anno II/nuova serie
La La causa La causa La
numero 4
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maggio-agosto 2017
la causa dei popoli problemi delle minoranze, dei popoli indigeni e delle nazioni senza stato anno II/nuova serie
numero 4
ISSN: 2532-4063
maggio-agosto 2017
EDITORIALE
Direttore: Alessandro Michelucci Redazione: Katerina Sestatova Novotna, Marco Stolfo, Maurizio Torretti, Davide Torri Centro di documentazione sui popoli minacciati, Via Trieste 11, 50139 Firenze, 055-485927 - 327-0453975 E-mail: popoli-minacciati@ines.org
Un anno ricco di anniversari importanti Giovanna Marconi
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DOSSIER C'era una volta il Biafra Alessandro Michelucci
Direttore responsabile: Riccardo Michelucci Comitato scientifico
Valerie Alia Leeds Metropolitan University, José Luis Alonso Marchante storico indipendente, James Anaya University of Arizona, Aureli Argemí CIEMEN, Laurent Aubert Archives internationales de musique populaire, Claus Biegert Nuclear Free Future Award, Guglielmo Cevolin Università di Udine, Duane Champagne UCLA, Naila Clerici Università di Genova, Walker Connor Middlebury College (†), Alain de Benoist Krisis, Toyin Falola University of Texas at Austin, Jacques Fusina Università di Corsica Pasquale Paoli, Edward Goldsmith The Ecologist (†), Barbara Glowczewski Collège de France, Ted Robert Gurr Center for International Development and Conflict Management, Debra Harry Indigenous Peoples Council on Biocolonialism, Ursula Hemetek Universität Wien, Alan Heusaff Celtic League (†), Zohl dé Ishtar Kapululangu Aboriginal Women's Association, Amjad Jaimoukha International Centre for Circassian Studies, Asafa Jalata University of Tennessee, René Kuppe Universität Wien, Robert Lafont Université Paul Valéry (†), Colin Mackerras Griffith University, Luisa Maffi Terralingua, Saleha Mahmood Institute of Muslim Minority Affairs, David Maybury-Lewis Cultural Survival (†), Patrick McCully Black Rock Solar, Matthew McDaniel Akha Heritage Foundation, Antonio Melis Università di Siena (†), Fadila Memisevic Gesellschaft für bedrohte Völker, A. Dirk Moses University of Sydney, Garth Nettheim University of New South Wales, Kendal Nezan Institut Kurde, Helena Nyberg Incomindios, Nicholas Ostler Foundation for Endangered Languages, Anna Paini Università di Verona, Alessandro Pelizzon Southern Cross University, Norbert Rouland Université d'Aix-Marseille III, Rudolph Ryser Center for World Indigenous Studies, Parshuram Tamang Nepal Tamang Ghedung, Colin Tatz Australian Institute of Holocaust and Genocide Studies, Victoria Tauli-Corpuz Tebtebba Foundation, Ned Thomas Mercator Media, Fernand de Varennes Murdoch University, Michael van Walt van Praag Kreddha, Joseph Yacoub Université Catholique de Lyon, Antonina Zhelyazkova International Centre for Minority Studies and Intercultural Relations
Il peso del passato Intervista a Chimamanda Ngozi Adichie
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I fratelli irlandesi John Horgan
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In Biafra come in un incubo Michele Vollaro
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La sinistra deve sostenere il Biafra Lettera aperta di Jean-Paul Sartre e altri intellettuali francesi
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I limiti del diritto all'autodeterminazione Intervista a Bradley Simpson
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L'altra faccia del Sessantotto Per il Biafra, per tutti i popoli minacciati
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Un'altra idea del Biafra Obi Nwakanma
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Il Biafra non è stato sconfitto Wole Soyinka
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Il sole giallo splende ancora Antonella Visconti
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Suoni, immagini e parole
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INTERVENTI Mezzo secolo di occupazione israeliana Iqbal Jassat
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LO SCAFFALE Biblioteca Nuvole di carta Cineteca
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Un anno ricco di anniversari importanti Il 2017 è caratterizzato da numerosi anniversari rilevanti. Quattro ci interessano in modo particolare: vediamo meglio di cosa si tratta. La ricorrenza più remota (1º luglio 1867) riguarda il Canada, che compie 150 anni. Questo anniversario cade un anno dopo che la Truth and Reconciliation Commission ha riconosciuto che la federazione nordamericana si è resa colpevole di genocidio con le famigerate boarding schools, i convitti creati per realizzare l'assimilazione dei popoli indigeni: "uccidere l'indiano, salvare l'uomo", secondo il motto di Richard Henry Pratt, ideatore di questo progetto mostruoso (Andrew Woolford ne ha parlato nel numero precedente). Ma il Canada presenta una varietà culturale che non si esaurisce con gli Indiani. Accanto a questi ci sono infatti gli Inuit (Eschimesi) e i Meticci. Per completare il quadro, pur tenendo presente la differenza sostanziale che li separa dai popoli appena citati, è necessario aggiungere i francofoni del Quebec. Procedendo in ordine cronologico, la ricorrenza successiva riguarda l'Australia: mezzo secolo fa, il 27 maggio 1967, si è tenuto il referendum che ha riconosciuto la cittadinanza alla popolazione aborigena dell'isola. L'anniversario è strettamente legato all'odierna battaglia indigena per la definizione di un trattato che regoli i rapporti fra la maggioranza di origine europea e la minoranza autoctona. In altre parole, un accordo che mitighi gli effetti del concetto di terra nullius, grazie alla quale i coloni britannici si impadronirono dell'isola come se fosse disabitata. Nello stesso periodo, in un'altra parte del mondo, la fine della cosiddetta "guerra dei sei giorni" sanciva l'occupazione dei territori palestinesi da parte di Israele. La minoranza araba era già stata martoriata nel 1947-48 dalla Nakba, quando 750.000 palestinesi erano stati cacciati dalle proprie terre dai coloni sionisti che volevano costruire il proprio stato. "Gli ebrei hanno rubato Israele agli arabi che ci vivevano da mille anni. Israele, come il Sudafrica, è uno stato fondato sull'apartheid" (Rand Daily Mail, 23 novembre 1961): queste parole non erano uscite dalla bocca di Vera Brittain, Nelson Mandela o Bernard Russell, ma da quella di Hendrik Verwoerd, architetto dell'apartheid sudafricano. Oggi la similitudine fra i due paesi viene proposta da molti studiosi, fra i quali Suraya Dadoo e Firoz Osman (The Anatomy of Zionist Apartheid: A South African Perspective, Porcupine Press, 2013) e Andy Clarno (Neoliberal Apartheid: Palestine/Israel and South Africa after 1994, University of Chicago Press, 2017). Nonostante tutto questo, molti si ostinano a definire Israele "la sola democrazia del Medio Oriente". In buona parte si tratta degli stessi che sostengono l'egiziano Al-Sīsī, che ha raggiunto il potere con un colpo di stato, e l'Arabia Saudita, proprietà privata di una famiglia che governa con i mezzi più repressivi da quasi un secolo. L'ultimo anniversario riguarda la guerra del Biafra, che ebbe inizio il 6 luglio 1967. Biafra è una parola che evoca ricordi tragici: una guerra lunga e sanguinosa, bambini con la pancia gonfia per il kwashiorkor (malnutrizione derivante dalla scarsità di proteine), una catastrofe umanitaria che colpì al cuore l'ottimismo postbellico, cioè la speranza che gli orrori della Seconda guerra mondiale non si sarebbero ripetuti mai più. Ma ci sbagliavamo: dall'invasione del Tibet (1950) al genocidio dei musulmani bosniaci (1992-1995), senza contare le innumerevoli guerre e i colpi di stato, nella seconda metà del Novecento il pianeta avrebbe vissuto pochi momenti di pace. La tragedia del Biafra ha rappresentato uno snodo capitale nella storia del Novecento. Fu allora che nacque il concetto di assistenza umanitaria su larga scala. Al tempo stesso, però, fu proprio la catastrofe umanitaria a oscurare le radici politiche della vicenda. In altre parole, cosa aveva scatenato quella guerra? Quale fu la risposta degli altri stati e degli organismi sovranazionali? Perché la rivendicazione di uno stato biafrano è riemersa negli ultimi anni? A questi e ad altri interrogativi cerchiamo di rispondere con il dossier tematico di questo numero. Senza dimenticare il forte impatto che la guerra civile ha avuto in campo letterario, influenzando scrittori che oggi godono di fama mondiale. Giovanna Marconi 3
C'era una volta il Biafra Alessandro Michelucci
Il Biafra si batte per la vera indipendenza dell’Africa, per mettere fine ai quattrocento anni di vergogna e di umiliazione che hanno segnato il nostro rapporto con l'Europa. La Gran Bretagna lo sa e sta usando la Nigeria per distruggerlo. Chinua Achebe, 1968 L'influenza britannica sulla futura Nigeria inizia nel 1807, quando Londra vieta ai sudditi dell'impero di praticare la schiavitù che varie potenze europee esercitano in Africa da due secoli. Le missioni cristiane sono arrivate nel Seicento con i colonialisti portoghesi, ma è soltanto a partire dalla metà del diciannovesimo secolo che si installano nella regione cinque strutture religiose, fra le quali la potente Church Missionary Society anglicana. Durante il secolo la Gran Bretagna continua la propria espansione: all'inizio del Novecento ha costruito ormai l'impero più esteso di tutti i tempi, sul quale "non tramonta mai il sole". Un quarto degli abitanti della Terra sono suoi sudditi. In questo contesto cresce anche la sua influenza sulla futura Nigeria, che viene occupata definitivamente soltanto nel 1885. Nello stesso anno la conferenza di Berlino, organizzata per definire la spartizione del continente fra le potenze coloniali europee, riconosce il potere britannico sulla regione. Per alcuni anni questo dominio viene esercitato dalla Royal Niger Company, ma all'inizio del Novecento la gestione passa nelle mani della Corona. Il territorio viene diviso in due protettorati, uno settentrionale e uno meridionale. Entrambi sono governati da Frederick Lugard, che decide di fonderli in uno: nel 1914 nasce così la Nigeria. Nel paese vivono circa 250 popoli. I i più numerosi sono quattro: Hausa e Fulani, musulmani, concentrati nel nord; Yoruba, in parte cristiani (anglicani e cattolici) e in parte islamici, che vivono prevalentemente nelle regioni centrali e sudoccidentali; Igbo, in larga parte cattolici, concentrati in quelle sudorientali. La diffusione di queste religioni è un lascito coloniale europeo e arabo, ma i culti autoctoni hanno conservato un certo seguito. La fusione voluta da Lugard è dettata da motivi economici: la povertà delle regioni settentrionali dovrebbe essere bilanciata dalle prosperità di quelle meridionali. La nuova colonia viene amministrata attraverso il governo indiretto, che riconosce ampia autonomia ai capi indigeni. Questi garantiscono alla potenza occupante certi vantaggi economici, come il monopolio del commercio, le concessioni e il versamento delle imposte. Dopo la Seconda guerra mondiale il potere viene progressivamente trasferito nelle mani della popolazione. Nel 1953, nella città settentrionale di Kano, una serie di violenti scontri oppone i popoli del nord (Hausa e Fulani) a quelli centrali e meridionali (Igbo e Yoruba). I primi, contrari all'autogoverno che Londra sta per riconoscere, minacciano la secessione. Gli altri intendono invece continuare sulla strada che porterà il paese all'indipendenza. Il contrasto viene poi sanato, ma genera un deterioramento nei rapporti fra i due gruppi. L'anno dopo la Nigeria diventa una federazione che si compone di tre unità territoriali. Questo segna la spartizione del potere fra i tre popoli più numerosi. Pochi anni dopo le tre unità ottengono un'autonomia più ampia. Il 1960 è l'anno che segna il maggiore aumento dei paesi africani indipendenti: nascono 17 stati che rappresentano il 40% dell'intera superficie continentale. In buona parte si tratta di ex colonie francesi, come l'Alto Volta (oggi Burkina Faso), la Costa d'Avorio e il Senegal. Fra i nuovi stati c'è anche la Nigeria. Grande il triplo dell'Italia, il paese sembra avere tutte le carte in regola per divenire una democrazia efficiente e florida: una popolazione numerosa (45.000.000), una classe politica che si è formata nelle università britanniche e ingenti risorse economiche, primo fra tutti il petrolio, scoperto nel 1956, tanto è vero che il paese è già il dodicesimo produttore mondiale. Purtroppo queste speranze vengono deluse molto presto. La Nigeria, come quasi tutti i paesi a4
fricani, è un coacervo inestricabile di popoli divisi da fattori culturali e religiosi. Si parlano oltre 500 lingue. La fusione definita nel 1914 ha già prodotto dei contrasti sociali, ma finora questi sono stati arginati dal potere coloniale. Ora, con l'indipendenza, questo freno viene a mancare e i conflitti si manifestano in modo ancora più acuto. I vari popoli non differiscono soltanto per cultura e religione, ma anche per motivi politici. Gli Igbo, per esempio, hanno una struttura democratica e decentrata, mentre gli Yoruba sono retti da autorità centralizzate. Il paese che nasce il 1ºottobre 1960 è una federazione di tre stati. Il governatore generale è Benjamin Nnamdi Azikiwe. Giornalista e intellettuale, autore del fondamentale Renascent Africa (1937), Azikiwe (detto Zik) è una delle grandi figure dell'indipendenza africana come Jomo Kenyatta (Kenya), Patrice Lumumba (Congo), Kwame Nkrumah (Ghana) e Leopold Sédar Senghor (Senegal). Due anni dopo, in seguito alle prime tensioni causate dalle disuguaglienze economiche e dalle rivalità etniche, viene creato un quarto stato. In questo modo inizia un riassetto territoriale che verrà modificato più volte nel tentativo di garantire maggiore autonomia ai vari popoli: l'ultimo avverrà nel 1996, quando gli stati raggiungeranno il numero di 36. Le elezioni parlamentari che si svolgono fra la fine del 1964 e i il marzo del 1965 segnano la vittoria del Northern People's Congress, che rappresenta soprattutto gli Hausa e i Fulani. Il partito ottiene la maggioranza relativa dei seggi. Nonostante le accuse di brogli, il risultato viene convalidato.
