuali. Tuttavia, tra il 1972 e il 1989, Whitney ha tenuto una sola mostra personale a New York; non era un momento facile, per un artista astratto di colore, trovare un posto nel mondo dell’arte di New York.

Lisson Gallery Sito web

buffaloakg.org

Roma, dove Whitney e la compagna Marina Adams si trasferirono nel 1992, fornì una via di fuga da quella scena, e l’arte e l’architettura italiane divennero presto palpabili nella sua astrazione. Ad esempio, ispirato dalla costruzione del Foro e del Colosseo, Whitney iniziò a comprimere lo spazio tra i blocchi di colore nei suoi dipinti. La compattezza di queste composizioni annunciò una direzione davvero nuova e l’artista iniziò a creare i dipinti a fitte griglie che continua a realizzare ancora oggi, opere caratterizzate da geometrie architettoniche, pennellate spontanee e giustapposizioni di colore infinitamente variabili. Dagli anni Novanta, Whitney ha uno studio fuori Parma e anche il ritmo di quella regione è diventato parte fondamentale, benché non del tutto riconosciuta, della sua pratica creativa. La mostra, curata da Cathleen Chaffee e Vincenzo de Bellis, è la prima a esaminare l’influenza dell’arte e dell’architettura italiane sulla pittura di Whitney. Comprende i dipinti in scala monumentale degli anni Novanta, che dimostrano la trasformazione prodotta dai suoi primi anni a Roma, e una rassegna di dipinti degli ultimi vent’anni, caratterizzati dal flusso estemporaneo e dalla sperimentazione operata dall’artista all’interno delle realtà di strutture geometriche simili. L’installazione comprende anche un importante gruppo di piccoli dipinti, disegni a inchiostro e gouaches su carta, e una selezione di taccuini dell’artista relativi al periodo trascorso in Italia.

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Eventi Collaterali


Francesca Leone, Space 1 (particolare), 2021. Olio su lamiera di recupero, dimensioni variabili. Photo Sebastiano Luciano. Courtesy l’Artista

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TA K E Y O U R T I M E N O M A S F O U N D AT I O N

Curatore

Danilo Eccher Partecipante

Francesca Leone Editor della Giornata della Ricerca

Raffaella Frascarelli Formazione in mediazione culturale e artistica

Raffaella Frascarelli Elisa Genovesi Con il supporto di

Allianz Bank Financial Advisor Dante&Associati F.P.A. Finanza – Previdenza – Assicurazioni Sito web

nomasfoundation.com

È al concetto di Tempo che Francesca Leone rivolge, con queste opere, il suo sguardo: è il tempo della ruggine che si ossida sul metallo, lo graffia, lo scalfisce, è su questa pelle che il colore accarezza le cicatrici, indica le espressioni, cura le ferite. Sono lamiere che conservano tracce della loro memoria, ricordi fatti di lavoro, fatica, sofferenza, forse anche dolore. Ogni graffio, ogni lacerazione, ogni piega sussurra un proprio racconto, offre allo sguardo l’immagine simbolica di un accadimento che si è perso nell’abbraccio del tempo. L’artista interviene in questo abbraccio, insinua delicatamente il colore, confonde la ruggine, copre le ferite, adagia il proprio racconto su quello della materia. È in questo dialogo di memorie che Francesca Leone costruisce la propria visionarietà narrativa, è in questa sospesa dimensione che la violenza rude delle lamiere piega il proprio corpo nell’immagine di rose sofferenti e malate. Ecco allora che lo sgomento per questo contrasto, per la contraddizione, il conflitto, impone di alzare lo sguardo oltre l’apparenza per lasciar affiorare un firmamento colorato di rifiuti, di scarti, di rimasugli che incombono sulla nostra realtà. Una Natura dolorosa che chiede una pausa, come sussurrano queste opere che invitano a fermarsi, trattenere il respiro, concedere tempo ai propri pensieri, lasciare affiorare i propri sogni. “Prendersi il proprio tempo”, significa concedersi il privilegio dello sguardo, la ricchezza del pensiero, la nobiltà di una pausa, significa dare il tempo all’arte per scrivere il proprio racconto. Una sospensione che l’artista si è concessa nella scelta del colore e nel controllo del gesto. In una quotidianità distratta e superficiale, la cui frenesia pare travolgere ogni pensiero, le cui immagini appaiono mute, la cui storia sembra abbia perso memoria, abbracciare il proprio tempo può risultare un atto rivoluzionario, un gesto rivoltoso dal quale far scaturire un nuovo pensiero utopico, una nuova visionarietà politica, un nuovo incanto. Danilo Eccher

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Eventi Collaterali


Chun Kwang Young, Aggregation 03-BJ001, 2003. Tecnica mista con carta di gelso coreana,Ø 450 cm. Photo e © Chun Kwang Young Chun Kwang Young, Aggregation09-D071Blue, 2009. Tecnica mista con carta di gelso coreana, 113x195 cm. Photo Choi Jun. © CKY STUDIO

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T I M E S R E I M A G I N E D : C H U N KWA N G Y O U N G B O G H O S S I A N F O U N D AT I O N

Curatore

Yongwoo Lee Consulente del Curatore

Manuela Lucà-Dazio Partecipanti

Chun Kwang Young Stefano Boeri Con il supporto di

Museum Ground Interart Channel Sito web

timesreimagined.com

Times Reimagined è un laboratorio estetico di Chun Kwang Young, artista che da circa trent’anni lavora sul tema dell’interconnessione tra esseri viventi e su quello dei valori socio-ecologici delle loro relazioni. In ecologia, l’interconnessione è un fattore assoluto per la riproduzione e la sopravvivenza di tutti gli esseri viventi, compresi gli umani, e rappresenta un elemento essenziale per garantire la biodiversità e migliorare la sostenibilità in condizioni avverse quali, ad esempio, il cambiamento climatico. Usata come mezzo principale dall’artista, la carta hanji (carta di gelso coreano) è un emblema di riproduzione e circolazione ecologica, che resiste al tempo e ridefinisce il concetto di ciclo vitale. Chun Kwang Young lo ha plasmato in creature metamorfotiche che rievocano esseri viventi o scene spettacolari dotate di simbolismo storico e culturale. In particolare, la carta utilizzata non è stata prodotta in serie, ma è un solido prodotto artigianale originato dagli alberi di gelso, che incarna un patrimonio culturale fermentato per diverse centinaia di anni. La carta vissuta nel tempo in forma di libri portava con sé racconti bellissimi, ma anche una storia fallace, pregiudizi, malvagità e antiumanesimo. Tuttavia, con l’avvento dei vari mezzi di comunicazione nella società digitale, la carta dei libri di letteratura, medicina, le epistole o di quelli contenenti ogni sorta di saggezza, conoscenza e informazione è diventata una reliquia che viene gradualmente dimenticata e destinata un giorno al macero. Ma ridestata nelle opere di Chun Kwang Young, la carta hanji – che con sé porta frammenti di dolorosi ricordi soffocati da malattie infettive, onnipotenza scientifica e tecnologica, oppressione sociale e dittatura politica dettata dal desiderio umano – viene ora consegnata al pubblico come oggetto curativo. In un dialogo con queste opere di carta, l’architetto italiano Stefano Boeri ha realizzato appositamente per questo progetto la Hanji House come architettura site-specific. Questa struttura pieghevole è stata costruita con legno e una membrana tessile e rappresenta un modello pratico di “architettura dell’albero di carta”, da lontano può essere vista come una “scatola luminosa”. Il design dell’oggetto autoportante da esterno si ispira alla pratica giocosa e nel contempo meditativa di piegare l a carta in un’infinità di modi. La forma, oltre alle tradizionali case coreane e giapponesi, richiama le antiche pratiche dell’Asia orientale degli origami e del tangram basate su una semplice modularità geometrica. È costituito da una semplice combinazione di volumi: quattro piramidi sulla sommità di un parallelepipedo lasciano al centro una superficie piana a forma di rombo regolare.

