anno III/nuova serie
numero 9
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gennaio-aprile 2019
la causa dei popoli problemi delle minoranze, dei popoli indigeni e delle nazioni senza stato anno III/nuova serie
numero 9
ISSN: 2532-4063
gennaio-aprile 2019
EDITORIALE
Direttore: Alessandro Michelucci Redazione: Katerina Sestakova Novotna, Giovanni Ragni, Marco Stolfo, Maurizio Torretti, Davide Torri Via Trieste 11, Firenze, 055-485927, 327-0453975 E-mail: popoli-minacciati@ines.org https://issuu.com/lacausadeipopoli
Il suono della vita Giovanna Marconi
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DOSSIER
Direttore responsabile: Riccardo Michelucci Comitato scientifico
Valerie Alia Leeds Metropolitan University, José Luis Alonso Marchante storico indipendente, James Anaya University of Arizona, Aureli Argemí CIEMEN, Laurent Aubert Archives internationales de musique populaire, Claus Biegert Nuclear Free Future Award, Guglielmo Cevolin Università di Udine, Duane Champagne UCLA, Naila Clerici Soconas Incomindios, Walker Connor Middlebury College (†), Alain de Benoist Krisis, Toyin Falola University of Texas at Austin, Jacques Fusina Università di Corsica Pasquale Paoli, Edward Goldsmith The Ecologist (†), Barbara Glowczewski Collège de France, Ted Robert Gurr Center for International Development and Conflict Management (†), Mahdi Abdul Hadi PASSIA, Debra Harry Indigenous Peoples Council on Biocolonialism, Elina Helander-Renvall University of Lapland, Ruby Hembrom Adivaani, Ursula Hemetek Universität Wien, Alan Heusaff Celtic League (†), Zohl dé Ishtar Kapululangu Aboriginal Women's Association, Amjad Jaimoukha International Centre for Circassian Studies, Asafa Jalata University of Tennessee, René Kuppe Universität Wien, Robert Lafont Université Paul Valéry (†), Colin Mackerras Griffith University, Luisa Maffi Terralingua, Saleha Mahmood Institute of Muslim Minority Affairs, David Maybury-Lewis Cultural Survival (†), Matthew McDaniel Akha Heritage Foundation, Antonio Melis Università di Siena (†), Fadila Memisevic Gesellschaft für bedrohte Völker, Garth Nettheim University of New South Wales, Kendal Nezan Institut Kurde, Helena Nyberg Incomindios, Nicholas Ostler Foundation for Endangered Languages, Anna Paini Università di Verona, Alessandro Pelizzon Southern Cross University, Norbert Rouland Universitè d'Aix-Marseille III, Rudolph Rÿser Center for World Indigenous Studies, Ryūichi Sakamoto compositore, Edmond Simeoni Corsica Diaspora (†), Ruedi Suter Media-Space, Parshuram Tamang Nepal Tamang Ghedung, Colin Tatz Australian Institute of Holocaust and Genocide Studies, Victoria TauliCorpuz Tebtebba Foundation, Ned Thomas Literatures Across Frontiers, Fernand de Varennes Murdoch University, Michael van Walt van Praag Kreddha, Joseph Yacoub Université Catholique de Lyon, Antonina Zhelyazkova International Centre for Minority Studies and Intercultural Relations
Per la decolonizzazione linguistica Intervista a Ngugi wa Thiong'o
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Il figlio del sole Alessandro Michelucci
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L'aborigeno che vedeva col cuore Emily Nicol
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Nuove voci indigene dalla Micronesia Intervista a Emehliter Kihleng ed Evelyn Flores
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Adivaani, la voce dell'altra India Ruby Hembrom
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Il ruolo prezioso delle lingue proibite Giovanna Marconi
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Sul filo del rasoio Intervista a Gwaai Edenshaw
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La vita è una nuvola azzurra Antonella Visconti
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INTERVENTI
Lontano da Londra, vicino a Bruxelles Stephen Clear
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LO SCAFFALE Biblioteca Nuvole di carta Cineteca
In copertina: Nils-Aslak Valkeapää (foto: Jaakko Alatalo)
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Il suono della vita Ogni giorno, in tutto il mondo, miliardi di persone utilizzano la propria lingua nel modo più naturale, quasi automatico, così come trovano naturale pensare o respirare, inconsciamente forti del fatto che si tratta della lingua ufficiale dello stato in cui vivono. Quella dei cartelli stradali, degli uffici postali, dei giornali, della televisione. Ma accanto a loro vivono milioni di persone alle quali non è consentito di fare lo stesso, perché la loro lingua madre non è quella ufficiale. In certi casi il loro idioma viene bandito e chi lo utilizza viene colpito dalla legge. Talvolta paga addirittura con la vita. Per i popoli minoritari, dall'Europa all'Oceania, l'affermazione della diversità linguistica è una rivendicazione fondamentale. In teoria il diritto che reclamano dovrebbe essere riconosciuto da tutti, sia a livello politico che a livello di sensibilità collettiva, ma purtroppo non è così. È molto facile, quando parlare la propria lingua non rappresenta un problema, ignorare o addirittura combattere chi si oppone al monolinguismo; deridere chi non accetta che l'uniformità venga spacciata per uguaglianza; condannare chi vorrebbe che la propria lingua venisse studiata e praticata. In altre parole, quello che la maggioranza tutela come un diritto sacrosanto viene negato alla minoranza. Per giunta, salvo rarissime eccezioni, i nostri media non mostrano il minimo interesse per tutto questo, persi come sono nell'attenzione ossessiva per la politica interna e per le faide interne dei partiti. Il diritto di usare la propria lingua non ha niente a che vedere con la differenza fra democrazia e dittatura. Anzitutto perché oggi esistono molti stati, come la Russia e la Turchia, che si presentano come democrazie ma sono di fatto delle dittature. Inoltre perché la repressione dei diritti linguistici, tranne rari casi, non ha mai turbato i sonni di coloro che si opponevano alle dittature. Restiamo umani, diceva giustamente Vittorio Arrigoni, il giovane pacificista che è stato rapito e ucciso il 14 aprile 2011 a Gaza da alcuni terroristi islamici. Essere umani significa anche capire le ragioni e le sofferenze di chi vive una condizione meno fortunata della nostra. Certo, la repressione fisica colpisce in modo molto più evidente di quella linguistica, ma questo non significa nulla. Chi ha la fortuna di poter usare il proprio idioma natale dovrebbe capire che la diversità linguistica non è meno preziosa della diversità biologica. Non ha senso piangere calde lacrime sulla scomparsa del panda o dell'orso polare se poi si dimentica che molte lingue vengono soffocate intenzionalmente. La lingua non è un accessorio superfluo, ma è il suono della vita: come ha detto lo scrittore galego Manuel Rivas, "Le parole sono esseri viventi". Ecco perché la sua difesa ha un posto centrale nelle battaglie delle minoranze e dei popoli indigeni. Negli ultimi anni, comunque, si intravedono dei progressi. Il cinema, la musica e la letteratura dimostrano che questi popoli sanno confrontarsi con la modernità senza dover rinunciare alla propria identità. I segnali sono incontestabili. Numerosi film realizzati da registi indigeni, come Atanarjuat (2001), Ten Canoes (2006) e Tanna (2015), sono stati premiati a Cannes o a Venezia. Il 26 ottobre Wes Studi, l'attore cherokee noto per Geronimo e Avatar, ha ricevuto l'Oscar alla carriera. In campo musicale, la cantante sami Mari Boine e il gruppo tuareg Tinariwen godono ormai di un successo consolidato. La Biennale di Venezia ospita regolarmente artisti indigeni di tutto il mondo. Le case editrici, incluse quelle italiane, pubblicano autori che un tempo ignoravano. Il mondo dei fumetti dedica a questi temi un'attenzione crescente, utilizzando anche le lingue meno diffuse. Insomma, sono ormai lontani i tempi in cui la produzione artistica dei popoli indigeni era una materia per pochi cultori e restava praticamente invisibile al grande pubblico. Il 2019 è l'anno internazionale delle lingue indigene. L'iniziativa, indetta dall'UNESCO, sta passando sotto silenzio in Italia, ma noi non possiamo trascurare questa iniziativa. Un'elementare coerenza ci impone di mettere in evidenza alcuni casi di resistenza linguistica, storie di persone che rivendicano il diritto di utilizzare la propria lingua nel cinema, nella letteratura, nella musica. Non sono persone che vogliono restare attaccate al passato, ma donne e uomini che reclamano il diritto di avere un futuro. Un futuro dove parlare la propria lingua sia un diritto elementare e non un crimine. Alessandro Michelucci
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Per la decolonizzazione linguistica Intervista a Ngũgĩ wa Thiong'o
Lo scrittore Ngũgĩ wa Thiong'o non ha bisogno di presentazioni. Gikuyu (o kikuyu) del Kenya, più volte candidato al Premio Nobel, ha messo la battaglia per la diversità culturale e linguistica al centro della propria attività letteraria. Ben noto in Italia, dove sono stati tradotti molti dei suoi libri, lo scrittore ha partecipato a varie iniziative per la difesa delle lingue africane. La più importante è la conferenza Against All Odds: African Languages and Literatures into the 21st Century (Asmara, 11-17 gennaio 2000), che ha organizzato con Charles Cantalupo (Penn State University), Zemhret Yohannes (People's Front for Democracy and Justice) e altri. A pagina 6 ne pubblichiamo la dichiarazione finale. Il relativo documentario, realizzato da Cantalupo, è disponibile all'indirizzo https://www.youtube.com/watch?v=KEJLTT3eII0 A questa conferenza ne è seguita un'altra, From Asmara 2000 to Nairobi 2014: New Horizons and Trends in African Languages and Literatures, che si è tenuta alla Kenyatta University di Nairobi dal 6 all’8 agosto 2014, dove lo scrittore non era presente. Il legame fra le due conferenze era comunque confermato dalla presenza di Charles Cantalupo. Quella che segue è l'intervista che Ngũgĩ wa Thiong'o ci ha concesso. Cosa è cambiato da quando hai scritto il primo romanzo in gikuyu? Per quanto riguarda i libri scritti in lingue africane, molto poco. Nel campo del cinema e del teatro, invece, ci sono stati dei cambiamenti notevoli. Le poche rappresentazioni in gikuyu che ho visto su YouTube sono di ottima qualità. Non dimenticare che nel 1977-78 fui rinchiuso in un carcere di massima sicurezza per aver scritto e messo in scena un testo teatrale nella mia lingua natale, intitolato Ngaahika Ndeenda/I will marry when I want. Quindi mi fa molto piacere vedere che oggi le lingue africane vengono usate nel teatro. Ma vorrei che fosse lo stesso per i libri. Tu scrivi in gikuyu e dopo traduci il testo in inglese. Si tratta di un lavoro difficile, o per meglio dire, riesci sempre a trovare le parole adatte, le sfumature? Scrivere significa sempre lottare con le parole, ma farlo in gikuyu è particolarmente stimolante. Come ho scritto nei miei libri, soprattutto in Decolonising the Mind, sono cresciuto con l'inglese. Era questa la lingua che usavo per comunicare col mondo. Quattro dei miei primi romanzi, The River Between, Weep Not Child, A Grain of Wheat e Petals of Blood sono scritti in inglese. Sono sommerso da libri e riviste inglesi. Ma scrivere in gikuyu ha sempre il sapore dell'esplorazione e della scoperta. Tradurre i miei testi in inglese, invece, è piuttosto noioso. È come fare due volte lo stesso viaggio. In genere tu vieni definito uno scrittore keniota. Ma dato che scrivi nella tua lingua madre, pensi che sarebbe più corretto definitu uno scrittore gikuyu? Certo, sarei molto contento se fossi definito così. Ho scritto sette libri nella mia lingua, quindi penso di poter reclamare la mia identità. Ma sono anche uno scrittore keniota e africano. Esiste qualche presidente africano, o comunque qualche esponente politico, che ha manifestato interesse per le tue idee sull'uso delle lingue africane? Ho provato a parlarne con qualcuno, mi hanno ascoltato con attenzione, ma il problema è che i loro governi dovrebbero attuare politiche linguistiche radicalmente diverse da quelle attuali. Le lingue occupano un ruolo centrale nelle lotte dei popoli indigeni. Hai mai avuto dei contatti con loro, o credi che potreste collaborare? La mia fiaba The Upright Revolution, (2016), scritta originariamente in gikuyu, è stata tradotta in circa 70 lingue, incluse alcune lingue amerindiane. Dovrebbe esserci maggiore scambio fra le lingue
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dei popoli colonizzati, incluse naturalmente le traduzioni. Si tratta di idiomi che hanno storie simili e che dovrebbero sfruttare questo terreno comune per collaborare. Molte lingue stanno morendo e altre spariranno nei prossimi anni. Cosa pensi delle iniziative che cercano di rivitalizzarle? Nel 2018 la Los Angeles Review of Books mi ha definito un "guerriero della lingua". Questo perché credo fermamente che tutte le lingue, grandi e piccole, abbiano il diritto di vivere. Approvo pienamente tutto ciò che si fa per tenerle vive. Il monolinguismo è il veleno mortale delle culture, mentre il plurilinguismo è il loro ossigeno. Quindi più lingue ci sono, più è l'ossigeno che producono.
Dedicato a un eroe della resistenza anticolonialista Fra le opere di Ngũgĩ wa Thiong'o non ancora tradotte in italiano occupa un posto particolare The Trial of Dedan Kimathi, un testo teatrale dedicato all'eroe della resistenza gikuyu contro il colonialismo britannico. L'opera, scritta insieme a Micere Githae Mugo, è stata pubblicata nel 1976 e ristampata più volte (l'ultima nel 2013 dalla Waveland Press). Dedan Kimathi (1920-1957) è uno dei capi della Land Freedom Army, meglio nota come movimento Mau Mau, la maggiore organizzazione che si batte contro il colonialismo britannico. La sua linea radicale crea forti contrasti con Jomo Kenyatta, altro leader del movimento anticolonialista, che diverrà il primo presidente del Kenya indipendente. Catturato e impiccato nel 1957, Kimathi viene sepolto in una bara senza nome. Inviso al potere per i contrasti suddetti, resta negletto fino al 1990, quando Mandela incontra la sua famiglia e dichiara la propria ammirazione per lui. Nel 2003 il governo di Mwai Kibaki lo riabilita con una statua che viene installata nel centro di Nairobi. Alessandro Michelucci Opere pubblicate in italiano Se ne andranno le nuvole devastatrici (Weep Not, Child), Jaca Book, Milano 1975. Petali di sangue (Petals of Blood), Jaca Book, Milano 1979. Un chicco di grano (A Grain of Wheat), Jaca Book, Milano 1977, 1997, 2017. "Addio Africa" (racconto), nelle raccolte Tra un bicchiere e l'altro: racconti africani (a cura di Cristina Pugliese, Terra Nuova, Roma 1989) e Racconti dall'Africa (a cura di C. Pugliese, Mondadori, Milano 1993). Spostare il centro del mondo. La lotta per le libertà culturali (Moving the Centre: The Struggle for Cultural Freedom), Meltemi, Roma 2000, 2017. Sogni in tempo di guerra (Dreams in a Time of War: A Childhood Memoir), Jaca Book, Milano 2010. Decolonizzare la mente (Decolonising the Mind), Jaca Book, Milano 2015. Un matrimonio benedetto (Secret Lives), Quarup, Pescara 2015. Scrivere per la pace. Rendere l'Africa visibile al mondo (Secure the Base), La nave di Teseo, Milano 2017. Il mago dei corvi (Wizard of the Crow), La nave di Teseo, Milano 2019.