Il grande inganno della decolonizzazione Dietro il termine decolonizzazione si nasconde uno dei più colossali inganni che abbiano segnato la storia del ventesimo secolo. I paesi che perdono le proprie colonie fra gli anni Quaranta e gli anni Novanta – Belgio, Francia, Gran Bretagna, Italia, Paesi Bassi, Portogallo, Spagna e Stati Uniti – si attribuiscono il diritto di fissarne le frontiere mentre lo negano ai popoli interessati. Per conservare i nuovi confini viene concepito il dogma dell’integrità territoriale. Questo criterio arbitrario ha lo scopo di conservare i legami con le ex colonie, parte integrante di un contesto commerciale e politico che non deve essere sovvertito. La contraddizione insanabile fra il diritto all'autodeterminazione e l'intangibilità delle frontiere caratterizza la Carta delle Nazioni Unite (26 giugno 1945), la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo (10 dicembre 1948) e la Carta africana dei diritti dell’uomo e dei popoli, approvata a Nairobi il 27 giugno 1981 dai paesi dell'Organizzazione dell'Unità Africana. Per quanto riguarda in particolare quest'ultima, l'articolo 20 (comma 1) afferma che "Ogni popolo ha diritto all'esistenza. Ogni popolo ha un diritto imprescrittibile e inalienabile all'autodeterminazione. Esso determina liberamente il proprio statuto politico e assicura il proprio sviluppo economico e sociale secondo la via che esso ha liberamente scelto" e che "I popoli colonizzati o oppressi hanno il diritto di liberarsi dalla loro condizione di dominazione ricorrendo a tutti i mezzi riconosciuti dalla comunità internazionale". Secondo l’articolo 29, invece, l'individuo ha il dovere di "... difendere e rafforzare l'indipendenza nazionale e l'integrità territoriale della patria e, in via generale, di contribuire alla difesa del proprio paese, alle condizioni stabilite dalla legge". La contraddizione è palese: un diritto riconosciuto (teoricamente) alla collettività viene negato al singolo. Il dogma dell'integrità territoriale non impedirà comunque che la Cina annetta il Tibet (1951), che l'Etiopia annetta l'Eritrea (1962) e che il Marocco faccia altrettanto con i territori dell'ex Sahara spagnolo (19761979). Naturalmente si tratta solo di qualche esempio, ma l'elenco potrebbe continuare a lungo. Antonella Visconti Questo genera un forte scontento fra gli altri popoli, soprattutto fra gli Igbo e gli Yoruba. La tensione sfocia in un colpo di stato militare che si svolge all'inizio dell'anno successivo. Gli insorti uccidono alcuni esponenti politici delle regioni settentrionali. Azikiwe viene rimosso e sostituito da Johnson Aguiyi-Ironsi. Questo e altri militari sono igbo, mentre la maggioranza delle vittime non appartiene a questo popolo, che viene considerato responsabile della rivolta. Pochi mesi dopo si verifica un nuovo colpo di stato militare. Stavolta gli Igbo sono il bersaglio dichiarato di una persecuzione spietata: oltre 1.000.000 di persone lascia le regioni che abita per sfuggire alla furia dei militari. Ironsi, che cerca di centralizzare il paese, viene ucciso. Il potere passa nelle mani del generale Yakubu Gowon. Nel frattempo la persecuzione degli Igbo ha già portato in primo piano il colonnello Chukwuemeka Odumegwu Ojukwu, governatore della Regione Orientale, dove questo popolo costituisce circa 2/3 della popolazione. 5
Per sanare i contrasti Gowon e i governatori regionali si incontrano ad Aburi, vicino ad Accra, capitale del Ghana, nel gennaio del 1967. L'accordo che viene siglato prevede fra l'altro maggiori poteri locali e il rifiuto di usare le armi per risolvere le controversie future. Ma poche settimane dopo il generale Gowon annulla unilateralmente l'accordo. Ojukwu ne reclama invano il rispetto. Gowon rincara la dose: il 27 maggio proclama una nuova struttura del paese che prevede 12 province. Il riassetto prevede anche la divisione della Regione Orientale in tre unità territoriali. Due di queste, ricche di petrolio e dotate di accesso al mare, sono concepite in modo da isolare la parte centrorientale, la sola dove gli Igbo costituiscono la maggioranza. Così la Regione Orientale perde gran parte degli introiti derivanti dalle attività petrolifere. Il tradimento degli accordi, aggravato dalla nuova divisione del paese, fa precipitare la situazione: il 30 maggio Ojukwu proclama la secessione della Regione Orientale, che diventa indipendente col nome di Biafra, tratto dal golfo omonimo. Il termine si ricollega alla storia precoloniale: le antiche mappe dell'Africa documentano che dal 1492 al 1843 è esistito il regno del Biafra. Da questa regione partì 1/4 degli schiavi diretti nel Nordamerica durante i secoli della tratta. Pochi giorni dopo Ojukwu promulga un decreto secondo il quale "ogni somma relativa alle estrazioni fatte nella Regione Orientale dovrà essere pagata al nuovo governo". In questo modo cerca di neutralizzare gli svantaggi economici derivanti dalla nuova divisione del paese. Grande come la Serbia (77.000 kq), la nuova repubblica è abitata da circa 13 milioni di persone. La bandiera ha tre strisce orizzontali (rosso, nero, verde), al centro delle quali spicca un sole giallo nascente. La nascita del Biafra rappresenta il primo tentativo di contestare i confini dell'Africa postcoloniale. In realtà non è il primo trauma derivato dal nuovo assetto continentale. Le due ribellioni precedenti, quella del Katanga (11 luglio 1960-15 gennaio 1963) e quella del Sud-Kasai (9 agosto 1960-5 ottobre 1962), si sono svolte a poche settimane dalla nascita del Congo, ex colonia belga. Ma devono essere considerate dei fenomeni di assestamento, più che delle secessioni vere e proprie: il Katanga riceveva aiuti dal Belgio, mentre il Sud-Kasai reclamava uno status di autonomia e non l'indipendenza. La nascita del Biafra, invece, segna una netta frattura: per la prima volta gli africani oppongono un rifiuto radicale ai confini fissati dalle (ex) potenze coloniali. Una tragedia di rilievo mondiale Il governo centrale, anziché cercare una soluzione politica, risponde con la guerra: il 6 luglio 12000 soldati federali invadono il Biafra. Il conflitto assume velocemente un rilievo internazionale. Non per il teatro di guerra, che rimane limitato alla Nigeria, ma per il numero dei paesi che si schierano da una parte o dall'altra secondo criteri eterogenei e talvolta contraddittori. Il governo di Lagos viene sostenuto da Gran Bretagna, Unione Sovietica e da alcuni paesi africani, fra i quali Algeria ed Egitto. Il laburista Harold Wilson, che guida il governo britannico, si dichiara disposto ad accettare "la morte di mezzo milione di biafrani, se necessario". Londra rifiuta che la Nigeria, colonia britannica fino al 1960, venga frazionata e sfugga al suo controllo: le grandi riserve petrolifere si trovano proprio nel Biafra e nei territori contigui. Bastano pochi mesi perché la situazione dei ribelli appaia disperata. La loro inferiorità bellica è evidente. Alla fine del 1967 appena il 20% del territorio biafrano è rimasto sotto il controllo dei separatisti. La situazione economica è disastrosa perché le entrate derivanti dalle attività petrolifere continuano ad affluire alle casse federali. La guerra si trasforma presto in una tragedia umanitaria, ma il governo di Lagos cerca di impedire che il Biafra riceva gli aiuti provenienti da varie parti del mondo. I civili vengono falcidiati dalla carestia. La stampa diffonde le foto di bambini con la pancia gonfia per il kwashiorkor: le immagini di persone consumate dalla fame evocano il ricordo della Shoah. In Francia alcuni medici guidati da Bernard Kouchner lasciano la Croce Rossa contestando il suo approccio neutrale. Nel 1971 questo gruppo darà vita a Médecins sans Frontières. In Europa e negli Stati Uniti si organizzano conferenze, cortei, raccolte di fondi e di aiuti. Interviene anche l'Ordine di Malta: alle sue iniziative contribuisce in modo decisivo Cecilia Maria di Borbone-Parma, che trascorre un lungo periodo nel Biafra. La principessa spagnola porta la propria testimonianza al Senato americano, dove trova l'appoggio di Ted Kennedy. È così che gli Stati Uniti iniziano a inviare aiuti umanitari. Martin Luther King si appresta a visitare il Biafra, ma il 4 aprile muore in un attentato a Memphis. Due mesi dopo, a Los Angeles, viene ucciso Robert Kennedy. Scompaiono così due uomini seriamente decisi a occuparsi della tragedia. 6
Dalla parte del Biafra Se la Nigeria è sostenuta da un'insieme eterogeneo di paesi – Gran Bretagna, URSS, vari stati africani – ancora più composito è il fronte che sostiene il Biafra. Il 13 aprile 1968 la Tanzania è il primo paese che riconosce la nuova repubblica. Nelle settimane successive seguono la Costa d'Avorio, il Gabon e lo Zambia. Un altro paese africano che sembra fortemente intenzionato a farlo è l'Uganda. Ma il Presidente Obote preferisce mantenersi neutrale: Kampala, la capitale del paese, è stata scelta come sede dei negoziati che si svolgono in maggio. Dopo l'incontro, che fallisce l'intento, l'intenzione di riconoscere la nuova repubblica viene accantonata. Il paese europeo che si schiera più decisamente dalla parte del Biafra è il Portogallo. Il regime autoritario di Antonio Salazar ha conservato la maggior parte delle proprie colonie africane: Angola, Capo Verde, Guinea Bissau, Mozambico e São Tomé e Principe. L'opportunità di indebolire il (neo)colonialismo britannico è allettante. Il 26 agosto 1968 Salazar scrive a Ojukwu una lettera dove promette di inviare aiuti umanitari e di utilizzare i propri canali diplomatici per convincere altri paesi a fare lo stesso. Il dittatore include un chiaro riferimento alla comune fede religiosa: "Condivido l'orrore e l'indignazione che questo massacro di un popolo cristiano provoca in tutte le coscienze". Ma più che da questa fratellanza religiosa, il Portogallo è attratto dagli introiti che ricava fornendo al Biafra i luoghi d'atterraggio e altri appoggi logistici. Ospita un ufficio diplomatico e fornisce le attrezzature tecniche per stampare la lira biafrana, ma non invia armi né altro materiale bellico. Lisbona, che cerca di conservare le proprie colonie africane, cadrebbe in una contraddizione che gli attirerebbe critiche da tutto il mondo se al tempo stesso fornisse aiuti bellici a un paese che combatte una lotta analoga. Il governo nigeriano invita il regime di Salazar a chiudere l'ufficio diplomatico biafrano che viene ospitato nella capitale, ma invano. Lisbona lo assicura però che non riconoscerà la repubblica secessionista. Nel settembre del 1968 Ojukwu scrive a Mao Tse Tung sollecitando il suo sostegno "nella nostra lotta contro l'imperialismo angloamericano e il revisionismo sovietico". Poco tempo dopo la Cina invia una piccola fornitura di armi facendola passare dalla Tanzania, che ha riconosciuto il Biafra pochi mesi prima. Un paese che sostiene più apertamente la repubblica secessionista è la Francia. Il Biafra riceve da Parigi consistenti forniture di armi. All'inizio del 1969 De Gaulle invoca il "riconoscimento del diritto all'autodeterminazione per il valoroso Biafra". La Francia mira a ridurre il potere britannico nella regione, ma il motivo del suo sostegno è anche un altro: il generale non ha dimenticato che nel 1960 la Nigeria aveva espulso l’ambasciatore Raymond Offroy per protestare contro il terzo esperimento nucleare realizzato dalla Francia a Reggane, nel Sahara algerino, nello stesso anno. Nonostante questo, come il Portogallo, la Francia non riconosce la repubblica africana. In sostanza, anche se sono molti i paesi che la appoggiano – con aiuti umanitari, con armi o con entrambi – quelli che la riconoscono ufficialmente sono soltanto cinque (nel 1969 Haiti si unisce ai quattro stati africani suddetti). Dalla parte del Biafra si schiera anche il Bund der Vertriebenen, l'associazione che tutela le minoranze germanofone espulse dall'Europa centrale dopo la fine dell'ultima guerra.
Bruce Mayrock, come Jan Palach La stessa età, lo stesso anno, la stessa ribellione disperata. Tutti ricordano Jan Palach, il giovane ventenne praghese che nel tardo pomeriggio del 16 gennaio 1969 raggiunse piazza San Venceslao, nel centro di Praga, e si fermò ai piedi della scalinata del Museo Nazionale. Si cosparse il corpo di benzina e si appiccò il fuoco con un accendino. Morì dopo tre giorni di agonia. Cinque mesi prima, nella notte tra il 20 e il 21 agosto 1968, i carri armati sovietici erano entrati nella capitale cecoslovacca per soffocare la Primavera di Praga guidata da Alexander Dubček. Ma quasi nessuno ricorda Bruce Mayrock, il giovane studente newyorkese che il 29 maggio 1969 si diede fuoco davanti al Palazzo di vetro per protestare contro l’inerzia dell'ONU nei confronti della tragedia biafrana. Il suicidio avvenne attorno alle 3 del pomeriggio. Bruce fu portato al Bellevue Hospital, dove morì poco prima di mezzanotte. Sul luogo del suicidio aveva lasciato un cartone con queste parole: "You must stop the genocide - please save 9 million Biafrans. Peace is where there is an absence of fear of any kind". (Dovete fermare il genocidio. Vi scongiuro, salvate nove milioni di biafrani. La pace esiste soltanto dove non c'è la paura). Antonella Visconti 7
La tragedia stimola inoltre la simpatia di alcuni personaggi celebri: gli scrittori Graham Greene e Kurt Vonnegut; Jean-Paul Sartre, Simone de Beauvoir e altri intellettuali della sinistra francese; il critico letterario Leslie Aaron Fiedler. John Lennon restituisce il titolo di baronetto in segno di protesta contro il sostegno britannico alla Nigeria. Lo stesso fa il pugile biafrano Dick Tiger, il campione mondiale dei mediomassimi che nel 1969 sconfigge Nino Benvenuti. Altri paesi optano per una linea politica ambigua o incerta. Léopold Senghor, presidente del Senegal, dimostra inizialmente una forte simpatia per la causa biafrana. Nell'aprile del 1968, insieme al presidente tanzaniano Julius Nyerere, è uno dei primi ad accusare la Nigeria di genocidio. Gli Stati Uniti, dal canto loro, non possono applicare la logica della guerra fredda: né il Biafra né la Nigeria rappresentano un pericolo comunista. Nel 1968, durante la campagna presidenziale, Richard Nixon denuncia le stragi compiute dall'esercito nigeriano, ma una volta che il candidato repubblicano è diventato presidente il suo orientamento cambia radicalmente. Non si dimostra inerte come Johnson, ma gli aiuti umanitari inviati da Washington sono scarsi. Kissinger, consigliere per la sicurezza nazionale, è contrario alla frammentazione della Nigeria, perché pensa che questa possa compromettere i legami economici fra i due paesi. Kissinger teme anche che la vittoria del Biafra possa danneggiare i rapporti degli Stati Uniti con i maggiori alleati della Nigeria, la Gran Bretagna e l'Organizzazione dell'Unità Africana (OUA). Nella primavera del 1968 la situazione biafrana comincia a farsi disperata. La popolazione viene quindi stimolata a svolgere un ruolo attivo: a questo scopo viene creato un gruppo paramilitare, la Biafran Organization of Freedom Fighters (BOFF), guidato dal colonnello Ejike Obumneme Aghanya. Il suo compito è quello di compiere azioni punitive fra i biafrani contrari alla causa separatista. L'inerzia delle Nazioni Unite Nessun organismo sovranazionale sostiene la causa biafrana. L'OUA si schiera nettamente dalla parte della Nigeria nel nome dell'integrità territoriale. Promuove due volte un incontro fra le parti in conflitto, ma invano. Il Movimento dei Non-Allineati è presieduto da Nasser, che al tempo stesso guida l'Egitto, schierato dalla parte della Nigeria. Un altro esponente centrale dell'organizzazione, lo jugoslavo Tito, promuove una campagna mediatica e diplomatica contro i separatisti. Le Nazioni Unite optano per un'inerzia che mette a nudo i limiti di questo organismo. La questione non viene mai discussa al Palazzo di vetro. Il segretario generale U Thant afferma che la guerra è "una questione interna" e che riguarda soltanto i paesi africani. Non solo non condanna il genocidio, ma rimane sordo davanti alle sollecitazioni provenienti da vari stati, fra i quali il Canada e la Francia, che gli chiedono di intervenire. U Thant rifiuta perfino di contribuire al ponte aereo che viene istituito da alcune associazioni religiose e ONG per inviare aiuti alla popolazione biafrana. L'ex presidente nigeriano Azikiwe, schierato coi separatisti, concepisce un piano di pace che sottopone alle Nazioni Unite, ma la proposta viene rifiutata. Daniel Jacobs, funzionario dell’UNICEF, abbandona l'agenzia umanitaria dell'ONU in segno di protesta contro l'indifferenza di U Thant. Quindi fonda il Committee for Nigeria-Biafra Relief e denuncia l'inerzia colpevole dell'ONU nel libro The Brutality of Nations. La guerra sfocia nel genocidio Ormai le vittime principali della guerra sono i civili: la guerra sfocia in un genocidio. Ma questo termine è associato alla Shoah, quindi non è facile accettare che una tragedia analoga si stia ripetendo. Londra e Lagos, ovviamente, respingono le accuse che arrivano da varie parti. Fra il 1968 e il 1969 escono vari libri che denunciano il genocidio. In Gran Bretagna Auberon Waugh e Suzanne Cronjé pubblicano Biafra: Britain’s Shame, che accusa duramente la politica del governo. Il giornalista Frederick Forsyth, autore di The Biafra Story, è costretto a lasciare la BBC perché il libro riceve forti critiche. Winston Churchill jr., nipote del celebre statista, visita il Biafra e scrive vari articoli per il Times, oltre a sostenere la Britain-Biafra Association. In Francia esce Mort du Biafra, dove le fotografie di Gilles Caron documentano la tragedia. Tilman Zülch e Klaus Guercke, fondatori dell'associazione tedesca Aktion Biafrahilfe, denunciano il genocidio in due libri, Biafra, Todesurteil für ein Volk? e Soll Biafra überleben? Il fotografo Romano Cagnoni documenta la tragedia sulle maggiori testate italiane e straniere. "Non voglio vedere la Croce Rossa, né la Caritas, né il Consiglio Mondiale delle Chiese, il Papa, i missionari, l'ONU. Gli Igbo non devono avere nemmeno un tozzo di pane finché non si saranno arresi", afferma il colonnello Atakunle (The Economist, 24 agosto 1968). 8
Alla fine del 1968 l'American Jewish Congress, la principale organizzazione ebraica americana, pubblica The Tragedy of Biafra. Il documento analizza la guerra in atto e si chiede se sia possibile parlare di genocidio. Per la prima volta dopo la fine della Seconda guerra mondiale un'associazione ebraica ipotizza che possa accadere una tragedia paragonabile alla Shoah. Il rapporto non prende posizione, ma cita il parere di due parlamentari canadesi, Andrew Brewin e David MacDonald, che hanno visitato il Biafra: "Chiunque affermi che non si possa parlare di genocidio è al soldo della Gran Bretagna o è pazzo". I due descrivono poi il ruolo del Canada nel libro Canada and the Biafran Tragedy (James Lewis & Samuel, 1970). Alla fine del 1968 la Columbia University di New York ospita una conferenza internazionale sul Biafra organizzata dall'American Committee to Keep Biafra Alive.
Le vittime dimenticate della guerra civile La guerra del Biafra viene presentata come uno scontro fra i tre popoli più numerosi della Nigeria: da una parte gli Hausa e i Fulani, che svolgono un ruolo di primo piano nel governo federale, dall'altra gli Igbo, protagonisti della secessione. In effetti questi ultimi costituiscono circa due terzi della popolazione biafrana e quindi hanno un ruolo centrale. Ma mentre gli Igbo, salvo eccezioni molto rare, sono pronti a combattere per difendere il nuovo stato, lo stesso non vale sempre per gli altri popoli: Annang, Efik, Ibibio, Ijaw, Ikwerre, Ogoni, etc. Fra questi le posizioni sono molto differenziate, anche se una parte si schiera coi separatisti. Lo scrittore ogoni Kenule Beeson Saro-Wiwa (noto come Ken Saro-Wiwa), che combatte nell'esercito federale, racconterà questa esperienza in Sozaboy: A Novel in Rotten English (Saros, 1985, tr. it. Sozaboy, Baldini & Castoldi, 2005). Anche Elechi Amadi, ikwerre, si schiera contro il Biafra. Il suo romanzo Sunset in Biafra (Heinemann, 1969) è una delle prime testimonianze dirette del conflitto. Gabriel Okara, poeta ijo filobiafrano, strenuo sostenitore dell'uso delle lingue autoctone, manifesta il proprio pacifismo nella poesia Leave us alone. I popoli minoritari si trovano fra due fuochi. Da una parte vengono cooptati nel nuovo stato senza essere stati consultati. Dall'altra credono che sia meglio far parte della Nigeria, specialmente dopo che questa ha diviso la Regione Orientale in tre nuovi stati, riducendo così il predominio degli Igbo. I civili vengono massacrati in varie occasioni, sia dall'esercito federale che da quello biafrano. Antonella Visconti Tramonta il sogno del Biafra Negli ultimi mesi della guerra il governo separatista cerca di definire i "principi della rivoluzione biafrana". Questi vengono enunciati nella Dichiarazione di Ahiara, scritta da Benedict Obumselu, che Ojukwu legge pubblicamente il 1° giugno 1969. La Nigeria viene definita un paese "corrotto, arretrato, oppressivo e non riformabile come era l'impero ottomano oltre un secolo fa". Viene condannato il neocolonialismo nigeriano, erede del colonialismo britannico: "...siamo costretti a sacrificare la nostra identità all'integrità di questa invenzione marcia (la Nigeria, ndt) che non ha alcuna giustificazione storica e non deriva dalla volontà popolare. Per quale altro motivo ci viene imposto tutto questo se non per il fatto che siamo neri?". Dopo aver rifiutato "le ideologie fabbricate in Europa, in America o in Unione Sovietica", il documento sottolinea che gli Igbo e gli altri popoli biafrani sono "in prevalenza cristiani" e che "la nostra lotta è anche una resistenza all'espansionismo arabo-musulmano". Trentatre anni prima della nascita di Boko Haram, il movimento islamista che insanguinerà la Nigeria nel nuovo millennio, Ojukwu prevede che la religione coranica ipotecherà il futuro del paese. Poco tempo dopo chiede l'intervento dell'ONU per definire una tregua, ma Gowon lo rifiuta. Ormai il sogno biafrano sta per tramontare. L'8 gennaio Ojukwu abbandona il paese e raggiunge la Costa d'Avorio lasciando il potere a Philip Effiong. Non è chiaro se si tratti di una fuga o di un viaggio per cercare una soluzione del conflitto. Il 12 Effiong annuncia la resa, che viene uffi-cializzata tre giorni dopo. Il bilancio è spaventoso: quasi 3.000.000 di morti, 1.800.000 dei quali annientati dalla carestia (le cifre variano a seconda delle fonti). Il territorio viene reintegrato nella Nigeria. La parola Biafra viene proibita (il Golfo del Biafra sarà ribattezzato Golfo di Bonny). Nonostante questo Gowon non si dimostra ostile verso gli sconfitti, ma opta per la riconciliazione: No victor no vanquished (Né vincitori né vinti). Ojukwu, amnistiato nel 1983, torna in patria dopo il lungo esilio in Costa d'Avorio. Nel 2000 il presidente Obasanjo proclama l'amnistia generale. 9
Un paese ricco ma senza pace Oggi, nel 2017, la Nigeria è un paese completamento diverso. L'industria cinematografica e le attività petrolifere hanno avuto uno sviluppo enorme. Il paese viene definito "il gigante dell'Africa" perché non ha rivali economici a livello continentale. Secondo i dati della Banca Mondiale, il suo PIL è superiore a quello di paesi come Austria, Belgio e Norvegia. Nonostante questo, molti problemi politici e sociali sono rimasti e alcuni si sono perfino aggravati. Sperando che il riassetto territoriale potesse risolverli, i vari governi hanno aumentato più volte il numero degli stati: oggi sono 36, 12 dei quali (49% del paese) applicano la legge islamica (sharia). Questa disparità giuridica col resto del paese sbarra la strada alla riforma auspicata da più parti: la trasformazione della Nigeria in una vera federazione (true federalism è appunto l'espressione impiegata dai suoi fautori). Oltre 112.000.000 di persone (59% della popolazione) vivono in povertà, l'analfabetismo tocca il 40% e il 21% dei giovani non ha lavoro. Un'altra piaga che affligge il paese è la corruzione. Secondo i dati forniti da Transparency International (2016), la Nigeria occupa la posizione n. 136 sui 176 stati analizzati. Come se questo non bastasse, il terrorismo islamista di Boko Haram, meno noto dell'ISIS ma altrettanto sanguinario, ha ucciso oltre 20.000 persone e ne ha costrette 2.300.000 ad abbandonare le proprie case. La violenza devasta ancora la Nigeria, paese ricco ma senza pace.