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Eventi Collaterali


Tue Greenfort, Periphylla periphylla, 2014. Vetro, 20 × 80 × 20 cm. Photo ERES Foundation Monaco. Courtesy l’Artista; KÖNIG Galerie, Berlino. © Tue Greenfort

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T U E G R E E N FO RT: M E D USA A L GA LAG U NA ERES STIFTUNG

Curatore

Sabine Adler Partecipante

Tue Greenfort Con il supporto di

König Galerie, Berlino Sito web

eres-stiftung.de

La storia e il successo di Venezia sono profondamente legati alla sua ubicazione nello straordinario ecosistema della Laguna di Venezia. Il progetto Medusa Alga Laguna è incentrato sulle forme di vita interspecie che popolano la laguna. L’artista concettuale danese Tue Greenfort spesso coniuga la relazione tra umani e non umani offrendo una riflessione sugli organismi che vivono per lo più ignorati e spesso al limite della visibilità. Un punto di partenza di molti dei suoi progetti coincide con il fascino della scala. La prospettiva micro/macrocosmica rappresenta la base della sua installazione che ci trasporta all’interno della biodiversità delle acque veneziane, rivelando la complessità di forme di vita non umane come alghe e meduse. Il precedente progetto Medusa (2007), che consisteva di una medusa realizzata in vetro di Murano, ora fa ritorno a Venezia. Alla luce del numero di anni trascorsi e delle idee che sottendono il progetto iniziale, questa è un’opportunità ideale per esaminare la situazione attuale. Nell’epoca in cui l’artista stava lavorando al progetto Medusa, in Italia vigeva il divieto di accesso alle spiagge a causa di un sovrappopolamento della medusa urticante Pelagia noctiluca, con gravi ripercussioni sul turismo. I biologi attribuirono la massiccia presenza di queste meduse al rialzo della temperatura dell’acqua causato dal cambiamento climatico. Un’altra spiegazione fornita riguardava la penuria di rivali naturali quali tartarughe marine e tonni. Le alghe, una forma di vita preumana, rivestono sempre più un ruolo di rilievo nell’equilibrio tra gli ecosistemi oceanici e l’impatto globale dell’allevamento intensivo che ha portato a un eccesso di sostanze nutritive negli oceani a livello mondiale, un fenomeno conosciuto come eutrofizzazione. Questi sopravvissuti presenti da tre miliardi di anni, creature che vivono nella parte di atmosfera respirabile del pianeta, oggi sono un bene e un male. Potenzialmente responsabili del collasso degli ecosistemi marini, causerebbero un ambiente tossico per le forme di vita umane e non umane. D’altro canto, sotto la lente di diversi progetti scientifici, potrebbero essere la chiave di sistemi energetici sostenibili e diventare una fonte di energia idonea a contrastare il cambiamento climatico. Medusa Alga Laguna amplia il lavoro in itinere di Greenfort e rappresenta un trait d’union tra l’esposizione di Venezia e la mostra Alga presso la Fondazione ERES di Monaco, Germania (2021). Sabine Adler

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Eventi Collaterali


Si On, Doomsday, 2020. Metallo, legno, vestiti, sculture di legno, dimensioni variabili. Veduta dell’Istallazione: MAM Project 028; Si On, Mori Art Museum, Tokyo, 2020. Photo Furukawa Yuya. Courtesy Mori Art Museum Julian Charrière, And Beneath It All Flows Liquid Fire, 2019. Film a colori in 4K, 16:10, video in loop, dimensioni variabili. Veduta dell’istallazione: Towards No Earthly Pole, Aargauer Kunsthaus, Aarau, Switzerland, 2020. Photo Jens Ziehe. © Julian Charrière; VG Bild-Kunst, Bonn, Germania

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U N C O M B E D, U N F O R E S E E N , U N C O N S T RA I N E D PA R A S O L U N I T F O U N D AT I O N F O R C O N T E M P O R A RY A R T

Curatore

Ziba Ardalan Partecipanti

Darren Almond Oliver Beer Rana Begum con Hyetal Julian Charrière David Claerbout Bharti Kher Arghavan Khosravi Teresa Margolles Si On Martin Puryear Rayyane Tabet Con il supporto di

Bareva Foundation G+B Schwyzer Stiftung Pro Helvetia Almine Rech Galerie Peter Kilchmann Perrotin Hauser & Wirth White Cube Atelier d’architectes Charrière-Partenaires Key Capital Steinfels Art Consulting Trinity Street Asset Management Richard & Claire Bruce Laura Colnaghi Calissoni Conor & Mary Killeen Bernard & Genevive Mensah Lukas & Dorothea Mühlemann Benjamin Nieto Iman & Jacques de Saussure Marwan & Tania Shakarchi Claudia Steinfels & Christian Norgren Berna & Tolga Tuğlular Ruth Whaley Yvonne & Peter Winkler Sito web

parasol-unit.org

Curata da Ziba Ardalan – fondatrice, direttrice artistica ed esecutiva della Parasol unit – Uncombed, Unforeseen, Unconstrained riunisce i lavori diversi e provocatori di undici artisti visivi contemporanei, i quali condividono una profonda preoccupazione per il nostro pianeta e per quel fenomeno che, in termini scientifici, viene definito come entropia o misura del disordine, della casualità e dell’imprevedibilità all’interno di un sistema. Nella loro pratica, Darren Almond, Oliver Beer, Rana Begum con Hyetal, Julian Charrière, David Claerbout, Bharti Kher, Arghavan Khosravi, Teresa Margolles, Si On, Martin Puryear, e Rayyane Tabet hanno indipendentemente identificato e risposto in maniera toccante a una serie di drammatici fenomeni che, negli ultimi decenni, hanno gradualmente raggiunto forte rilevanza nel nostro contesto quotidiano e all’interno della nostra storia sociale e collettiva. Molti di questi problemi – come il riscaldamento globale, la globalizzazione sfrenata, i rifiuti incontrollati, il razzismo, il neocolonialismo e una crescente avidità – stanno seriamente minacciando l’armonia del pianeta Terra e l’esistenza dei suoi abitanti. Il concetto di entropia, inteso come seconda legge della termodinamica, fu formulato nel 1865 dal fisico Rudolf Clausius. Una particolarità dell’entropia è che può raggiungere livelli pericolosi quando le condizioni esterne, come temperatura, pressione e sovraccarico di informazioni continuano ad aumentare nel corso del tempo. In queste circostanze, le molecole all’interno di un sistema si animano sufficientemente da agire in modo libero e imprevedibile, causando caos e cambiamenti irreversibili. La ricerca sulla storia delle attività umane dimostra come il livello di entropia non sia mai stato così alto come oggi. Questo rivela come abbiamo mancato di rispetto al nostro pianeta e, al contempo, messo in pericolo la sopravvivenza di tutte le specie viventi e delle future generazioni. Nonostante la loro maggior consapevolezza e la loro posizione critica, i lavori degli artisti esposti si sforzano di affrontare questi argomenti con mente imparziale, lasciando dunque la speranza di poter riaprire una porta sul futuro.