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Dichiarazione di Asmara sulle lingue e sulle letterature africane 17 gennaio 2000 Noi, scrittori e studiosi provenienti da ogni regione dell'Africa, ci siamo riuniti ad Asmara (Eritrea) dall'11 al 17 gennaio 2000 per la conferenza sul tema Against All Odds: African Languages and Literatures into the 21st Century. Questa è la prima conferenza sulle lingue e sulle letterature africane che si svolge nel nostro continente. Ai partecipanti, che provengono da ogni parte dell'Africa e dalla diaspora, si sono aggiunti scrittori e studiosi di tutto il mondo. Abbiamo esaminato la situazione delle lingue africane nella letteratura, negli studi accademici, nell'editoria, nell'istruzione e nelle istituzioni. Abbiamo sottolineato la vitalità e le potenzialità delle nostre lingue. Abbiamo constatato con orgoglio che le lingue africane, nonostante tutte le difficoltà che incontrano, rimangono uno strumento di comunicazione e di conoscenza e hanno una tradizione scritta millenaria. Il colonialismo e il neocolonialismo hanno avuto effetti devastanti sul nostro patrimonio culturale. Questi effetti continuano a limitare la creatività culturale del nostro continente. Siamo convinti che le lingue coloniali non possano parlare a nome del continente. Oggi, all'inizio di un nuovo secolo e di un nuovo millennio, l'Africa deve rifiutare senza mezzi termini questa assurdità e riaffermare il ruolo centrale della propria identità culturale. Quindi le questioni culturali, letterarie e linguistiche non possono essere disgiunte dai problemi dei paesi africani, che sono stati creati dalle potenze coloniali e neocoloniali. Una vera decolonizzazine culturale deve andare di pari passo con la decolonizzazione politica ed economica. Noi, scrittori e studiosi africani riuniti oggi ad Asmara, dichiariamo che: 1. Le lingue africane hanno il diritto e il dovere di assumere un ruolo centrale nella vita culturale africana. In altre parole, devono essere in grado di parlare per il continente. 2. La vitalità e la parità delle lingue africane devono essere la base dell'emancipazione dei popoli africani. 3. La varietà delle lingue africane riflette il ricco patrimonio culturale dell'Africa e deve essere utilizzata come strumento di unità. 4. Lo scambio e il dialogo fra le lingue africane hanno un ruolo essenziale: i nostri idiomi devono fare largo uso della traduzione per promuovere la comunicazione fra tutti, inclusi i disabili. 5. Tutti i bambini africani hanno il diritto inalienabile di frequentare la scuola e imparare nelle loro lingue materne. Le lingue africane devono essere utilizzate ad ogni livello. 6. Promuovere la ricerca sulle lingue africane è fondamentale per il loro sviluppo. Questa ricerca sarà realizzata nel modo migliore usando le lingue africane stesse. 7. Lo sviluppo scientifico e tecnologico del continente dipende dall'uso delle lingue autoctone e la moderna tecnologia deve essere utilizzata per svilupparle. 8. La democrazia è fondamentale per uno sviluppo equo delle lingue africane, così come queste sono vitali per lo sviluppo di una democrazia basata sull'uguaglianza e sulla giustizia sociale. 9. Le lingue africane, come tutte le lingue, contengono dei pregiudizi sessisti. Quindi devono essere capaci di eliminarli e di esprimere la parità di genere. 10. Le lingue africane sono fondamentali per una vera decolonizzazione mentale e politica. La nostra iniziativa deve proseguire con conferenze biennali organizzate in varie regioni africane. A tale scopo dobbiamo creare un ufficio permanente che inizialmente avrà sede ad Asmara. Questa dichiarazione, tradotta in tutte le lingue africane possibili, viene sottoscritta da tutti i partecipanti. Chiediamo a tutti gli stati africani, all'Organizzazione dell'Unità Africana, all'ONU e agli organismi internazionali che si occupano dell'Africa di sostenerla e di utilizzarla come base per nuove politiche linguistiche. Mentre constatiamo con orgoglio che certe lingue africane vengono ancora usate in varie regioni e nella diaspora, chiediamo a tutti gli africani del continente e della diaspora di aderire allo spirito di questa dichiarazione e di contribuire affinché i suoi obiettivi vengano raggiunti. Charles Cantalupo Kassahun Checole Mbulelo Mzamane Ngũgĩ wa Thiong'o Nawal El Saadawi
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Il figlio del sole Alessandro Michelucci
La maggior parte dei morti tace. Per i poeti non è così. I poeti continuano a parlare. Cees Nooteboom, Tumbas. Tombe di poeti e pensatori, 2015 (ed. orig. 2007) Se negli ultimi trent'anni i popoli indigeni sono usciti dalla marginalità, guadagnando piano piano una certa visibilità sia a livello politico che culturale, il merito va in larga parte ai loro esponenti che si sono impegnati per superare ostacoli di ogni genere. Non soltanto una spessa coltre di pregiudizi, ma anche il ruolo puramente folkloristico nel quale erano stati relegati. Basti pensare ai Sami con le renne natalizie, agli Inuit che venivano inseriti nella pubblicità dei frigoriferi, o più recentemente alla moda dei tatuaggi "tribali", del tutto slegata da un sincero interesse per le relative culture. La maggior parte di coloro che hanno lavorato per superare questi ostacoli è ignota all'uomo della strada, ma alcuni si differenziano dagli altri, perché la loro opera multiforme supera ampiamente i confini del mondo indigeno. Uno di questi è Nils-Aslak Valkeapää (1943-2001), sami finlandese, la figura più rilevante che questo popolo artico abbia espresso nel ventesimo secolo. Uomo di grande sensibilità e versatilità, è stato il protagonista di una singolare parabola letteraria, musicale e politica. Non è possibile separare questi tre aspetti, che sono continuamente intrecciati fra loro e si fecondano reciprocamente. Valkeapää è stato anche uno dei primi a impegnarsi affinché i popoli indigeni potessero stabilire saldi legami di collaborazione e concepire azioni politiche comuni. Il suo nome potrà suonare nuovo a molti, ma alcuni ricorderanno che le Olimpiadi invernali del 1994, svoltesi a Lillehammer (Norvegia), furono inaugurate da un artista sami vestito di bianco e rosso che cantava uno yoik (canto tradizionale sami): era lui. Poeta, scrittore, musicista Nils-Aslak Valkeapää (Áillohaš in lingua sami) nasce il 23 marzo 1943 a Enontekiö, un villaggio della Lapponia finlandese abitato quasi esclusivamente da sami. Il termine Lapponia viene spesso usato per indicare il territorio abitato da questo popolo, diviso in quattro stati (Finlandia, Norvegia, Russia e Svezia), ma in Finlandia è il nome ufficiale della regione più settentrionale e più grande, confinante con la Norvegia e con la Svezia. Il padre è un pastore di renne. Il giovane si dedica per alcuni anni a questo lavoro, quindi lascia la famiglia per diventare un maestro di scuola elementare. Ma i suoi veri interessi sono la musica e la poesia. È per questo che comincia a dedicarsi allo yoik, il canto tipico del suo popolo. Il debutto musicale di Nils avviene nel 1968 con Joikuja, un LP dove la sua voce è affiancata dalla chitarra di Martti Niskala e dagli effetti elettronici di Kari Rydman. Il disco segna un cambiamento profondo: prima lo yoik era musica vocale eseguita in un contesto privato, mentre Nils, pur restando fedele ai suoi canoni espressivi, propone una musica da suonare in pubblico con l'uso degli strumenti. Questo approccio innovativo viene duramente contestato dai puristi, ma fa presa sui giovani musicisti, che intravedono finalmente la possibilità di uscire dalla marginalità senza dover rinnegare la propria identità culturale. Al tempo stesso il giovane artista prende coscienza dei problemi politici che interessano i Sami dei tre paesi scandinavi. Ma non si lascia sedurre dalle ideologie di sinistra che all'epoca monopolizzano i moti di ribellione. La sua azione si concentra sulla cultura, anche se è evidente che la difesa dello yoik e della lingua autoctona ha un forte significato politico.
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Tutto questo appare chiaro già nel primo libro, Terveisiä Lapista (Saluti dalla Lapponia, 1971), un saggio sulla condizione dei Sami finlandesi. Orgogliosa e appassionata, l'opera mette in evidenza i loro problemi politici, linguistici e religiosi. Non manca una dura condanna dello sradicamento culturale operato dalle missioni cristiane nei secoli scorsi. Il libro presenta certe affinità con Custer Died for Your Sins: An Indian manifesto (tr. it. Custer è morto per i vostri peccati. Manifesto indiano), la fondamentale opera del filosofo lakota Vine Deloria jr. che è stata pubblicata nel 1969.
Gli indigeni del Nordeuropa I Sami, in Italia meglio noti come Lapponi, sono circa 75.000 e vivono divisi in 4 stati contigui dell'estremo nord europeo (Norvegia, Svezia, Finlandia e Russia) . Parlano una lingua del ceppo ugro-finnico e abitano in prevalenza la tundra artica, dove vivono una vita quasi simbiotica con la renna. Oggi soltanto il 10% si dedica all'allevamento di questo animale, che resta comunque d'importanza centrale nella cultura e nell'economia. Sembra che gli antenati dei Sami siano originari della regione dei laghi Ladoga e Onega (Russia nordoccidentale), dove sarebbero stati insediati già attorno al 500 a.C. L'invasione di popoli provenienti dalle regioni uraliche li costringe ad emigrare ad ovest, nella regione scandinava. Fino al secolo undicesimo i Sami vivono tranquillamente di caccia, pesca e raccolta, dopodichè le invasioni vichinghe li spingono all'estremo nord. Il loro nomadismo viene nuovamente minacciato quando inizia la colonizzazione scandinava, che ha il suo motore nella cristianizzazione del tardo Medio Evo. Tutto questo porta con sè strade, ferrovie e nuovi villaggi che mutano profondamente l'economia lappone. Comincia una dura repressione della lingua, non di rado in nome del cristianesimo: molti uomini di chiesa affermano che "il lappone è la lingua del diavolo". Mossi da un fanatismo intollerante, i preti reprimono lo sciamanesimo, che assimilano alla magia nera: gli oggetti sacri vengono bruciati o portati nei musei europei. D'altro canto, però, si deve proprio ai missionari la codificazione di una lingua finora tramandata oralmente. All'inizio del Novecento nascono le prime organizzazioni lapponi, soprattutto in Svezia, che si concentrano sui problemi legati all'allevamento delle renne. In Norvegia, dove vive la comunità più numerosa, una legge del 1969 garantisce l'insegnamento della lingua nei primi sei anni scolastici, e una successiva revisione darà diritto di scegliere il sami come lingua d'istruzione. Nel 1973 la nascita dell'Istituto Lappone Nordico costituisce un momento decisivo per la minoranza nordeuropea. L'istituto ha sede a Kautokeino (Norvegia) ed è promosso dal Consiglio Nordico, l'organismo di cooperazione fra gli stati scandinavi. Il suo obiettivo è quello di costituire un punto di riferimento culturale e giuridico per tutti i sami. Nello stesso periodo emergono anche gravi problemi ambientali, come la diga idroelettrica che viene costruita sul fiume Alta (Norvegia). Il progetto rischia di allagare vaste zone abitate dai Sami, che organizzano azioni di protesta col sostegno dei movimenti ecologisti. Il braccio di ferro col governo è lungo, ma si dimostra fallimentare. Altri problemi ambientali incombono, come l'inquinamento dei fiumi dovuto allo sfruttamento del petrolio in alto mare. Problemi che diventano secondari quando gli effetti della tragedia di Chernobyl (26 aprile 1986) si abbattono sulle terre lapponi. Le conseguenze sono disastrose: la radioattività impone l'abbattimento di 100.000 renne e molte altre muoiono per l'avvelenamento dei licheni, che rappresentano il loro nutrimento essenziale. Ma il grave danno ambientale ed economico non ferma il cammino dei Sami verso l'affermazione dei propri diritti. Nel 1989 viene istituito in Norvegia il Parlamento Sami, un'assemblea con funzione consultiva riconosciuta dal governo. In Finlandia un'istituzione analoga era già attiva dal 1972, mentre in Svezia nascerà solo qualche anno dopo. Il 1990 porta la paura di una nuova Chernobyl. Il governo sovietico decide infatti di spostare i propri siti nucleari da Semipalatinsk (Kazakhstan) all'isola di Novaja Zemlja, che sorge nei pressi delle terre abitate dai Sami. Questa paura è condivisa da altri popoli artici, coi quali viene intensificata la collaborazione. Europei e indigeni, i Sami svolgono anche un'importante funzione di raccordo fra le minoranze del Vecchio Continente e i popoli autoctoni extraeuropei. Giovanna Marconi Entrambe esprimono l'orgoglio di un popolo indigeno discriminato e il fermo rigetto degli stereotipi che sono stati diffusi dalla cultura dominante. Terveisiä Lapista accusa apertamente il colonialismo finlandese, diverso da quello ormai residuale delle grandi potenze europee, ma non per questo meno pericoloso. La critica del colonialismo, che ritornerà nelle opere successive, è affine a quella degli Indiani nordamericani e degli altri popoli indigeni, per i quali la decolonizzazione degli anni Sessanta e Settanta rimarrà sempre una realtà estranea.
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Nel 1975 Valkeapää rappresenta i sami finlandesi all'incontro di Port Alberni (Canada) che segna la nascita del World Council of Indigenous Peoples (WCIP), fondato da George Manuel, indiano shuswap. Quindi Valkeapää diventa il coordinatore culturale del nuovo organismo. Il WCIP segna una novità molto importante: per la prima volta Sami, Inuit e Indiani delle Americhe cercano di definire una politica comune. Ma nel 1996, purtroppo, vari contrasti interni faranno naufragare l'iniziativa. Due anni dopo Nils partecipa come osservatore alla conferenza di Barrow (Alaska) che segna la fondazione dell'Inuit Circumpolar Council (ICC), l'organismo internazionale creato per promuovere i diritti degli Eschimesi. Nella cittadina svedese di Karesuando organizza Davvi Šuvva, un festival indigeno internazionale (22-27 giugno 1979). L'intensa attività politica di questi anni internazionale gli permette di capire che i Sami, pur essendo pochi e geograficamente remoti, non sono soli. Nils sente una particolare affinità con gli Indiani del Nordamerica, anche a livello musicale, ma dai suoi scritti emerge uno spirito di fratellanza che comprende tutti i popoli aborigeni. Nel frattempo prosegue anche l'attività musicale. Fra il 1973 e il 1982 realizza numerosi LP accompagnato da vari musicisti. Gli ultimi tre vengono pubblicati dall'etichetta Indigenous Records, che lui stesso ha fondato, ma che si dimostra effimera. L'artista conosce Ánde Somby, un sami norvegese, anche lui dedito al canto tradizionale. I due sviluppano una salda amicizia e suonano insieme in vari concerti. Nel 1985, insieme ad altri, fondano l'etichetta discografica DAT. Lo scopo è quello di promuovere la musica della minoranza artica in tutte le sue espressioni, da quelle tradizionali a quelle più moderne. Con Ruoktu váimmus (Le vie del vento), che esce nello stesso anno, prosegue anche l'attività poetica. Questo è il suo primo libro di successo. L'opera riunisce tre opere pubblicate in precedenza che lo scrittore correda di nuove illustrazioni. Arriva finalista al Premio letterario del Consiglio Nordico, l'organismo di cooperazione fra i paesi scandinavi. Il film Veiviseren (ed. it. L'arciere di ghiaccio, 1987), per il quale Nils ha composto una parte della colonna sonora, riceve una nomination al Festival di Cannes. Il lungometraggio, il primo girato in lingua sami, viene poi premiato al Norwegian International Film Festival (1988) e al London Film Festival (1989). Nel film il musicista compare anche come interprete. Alcuni anni prima il regista Nils Gaup è stato fra i fondatori del Beaivváš Sámi Našunálateáhter, il solo teatro norvegese che utilizza unicamente la lingua sami. Nel 1991, invece, Nils riceve il Premio letterario del Consiglio Nordico per un'altra opera poetica, Beaivi, Áhcazán (Il sole, mio padre, 1988). In una poesia spiega perché ha rifiutato di diventare un allevatore di renne: "Dovevo uccidere/avevo questo compito/il tempo si fermava/sentivo il cuore che batteva forte/il sangue scorreva veloce nella mia testa/vedevo gli occhi della piccola renna/vedevo che piangeva/o forse piangevo io" (Poem n. 52). Le poesie vengono poi trasposte in musica nel disco omonimo. La voce del titolare è affiancata dalle tastiere e dagli effetti elettronici di Esa Kotilainen, che negli anni Settanta ha suonato con Wigwam e Tasavallan Presidentti, due dei principali gruppi rock finlandesi dell'epoca. Le creazioni musicali ottengono un riconoscimento ancora più importante: nel 1993 la composizione Goase Dusse (The Bird Symphony) vince il Prix Italia, istituito dalla RAI per le produzioni di qualità. Come in tutti i lavori dell'artista, i suoni della natura svolgono un ruolo centrale. La parte iniziale viene poi riarrangiata e inserita nel disco di Mike Oldfield Songs of Distant Earth (1994). Durante lo stesso periodo Nils riceve la laurea honoris causa in filosofia dall'Università di Oulu (Finlandia) e partecipa all'apertura delle Olimpiadi invernali che si svolgono a Lillehammer. Nel frattempo la versatilità dell'artista si esprime anche attraverso i disegni, le fotografie e le installazioni che vengono esposte nelle gallerie di molti paesi, dalla Norvegia alla Cina. Coinvolto in un grave incidente automobilistico nel 1996, il musicista trascorre qualche tempo fra la vita e la morte. Dopo essersi ristabilito si trasferisce definitivamente in Norvegia. L'ultima raccolta di poesie, Eanni, Eannážan (tr. ingl. The Earth, My Mother), viene pubblicata nel 2001. Il libro sottolinea l’importanza delle tradizioni indigene di tutto il mondo, confermando che l'autore ha sempre avuto una visione globale del tema, unita a un profondo spirito di fratellanza che trascende le differenze culturali e geografiche. Il 26 novembre dello stesso anno Nils-Aslak Valkeapää muore nel sonno a Espoo, una città a pochi kilometri da Helsinki. Una morte discreta come lui, che è riuscito ad affermarsi in tutte le di-
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scipline artistiche che ha praticato pur appartenendo a un popolo svantaggiato dalla scarsa consistenza numerica, dalla posizione geografica e da un'attenzione mediatica praticamente nulla al di fuori dei confini locali. Un'eredità preziosa L'artista lappone ha il merito di aver infranto i pregiudizi che gravavano sul suo popolo. È il primo sami che ha ottenuto importanti riconoscimenti per le sue musiche e per le sue poesie. Al tempo stesso, l'ha fatto riaffermando il ruolo irrinunciabile della propria lingua. I suoi libri sono stati tradotti in molte lingue: non soltanto quelle nordiche, ma anche francese, giapponese, spagnolo e tedesco. Purtroppo non in italiano, se si escludono alcune poesie sparse in varie antologie. Ma al di là dei successi personali, la sua parabola artistica ha avuto effetti di rilievo mondiale. Se oggi una cantante come Mari Boine gode di larga fama, se film come Atanarjuat, Tanna e Ten Canoes sono stati premiati con i massimi riconoscimenti, se l'ultima edizione della Fiera di Francoforte ha dato ampio spazio alla letteratura sami, lo dobbiamo anche a questo artista multimediale che ha restituito al popolo sami quella dignità che un razzismo non dichiarato gli aveva negato a lungo.
Bibliografia Aamold S., Haugdal E., Jorgensen U. A. (a cura di), Sami Art and Aesthetics: Contemporary Perspectives, Aarhus Universitetsforlag, Aarhus 2017. Dana K. O., "Literatura borealis: Circumpolar themes in the work of Nils-Aslak Valkeapää", The Northern Review, 25-26, September 2005, pp. 125-134. Gaski H. (a cura di), In the Shadow of the Midnight Sun: Contemporary Sami Prose and Poetry, Davvi Girji, Karasjok 1997. Gaski H., "Nils-Aslak Valkeapää: Indigenous voice and multimedia artist", AlterNative, IV, 2, 2008, pp. 156– 178.