Popoli e religioni della Nigeria (abitanti: 191.000.000) POPOLI Yoruba Igbo Hausa * Fulani * Ijaw Kanuri Ibibio Tiv Urhobo Nupe Ngas Efik Gwari Ogoni Altri
% 21 18 16 11 10 4 4 3 2,2 2 2 2 1,50 0,50 2,80
RELIGIONI Mus. sunniti Mus. sciiti Protestanti Cattolici Altri cristiani Rel. tradizionali +
% 41 2 30 9 12 6
I presidenti della Nigeria Presidente Benjamin Nnamdi Azikiwe + Benjamin Nnamdi Azikiwe Johnson Aguiyi-Ironsi * Yakubu Gowon *† Murtala Muhammed * Olusegun Obasanjo * Shehu Shagari Muhammad Buhari * Ibrahim Babangida * Ernest Shonekan Sani Abacha * Abdulsalami Abubakar * Olusegun Obasanjo Musa Yaradua Goodluck Jonathan Muhammad Buhari
* Hausa e Fulani sono spesso calcolati come un popolo unico (quindi il più numeroso, 27%) per la comune fede islamica e i frequenti matrimoni misti. + governatore generale * governo militare Inoltre molti fulani abbandonano la lingua autoctona e adottano lo hausa. † in carica durante la guerra civile + Religioni autoctone che i missionari hanno cercato di sradicare.
Durata Popolo 1960-63 1963-66 1966 1966-75 1975-76 1976-79 1979-83 1983-85 1985-93 1993 1993-98 1998-99 1999-07 2007-10 2010-15 2015-
igbo igbo igbo ngas hausa yoruba fulani fulani gwari yoruba kanuri nupe yoruba fulani ijaw fulani
Bibliografia AA. VV., "The Nigeria-Biafra War, 1967-1970: Postcolonial Conflict and the Question of Genocide", numero speciale di Journal of Genocide Research, XVI, 2-3, 2014. Ekwe-Ekwe H., Biafra Revisited, African Renaissance, Dakar and Reading, 2006. Forsyth F., The Biafra Story, Penguin, London 1969. Gould M., The Struggle for Modern Nigeria: The Biafran War 1967-1970, I. B. Tauris, London 2012. Heerten L, "A wie Auschwitz, B wie Biafra. Der Bürgerkrieg in Nigeria (1967–1970) und die Universalisierung des Holocaust", Zeithistorische Forschungen/Studies in Contemporary History, VIII, 2011, pp. 394–413. Jesus J. M. D. de, A guerra secreta de Salazar em África: Aginter Press, uma rede internacional de contra-subversão e espionagem sediada em Lisboa, Dom Quixote, Lisboa 2012. Korieh C., The Nigeria-Biafra War: Genocide and the Politics of Memory, Cambria Press, Amherst (NY) 2012. Maugeri I., Nigeria 1967-1970: The Biafra War and Its Consequences, lulu.com, 2013. Nwafor A., "Born in Fire: Prelude to Biafra", Michigan Quarterly Review, IX, 2, Spring 1970, pp. 93-103. Ojukwu C. O., Because I Am Involved, Spectrum Books, Ibadan 1989. Ugochukwu F., Biafra, la déchirure. Sur les traces de la guerre civile nigériane de 1967-1970, L'Harmattan, Paris 2009. Waugh A., Cronjé S., Biafra: Britain’s shame, Joseph, London 1969.
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Il peso del passato Intervista a Chimamanda Ngozi Adichie
La letteratura nigeriana è stata profondamente segnata dalla questione biafrana. Lo scrittore igbo Chinua Achebe si è schierato con i separatisti fin dall'inizio. Morto nel 2013, l'anno precedente aveva pubblicato il libro autobiografico There Was a Country: A Personal History of Biafra (Penguin, 2012). Lo yoruba Wole Soyinka (Premio Nobel per la letteratura 1986) si è invece adoperato per evitare la guerra. Il governo nigeriano, considerandolo erroneamente un fiancheggiatore dei separatisti, lo ha tenuto in prigione per 22 mesi. Alla questione biafrana Soyinka ha dedicato due libri, il romanzo Stagione di anomia (Jaca Book, 1981) e il saggio autobiografico L'uomo è morto (Jaca Book, 1986). Un caso a parte è quello di Chimamanda Ngozi Adichie, anch'essa igbo, che ha guadagnato fama mondiale col suo secondo romanzo, Half of a Yellow Sun (tr. it. Metà di un sole giallo, Einaudi, 2008). Nata nel 1977, la scrittrice continua la grande tradizione letteraria iniziata da Achebe e Soyinka. Metà di un sole giallo è stato premiato più volte, tradotto in trenta lingue e trasposto sullo schermo con il film omonimo, che purtroppo non è stato distribuito in Italia. In compenso, tutte le sue opere sono state tradotte in italiano. Quella che segue è un'intervista dove la scrittrice racconta perché ha sentito il bisogno di scrivere un romanzo ispirato alla guerra civile. L'intervista, curata da Rina Palta, è tratta dalla rivista americana Mother Jones, che ringraziamo per averci concesso di tradurla e pubblicarla. Half of a Yellow Sun è ambientato durante la guerra del Biafra. Perché ha scelto questo tema? Anche se si tratta di un tema centrale nella storia nigeriana, pochi hanno parlato delle persone coinvolte nella guerra. Ma al di là di questo, ho scritto questo libro perché sentivo che dovevo farlo. Il mio nonno è morto nella guerra civile, tutta la mia famiglia l'ha vissuta e i miei genitori ne sono stati segnati profondamente. Era tanto che volevo scrivere una storia ambientata in quegli anni. Sentivo che l'esperienza del Biafra faceva parte di me, ma non riuscivo a elaborarla. Quanto ha inciso la questione del Biafra sulla tua famiglia? Moltissimo. Ma non soltanto sulla mia famiglia, perché ne ha coinvolte tante, soprattutto fra gli Igbo. Perché non è stata una guerra fra Nigeria e Biafra, ma è stata soprattutto una guerra biafrana: la gente di quella regione partecipava intensamente. Quando ero bambina ne sentivo parlare come di una vicenda negativa: mio nonno era morto in guerra, quindi non ho potuto conoscerlo. Sapevamo tutti che c'era stato un lungo conflitto, ma i miei genitori ne sapevano poco. Poi, crescendo, ho cominciato a leggere dei libri sulla guerra e a farmi delle domande. Tu sei cresciuta in una famiglia della media borghesia, dotata di una certa levatura intellettuale, come i protagonisti del tuo libro. Tuo padre era un professore di statistica; uno dei personaggi princpali, Odenigbo, insegna matematica. Ti sei ispirata al tuo ambiente familiare? Prima di scrivere il libro ho fatto molte ricerche e ho parlato con molte persone, ma mi sono ispirata soprattutto alla vita di mio padre. Non ho raccontato quello che gli era accaduto, ma l'ho rielaborato in modo romanzesco. In ogni caso gran parte del libro si basa sulla nostra esperienza familiare. All'inizio del romanzo i protagonisti si concentrano sulla costruzione di un'identità collettiva nella situazione confusa della Nigeria postcoloniale. Si chiedono se devono considerarsi nigeriani, oppure legati all'identità tribale, o semplicemente africani. Poi quelli che appartengono al popolo igbo diventano nazionalisti biafrani. Cosa pensi di queste identità che si intrecciano? Credo che l'identità cambi. Succede anche a me: per gli africani è la regola. Ora sono negli Stati Uniti, quindi sono africana o nera. Se andassi in un altro paese sarei nigeriana. Quando torno in Ni11
geria sono anzitutto una igbo. Insomma, dipende da dove mi trovo. Nei primi anni dell'indipendenza, per molti intellettuali nigeriani era importante assumere una posizione contro il colonialismo britannico. In altre parole, volevano tracciare una linea di demarcazione netta: la Nigeria ai nigeriani, piuttosto che un'identità creata dai britannici. Non credo che allora fosse importante l'identità etnica — Igbo, Yoruba o altro — ma che fosse importante sentirsi padroni a casa propria. Cosa un po' buffa, perché il primo governo indipendente era considerato un'imposizione. Agli intellettuali non piaceva affatto. Restiamo sul tema del colonialismo. A un certo punto del romanzo Odenigbo, il protagonista maschile, chiede al suo servitore: "Se io ti ordino di uscire per strada e picchiare una donna, e tu le procuri una brutta ferita a una gamba, chi è il responsabile della ferita, tu o io?" Questa è un'allusione a Patrice Lumumba, il Primo ministro congolese che venne assassinato dall'esercito, a quanto pare su ordine del governo belga. Dato che nel libro emerge questo tema della complicità con la potenza coloniale, chi credi sia stato responsabile della guerra civile? Credo che la responsabilità non sia di una parte sola. Non possiamo parlare dei frequenti conflitti che scoppiano in Africa senza far riferimento al nostro passato coloniale. Nel caso di Lumumba, per esempio, la gente dice "Comunque c'entravano anche i congolesi". Secondo me la responsabilità non è del soldato semplice, ma delle alte cariche militari. Nel caso della guerra civile, non credo che sarebbe durata così a lungo e finita come sappiamo se non ci fosse stato un coinvolgimento attivo della Gran Bretagna e dell'Unione Sovietica, e se gli Stati Uniti avessero fatto di più. Praticamente Washington rimase a guardare. Poteva fare di più, ma non lo fece. Erano distratti dal Vietnam e quant'altro. Ma io credo che molto di quanto accadde sia da addebitare a entrambe le parti. La Nigeria non era in grado di vincere. Comunque la disgregazione del paese non sarebbe stata possibile senza il contributo di coloro che erano al potere. Quale fu il ruolo della Gran Bretagna nella guerra? Bisogna distinguere. Da una parte, la gente comune fu profondamente toccata dalla carestia e si adoperò con mille iniziative. Dall'altra, però, la posizione ufficiale del governo fu di quella di conservare l'unità della Nigeria a qualunque costo. Qualcuno sapeva che era in ballo il petrolio, ma credo che solo recentemente sia stato compreso quanto questo fosse importante per la Gran Bretagna. Londra non voleva che le zone petrolifere cadessero sotto il controllo del Biafra, perché non sapeva cosa avrebbe fatto il governo di Ojukwu. Così decisero di armare la Nigeria. Il sostegno britannico limitò il numero dei paesi che riconobbero il Biafra: credo che l'avrebbero fatto anche molti altri, se la Nigeria non avesse avuto dietro di sé la potenza dell'impero britannico. Vedi delle analogie fra il Biafra e certi conflitti odierni? Il Sudan, forse il Medio Oriente? Si tratta di popoli ed aree diverse. Anche per motivi geografici, che secondo me sono importanti. Ma pensare che la creazione di un nuovo paese risolva miracolosamente tutti i problemi è un grave errore. Soprattutto se il paese dal quale ci si separa è retto da un sistema di divide et impera che vuole conservare l'unità ad ogni costo. In queste condizioni la secessione è destinata a fallire. Io non credo che i problemi della Nigeria derivino dal fatto che si sono tanti popoli differenti. La con-vivenza di popoli diversi è possibile. Il problema, secondo me, nasce quando un gruppo etnico viene favorito rispetto agli altri: questo compromette la convivenza e fa nascere degli stereotipi. Così quando nascono dei problemi quelli che governano dicono: "Vedi, è tutta colpa degli Igbo". Lo stesso è accaduto in Rianda e in tanti altri posti. Ma la guerra civile è davvero finita? Come mai la Nigeria è in preda a questioni etniche continue? Non credo che la guerra sia finita completamente, ma questo è un tema che ora non ci interessa. Ci sono state delle ingiustizie di cui nessuno vuole parlare perché a molti non conviene farlo. Ma ci sono ancora delle questioni etniche da risolvere. Ci saranno sempre, perché sono state politicizzate fin dall'inizio. Ma io penso che alla maggior parte dei nigeriani non importi chi sia il presidente: a loro basta che non sia corrotto. Vogliono soltanto un buon leader, non importa da dove venga. 12
L'attuale presidente Obasanjo è l'uomo che accettò la resa dell'esercito biafrano: si tratta soltanto di un caso? Non saprei, ma è molto strano. Non si tratta soltanto di lui, perché tutti i presidenti che ci sono stati dopo la guerra erano stati coinvolti nel conflitto. Ora sono curiosa di vedere come andranno le elezioni presidenziali (si rifrisce a quelle del 2007, ndt). È la prima volta che abbiamo delle vere elezioni, cioè che un governo democratico succede a un altro. Sono preoccupata, perché abbiamo un ex dittatore (Muhammadu Buhari, ndt) che si candida e la gente lo trova normalissimo. E quest'uomo ebbe un ruolo importante nella guerra. La Nigeria è molto abile nel riciclare i dittatori. Venendo all'attuale situazione africana, quale pensi che sia il ruolo degli Stati Uniti e dell'Europa? Sono stanca di vedere che l'Africa rimane un continente piagato dal disordine sociale, dalle guerre e dalla carestia. Se uno dovesse farsene un'idea in base all'immagine diffusa dai media americani, penserebbe che gli africani sono una massa di stupidi che amano vivere in questo caos. Non li dipingono mai come esseri umani a pieno titolo. Da una parte l'Occidente riconosce che abbiamo avuto leader politici di pessima qualità. Dall'altra, però, le ricchezze che rubano ai propri paesi vengono accolte nelle banche occidentali. Riceviamo lezioni di libero commercio dagli stessi paesi che spesso sovvenzionano gli agricoltori. Non mi piace neanche tutta l'importanza che viene data agli aiuti. Non mi piace l'idea che gli africani debbano essere sovvenzionati all'infinito. L'Africa deve essere messa in condizione di partecipare al mercato globale. Lo so che non è facile, ma trovo intollerabile che venga dipinta come un mendicante che avrà sempre bisogno di aiuti. Come accade nella pubblicità di Save the Children… Certo. E mi dico: "Se non fossi africana, chissà cosa penserei di questi africani". Capisci? Che posto credi di occupare nella grande tradizione degli scrittori politici nigeriani? Io scrivo storie che parlano di esseri umani. Ma parlare del Biafra senza parlare di politica è impossibile. Ci sono paesi dove la politica non incide direttamente sulla vita della gente, così le persone possono vivere senza sapere cosa stia succedendo. In Nigeria no. Credo che anche gli Stati Uniti stiano diventando così, perché dopo l'Irak e l'11 settembre la gente è molto interessata a capire cosa succede. I ragazzi parlano di politica perché hanno capito che è importante: quello che accade si riflette sulla loro vita. Se il governo non finanzia le scuole, come accade spesso, gli studenti non vanno a scuola e restano a casa. Ma non voglio scrivere romanzi apertamente politici: a me interessano le persone, la famiglia, i sentimenti. Questo non esclude che ci sia spazio anche per la politica.