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Eventi Collaterali


Vera Molnár, Icône 2020, 2021. Vetro di Murano e foglia d’oro a 24K, 60 × 60 cm. Photo Cristiano Corte. Courtesy New Murano Gallery

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VERA MOLNÁR: ICÔNE 2020 AC C A D E M I A D ’ U N G H E R I A I N RO M A

Curatore

Francesca Franco Partecipante

Vera Molnár Con il supporto di

Arts and Humanities Research Council UK Henry Moore Foundation Leonardo/ISAST/OLATS Sito web

ateliermuranese.com/icone2020

Vera Molnár: Icône 2020 è una mostra incentrata su un nuovo progetto espositivo, Icône 2020, ideata, prodotta e curata da Francesca Franco. Si tratta della prima scultura in vetro creata da Vera Molnár, nel corso di una carriera che abbraccia oltre ottant’anni. La mostra esplora il processo che ha reso possibile la creazione di questa scultura ed è arricchita da schizzi preparatori, dipinti su tela, grafiche al plotter originali e materiale di documentazione che rivelano la complessità che si cela dietro alla realizzazione di Icône 2020, incoraggiando un nuovo pensiero sulla scultura e sulle inimmaginabili ramificazioni dell’arte computazionale. Partendo dalla prima opera d’arte digitale di Molnár, creata su tela nel 1975 (Computer-Icône/2) – a sua volta originata da una serie di disegni al computer realizzati nel 1974 (Trapèzes) –, Icône 2020 esplora per la prima volta uno dei concetti chiave originali dell’artista, la dicotomia, e successiva ricerca di equilibrio, tra ordine e disordine, portandolo alla tridimensionalità come scultura. Icône 2020 è una scultura nata da una collaborazione unica e senza precedenti tra l’artista pioniera della computer art Vera Molnár – di origine ungherese, ma parigina di adozione – e un gruppo di maestri vetrai veneziani discendenti da una delle famiglie storiche di Murano, dove l’antica tecnica della lavorazione del vetro ebbe origine nel 1291. Questa collaborazione, avviata da Franco nel 2019, crea un legame che unisce per la prima volta la storia della computer art con l’antica tradizione della lavorazione del vetro, con l’obiettivo di portare entrambe le arti a nuovi livelli finora inesplorati. Vera Molnár: Icône 2020 presenta una serie di opere originali di Vera Molnár che esplorano l’evoluzione del suo concetto originario di “ordine/ disordine” e come questo si sia materializzato in una produzione ultra decennale, a partire dalla fine degli anni Sessanta fino ai giorni nostri, per giungere a una nuova collaborazione e produzione completata nel 2021, presentata in prima mondiale alla Biennale di Venezia.

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Eventi Collaterali


Ruth Gómez, Caves, 2022. Pigmenti minerali e inchiostro di china su carta adesiva, 65 x 35 cm. Frammento della serie di disegni. ©Courtesy l’Artista Nuria Mora, Xyz Transcending Physical Limits, 2022. Acrilico su lino, 230 x 292 cm, 324 x 243 cm. ©Courtesy l’Artista Daniel Muñoz, Drag Image, 2022. Inchiostro su carta, 32 x 24 cm. ©Courtesy l’Artista Sixe Paredes, Paleolithic Futurism, 2021. Assemblaggio a telaio, corde di cotone e lana, 313 x 250 x 20 cm. ©Courtesy Miquel Coll

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W I T H H A N D S S I GN S G ROW F U N D A C I Ó N O D A LY S S I G N U M F O U N D AT I O N

Curatore

Alfonso de la Torre Partecipanti

Ruth Gómez Nuria Mora Daniel Muñoz Sixe Paredes Direttore artistico

Juan Carlos Moya

Agli inizi del Novecento, la storia dell’arte cominciò a considerare la possibile interrelazione tra i graffiti nelle caverne preistoriche e l’arte, così come il loro spostamento verso quelle che potremmo definire “interferenze” con l’arte del nostro tempo. With Hands, Signs Grow si riferisce alla possibilità che, tra le pieghe del tempo, come segni rivelatori, si possano trovare le manifestazioni dei pittori preistorici, insieme al lavoro di chi dipinge i murales oggi, la cosiddetta street art.

Con il supporto di

Museo Nacional y Centro de Investigación de Altamira (Ministero della Cultura e dello Sport della Spagna) Siti web

signumfoundationpalazzodona.com odalys.com

Il rifugio naturale (la caverna) si contrappone alla giungla del nostro mondo: le mura della città richiamano alla mente la misteriosa affermazione di Brassaï, “dans notre civilisation [le mur] remplace la nature” (nella nostra civiltà [il muro] sostituisce la natura). Un vero e complesso sviluppo di immagini e di forme artistiche, che tentano di avanzare nel crepuscolo in molteplici direzioni: così, in Spagna, Picasso o Miró, gli artisti della Escuela de Altamira, El Paso, Parpalló e gli Indaliani, tutti intorno agli anni Cinquanta, guardarono a quei misteriosi primi creatori della preistoria. Anche Tàpies e la sua comunicazione su un muro “cosmico”, e poi Chillida, Miró, Oteiza e Palazuelo, tutti trovarono lì una parte della loro prima ispirazione immemore, così come Brâncuși. A Palazzo Donà, dalle mura dense di storia, proponiamo With Hands, Signs Grow, un progetto curatoriale concepito dopo mesi di lavoro con quattro giovani artisti che credono nell’incarnazione della parola e nella resurrezione delle forme fatte segni sulle mura, seguendo i passi di Yves Klein. Si invocano i valori transumani di quei segni della preistoria come chiave di quelle immagini, come una meraviglia di raffigurabilità: la resistenza, una richiesta di equilibrio tra ciò che ci circonda e la natura, il ritrovo con il mondo animale (l’esistente e l’utopico) o la fissazione della personalità e il corpo di chi traccia segni. Affinché la loro creazione sulle mura possa ritrovare un nuovo tempo, scaturito dalla recente ansia e disperazione, e ritrovare così l’arte, quelle immagini sopravvissute come una manifestazione di speranza che tenta l’equilibrio tra gli esseri umani e l’ambiente, i corpi e questa terra disprezzata (o hai detto desolata, Thomas?). Alfonso de la Torre

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Eventi Collaterali


Zinaida, Without Women, 2017. 24 × 32 cm. Photo Zinaida Kubar

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WITHOUT WOMEN V I S UA L R E S E A RC H S U P P O RT F O U N D AT I O N

Curatore

Peter Doroshenko Partecipante

Zinaida Coordinamento del progetto

Nataliia Rudnyk Coordinamento dei media

Victoria Butenko Sito web

Nata da un’ampia ricerca etnografica e dalla stretta collaborazione con le comunità indigene, la pratica di Zinaida ruota attorno allo studio di mitologie, simboli nazionali, immagini arcaiche e del ruolo delle donne come portatrici di conoscenza sacra. I viaggi di ricerca di Zinaida in diverse regioni dell’Ucraina mirano a studiare e preservare il patrimonio culturale. Conduce iniziative di volontariato e svolge attività filantropiche nella zona di alienazione di Chernobyl. L’artista ha inoltre fondato l’iniziativa di volontariato ArtRehub e ha sviluppato la tecnica Red Thread per bambini con bisogni speciali e disturbi dello spettro autistico.