La letteratura sami alla Fiera di Francoforte Alla 71esima Fiera del libro di Francoforte (16-20 ottobre 2019), dove il paese ospite era la Norvegia, è stato dedicato ampio spazio anche alla letteratura sami. Ci sono stati alcuni incontri con autori lapponi (nella foto, la poetessa Synnøve Persen) e la presentazione di due antologie. Questa novità importante si inserisce nella politica editoriale dei paesi nordici, che si stanno impegnando per promuovere la traduzione dei propri autori. Il successo mondiale del giallo scandinavo e l'opera meritoria di editori come Iperborea, L'Élan e Norvik Press hanno creato un terreno fecondo che legittima un certo ottimismo. È auspicabile che anche la letteratura sami, ancora sostanzialmente ignota in molti paesi europei, benefici di questa strategia editoriale.
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L'aborigeno che vedeva col cuore Emily Nicol
Geoffrey Gurrumul Yunupingu nasce nel 1971 nella comunità di Galiwin’ku, situata su Elcho Island, nell'estremo nord dell'Australia. È il primo dei quattro figli di Daisy, una donna galpu, e di Nyambi (Terry) Yunupingu, un gumatj della nazione yolngu. Quando ha circa un anno viene diagnosticata la sua cecità. Il padre reagisce dicendo che "vedrà col cuore". In un certo senso, quindi, la sua menomazione non verrà mai considerata come tale: il bambino non studierà mai l'alfabeto braille e non userà mai il bastone bianco. Gli Yolngu sono legati fra loro dal gurruṯu, un complesso sistema parentale che regola gli aspetti fondamentali della vita, come le norme sociali, le responsabilità familiari che vengono passate da una generazione all'altra, il matrimonio e le altre cerimonie. Nella cultura di questo popolo il canto, la danza e le celebrazioni, come anche il mondo naturale e quello spirituale, rivestono un ruolo fondamentale. È proprio grazie a questo bagaglio culturale che Gurrumul scopre la musica e sviluppa una grande passione per il canto. La mamma e le zie lo incoraggiano a coltivarla sistemando delle lattine sulla spiaggia, in modo che lui le possa battere con dei bastoni. All'età di quattro anni comincia a suonare un piano giocattolo. Un altro luogo che gli permette di coltivare la sua passione per la musica è la chiesa, dove trascorre molto tempo a imparare la chitarra che gli è stata regalata a sei anni. Lo strumento lo assorbe così tanto che spesso dimentica perfino di mangiare. Essendo mancino impara a suonare la chitarra per ambidestri alla rovescia, secondo un sistema che utilizzerà per tutta la vita. Da ragazzo entra nei celebri Yothu Yindi, dove suonano anche alcuni parenti, fra i quali lo zio Mandawuy Yunupingu. Negli anni Novanta il gruppo guadagna fama mondiale con Treaty. Nel 1999 fonda il proprio gruppo, The Saltwater Band, anche questo insieme ad alcuni parenti. Divide con Manual Dhuurrkay il ruolo di cantante e chitarrista principale. Con questo gruppo comincia a riarrangiare i canti tradizionali del suo popolo nella forma della classica ballad, uno stile che caratterizzerà la sua carriera fino alla fine. Il gruppo pubblica numerosi dischi di successo grazie alla Skinnyfish Records, un'etichetta indipendente fondata dal musicista Michael Hohnen insieme a Mark Grose. Hohnen aiuta il gruppo a sviluppare la sua personalità musicale. A un certo punto, però, intravede il valore personale dell'artista aborigeno e lo convince a tentare la carriera solista. Questo segna l'inizio di una collaborazione che diventerà quasi un legame fraterno, tanto è vero che i due si chiameranno reciprocamente wäwa ("fratello" in lingua gumatj). Hohnen aiuta il musicista a definire il proprio stile, e nel 2008 i due realizzano il primo lavoro, Gurrumul, fatto di composizioni originali, dove Hohnen suona il basso. Il disco d'esordio ottiene un successo insperato che supera i confini australiani e vende oltre mezzo milione di copie. Così, mentre crescono i concerti e l'attenzione dei media, Hohnen diventa il portavoce del timido cantante, assistendolo spesso durante le interviste e parlando per lui, che si limita ad annuire con un sorriso. È un tipo molto riservato, quasi spaventato dalla folla, indifferente nei confronti del clamore pubblicitario. La purezza della sua voce è in grado di rapire l'ascoltatore e di rivelargli una parte di sé che non conosceva. Spesso chi lo ascolta per la prima volta si commuove fino alle lacrime, mentre ai suoi concerti molta gente ascolta incantata con gli occhi chiusi. In un mondo rumoroso e saturato dai media queste sensazioni sono un dono bellissimo. Il primo disco viene recensito entusiasticamente e attira l'attenzione di molti musicisti famosi.
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Sting afferma che il cantante ha "la voce di un essere superiore"; il critico musicale Bruce Elder scrive che "ha la voce più bella che sia mai stata registrata in Australia"; Rolling Stone lo definisce "la massima voce australiana". Il suo stile sembra un ponte che unisce due mondi, quello bianco e quello aborigeno. "La sua voce gentile ma potente racchiudeva l'essenza della cultura yolngu" dirà Hohnen a un giornalista in occasione della sua morte. Canta prevalentemente nelle lingue aborigene della sua terra, ma la sua voce trascende le parole e affascina tutti. Il disco ottiene alcuni riconoscimenti prestigiosi: è la prima volta che un musicista aborigeno ottiene un successo di queste dimensioni. Il lavoro successivo, Rrakala (2011), conferma ampiamente le impressioni positive suscitate dal primo CD. Con questo nuovo disco il cantante si impone a livello mondiale. The Gospel Album (2015), un omaggio alla musica religiosa afroamericana, è l'ultimo CD che esce prima della sua morte. Ancora una volta il parere favorevole della critica e il consenso del pubblico sono unanimi. Nella sua carriera breve ma intensa il cantante si esibisce per il presidente americano Barack Obama e per la regina Elisabetta. Divide il palco con musicisti come Sting, Paul Kelly e Jessica Mauboy, ma rimane sempre se stesso. Nel documentario Gurrumul, che ripercorre la sua carriera, si esibisce insieme a Sting in uno spettacolo televisivo francese. Il giorno della ripresa Yunupingu appare incerto, spaesato, e ignora perfino chi sia Sting. Quando devono iniziare le riprese, un'ora prima della trasmissione, i tecnici reagiscono con un certo fastidio quando capiscono che il cantante non sa bene cosa deve fare. Ma quando cominciano a cantare Every Breath You Take, il celebre brano dei Police, il musicista aborigeno realizza chi è Sting e si inserisce agevolmente nel pezzo, arrivando fino alla fine senza sforzo. Finita la ripresa, il cantante inglese lo raggiunge nel camerino per congratularsi con lui, che risponde con un semplice sorriso. Questa capacità di esibirsi senza provare è un dono meraviglioso. In certi casi genera tensione, ma al tempo stesso è una forza che gli altri apprezzano molto perché facilita il loro lavoro. Il documentario realizzato da Paul Damien Williams racconta anche episodi della vita privata del cantante. "La gente deve conoscere la sua profondità culturale e spirituale in modo dettagliato" dice il regista parlando all'ABC (la televisione statale australiana, ndt). "Voglio che la gente provi il timore reverenziale che ho provato io quando ho capito la profondità della sua cultura. In pratica il documentario parla di due mondi diversi che si uniscono per creare qualcosa di unico". Il film possiede un'impudenza accattivante, un tono leggero e un umorismo autoironico. Permette allo spettatore di conoscere materiale raro sulla sua vita familiare e comunitaria. Emerge chiaramente l'amore e la stima che lo circondano. Questo affetto si esprime attraverso la vicinanza e il contatto fisico. Il forte legame con la sua gente viene confermato dalla nostalgia che l'artista prova quando è in giro per i concerti. Questa sensazione lo accompagna per tutta la vita. Perciò telefona spesso alla famiglia quando il lavoro lo tiene lontano da casa. Tanto è vero che Hohnen gli fa trovare sempre un telefono con accesso illimitato in modo che possa contattare i suoi cari in qualsiasi momento. His Life and Music (2013), registrato dal vivo alla Sydney Opera House, propone 15 brani tratti dai dischi precedenti. Il musicista racconta le storie del suo popolo e le fonde felicemente con le sonorità classiche occidentali insieme al compositore Erkki Veltheim, alla Australian Chamber Orchestra e alla Sydney Symphony Orchestra. Il risultato è un disco bellissimo, un vero e proprio classico che permetterà alle prossime generazioni di apprezzare il valore di questo artista timido e geniale. Come dice Susan Dhangal Gurruwiwi, la zia che svolge il ruolo di narratrice nel documentario, il cantante è un djarramirri (figlio dell'arcobaleno) capace di illuminare lo spazio che separa una cultura antica dal mondo moderno. "La gente vuole conoscerlo meglio, perché ha capito che grazie a lui può comprendere la nostra cultura. Basterà che chiuda gli occhi e apra il cuore". Djarimirri/Child of the Rainbow (2018), registrato poche settimane prima della morte, riafferma lo stretto legame con la cultura aborigena. L'arcobaleno evocato nel titolo allude al Serpente Arcobaleno, l'entità creatrice del mondo comune a tutti i popoli indigeni dell'isola più grande del mondo.
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Sopra: concerto di Geoffrey Gurrumul alla Sydney Opera House (28 maggio 2013). Sotto: la stampa musicale dedica ormai ampio spazio ai musicisti indigeni di tutto il mondo (da sinistra: Tinariwen, Tanya Tagaq, Buffy Sainte-Marie e Songhoy). Bibliografia Corn A., Reflections and Voices: Exploring the Music of Yothu Yindi with Mandawuy Yunupingu, Sidney University Press, Sydney (NSW) 2009. Hillman R., Gurrumul: His Life and Music, ABC Books, Sydney (NSW) 2013. Magowan F., Landscapes of Indigenous Performance: Music, Song, and Dance of the Torres Strait and Arnhem Land, Aboriginal Studies Press, Canberra (ACT) 2005. Discografia Gurrumul (Skinnyfish, 2008). Rrakala (Skinnyfish, 2011). His Life and Music (ABC, 2013.) The Gospel Album (Skinnyfish, 2015). Djarimirri/Child of the Rainbow (Skinnyfish, 2018). Filmografia Gurrumul, regia di Paul Damien Williams, Australia, 2017.
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David Gulpilil, un attore oltre gli stereotipi Il cinema australiano aveva dipinto i popoli aborigeni con cliché convenzionali e razzisti, in seguito ai quali si erano consolidati degli stereotipi. A cancellarli sostituendoli con immagini che riflettessero la complessità culturale dei popoli autoctoni ha provveduto David Gulpilil, il più celebre attore aborigeno. La sua fama è arrivata fino a noi, dato che molti dei film in cui appare sono stati tradotti in italiano: L'inizio del cammino (1971, nella foto a destra), che segna il suo esordio; L'ultima onda (1977); Mr. Crocodile Dundee (1986); The Tracker – La guida (2002); La generazione rubata (2002); Australia (2008), etc. In Ten Canoes (2006), diretto da Rolf de Heer, recita il figlio Jamie Gulpilil, mentre David compare come voce narrante. Primo film in una lingua aborigena (yolngu), il lungometraggio è stato premiato al Festival di Cannes. Negli ultimi tempi un tumore polmonare ha costretto Gulpilil ad abbandonare le scene. La malattia è ormai a uno stadio avanzato e la morte sembra vicina. Alla fine di settembre è uscito Gulpilil (Pan Macmillan Australia, 2019), la prima biografia dell'attore, firmata dal giornalista Derek Rielly. Come ha fatto Geoffrey Gurrumul nella musica, David Gulpilil è stato il primo aborigeno che ha lasciato un'impronta profonda nel cinema australiano, guadagnando una fama e un rispetto di respiro internazionale. Giovanna Marconi
MUSIC, INDIGENEITY, DIGITAL MEDIA
a cura di Thomas R. Hilder, Henry Stobart e Shzr Ee Tan
Le tecnologie digitali si sono rivelate uno strumento molto prezioso per i popoli indigeni. Il loro uso ha stimolato una rinascita culturale che spazia dalle Ande all’Australia, dal Nordafrica alla Scandinavia. In questo volume, che raccoglie gli atti di un convegno tenutosi a Londra nel 2010, un gruppo di esperti prestigiosi racconta la storia di questo importante fenomeno culturale e identitario.
Adivaani, la voce dell'altra India Ruby Hembrom
University of Rochester Press, 2017, pp. 224
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Nuove voci indigene dalla Micronesia Intervista a Emehliter Kihleng ed Evelyn Flores
Indigenous Literatures from Micronesia (University of Hawai'i Press, 2019) è il titolo di un'antologia curata da Emehliter Kihleng ed Evelyn Flores. Si tratta di una novità molto importante, perché è la prima opera interamente dedicata alla produzione letteraria di questa regione oceanica. Abbiamo intervistato le due curatrici per capire meglio lo spirito e il contenuto di questo volume. Perché avete deciso di realizzare questa antologia? (Flores) Quando eravamo alla University of Guam io ed Emehliter abbiamo scoperto di condividere una riflessione: la letteratura micronesiana veniva sostanzialmente ignorata, perfino nei corsi dedicati alla letteratura delle isole oceaniche. Emelihter l'aveva visto nelle lezioni che aveva seguito, io nella mia ricerca e nel tentativo di inserire questa letteratura nei corsi che tenevo. Il bagaglio di poesie e di leggende oceaniche era sconfinato, ma trovare testi letterari della nostra regione era quasi impossibile. Sapevo che ce n'erano tanti, ma identificarli era molto problematico, perché nessuno si era mai preso la briga di raccoglierli. Certi libri di poesie o di racconti venivano pubblicati, ma una volta esauriti mancavano i mezzi economici per ristamparli. Altri venivano pubblicati qua e là ma restavano opere isolate, senza che fossero raccolte per formare un panorama della nostra letteratura. Così abbiamo deciso di farlo noi. Con che criterio avete scelto i testi? (Flores) Anzitutto abbiamo diffuso un appello per raccoglierli. Il materiale che abbiamo ricevuto è stato sottoposto a una revisione anomima. Al tempo stesso abbiamo usato i nostri contatti per individuare gli scrittori e il materiale da includere nel libro. Quando ci siamo accorte che alcune isole non erano rappresentate abbiamo fatto altre ricerche su Internet e al Micronesia Area Research Center (MARC) della University of Guam per trovare opere e scrittori di queste zone. Infine abbiamo lavorato con la casa editrice e con Craig Santos Perez (poeta e docente di scrittura creativa, ndt), che ci ha aiutato a completare la raccolta. È stata un'esperienza entusiasmante! I testi che avete scelto sono scritti nelle lingue autoctone, in inglese, oppure alcuni in inglese e altri nelle lingue indigene? (Kihleng) In tutti e tre i modi. Alcuni erano stati scritti nelle lingue locali, mentre altri erano stati scritti in inglese e poi tradotti nelle lingue autoctone. Altre poesie, come le mie, sono bilingui. Gli scrittori che abbiamo scelto vengono da ambienti culturali diversi: alcuni sono cresciuti parlando le lingue locali e altri no. Questo deriva dalle diverse eredità coloniali presenti in Micronesia. Ci sono autori che avete escluso ma che potrebbero essere inclusi in una seconda antologia? (Kihleng) Certamente. Ci sono autori che non hanno trovato spazio qui, ma probabilmente li metteremo in una seconda antologia, se la faremo. Evelyn e io abbiamo diffuso la prima richiesta di testi dieci anni fa, nel 2009. Questa ha avuto un successo insperato: alcuni autori hanno cominciato a scrivere, altri ci hanno proposto dei testi che avevano già scritto. Purtroppo non siamo riusciti a includerli tutti, e alcune persone alle quali avevamo chiesto di scrivere non l'hanno fatto. Poi ce ne saranno altri che non abbiamo ancora scoperto. Le antologie regionali come la nostra sono lavori ambiziosi. Chi le realizza aspira alla completezza, e noi abbiamo fatto di tutto per rappresentare la Micronesia nel modo migliore, ma la perfezione non è di questo mondo. Come ho scritto nella prefazione, questo è soltanto l'inizio. Noi speriamo che il libro stimoli la creatività degli scrittori micronesiani e la voglia di far conoscere le proprie storie.
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(Flores) Come ha detto Emelihter, la nostra iniziativa ha stimolato molti scrittori a farsi conoscere attraverso Internet, Facebook e gli altri canali telematici. In questo modo è emerso un panorama molto ricco e vario. Quali sono i principali temi trattati dai testi che avete scelto? (Kihleng) Gran parte dei testi si concentra sugli effetti del colonialismo e sulla resistenza a questi effetti, sui valori culturali e identitari, sugli affetti familiari. Abbiamo diviso il libro in capitoli tematici dedicati ai vari temi. Fra i testi scelti ce ne sono anche alcuni ispirati dalla tragica eredità degli esperimenti atomici? (Flores) Certo, ci sono due poesie: "History Project" di Kathy Jetnil-Kijiner e "More than just a Blue Passport" di Selina Leem. Entrambe colgono l'essenza profonda di quell'esperienza atroce. Infine, voglio sottolineare una cosa molto importante. Quello che è accaduto nelle isole Marshall dopo la fine della Seconda guerra mondiale ha avuto un impatto tremendo. Il ricordo di quegli anni è ancora vivo in tutti, inclusi coloro che non li hanno vissuti. Ma anche quello che è venuto dopo: la militarizzazione, il disprezzo, il profondo disinteresse per la nostra gente e per il nostro ambiente.