Il poeta assetato di sole La guerra del Biafra è appena cominciata quando un poeta igbo di 35 anni, Christopher Ifekandu Okigbo, muore sul campo. Il suo nome è quasi ignoto in Italia, dove le sue opere non sono state ancora pubblicate, ma Okigbo merita di essere considerato uno dei più grandi poeti africani del ventesimo secolo. Nato il 16 agosto 1932 a Ojoto, nei pressi di Onitsha, è figlio di un maestro delle scuole missionarie che sono parte integrante della struttura coloniale britannica. Studia all'Università di Ibadan come tanti altri scrittori nigeriani, fra i quali Elechi Amadi e Wole Soyinka. Inizialmente orientato verso la medicina, decide poi di dedicarsi agli studi classici. Nonostante la fervente fede cristiana del padre, Okigbo si avvicina alla religione originaria del suo popolo, e in particolare alla dea Idoto, che comparrà spesso nelle sue poesie. Coerente con questa scelta, sottolinea più volte l’impatto negativo della cristianizzazione. Contrario all'idea di négritude promossa da Senghor e da altri poeti africani, rifiuta il concetto di "poeta nero" e non accetta il premio che gli viene conferito al World Festival of Negro Arts (Dakar, 1965). Quando viene dichiarata la secessione entra come volontario nell'esercito biafrano, ma viene ucciso nel settembre del 1967 a Nsukka. Poeta di straordinaria sensibilità e di grande profondità introspettiva, ha lasciato un'impronta indelebile nella letteratura africana. Nel 2005 la figlia Obiageli ha creato la Christopher Okigbo Foundation. Fra i garanti ci sono Chinua Achebe e Wole Soyinka. Obi Nwakanma gli ha dedicato una bella biografia, Christopher Okigbo, 1930-67: Thirsting for Sunlight (James Currey, 2010). Giovanna Marconi 13
I fratelli irlandesi John Horgan
Cinquant'anni fa i confini dell'Africa postcoloniale furono colpiti dal primo terremoto. La Nigeria, un paese vasto ed etnicamente eterogeneo, rischiò di spaccarsi per tensioni sociali di vario genere, e la secessione del Biafra che avvenne nel maggio del 1967 ebbe pesanti ripercussioni politiche e diplomatiche. Tutto questo non coinvolse soltanto i principali paesi europei, ma anche l'Irlanda. Inizialmente gli eventi non ottennero molta attenzione: era una piccola guerra che si svolgeva in un paese lontanto fra gente di colore. Ma poi le cose cambiarono per due motivi. Il primo fu il petrolio. Il territorio del Biafra – così era stato chiamato il nuovo stato dal suo presidente Emeka Ojukwu – comprendeva consistenti giacimenti petroliferi, forse fra i maggiori dell'intero continente. Per il governo militare federale, nato nel 1966 dopo vari colpi di stato, quelle risorse erano vitali. Altrettanto importanti erano per le compagnie petrolifere britanniche, che le sfruttavano già da tempo, e per le compagnie francesi rivali. Quel popolo ridotto alla fame che lottava per l'indipendenza colpì profondamente l'opinione pubblica irlandese. Non era soltanto una guerra civile per il controllo delle risorse, ma un conflitto internazionale che coinvolgeva due ex potenze coloniali. Il secondo motivo fu la religione. Non una religione autoctona, ma il cristianesimo, e in particolare il cattolicesimo, largamente maggioritario nella regione sconvolta dalla guerra. Dall'inizio del Novecento i missionari cattolici irlandesi erano particolarmente attivi nelle regioni orientali della Nigeria (le stesse che avrebbero costituito il Biafra). Nel 1967 molti di loro, vedendo delle affinità fra il Biafra e la lotta per l'indipendenza dell'Irlanda, si schierarono apertamente dalla parte del nuovo stato africano e iniziarono a cercare il sostegno dell'opinione pubblica. Nonostante facessero leva su un paragone convincente ci volle quasi un anno perché i media cominciassero a parlarne. A quel punto il direttore dell'Irish Times, Douglas Gageby, mi inviò in Biafra perché mi occupassi di una questione che stava cominciando a interessare fortemente l'opinione pubblica. Fui il secondo giornalista anglofono che visitò il paese africano; il primo era stato Harrison Salisbury del New York Times, e dopo di me Frederick Forsyth e altri sarebbero diventati convinti sostenitori della causa biafrana. La guerra ebbe anche notevoli riflessi in campo politico e diplomatico. Nel gennaio del 1968, subito prima che io partissi, Kevin McCourt, all'epoca direttore generale di RTÉ (Raidió Teilifís Éireann, la radiotelevisione pubblica irlandese) intervenne personamente per impedire che la troupe partisse, ma invano. Le autorità federali nigeriane avevano scelto una strategia che sarebbe stata utilizzata anche mezzo secolo dopo in Medio Oriente: piegare il nemico con la fame. Come disse un esponente del governo, "Non vedo perché dovremmo nutrirli per permettere loro di combattere meglio". Lo spettro della fame, associato a una lotta per l'indipendenza, ebbe un impatto emotivo fortissimo sull'opinione pubblica, che cominciò a sostenere il ponte aereo organizzato per inviare gli aiuti medici e alimentari al paese assediato. Oggi dispiace dirlo, ma questi fattori condizionarono fortemente gli articoli sulla guerra che vennero pubblicati in Irlanda, compresi i miei, mentre furono trascurati gli aspetti geopolitici legati alla presenza del petrolio. Molti dei nostri articoli si concentrarono sugli aspetti etnici della questione. Lo stesso Ojukwu, il giovane presidente biafrano, li sottolineò con forza quando lo intervistai. Era un oratore esperto, e la folta barba nera che gli incorniciava il viso accentuava il suo aspetto mefistofelico, ma al tempo stesso piacevole, mentre manifestava il desiderio di costruire un paese libero dalle tensioni etniche che avevano lacerato la Nigeria. Poi, mentre eravamo seduti nella sua terrazza, sentimmo il rumore lontano di un reattore che volava nel cielo. Capimmo subito cosa stava succedendo. Il Biafra non aveva forze aeree: gli aerei erano Mig russi pilotati da mercenari egiziani che attaccavano civili e soldati biafrani. Ojukwu e io ci guardammo. Non dicemmo nulla, ma credo che pensassimo la stessa cosa. Se uno di noi avesse 14
cercato un riparo l'altro l'avrebbe seguito. Lui restò immobile. Io avevo una gran paura e finii l'intervista balbettando. Comunicare con Dublino era impossibile. Poi venni a sapere che Gageby aveva cercato di avere notizie su di me e aveva addirittura chiesto se qualcuno mi avesse mangiato…. La situazione diplomatica si stava facendo sempre più delicata, perché anche in Nigeria c'erano molti missionari irlandesi e si temeva per la loro incolumità. La situazione si sbloccò grazie anche alla perizia diplomatica dell'ambasciatore irlandese, Paul Keating (cugino di Justin Keating, futuro ministro laburista), che si mise in contatto con me. La guerra finì nel gennaio del 1970. Ojukwu era già riparato in Costa d'Avorio, ma dopo 13 anni potè tornare in Nigeria, dove contribuì al ritorno della democrazia. Prima di morire fece un breve viaggio in Irlanda per incontrare alcuni dei suoi vecchi amici, inclusi i sacerdoti della Congregazione dello Spirito Santo, che avevano aiutato gli Igbo durante la guerra. Quando è morto l'esercito nigeriano l'ha onorato come un eroe.
Il legame mitteleuropeo Nell'estate del 1967, quando inizia la guerra civile, l'URSS si schiera dalla parte del governo nigeriano. Gli altri sette paesi del Patto di Varsavia si allineano. La Cecoslovacchia gioca un ruolo decisivo: le prime armi inviate in Nigeria provengono da Praga, che ha già dei rapporti commerciali col paese africano. Il 5 gennaio 1968 Alexander Dubček viene eletto segretario del Partito comunista cecoslovacco. Inizia così la breve stagione riformista che sarà ricordata come la "Primavera di Praga". Uno dei punti che mettono in evidenza la sua volontà di distanziarsi da Mosca riguarda proprio i rapporti con la Nigeria. Con l'elezione di Dubček l'orientamento del governo cecoslovacco muta radicalmente. Radio Praga dichiara l'intenzione di sostenere moralmente i separatisti e paragona la loro lotta a quella che la Cecoslovacchia ha condotto contro l'impero asburgico. Pochi mesi dopo la stessa emittente plaude alla Tanzania che ha riconosciuto la nuova repubblica. La riduzione della censura consente alla stampa di manifestare simpatia per la causa biafrana e condannare la fornitura di armi che il precedente governo ha inviato alla Nigeria. Il paese mitteleuropeo sembra ormai prossimo a riconoscere il Biafra, ma nella notte tra il 20 e il 21 agosto del 1968 i carri armati sovietici entrano nella capitale per soffocare nel sangue la Primavera di Praga. Antonella Visconti
Bibliografia Bateman F., "Ireland and the Nigeria-Biafra war: Local connections to a distant conflict", New Hibernia Review/Iris Éireannach Nua, XVI, 1, Spring 2012, pp. 48-67. Lawrence V., An End to Flight, London, Faber and Faber, London 1973; n. ed. Bainville V., An End to Flight, New Island Books, Dublin 2002. O'Sullivan K., "Humanitarian encounters: Biafra, NGOs and imaginings of the Third World in Britain and Ireland, 1967–70", Journal of Genocide Research, XVI, 2-3, 2014, pp. 299-315. Staunton E., "The case of Biafra: Ireland and the Nigerian civil war", Irish Historical Studies, XXXI, 124, November 1999, pp. 513-534.
Bambini biafrani e missionari irlandesi durante la raccolta di fondi promossa dal quotidiano Evening Herald insieme all'UNICEF. Con questa iniziativa vennero raccolte 56.000 sterline
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In Biafra come in un incubo Michele Vollaro
L'incubo della guerra. È questo, in breve, il tema degli scritti di Goffredo Parise sul Biafra. Nell'estate del 1968 lo scrittore vicentino è il primo inviato a scrivere dal luogo del conflitto per un giornale italiano, il Corriere della Sera. La carestia della regione nigeriana sta cominciando a stimolare l'attenzione dei media internazionali. Ma in Italia, diversamente da quanto accade in altri paesi europei, l'interesse resta molto scarso. La sola eccezione avverrà in occasione del cosiddetto "eccidio di Biafra" del 9 maggio 1969, quando un commando biafrano attaccherà due campi petroliferi dell'ENI uccidendo dieci tecnici italiani e uno giordano e sequestrandone altri 14. Questi saranno liberati un mese dopo grazie a una trattativa condotta dal sottosegretario agli Esteri Mario Pedini. Parise è anche l'unico giornalista italiano che visita la regione in cui "circa seimila bambini m[orivano] ogni giorno per denutrizione" (Guerre politiche, p. 103). Lo scrittore raccoglie le proprie osservazioni in cinque lunghi articoli e in un editoriale di riflessione conclusiva che appaiono sul quotidiano milanese nell'agosto del 1968, poi ripubblicati il mese successivo in un libro intitolato semplicemente Biafra (Feltrinelli, 1968). In questi testi Parise racconta con grande forza espressiva la vita dei campi profughi, i bambini scheletrici e gli ospedali sovraffollati, descrivendo l'orrore provato nel visitare la regione ma intuendo al tempo stesso che la classe dirigente biafrana utilizza la carestia per attirare l'attenzione verso "la guerra di resistenza di un piccolo paese nel cuore della Nigeria, combattuta con pochissime armi e munizioni, con tutta l'aria di una ribellione locale, lontanissima dal mondo occidentale" (Ibid., pp. 105-106). Gli stessi articoli saranno poi raccolti nel 1976 da Einaudi insieme ad altri reportage realizzati da Parise in Vietnam, Laos e Cile e pubblicati col titolo di Guerre politiche. Un aggettivo che l'autore accetta controvoglia, specificando nella premessa: "sul loro [di questi testi, ndr] valore politico e non strettamente cronistico e contingente (come sul valore politico di qualunque scritto) divento ogni giorno più scettico. Molta parte della politica restando cronaca e non storia. Rinnegare quello che ho visto, e il più sinceramente possibile raccontato, sarebbe troppo. Mi limito a dire scettico e a scrivere "politici" tra virgolette perché, per mia ma soprattutto per altrui disgrazia, essi, in un modo o nell'altro, sono racconti e ricordi di guerre "politiche". […] Di questi scritti alcuni critici letterari hanno parlato in modo entusiastico, e io li ringrazio, ma rimango scettico. Sono scritti di giornale, dopo tutto, e senza rinnegarli, hanno il valore della data che portano" (Ibid., pp. 12-13). Eppure il resoconto giornalistico di Parise dal Biafra coglie, con molta più profondità di quanto saprebbe fare qualsiasi analisi politica, la complessità dei problemi e delle dinamiche messe in atto da quella che può definirsi la prima guerra post-coloniale del continente africano. Appena arriva nella regione in guerra lo scrittore nota uno stravolgimento: "la gabbia si è chiusa dietro di noi e non è certo se si potrà uscirne [...] circola per così dire come nell'aria qualcosa di fisico, insieme tattile e olfattivo, e anche l'uomo occidentale, l'uomo del benessere, ritrova immediatamente in se stesso quegli istinti percettivi dell'animale in pericolo" (Ibid., p. 103). L'occhio di Parise si rivolge in primo luogo alle sofferenze dei più deboli. La descrizione è attenta, si concentra soprattutto sui bambini e sui loro sguardi, quasi a cercare di percepirne i pensieri. Il linguaggio è descrittivo, immediato, istantaneo come una foto, senza inclinazioni retoriche, tanto è drammatica la scena: "I bambini, che sono la maggioranza, scheletrici, rattrappiti, chi sdraiato e chi seduto contro un muro o un paletto piantato nel fango, poggiati sul bacino come su un piedestallo, le ossa inerti delle due gambe allineate davanti a sé, le mani congiunte nel grembo nudo. Stanno immobili, il grosso cranio sostenuto a fatica dalle visibili e fragili vertebre del collo, si piega sugli omeri. Sul volto che non ha più carne ma solo pelle tesa sulla struttura ossea e sulle cartilagini, le vene gonfie 16
delle tempie pulsano a intermittenze lentissime e irregolari; ai lati degli occhi la pelle forma una rete di rughe, i capelli schiariti dall'assenza di proteine, di un biondo rossiccio, fanno pensare alle canizie e, visti insieme, uno accanto all’altro, sono una folla di minuscoli vecchi in silenziosa, educata, composta attesa. Nessuno si muove verso di me, nessuno tende la mano, nessuno chiede nulla, spinto se non altro da un ultimo fremito di vitalità...uno sguardo non triste, non disperato, non affamato, non impaurito, bensì calmo e quasi sereno, distaccato, contemplativo. […] A due, tre, cinque anni, perché questa, nella maggioranza, è la loro età, essi possiedono la grandezza di chi ha conosciuto e sperimentato l'intero arco di una lunga vita che si preparano ad abbandonare. [...] Nello spazio di venti minuti, il tempo della mia visita, ne muoiono due, un bambino di cinque anni e una bambina di nove" (Ibid., pp. 111-113). Il massacro della popolazione civile, come ricorda Parise, balzò agli onori della cronaca soprattutto grazie al lavoro di un'agenzia pubblicitaria svizzera, la Mark Press, che con ogni probabilità organizzò il viaggio dello scrittore nella regione: "la merce da propagandare sono cadaveri di bambini, i consumatori l'intera opinione pubblica mondiale. L'affare può apparire cinico e luciferino oppure uno spaventoso esercizio di realismo politico dei dirigenti biafrani" (Ibid., p. 105). È qui che il lucido resoconto giornalistico di Parise si allarga dalle immagini dei campi profughi in mezzo alla foresta fino a includere osservazioni e interrogativi che riguardano l'intero processo di decolonizzazione, la formazione delle istituzioni statuali e la costruzione delle identità nazionali nei paesi indipendenti. Una polifonia - scrive Parise - che "può dare molto bene il senso del buio problema geografico, storico, politico e linguistico non soltanto del Biafra ma di molte zone dell'Africa nera: come questa particella di foresta brulica e risuona di specie diverse e differenti linguaggi certamente in lotta tra di loro, così il continente, una volta crollate le unità artificiali e autoritarie imposte dal colonialismo europeo, corre il rischio non tanto di veder crollare le sue frontiere, anch'esse nate dall'artificio, quanto di sprofondare nel caos di un neocolonialismo minoritario e locale: preistorico e industriale al tempo stesso, governato da una borghesia indigena insieme cinica e crudele, che dal colonialismo bianco ha imparato fin troppo l'uso di strumenti e fini" (Ibid., pp. 121-122). L'orrore è l'argomento centrale delle conclusioni di Parise nell'editoriale pubblicato il 29 agosto 1968 sul Corriere della Sera, alla fine del suo viaggio: "È un sentimento composito, vorticoso e poliforme: innanzitutto orrore visivo, immediato, diretto, elementare e, vorrei aggiungere, animale" (Ibid., p. 146). L'autore precisa che i dubbi, gli interrogativi e i sospetti sul motivo di tutto questo e su chi siano i responsabili della tragedia biafrana sono soltanto suoi e non possano in alcun modo essere presi come conclusioni definitive. Ma sottolinea che tutte queste osservazioni nascono dalla sua riflessione sull'artificialità dei confini di quegli stati nazionali che sono soltanto un prodotto del colonialismo europeo. Il sentimento dell'orrore si alterna alla ragione del dubbio e lascia così aperta una serie di interrogativi, dal ruolo della comunità internazionale alle responsabilità della classe dirigente biafrana passando per l'intransigenza delle autorità nigeriane. Sono i temi centrali di una riflessione che dovrebbe essere approfondita per capire come si siano costruite, se mai sia accaduto, delle identità nazionali nei paesi africani. Questo stimolerebbe un dibattito costruttivo. Bibliografia Parise G., Biafra, Feltrinelli, Milano 1968. Pedini M., Biafra 1969: taccuino di una missione, La scuola, Brescia 1979. Vollaro M. K., Le narrazioni del Biafra. Immagine e storiografia della guerra civile nigeriana, Grin Verlag, München 2012.