en.vrsf.online

Nell’ambito degli Eventi Collaterali della Biennale di Venezia, Zinaida presenta Without Women, che parla della purezza della vita degli allevatori di pecore nella natura e della trasformazione dell’energia maschile. Ovunque si posi lo sguardo, si possono vedere tradizioni pratiche in azione tra le masse con una mentalità da allevamento di pecore che proviene dal profondo degli attributi del mondo moderno. Dall’infanzia fino a quando sono vecchi e privi di forze, gli uomini lasciano le loro dimore e villaggi e salgono in montagna per cinque mesi. In mezzo alla moltitudine di pecore e mucche, trasformano il latte in burro e formaggio. Without Women si compone di due sezioni espositive: uno spazio video in cui tre proiezioni creano un trittico di quadri viventi e un’installazione, The Milk of Life, che rievocherà nei visitatori i caldi profumi della pelle femminile. Nel video di presentazione, il corpo tonico di un giovane, immerso nel latte per raccogliere il formaggio dal calderone, evoca una divinità mitica che crea il mondo. I suoi movimenti ricordano un rapporto sessuale, la garza usata per spremere il siero imita un velo, mentre una leggera tenda mossa dal vento appare come una veste nuziale di pizzo. In questo ambiente solitario, l’uomo esprime e rinnova pienamente e vividamente la propria natura maschile. In equilibrio tra evidenti atti di sublimazione e rappresentazione poetica del pastore come monaco solitario, la narrazione video è completata da elementi tattilo-olfattivi all’interno dello spazio espositivo. Il “trasudante” schermo-pelle profumato di latte, ci rende ancora una volta consapevoli dei concetti di autolimitazione e accattivante sincerità.

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Eventi Collaterali


“YiiMa” Art Group, Office in Iao Hon, 2021. Stampa giclée su carta di riso, Ø 200 cm. © “Yiima” Art Group

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“ Y I I M A” A R T G RO U P : A L L E G O RY O F D R E A M S T H E M AC AO M US E U M O F A RT

Curatore

João Miguel Barros Partecipanti

“YiiMa” Art Group (Ung Vai Meng, Chan Hin Io) Coordinamento a Macao

Un Sio San Coordinamento a Venezia

Carlotta Scarpa, PDG Arte Communications Commissario

Paolo De Grandis Sito web

mam.gov.mo

Allegory of Dreams è una mostra d’arte contemporanea onnicomprensiva che espone un totale di undici di opere (set) che consistono nella documentazione di performance art, fotografia e video, nonché sculture all’interno e all’aperto. Curata da João Miguel Barros, l’esposizione presenta i lavori più recenti di “YiiMa”, un gruppo artistico formato da Ung Vai Meng e Chan Hin Io, due artisti attivi a Macao. In linea con The Milk of Dreams, la mostra è concepita e sviluppata come Allegory of Dreams (allegoria dei sogni) che porta il corpo a costruire ponti tra sogno e realtà utilizzando i simboli della vita quotidiana. Attraverso l’allegoria, la mostra presenta le numerose sfide affrontate dall’odierno ambiente culturale suscitando così una profonda riflessione su diversi aspetti. Proponendo una documentazione dell’incessante performance dal vivo dei due artisti, la mostra offre ai visitatori l’eccezionale ambiente culturale di Macao, pregno di ricordi e storia, offrendo loro l’opportunità di viverne le scene oniriche e al contempo allegoriche della vita quotidiana.

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Eventi Collaterali



L I S TA

PA R T E C I IP E D ANTI


ALBANIA LUMTURI BLLOSHMI

1944, Tirana, Albanian Kingdom – 2020, Tirana, Republic of Albania

REPUBBLICA POPOLARE DEL BANGLADESH JAMAL UDDIN AHMED

A RG E N T I NA MÓNICA HELLER

1975, Buenos Aires, Argentina. Vive a Buenos Aires

ARMENIA A N D R I US A RU T I U N I A N

1991, Vilnius, Lituania. Vive nei Paesi Bassi

AUSTRALIA M A R C O F U S I N AT O

1964, Naarm/Melbourne, Australia. Vive a Naarm/Melbourne, Australia

1955, Dhaka, Bangladesh. Vive a Dhaka M A RC O C A S SA RÀ

JA KO B L E NA K N E B L

1970, Baden bei Wien, Austria. Vive a Vienna, Austria ASHLEY HANS SCHEIRL

1956, Salisburgo, Austria. Vive a Vienna, Austria

REPUBBLICA DELL’AZERBAIJAN F I D A N A K H U N D O VA

1989, Baku, Azerbaigian. Vive a Berlino, Germania AG D E S BAG H I R ZA D E

1984, Baku, Azerbaigian. Vive a Baku S A B I H A K H A N K I S H I Y E VA

1990, Baku, Azerbaigian. Vive a Baku

1981, Il Cairo, Egitto. Vive a New York, USA

C A R L A M A C C H I AV E L L O

W E A A M E L M A S RY

1978, Santiago, Cile. Vive a New York City, New York, USA

1976, Il Cairo, Egitto. Vive al Cairo M O H A M E D S H O U K RY

MOHAMMAD EUNUS

1954, Thakurgaon, Bangladesh. Vive a Dhaka

ALFREDO THIERMANN

H A R U N -A R - R A S H I D

Nato nel 1987 a Santiago, Cile. Vive a Berlino, Germania

1976, Il Cairo, Egitto. Vive al Cairo

P ROM I T I H O S SA I N

1991, Dhaka, Bangladesh. Vive a Dhaka MOHAMMAD IQBAL

1967, Chuadanga, Bangladesh. Vive a Dhaka F RA N C O M A R RO C C O

1957, Rocca d’Evandro, Italia. Vive a Saronno, Italia

1988, Palermo, Italia. Vive a Palermo S U M O N WA H E N

1986, Dhaka, Bangladesh. Vive a Dhaka

BELGIO

1983, Teheran, Iran. Vive tra Helsinki, Finlandia, e la campagna estone

REPUBBLICA POPOLARE CINESE C E N T RA L AC A D E M Y O F F I N E A R T S ® C A FA © I N S T I T U T E O F S C I -T E C H A RT S A N D T S I N G H U A L A B O R AT O RY OF BRAIN AND INTELLIGENCE ®TLBI©

CAFA Institute of Sci-Tech Arts, fondato nel 2021 TLBI fondato nel 2017 L I U J I AY U

1990, Liaoning, Cina. Vive a Pechino, Repubblica Popolare Cinese

1959, Anversa, Belgio. Vive a Città del Messico, Messico

XU LEI

C ROA Z I A

R A M I N A S A A D AT K H A N

M I C H A I L M I C H A I L OV

1978, Veliko Tărnovo, Bulgaria. Vive a Vienna, Austria, e Veliko Tărnovo, Bulgaria

1992, Baku, Azerbaigian. Vive a Baku

C A NA DA S TA N D O U G L A S

1960, Vancouver, British Columbia, Canada. Vive tra Vancouver e Los Angeles, USA

ZINEB SEDIRA

1963, Gennevilliers, Francia. Vive a Londra, UK

G E O RG I A 1984, Tbilisi, Georgia. Vive a Tbilisi M A R I A M N AT R O S H V I L I

MARIA EICHHORN

1962, Bamberga, Repubblica Federale Tedesca (attuale Germania). Vive a Berlino, Germania