Dal colonialismo nucleare alla minaccia climatica La Seconda guerra mondiale era finita da 10 mesi (luglio 1946) quando iniziò ìl calvario dei popoli indigeni oceanici. La loro vita fu travolta dagli esperimenti nucleari americani (Micronesia, 1946-1958), britannici (Australia, 1952-1957) e francesi (Polinesia, 1966-1996), che avrebbero cambiato la loro vita per sempre. Fra il 1946 e il 1996 sono state esplose circa 300 bombe che hanno determinato conseguenze gravissime: aborti spontanei, disfunzioni, malformazioni, tumori. In molti casi si tratta di malattie ereditarie tuttora presenti. Nello stesso periodo ha avuto luogo la decolonizzazione del continente: se si escludono Australia e Nuova Zelanda, legate alla logica coloniale britannica, l'indipendenza è arrivata fra il 1962 (Samoa) e il 1994 (Niue). Ma in molti casi si tratta di un'indipendenza formale, regolata da "patti di libera associazione" che perpetuano il colonialismo sotto altre forme. In tempi più recenti le conseguenze sociali, sanitarie e ambientali degli esperimenti sono state affiancate da un problema di grande attualità: gli effetti del riscaldamento globale. In un continente composto unicamente da isole la minaccia climatica è particolarmente grave, alterando fra l'altro le qualità nutritive dei pesci e producendo l'innalzamento dei mari che ha già sommerso alcuni atolli. Così, mentre in Europa i mutamenti climatici non hanno (ancora) mutato la vita quotidiana, i popoli oceanici sono minacciati nella loro stessa sopravvivenza. Per loro l'impegno ambientalista non si risolve nella raccolta differenziata o nei vuoti proclami politici sulla green economy, ma è una necessità vitale. Fra coloro che conducono questa lotta quotidiana spicca la giovane poetessa marshallese Kathy Jetnil-Kijiner, che partecipa attivamente ai consessi internazionali dedicati al problema del riscaldamento globale. Alessandro Michelucci
Da sinistra: Lijon Eknilang, sopravvissuta all'esperimento di Bikini (1954), una delle principali attiviste antinucleari micronesiane; un libro con le testimonianze di alcune attiviste indigene del Pacifico; Kathy Jetnil-Kijiner con Leonardo DiCaprio.
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Adivaani, la voce dell'altra India Ruby Hembrom
Le numerose iniziative mediatiche (reti televisive e radiofoniche) ed editoriali (riviste e case editrici) fondate dai popoli indigeni non sono realtà marginali di tipo folklorico, ma la chiave moderna attraverso la quale trovano espressione le rivendicazioni culturali di molti popoli non riconosciuti. Per quanto riguarda in particolare le case editrici, pensiamo a quelle fondate da aborigeni australiani (Magabala, 1984), sami (DAT, 1985), maori (Huia, 1991), indiani nordamericani (Kegedonce Press, 1993) e inuit (Inhabit Media, 2006), tanto per fare qualche esempio. In questo panorama variegato si inserisce a pieno titolo Adivaani, la casa editrice nata nel 2012 a Kolkata (Calcutta) per promuovere le lingue e le culture degli Adivasi (termine che indica collettivamente i popoli indigeni dell'India). Ruby Hembrom, fondatrice e direttrice, racconta come è nata questa interessante iniziativa editoriale. Nell'aprile del 2012 ho iniziato a seguire un corso di editoria. Non avevo intenzione di farne il mio lavoro, ma volevo soltanto utilizzare quei quattro mesi per ampliare le mie competenze. Era un modo per reagire a una discriminazione che non potevo più tollerare. Il primo mese prevedeva vari incontri con editori, autori, illustratori e tipografi. Alcuni editori pubblicavano libri sulle donne e sui Dalit (Intoccabili, ndt), talvolta scritti da loro stessi. Un'esperienza molto stimolante. Quando lessi la lista delle persone che dovevamo incontrare mi accorsi che non c'erano adivasi. Ne fui contrariata: perché questa assenza? Perché erano stati volutamente esclusi o perché non esistevano scrittori o editori indigeni? È vero che le nostre lingue hanno una tradizione scritta piuttosto recente, ma anche noi abbiamo la nostra letteratura e la nostra saggistica, anche se evidentemente non veniva considerata degna di essere inserita nel corso. Io volevo che anche la voce degli Adivasi avesse il proprio spazio. Ma chi poteva colmare questa lacuna? Lo farò io, pensai, anche se non sapevo da dove cominciare. Così è nata Adivaani. La casa editrice che ho fondato insieme a Luis Gomez, Boski Jain e Joy Tudu non ha fini di lucro. I nostri obiettivi sono ambiziosi. Vogliamo raccogliere una vasta documentazione sulle culture indigene dell'India e renderle note, sia con libri in inglese che bilingui. Promuovere gli artisti e i loro prodotti. Creare un centro per insegnare l'inglese, far rivivere le tecniche tradizionali e diffondere l'uso delle tecnologie moderne. Lavorare in stretto contatto con i popoli indigeni di tutto il mondo e scambiare con loro tutto quello che può servire alla comune battaglia culturale. Nel 2016, per esempio, ho conosciuto Anna Moulton, direttrice della casa editrice aborigena Magabala Books, attiva ormai da circa 30 anni. Siamo rimaste in contatto e un paio di anni fa abbiamo concluso un accordo per realizzare un libro insieme. La reazione della società indiana La grande stampa ha accolto la casa editrice con un interesse imprevisto, definendola una "boccata d'aria fresca" e sottolineando "la novità di un'indigena anglofona che dirige una casa editrice": sono parole discutibili, ma sono servite a farci conoscere. Molte persone mi hanno scritto per congratularsi e hanno diffuso i loro messaggi sulle reti sociali. Sono stata letteralmente sommersa da studiosi e scrittori non indigeni che avevano fatto "studi trentennali" o avevano "vissuto tutta la vita con le comunità tribali". Ma ho specificato che la nostra iniziativa era nata per pubblicare soltanto autori indigeni. In ogni caso questo mi è servito per constatare che noi indigeni scriviamo pochissimo sui temi che ci riguardano. L'attenzione della stampa ha influenzato i festival letterari e i dibattiti. Hanno parlato spesso di noi, anche se soltanto negli spazi riservati all'editoria di nicchia. Molti adivasi sono contenti che esista una casa editrice come la nostra, ma altri fanno di tutto per screditarci. Tutto sommato è normale. Nel complesso, comunque, le reazioni sono state positive.
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La situazione dei popoli tribali A questo punto credo che sia necessario dare un panorama sommario degli Adivasi e della loro condizione. Secondo il censimento del 2011 si tratta di 104 milioni di persone (8,5% della popolazione). Questi popoli sono estremamente vari in termini geografici, linguistici e culturali. Dato che non si può parlare di una realtà unitaria, è molto difficile che una sola persona possa parlare a nome di tutti. Come la maggior parte dei popoli indigeni, gli Adivasi occupano i livelli più bassi di una società basata sulla discriminazione. Circa il 95% vive sotto la soglia di povertà e abita in zone rurali. Qui manca tutto: sanità, istruzione, alimentazione. Secondo le statistiche l'analfabetismo tocca il 41% e buona parte di questa percentuale non andrà mai a scuola. Nonostante esistano norme che garantiscono una discriminazione positiva, quelli che ne beneficiano sono pochissimi. La legge non garantisce l'accesso all'istruzione superiore né posti nel pubblico impiego, a meno che non ci siano certi requisiti. Questo esclude la percentuale consistente che non può avere un'istruzione di base. Gli standard educativi delle aree rurali e quelli delle aree urbane sono così disparitari che non possiamo superare gli esami di ammissione, anche se la legge prevede che un certo numero sia riservato a noi. Tutto questo ci penalizza molto. Che speranze può avere una persona che parte da zero?
L'affermazione dell'editoria inuit Negli anni Settanta del secolo scorso i 60.000 Inuit del Canada cominciano a promuovere la lingua autoctona con varie iniziative. La posizione geografica remota, la dispersione su vasti spazi e la mancanza di aiuti governativi rende la loro impresa molto difficile. Ma il 1º aprile 1999, quando nasce la provincia autonoma inuit di Nunavut, il Canada diventa ufficialmente un paese trilingue, con l'inuktitut che affianca i due idiomi già riconosciuti (inglese e francese). Adesso è necessario passare dalla teoria alla pratica. Lo sviluppo dell'editoria contribuisce in modo decisivo al proseguimento di questa battaglia linguistica. La svolta arriva quando Neil Christopher, docente e scrittore canadese, si reca a Resolute Bay (Nunavut) per organizzare un corso. Qui entra in contatto con la cultura inuit e se ne innamora. Così decide di fondare Inhabit Media, la prima casa editrice dedicata alla promozione della cultura autoctona, insieme al fratello Daniel e a Louise Flaherty. Gran parte delle storie pubblicate appartengono al patrimonio orale e non sono mai state diffuse in forma scritta. La casa editrice non si limita a divulgare la cultura inuit, ma svolge un ruolo prezioso nella preservazione della storia orale e della saggezza tradizionale, proponendole in modo moderno e accattivante. Circa il 70% del catalogo è costituito da libri per bambini, mentre il resto si rivolge agli adulti e all'istruzione superiore. I libri sono pubblicati in inuktitut, ma alcuni hanno anche versioni in francese e inglese. Inhabit Media viene finanziata dal governo federale e collabora con le scuole. La casa editrice conta di partecipare alla Fiera del libro di Francoforte nel 2020, quando il paese ospite sarà il Canada. aa
Susan Tigullaraq (Nakasuk School) e Neil Christopher
Alessandro Michelucci Col passare del tempo si sono ridotti i nostri spazi vitali e la nostra autosufficienza. Le multinazionali e i progetti di sviluppo hanno stravolto le nostre vite. La sacralità della natura, il rispetto per la sapienza degli anziani, il contatto rituale con gli antenati, la coltivazione della terra: tutti questi valori vengono spazzati via dalla logica mercantile. Il paragone con gli standard del mondo industrializzato ci fa apparire primitivi, arretrati, poveri. Ma se siamo poveri lo dobbiamo al sistema di sfruttamento che ci porta via gran parte di quello che coltiviamo e al furto delle terre che abitiamo. I grandi progetti di "sviluppo" e di "conservazione" che vengono imposti agli Adivasi favoriscono l'invasione e il furto delle loro terre, aumentando in modo esponenziale il colonialismo
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interno. I programmi di "sviluppo tribale" hanno lo scopo di "civilizzare i barbari" e integrarli nella società indiana per salvarli dalla loro "arretratezza". In realtà hanno avuto l'effetto opposto, perché le loro condizioni sono peggiorate ulteriormente grazie a una burocrazia corrotta e inefficiente. La versione definitiva della Costituzione indiana, approvata nel 1950, non contiene parole come aborigeni o Adivasi, ma ci definisce Tribù Catalogate (Scheduled Tribes), un termine tecnico che non indica nessuna identità culturale. Di conseguenza non ci riconosce come abitanti originari che sono stati vittime della colonizzazione. Le Tribù Catalogate vengono considerate come un coacervo di persone arretrate che necessitano soltanto di assistenza, così che gli effetti della loro condizione primitiva possano essere ridotti fino a scomparire. Il termine Tribù Catalogate ha cancellato una parte importante della nostra storia. Esiste un ricco bagaglio legislativo, elaborato prima dell'indipendenza e dopo, che dovrebbe proteggere i diritti individuali e territoriali degli Adivasi, ma spesso e volentieri non viene applicato. Mentre l'India viene considerata un paese che si è rivelato capace di crescere e di ridurre la povertà, soprattutto dopo il boom economico degli anni Novanta, i dati diffusi dalla Banca Mondiale nel 2005 indicano che la situazione degli Adivasi è sensibilmente peggiorata. Negli ultimi anni, nonostante le garanzie previste dalla Costituzione, la lotta dei popoli aborigeni per la sopravvivenza si è intensificata. Quelli che hanno potuto studiare, come me, non hanno scelto di fare carriera o di arricchirsi per migliorare le condizioni economiche delle proprie famiglie, ma hanno preferito difendere i propri diritti: se non lo faremo noi, non lo farà nessun altro. La situazione degli Adivasi è gravissima. La logica criminale del governo e delle multinazionali ci ha trasformato in una risorsa da sfruttare. Discriminati e dimenticati, cerchiamo di proteggere le antiche radici che ci legano alle nostre origini e al nostro futuro. Ma i giovani adivasi sono molto attivi, anche nei piccoli centri, e le loro iniziative sono moltissime. Non esiste una linea comune, ma siamo i frammenti dispersi del grande movimento per l'autodeterminazione che un giorno ci comprenderà tutti. Uno sguardo sul futuro Ma torniamo a parlare della casa editrice. Il nostro obiettivo principale è quello di definire un modello operativo che ci permetta di proseguire seramente la nostra attività. In questi primi anni abbiamo già visto che reperire le risorse necessarie non è facile: dobbiamo impegnarci a fondo per risolvere questo problema. Ci sono molti manoscritti che aspettano di essere pubblicati, come anche film e altre attività, per esempio la nostra presenza ai festival letterari. Insomma, le cose che vogliamo fare sono tante. Dare una voce a chi non ce l'ha è un compito impegnativo e faticoso, ma anche un'avventura entusiasmante.
Ruby Hembrom
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Bibliografia Benedikter T., Language Policy and Linguistic Minorities in India: An Appraisal of the Linguistic Rights of Minorities in India, Lit Verlag, Münster 2010. Kela S., A Rogue and Peasant Slave: Adivasi Resistance 1800–2000, Navayana, New Delhi 2012. Kerketta J., Brace, Miraggi, Torino 2018 (poesie). Mondini U., Adivasi. Le minoranze etniche dell'India, Progetto Cultura, Roma 2009. Roy A., In marcia con i ribelli, Guanda, Milano 2012. Shah A., Marcia notturna, Meltemi, Roma 2019.
VOCI INDIGENE DEL TERZO MILLENNIO Conoscere e far conoscere le culture indigene dalla viva voce dei loro rappresentanti: questo è l'obiettivo del festival Lo spirito del pianeta, giunto ormai alla diciannovesima edizione (24 maggio-9 giugno 2019). Ideata e diretta da Ivano Carcano, questa entusiasmante rassegna si svolge ogni anno a Chiuduno, in provincia di Bergamo. Per l’occasione vengono invitati musicisti e danzatori indigeni di tutto il mondo: dai Tuareg agli Indiani del Nordamerica, dagli Aborigeni australiani ai Batwa dell'Africa centrale. Pur concentrandosi sulla musica e sulla danza, la manifestazione propone anche conferenze, presentazioni di libri, dibattiti, etc. Lo spirito del pianeta è un vero inno alla ricchezza più grande della Terra: la varietà culturale. Lo sforzo economico e organizzativo è enorme, ma enorme è anche la passione di Ivano Carcano e della moglie, la principessa maasai Susan Simayiai Muteleu (nella foto sotto). La manifestazione merita la massima attenzione: non solo perché è l'unica del genere in Italia, ma soprattutto perché permette di conoscere da vicino culture poco note o conosciute soltanto attraverso la lente deformante degli stereotipi. Il nostro direttore Alessandro Michelucci ha avuto l’onore di essere invitato all’ultima edizione. Ringraziamo sinceramente Ivano e Susan per la loro ospitalità, sperando che la nostra collaborazione possa continuare. La profonda affinità che ci unisce lo impone.
www.alternative.ac.nz
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Il ruolo prezioso delle lingue proibite Giovanna Marconi
Durante il coinvolgimento degli Stati Uniti nella Prima guerra mondiale (1917-1918) circa 10.000 indiani prestano servizio nell'esercito come volontari: non sono stati ancora riconosciuti come cittadini, cosa che avverrà soltanto nel 1924. Le loro lingue, incomprensibili agli eserciti nemici, si rivelano un ottimo strumento per la trasmissione dei messaggi. Il primo caso documentato è quello dei choctaw dislocati in Francia. Siamo nel 1918 e la guerra sta ormai per finire. I responsabili del 142º reggimento di fanteria formano un gruppo di 20 indiani che cominciano a trasmettere messaggi in lingua choctaw. L'esercito tedesco, ovviamente, non riesce a comprenderli, e ogni tentativo di decifrarli si rivela inutile. In seguito a questo successo lo stesso compito viene affidato anche ad alcuni cheyenne, comanche, lakota, etc. Nel secondo conflitto mondiale si arruolano 25000 indiani: stavolta il teatro è molto più esteso, perché si combatte in quattro continenti. Il sistema sperimentato nel 1918 viene perfezionato e le lingue indiane disponibili vengono utilizzate su larga scala: il comanche in Germania, il meskwaki nel Nordafrica, il navajo nel Pacifico. Quest'ultima lingua si rivela la più preziosa. I giapponesi e i tedeschi cercano di decifrare i messaggi e torturano molti soldati indiani, ma invano. Quando la guerra finisce sono oltre 600 coloro che hanno dato questo contributo prezioso e insolito. Ma si tratta di una situazione paradossale. Durante entrambe le guerre, infatti, sono in piena attività i convitti statunitensi e canadesi creati per realizzare l'assimilazione dei popoli indigeni: "uccidere l'indiano, salvare l'uomo", secondo il motto di Richard Henry Pratt, ideatore di questo progetto mostruoso. I bambini vengono strappati alle famiglie e rinchiusi in edifici impenetrabili. In queste scuole l'obiettivo prioritario è la mortificazione delle culture autoctone: dall'abbigliamento al divieto di usare la lingua madre, dall'imposizione del cristianesimo allo studio di una storia falsificata e distorta. Preti e suore forniscono un contributo determinante. Insomma, le lingue che si rivelano così preziose sui campi di battaglia sono le stesse lingue che il governo di Washington cerca in ogni modo di soffocare e di sradicare come una pianta velenosa. I code talkers devono aspettare fino al 1968 perché il loro contributo venga riconosciuto ufficialmente. Reagan, Clinton e George W. Bush premiano alcuni veterani con varie onorificenze e nel 1992 viene istituito il Navajo Code Talkers Day. In anni più recenti la loro azione viene finalmente celebrata con libri, fumetti, mostre e film. Fra questi ultimi spicca Windtalkers (2002), diretto da John Woo e interpretato da Nicholas Cage. Bibliografia Hoena B. (testi), Massegú M. P. (disegni), Navajo Code Talkers: Top Secret Messengers of World War II, Capstone Press, North Mankato (MN) 2019 [fumetto]. McClain S., Navajo Weapon: The Navajo Code Talkers, Rio Nuevo Publishers, Tucson (AZ) 2001. Meadows W. C., The Comanche Code Talkers of World War II, University of Texas Press, Austin (TX) 2002.