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La sinistra deve sostenere il Biafra Lettera aperta di Jean-Paul Sartre e altri intellettuali francesi
Se la sinistra italiana rimane sostanzialmente insensibile alla causa biafrana, lo stesso non può dirsi di quella francese. Il 12 dicembre 1969 la rivista pacifista inglese Peace News pubblica una lettera aperta dove Jean-Paul Sartre e altri 19 intellettuali francesi invitano la sinistra a uscire dal proprio torpore e abbracciare la causa del nuovo stato africano. Il Partito laburista britannico ha preso posizione contro il sostegno militare che il governo (guidato dal laburista Harold Wilson, ndt) continua a fornire alla Nigeria. Lo stesso orientamento si sta diffondendo nei sindacati. Ma queste voci sono ancora deboli. In Gran Bretagna, come in Francia, la gente crede che il genocidio del Biafra sia una specie di eruzione vulcanica e che basti versare qualche lacrima umanitaria o invocare il buon senso delle parti in conflitto: "Avete già fatto un'offerta per il Biafra?". Ma intanto la gente continua a morire. Bisogna dirlo senza mezzi termini: la Gran Bretagna, l'URSS e l'Egitto, aiutati da altri e sostenuti dalle Nazioni Unite e dall'Organizzazione per l'Unità Africana, vogliono sconfiggere e disarmare gli Igbo, anche se non potranno garantire la loro sicurezza finché questi ultimi non saranno disarmati. Questo significa che stanno realizzando un genocidio nel nome di principi che la sinistra non può sottoscrivere. Le anomale coalizioni che si scontrano dimostrano chiaramente che la convenzionale divisione fra imperialisti e antiimperialisti non ha più senso: Cina e Unione Sovietica, Portogallo e Gran Bretagna, Francia e Belgio sono uno contro l'altro in una situazione contraddittoria inedita. Inoltre, anche se è vero che gli stessi biafrani sono diventati lo strumento di un certo imperialismo, bisogna riconoscere che il governo nigeriano è lo strumento di due imperi alleati. Il fatto che i biafrani vengano sterminati nel nome dell'"antiimperialismo" dovrebbe dimostrare quanta fal-sità si nasconda dietro questa parola. Supponiamo che l'intero popolo tedesco fosse stato complice degli orrori compiuti durante la Seconda guerra mondiale. La sinistra avrebbe forse pensato che fosse necessario distruggere il popolo tedesco per lavare i suoi crimini? L'idea della punizione collettiva, specialmente se viene inflitta a un gruppo umano dai limiti culturali indefiniti, è assolutamente estranea alla sinistra. Perciò questa non dovrebbe tollerare col suo silenzio l'uso di meccanismi mortali che si fondano su una logica irrazionale e arcaica. Tollerare un genocidio significa permettere che un popolo venga messo al di fuori dell'umanità. Quindi la sinistra deve usare tutti i mezzi di cui dispone per portare avanti una campagna che porti alla fine della guerra e individui una soluzione politica della crisi. Qualunque essa sia, questa dovrà garantire ai biafrani gli strumenti per difendersi, cioè un esercito proprio. I governi africani dicono che non sanno se gli Igbo siano una tribù o un popolo e affermano che la nascita di uno stato biafrano costituirebbe un precedente negativo per il resto del continente: queste sono materie che non ci riguardano. Quello che è accaduto in Nigeria negli ultimi anni dimostra che l'unica salvezza è nella soluzione che abbiamo indicato. A questo proposito, ricordiamo che nel 1917 Lenin e Stalin aprrovarono l'indipendenza della Finlandia (fino ad allora parte del-l'impero zarista) nonostante avesse un regime borghese, e che Lenin si oppose a Rosa Luxemburg quando questa contestò il diritto del popolo polacco all'autodeterminazione. La lotta del Biafra è una lotta che appartiene a tutta la sinistra. Ma se questa fa finta di non sapere, se chiude gli occhi davanti al genocidio – come ha già fatto più volte davanti a tragedie analoghe accadute in Africa o in Sudamerica – tradirà i suoi valori fondamentali. In altre parole, non sarà più "la sinistra". 18
I limiti del diritto all'autodeterminazione Intervista a Bradley Simpson
Quando ebbe luogo la secessione del Biafra il diritto all'autodeterminazione non venne applicato a questo caso e fu oggetto di un'attenzione accademica molto scarsa. Non erano ancora usciti i libri di studiosi come Gudmundur Alfredsson, Joanne Barker, Antonio Cassese e Hurst Hannum, tanto per fare qualche nome. Il dibattito accademico sul tema si è costruito in corso d'opera, prendendo in esame i casi in cui il diritto veniva rivendicato. Al caso del Biafra si è interessato in particolare Bradley Simpson, docente associato di Relazioni internazionali alla University of Connecticut. Ecco l'intervista che ci ha concesso. Come mai il caso biafrano non fu inquadrato nel contesto del diritto all'autodeterminazione? I paesi stranieri, e in particolare gli stati africani dell'epoca, erano convinti che il diritto all'autodeterminazione fosse un concetto pericoloso e che quindi dovesse avere limiti teorici e pratici molto forti, altrimenti avrebbe potuto frammentare i fragili stati postcoloniali. Pochi uomini politici riconobbero che la secessione del Biafra era una derivazione logica di questo diritto. Cosa che invece era ben chiara ai leader separatisti. Gli stati, soprattutto quelli grandi e multietnici, come anche le superpotenze, pensavano che fosse un diritto da limitare e non una causa da sposare. Questi limiti sono stati applicati soltanto al Biafra o anche ad altri casi? No, la stessa logica è stata applicata al Katanga, all'Eritrea, a Papua Occidentale e a molti altri. E parliamo soltanto degli anni Sessanta. La secessione era una scelta radicale che pochi stati volevano tollerare. Perché il Biafra ebbe un sostegno internazionale molto inferiore a quello di altri paesi? Io credo che molti capi di stato, anche quelli anticolonialisti, temessero la secessione del Biafra perché il suo successo avrebbe potuto segnare un precedente pericoloso: altri paesi avrebbero seguito il suo esempio e l'integrità territoriale degli stati africani - e di altri continenti – sarebbe stata compromessa. Questo atteggiamento emerse sia a destra che a sinistra, anche se per motivi diversi. Crede che la tragedia del Biafra abbia insegnato qualcosa? Certamente. Ha dimostrato che pur di soffocare i separatisti gli stati sono pronti a utilizzare la repressione più spietata, e che la comunità internazionale è pronta ad appoggiarli. Ma anche che certe idee non muoiono: come sappiamo, negli ultimi anni il separatismo biafrano è tornato d'attualità. Ma oggi il contesto politico è completamente diverso da quello di mezzo secolo fa. Lei crede che il nuovo separatismo biafrano possa inserirsi nel più ampio fenomeno internazionale che vede protagoniste la Catalogna, la Scozia e altre regioni? Può succedere, ma secondo me è abbastanza improbabile. La Catalogna e la Scozia possono conservare stretti legami con i paesi dei quali fanno parte e restare parte dell'Unione Europea, tutte cose che ovviamente il Biafra non potrebbe fare. In ogni caso devo ammettere che non sono aggiornato sulla nuova questione biafrana. Si può concepire un diritto all'autodeterminazione che non includa la secessione? Certo. Il diritto internazionale prevede anche molte altre soluzioni: il federalismo, il decentramento, l'autonomia politica e culturale. La lista potrebbe continuare a lungo. 19
Biafra e Bangladesh, analogie e differenze L'eco della guerra biafrana si è spento da appena un anno quando irrompe sulla scena mondiale una tragedia analoga: quella del Bengala orientale, che il 26 marzo 1971 ha dichiarato l’indipendenza dal Pakistan assumendo il nome di Bangladesh. I due casi presentano alcune analogie ma anche molte differenze. Le seconde sono destinate a incidere in modo determinante, tanto che il Bangladesh riuscirà laddove il Biafra ha fallito. Questo può sembrare strano, tanto più che fra i due paesi esiste una differenza economica importante: quello africano è ricco di petrolio, mentre quello asiatico è molto povero. Ma è proprio perciò che la guerra fra Pakistan e Bangladesh non coinvolge potenze ex-coloniali: il solo paese straniero che interviene è l’India, che si schiera dalla parte dei separatisti bengalesi negli ultimi giorni del conflitto. Il Biafra, al contrario, deve fronteggiare due grandi imperi, Gran Bretagna e URSS: una lotta impari destinata alla sconfitta, nonostante il sostegno di alcuni paesi africani ed europei. La mobilitazione internazionale per il Biafra è notevole, ma il Bangladesh si avvale del sostegno di George Harrison e Ravi Shankar, che promuovono due grandi concerti a sostegno della popolazione bengalese (1o agosto 1971, Madison Square Garden, New York). Grazie ai concerti, ai quali assistono oltre 40.000 persone, vengono raccolti 250.000 dollari. Il Bangladesh non si scontra con l'inerzia colpevole delle Nazioni Unite e con l'opposizione di un organismo continentale analogo all'OUA. Anzi, pochi mesi dopo la fine della guerra la maggior parte degli stati aderenti all'ONU riconosce il nuovo stato. Questa clamorosa disuguaglianza "trasforma i presunti valori di pace e di rifiuto della violenza del sistema internazionale in pura retorica", come ha scritto Joshua Castellino (International Law and Self-Determination: The Interplay of the Politics of Territorial Possession with Formulations of Post-Colonial National Identity, Springer, Berlin 2000, p. 170). Alessandro Michelucci
L'autodétermination des peuples au XXIe siècle: perspectives comparées et internationales 10 novembre 2017 Auditorium de la Grande Bibliothèque 475, boulevard De Maisonneuve Est, Montréal (Canada) Per altre informazioni: colloque2017@irai.quebec
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L'altra faccia del Sessantotto Per il Biafra, per tutti i popoli minacciati
"Eravamo una cinquantina di studenti universitari. Quando occupammo il Consolato britannico di Amburgo l'ambasciatore del Regno Unito rimase a bocca aperta: la nostra iniziativa lo impressionò più della carestia che aveva colpito il Biafra", racconta Tilman Zülch, uno dei protagonisti dell'occupazione. Nel giugno del 1968 circa 10.000 persone – bambini, anziani e malati – morivano di fame ogni giorno nella Nigeria orientale, che aveva dichiarato l'indipendenza assumendo il nome di Biafra. In quella guerra la fame veniva utilizzata come un'arma. Il governo laburista britannico e l’Unione Sovietica di Brezhnev fornivano sostegno militare, politico ed economico all'aggressione del Biafra che era stata realizzata dell'esercito nigeriano. Due milioni di igbo avrebbero perso la vita. Non esistevano iniziative politiche per frmare il genocidio, così nel 1968 Tilman Zülch e Klaus Guercke, dettero vita all’associazione Aktion Biafra-Hilfe, senza immaginare che si sarebbe tra-formata in una delle più importanti organizzazioni internazionali per la difesa dei diritti umani. Presto si unirono a loro persone di ogni tipo: impiegati, professionisti, religiosi, studenti. Angosciati dall'inerzia della "comunità internazionale", gli attivisti tedeschi cercarono di evidenziare la tragedia con inserzioni sui quotidiani; adesivi con la scritta A come Auschwitz – B come Biafra; appelli firmati da persone di rilievo come Ernst Bloch, Paul Celan, Günter Grass, Erich Kästner, Golo Mann, Marcel Reich-Ranicki e Martin Walser. Ma non si limitarono a questo. Tilman Zülch raggiunse il Biafra e vide coi propri occhi il genocidio che si stava consumando. Quindi tornò in Germania e intensificò le iniziative dell'associazione. Quindi Zülch maturò la volontà di continuare l'impegno di Aktion Biafra-Hilfe fondando un'organizzazione che difendesse i diritti di tutte le minoranze. Nel 1970 nacquero così la Gesellschaft für bedrohte Völker e la rivista Pogrom. Oggi l'associazione, ancora guidata dal fondatore, ha sedi in sei paesi (Austria, Bosnia, Germania, Iraq, Italia e Svizzera). Dal 1993 ha status consultivo all'ONU. La sua azione non dimentica nessuna minoranza culturale o religiosa del pianeta: dai Kurdi agli Indiani del Nordamerica, dagli Yazidi ai Mapuche, il suo impegno esemplare rappresenta un modello di rilievo mondiale.
Biafra e Finlandia, la stessa sete di libertà Cosa lega la guerra del Biafra e la musica classica? A prima vista niente. Ma in realta è diverso. Land of the Rising Sun, l’inno dell'effimera repubblica africana, fu costruito sulle note di Finlandia, la sin-fonia scritta da Jan Sibelius nel 1899 per celebrare l'indipendenza del Granducato di Finlandia dalla Russia zarista. Il testo dell'inno fu scritto da Nnamdi Azikiwe, primo presidente della Nigeria. Emeka Ojukwu, fondatore della repubblica biafrana, aveva studiato a Oxford e amava profondamente la musi-ca classica europea. Fu infatti lui a scegliere la sinfonia di Sibelius: la sua simpatia per la Finlandia de-rivava anche da un altro episodio storico, la guerra russo-finlandese (1939-1940) che era finita con la vittoria del paese scandinavo. Insomma, la resistenza della Finlandia contro l'URSS somigliava a quel-la del piccolo Biafra, che combatteva contro la Nigeria e la potente coalizione internazionale alleata. Questo legame è stato riaffermato recentemente, seppur in modo indiretto, dal primo CD della Chine-ke! Orchestra, che contiene appunto Finlandia insieme alla celebre Sinfonia del nuovo mondo di Dvorak. La Chineke! Orchestra, fondata dalla contrabbassista nigero-irlandese Chi-Chi Nwanoku, è la pri-ma filarmonica composta da musicisti appartenenti alle numerose comunità immigrate che vivono in Gran Bretagna. Chi-Chi Nwanoku è nata nel 1956 a Londra, ma suo padre è originario di una regione che componeva il Biafra. Il nome della sua orchestra è tratto da un termine igbo che significa "meraviglioso". Alessandro Michelucci 21
Un'altra idea del Biafra Obi Nwakanma
Ho guidato la prima [guerra del Biafra], e lo dico con orgoglio, ma non credo che ne sia necessaria una seconda. Altrimenti sarebbe stato tutto inutile. Chukwuemeka Odumegwu Ojukwu, intervista trasmessa da Channel 4, 1993 Fino agli anni Novanta, in Nigeria, parlare del Biafra suonava come una bestemmia. Tutto era cominciato subito dopo la fine della guerra civile, quando il governo federale aveva cercato di cancellare dalla coscienza collettiva ogni traccia della guerra e ne aveva fornito una versione storica falsificata. Sembrava che volesse stendere un velo di oblio sulla memoria, come se parlarne potesse mettere in pericolo le stesse fondamenta della Nigeria. Poteva anche darsi, ma i decreti militari non hanno alcun effetto sulle persone che sono abituate a pensare con la propria testa: non si può bandire il dolore quando si continua a infliggerlo. E il governo federale ha continuato a infliggerlo nei modi più diversi, ufficiali o no, trattando i biafrani, e in particolare gli Igbo, come dei paria. Ma esiste un proverbio igbo che dice: "Puoi provarci quanto vuoi, ma una mano non potrà mai coprire la luna". Il Biafra è una luna accecante che spicca nel cielo nigeriano. È stato caricato di contenuti romantici e irrazionali, tanto che la causa biafrana è stata resuscitata da una nuova generazione. Come mai? E perché proprio ora? Come mai la sofferenza di allora è stata ereditata da una generazione che non aveva visto la guerra? Mi riferisco a persone come me, che sono sopravvissute con le razioni di latte - i bambini della guerra - e a quelle della generazione successiva: sono queste le nuove voci del Biafra. La risposta alle domande precedenti è molto semplice. I biafrani – in particolare gli Igbo – si sono sentiti pesantemente discriminati nella Nigeria postbellica. Sono convinti di aver subito le ingiustizie più gravi in un paese fondato sui capricci di una casta che voleva vivere di rendita, che ha marginalizzato gli Igbo traendone grandi vantaggi ed è riuscita a conservare il potere applicando il principio del divide et impera. Hanno diffuso l'idea che gli Igbo fossero il problema della Nigeria, dimenticando invece che i veri problemi del paese sono la corruzione, la povertà, le strutture sanitarie inefficienti e l'analfabetismo (65 milioni, secondo i dati del 2015). Nessuno di questi può essere addebitato agli Igbo, gente che ha dimostrato di saper resistere alle prove più difficili. La parola d'ordine del governo federale, "tenere unita la Nigeria è un compito irrinunciabile", presuppone che il mezzo per raggiungere questo obiettivo sia quello di sopprimere i "ribelli igbo". Il risultato è che questi vengono dipinti come nemici della Nigeria: non sono soltanto oggetto di odio, ma vengono considerati cittadini di serie B in un paese che non sarebbe mai nato senza il contributo dei loro padri. Tutto questo scava un fossato sempre più grande fra loro e il resto della Nigeria. Una cosa merita comunque di essere sottolineata: se gli Igbo vorranno dare un nuovo assetto a questa federazione, lo faranno. Nessuna minaccia, nessun intervento militare li fermerà, per vari motivi. La prima è che gli Igbo, quando hanno deciso di fare una cosa, la fanno. La seconda è che possono farlo mettendo in moto un fitto intreccio di legami comunitari. Non si tratta soltanto di vincoli etnici, sebbene quelli che legano gli Igbo siano i più forti che esistano in Nigeria. È la colla che tiene unito il paese. Infine, sono l'unico popolo della Nigeria che abbia combattuto una guerra, e questa esperienza ha forgiato una popolazione civile capace di mobilitarsi, istruire, organizzarsi in termini tecnici e logistici. Inoltre gli Igbo hanno combattuto una lunga resistenza contro la più grande potenza coloniale del ventesimo secolo. La diaspora che era cominciata nel tardo Settecento ha gettato le basi della 22
moderna coscienza politica africana. Basti pensare a Olaudah Equiano (1745–1797), il mercante che dette un contributo importante al movimento antischiavista britannico. Ma oggi, data la condizione in cui si trova la Nigeria, gli Igbo devono decidere cosa vogliono. Forse il nuovo separatismo proposto da Nnamdi Kanu (leader dell'IPOB, che si batte per uno stato biafrano, ndt)? Io non sono d'accordo con questa linea politica, ma con il Biafra dello spirito che Emeka Ojukwu aveva teorizzato negli ultimi anni di vita. Un concetto di identità nazionale più sofisticato, più pragmatico. I motivi per preferirlo sono molti. Anzitutto perché le cause che resero impossibile la secessione del 1967 non solo non sono scomparse, ma si sono ulteriormente rafforzate. Inoltre, quello che propone l'attuale movimento separatista è la creazione di un bantustan per gli Igbo, una sorta di riserva indigena. Ma si tratterebbe di uno stato fondato sull'apartheid, perché non sarebbe in grado di risolvere il proprio bagaglio di contraddizioni storiche. I proclami dell'IPOB fanno pensare al "blocco conservatore" evocato da Azinna Nwafor, intellettuale igbo che ha studiato a Harvard negli anni Settanta, oppure alla compattezza ideologica bulgara che secondo il politologo scozzese Tom Nairn caratterizzava il Black Panther Party e altri movimenti afroamericani degli anni Settanta. Questa cultura percepisce se stessa come separata dalle altre e sfrutta l'ignoranza e la povertà di una popolazione frustrata precludendole altre opzioni. Inquina un ideale rivoluzionario sostituendolo con delle imitazioni malsane. La Nigeria può essere ancora salvata con una serie di riforme radicali. Ma è necessario che un gruppo di igbo con le idee chiare si occupi seriamente della questione biafrana, anziché lasciarla nelle mani di Nnamdi Kanu e della gente che lo segue. Comunque bisogna riconoscere che Kanu e la maggior parte di coloro che sostengono il nuovo movimento separatista esprimono un malcontento fondato: si tratta della generazione di igbo che è stata discriminata e marginalizzata dal governo federale della Nigeria. Quella Nigeria che loro hanno definito uno zoo. È vero, perché somiglia molto alla fattoria degli animali descritta da George Orwell nel libro omonimo. Comunque anche gli Igbo fanno parte di questo zoo: fu proprio uno di loro, Sam Mbakwe, a costruire le prime centrali elettriche del paese per garantire l'autosufficienza energetica dell'Imo (uno dei 36 stati della Nigeria, situato nel sud, ndt). Ma non fu certo uno yoruba o uno hausa che le distrusse e le vendette alla Corea pezzo per pezzo. Fu un igbo. Così come non fu uno yoruba né Boko Haram (movimento terrorista islamico affiliato all'ISIS, ndt) a frenare l'industrializzazione vendendo una quarantina di progetti avviati da Sam Mbakwe, definendoli "cattedrali nel deserto". Anche in quel caso fu un igbo. Non sono stati gli Hausa o i Fulani a rifiutare le elezioni locali o ad impadronirsi dei fondi che erano stati dati ai governi delle regioni a maggioranza igbo. Non sono stati gli Hausa o i Fulani a devastare i luoghi sacri degli Igbo. Non sono stati gli Hausa né gli Yoruba che hanno distrutto e rifiutato di ricostruire città igbo come Aba od Onitsha. Gli Igbo devono capire che sono responsabili della propria condizione. Devono riappropriarsi del proprio ruolo storico, perché piaccia o no, come disse lo storico Tekena Tamuno, sono quelli che hanno costruito la Nigeria. Il loro obiettivo è sempre stato quello di costruire un grande paese. È questo il significato più profondo del "Biafra dello spirito" teorizzato da Ojukwu: mettere in campo tutte le forze degli Igbo per riorganizzare radicalmente la Nigeria. Non si tratta di un obiettivo utopistico. Sarà questo il vero modo di realizzare l'ideale biafrano: trasformare l'intera Nigeria in un grande Biafra. Uno stato dove l'ingegnosità degli Igbo, unendosi a quella degli altri popoli alleati in questo progetto, realizzerà una società prospera fatta di cittadini uguali, libera dalla paura, dal fondamentalismo religioso, dall'intolleranza e dall'odio. Se gli Igbo vogliono davvero rendere giustizia alle vittime biafrane devono contribuire alla distruzione delle culture feudali che tengono in ostaggio la Nigeria, lottare senza mai arrendersi, collaborare con i propri alleati naturali per creare un paese africano fondato sull'uguaglianza e sulla giustizia. Gli Igbo devono cominciare a costruire le alleanze che permetteranno loro di costruire una Nigeria diversa. Questi alleati li stanno già aspettando. Gli Igbo hanno le carte in regola per guidare un simile processo, ma non devono sprecare questa occasione storica lasciandosi sedurre dalle sirene del separatismo. 23