CUBA R A FA E L V I L L A R E S D E ORELLANA

1989, L’Avana, Cuba. Vive all’Avana

BULGARIA

FRANCIA

GERMANIA

T O M O S AV I Ć - G E C A N

1967, Zagabria, Croazia. Vive ad Amsterdam, Olanda

1982, Maceió, Brasile. Vive a Recife, Brasile

1981, Helsinki, Finlandia. Vive a Berlino, Germania

1987, Tbilisi, Georgia. Vive a Tbilisi

BOLIVIA

J O N AT H A S D E A N D R A D E

P I LV I TA K A L A

DETU JINCHARADZE

1963, Jiangsu, Cina. Vive a Pechino, Repubblica Popolare Cinese

BRASILE

FINLANDIA

WA N G Y U YA N G

F R A N C I S A LŸ S

Fondato nel 2022 in La Paz, Bolivia. Sede a La Paz, Bolivia

1979, Tallinn, Repubblica Socialista Sovietica di Estonia. Vive a Tallinn, Estonia B I TA R A Z AV I

1979, Heilongjiang, Cina. Vive a Pechino, Repubblica Popolare Cinese

C O L L E T T I V O WA R M I C H A C H A

ESTONIA KRISTINA NORMAN

1976, Jaypurhat, Bangladesh. Vive a Dhaka

1997, Baku, Azerbaigian. Vive negli USA

Z H U K ( N A R M I N I S R A F I L O VA )

AHMED AL SHAER

1980, Santiago, Cile. Vive a La Paz, Bolivia

Nata nel 1985 a Santiago, Cile. Vive a Boston, Massachusetts, USA

F I D A N N O V R U Z O VA ( K I M )

1977, Baku, Azerbaigian. Vive a Baku

A R I E L B U S TA M A N T E

D O M I N G A S O T O M AY O R

1975, Baku, Azerbaigian. Vive a Baku INFINITY

EGITTO

1984, Palermo, Italia. Vive a Palermo

GIUSEPPE DIEGO SPINELLI

AUSTRIA

CILE

K C H O (nato Alexis Leiva Machado)

1970, Isla de Pinos (attuale Isola della Gioventù), Cuba. Vive all’Avana

GHANA DIEGO ARAÚJA

Salvador de Bahia, Brasile. Vive a Salvador de Bahia, Brasile NA C H A I N KUA R E I N D O R F

G I U S E P P E S TA M P O N E

1974, Clusse, Francia. Vive tra Bruxelles, Belgio, Teramo, Italia, e Roma, Italia

1991, Accra, Ghana. Vive a Binghamton, USA A F RO S C O P E

1991, Tema, Ghana. Vive a Tema, Ghana

DA N I M A RC A UFFE ISOLOTTO

1976, Aalborg, Danimarca. Vive a Copenhagen, Danimarca

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G R A N B R E TA G N A

UNGHERIA

S O N I A B OYC E O B E RA

ZSÓFIA KERESZTES

1962, Londra, Gran Bretagna. Vive a Londra

1985, a Budapest, Ungheria. Vive a Budapest

GRECIA

I S LA N DA

L O U K I A A L AVA N O U

SIGURÐUR GUÐJÓNSSON

1979, Atene, Grecia. Vive fra Atene e Bruxelles, Belgio

1975, Reykjavík, Islanda. Vive a Reykjavik

Nato nel 1981 ad Almaty, Kazakistan. Vive ad Almaty

IRLANDA

RUS T E M B E G E N OV

NIAMH O’MALLEY

Nato nel 1983 ad Almaty, Kazakistan, Vive ad Almaty

G R E NA DA

1975, Mayo, Irlanda. Vive a Dublino, Irlanda

OLIVER BENOIT

Nato nel 1957 a St. George’s, Granada. Vive a Granada e USA IDENTITY COLLECTIVE

Fondata nel 2011, ha sede in Germania

ISRAELE I L I T A Z O U L AY

1972, Tel Aviv–Jaffa, Israele. Vive a Berlino, Germania

G I A N C A R L O F L AT I

Nato nel 1953 a L’Aquila, Italia. Vive a L’Aquila e a Rome, Italia B I L LY G E R A R D F R A N K

Nato nel 1975 a Petit Martinique, Granada. Vive a New York City, USA, e a Granada

ANNAMARIA LI GOTTI

Nata nel 1940 a Zoppola, Italia. Vive a Conegliano Veneto, Italia

C O L L E T T I V O O R TA

Fondato nel 2015 ad Almaty in Kazakistan da Alexandra Morozova e Rustem Begenov Ha sede ad Almaty A L E XA N D R BA KA N OV

D A RYA J U M E LYA

Nata nel 1990 ad Almaty, Kazakistan. Vive tra Almaty e Mosca, Russia S A B I N A K U A N G A L I Y E VA

Nata nel 1994 ad Atyrau, Kazakistan. Vive ad Almaty, Kazakistan

I TA L I A G I A N M A R I A T O S AT T I

1980, Roma, Italy. Vive a Napoli, Italia e New York, USA

ABOUDIA

WA N J A K I M A N I

S Y O W I A KYA M B I

1979, Nairobi, Kenya. Vive a Nairobi K A L O K I N YA M A I

Nato nel 1984 a Dallas, USA. Vive e lavora a Granada

ARMAND BOUA

DICKENS OTIENO

SUSAN MAINS

1978, Abidjan, Costa d’Avorio. Vive ad Abidjan

Nata nel 1958 a Minneapolis, USA. Vive e lavora a Granada ANGUS MARTIN

Nato nel 1964 a St. George’s, Granada. Vive a Saba, Caraibi olandesi S A M U E L O G I LV I E

Nato nel 1985 a Kingston, Jamaica. Vive a Granada N I N O P E R RON E

Nato nel 1942 in Bari, Italia. Vive a Bari RO S S E L LA P E ZZ I N O D E G E RON I M O

Nata nel 1959 a Catania, Italia. Vive a Catania M A R I A L U I S A TA D E I

Nata nel 1964 a Rimini, Italia. Vive a Venezia, Italia

G U AT E M A L A CHRISTIAN ESCOBAR M A R T Í N E Z “ C H R I S PA P I TA”

A RON D E M E T Z

1972, Vipiteno, Italia. Vive in Val Gardena, Italia L A E T I T I A KY

1988, Katiola, Costa d’Avorio. Vive a Bingerville, Costa d’Avorio

1979, Migori, Kenya. Vive a Nairobi, Kenya

REPUBBLICA DI COREA

LIBANO DA N I E L L E A R B I D

1970 Beirut, Libano. Vive a Parigi, Francia AY M A N B A A L B A K I

1975, Beirut, Libano. Vive a Beirut

LITUANIA

G R A N D U C AT O DEL LUS S E M B U RG O

RO B E RT JA N KU L O S K I

1969, Prilep, Macedonia del Nord. Vive a Skopje, Macedonia del Nord

YUNCHUL KIM

1970, Seoul, Corea del Sud. Vive a Seoul

MONIKA MOTESKA

1971, Prilep, Macedonia del Nord. Vive a Skopje, Macedonia del Nord

REPUBBLICA D E L KO S OVO

M A LTA A RC A N G E L O SA S S O L I N O

1981, Pristina, Kosovo. Vive tra Pristina e L’Aia, Olanda

1967, Vicenza, Italia. Vive a Vicenza BRIAN SCHEMBRI

1961, La Valletta, Malta. Vive a Parigi, Francia

DUMB TYPE

Collettivo fondato nel 1984 a Kyoto, Giappone. Ha sede in Giappone

1968, Rosevild, USA. Vive a Lielvārde, Lettonia

REPUBBLICA DI M AC E D O N I A DEL NORD

JA KU P F E R R I

GIAPPONE

M E L I S S A D. B RA D E N

1972, Lussemburgo, Lussemburgo. Vive a Bruxelles, Belgio

1996, Abidjan, Costa d’Avorio. Vive ad Abidjan YEANZI

1965, Aknīste, Lettonia. Vive a Lielvārde, Lettonia

TINA GILLEN

1985, Kitui, Kenya. Vive a Nairobi, Kenya

F R É D É R I C B R U LY B O U A B R É

1923, Zéprégühé, Costa d’Avorio – 2014, Abidjan, Costa d’Avorio

I N G Ū NA S KU JA

1983, Vilnius, Lituania. Vive a Vilnius

K E N YA

1983, Abidjan, Costa d’Avorio. Vive a Abidjan, Costa d’Avorio e New York City, USA