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"La lingua che non potevano parlare è la stessa lingua che ha salvato questo paese".
Sul filo del rasoio Intervista a Gwaai Edenshaw
L'uso delle lingue indigene nel cinema è un fenomeno in crescita. In genere non si tratta di film per pochi cultori, ma di opere che vengono presentate e premiate nei maggiori festival internazionali. Il lungometraggio Tanna, il primo girato sulle isole Vanuatu, è stato premiato a Venezia (2015); Ixcanul, realizzato in lingua maya, a Berlino (2015); Sami Blood, girato parzialamente in sami, a Venezia (2017). Uno dei film indigeni più recenti è Sgaawaay K'uuna (Edge of the Knife), il primo in lingua haida (Columbia Britannica/Canada), diretto da Helen Haig-Brown (Tsilhqot’in) e Gwaai Edenshaw (Haida). Quest'ultimo ci ha concesso l'intervista che pubblichiamo. In quale contesto è nata l'idea del film? Il film è nato da un tema fortemente radicato nella cultura haida, qualcosa che ne fa parte da sempre. È la leggenda del gaagiixid, una creatura soprannaturale impazzita per la fame... Un giorno abbiamo deciso di riprendere questa storia antica e di trasformarla in un film. All'inizio le persone che lavoravano al soggetto ci hanno proposto alcune idee molto diverse da quello che volevamo. Ma noi abbiamo deciso di andare avanti con la nostra. Appena siamo partiti tutto ha cominciato ad andare per il verso giusto. La storia del gaagiixid è ben nota a tutti gli haida, ma noi abbiamo voluto raccontarla in un altro modo, prendendo vari spunti da tutte le storie che conoscevamo... Il titolo è tratto da un proverbio haida: "Il mondo è affilato come la lama di un rasoio: devi stare attento, altrimenti cadrai da una parte o dall'altra". Il regista inuit Zacharias Kunuk, premiato a Cannes nel 2001 per Atanarjuat, ha giocato un ruolo importante della realizzazione del film. Qual è stato il suo contributo? Zach e la sua compagnia Isuma sono stati coinvolti nella lavorazione fin dall'inizio. Ci hanno seguito e consigliato grazie alla loro lunga esperienza. Io e Zach ci siamo conosciuti nella fase di preproduzione: la nostra sintonia è stata immediata. La sua esperienza ci è stata molto utile. Talvolta abbiamo dovuto aiutarlo noi, perché lavoravamo con attori esordienti e questo lo metteva in difficoltà. Abbiamo filmato momenti della vita reale: non chiedendo agli attori di fare qualcosa, ma riprendendoli nella normale vita quotidiana. Così abbiamo filmato delle scene che il copione non aveva previsto. Anzi, direi che alcune delle scene migliori sono nate proprio così. Zach ci ha dato dei suggerimenti tecnici preziosi. Ci ha consigliato di mettere in evidenza certe cose che avevamo lasciato in secondo piano. Sono contento di aver seguito i suoi consigli. Un campo dove non avevamo niente da imparare è stato quello linguistico. Molti attori hanno imparato la lingua mentre studiavano il copione. Alcuni hanno avuto dei problemi dialettali, ma tutti gli attori conoscevano un po' la lingua. Tutti gli haida la parlano, anche se quelli che lo fanno fluentemente sono pochi. Qual'è la tua opinione sulla situazione attuale delle lingue amerindiane? Non sono un esperto della materia, ma posso dirti che è deprimente vivere sulla propria terra e saper parlare soltanto una lingua straniera. Il mio popolo ne soffre molto. Ogni volta che comunichi lo fai con la lingua di una potenza occupante che si è impadronita della tua terra. Noi haida, comunque, ci possiamo considerare fortunati, perché non abbiamo perso tutto quello che avevamo. Il film sarà tradotto in italiano, o almeno sarà possibile vedere la versione originale? Pareva che ci fosse l'intenzione di fare una versione italiana, ma poi ho appreso con dispiacere che almeno per ora non sarà possibile. Purtroppo anche la distribuzione dell'originale sembra molto improbabile. Ti ringrazio per avermi dato la possibilità di far conoscere il film in Italia.
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Lingue indigene La prima volta sul grande schermo Anno 1955 1961 1966 1975 1980 1987 1996 1997 2000 2000 2001 2002 2003 2004 2004 2006 2006 2011 2011 2014 2015 2015 2015 2015 2015 2017 2018 2019
Film Codicia Kukuli Ukamau The Young Girl Windwalker1 Pathfinder2 Khangri3 La colline oubliée Seven Songs from the Tundra Ka'ililauokekoa Atanarjuat The Maori Merchant of Venice Guda Yesterday The Land has Eyes The Silent Holy Stones Ten Canoes The Orator Everlasting Moments Steppe Games Tanna4 Akounak Tedalat Taha Tazoughai Ixcanul5 My Bicycle Gone with the River Killa Edge of the Knife Netaji
Regista Catrani Figueroa■ Sanjinés Cissé Merrill Gaup Subba Bouguermouh Lehmuskallio/Lapsui
Lingua Guaraní Quechua Aymara Bambara Cheyenne-Crow Sami* Sherpa Berbero Nencio
Paese Argen.-Parag. Perù Bolivia Mali Stati Uniti Norvegia Nepal Algeria Finlandia
Jokepa-Guerrero Kunuk Selwyn
Hawaiiano Inuktitut# Maori
Stati Uniti Canada Nuova Zelanda
Baby Roodt Hereniko Tsede de Heer Tamasese Chen Dyshenov B. e M. Butler Kirkley
Kattunayakar Zulu Rotumano Tibetano Ganalbingu Samoano Atayal Buriato Nauvhal Tamashek+
India Sudafrica Figi Cina Australia Samoa-N. Zel. Taiwan Russia Vanuatu Stati Uniti
Bustamante Rakhine Crespo Muenala Edenshaw/Haig-Brown Mani
Kaqchikel= Chakma Warao Kichwaø Haida Irula
Francia-Guat. Bangladesh Venezuela Ecuador Canada India
Premi princ. ***pprinc.prin Cannes
Londra, Oscar Trento
Cannes
Oscar
Cannes Venezia
Venezia, Oscar
Berlino
L'elenco, necessariamente incompleto, si riferisce ai film girati interamente o parzialmente in lingua indigena. I titoli sono quelli adottati per i festival internazionali (generalmente in inglese). Film Titoli italiani: 1 Correva nel vento; 2 L'arciere di ghiaccio; 3 Khangri – La montagna; 4 Tanna; 5 Vulcano. Registi ■condirettori Eulogio Nishiyama e Cesar Villanueva. Lingue *sami/lappone; #eschimese; +tuareg; =maya; øvariante del quechua parlata in Ecuador. Premi principali il corsivo indica le nomination.
Il cinema artico alleato del Sundance Film Festival L'International Sámi Film Institute (ISFI) è nato nel 2007 per promuovere il cinema in lingua sami. Nel febbraio scorso, alla 69a edizione del Berlinale Film Festival, la direttrice Anne Lajla Utsi e N. Bird Runningwater del Sundance Film Festival hanno annunciato di aver concluso un accordo di collaborazione per sviluppare le produzioni cinematografiche dell'area circumpolare (Canada, Groenlandia, Sapmi/regione lappone, Russia e Stati Uniti). A tale scopo hanno istituito l'Arctic Indigenous Film Fund (AIFF). L'iniziativa è in piena sintonia con lo spirito del Sundance Festival, fondato e diretto da Robert Redford, che ha sempre dato ampio spazio al cinema realizzato dai popoli indigeni.
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La vita è una nuvola azzurra Giovanna Marconi
L’azzurro è sacro perché è il luogo dove andremo. L’altra vita, l’altro mondo, ha questo colore. Elicura Chihuailaf Elicura Chihuailaf Nahuelpán è il più famoso scrittore e poeta mapuche vivente. Nato a Quechurehue (Cile) nel 1952, ultimo di cinque fratelli, cresce in un ambiente molto impegnato politicamente. Il padre, docente magistrale, dirige la prima associazione di studenti mapuche attiva a Temuco, dove la madre svolge funzioni di segretaria. Inoltre è un militante del Partido Radical, aderente a Unidad Popular, la coalizione progressista che sostiene il governo di Salvador Allende. Il padre viene incarcerato il giorno stesso del golpe militare (11 settembre 1973). Il nonno è un lonko (capo della comunità mapuche) che lo introduce alla cultura autoctona. Il giovane Elicura si laurea in ostetricia, ma non eserciterà mai la professione. La raccolta poetica El invierno y su imagen (1977), che segna il suo esordio letterario, non viene pubblicata come libro, ma compare frazionata su varie riviste. Successivamente sarà ampliata e pubblicata col titolo El invierno, su imagen y otros poemas azules (Ediciones Literatura Alternativa, 1991). Si tratta di un'opera vigorosa, "esitante catarsi della mia innnegabile parte di alienazione nel sistema dominante, e anche ricerca di un linguaggio possibile" (p. 76). La successiva En el país de la memoria, autopubblicata nel 1988, è un'opera mista, dove la prosa viene affiancata da alcune poesie in mapudungun (lingua mapuche, ndr). Qui il riferimento alla cultura mapuche si fa più marcato: come scrive l'autore, il libro è "il primo grido di un popolo al quale viene negato ha il diritto di nascere" (p. 76). Le sue opere, scritte in spagnolo e mapudungun, vengono tradotte in varie lingue. Lui stesso traduce nell'idioma autoctono altri poeti, fra i quali Pablo Neruda. La sua opera letteraria si caratterizza per i valori più profondi della cultura mapuche, primo fra tutti il legame con la Madre Terra (il suo nome di battesimo significa "pietra trasparente"). Nei libri dello scrittore domina il riferimento all'azzurro, colore tipico della cultura indigena. Lo dimostrano i titoli di molte opere: De sueños azules y contrasueños, con poesie in mapudungun e castigliano (1995), Kalfv pewma mew/Sueño azul (2009), La vida es una nube azul (2015). Uno degli obiettivi principali del suo impegno letterario è la costruzione di un ponte fra la cultura maggioritaria e quella mapuche. Nel 1994, insieme a Jaime Valdivieso, organizza a Temuco il primo incontro di scrittori cileni e mapuche. Nella stessa logica si inquadra Recado confidencial a los chilenos (LOM, Santiago 1999), la sua prima opera in prosa, premiata nel 2000 dal Consejo Nacional del Libro. In questo lavoro lo scrittore sottolinea con forza la necessità di un dialogo interculturale fra la maggioranza cilena e la minoranza mapuche. Il saggio si apre con una serie di domande che mettono in evidenza la distanza fra le due parti: "Quanto conoscete di noi? Quanto riconoscete di voi stessi in noi? Quanto sapete delle cause dei conflitti fra noi e lo stato?" (p. 10). Uno dei temi centrali del saggio è l'analogia fra la cosidetta "pacificazione dell'Araucania" (la definitiva sconfitta dei Mapuche nel secolo diciannovesimo, ndr) e la "pacificazione dei cileni" che avviene nel 1973 (colpo di stato di Pinochet, ndr). Chihuailaf non esita a schierarsi apertamente: "La storia cilena ufficiale indica il 1883 come anno della cosidetta pacificazione del'Araucania, che in realtà fu un'invasione con massacri, stragi, desaparecidos, che ridusse in modo drammatico le nostre terre e decimò la nostra gente". Il suo impegno politico condanna "la guerra dichiarata contro i Mapuche perché il nostro popolo è un
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ostacolo al capitalismo e al neoliberismo". Nonostante le sue posizioni sgradite al potere, riceve vari premi letterari prestigiosi. Convinto che la difesa della lingua abbia un ruolo centrale nella lotta politica, si batte affinché il mapudungun venga riconosciuto ufficialmente. Nel 2013, quando il Salone del libro di Torino è dedicato al Cile, partecipa alla prestigiosa manifestazione insieme ad altri scrittori cileni. La vida es una nube azul (2015) è una raccolta di memorie e riflessioni che partono dall'infanzia per arrivare fino a poco dopo la fine della dittatura militare guidata da Augusto Pinochet (19731989). Il libro ricorda Recado confidencial a los chilenos perché si concentra sul suo rapporto col Cile e con la cultura mapuche. Lo scrittore ribadisce la necessità di un dialogo sincero fra la chilenidad e la morenidad, due concetti ben radicati nell'immaginario sociale cileno, basi della discriminazione e dell'abuso di potere. L'anno successivo (2016) è il primo mapuche candidato al Premio nazionale di letteratura, che poi viene confertito a Manuel Silva Acevedo. Il 14 novembre 2018, all'Università di Santiago, Chihuailaf riceve il Premio Nueva Civilización "per il suo contributo alla conoscenza e alla diffusione della cultura mapuche, alla lotta del suo popolo per l'autonomia e al dialogo interculturale". Il suo successo non conferma soltanto che gli artisti indigeni – scrittori, musicisti, attori, registi – sono definitivamente usciti dalla marginalità, ma che alcuni di loro l'hanno fatto senza rinunciare alla difesa della propria lingua. Elicura Chihuailaf, Ngũgĩ wa Thiong'o (vedi p. 4) e Nils-Aslak Valkeapää (vedi p. 7) sono solo tre dei tanti che hanno portato avanti questa battaglia per la diversità culturale. Suoni, immagini e parole L'impatto dell'attività letteraria di Elicura Chihuailaf supera ampiamente i confini della letteratura, ispirando numerosi artisti impegnati in altre discipline. Nel 1998 Illapu, un noto gruppo folk cileno, musica la sua poesia "Bío-Bío, sueño azul", che apre il CD Morena Esperanza. Cantata Mapudungún, scritta da Jaime Herrera, è un'ambiziosa composizione con testi di poeti cileni contemporanei che Chihuailaf ha tradotto in mapudungun (Poesía y prosa chilena del siglo XX/Vlkantun ka epew Chile mapu mew, Pehuén, 2009). La creazione musicale, eseguita dal gruppo Kalfu e da un'orchestra, viene presentata nei pressi di Santiago il 23 novembre 2012 con la partecipazione di vari ospiti, fra i quali il poeta stesso. Kalfu, gruppo guidato dal suddetto Herrera, realizza anche il CD Trawvn/Re-Unión (2017), che contiene la trasposizione musicale di alcune poesie di Chihuailaf. Colores desde una luna azul è una mostra in omaggio al poeta che si tiene alla Galería Municipal de Arte di Valparaíso dal 24 luglio al 15 agosto 2015. Per l'occasione 34 artiste espongono i propri lavori: incisioni, quadri, sculture, etc. Il poeta conferma il proprio interesse per la musica collaborando con la cantautrice Natalia Contesse, insieme alla quale compare in vari concerti fra il 2018 e il 2019. Bibliografia Matías Rendón A., La discursividad indígena: Caminos de la Palabra escrita, Kumay, Ciudad de México 2019. Molina N.M., "Al rescate del mapudungun en Chile", Revista Nos, XX, 266, febrero de 2016, pp. 42-50. Vera O. G., Sánchez S. B. (a cura di), Interpelaciones (des)atadas. Elicura Chihuailaf y la palabra urgente: contribuciones académicas, Universidad de la Frontera, Temuco 2017.