Il Biafra non è stato sconfitto Wole Soyinka
Il 6 luglio 1967 scoppiò la guerra fra il governo federale nigeriano e le forze del Biafra, la neonata repubblica che era stata proclamata il 30 maggio dello stesso anno. Il conflitto fece oltre un milione di vittime, molti dei quali bambini. Una grande quantità di persone morì per la fame e per i bombardamenti aerei. La fame, la Croce Rossa, il kwashiorkor, gli aiuti internazionali, il genocidio, i mercenari, l'accordo di Aburi che venne infranto innescando la guerra: queste sono soltanto alcuni dei ricordi legati a quella tragica esperienza. Il governo federale nigeriano, fedele al dogma dello stato uno e indivisibile, era convinto che il conflitto sarebbe stato risolto in tre settimane con "azioni di polizia". Avevamo imparato molto dal comportamento politico di altri paesi, ma a quanto pare non dalla storia: la guerra durò oltre due anni. Tutto finì nel gennaio 1970, quando il Biafra fu reintegrato nella Nigeria. Io ero ancora un giovane scrittore. Mi sembrava di essere circondato da una massa di lemming che si suicidavano in massa. La mia "colpa" fu quella di dire che il Biafra non avrebbe potuto mai essere sconfitto. La maggior parte della gente – inclusi ovviamente i militari al potere – pensarono che le mie parole si riferissero all'aspetto bellico della questione. Così furono interpretate come un'offesa nei confronti del governo, un tentativo di scoraggiare i soldati federali e di galvanizzare quelli biafrani. In me non videro soltanto un nemico, ma anche uno spaccone secondo il quale nessun esercito africano avrebbe potuto sconfiggere l'esercito di Ojukwu. Nell'ottobre del 1966 raggiunsi il Biafra. Subito dopo fui arrestato e imprigionato. Durante l'interrogatorio dissi che avevo usato l'espressione incriminata – cioè che il Biafra non avrebbe potuto mai essere sconfitto – perché volevo frenare l'ascesa del nazionalismo viscerale e rifiutavo la santificazione dei confini coloniali. Il Biafra esprimeva il rifiuto di questi confini e voleva che fossero degli africani a definirli. Questa scelta affondava le proprie radici in una memoria ferita: la memoria della pulizia etnica. Questa ferita profonda non avrebbe mai potuto rimarginarsi senza rimuovere le cause che l'avevano prodotta. Per tanto tempo mi sono chiesto: "Perché ho sentito il dovere di esprimermi pubblicamente contro il governo? Forse perché sono uno scrittore? Ma chi sono io per schierarmi contro il governo?". Mi sono risposto che avevo imparato ad ascoltare. Il Presidente Gowon diceva di stare dalla parte giusta e che il Biafra sarebbe stato sconfitto. Evidentemente il Biafra ha perso la guerra, ma non è stato sconfitto. La maggior parte dei nige-riani l'ha capito. Se qualcuno ha dei dubbi in merito può leggere l'ultimo libro di Chinua Achebe, There was a country, dove troverà molti spunti di riflessione. Alcuni scrittori dell'ultima generazione, nati molti anni dopo la guerra, hanno fatto propri gli ideali biafrani e li tengono vivi con i loro libri. Per la popolazione igbo quella rimane una pagina storica fondamentale, anche per coloro che dicono di sostenere una Nigeria unita. Molti sono stati uccisi dalla polizia e dall'esercito per essersi dichiarati eredi ideali di quell'esperienza. Secondo le stime di Amnesty International, dall'ago-sto del 2015 a oggi (luglio 2017, ndt) sono stati uccisi almeno 150 attivisti biafrani. Alcuni dei loro capi, compreso il direttore di Radio Biafra, sono accusati di tradimento e attività sovversive. Altri operano clandestinamente. La guerra non è finita, l'unica cosa che è cambiata è la tattica. Forse si sta cercando di realizzare una secessione interna, tanto per vedere quello che la legge consente e quello che vieta. Per quanto riguarda i vincitori, gli analisti continuano a dire che l'instabilità del paese è una conseguenza della guerra, così come la corruzione, la cattiva gestione delle risorse petrolifere, la cecità politica, etc. Comunque il separatismo sta guadagnando un seguito crescente. Purtroppo ha già scatenato una reazione pericolosa: l'intolleranza. Alcune associazioni giovanili della Nigeria settentrionale hanno chiesto che gli igbo venissero espulsi dalle loro regioni per aver parlato di secessione. Le autorità 24
locali si sono rifiutate di farlo, ma in certi ambienti la proposta ha trovato dei sostenitori. Si è aperto così un dibattito intenso, spesso anche litigioso. Purtroppo coloro che partecipano a questo dibattito dimenticano che l'ideale biafrano va ben oltre il patto societario che tiene unito uno stato. Per questo ripetono che "L'unità della Nigeria non è negoziabile", una formula che secondo loro dovrebbe chiudere il discorso una volta per tutte. Io non vedo nessuna differenza fra questo principio e certi dogmi religiosi che condannano la conversione come un atto di apostasia punibile con la morte. La nazionalità, come la religione, è una struttura alla quale si accede in seguito alla nascita, al caso o all'indottrinamento. Chi vede nella nazione un'entità divina immutabile non fa altro che accettare una semplice abitudine, come accade con la religione. Nel caso della Nigeria, comunque, la questione è ancora più complessa. I sostenitori della nazione una e indivisibile non sono degli ignoranti, ma conoscono bene la storia degli altri paesi e hanno una pratica quotidiana del negoziato. Sanno bene che questo processo caratterizza ogni epoca storica, da quella precoloniale a quella odierna. Perciò, seppure inconsciamente, credono che gli africani siano cittadini di serie B e che neanche oggi abbiano il diritto di fare le proprie scelte. Questo denota un complesso d'inferiorità, se non l'accettazione servile di un lavaggio del cervello. L'Africa moderna è un aggregato di territori definiti da interessi stranieri, e proprio per questo suscettibili di fallimento. Altrettanto contestabile è la tesi di coloro che dicono "Abbiamo versato il nostro sangue per l'unità della Nigeria, quindi non permetteremo che venga distrutta". Io credo che in tutte le guerre le prime vittime siano i civili. Quindi dobbiamo dimenticare le tesi dei professionisti della violenza e mettere in primo piano quello che vuole la gente. In questo caso si tratta di fare una scelta pragmatica. I casi sono due: si può essere un partigiano dello status quo o un piccolo pesce in un grande stagno. In questo modo c'è ampio spazio per negoziare e trovare una soluzione. Dopo aver ascolato le ragioni dei separatisti, mettiamo in evidenza i vantaggi della convivenza e i gravi rischi della frammentazione statale. L'abitudine è un motore potente, ma non deve generare un dogma che trasformi lo status quo in qualcosa di non negoziabile. Diventare iindipendenti, ovviamente, significa rompere il legame con un ordine imperiale. Non è detto che questo comporti la distruzione della sua eredità, ma certamente non lo esclude. I difensori del "nazionalismo" intransigente cercano invariabilmente di eludere questo tema. Strumentalizzano la posizione di coloro che vogliono conservare uno stato unito, ma che lo fanno per motivi pragmatici e non perché vedono in questa unità la manifestazione di una volontà divina. L'unità di uno stato non solo è negoziabile, ma lo stato stesso è il frutto di un negoziato. E allora non si capisce perché la Nigeria dovrebbe essere diversa dagli altri stati. A meno che non la si voglia situare al di fuori della storia. Il Biafra deve restare parte della Nigeria o staccarsene? Il punto è questo. Anche dopo tanti anni di convivenza difficile, è difficile immaginare una Nigeria senza il Biafra. Io preferisco che questa separazione non avvenga, ma non soltanto perché credo che convenga a entrambi restare uniti per motivi economici, culturali e politici. Il contesto globale odierno rende più attraenti i paesi compositi, non soltanto agli occhi degli investitori stranieri e per i turisti, ma anche per gli abitanti di qualunque paese. L'Africa occidentale è caratterizzata da un fitto intreccio di gruppi sociali e e di identità culturali che sono il frutto del colonialismo. Questo ha avuto effetti negativi, ma spesso anche stimolanti. In questa situazione, che dura ormai da molto tempo, si sono sviluppati dei meccanismi che potrebbero rivelarsi fatali anche per le parti più forti di questo mosaico. La Nigeria è stata spesso definita una bomba a orologeria. Paradossalmente, è proprio per questo che deve restare unita. Un'esplosione in uno spazio ridotto è più dannosa di quella che può verificarsi in un territorio più grande, capace di assorbirne l'impatto e aumentare le possibilità di sopravvivenza. È proprio questo che rafforza la mia opinione, non una presunta legge del sodalizio umano. La storia ci ha insegnato che non basta cambiare i libri di geografia per cancellare un legame ideale. Il golfo del Biafra fu ribattezzato durante la guerra civile per cancellare un ideale, ma questa si è rivelata una trovata inutile. Il fatto che alcuni ambienti igbo vogliano ripristinare il vecchio nome dimostra che l'idea biafrana non è morta. Le imponenti manifestazioni popolari organizzate per il 30 maggio (Biafra Day, data della proclamazione della defunta repubblica, ndt) ci imponono di comprendere le aspirazioni di questa nuova generazione e affrontare il problema con spirito costruttivo. 25
Il sole giallo splende ancora Antonella Visconti
Chukwuemeka Odumegwu Ojukwu, la figura principale della breve repubblica biafrana, torna in Nigeria nel 1983, grazie all'amnistia concessa dal presidente Shehu Aliyu Usman Shagari. Ojukwu riprende l'attività politica, ma in questo nuovo impegno non si ricollega all'esperienza del Biafra. Il 27 febbraio 1999 l'elezione di Olusegun Obasanjo segna il ritorno alla democrazia dopo 15 anni di regime militare. Il mutamento favorisce una certa libertà di espressione: la questione biafrana ricomincia a stimolare un certo interesse. Per la maggior parte dei nigeriani resta una pagina nera, ma parlarne non suona più come una bestemmia. Nello stesso anno un gruppo di attivisti igbo fonda il Movement for the Actualization of the Sovereign State of Biafra (MASSOB). Guidato da Ralph Uwazurike, il nuovo movimento reclama la costituzione di uno stato biafrano. In tale contesto, ovviamente, il riferimento alla tragica esperienza della guerra assume un rilievo centrale. Ovviamente il MASSOB fa costante riferimento al genocidio per guadagnare consensi. La mobilitazione della memoria diventa così uno strumento essenziale della nuova lotta. Altrettanto importante è il contatto con la vecchia generazione, quella che ha fatto la guerra. Nel 2001, quando viene inaugurata la Biafra House di Washington, Ojukwu affianca i responsabili del MASSOB come ospite d'onore. Ma se la sua presenza riveste un forte valore simbolico per i nuovi militanti, il protagonista della guerra civile non sembra più perseguire il sogno di uno stato indipendente. Durante gli anni successivi le iniziative si intensificano, sia a livello politico che accademico. Dal 2003 al 2010 si tengono varie conferenze sulla questione biafrana, alle quali partecipano studiosi e attivisti. Nel 2005, in alcune città europee e africane, migliaia di esuli nigeriani manifestano a favore dell'indipendenza. L'azione politica del MASSOB, comunque, rimane sostanzialmente limitata al contesto nigeriano. I tentativi di internazionalizzare la nuova rivendicazione biafrana si rivelano fallimentari. Negli anni successivi gli Igbo, come altri popoli della federazione, soffrono la persecuzione feroce di Boko Haram, il movimento islamista che terrorizza il paese. Ebere Ubani, capo della comunità igbo dello stato di Lagos, esorta il governo a intervenire per evitare che la situazione degeneri in un altro genocidio. Al tempo stesso, il nuovo ambiente separatista si rivela presto litigioso e diviso. Da una scissione del MASSOB nasce un altro movimento, Indigenous People of Biafra (IPOB), con base a Londra. Guidato da Nnamdi Kanu, direttore di Radio Biafra, il nuovo organismo guadagna in poco tempo un rilievo superiore a quello del MASSOB. Il 26 novembre 2011, all'età di settantotto anni, Ojukwu muore a Londra dopo una breve ma-lattia. La folla oceanica presente al suo funerale conferma che il vecchio conflitto non ha lasciato le lacerazioni sociali tipiche delle guerre civili. Non solo, ma l'esercito lo saluta col massimo degli onori militari. Lo scrittore Wole Soyinka pronuncia un'orazione funebre. La nuova questione biafrana La questione biafrana riemerge in un contesto sociale e politico profondamente diverso da quello del 1967. Allora la parola secessione veniva accolta da una levata di scudi: le superpotenze avevano definito un assetto del pianeta che non doveva essere messo in discussione. Ora, al contrario, la situazione è molto diversa. La guerra fredda è finita. Fra il 1991 e il 2000 sei stati – Cecoslovacchia, Etiopia, Indonesia, Jugoslavia, Sudafrica e Unione Sovietica – si sono trasformati in trentuno. Il nuovo contesto internazionale determina una netta differenza sostanziale fra il Biafra di ieri e quello di oggi. Quella del 1967 era una secessione anomala: paradossalmente, non era concepita per dividere, ma per conservare l'unità della Regione Orientale. Il governo militare di Gowon, non rispettando l'accordo sottoscritto ad Aburi, aveva proclamato una nuova struttura del paese che 26
prevedeva 12 province. In seguito a questo nuovo assetto la Regione Orientale veniva divisa in tre stati: l'unico modo per conservarne l'unità era la secessione. Oggi la questione è diversa. Il separatismo biafrano odierno, mutatis mutandis, è comparabile a quello catalano o scozzese: reclama una frazione dello stato al quale appartiene per costituirne uno nuovo. Ma diversamente dai casi suddetti, il Biafra è un'entità geografica astratta, dato che è scomparsa con la fine della guerra civile. Non esiste più un quadro geografico di riferimento: si rivendica il Biafra, ma non si sa bene dove inizi e dove finisca. Questo spiega le litigiose discussioni sull'estensione territoriale di un ipotetico stato, che comunque rimangono interne all'ambiente separatista e non coinvolgono il potere centrale, dato che questo rifiuta qualsiasi discussione sul tema. Anche il tessuto sociale che costituisce la nuova galassia biafrana è profondamente cambiato. I militanti sono nati dopo la fine della guerra civile, o al massimo l'hanno vissuta quando erano ancora piccoli. Oggi mobilitare l'immaginario legato alle lotte anticolonialiste del dopoguerra è impossibile: non soltanto perché è passato troppo tempo, ma soprattutto perché la caduta dell'URSS ha modificato radicalmente il contesto geopolitico internazionale. In questo gioca un ruolo rilevante gioca l'affermazione planetaria del radicalismo islamico, che anche in Nigeria sta seminando la morte e la paura. Il nuovo separatismo biafrano ha dei punti di contatto con i fenomeni europei suddetti - Catalogna e Scozia - ma non può contare sul sostegno ufficiale di stati africani o europei. Né riceve attenzione da parte della stampa, eccettuata quella nigeriana. Proprio per questo i separatisti biafrani, e in particolare l'IPOB, capiscono che i contatti con l'Europa possono giocare un ruolo vitale. È soprattutto la Catalogna che viene scelta come cassa di risonanza. Il 10 agosto 2014, dopo una serie di contatti informali, viene aperta a Barcellona un'ambasciata biafrana. Naturalmente si tratta di un'organismo che non ha alcun rilievo ufficiale, ma in ogni caso testimonia il tentativo di legare il separatismo biafrano a questioni analoghe che ricevono grande attenzione mediatica. Se poi la Catalogna riuscisse a conquistare l'indipendenza, molto probabilmente l'attuale appoggio informale si trasformerebbe nell'appoggio ufficiale di un governo europeo, con un coinvolgimento dell'UE. Il contesto nigeriano Le argomentazioni dei movimenti separatisti non sono sempre convincenti. Tutti rivendicano il diritto all'autodeterminazione del "popolo biafrano", ma in realtà questo è un'astrazione, dato che nel territorio dell'ex Regione Orientale gli Igbo, largamente maggioritari, convivono con molti altri popoli: Anioma, Efik, Ijaw, Itsekiri, etc. Emerge qui una lacuna tipica del separatismo: da una parte si reclamano dei diritti, primo fra tutti quello di costituire un proprio stato, ma nulla viene detto sui doveri, per esempio quello che verrebbe riconosciuto alle nuove minoranze. Anzi, dal momento che il concetto di Biafra sembra coincidere con quello di popolo igbo, si intravedono i germi di un centralismo allarmante. Oltre a questo, occorre sottolineare che anche molti igbo guardano il separatismo con diffidenza, quando non lo rifiutano apertamente. "Né il MASSOB né l’IPOB hanno il diritto di parlare a nome di tutti gli igbo", afferma Chuks Ibegbu, leader dell'Igbo Information Network. "I giovani che sono nati durante o dopo la guerra non conoscono la storia della Nigeria. La guerra civile è finita nel 1970" gli fa eco Nduka Eya, ex segretario generale dell'associazione Ohanaeze Ndigbo. La netta differenza fra la rivendicazione originaria e quella odierna viene sottolineata dal giornalista Ugoji Egbujo: "Il Biafra era un'ideale di giustizia e libertà, ma oggi è diventato uno strumento per ciarlatani, un giocattolo per esaurire la vitalità della nostra gioventù. Alla fine del 2015 anche The Igbo Conscience (TIC), un'importante associazione di professionisti igbo, si schiera apertamente contro i separatisti. Il governo federale, dal canto suo, risponde alle mobilitazioni dei secessionisti soltanto con la forza. Il 14 ottobre 2015 Nnamdi Kanu viene arrestato e imprigionato (verrà scarcerato soltanto nell'aprile del 2017). Alcune settimane dopo due parlamentari britannici, Tom Elliott e Danny Kinahan (Ulster Unionist Party), propongono che Londra faccia pressione sul governo nigeriano affinché venga organizzato un referendum sull'indipendenza del Biafra. La proposta viene rigettata. Alla fine del 2016 Amnesty International denuncia che dall'agosto 2015 almeno 150 attivisti pacifici sono stati uccisi dall'esercito nigeriano. 27
Il 21 e il 22 aprile 2017 si svolge a Londra la conferenza Legacies of Biafra: Reflections on the Nigeria-Biafra War 50 years on, alla quale prendono parte studiosi e attivisti provenienti da varie parti del mondo. Il crescente interesse accademico per la questione non deve essere confuso con le iniziative dei movimenti separatisti, ma gioca indirettamente a favore di questi perché cerca di stimolare un'attenzione che rimane limitata. Al di fuori della Nigeria e della Gran Bretagna, infatti, il termine Biafra rimane legato al passato. Ma è sbagliato considerarlo un'esperienza storica definitivamente archiviata. Al contrario, l'attuale situazione della Nigeria dimostra che la secessione del 1967 era la risposta, magari sbagliata, a un problema territoriale che deve ancora trovare una soluzione. La Nigeria che aveva combattuto il Biafra nel nome dell'unità è la stessa che ha aumentato a dismisura la propria ripartizione interna: i tre stati del 1967 sono diventati trentasei. Non solo, ma in dodici vige la sharia (legge islamica). Questo determina una disuguaglianza giuridica inaccettabile. Facendo un paragone con una federazione europea, sarebbe come se certe leggi valide a Berna non lo fossero anche a Ginevra. La Nigeria dimostra che un paese può spaccarsi al suo interno anche se il resto del mondo continua a percepirlo come se fosse unito. Questa falsa unità è anche un'unità forzata. Per questo la Nigeria rimane sul punto di esplodere. Bibliografia Ebiem O., Nigeria, Biafra, and Boko Haram: Ending the Genocides through Multistate Solution, Page Publishing, New York (NY) 2014. Onuoha G., Challenging the State in Africa: MASSOB and the Crisis of Self-Determination in Nigeria, Lit Verlag, Münster 2014. Shawa O., The Biafra Manifesto. Anatomy of Regional Vibrancy, Hattus Books, New Delhi 2017.
