ORIGINE
OverLIFE
Over LIFE A N T O I N E
D ’ A G A T A
Il progetto “Origine” nasce dall’ osservazione dell’essere umano nell’analisi che egli compie su se stesso, tra capacità creative indiscutibili e inevitabili quanto connaturate dinamiche distruttive. Nella più generale ricerca di un equilibrio difficilmente accessibile, l’intera stagione si concentra sul Tempo - quello dell’uomo e quello del mondo - e sulle regole che lo governano, ponendo l’accento sul rapporto antinomico tra vita e morte, uomo e natura, storia ed eternità.
ORIGINE, Capitolo 4 Intenso e viscerale epilogo del progetto Origine, si cala nell’abisso che l’uomo contemporaneo porta con sé condividendone gli eccessi: OVER LIFE a cura di Claudio Composti presenta i lavori del visionario artista francese Antoine d’Agata sui processi di distruzione con cui egli ciclicamente crea e annienta la propria esistenza.
The project “Origine” derives from observing how human beings analyse themselves, between indisputable creative capacities and inevitable and innate destructive dynamics. In a wider research for a balance difficult to be achieved, the whole season concentrates on Time – the time of people and of the world – and on the rules that govern it, stressing the antinomy between life and death, man and nature, history and eternity.
ORIGINE, Chapter 4 The intense and visceral epilogue of the Origin project, exploring the abyss that the contemporary man brings with him by sharing its excesses: OVER LIFE by Claudio Composti presents the works of the visionary French artist Antoine d’Agata about the destruction processes in which he cyclically creates and annihilates his own existence.
FINO A CHE IL MONDO NON ESISTA PIÙ Antoine d’Agata «Ciò che vediamo non è fatto da ciò che vediamo bensí da ciò che siamo» Fernando Pessoa La notte, il sesso, l’erranza... e la necessità di fotografare, non in quanto atto pensato, ma in quanto una semplice esposizione di esperienze comuni oppure estreme. Una pratica fotografica inseparabile, in un certo modo, dall’afferrare l’esistenza o il rischio, il desiderio, l’incoscienza e il caso rimangono elementi essenziali. Nessuna postura morale, nessun giudizio, semplicemente l’etica dell’affermazione necessaria per esplorare certi universi, dividerli fin in fondo, senza alcuna attenzione. Un passaggio all’atto fotografico, ai limiti della sparizione, del godimento e della morte. Io tento di stabilire uno stato dei luoghi nomade, parziale e personale, sistematico e instintivo di spazi fisici ed emotivi dove sono attore e appieno. Evito di definire a priori ciò che sto per fotografare. Gli scatti si devono alla casualità degli incontri, delle situazioni. Le scelte, nella misura del possibile, sono incoscienti. Ma le ossessioni rimangono le stesse: la strada, la paura, l’oscurità, l’atto sessuale... per non parlare, forse, finalmente, che del semplice sentimento di esistere. Aldilà delle persone in perdizione e nelle derive notturne, le scene di fellatio e dei corpi all’abbandono, io cerco di tradurre la scissione tramite la mistura dei corpi e dei sentimenti, di scoprire i frammenti della società che sfuggono da qualsiasi analisi e visualizzazione instantanea dell’evento, ma nondimeno sono i suoi principali elementi. La brutalità della forma, l’instensità della visione ci obbliga, ancor più delle immagini che pretendono documentare, ad interessarci alla realtà
di ciò che vediamo. Lo spettatore può allora esistere, non più ritrovarsi nella posizione del voyeur o del consumatore, ma condividere una esperienza estrema, interrogarsi riguardo allo stato del mondo e di se stesso. Il sentimento della perdita del soggetto può sembrare paradossale in un lavoro documentaristico dove tento di imporre la mia soggettività, in una autobiografia nata dal viaggio e dall’erranza, ma lo strip-tease emotivo al quale mi lascio andare nelle pagine di questo diario intimo e fotografico sembra portare ineluttabilmente verso questa sparizione. Una fotografia altro non è che menzogna: lo spazio è amputato, il tempo manipolato. Sono due falsi sembianti incontrollabili di una immagine condannata a scegliere tra ipocrisia – o anche la buona conscienza – e la finzione. Il linguaggio utilizzato è spesso un linguaggio di classe, dominatore ma alienato, ignorante della propria materia: l’apparenza, l’ambiguità, l’immaginario. Nelle mie fotografie, nella mia pratica ordinaria della menzogna, non posso pretendere di descrivere altro che non sia la mia stessa situazione – i miei stati ordinari, i miei squillibri intimi...- non posso che commentare l’insignificanza stessa dell’instante fotografico. Addetti dell’antologia, di un sapere riduttivo, di esperienze castrate, noi ci appropriamo dei gesti, sviamo gli atti e vomitiamo segnali che «indicano» la nostra relazione con l’immagnie e determinano la nostra percezione di realtà divenuta ipotetica. Sicché, il mondo si restringe ad icone, un altare difronte al quale il fotografo pratica i suoi rituali. Ma se la liturgia, la preghiera ed il sermone rimangono ancora gli strumenti di culto in vigore, per i fotografi, la verità e la libertà si trovano solo nello spazio della confessione.