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Lontano da Londra, vicino a Bruxelles Stephen Clear
Il 26 giugno 2016, quando si è tenuto il referendum sulla Brexit, gli elettori gallesi hanno contraddetto le previsioni: il 52,5% ha votato a favore dell'uscita dall'Unione Europea. Ma da allora le cose sono cambiate: in seguito ai faticosi negoziati con Bruxelles e alla situazione caotica che si è creata in Gran Bretagna, i recenti sondaggi attestano che buona parte della popolazione ha cambiato idea. Il governo gallese ha sposato la causa del Remain, mentre il dibattito politico si sta concentrando su un altro tema: l'indipendenza. In altre parole, non più uscire dall'UE, ma dalla Gran Bretagna. L'indipendenza è un vecchio cavallo di battaglia del Plaid Cymru (PC, il principale partito nazionalista, ndt), ma ora sta guadagnando un ampio seguito anche fra coloro che non sostengono questo partito. Negli ultimi mesi si sono tenute varie manifestazioni indipendentiste e i sondaggi indicano che negli ultimi due anni questa tendenza è cresciuta notevolmente. Se il Galles diventasse uno stato indipendente non dovrebbe partire da zero. Da 20 anni ha un proprio governo e un proprio parlamento (l'Assemblea nazionale, in gallese Senedd) in seguito alla devolution sancita dal referendum del 1997. Oggi queste istituzioni non sono competenti su tutte le materie: la difesa, la politica estera e l'immigrazione, per esempio, sono escluse. Al tempo stesso, però, sono vent'anni che il Senedd può approvare leggi su materie d'interesse regionale. Un Galles indipendente? In teoria la prassi costituzionale (la Gran Bretagna non ha una Costituzione scritta, ndt) non permette al Galles di organizzare un referendum proprio né di dichiarare unilateralmente l'indipendenza. Il Government of Wales Act, approvato dal Parlamento britannico nel 2006, afferma che "l'unione delle nazioni di Galles e Inghilterra" è una materia che non spetta al Senedd. Ma esiste un precedente che avvalora la tesi contraria. Se una larga parte della popolazione lo richiedesse, questo imporrebbe al governo di trovare una soluzione. Un caso simile si è verificato quando l'ex premier David Cameron ha conferito al Parlamento scozzese il potere di legiferare in materia di referendum. Non tutti sono a favore dell'indipendenza gallese, ma ormai il tema è stato sdoganato. Il Primo Ministro gallese Mark Drakeford ha detto che "la fede nell'unione non è più un dogma" e che "'l'indipendenza è diventata un tema del dibattito politico". Preoccupata da questi fermenti regionali, l'ex premier Theresa May ha commentato il recente successo elettorale del Plaid Cymru dicendo che "il Regno unito non è mai stato così diviso". Inoltre ha incaricato Lord Andrew Dunlop di fare un rapporto sulla coesione delle quattro nazioni (Galles, Inghilterra, Irlanda del Nord e Scozia, ndt) e di studiare i migliori mezzi per rafforzarla. Le sue parole hanno fatto eco a quelle di Gordon Brown, ex Primo Ministro laburista, secondo il quale "l'unità del Regno non era mai stata così in pericolo: neanche nel 2014, quando il referendum scozzese ci costrinse a difenderla con i denti". Un bilancio positivo Immaginiamo che l'indipendenza superi gli ostacoli giuridici e guadagni un ampio seguito popolare. Le sue strutture politiche – parlamento e governo – sarebbero in grado di gestire questa nuova situazione? Come abbiamo già detto, il Senedd esercita il potere legislativo dal 1999. Fra i suoi successi ci sono l'abolizione del ticket sui farmaci, il sostegno economico agli studenti universitari, l'autobus gratuito per i pensionati e il divieto di fumare negli spazi chiusi. Il Future Generations Act, approvato nel 2017, impone ad ogni organismo pubblico di considerare tutte le conseguenze a lungo termine delle proprie decisioni: ambientali, culturali, sociali ed economiche. Una legge ottima, anche se alcuni esperti osservano che non dispone dei mezzi necessari per la piena applicazione. Oltre a questi successi più evidenti, la stessa nascita del Senedd ha segnato un progresso importante. Nel 1979 quasi l'80% degli elettori votarono contro la creazione di un'assemblea gallese; nel
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1997 la maggioranza a favore fu risicata (50,3%); il Wales Act del 2017 ha ampliato i suoi poteri in modo sostanziale. In altre parole, non si tratta più di competenze conferite da Londra, che come tali erano limitate a materie definite, ma di competenze esclusive, grazie alle quali il Senedd può legiferare su tutte le materie che non sono riservate al Parlamento britannico. Nonostante questo, ovviamente, l'autonomia di cui gode l'assemblea non piace a tutti. Alcuni membri aderenti all'UKIP (United Kingdom Independence Party, partito euroscettico, ndt) propongono di cancellare la devolution, mentre altri sono fortemente critici sull'azione politica svol-ta finora, in particolare per quanto riguarda la scuola e il NHS (National Health Service, Servizio Sanitario Nazionale).
La storia del dragone rosso Sintesi cronologica 1536 Atto di unione del Galles con l'Inghilterra. 1707 Atto di unione della corona inglese con quella scozzese: nasce la Gran Bretagna. 1760 Inizia l’era industriale. Il Galles diventerà il primo produttore mondiale di ferro e di rame. 1804 Viene pubblicato a Swansea The Cambrian, il primo quotidiano in gallese. 1861 Si tiene il primo Eisteddfod, che diventerà il principale festival culturale gallese. 1916 David Lloyd George è il primo gallese che diventa Primo Ministro del Regno Unito. 1925 Viene fondato il Plaid Cymru, che diventerà il principale partito nazionalista. 1955 Cardiff diventa capitale del Galles. 1959 Viene riconosciuta ufficialmente la bandiera col dragone rosso, che era in uso da molti secoli. 1962 Nasce la Welsh Language Society, che difenderà i diritti linguistici. 1966 Gwynfor Evans è il primo esponente del Plaid Cymru che viene eletto al Parlamento britannico. 1971 Ad Aberystwyth nasce Mudiad Ysgolion Meithrin (Movimento delle scuole materne), un'associazione di volontariato che insegna il gallese ai bambini. 5 giugno 1975 Referendum sull'adesione della Gran Bretagna all'UE: in Galles vota a favore il 64,8%. 1o marzo 1979 Primo referendum sulla nascita di un'Assemblea gallese (79,74% contrario). 1o novembre 1982 Iniziano le trasmissioni di Sianel Pedwar Cymru, la prima rete televisiva in gallese. 18 settembre 1997 Secondo referendum sulla nascita di un'Assemblea gallese (50,30% favorevole). 29 maggio 1999 Inaugurazione dell'Assemblea gallese, prima forma di autogoverno dopo sei secoli. 2002 Il Plaid Cymru prende posizione contro l'invasione dell'Iraq. 2 febbraio 2011 Il Parlamento britannico riconosce la coufficialità della lingua gallese. 31 marzo 2011 Referendum sull'ampliamento dei poteri dell'Assmeblea gallese (63,49% favorevole). 18 settembre 2014 Referendum sull'indipendenza della Scozia (55,30% contrario). 23 giugno 2016 Referendum sulla Brexit (51,9% favorevole all'uscita). In Galles favorevole il 52,5%. 2016 Il governo scozzese annuncia l’intenzione di organizzare un secondo referendum sull’indipendenza. Leanne Wood, segretario del Plaid Cymru, propone che si apra un dibattito sull’indipendenza del Galles. 11 maggio 2019 Grande manifestazione indipendentista a Cardiff. Le sfide dell'indipendenza L'indipendenza porta con sé altre implicazioni. Coloro che sono contrari pensano che il Galles sia troppo piccolo e troppo povero per sopravvivere da solo nel contesto internazionale. Yes Cymru, un gruppo indipendentista apartitico, ribatte che in Europa ci sono 18 paesi più piccoli del Galles e che il calcolo del suo deficit fiscale è falsato dall'esclusione di voci rilevanti come le risorse idriche ed elettriche. L'attuazione pratica della Brexit disegnerà un paese diviso. Ma il suo esito finale e il suo impatto sull'indipendenza del Galles dipendono dalle azioni del nuovo Primo Ministro. Boris Johnson continua a ripetere che "la cosa più importante è l'unità del paese", ma se l'indipendenza del Galles guadagnerà un ampio seguito popolare non potrà ignorare questa volontà e mantenere l'unità con la forza. Se nei prossimi mesi il movimento independentista diventerà molto potente sarà inevitabile arrivare a un accordo, almeno ampliando l'autonomia sancita dalla devolution. Ma alla fine sarà il popolo che dovrà decidere se il Galles deve essere indipendente. Se i prossimi governi britannici non rispetteranno la sua volontà e cercheranno di mantenere l'unità con la forza, questo non farà altro che aumentare la percentuale degli indipendentisti.
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Dafyff Iwan, una vita per l'identità gallese Il Galles ha espresso molte figure artistiche e culturali di grande rilievo: poeti come Dylan Thomas e Nigel Jenkins; nel cinema, Richard Burton, Anthony Hopkins e Catherine Zeta Jones; musicisti come John Cale, Catrin Finch e Karl Jenkins, solo per fare qualche esempio. Ma il più rilevante sotto il profilo che ci interessa, anche se scarsamente conosciuto in Italia, rimane Dafydd Iwan. Cantautore e uomo politico, sempre in prima linea nelle battaglie politiche e culturali, ha dedicato (e dedica tutora) la propria vita al Galles. Dafydd Iwan Jones nasce a Brynaman nel 1943. Il nonno paterno, Fred Jones, è uno dei fondatori del Plaid Cymru. Dopo aver studiato architettura all'Università di Cardiff decide di dedicarsi alla musica. Inizialmente traduce in gallese le canzoni di protesta composte da Bob Dylan, Woody Guthrie e Pete Seeger. Ma presto comincia a scrivere le proprie, conservando una forte intonazione politica. Ha appena 23 anni quando viene eletto segretario della Welsh Language Society (in gallese Cymdeithas yr Iaith Gymraeg), nata alcuni prima per difendere i diritti linguistici della minoranza celtofona. Nel 1969, quando il figlio della regina Elisabetta viene nominato principe del Galles, partecipa attivamente alla protesta popolare contro l'incoronazione e scrive la canzone "Carlo", dove sbeffeggia pesantemente il giovane erede al trono (Carlo è un nome che nel Galles viene usato per i cani). A Cardiff, nello stesso periodo, fonda insieme a Huw Jones e Brian Morgan l'etichetta discografica Sain, che negli anni successivi contribuirà in modo decisivo alla promozione della musica gallese, spaziando dal folk degli Ar Log al rock di gruppi come Alarm e Catatonia. Negli anni Settanta Iwan viene imprigionato per la sua attività a favore della lingua gallese. Ma nel contempo si interessa anche ai problemi politici di tutto il mondo: dal Cile di Pinochet alla questione nordirlandese, dalla guerra del Vietnam alla strage di piazza Tienanmen. Stringe legami di solidarietà con baschi, catalani, kurdi. Il suo impegno viene documentato ampiamente dalle canzoni, sempre composte nella lingua autoctona. Una causa che lo impegna in modo particolare è la lunga battaglia per la televisione in lingua gallese, che il governo conservatore di Margaret Thatcher avversa fieramente. Ma alla fine la perseveranza degli attivisti gallesi si rivela vincente: la nuova rete viene inaugurata nel 1982. Allo stesso modo, il cantante sostiene la creazione dell'Assemblea gallese, che viene sancita dal referendum del 1997. Presidente del Plaid Cymru dal 2003 al 2011, sostiene con entusiasmo l'indipendenza del Galles. Mewn Lluniau/A Life In Pictures, la sua autobiografia bilingue, vede la luce nel 2005. Il cofanetto Cana Dy Gân (Sain, 2012), che contiene tutte le sue canzoni, viene pubblicato in occasione dei 50 anni di attività. Nel luglio del 2019 il cantante e il principe Carlo si incontrano amichevolmente per mettere da parte l'antico contrasto. Alessandro Michelucci
A sinistra: Gwynfor Evans, presidente del Plaid Cymru, e Dafydd Iwan a un'iniziativa per la realizzazione di un canale televisivo in gallese (Aberystwyth, 1980). Due anni dopo inizieranno le trasmissioni di Sianel Pedwar Cymru, meglio nota come S4C. A destra: il cofanetto che contiene l'opera omnia del cantautore (Sain Records, 2012).
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La grande manifestazione indipendentista che si è svolta a Cardiff l'11 maggio 2019.
La grande manifestazione indipendentista che si è svolta a Cardiff l'11 maggio 2019; Bibliografia Bory S., L'éveil du dragon gallois. D'une assemblée à un parlement pour le pays de Galles (1997-2017), L'Harmattan, Paris 2019. Caravale G., A Family of Nations. Asimmetrie territoriali nel Regno Unito tra devolution e Brexit, Jovene, Napoli 2017. Johnes M., Wales: England's Colony?, Parthian Books, 2019. Morgan K. O., Revolution to Devolution: Reflections on Welsh Democracy, University of Wales Press, Cardiff 2014. Osmond J., Accelerating History: The 1979, 1997 and 2011 Referendums in Wales, Institute of Welsh Affairs, Cardiff 2011. Price A., Wales: The First and Final Colony. Speeches and Writings 2001-2018, Y Lolfa, Talybont 2018. Williams R., Who Speaks for Wales? Nation, Culture, Identity, University of Wales Press, Cardiff 2003.
www.planetmagazine.org.uk
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Biblioteca
Elizabeth Grant, Kelly Greenop, Albert L. Refiti, Daniel J. Glenn (a cura di), The Handbook of Contemporary Indigenous Architecture, Springer, Berlin 2018, pp. 1001, € 368,16. Oggi le espressioni artistiche e culturali dei popoli indigeni sono una realtà innegabile: pensiamo al successo mondiale della musica tuareg, ai romanzi di Sherman Alexie e Louis Erdritch, all'interesse ormai consolidato per l'arte aborigena australiana. Meno note, invece, sono espressioni tecniche come l'architettura, anche se non bisogna dimenticare che la Biennale di Venezia dedica da tempo uno spazio regolare agli indigeni che praticano questa disciplina. Il crescente interesse per la materia in questione viene confermato da The Handbook of Contemporary Indigenous Architecture. Quest'opera imponente è curata da autorevoli specialisti, fra i quali l'architetto crow Daniel J. Glenn, che ha partecipato alla recente edizione della Biennale. Il volume colma un vuoto, perché fornisce per la prima volta un panorama internazionale dell'architettura indigena contemporanea. La vastità del tema ha imposto dei limiti geografici: l'opera privilegia i paesi anglofoni extraeuropei. Molta attenzione viene dedicata all'area oceanica, e in particolare all'Australia, mentre all'architettura sami (lappone) viene riservato un unico saggio. Alcuni contributi trattano temi d'interesse generale, come le strutture didattiche e museali. Vengono messi in luce i legami fra l'architettura e le rivendicazioni identitarie. Il lettore scopre così un mondo dove il dibattito scientifico si mescola a quello politico e culturale. I saggi evitano un linguaggio da addetti ai lavori, rendendo la materia accessibile a chiunque abbia una cultura media. È auspicabile che in futuro, stimolati da questo precedente, altri studiosi esplorino l'architettura indigena asiatica, africana e sudamericana. Giovanna Marconi Chris Deeley, Forgotten Nations: The Incredible Stories of Football in the Shadows, Pitch Publishing, Worthing 2019, pp. 224, £12.99. Il calcio è lo sport dei record: nessun'altra disciplina muove un seguito più consistente, speculazioni economiche più grandi, ingaggi più costosi, un indotto fatto di sponsor, stampa e diritti televisivi più imponente. Tutto questo non sarebbe possibile se il calcio non veicolasse anche una forte aggregazione comunitaria. Proprio perciò lo sport del pallone esercita un forte fascino sugli ambienti politici che rivendicano identità culturali e/o territoriali non riconosciute ufficialmente. A esplorare questo mondo sconosciuto ha provveduto Chris Deeley, autore del libro Forgotten Nations: The Incredible Stories of Football in the Shadows.
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Il giornalista inglese dedica ampio spazio alla CONIFA, la federazione nata nel 2013 per riunire le squadre che non possono accedere alla FIFA. Un mondo calcistico in piena regola, con partite, classifiche e coppe, composto da circa 50 squadre che spaziano dalla Cornovaglia alla Sardegna, dal Sahara Occidentale all'Ossezia del Sud. Spesso sono popoli e regioni che rivendicano l'autonomia, se non addirittura l’indipendenza. Altre squadre, invece, esprimono identità regionali che chiedono soltanto maggiore visibilità, come lo Yorkshire e la Sardegna. Altre ancora sono legate a conflitti politici e/o territoriali irrisolti, come la Transnistria e il Tibet. Alcune sono decisamente campate in aria, come la Padania, che aderisce alla federazione anche se la vecchia rivendicazione leghista è stata accantonata da tempo. Come si può immaginare, un simile contesto non può non generare contrasti di natura politica che vanno oltre la sfera sportiva. Tanto per fare un esempio, il fatto che la CONIFA includa la squadra di Cipro del Nord è stato duramente criticato da alcuni esponenti politici greco-ciprioti: la parte settentrionale dell'isola, come si sa, è stata occupata e annessa dalla Turchia nel 1974. I contrasti che possono nascere in questo ambiente, quindi, sono molto più duri degli scontri fra i tifosi del calcio ufficiale. Opera utile e di agevole lettura, il libro di Deeley conferma che certe minoranze stanno cercando di uscire dalla marginalità e reclamano uno spazio in ambiti dai quali sono stati a lungo escluse, siano questi lo sport, il cinema o la musica. Alessandro Michelucci Marco Santopadre, La sfida catalana. Cronaca di una rivoluzione incompiuta, Pgreco, Milano 2018, pp. 258, € 18. Bojan Brezigar, I giorni della Catalogna, Qudulibri, Bologna 2018, pp. 240, € 15. Giovanni Poggeschi, La Catalogna. Dalla nazione storica alla repubblica immaginata, Editoriale Scientifica, Napoli 2018, pp. 223, € 16. Nel panorama editoriale italiano non sono molte le pubblicazioni che affrontano la questione catalana, e sono ancora meno, purtroppo, quelle che affrontano il tema con la necessaria attenzione per i fatti e per i documenti. In quest'ultima categoria troviamo alcuni titoli pubblicati nel corso degli ultimi due anni, a ridosso del referendum del 1° ottobre 2017 e nel periodo successivo. La sfida catalana. Cronaca di una rivoluzione incompiuta, scritto da Marco Santopadre, propone una lettura attenta delle vicende, evidenziando la rilevanza di due elementi fondamentali, spesso sottovalutati o addirittura ignorati da molti commentatori italiani: la questione nazionale e la domanda di sovranità popolare. L'autore, giornalista ed esperto di politica internazionale, segue da tempo le vicende iberiche, e in particolare quelle basche e catalane. Nel libro presenta la cronaca dettagliata delle mobilitazioni dell'autunno 2017 e della giornata referendaria, ripercorre gli elementi rilevanti della storia catalana contemporanea, offre una panoramica delle formazioni politico-sociali e affronta i nodi irrisolti dalla transizione dal regime franchista all'attuale ordine politico. Della questione scrive con particolare cognizione di causa anche Bojan Brezigar, ex direttore del Primorski Dnevnik (il quotidiano delle comunità slovene di Trieste e del Friuli orientale), esperto di politica internazionale. Il suo instant book in lingua slovena, Šest dni v Kataloniji (I sei giorni della Catalogna), uscito nell'ottobre del 2017, è stato successivamente ripreso dall'autore, che lo ha riscritto in italiano aggiornandolo al periodo successivo, almeno sino all'inizio di febbraio del 2018. In questa nuova versione Brezigar offre una serie di istantanee ad alta definizione di fatti e persone, registra voci, emozioni e atmosfere, affronta domande e problemi, puntando la propria attenzione, tra l'altro, verso le istituzioni europee, che "dormono beate", e i valori europei, che si trovano "sul banco di prova". I réportage ragionati di Brezigar sono arricchiti da una sintetica ma dettagliata cronologia degli eventi, dal 31 ottobre 2003 al 30 gennaio 2018. Le due date non sono scelte a caso: corrispondono alla proposta di modifica dello Statuto del 1979 a opera dei principali partiti catalani e al rinvio della seduta convocata per confermare Puigdemont a capo dell'esecutivo.