Nnamdi Kanu (al centro con gli occhiali) durante una manifestazione di separatisti catalani a Barcellona
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Suoni, immagini e parole Materiali sulla guerra del Biafra Film e documentari Afia Attack: The Untold Survival Stories of Women in the Nigeria-Biafra War, regia di Ujuaku Nwakalor Akukwe, Nigeria 2017. Biafra, regia di Raymond Depardon, cortometraggio, Francia 1968. Half of a Yellow Sun, regia di Biyi Bandele, Nigeria 2013. Jesus Christ Airlines, regia di Lasse Jensen, Danimarca, 2001. Ugwumpiti. Maurice's Story: A Child's Journey from Biafra, regia di Eithne Nightingale, Gran Bretagna 2016. https://childmigrantstories.com/ugwumpiti/
Fumetti Callixte, Gilles Durance. 1: Le bombardier blanc, Paquet, Paris 2014. Oleffe M., Loutte E., Biggles. 21: Chappal Wadi, Le Lombard, Paris 2006.
Memorie Achebe C., There Was a Country: A Personal History of Biafra, Penguin, London 2012. Odumegwu-Ojukwu C., Because I Am Involved, Spectrum, Ibadan 1989. Pagnuco T. (a cura di), From Biafra to England: Nigerian Heritage Project, StoneCrabs Theatre Company, London 2011. Parise V., Biafra, Feltrinelli, Milano 1968. Soyinka W., L'uomo è morto, Jaca Book, Milano 1986, n. ed. Calabuig, Milano 2016.
Musiche Okafor B., Child of Biafra, Plankton Records, 2007.
Romanzi Abani C., Canzone per la notte, Fanucci, Roma 2010. Adichie C. N., MetĂ di un sole giallo, Einaudi, Torino 2008. Saro-Wiwa K., Sozaboy, Baldini Castoldi Dalai, Milano 2010. Per i libri di argomento storico e politico si rinvia alla bibliografia di pagina 10.
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Mezzo secolo di occupazione israeliana Iqbal Jassat
"Uno stato che celebra 50 anni di occupazione è uno stato che ha perso l'orientamento, che non è più in grado di distinguere il bene dal male" ha scritto il corrispondendente di Haaretz Gideon Levy in un recente editoriale intitolato La nostra Nakba (termine che indica l'espulsione dei palestinesi dalla loro terra nel 1947-48, ndt). Il giornalista israeliano, nel suo tipico stile schietto e incisivo, afferma senza mezzi termini che Israele dovrebbe vergognarsi di essere marcio e corrotto come può essere soltanto un paese occupante. Tutto questo deriva dalla cosiddetta Guerra dei sei giorni, che ebbe luogo nel 1967. Oggi questa guerra viene celebrata con grandi iniziative. Come dice Levy, quello che in Israele si festeggia con gioia è qualcosa che i Palestinesi commemorano con grande dolore. Sono due giubilei diversi. Invece di celebrare il cinquantesimo anniversario della "liberazione" dei territori, Levy sostiene che anche Israele dovrebbe commemorarlo come una tragedia. Come fanno i Palestinesi, che rimangono pesantemente condizionati dalle sue conseguenze. Che cosa c'è da celebrare? Mezzo secolo di scontri sanguinosi, violenza e sadismo? Questa occupazione infinita? L'inizio di un regime fondato sull'apartheid? Altro che "vittoria", "miracoli" e "riunificazione". Su Internet si possono trovare viaggi organizzati per celebrare questa ricorrenza. La storia diffusa dal governo per legittimare l'occupazione è in netto contrasto con la legge. Quello che il diritto internazionale definisce illegale viene celebrato nel massimo disprezzo dei valori civili. Questo contrasto stridente fra legge e prepotenza viene espresso in modo perfetto da un membro del governo, il Viceministro degli Esteri Tzipi Hotovely. In un recente incontro del suo ministero la donna ha proposto che le celebrazioni del giubileo diventassero una grande mostra permanente per sottolineare il legame di Israele con la Cisgiordania, con un titolo come "Ritorno in patria" o "Ritorno nella patria ebraica". Hotovely, nota per le sue idee bellicose e nettamente contraria a uno stato palestinese, ha già incaricato il corpo diplomatico israeliano di realizzare questo progetto. Non è facile convincere il mondo che gli insediamenti siano "legittimi e moralmente giusti". Tzipi Hotovely calpesta la Risoluzione 2334 del Consiglio di sicurezza dell'ONU, che ha dichiarato gli insediamenti "privi di valore legale". Questo spiega la reazione di Gideon Levy. Israele rifiuta il concetto di occupazione e rivendica dei diritti storici sui territori che chiama "Giudea" e "Samaria"(Cisgiordania, ndr. Mentre il dibattito si riscalda, sta per iniziare la cerimonia ufficiale nell'insediamento di Gush Etzion, situato in Cisgiordania. Naftali Bennet, l'estremista che ricopre il ruolo di Ministro dell'Educazione, ha giustificato l'enorme spesa dell'iniziativa dicendo che questa era necessaria per celebrare "la gloriosa vittoria di Israele nella Guerra dei sei giorni e la liberazione della Giudea e della Samaria, delle alture del Golan e della valle del Giordano". Considerando la stridente differenza con cui viene ricordata questa ricorrenza, il giornalista palestinese Ramzy Baroud rievoca la tragedia palestinese e sottolinea la necessità di elaborare una lettura storica comune: "La storia della lotta palestinese viene raccontata in molti modi, ma la verità è che tutto è cominciato cento anni fa con gli insediamenti sionisti e con il colonialismo britannico". Milioni di persone controllate e oppresse per 50 anni, imprigionamenti e torture, case, scuole e ospedali bombardati… è questo che Israele vuole festeggiare?
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Käthe Jepsen, Pamela Leiva Jacquelín e Katrine Broch Hansen (a cura di), The Indigenous World 2017, IWGIA, Copenhagen 2017, pp. 651, € 25. Ogni anno si pubblicano in tutto il mondo migliaia di rapporti sui temi più diversi: dall'economia alla geopolitica, dalla ricerca scientifica alla situazione dell'ambiente. Uno dei meno noti, ma al tempo stesso uno dei più interessanti, è quello che riguarda la situazione dei popoli indigeni. Il volume in questione, The Indigenous World, viene pubblicato ogni anno dall'International Workgroup for Indigenous Affairs (IWGIA), una delle più prestigiose associazioni indigeniste. L'ultima edizione, che copre il 2016, fornisce ancora una volta una panoramica ampia ed esauriente degli avvenimenti che hanno interessato la vita dei popoli indigeni del pianeta – dagli Indiani del Nordamerica ai Berberi, dagli Inuit ai Maori. Non si tratta però del solito cahier de doléances: il denso volume parla ovviamente dei problemi e dei diritti negati, ma al tempo stesso evidenzia anche tutti quei progressi che la grande stampa tralascia o confina in minuscoli trafiletti. Una lettura imprescindibile per chi si occupa di questi temi. Disponibile in inglese e in spagnolo, il libro può essere acquistato o scaricato gratuitamente dal sito www.iwgia.org Antonella Visconti Coll Thrush, Indigenous London: Native Travelers at the Heart of Empire, Yale University Press, New Haven (CT) 2016, pp. 328, $38. Londra è stata la capitale di un impero coloniale sconfinato, forse il più grande di tutti i tempi, sul quale "non tramontava mai il sole". In questo modo ha sviluppato molti contatti – anche se spesso non felici – con i popoli indigeni che aveva colonizzato. Ma mentre esiste una vasta letteratura sui viaggi compiuti dai britannici nelle terre di questi popoli, ben poco si sa di quelli che vennero compiuti in senso inverso, cioè i viaggi che molti indigeni intrapresero alla volta della capitale. Indigenous London: Native Travelers at the Heart of Empire colma il vuoto ricostruendo questa storia insolita e stimolante, ricca di aneddoti e di curiosità. Spinti dai motivi più diversi, i viaggiatori in questione venivano dalle colonie che avrebbero formato le quattro federazioni anglofone extraeuropee: Australia, Canada, Nuova Zelanda e Stati Uniti. Alcuni di loro ci sono familiari, come l'indiana Pocahontas, ma la maggior parte ci è ignota. Una storia che si snoda attraverso cinque secoli, anticipando in modo inatteso la metropoli multiculturale odierna. Il libro è importante anche perché distrugge il radicato stereotipo eurocentrico secondo il quale gli europei sarebbero stati "attivi esploratori" e gli altri soltanto "passivi esplorati". Alessandro Michelucci 31
Thomas Benedikter, La nostra autonomia oggi e domani. Proposte per il terzo Statuto del Trentino-Alto Adige/Sudtirolo, Politis/Arca, Bolzano 2017, pp. 160, € 12. Nella regione Trentino-Alto Adige-Südtirol si sta lavorando già da qualche anno alla revisione dello Statuto di autonomia, che fa seguito a quella del 1972. Tanto a Bolzano quanto a Trento è stato avviato un percorso di riflessione ed elaborazione, con il coinvolgimento diretto della cittadinanza. Nella Provincia autonoma di Bolzano questo itinerario ha assunto una specifica veste istituzionale, la Convenzione sull'autonomia, i cui lavori dovrebbero concludersi entro la fine di quest'anno. Il volume del ricercatore sudtirolese Thomas Benedikter raccoglie e documenta varie idee sul tema, formulando al tempo stesso delle proposte specifiche. Nella prima parte l'autore ripercorre la storia dell'autonomia, individua ragioni e finalità della riforma con i contributi del senatore Karl Zeller, dell'ex senatore Oskar Peterlini e del politologo Günther Pallaver, concentrandosi su parità linguistica, tutela delle minoranze, educazione plurilingue e autonomia finanziaria. Su questi temi incrocia le opinioni di esponenti della società civile come l'architetto Simon Constantini, il presidente regionale della CNA Claudio Corrarati e il ricercatore Andrea Carlà. Definito in questo modo il contesto di riferimento, l'autore si dedica alle proposte e alle riflessioni riguardanti la riforma, sottolineando la necessità di ampliare gli spazi democratici, ipotizzando una gestione autonoma della giustizia e individuando certe questioni emerse nel corso dell'attività svolta dalla Convenzione sull'autonomia. Qui trovano spazio alcuni approfondimenti, con le interviste al consigliere provinciale Alessandro Urzì, all'eurodeputata Liliana Di Fede, all'ex senatore Marco Boato e a Christoph Perathoner, che si concentra sulla situazione del gruppo ladino. Marco Stolfo Ernst Lothar, Sotto un sole diverso. Romanzo del destino sudtirolese, Edizioni e/o, 2016, Roma 2016, pp. 368, € 18. Negli ultimi anni sono usciti diversi romanzi dedicati al Sudtirolo e alla sua storia recente. Pensiamo a quelli di Francesca Melandri (Eva dorme, Mondadori, 2010), Sepp Mall (Ai margini della ferita, Keller, 2014) e Lilli Gruber (Eredità, 2012, e Tempesta, 2014, entrambi editi da Mondadori). Sotto un sole diverso appartiene di diritto a questo gruppo, ma al tempo stesso si differenzia nettamente dai lavori suddetti. Pubblicato originariamente nel 1943, è stato il primo romanzo dedicato alla tragica storia della regione a maggioranza gemanofona, annessa all'Italia nel 1918 in seguito a un patto segreto. Vaso di coccio fra le due dittature alleate, i sudtirolesi furono condannati a scegliere fra due ipotesi suicide: soccombere all'italianizzazione fascista o essere inghiottiti nella macchina bellica hitleriana. L'autore, sorretto da una prosa lucida e da una precisione storica encomiabile, mette in evidenza la tragedia della popolazione germanofona. Spicca la scupolosità con la quale viene descritta la vita quotidiana di Bolzano. Il libro di Lothar è lo strumento ideale perché molti italiani conoscano finalmente una storia tragica che ignorano e possano rivedere le idee sbagliate derivate da questa ignoranza. Antonella Visconti Patrizia Gattaceca, Cantu in mossa, le chant corse sur la voie, Albiana, Ajaccio 2016, pp. 224, € 37. Da vari anni la Corsica sta vivendo una stagione piuttosto vivace sotto il profilo culturale. Basti pensare a Jérôme Ferrari, che nel 2012 ha vinto il Premio Goncourt con il romanzo Le sermon sur la chute de Rome (tr. it. Il sermone sulla caduta di Roma, E/O, 2013). Oppure a Patrizia Gattaceca, autrice di una raccolta di poesie in lingua corsa che è stata pubblicata negli Stati Uniti con traduzione inglese a fronte (Isula d'anima/Soul Island, Three Rooms Press, 2013). Cantante, scrittrice e poetessa, Patrizia ha inciso vari dischi come titolare, fra i quali Passagera (Ricordu, 2015). Con le sorelle Lydia 32
e Patrizia Poli ha realizzato i due lavori del Trio Soledonna: Marine (Universal, 1998) e Isulanima (Universal, 2001). A conferma di questa versatilità, ecco un libro dove l'artista isolana ripercorre quasi un secolo di musica corsa: dal vecchio cabaret ai gruppi militanti come L'Arcusgi, Canta u populu corsu e Chjami Aghjalesi, da Tino Rossi ai nuovi talenti come Battista Acquaviva e Diana Saliceti. Il volume contiene un imponente corredo documentario – dischi, film, fotografie – che guida il lettore in questo viaggio affascinante. Un libro fatto col cuore, un'opera che mancava. Alessandro Michelucci "Minderheiten", Jahrbuch Polen, 27, 2016, Harrassowitz Verlag, Wiesbaden 2016, pp. 236, € 11,90. La Polonia era stata per molti secoli un paese multiculturale, ma le tragiche vicende della Seconda guerra mondiale e le conseguenti modifiche territoriali hanno determinato una drastica riduzione di questa varietà. Secondo il censimento del 2011, le minoranze di questo paese (Casciubi, Tedeschi, Ucraini, etc.) rappresentano soltanto il 4% della popolazione. Alla tematica è dedicato questo numero di Jahrbuch Polen, la pubblicazione del Deutsches Polen-Institut, fondato nel 1980 per stimolare il dibattito politico e culturale fra Germania e Polonia. Hans-Jürgen Bömelburg si concentra sul retaggio multiculturale che la Polonia ha ereditato dall'esperienza della Rzeczpospolita, la confederazione polacco-lituana esistente dal 1569 al 1795; Andrzej Kaluza e Peter Oliver Loew disegnano un quadro esauriente delle minoranze; Lech Nijakowski esamina l'evoluzione della politica polacca nei loro confronti; Marcin Wiatr si concentra su quella tedesca; Bohdan Osadczuk, Basil Kerski e Andrzej St. Kowalczyk approfondiscono i legami fra Polonia e Ucraina. Altri contributi analizzano la situazione della minoranza israelita, la questione slesiana, etc. Il risultato è un quadro esauriente e aggiornato della materia, solitamente trascurata non soltanto dai media, ma anche da gran parte di coloro che si occupano di questi temi. Giovanna Marconi Michael Knapp, Ercan Ayboga e Anja Flach, Laboratorio Rojava. Confederalismo democratico, ecologia radicale e liberazione delle donne nella terra della rivoluzione, Red Star Press, Roma 2016, pp. 280, € 20. Negli ultimi anni la regione settentrionale della Siria, che i Kurdi chiamano Rojava (Kurdistan occidentale), si sta organizzando su basi completamente diverse rispetto al resto della Siria e alle altre parti del territorio curdo. Un movimento popolare, nato da varie forze politiche locali, cerca di realizzare un programma politico che nasce dal basso e di integrare tutti i gruppi sociali e etnici in un processo decisionale democratico. La popolazione dei tre cantoni – in maggioranza curda – definisce questo sistema confederalismo democratico, ispirato alle idee del fondatore del PKK, Abdullah Öcalan, detenuto in Turchia dal 1999. L'esperimento respinge quindi l'ideologia dello stato nazionale, ancora dominante nel Medio Oriente, ma anche l'obiettivo dello stato socialista caldeggiato un tempo dal PKK, per non parlare del califfato islamico vagheggiato dall'ISIS. Al contrario, il Rojava vuole costruire una società democratica, multiculturale e multireligiosa rifiutando anche l'idea di stato come strumento del capitalismo internazionale ed espressione del patriarcato (quest'ultimo profondamente radicato nelle culture islamiche mediorientali). Questa affascinante esperienza politica viene descritta in modo dettagliato dagli autori del libro, due tedeschi e un curdo, fondatori dell'associazione Tatort Kurdistan di Berlino. Il volume sottolinea le difficoltà che devono essere superate per portare avanti questo esperimento, decisamente insolito per il Medio Oriente. Primo lavoro esauriente dedicato alla questione, Laboratorio Kurdistan è il risultato di lunghe ricerche e viaggi sul posto, durante i quali gli autori hanno potuto analizza33