ASHER MAINS

S K U J A B R A D E N (Ingūna Skuja, Melissa D. Braden) Fondata nel 1999. Ha sede a Lielvārde, Lettonia

R O B E R TA S N A R K U S

1986, Nairobi, Kenya. Vive a Peterborough, UK

C O S TA D ’AV O R I O

LETTONIA

A L E X A N D R A M O R O Z O VA

Nata nel 1982 ad Almaty, Kazakistan. Vive ad Almaty

I A N F R I D AY

Nato nel 1965 a New York City, USA Vive a New York City e Granada

REPUBBLICA DEL K A Z A K H S TA N

REPUBBLICA D E L KY R G Y Z S TA N

G I US E P P E S C H E M B R I B O NAC I

1955, La Valletta, Malta. Vive a La Valletta

F I R O U Z FA R M A N FA R M A I A N

1973, Teheran, Iran. Vive a Tarifa, Spagna

1982, Guatemala. Vive in Guatemala

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Lista dei Partecipanti


MESSICO SA N T I AG O B O R JA C H A R L E S

1970, Città del Messico, Messico. Vive a Città del Messico MARIANA CASTILLO DEBALL

1975, Città del Messico, Messico. Vive tra Berlino, Germania, e Città del Messico

PA E S I B A S S I ( N O RV E G I A , FINLANDIA, SVEZIA) 1978, Heerlen, Paesi Bassi. Vive ad Amsterdam, Paesi Bassi, e Berlino, Germania

N U O VA Z E L A N D A

NAO M I R I N C Ó N GA L LA R D O

YUKI KIHARA

M U N K H T S E T S E G J A L K H A A J AV (MUGI)

1967, Ulan Bator, Mongolia. Vive a Ulan Bator

1975, Upolu, Samoa. Vive tra Tamaki Makaurau, Auckland in Aotearoa/ Nuova Zelanda, e Apia, Samoa

PA E S I N O R D I C I ( N O RV E G I A , FINLANDIA, SVEZIA) ANDERS SUNNA

M ON T E N E G RO DA N T E B U U

1987, Rožaje, Montenegro. Vive a Rožaje e Berlino, Germania

1985, Čohkkiras / Jukkasjärvi, Sápmi / Svezia. Vive a Dálvvadis / Jokkmokk, Sápmi / Svezia PA U L I I N A F E O D O R O F F

LIDIJA DELIĆ

1977, Anár / Inari, Sápmi / Finlandia. Vive a Helsset / Helsinki, Sápmi / Finlandia

1986, Nikšić, Montenegro. Vive a Belgrado, Serbia

MÁRET ÁNNE SARA

I VA N Šuković

1981, Podgorica, Montenegro. Vive a Belgrado, Serbia

1983 Hámmarfeasta / Hammerfest, Sápmi / Norvegia. Vive a Guovdageaidnu / Kautokeino, Sápmi / Norvegia

JELENA TOMAŠEVIĆ

1974, Podgorica, Montenegro. Vive in Montenegro e Bosnia ed Erzegovina DA R KO V U Č KOV I Ć

1978, Zakopane, Polonia. Vive a Czarna Góra, Polonia

M A R KO JA K Š E

1959, Ljubljana, Slovenia. Vive a Mohorje, Slovenia

PORTO GALLO P E D RO N E V E S M A RQ U E S

1957, Città del Messico, Messico. Vive a Città del Messico

MONGOLIA

M A Ł G O R Z ATA M I R G A- TA S

S U LTA N AT E O F OMAN

1984, Lisbona, Portogallo. Vive a Lisbona

1950, New York City, USA. Vive a Johannesburg, Sudafrica

ROM A N I A

L E B O H A N G KGA N Y E

ADINA PINTILIE

1980, Bucharest, Romania. Vive a Bucarest, Amburgo e Berlino (Germania)

IGNASI ABALLÍ

1981, Fidenza, Italia. Vive a Londra, UK, e Parma, Italia

1973, Repubblica di San Marino. Vive nella Repubblica di San Marino Breve

1984, Buckinghamshire, UK. Vive a Londra, UK

1975, Montecchio Emilia, Italia. Vive a Montecchio Emilia RO SA M U N D I

5° 26’23 ‘’ N 12° 19’ 55’’ E. Vive a Venezia e a Castello di Morsasco, in Italia, e nel deserto del Sinai

1972, Oman. Vive a Muscat, Oman

A N N E - C É C I L E S U RGA

1925, Kovačica, Serbia – 2001, Belgrado, Serbia

B U D O O R A L R I YA M I

1987, Lavelanet, Francia. Vive a Ariège, Francia

B E R N A R D M AT E M E R A

RADHIKA KHIMJI

N E PA L T S H E R I N S H E R PA

1968, Katmandu, Nepal. Vive a Katmandu

1961, Damasco, Siria. Vive a Damasco GIUSEPPE AMADIO

1944, Todi, Italia. Vive a Todi

M A RC E L L O L O G I U D I C E

MICHELE TOMBOLINI

1963, Venezia, Italia. Vive a Venezia e Berlino, Germania

1957, Taormina, Italia. Vive a Monaco, Principato di Monaco; Milano, Italia; Noto, Italia ISMAIEL NASRA

A R A B I A S A U D I TA

1964, Salamiyya, Siria. Vive a Damasco, Siria

MUHANNAD SHONO

H A N N U PA L O S U O

1977, Riyadh, Arabia Saudita. Vive a Riyadh

1966, Helsinki, Finlandia. Vive a Helsinki

SERBIA

LORENZO PUGLISI

SAMMY N. BUHLE

1950, Metro Manila, Filippine. Vive a Metro Manila

SAO USA N A LZ U B I

1962, Damasco, Siria. Vive a Damasco

R A I YA A L R AWA H I

F E L I C I DA D A. P RU D E N T E

REPUBBLICA ARABA SIRIANA

ADNAN HAMIDEH

1977, Kuwait. Vive a Muscat, Oman

1989, Ifugao, Filippine. Vive a Ifugao

1974, El Khnansa, Marocco. Vive a Vevey e Martigny, Svizzera

MICHELANGELO GALLIANI

HASSAN MEER

FILIPPINE

SVIZZERA L AT I FA E C H A K H C H

ENDLESS

Collezione d’Arte dei Paesi non Allineati:

1987-2017, Oman

1958, Barcellona, Spagna. Vive e lavora a Barcellona

N I C O L E T TA C E C C O L I

1962, Rimini, Italia. Vive a Rimini e nella Repubblica di San Marino

1912-1985 L’Avana, Cuba

1986, Johannesburg, Sudafrica. Vive a Johannesburg

E L I S A C A N TA R E L L I

R O B E R T O PA C I D A L Ò

R E N É P O RT O C A R R E RO

PHUMULANI NTULI

S PA G N A

1948 Bahrain. Vive a Muscat, Oman

1979, Oman. Vive a Londra, UK

1990, Primrose, Sudafrica. Vive a Johannesburg, Sudafrica

REPUBBLICA DI SAN MARINO

A N WA R S O N YA

1946, Guruve, Zimbabwe – 2002 Tengenenge

REPUBBLICA DEL S U DA F R I C A RO G E R BA L L E N

1975, Podgorica, Montenegro. Vive a Podgorica

Z U Z A N A C H A L U P O VÁ

REPUBBLICA DI S L OV E N I A

MELANIE BONAJO

F E R N A N D O PA L M A RO D R Í GU E Z

1979, Raleigh, USA. Vive a Oaxaca de Juárez, Messico

POLONIA

V L A D I M I R N I KO L I C

1971, Biella, Italia. Vive a Bologna, Italia

1974, Belgrado, Serbia. Vive a Belgrado

A K S A M TA L L A A

1963, Quneitra, Siria. Vive a Damasco, Siria

SINGAPORE G E R A R D O TA N

S H U B I G I RAO

1960, Metro Manila, Philippines. Vive a Metro Manila

Mumbai, India. Vive a Singapore O M RA N YO U N I S

1971, al Hasakah, Siria. Vive a Damasco, Siria

242


T U RC H I A FÜSUN ONUR

T E R R E N C E M U S E K I WA

1990, Harare, Zimbabwe. Vive a Chitungwiza, Zimbabwe

1937, Istanbul, Turchia. Vive a Istanbul

UCRAINA

PA D I G L I O N E VENEZIA

PAV L O M A K O V

PA O L O FA N T I N

1958, Leningrado, USSR. Vive a Charkiv, Ucraina

1981, Castelfranco Veneto, Italia. Vive a Treviso, Italia P I N O D O NAG G I O

E M I R AT I A R A B I UNITI MOHAMED AHMED IBRAHIM

1941, Burano, Italia. Vive a Venezia, Italia GOLDSCHMIED & CHIARI SARA GOLDSCHMIED

1962, Khawr Fakkān, Emirati Arabi Uniti. 1975, Arzignano, Italia. Vive a Khawr Fakkān Vive a Milano, Italia ELEONORA CHIARI

S TAT I U N I T I D ’A M E R I C A SIMONE LEIGH

1967, Chicago, Massachusetts, Stati Uniti. Vive e lavora a New York, Stati Uniti

U R U G U AY G E R A R D O G O L D WA S S E R

1961, Montevideo, Uruguay

REPUBBLICA B O L I VA R I A N A D E L VENEZUELA PA L M I R A C O R R E A

1948, Cumanà, Venezuela. Vive a Caracas, Venezuela MILA QUAST

1989, Maracaibo, Venezuela. Vive a Caracas, Venezuela J O RG E R E C I O

1962, Caracas, Venezuela. Vive a Barcellona, Spagna C É S A R VA Z Q U E Z

1971, Roma, Italia. Vive a Milano, Italia OT TORINO DE LUCCHI

1951, Ferrara, Italia. Vive a Padova, Italia

A L B E R TA WHITTLE: DEEP D I V E ( PA U S E ) UNCOILING M E M O RY A L B E R TA W H I T T L E

Bridgetown, Barbados, 1980. Vive a Glasgow, Scozia

E U G E N RA P O RT O RU

ANGELA SU: ARISE, HONG KO N G I N V E N I C E

WA L L E N M A P O N D E R A

E WA K U RY L U K I, WHITE KA N GA RO O

ANGELS LISTENING

1946, Cracovia, Polonia. Vive a Varsavia, Polonia e a Parigi, Francia

E WA K U RY L U K

RAC H E L L E E H OV NA N I A N

Huston, USA. Vive a New York e Miami USA, e in Toscana, Italia

A P O L L O, A P O L L O K AT H A R I N A G RO S S E K AT H A R I N A G R O S S E

1961, Friburgo in Brisgovia, Germania. Vive a Belin, Germania e in Nuova Zelanda

1984, Chirumanzu, Zimbabwe. Vive in Sudafrica K R E S I A H M U KWA Z H I

1992, Harare, Zimbabwe. Vive ad Harare

F R O M PA L E S T I N E WITH ART GHASSAN ABULABAN

1964, Campo per rifugiati di Dhaisha, Palestine. Vive ad Amman, Giordania H A N A N AWA D

1973, Lodi, USA. Vive a Houston, USA IBRAHIM ALAZZA

1964, Palestina. Vive a Boston, USA JAC Q U E L I N E B E JA N I

1959, Beirut, Libano. Vive in Lussemburgo

BOSCO SODI A PA L A Z Z O VENDRAMIN G R I M A N I . W H AT G O E S A RO U N D C OM E S A RO U N D

1978, Sydney, Australia. Vive a Sydney

BOSCO SODI

MOHAMED KHALIL

1970, Città del Messico, Messico. Vive tra New York, USA, e Oaxaca, Messico

KARIM ABU-SHAKRA

1982, Umm-al-Fahm, Palestina. Vive a Umm-al-Fahm LUX ETERNA

1960, Al-Zarqa, Giordania. Vive a Ramallah, Palestina MOHAMMED ALHAJ

1982, Gaza, Palestina. Vive a Gaza

C ATA L O N I A I N VENICE_LLIM

NABIL ANANI

LARA FLUXÀ

NADIA IRSHAID GILBERT

1985, Palma de Mallorca, Spagna. Vive a Barcellona, Spagna

1985, Harare, Zimbabwe. Vive a Città del Capo, Sudafrica R O N A L D M U C H AT U TA

1961, Bucharest, Romania. Vive a Bucharest

Vive a Hong Kong

ANGELA SU

1974, San Cristobal, Venezuela. Vive a Caracas, Venezuela

REPUBBLICA DELLO Z I M BA BW E

EUGEN RA P O RT O RU: T H E A B D U C T I ON F ROM T H E S E RAG L I O ROM A WOM E N : P E R F O R M AT I V E S T R AT E G I E S O F R E S I S TA N C E