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Un altro libro ricco di sostanza è La Catalogna: dalla nazione storica alla repubblica immaginata di Giovanni Poggeschi, docente di diritto pubblico comparato all'Università del Salento, che in più occasioni si è occupato di temi spagnoli e catalani. La sua opera affronta la questione con un approccio multidisciplinare, tra storia, politica e diritto. I nove capitoli definiscono un itinerario che comprende alcune indicazioni di carattere generale, una storia delle affermazioni di identità e delle rivendicazioni di autogoverno della Catalogna, il quadro giuridico e istituzionale di riferimento dalla Costituzione spagnola del 1978 fino al nuovo Statuto catalano del 2006 e alla sua "parziale demolizione", il tema dell'autonomia finanziaria e quello dei diritti linguistici. Il percorso proposto da Poggeschi comprende anche la descrizione del processo indipendentista e del "dialogo tra sordi" che si sviluppa tra il 2010 e il 2017, la questione della sospensione eccezionale dell'autonomia catalana ai sensi dell'articolo 155 della Costituzione e le riflessioni sul diritto di secessione, sulla falsa dicotomia tra primato della democrazia e della Costituzione, sull'ipotesi di soluzione federale e su una ridefinizione dei rapporti tra Spagna e Catalogna. Marco Stolfo François Fontan, Etnismo. Verso un nazionalismo umanista (+ Diego Anghilante, Fredo Valla, E i a lo solelh. François Fontan e la descoberta de l'Occitània), Papiros, Nuoro 2018, pp. 154, € 15. Un libro da leggere e un film da guardare. Grazie alla casa editrice sarda Papiros, chi non ne sa nulla può finalmente conoscere la personalità di François Fontan, la sua vita e il suo pensiero. Chi li conosce già, invece, può rinfrescare, aggiornare e approfondire le proprie nozioni al riguardo. La pubblicazione, curata da Fredo Valla e Diego Corraine, propone in primo luogo l'edizione in italiano di quel testo, uscito originariamente nel 1961 col titolo Ethnisme. Vers un nationalisme humaniste e riproposto con alcuni aggiornamenti nel 1975. L'opera può essere considerata un specie di sintetico manifesto dell'occitanismo contemporaneo. In quelle pagine, tradotte da Antonio Rovera, si ritrovano i principi dell'azione del fondatore del piccolo e combattivo Partito nazionalista occitano (PNO), ispiratore del Movimento autonomista occitano, nato nelle Valadas occitanas del Piemonte tra il 1967 e il 1968. Le parole di Fontan e le sue riflessioni su autodeterminazione, liberazione, convivenza, colonizzazione e decolonizzazione sono abbinate alle immagini e ai suoni del documentario E i à lo solelh, realizzato oltre vent'anni fa da Fredo Valla e Diego Anghilante. Il film descrive con rispetto, con partecipazione e con efficacia narrativa la vita e le idee di Fontan, grazie a una serie di testimonianze raccolte tra le Alpi, i Pirenei, l'Atlantico e il Mediterraneo. Il tutto, confezionato con una grafica gradevole e arricchito da una premessa di Sergio Salvi, evidenzia le coordinate e le prospettive del percorso di Fontan, indirizzato con determinazione, pur non senza contraddizioni, verso una visione e una speranza di identità, di libertà, di solidarietà e di pluralismo, quanto mai valide e utili ancora oggi. Marco Stolfo Thierry Ottaviani, Nietzsche et la Corse, Editions Maia, Paris 2018, pp. 120, € 16. La Corsica è stata un'eccezionale fonte d'ispirazione per coloro che l'hanno visitata nel corso dei secoli: scrittori, poeti, pittori, viaggiatori. Da Maupassant a Daudet, da Conrad a Sebald, ciascuno ci ha trovato qualcosa che ha stimolato la propria creatività e la propria sensibilità. Si tratta di un caleidoscopio estremamente vario, all'interno del quale si possono sempre trovare pagine poco note, ma non per questo necessariamente marginali. Lo scrittore bastiaccio Thierry Ottaviani, profondo conoscitore della cultura isolana, ha ricomposto questo mosaico di influenze reciproche nel libro La Corse des ecrivains, che si concentra appunto sugli scrittori che hanno visitato l'isola. Un altro libro di Ottaviani, Nietzsche et la Corse (Editions Maia, 2017), analizza invece il forte lega-
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me emotivo che unì il filosofo tedesco alla Corsica fra il 1881 e il 1888, poco prima che l'autore di Umano troppo umano sprofondasse nella malattia mentale. Il libro colma un vuoto, dimostrando che l'isola ha giocato un ruolo importante nell'elaborazione del pensiero nicciano. Nella Corsica il filosofo intravede un punto d'approdo dopo la lunga peregrinazione mediterranea che ha iniziato qualche anno prima: da Venezia a Genova, da Nizza a Messina. È in questo periodo che scrive alcune delle opere più importanti: Aurora (1881), La gaia scienza (1882), Così parlò Zarathustra (18831885), Al di là del bene e del male (1886). Nel 1881 la Corsica diventa l'oggetto di un'attrazione ossessiva. Nietzsche vuole recarsi nell'isola: non come un semplice turista, ma per viverci. Progetta di stabilirsi a Corte, la "città delle grandi concezioni". Propone all'amico Peter Gast di comporre un'opera corsa. Ma il grande filosofo tedesco non riesce a realizzare questo sogno e non vede mai la Corsica: ormai la malattia mentale incombe e si manifesta apertamente nel 1889. Ottaviani ricompone con grande cura gli anni caratterizzati da questa fascinazione, inserendoli nel contesto delle ultime formulazioni filosofiche nicciane. Ben documentato e privo di un linguaggio da addetti ai lavori, il libro contiene anche una nuova traduzione dei frammenti postumi sul tema, curata da Emmanuel Carlebach. Alessandro Michelucci Chiara Cruciati, Michele Giorgio, Cinquant'anni dopo. 1967–2017. I territori palestinesi occupati e il fallimento della soluzione dei due Stati, Alegre, Roma 2017, pp. 223, € 15. Cos'è successo dopo la "guerra dei sei giorni", che nel 1967 ha messo sotto controllo israeliano il resto della Palestina storica? Gli autori analizzano questo mezzo secolo partendo dalle radici del conflitto israelo-palestinese per arrivare fino ai nostri giorni. Dalla Nakba fino alla prima Intifada, dagli accordi di Oslo del 1993-1995 alle politiche israeliane tra redenzionismo e pacifismo, rimane un conflitto, nonostante tutte le risoluzioni internazionali e tutti i "piani di pace", che si trascina da decenni con mille nodi irrisolti. L'espansione della colonizzazione israeliana nei territori occupati, le politiche economiche e monetarie e la concorrenza sleale hanno impedito lo sviluppo del popolo palestinese, reso utopica la creazione di uno stato palestinese come entità territoriale omogenea e sovrana, facendo fallire l'ipotesi dei due stati. L'insuccesso dei tanti accordi, la mancata applicazione delle risoluzioni delle Nazioni Unite, la costruzione del Muro, l'incremento dell'industria militare israeliana dimostrano, secondo gli autori, che la diplomazia mondiale ha scelto di mantenere lo status quo. L'Autorità Nazionale Palestinese amministra senza Stato e governa senza territorio. Non solo, ma Israele le ha appaltato l'occupazione facendone un ostacolo al dissenso. L'effetto combinato di annessione e isolamento ha innalzato la povertà, generato la mancanza strutturale di infrastrutture e servizi, depauperato il settore commerciale, annullato quello turistico. Una realtà che aggrava lo stato di apartheid e discriminazione della minoranza palestinese, con un solo stato non democratico che nega il diritto alla libertà e all'autodeterminazione, nel silenzio assordante della comunità internazionale e del mondo arabo. Marisa Cestelli Chiara Zappa, Anime fiere. Resistenza e riscatto delle minoranze in Medio Oriente, Edizioni Terra Santa, Milano 2018, pp. 240, € 16. Nei paesi che compongono il Medio Oriente esiste uno straordinario intreccio di popoli e religioni, molti dei quali aspirano a un pieno riconoscimento dei propri diritti. Non soltanto Kurdi e Palestinesi, quindi, ma anche Drusi, Yazidi, minoranze cristiane... A mettere ordine nel panorama complesso delle minoranze mediorientali sta provvedendo da
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vari anni Chiara Zappa, una valida giornalista cattolica, già autrice di Mosaico Turchia. Viaggio in un paese che cambia (Terrasanta, 2014). La nuova opera amplia la prospettiva fornendo un quadro aggiornato dell'intera regione. Testimonianze dirette, digressioni storiche e cenni all'attualità si fondono in modo equilibrato disegnando un panorama esauriente della materia. La mancanza di alcune comunità, come quelle assire, non pregiudica il risultato finale, ma forse offrirà lo spunto per un altro libro. Allo stesso modo, la chiara adesione alla religione cattolica non scade mai nella faziosità. La prosa felice e scorrevole aggiunge il pregio della forma al valore della sostanza. Giovanna Marconi Vittorio Robiati Bendaud, La stella e la mezzaluna. Breve storia degli ebrei nei domini dell’Islām, Guerini e Associati, Milano 2018, pp. 247, € 18,50. Nel 1535 Costantinopoli era la più grande metropoli ebraica del mondo. I suoi cittadini giudei erano oltre 40.000, circa il 10% della popolazione, mentre a Salonicco costituivano la metà degli abitanti. Negli stessi anni, a Tripoli, il grande rabbino Shim‘òn Labì era anche il medico personale del pashà ottomano. E non si trattava di una novità. Se è vero che, molti secoli prima dell'avvento di Maometto, le antiche accademie rabbiniche avevano stilato e redatto il Talmùd in Iraq, proprio a Babilonia vennero poi fondate le prime scuole di giurisprudenza islamica: una prossimità che produsse influenze reciproche determinanti. Per ottocento anni i principali centri di studio ebraici si trovarono in terra musulmana, e la teologia da essi formulata si espresse in arabo per secoli, mutuando numerose argomentazioni dall'Islam. "La storia ebraica è purtroppo spesso compresa e presentata come un fatto occidentale. Si tratta di un grave errore, spesso veicolato dagli stessi ebrei. L'ebraismo invece è stato ed è, in misura almeno pari se non maggiore ancora, anche un fenomeno 'orientale' ". Parte da questa considerazione Vittorio Robiati Bendaud nel suo interessante libro La stella e la mezzaluna. Breve storia degli ebrei nei domini dell’Islām. Arricchito da una nota introduttiva di Antonia Arslan, il volume propone un viaggio da Algeri a Samarcanda, da Gerusalemme a Fez, in cui si dipanano sprazzi di luce e oscurità, momenti di splendore e tragedie assolute, fatte di miseria, fanatismo e odio. "Si comprende chiaramente – nota Arslan – come si formi e si sedimenti quel pregiudizio antiebraico che tanto avrebbe pesato nella sanguinosa storia del Novecento". Dal passato, lo sguardo si rivolge all'oggi, perché – spiega l'autore – "ebrei e musulmani condividono ancora un destino potentemente interconnesso, per il bene comune o per la rovina di entrambi". Chiara Zappa Chiara Cruciati e Michele Giorgio, Israele, mito e realtà, Alegre, Roma 2018, pp. 224, € 15. Il libro di Giorgio e Cruciati si propone di raccontare la storia di Israele e della Palestina con un approccio a metà fra il saggio e l'intervista giornalistica. Il racconto viene spezzato dalla voce di vari testimoni palestinesi e israeliani. Il risultato è un convergere di voci che documentano da angolazioni diverse quel processo di etnicizzazione a cui è sottoposto il paese: gli unici cui viene riconosciuta la totalità dei diritti sono coloro che possono far coincidere sul proprio passaporto etnia, nazionalità e cittadinanza, nel nome di un ebraismo che viene usato come arma di discriminazione. Palestinesi e israeliani di religione non ebraica, invece, vengono fortemente discriminati. Questo paese continua a presentarsi agli occhi del mondo come "l'unica democrazia del Medio Oriente", ma il libro smonta questo assunto. Uno dei momenti più interessanti è il racconto di un giovane argentino di origine ebraica, ma totalmente ignaro della storia palestinese. È lui che descrive come questi "nuovi ebrei" vengono intercettati in giro per il mondo con la promessa di diritti e lavoro, in cambio dell'adesione alla causa sionista. L'aliyah, il ritorno degli ebrei, ha il chiaro scopo di contrastare il tasso di natalità dei palestinesi, ai quali è negato di vivere nella terra dei padri.