re approfonditamente la realtà politica e sociale che sta emergendo nel Rojava. Particolare attenzione viene riservata al ruolo delle donne. Queste non sono soltanto un pilastro della struttura militare, ma partecipano in forma paritetica a tutti i processi decisionali. Il libro analizza anche il contesto politico regionale e le prospettive di una realtà che sembra boicottata da quasi tutti, inclusa la regione autonoma curda del vicino lraq. Nonostante le mille difficoltà che deve superare, questo esperimento politico-sociale rappresenta una grande speranza, non solo per i kurdi della Siria, ma per l'intero Kurdistan e per tutto il Medio Oriente. Thomas Benedikter Toyin Falola e Ogechukwu Ezekwem (a cura di), Writing the Nigeria-Biafra War, James Currey, Woodbrige 2016, pp. 491, £50. Come abbiamo già visto nel dossier dedicato al Biafra, la guerra civile ha segnato in maniera indelebile gli scrittori nigeriani. Non soltanto quelli dell'epoca, ma anche quelli delle generazioni successive. Lo dimostra il fatto che dopo mezzo secolo il tema della guerra civile continua a emergere dalle pagine delle opere più diverse, inclusi i romanzi di fantascienza di Nnedi Okorafor. Writing the Nigeria-Biafra War, curato da due studiosi autorevoli, è un'antologia che fornisce un ampio panorma di quanto è stato scritto sulla guerra. Non si limita all'ambito letterario, ma include temi spiccatamente politici trattati da scrittori e giornalisti di tutto il mondo, anche se in larga prevalenza anglofoni. Naturalmente viene dato ampio risalto agli scrittori nigeriani, da quelli che hanno vissuto gli anni della guerra, come Chinua Achebe e Wole Soyinka, a quelli più giovani, come Chimamanda Ngozi Adichie, autrice del celebre Metà di un sole giallo. Stranamente, però, quest'opera così ampia e dettagliata ne dimentica qualcuno. Spicca l'assenza di Goffredo Parise, l'unico intellettuale italiano che si occupò della tragedia e le dedicò un libro. Ancora più strana l'assenza di due giornalisti inglesi, Charles Leapman ed Auberon Waugh, che all'epoca denunciarono il genocidio su testate a larga difusione. Per quanto riguarda in particolare il secondo, la sua assenza è inspiegabile, dato che il libro analizza con cura gli scritti di Suzanne Cronjé, autrice insieme a Waugh del libro Britain’s Shame (citato soltanto nella bibliografia). Nonostante questo limite il libro rappresenta uno strumento importante, perché analizza una varietà nella quale trovano spazio aspetti ignoti o trascurati: la solidarietà manifesta di alcuni scrittori irlandesi; il punto di vista di certe minoranze biafrane, coinvolte nella guerra loro malgrado; le opere di scrittori nigeriani che non sono stati tradotti in altre lingue. Nel complesso, un libro necessario per comprendere l'ampiezza del fenomeno culturale innescato dalla guerra. Alessandro Michelucci Charles E. Jones e Judson L. Jeffries (a cura di), The Black Panther Party, "Spectrum", VI, 1, Fall 2016. Al di fuori dei paesi dell'area anglofona l'attenzione per le rivendicazioni afroamericane degli anni Sessanta e Settanta è rimasta sostanzialmente limitata alla figura di Martin Luther King. Malcolm X, che è stato ucciso nel 1965, non ha fatto in tempo a inserirsi nel fenomeno del Sessantotto, che probabilmente gli avrebbe permesso di raggiungere anche gli ambienti culturali europei. Perfino il Black Panther Party for Self-Defense, da noi noto come Pantere Nere, è rimasto un fenomeno d'interesse americano: neanche a sinistra, eccettuate rarissime eccezioni, si è registrato un pur minimo interesse nei suoi confronti. Il cinquantenario del Black Panther Party, fondato da Huey Newton e Bobby Seale nel 1966, ha stimolato un'attività editoriale intensa, anche se sempre limitata all'area anglofona. Il numero monografico della rivista Spectrum offre una valida alternativa a chi voglia conoscere questa pagina importante della storia americana recente senza dover leggere un volume di 300 o 400 pagine. 34
In sostanza, si tratta di uno strumento utile per conoscere una pagina importante della storia del ventesimo secolo, una delle tante che la cultura italiana ha ingiustamente trascurato. Giovanna Marconi Matteo Meschiari, Artico nero. La lunga notte dei popoli dei ghiacci, Exorma, Roma 2016, pp. 164, € 14,50. Luglio-agosto 2016. Nell'immensa distesa bianca dell'Artico il termometro raggiunge i 30 gradi, il permafrost si scioglie, "risvegliando cose ghiacciate e agghiaccianti". Stiamo parlando di Artico nero, dove l'antropologo Matteo Meschiari attacca con argomentazioni solide certi paesi emblemi di "civiltà", storiografi, geografi e antropologi e mostra un Artico invaso, occupato, colonizzato, trasformato all'occorrenza in pattumiera nucleare. Una terra abitata da popoli deportati, assimilati, segregati, privati dei mezzi di sussistenza materiale e culturale, sottoposti a esperimenti eugenetici, costretti all'alcool e al suicidio. Tanto è vero che la Groenlandia ha il record mondiale dei suicidi giovanili. Si tratta di una colonizzazione quasi ignota, ma non per questo meno feroce o meno intensa. L'autore ha costruito la narrazione in modo insolito e straordinario. Sette capitoli, sette luoghi, sette popoli: Inuit, Sami, indigeni della Siberia. Sette storie dai tratti comuni ma diverse, sette stili che passando dal saggio al réportage arrivano all'attissimo livello letterario del capitolo finale. Contrariamente a quello che si potrebbe pensare, per scrivere questo libro Meschiari non è stato sul campo: "Io non cerco la verità, mi interessa l'intensità. Ovviamente provo a dire la verità, ma provo a dirla in un modo che è già invenzione. La verità di un Artico nero e morente è iniziare ad accorgersene". Dino Castrovilli Darcy Riberiro, Frontiere indigene della civiltà. Gli indios del Brasile fino agli anni ’60, Jaca Book, Milano 2017, pp. 366, € 30. Pubblicato per la prima volta nel 1971, questo studio è il risultato di dieci anni di ricerche sul campo condotte tra gli indios amazzonici del Brasile dal famoso antropologo Darcy Ribeiro (19221997). Si tratta di insegnamenti ancor oggi di grande attualità. Il tema viene affrontato con grande sensibilità descrittiva. Non manca la denuncia di certe forme di oppressione e discriminazione contro le fragili comunità amazzoniche: non a caso Ribeiro aveva fatto parte dello SPI, il servizio governativo per la protezione dell'indio creato nel 1910, poi ribattezzato FUNAI. Con i suoi scritti e con la ferma difesa dei popoli indigeni, decisi oggi più di ieri a resistere all'assimilazione, Ribeiro non ha voluto esprimere soltanto un impegno attivo e costante, ma soprattutto il forte legame umano che lo legava ai suoi indios. Una lettura necessaria. Maurizio Torretti Pat Tynan, Atomic Thunder: The Maralinga Story, University of New South Wales Press, Sydney (NSW) 2016, pp. 384, AUD$ 34.99. Nel 1950 il governo australiano, guidato dal liberale Robert Gordon Menzies, accettò che la Gran Bretagna realizzasse i primi esperimenti nucleari in alcune zone desertiche. Questi ebbero luogo qualche anno dopo, nel 1956, nella pianura di Maralinga (South Australia). L'uso dell'arma atomica ebbe conseguenze devastanti sulle comunità aborigene dell'area, che si 35
ritrovarono a vivere in un deserto radioattivo. Il programma, concepito a Londra, era stato realizzato nel modo piĂš segreto, senza che la popolazione australiana ne avesse saputo nulla. Gli esperimenti si inserivano nel contesto piĂš ampio della guerra fredda: mettendo in pericolo la vita di popoli indigeni stanziati in regioni remote si otteneva il risultato voluto senza attirare troppo l'attenzione dei media. Lo stesso era giĂ stato fatto in Micronesia a partire dal 1946. Il volume di Elizabeth Tynan, docente di Scrittura accademica alla James Cook University (Cairns, Australia), ricostruisce accuratamente l'intera vicenda. In questo modo l'autrice non si limita a mettere in luce una pagina di storia dimenticata, ma fornisce un valido contributo alla conservazione di una memoria storica che rischia di andare perduta. Giovanna Marconi
RICCARDO MICHELUCCI
Storia del conflitto anglo-irlandese Otto secoli di persecuzione inglese
La nuova edizione ampliata e aggiornata di un'opera fondamentale che per la prima volta traccia un esauriente panorama storico della secolare oppressione inglese nei confronti del popolo irlandese www.odoya.it
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Nuvole di carta
Tomasz Bereźnicki, The Pharmacist in the Kraków Ghetto, Muzeum Historyczne Miasta Krakowa, Kraków 2015, pp. 46, € 8,50. Oskar Schindler, noto al grande pubblico grazie al film di Steven Spielberg (Schindler's List, 1993), è solo uno dei tanti che cercarono di mitigare le immani sofferenze imposte agli ebrei durante la Seconda guerra mondiale. Meno noto, ma non meno importante, è Tadeusz Pankiewicz, il farmacista del ghetto di Cracovia. Unico non ebreo del quartiere, l'uomo fu testimone oculare della cancellazione della comunità ebraica locale. Nessuno meglio di Tomasz Bereźnicki avrebbe potuto raccontare la sua storia utilizzando gli strumenti della nona arte. Nato a Cracovia, disegnatore e musicista, Bereźnicki aveva già realizzato un volume dedicato alla tragedia ebraica, Oświęcimskie historie/Stories from Oświęcim (2016), associato alla mostra omonima tenutasi al Museo Ebraico di Auschwitz. Come il più famoso Maus di Art Spiegelman, questo bel lavoro prova che il ricorso al fumetto è una scelta indovinata, anche perché tanti giovani hanno una scarsa conoscenza della Shoah o la considerano una tragedia lontana. Quando addirittura non manifestano un certo fastidio se ne sentono parlare. Anche il fumetto, magari utilizzato a livello didattico, potrebbe servire per combattere questo grave ritardo culturale, frutto di semplice ignoranzo ma alleato inconsapevole di un antisemitismo latente. Alessandro Michelucci Jules Stromboni, Mazzeru, Casterman, Paris 2017, pp. 160, € 29. Se è vero che la Francia è la patria indiscussa del fumetto, è altrettanto vero che negli ultimi anni la Corsica si è imposta come una voce autonoma attingendo al bagaglio storico che la differenzia nettamente dal resto del paese. Basti pensare all'attività intensa del soggettista Frédéric Bertocchini, autore di opere come Paoli (3 voll., DCL, 2007-2009), Colomba (DCL, 2012) e Sampiero Corso (2 voll., DCL, 2013-2014). Si tratta comunque di un fermento che supera ampiamente i confini regionali: lo dimostra Jules Stromboni, nato da genitori corsi ma formatosi nella Francia continentale. Mazzeru, ideata e disegnata dal giovane artista, è un'opera forte e intensa che attinge all'antica tradizione sciamanica isolana. Interamente realizzata in bianco e nero, dotata di pochi testi, è giocata tutta sul disegno, frutto di sperimentazioni grafiche e tecniche molto personali. Ambientato nella misteriosa Corsica dell'Ottocento, Mazzeru racconta l'amore impossibile di Cé37
sario, giovane preveggente, e di Chilina. Il tratto essenziale delle immagini si sposa perfettamente con le manifestazioni violente della natura che popolano la storia: le prime mestruazioni, l'incesto, la morte. Alessandro Michelucci
Tanti auguri, Tignous Il 7 gennaio 2015, come tutti ricorderanno, la redazione del giornale satirico parigino Charlie Hebdo è stata vittima di un attentato terroristico. Il bilancio è stato tragico: dodici morti e undici feriti. Fra coloro che hanno perso la vita c'era anche Bernard Verlhac, meglio conosciuto con lo pseudonimo di Tignous. Il 21 agosto 2017 avrebbe compiuto 60 anni. Noi vogliamo festeggiare il suo compleanno come se fosse ancora fra noi: le armi dei terroristi hanno interrotto la vita di Tignous e dei suoi colleghi, ma non potranno mai cancellare il patrimonio prezioso di sensazioni, emozioni e colori che ci hanno regalato. Attivo come disegnatore dal 1980, Tignous era legato in modo particolare alla Corsica. Lo dimostrano Le procès Colonna (12 bis, 2008), con testi di Dominique Paganelli, e il postumo La Corse prend le maquis (Le Chêne, 2016). Insieme a un collega morto nella strage parigina, Wolinski, era stato più volte ospite del Festival de la BD di Bastia. Dotato di un umorismo garbato ma feroce, aveva collaborato con molte pubblicazioni francesi, fra le quali Fluide Glacial e Marianne. Tanti auguri, Tignous. Antonella Visconti
LA CORSICA: STORIA DI UN GENOCIDIO Finalmente ristampato il classico di Sabino Acquaviva sulla Corsica Grazie agli amici del Centro Studi Dialogo è nuovamente disponibile questo libro fondamentale, edito originariamente da Franco Angeli nel 1982 Per altre informazioni: http://csdialogo.eu 38
Cineteca
Bobby Sands: 66 Days, regia di Brendan Byrne, Danimarca-Gran Bretagna-Irlanda-Stati UnitiSvezia, 2016, 105' (documentario). Trentacinque anni fa ebbe luogo la brutale lotta carceraria che cambiò per sempre la natura del conflitto anglo-irlandese, avviandolo verso un lento ma irreversibile processo conclusivo. Oggi questo splendido documentario riesce per la prima volta a raccontare Bobby Sands per immagini attraverso un uso innovativo dei diari nei quali annotò le memorie della prigionia. Uscito in Gran Bretagna nel 2016, 66 Days racconta gli ultimi giorni di vita del giovane militante rinchiuso nel braccio di massima sicurezza di Long Kesh, a Belfast. Qui Sands divenne l'anima di uno sciopero della fame che attirò l'attenzione del mondo intero e culminò il 5 maggio 1981 con la sua morte, cui seguirono quelle di altri nove detenuti irlandesi. Da quel momento in poi, Bobby Sands e gli altri martiri del 'blocco H' furono trasfigurati in icone della lotta di liberazione irlandese, in parte disumanizzati per divenire simboli universali di quel terribile scontro carcerario. Prima che le sue condizioni di salute iniziassero ad aggravarsi in modo irreversibile, il rivoluzionariopoeta raccontò i primi diciassette giorni del suo sciopero della fame scrivendo in clandestinità, su minuscoli pezzi di carta igienica, alcune delle pagine più toccanti della letteratura carceraria del '900. Costruito come un conto alla rovescia verso la fine, 66 Days scorre giorno per giorno gli oltre due mesi di autoprivazione del cibo che condussero Sands alla morte. Lo fa alternando in modo magistrale una drammatica ricostruzione scenica interpretata dall'attore belfastiano Martin McCann, uno straziante repertorio iconografico e una serie di interviste agli amici e agli ex compagni di prigionia di Sands, ma anche ad alcuni protagonisti dell'epoca, come l'ex secondino di Long Kesh Dessie Waterworth e il giornalista Charles Moore, biografo di Margaret Thatcher. Trovando un giusto equilibrio tra le voci repubblicane e l'analisi storica, 66 Days ha il grande merito di riuscire per la prima volta a inquadrare quei fatti in una prospettiva storica. Riccardo Michelucci La morsure des dieux, regia di Cheyenne-Marie Carron, Francia, 2017, 125’. Cheyenne-Marie Carron è una giovane regista con un certo interesse per le culture minoritarie. Figlia di genitori cabili (berberi algerini), Cheyenne-Marie Carron ha realizzato vari film, sempre dedicati a temi di forte rilievo sociale: islamismo, patriottismo, razzismo antibianco, etc. Ambientato e girato nei Paesi Baschi, il suo nuovo lavoro si basa sul contrasto fra i due protago39
gonisti. Questo non riguarda soltanto aspetti culturali e sociali, ma anche religiosi. Juliette è cattolica, mentre Sébastien ha una sensibilità precristiana, in altri termini pagana, che deriva dal suo forte legame con la terra. Si tratta della stessa Madre Terra che viene spesso evocata dai popoli indigeni. Sottolineando questa dimensione spirituale precristiana la regista porta una salutare ventata d'aria fresca nella rappresentazione scenica delle culture minoritarie, generalmente dipinte come seguaci di religioni monoteiste. L'affinità con i problemi che riguardano i popoli indigeni, comunque, non riguarda soltanto la religione, ma anche il contesto economico: Sébastien è un agricoltore minacciato dalla voracità delle banche, dalla concorrenza della grande distribuzione e dalle norme europee. Opera intensa e stimolante, molto curata sotto il profilo scenico e fotografico, La morsure des dieux è un film che la regista franco-berbera ha realizzato da sola, senza aiuti economici di alcun tipo. Purtroppo è uno dei tanti film stranieri dedicati alle culture minoritarie che non vedremo mai sui nostri schermi. Alessandro Michelucci
Gli autori di questo numero Dino Castrovilli giornalista e curatore di vari progetti culturali, fra i quali Orme, passeggiata letteraria per Dino Campana e Robert Walser. John Horgan Giornalista, Professore Emerito di Giornalismo all'Università di Dublino, parlamentare europeo (laburista) dal 1981 al 1983. Fra le sue numerose opere, Mary Robinson: An Independent Voice (O'Brien Press, 1997) e Irish Media: A Critical History since 1922 (Routledge, 2001). Il suo articolo è tratto dal quotidiano dublinese The Irish Times. Iqbal Jassat Giornalista palestinese, cofondatore del Media Review Network (Johannesburg, Sudafrica). Il suo articolo è tratto da The Palestine Chronicle. Obi Nwakanma Giornalista, scrittore e poeta igbo della Nigeria. Collabora con varie testate, fra le quali Neue Zurcher Zeitung, Newsweek e The Vanguard. Fra i suoi libri spicca la biografia Christopher Okigbo 1932-70: Thirsting for Sunlight (James Currey, 2010). Insegna Inglese e Scrittura creativa alla University of Central Florida. Il suo articolo è tratto da Vanguard, quotidiano nigeriano di Lagos. Wole Soyinka scrittore yoruba della Nigeria, autore di opere tradotte in varie lingue. Nel 1986 ha ricevuto il Premio Nobel per la letteratura. Il suo testo è tratto da Vanguard, quotidiano nigeriano di Lagos. Marco Stolfo Dottore di ricerca in Storia del federalismo e dell’unità europea presso l'Università degli Studi di Udine. Ha pubblicato numerosi libri sui problemi delle minoranze. Il suo lavoro più recente è Lingue, diritti, cittadinanza – Languages, Rights, Citizen- ship. Friuli-Venezia Giulia, Italia, Europa, Mediterraneo (2014), curato insieme a Claudio Cressati. Michele Vollaro giornalista, redattore del mensile Africa e affari (Roma). Degli altri autori è stata data notizia nel numero precedente.
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