Cerco di prendere delle distanze rispetto ad un certo tipo dei fotografia documentaristica che spesso si avvale di simboli troppo facili da leggere e da assimilare, per presentare una realtà complessa, in un equilibrio continuamente rimesso in discussione tra la fotografia, come strumento di documento, e una altra fotografia, interamente soggettiva. Non è lo sguardo che il fotografo posa sul mondo che m’interessa, ma i suoi più intimi rapporti con esso. Penso che le uniche fotografie che abbiano un’esistenza propria sono le immagini «innocenti». Le troviamo negli albums di famiglia o negli archivi di polizia. Oltre ad una semplice registrazione del reale o di un certo carattere estetico, attestano il ruolo del fotografo, della sua implicazione, dell’autenticità della sua posizione in un dato momento. La composizione della luce, la narrazione, non sono più, per me, problemi fondamentali ma menzogne superflue. Quello che m’interessa oggi in un immagine: la prospettiva che ha giustificato l’atto della fotografia, le interferenze dell’esperienza e della messa in scena, la testura, la materia, la funzione de l’autoritratto, del personaggio, le incoerenze della messa in sequenza, la ricostruzione maniacale dell’esperienza disordinata – le fotografie, come le parole, si sentono sole quando sono isolate... Criticare in maniera coerente l’immagine dominante attuale esige da una fotografia che sia lucida nelle condizioni confuse della sua esperienza tra l’occhio e lo sguardo, la macchina e l’incosciente, nell’impurità fondamentale del suo rapporto rispetto al reale e alla finzione. Questo avvicinamento non può concepirsi che nella molteplicità, associando tecniche e pratiche certe volte opposte nel loro utilizzo del linguaggio fotografico, cerco di evidenziare le contradizioni
inerenti alla «funzione» del fotografo documentaristico, che dovrebbe suppostamente trascrivere una realtà di fatto, mentre non fa altro che rapportare una somma di esperienze. Posso quindi utilizzare il mondo per i miei propri fini e, in un esperienza piuttosto solitaria, rimmodelarlo, trasformarlo a volontà, far sì che senza immagini il mondo non esista più....
UNTIL THE WORLD NO LONGER EXISTS. Antoine d’Agata What we see is not made up of what we are seeing but rather from what we are.
Fernando Pessoa
The night, the sex, the wandering… and the need to photograph it all, not so much the perceived act but more like a simple exposure to common and even extreme experiences… It is an inseparable part of photographic practice, in a certain sense, to grasp at existence or risk, desire, the unconsciousness and chance, all of which continue to be essential elements. No moral posturing, no judgment, simply the principle of affirmation, necessary to explore certain universes, to go deep inside, without any care. A ride into photography to the vanishing point of orgasm and death. I try to establish a state of nomadic worlds, partial and personal, systematic and instinctual, of physical spaces and emotions where I am fully an actor. I avoid defining beforehand, what I am about to photograph. The shots are taken randomly, according to chance meetings and circumstances. The choices made, considering all the possibilities, are subconscious. But the obsessions remain constant: the streets, fear, obscurity, and the sexual act... Not to mention perhaps, in the end, the simple desire to exist. Beyond the subject, the lost souls and the nocturnal drifting, the scenes of fellatio and of bodies in utter abandon, I seek to reveal some kind of break up through the mixture of bodies and feelings, to reveal fragments of society that escape from any analysis and instant visualization of the
event, but nonetheless, are its principal elements. The brutality of the form, the intensity of the vision obligates us, still more than images that pretend to document, to involve ourselves with the reality of what we are seeing. The spectator can exist then, no longer finding himself in the position of voyeur or consumer but as sharing an extreme experience, wondering about the state of the world and of himself. The sense of losing sight of the subject may seem like a paradox in a documentary genre where I try to impose my subjective point of view, in an autobiography born from travels and from wandering. But the emotional strip tease, which lets me enter into the pages of this intimate, photographic diary seems to carry me inevitably towards this vanishing point. A photograph is nothing but a lie. The space is cut off, the time, manipulated. They are two uncontrollably false appearances of an image condemned to choose between hypocrisy – and good conscience – and being fake. The language used is often one of class: dominator but alienated, unaware of the actual matter at hand: appearance, ambiguity, the imaginary. In my photographs, in my every day practice of the lie, I cannot pretend to describe anything but my situation itself – my normal states of being, my kinky intimacies… I can only comment on the mere insignificance of the photographic moment. Assigned to the anthology of a reduced knowledge, of castrated experiences, the photographer appropriates himself the gestures, diverts the acts and regurgitates signals that « indicate » our relationship with the images and determine our perception of a reality that has become hypothetical. And so, the world limits itself to icons, an altar in direct
opposition to the rituals the photographer practices. But if the liturgy, the prayer and the sermon are still instruments of a vigorous cult, then for photographers, truth and freedom are found only in the realm of confession. I try to distance myself from a certain type of documentary photography that often avails itself of symbols that are too easy to read and assimilate in order to present a complex reality in a balance that is endlessly discussed over and over between photography as an instrument of documentation and photography as being completely subjective. It isn’t the eye that photography poses on the world that interests me but its most intimate rapport with that world. The only photographs that truly exist are the « innocent » images. We find them in the family photo albums or in the police archives. Beyond serving as a simple documentation of reality or of a certain aesthetic sense, they attest to the role of the photographer, of his implication, of the authenticity of his position in that moment. The compositions of light, narrative, are no longer, for me, fundamental problems but superfluous lies. What interests me today in an image? The perspective that has justified the act of photography, the interference of the experience, of the ongoing scene, the texture, the material, the meaning of the self-portrait, of the individual, the incoherence of the unfolding sequence, the maniacal reconstruction of the random experience – the photographs, like words, are meaningless when isolated… To criticize in a coherent manner, the dominant image actually demands from a photo that it is lucid in the midst of its messy situation, from the experience between a glance and a good, hard look, the camera and the unconscious, in its fundamentally tainted rapport with reality
and fiction. This approach cannot conceive that within multiplicity, associating technique and practice, sometimes opposite each other in their use of the photographic language, I seek to reveal the inherent contradictions to the ÂŤ use Âť of documentary photography, that should supposedly transcribe tangible reality while at the same time, do nothing more than report a myriad of experiences. I can then make use of the world for my own ends and in a basically solitary experience, remodel it, and transform it at will, almost as if without images, the world no longer exists.