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La strada scelta dal governo israeliano appare così fin dai tempi di Ben Gurion interessata all'annessione territoriale, secondo il modello del colonialismo europeo e del neoliberismo attuale. Il messaggio finale è chiaro: una democrazia basata sull'ineguaglianza non sarà mai in grado di proteggere i diritti di tutti, concentrandosi invece sui privilegi di una minoranza sempre più ristretta. Anna Di Giusto
Contro il colonialismo politico e religioso Victor Segalen 1919-2019 Chi si interessa ai problemi dei popoli indigeni conosce (o dovrebbe conoscere) gli effetti devastanti che il colonialismo e la predicazione missionaria hanno avuto sulle comunità autoctone del pianeta. Questa consapevolezza è necessaria per inquadrare il tema, ma al tempo stesso rischia di stimolare una visione riduttiva: la logica della sopraffazione viene considerata l'unico codice che la cultura europea ha adottato nei confronti dei popoli colonizzati. Certo, si sa che ci sono state delle eccezioni, ma si crede che siano state comunque limitate da una temperie culturale che non permetteva di contestare radicalmente la violenza coloniale e lo sradicamento culturale indotto dalle missioni. Fortunatamente non è così. Uno degli esempi più stimolanti è quello di Victor Segalen (1878–1919), scrittore francese atipico, deceduto cento anni fa all'età di 41 anni. Non soltanto scrittore, ma anche medico militare e archeologo, amico di Claude Debussy, Segalen presenta una parabola umana e artistica troppo articolata per poterla raccontare qui. A noi basta segnalare un paio di opere utili per conoscere questa grande figura. I raffinati Cahiers de l'Herne hanno ristampato da poco il numero monografico dedicato allo scrittore, curato da Christian Doumet e Marie Dollé e pubblicato originariamente nel 1998. La nuova edizione è arricchita da alcuni testi non presenti nella prima. Ma l'opera ideale per conoscerlo, quella dove Segalen centra in pieno il tema descritto all'inizio, resta Les immémoriaux. Pubblicato originariamente nel 1907, il libro ha avuto varie edizioni italiane. La più recente è Le isole dei senza memoria, pubblicata da Meltemi nel 2000. L'opera è il frutto del viaggio che lo scrittore compie nel 1903, quando raggiunge Tahiti per conoscere Paul Gauguin, stanziato da tempo nell'isola. Ma quando Segalen arriva il pittore innamorato della cultura polinesiana è già morto. Lo scrittore rimane per un anno sull'isola, dove constata amaramente il declino della cultura autoctona, devastata dal colonialismo politico e religioso. Il libro attacca l'essenza profonda dell'edificio coloniale: non soltanto l'espansione politica, ma anche l'azione dei missionari. Un atto d’accusa radicale ma lucido, una lettura indispensabile per coloro che seguono i problemi dei popoli indigeni. Anche se molti di loro non saranno sempre d'accordo con le idee dell'autore. Alessandro Michelucci
George-Daniel de Monfreid, Ritratto di Victor Segalen (1909)
Éveline Lot-Falck, I riti di caccia dei popoli siberiani, Adelphi, Milano 2018, pp. 230, € 30. Torna in libreria un capolavoro della letteratura etnologica francese, pubblicato originariamente da Gallimard nel 1951 e quindi in Italia dal Saggiatore nel 1961. L'autrice, responsabile della sezione del Musée de l'Homme dedicata ai popoli artici, è stata una figura fondamentale per gli studi sullo
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sciamanismo. Il libro ruota intorno ai grandi temi della caccia, qui intesa come attività economica e religiosa al tempo stesso. Quando Lot-Falck scriveva la caccia, ancora pratica viva presso le popolazioni autoctone, stava perdendo molta della sua importanza tradizionale a causa della russificazione dei popoli siberiani e per la loro inclusione nelle dinamiche economiche sovietiche. Gli aspetti rituali, legati a forme di pensiero derivanti dalle pratiche sciamaniche, erano relegate nell'ambito della superstizione, e come tali condannate dall'ideologia ufficiale, che considerava queste popolazioni arretrate e primitive. Se la caccia manteneva un ruolo economico, questa lo faceva nelle strutture pianificate dallo stato, come i kolkhoz di caccia, pesca e allevamento, dove lo sfruttamento economico delle risorse con strumenti moderni si accompagnava al declino delle credenze tradizionali. Seppur con mutamenti sostanziali, quel mondo che pareva condannato a scomparire è riemerso prepotentemente dopo la caduta dell'URSS, con il conseguente revival etnico dei molti popoli siberiani (Buriati, Ciukci, Samoiedi e Tungusi, tanto per citarne alcuni). In questo modo sono risorte anche le pratiche sciamaniche, trasformate e aggiornate per rispondere alle nuove esigenze degli abitanti di queste aree, oggi sottoposte a progetti di sfruttamento delle risorse come mai prima. Davide Torri Andrea Rigante, La lacrima dei Vedda. Sri Lanka, isola di un popolo dimenticato, Alpine Studio, Lecco 2018, pp. 181, € 15. Alcuni libri sono rilevanti, prima ancora che per il loro valore intrinseco, per il vuoto che colmano. Il volume di Rigante, dedicato ai Wanniyala-Aetto di Sri Lanka (meglio noti come Vedda), è uno di questi. Si tratta anche di una scelta controcorrente: gli indigeni dell'isola non esprimono movimenti politici o culturali degni di nota, così come compaiono assai raramente sulla stampa specializzata. L'autore "vive lo Sri Lanka da turista", si legge in quarta di copertina. Ma questo non significa che il suo approccio sia disimpegnato: al contrario, parla di discriminazione e di diritti negati, dimostrandosi capace di condividere i problemi quotidiani dei Vedda. Talvolta fa piacere leggere un libro che parla di popoli indigeni in modo lieve, con accenti tipici della letteratura di viaggio, ma non per questo meno stimolanti. Se vogliamo davvero che questi temi raggiungano il grande pubblico abbiamo bisogno di scrittori come Andrea Rigante, della sua passione sincera, della sua prosa agile e discorsiva. Giovanna Marconi Bikem Ekberzade, Standing Rock: Greed, Oil and the Lakota's Struggle for Justice, Zed Books, London 2018, pp. 232, £ 12.99. Donald Trump è stato eletto Presidente degli Stati Uniti l'8 novembre 2016. Da allora la stampa di tutto il mondo gli dedica un'attenzione costante, spesso per mettere in luce le sue posizioni molto discutibili su temi sociali ed economici. Diversamente da molti di coloro che l'hanno preceduto, il miliardario-presidente ha generato due fazioni ben distinte: da una parte, coloro che lo contestano senza appello, dall'altra coloro che lo ammirano e lo erigono a modello. Comunque quasi tutti dimenticano – o meglio, non vogliono vedere - la guerra che Trump aveva dichiarato ai Lakota di Standing Rock (North Dakota) autorizzando la costruzione di un gigantesco oleodotto (Dakota Pipeline, noto con la sigla DAPL) che è entato in attività nel giugno del 2018. Questo oleodotto passa vicino alle loro terre e quindi rischia di inquinarne le acque. Il culto spietato del profitto che anima l'azione politica di Trump (o per meglio dire, degli Stati Uniti) non può che entrare in rotta di collisione con i diritti degli Indiani. Non si tratta soltanto di diritti ambientali, ma anche culturali, territoriali e religiosi. Come se questo non bastasse, Trump è azionista della ditta che costruisce l'oleodotto…
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Il tema in questione ha avuto ampio risalto sulla stampa e sui siti che si occupano di questioni indigene. A questi si aggiunge ora il libro della fotogiornalista turca Bikem Ekberzade, già nota per alcune pubblicazioni dedicate al problema dei rifugiati. Non si tratta comunque di un libro fotografico, ma di un volume che ricostruisce accuratamente la protesta indiana (il cosidetto movimento NO DAPL) inserendola nel più ampio contesto dei rapporti fra gli Stati Uniti e i popoli indigeni. Nel terzo capitolo, per esempio, l'autrice analizza le tecniche utilizzate dal governo federale per impadronirsi delle terre indiaine e i progetti affini al DAPL. Schierato ma non manicheo, il volume documenta in modo serio e preciso la questione, facendo riferimento alle posizioni americane e alle testimonianze dei militanti indiani. Opera autorevole e di piacevole lettura, il libro meriterebbe una traduzione italiana. Chissà... Antonella Visconti Ariirau, Le Païen, Au vent des îles, Papeete 2017, pp. 352, € 20. Per lungo tempo le culture indigene erano state oggetto di disprezzo, di derisione, o nel migliore dei casi di totale disinteresse. Poi, negli ultimi 25-30 anni, la situazione è cambiata grazie a molti film, libri, iniziative politiche e culturali. Eppure un aspetto centrale delle culture autoctone è rimasto in ombra: la loro dimensione religiosa. Anche in Italia, dove il condizionamento della cultura cattolica induce a considerare positivamente la cristianizzazione forzata dei secoli passati. Ma non tutti hanno accettato lo sradicamento perseguito dalle religioni monoteiste. Uno di questi è Sunny Moana'Ura Walker, autorevole attivista polinesiano, al quale è dedicato il romanzo biografico Le Païen. Opera di Ariirau (Stéphanie Ariirau Richard), nata in Polinesia "francese" da padre bretone e madre tahitiana, il libro ripercorre la vita di Walker mettendo in evidenza lo sviluppo della sua spiritualità politeista, fortemente radicata nella cultura polinesiana. Da Tahiti alla Francia, dall'America all'Africa, la sua vita si sviluppa all'insegna della libertà e dell'integrità, con il culto degli antenati che rappresenta una guida costante. Sunny Moana'ura Walker rivendica orgogliosamente la propria identità religiosa. Non si ritiene superiore, ma afferma la propria diversità e ne reclama il rispetto. Un rispetto che oggi viene affermato spesso, ma poi disatteso in ossequio a ideologie politiche e religiose basate sull'intolleranza. Antonella Visconti
fROOTS compie 40 anni e cessa le pubblicazioni Nel luglio scorso la rivista inglese fRoots, bibbia della musica tradizionale e dei generi derivati, ha festeggiato 40 anni, ma purtroppo l'ha fatto nel modo peggiore: cessando le pubblicazioni (a sinistra, il n. 425). Una scelta inattesa, dato che la rivista fondata e diretta da Ian Anderson (da non confondere con l'omonimo leader dei Jethro Tull) godeva di un successo mondiale incontrastato. fRoots non si è limitato a svolgere una preziosa funzione informativa, ma ha collaborato a molte attività collaterali: concerti, dischi, mostre, etc. Non a caso Anderson è anche un musicista. La chiusura è dovuta ai soliti problemi economici, ma non è escluso che la rivista possa riprendere le pubblicazioni. In teoria un nome come questo dovrebbe trovare con una certa facilità l'aiuto economico necessario. Ce lo auguriamo vivamente.
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Nuvole di carta
Eric Basir, Badin and the Secret of the Saami, Photo Grafix, Evanston (IL) 2017, pp. 116, $ 45.00. Concepito e realizzato da Eric Basir, questo albo racconta una storia vera, quella di Basir, uno schiavo africano che fu adottato dalla regina svedese Louisa Ulrika di Prussia nella seconda metà del Settecento. L'insolita vicenda umana del protagonista si intreccia con quella del popolo sami, anche se non sono stati accertati dei contatti fra loro. Basir immagina un'alleanza fra l'indigeno africano e gli indigeni europei nel nome della lotta contro la discriminazione. I secondi non compaiono solo per vivacizzare la trama: Basir ne descrive i tratti culturali in modo accurato e preciso, manifestando un'aperta simpatia per le loro rivendicazioni. Il lavoro si basa sul diario del protagonista e su ampie ricerche storiche. Semplice e efficace il disegno, con una certa predilezione per le tinte forti. Giovanna Marconi Roberta Balestrucci Fancellu (testi), Anna Cercignano (disegni), Ken Saro Wiwa. Storia di un ribelle romantico, Becco Giallo, Padova 2018, pp. 136, € 17. Fino a qualche tempo fa l'interesse del fumetto per i popoli indigeni era stato limitato sostanzialmente agli Indiani de Nordamerica: salvo rari casi, storie di fantasia ambientate nel passato. Negli ultimi anni, invece, alcune case editrici, soprattutto francesi, hanno cominciato a cogliere gli spunti forniti dall'attualità, dando rilievo alle lotte indigene contemporanee. Una delle prime case editrici italiane a cogliere questi spunti è stata Becco Giallo. L'editrice padovana si è sempre caratterizzata per l'attenzione ai fenomeni sociali e storici, spaziando dal terremoto del Friuli alla Prima guerra mondiale, da Peppino Impastato all'alluvione di Firenze. Era quindi normale che pubblicasse questo lavoro originale dedicato alla vita di Ken Saro-Wiwa. L'attivista ogoni, impiccato nel 1995 dal governo nigeriano per la sua lotta contro lo sfruttamento selvaggio delle riserve petrolifere, è uno dei pochi indigeni che abbiano conquistato un certo rilievo mediatico, grazie anche all'impegno ecologista implicito nella sua azione nonviolenta. Il disegno è curato ma mai lezioso, i testi incisivi e perfettamente in linea con le circostanze che descrivono. Le due autrici si sono avvicinate a Saro-Wiwa con rispettosa curiosità. Emerge chiaramente la loro simpatia per la lotta dello scrittore ogoni, una delle più belle e sincere che i popoli indigeni abbiano espresso nel secolo scorso. Antonella Visconti
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La nona arte racconta la storia dei Mapuche I Mapuche si concentrano in Argentina e in Cile. La comunità più numerosa (1.500.000) si trova nel secondo paese, ma in entrambi la nona arte manifesta un crescente interesse per la loro cultura. Lo confermano quattro albi che sono stati pubblicati nell'ultimo anno. Cuando cae la noche. Relatos de Wallmapu (Noveno Sur, 2018, pp. 60) è una raccolta di storie basate sulla cultura mapuche, ma in modo insolito, dato che possono definirsi storie gotiche. I testi di Juan Carlos Painequeo e Nelson Lobos si fondono perfettamente con i bei disegni di Pipe Oliva. Leyendas del pueblo mapuche (Editorial Albatros, 2018, pp. 32) propone quattro storie per bambini che introducono i più piccoli alla ricchezza della cultura mapuche. I testi sono di Roberta Iannamico, mentre Walter Carzon firma i disegni. Un’opera realizzata con cura e con perizia. Félix Vega, uno dei principali fumettisti cileni, è invece l’unico autore di Duam: la pdedra de luz (Planeta Cómic, 2019, pp. 120). Questa storia affascinante ricca di magia e di umanità era stata pubblicata originariamente in Francia nel 2010 da Clair de Lune. Chiudiamo questa veloce ricognizione con una figura femminile, Janeuqueo, e tre maschili, Caupolicán, Galvarino e Lautaro, esponenti storici della resistenza antispagnola del sedicesimo secolo. I quattro formano il gruppo dei Guardianes del sur, ispirato agli Avengers della Marvel Comics. Le storie sono realizzate da Sebastián Castro (soggetti), Guido "Kid" Salinas (disegni) e Carlos Badilla (colori). Il primo numero è uscito nel settembre scorso, edito da Nük Comics. Parlare dei popoli indigeni significa anche parlare della loro resistenza plurisecolare contro il colonialismo europeo e il neocolonialismo odierno. Ma questi temi rischiano di restare monopolio di poche persone che conoscono le lingue straniere e nutrono un certo interesse per la materia. Allora ben venga il fumetto, che può raggiungere un numero maggiore di persone, compresi i giovani. Alessandro Michelucci
IL PREMIO NOBEL ALTERNATIVO A DAVI KOPENAWA Nel settembre scorso Davi Kopenawa, figura centrale del popolo yanomami, ha ricevuto il Right Livelihood Award (noto anche come Premio Nobel alternativo). Insieme a lui sono stati premiati la giovane ecologista svedese Greta Thunberg, Aminatou Haidar, attivista sahrawi, e Guo Jianmei, avvocatessa cinese impegnata nella difesa dei diritti delle donne. Il Right Livelihood Award è stato istituito nel 1980 da Jacob von Uexküll, filantropo ed ecologista tedesco, per premiare coloro che si distinguono nella difesa dei diritti ambientali, sociali ed educativi. In passato il riconoscimento è stato conferito varie volte a rappresentanti dei popoli indigeni, fra i quali Evaristo Nugkuag (aguaruna, 1986), Ken Saro-Wiwa (ogoni, 1994), Roy Sesana (san/boscimane, 2005) e Sheila Watt-Cloutier (inuit, 2015). Il premio conferito a Davi Kopenawa è un chiaro segnale di solidarietà nei confronti dei popoli amazzonici, gravemente minacciati dalla sciagurata politica liberista di Bolsonaro. Chi vuole conoscere meglio questa figura fondamentale del movimento indigeno contemporaneo può leggere il suo libro La caduta del cielo (Nottetempo, 2018), che abbiamo recensito nel n. 7-8.
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Cineteca
Anorac, regia di Gruffydd Davies, Gran Bretagna 2019, 99' (gallese con sottotitoli in inglese). Il risveglio musicale delle culture minoritarie è sempre più evidente. Il fenomeno non è limitato a quelle che possono far leva su un certo esotismo, ma include anche quelle europee. In ogni caso si tratta di culture che si esprimono in maniera moderna, utilizzando le nuove tecnologie e mettendo da parte quel complesso d’inferiorità che le ha frenate a lungo. Un esempio ideale è Anorac, un documentario dedicato alla nuova scena rock gallese. Attenzione però: gallese nel senso più pieno del termine, perché si tratta di artisti e opeatori culturali che utilizzano questa antica lingua celtica. Gallesi sono anche il regista Gruffydd Davies e l'autore del documentario, Huw Stephens. Questo giornalista di BBC Radio One ha percorso la sua regione, grande come la Puglia, alla ricerca di talenti più o meno affermati. Fra questi, il gruppo 9Bach, che incide per la Real World di Peter Gabriel; la cantante Gwenno; il rapper Mr. Phortuna; Georgia Ruth, cantautrice e arpista; il gruppo dei Super Furry Animals, il cui Mwng (2000) è il disco in lingua gallese più venduto in assoluto. Una pagina di storia musicale europea che merita di essere conosciuta. Antonella Visconti
centro di documentazione sui
POPOLI MINACCIATI Pubblicazioni La causa dei popoli (http://issuu.com/lacausadeipopoli) Rivista telematica quadrimestrale.
Pagina Facebook www.facebook.com/centropopoliminacciati Pubblica aggiornamenti su libri, riviste, conferenze, mostre, film e altre iniziative. Libri America indigena (1992) - I custodi della terra (1993) - Popoli indigeni popoli minacciati (1998) - Timor Est. Un genocidio dimenticato (1999) - Il sangue della terra. La lotta degli U’wa contro la Occidental Petroleum (2003). Bibliografia Per orientare i laureandi, i giornalisti e gli studiosi curiamo una bibliografia italiana (1966-oggi) che viene costantemente aggiornata.
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MAUNA KEA, UN VULCANO DI IDEE Salutiamo col massimo entusiasmo la nascita delle edizioni Mauna Kea, che daranno ampio spazio alle questioni indigene. Nata in luglio, la nuova iniziativa è guidata da Raffaella Milandri (nela foto sotto), autrice di vari libri sui popoli indigeni. L'ultimo, Gli ultimi guerrieri. Viaggio nelle riserve indiane, è quello che segna l'inizio della nuova casa editrice. La lunga esperienza di Raffaella e il suo interesse sincero per le culture indigene rappresentano una garanzia ideale. Il nome della casa editrice è quello del vulcano sacro ai Kanaka Maoli (indigeni hawaiiani), che da tempo è oggetto di una disputa fra gli scienziati che vogliono costruirci un grande telescopio e gli indigeni stessi. Mauna Kea nasce con le idee chiare e con una una serietà esemplare: patti precisi, diritti d'autore rispettati, nessuna richiesta di denaro agli autori, a meno che questi non optino per il self-publishing. I libri saranno pubblicati in versione cartacea ed elettronica. Inoltre sarà possibile sceneggiare il libro per l’adattamento cinematografico, che verrà curato da Andrea Cacciavillani. Mauna Kea cerca autori con nuove opere, editor, traduttori, grafici. Seguiremo con la massima attenzione questa nuova avventura editoriale, alla quale auguriamo successo e lunga vita. Non solo, ma speriamo di poter collaborare con gli amici che la promuovono, data la forte affinità ideale che ci unisce. Per inviare curriculum e/o proposte editoriali: Raffaella Milandri, tel. 0735-757457, info@maunakea.biz
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Gli autori di questo numero Marisa Cestelli ha scritto vari racconti che hanno ricevuto dei premi. Collabora con l'Assopace Palestina. Stephen Clear lettore di diritto costituzionale e amministrativo all’Università di Bangor (Galles/Gran Bretagna). Il suo articolo è tratto da The Conversation (31 luglio 2019), che ringraziamo per averci concesso di riprodurlo. Anna Di Giusto docente di Lettere a Firenze. Si interessa alla questione mediorientale e alle politiche migratorie. Ha scritto testi teatrali, articoli, racconti e sceneggiature sul tema dei diritti umani. Ha ottenuto alcuni riconoscimenti per racconti che trattano la condizione dei palestinesi. Ruby Hembrom scrittrice santal, fondatrice e direttrice della casa editrice Adivaani. Emily Nicol giornalista aborigena. Lavora per Koori Radio e per la National Indigenous Television. Si occupa di arte, musica e salute. Il suo articolo è tratto da Indigenous X (26 aprile 2018), che ringraziamo per averci concesso di riprodurlo Chiara Zappa giornalista, scrive per varie testate, fra le quali Avvenire e Mondo e Missione. Si occupa soprat-tutto di temi mediorientali. Ha pubblicato Noi, cristiani d'Arabia (EMI, 2011) e Mosaico Turchia (Terra Santa, 2014).
la causa dei popoli problemi delle minoranze, dei popoli indigeni e delle nazioni senza stato
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