1943, Palestina. Vive a Ramallah, Palestina

1995, Palm Beach, USA. Vive a New York, USA NA M E E R QA S S I M

CLAIRE TA B O U R E T : I A M S PA C I O U S , SINGING FLESH

1984, Gerusalemme, Israele. Vive a Gerusalemme R A N I A M ATA R

1984, Beirut, Libano. Vive a Boston, USA R U L A H A L AWA N I

1964, Gerusalemme Est, Israele. Vive a Gerusalemme Est

C L A I R E TA B O U R E T

1981, Pertuis, Francia. Vive a Los Angeles, USA

243

Lista dei Partecipanti


1938, Ma’in Abu Sitta, Palestina. Vive in Kuwait

L U C I O F O N TA N A / ANTONY GORMLEY

SAMAR HUSSAINI

L U C I O F O N TA N A

S A L M A N A B U S I T TA

1964, Northampton, USA. Vive a West Orange, USA

1899, Rosario de Santa Fè, Argentina – 1968, Comabbio, Italia

S A M I A H A L A BY

ANTONY GORMLEY

1936, Gerusalemme, Israele. Vive a New York, USA S A N A FA R A H B I S H A R A

1964, Nazareth, Israele. Vive a Haifa S USA N B US H NAQ

1963, Kuwait City. Vive in Kuwait TA Q I S A B AT E E N

1988, Beit Jala, Palestina. Vive a Betlemme, Palestina

HA CHONG-HYUN

1950, Londra, UK. Vive a Londra

PERA + FLORA + FA U N A T H E S T O RY O F INDIGENOUSNESS AND THE OWNERSHIP OF H I S T O RY KAMAL SABRAN

HA CHONG-HYUN

Perak, Malaysia. Vive nel Perak e nel Penang, Malaysia

1935, Sancheong, Corea del Sud. Vive a Seul, Corea del Sud

A Z I Z A N PA I M A N

H E I N Z M AC K – V I B R AT I O N O F LIGHT H E I N Z M AC K

1931, Lollar, Germania. Vive a Mönchengladbach, Germania e a Ibiza, Spagna

KEHINDE W I L E Y: A N A RC H A E O L O GY OF SILENCE KEHINDE WILEY

1977, Los Angeles, USA. Vive a New York, USA e a Dakar, Senegal

Malacca, Malaysia. Vive nel Perak, Malaysia KIM NG

TA K E Y O U R T I M E FRANCESCA LEONE

1964, Roma, Italia. Vive a Roma

Perak, Malaysia. Vive a Kuala Lumpur, Malaysia S T E FA N O C A G O L

Trento, Italia. Vive sulle Dolomiti, Italia K A PA L L O R E K A R T S PA C E

TIMES R E I M AG I N E D : C H U N KWA N G YO U N G

VERA MOLNÁR

S T E FA N O B O E R I

1956, Milano, Italia. Vive a Milano

1944 Hong Chun, Corea del Sud. Vive a Seoul, Corea del Sud

TUE GREENFORT: MEDUSA ALGA LAG U NA TUE GREENFORT

U N C O M B E D, UNFORESEEN, UNCONSTRAINED

L I TA A L B U Q U E R Q U E

1971, Wigan, UK. Vive a Londra, UK

1982, Swindon, UK. Vive a Londra, UK

U N G VA I M E N G

1987, Morges, Svizzera. Vive a Berlino, Germania D AV I D C L A E R B O U T

CHAN HIN IO

1965, Jablonec nad Nisou, Repubblica Ceca. Vive a Praga, Repubblica Ceca

BHARTI KHER

LOUISE NEVELSON. PERSISTENCE

S TA N L E Y W H I T N E Y: T H E I TA L I A N PA I N T I N G S

1964, Repubblica Popolare Cinese. Vive a Macao, Regione Amministrativa Speciale della Repubblica Popolare Cinese

1969, Londra, UK. Vive a New Delhi, India

1946, Philadelphia, USA. Vive a New York City, USA, e Parma, Italia

“ Y I I M A” A RT G RO U P : A L L E G O RY O F DREAMS 1958, Macao, territorio d’oltremare del Portogallo. Vive a Macao, Regione Amministrativa Speciale della Repubblica Popolare Cinese

RON Y P L E S L

S TA N L E Y W H I T N E Y

1975, Barcellona, Spagna. Vive a Barcellona

1975, Kiev, Ucraina

D AV I D C O R N E Y ( H Y E TA L )

1946, Santa Monica, USA. Vive a Los Angeles, USA

1899, Pereiaslav, Ucraina – 1988, New York, USA

S I X E PA R E D E S

Z I NA I DA

1977, Sylhet, Bangladesh. Vive a Londra, UK

1969, Kortrijk, Belgio. Vive a Anversa, Belgio, e Berlino, Germania

LOUISE NEVELSON

NURIA MORA

WITHOUT WOMEN

DA R R E N A L M O N D

JULIAN CHARRIÈRE

RON Y P L E S L : T R E E S G ROW F R O M T H E S KY

1976, Valladolid, Spagna. Vive a Madrid, Spagna

1980, Cáceres, Spagna. Vive a Madrid, Spagna

RANA BEGUM

L I TA A L B U Q U E RQ U E : LIQUID LIGHT

RU T H G Ó M E Z

DA N I E L M U Ñ OZ

1985, Pembury, UK. Vive a Londra, UK e Parigi, Francia

1971, Pechino, Cina. Vive a Pechino

WITH HANDS S I GN S G ROW

1974, Madrid, Spagna. Vive a Madrid

1973, Holbæk, Danimarca. Vive a Hesnæs, Danimarca e Berlino, Germania

P RO J E K RA BA K

W E N H UA DA I

1924, Budapest, Ungheria. Vive a Parigi, Francia

C H U N KWA N G Y O U N G

OLIVER BEER

R O A D O F FA I T H

R AY YA N E TA B E T

VERA MOLNÁR: ICÔNE 2020

Attivo nel Perak, Malaysia

Fondato a Ipoh, Malaysia

1941, Washington, USA, in 1941. Vive nella valle dell’Hudson, USA

1983, Ashqout, Libano. Vive a Beirut, Libano, e San Francisco, USA

Johor, Malaysia. Vive nel Perak e a Kuala Lumpur, Malaysia SAIFUL RAZMAN

M A R T I N P U RY E A R

A R G H AVA N K H O S R AV I

1984, Shahr-e-kord, Iran. Vive a New York, USA T E R E SA M A RG O L L E S

1963, Culiacán, Messico. Vive a Città del Messico, Messico, e Madrid, Spagna SI ON

1979, Dang Jing, Corea. Vive a Cracovia, Polonia

244




5 9. E S P O S I Z I O N E I N T E R N A Z I O N A L E D ’A R T E I L L AT T E D E I S O G N I LA BIENNALE DI VENEZIA Attività Editoriali e Web

Responsabile

Flavia Fossa Margutti

Coordinamento editoriale

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By SIAE 2022 Marco Fusinato Zineb Sedira Sonia Boyce Firouz Farman Farmaian Anders Sunna M Áret Ánne Sara Katharina Grosse Bosco Sodi Alberta Whittle Heinz Mack Louise Nevelson Lucio Fontana Julian Charriere Vera Molnár Nuria Mora Immagini in copertina e nel cofanetto

Redazione

Anna Albano Francesca Dolzani Giulia Gasparato

Progetto grafico

A Practice for Everyday Life, London

Realizzazione editoriale

Liberink srls, Padova Stefano Turon Coordinamento Livio Cassese Impaginazione Redazione

Rosanna Alberti Caterina Vettore

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Oriana Bonan, Giulia Galvan, Giuliana Schiavi per Alphaville Roberta Prandin Traduzioni dall’italiano all’inglese

Salvatore Mele per Alphaville

Stampa

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© Cecilia Vicuña. Courtesy l’Artista; Lehmann Maupin, New York, Hong Kong, Seoul, and London © Felipe Baeza. Courtesy l’Artista; Maureen Paley, London © Belkis Ayón Estate, Havana, Cuba © Tatsuo Ikeda. Courtesy Estate of Tatsuo Ikeda

© La Biennale di Venezia 2022 Tutti i diritti riservati. Nessuna parte di questo libro può essere riprodotta o trasmessa in qualsiasi forma o con qualsiasi mezzo elettronico, meccanico o altro senza l’autorizzazione scritta dei proprietari dei diritti e dell’editore.

Stampato su Munken Lynx Rough, carta naturale spessorata di pregio, genuina al tatto, prodotta con cellulose provenienti da foreste sostenibili. Certificata con marchio EU Ecolabel, FSC® e Cradle to Cradle® per un’economia circolare. La gamma Munken distribuita in Italia da Polyedra Spa.

ISBN 9788898727612

La Biennale di Venezia Prima edizione aprile 2022




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