ANTOINE D’AGATA
(Marsiglia - Francia, 1961) Vive e lavora tra Marsiglia e Parigi Antoine d’Agata lasciò la Francia nel 1983 e rimase all’estero per i dieci anni successivi. A New York nel 1990, approfondì il suo interesse per la fotografia frequentando i corsi all’ ICP, dove tra i suoi insegnanti vi furono anche Larry Clark e Nan Goldin. Durante il periodo newyorchese, nel 1991-92, d’Agata lavorò come tirocinante presso il dipartimento editoriale di Magnum, ma nonostante le sue esperienze e la formazione negli Stati Uniti, dopo il suo ritorno in Francia nel 1993, si prese una pausa di quattro anni dalla fotografia. I suoi primi libri fotografici, De Mala Muerte e Mala Noche, furono pubblicati nel 1998 e l’anno seguente la Galerie Vu cominciò a distribuire il suo lavoro. Nel 2001, pubblicò Hometownand e vinse il Niépce Prize dedicato ai giovani fotografi. Da quel momento in poi continuò a pubblicare regolarmente: Vortex e Insomnia furono pubblicati nel 2003, insieme alla mostra 1001 Nuits che inaugurò a Parigi; Stigma fu pubblicato nel 2004 e Manifeste nel 2005. Nel 2004 d’Agata entrò a far parte dello staff di Magnum Photos e nello stesso anno, girò il suo primo breve film, Le Ventre il du Monde (The World’s Belly); questo esperimento condusse al film Aka Ana, girato nel 2006 a Tokyo. Dal 2005 Antoine non ha avuto una residenza fissa, ma ha lavorato in giro per il mondo.
Lives and works in Marseille and Paris Antoine d’Agata left France in 1983 and remained overseas for the next ten years. Finding himself in New York in 1990, he pursued an interest in photography by taking courses at the International Center of Photography, where his teachers included Larry Clark and Nan Goldin. During his time in New York, in 1991-92, d’Agata worked as an intern in the editorial department of Magnum, but despite his experiences and training in the US, after his return to France in 1993, he took a four-year break from photography. His first books of photographs, De Mala Muerte and Mala Noche, were published in 1998, and the following year Galerie Vu began distributing his work. In 2001, he published Hometownand and won the Niépce Prize for young photographers. He continued to publish regularly: Vortex and Insomnia appeared in 2003, accompanying his exhibition 1001 Nuits, which opened in Paris; Stigma was published in 2004, and Manifeste in 2005. In 2004 d’Agata joined Magnum Photos and in the same year, shot his first short film, Le Ventre du Monde (The World’s Belly); this experiment led to his long feature film Aka Ana, shot in 2006 in Tokyo. Since 2005 Antoine d’Agata has had no settled place of residence but has worked around the world.
Over LIFE - Antoine D’Agata a cura di Claudio Composti
In collaborazione con Mc2gallery (Milano) e Galerie Les Filles du Calvaire (Parigi)
09/09/17 - 15/10/17 LABottega - Marina di Pietrasanta (LU) Edizione limitata di 100 copie
/100 Edizioni LABottega, 2017 ISBN 978-88-941149-5-9 Testi: “Origine” di Francesco Mutti “Fino a che il mondo non esista più” di Antoine D’Agata progetto grafico Marco Simone Galleni & Serena Del Soldato © per le fotografie, Antoine D’Agata stampato da Bandecchi & Vivaldi s.r.l Tutti i diritti riservati
LABottega viale Apua 188 - 55045 Marina di Pietrasanta, Italia www.labottegalab.com