La Madia Travelfood n. 337 - maggio 2019

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Mensile Sped. In Abb. Post. - Gruppo III° - 45% - Art.2 Comma 20/B Legge 662/96 - Fil. Forlì - Tassa Pagata - Taxe Perçue - Reg. Trib. Di Forlì N.653 - Del 14/6/84 - Dir. Resp. Elsa Mazzolini - La Madia Srl - Via Pacchioni, 365 - Cesena - Euro 4,00 - In caso di mancato recapito restituire al mittente che si impegna a pagare la relativa tassa

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ANNI

www.lamadia.com

ANNO XXXV Maggio 2019 - N. 337 - €E 4,00 Direttore ELSA MAZZOLINI

L'alta ristorazione in Italia e nel mondo

Mauro Uliassi | Matteo Baronetto | Terry Giacomello | Andrea Papa Gastón Riveira | Virgilio Martínez | Mauro Colagreco

LA MADIA EDITORE




SOMMARIO - LA MADIA TRAVELFOOD n. 337

GOURMETFOOD

VINARIA

pag. 31 L’ALTA RISTORAZIONE IN ITALIA E NEL MONDO

di

Alessandro Rossi

pag. 88 ANTEPRIMA BRUNELLO 2014 “Pensavo all’acqua che non è tempesta”.

Uliassi, Baronetto, Giacomello, Papa, Riveira, Martinez, Colagreco.

VINARIA

di

Mario Federzoni

VINARIA

pag. 92

pag. 94 QUANDO SI BRINDA “ALLA SALUTE”!

SANTA MASSENZA

Champagne e bollicine ci fanno bene e ci fanno stare bene.

Il borgo della grappa.

di

Gianluca Ricci


La scelta vegana La cannabis a tavola: gusto ed energia! di Silvia Bianco................................................................. pag. 8 Il menu engineering Cos’è, nell’immaginario comune, un menu? di Lorenzo Ferrari............................................................. pag. 14 EVO - L’olio extravergine di oliva Olio extravergine di oliva contraffatto? di Antonietta Mazzeo....................................................... pag. 18 Golavagando “Il Divo” a New York....................................................... pag. 22 Giuseppe Ricchebuono.................................................... pag. 23 Il San Giorgio a Roma....................................................... pag. 24 Klang a Roma................................................................... pag. 25 Enoteca Ristorante L’Alchimista di Anna Rita Pelaracci...................................................... pag. 25 Ristorante Giannino a Milano........................................... pag. 26 Emporio Armani Caffè e Ristorante a Milano................... pag. 27 Ristorante Riviera di Lisa Foletti.................................................................... pag. 28 Chef di Spirito Germogli di torzella di Sonia Leo..................................................................... pag. 76 Intervista a... Massimo Cifarelli di Lucy Gordan................................................................. pag. 80 Vinaria Il focus di Alessandro Rossi La fragilità della materia vino di Alessandro Rossi.......................................................... pag. 87 L’affinamento dello champagne di Mario Federzoni........................................................... pag. 91



EDITORIALE di

Elsa Mazzolini

COS’È L’ALTA RISTORAZIONE? Il concetto di alta ristorazione è opinabile? E casomai, se ne può parlare solo relativamente ai locali stellati e celebrati dalle Guide? Di conseguenza, quali sono i parametri per giudicarla tale? Nella lectio magistralis tenuta da Bottura a Bologna quando ricevette la laurea honoris causa, lo chef asserì che per la sua cucina “il riferimento è la cultura… ed è quella che cerca di rendere visibile e commestibile le invisibili connessioni tra natura, tecnologia e arti”. Ma chi è in grado di cogliere questi aspetti? In una intervista pubblicata mesi fa da Reporter Gourmet, lo chef Paolo Barrale dichiarava che “in Italia manca la clientela in grado di capire un determinato tipo di cucina e che riesca a stabilire se stai facendo una cosa buona o cattiva”. Dunque il concetto di cui sopra è percepibile solo da pochi, perdippiù colti e danarosi? In parte sì. È indubbio che esiste un problema culturale poiché, per capire il lavoro di un grande chef, ci vuole una conoscenza specifica e per frequentare certi locali ci vogliono tempo e soldi. Tuttavia soldi, stelle e voti non sono il viatico sicuro per creare uno spartiacque attendibile in quanto, come sosteneva Marchesi, “la passione non si mette ai voti, così come la cultura”. Chi dunque dovesse trovare arbitraria la scelta (ovviamente né ecumenica né esaustiva) che abbiamo fatto per disegnare un quadro dell’alta ristorazione, sappia che il parametro su cui ci siamo basati è unicamente quello della nostra esperienza e della nostra cultura nel settore. Così è...

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LA SCELTA VEGANA

a cura di

Silvia Bianco testimonial di cucina vegana

LA CANNABIS A TAVOLA: GUSTO ED ENERGIA!

SATIVA, INDICA E RUDERALIS: QUALI LE DIFFERENZE?

La pianta di cannabis appartiene alla famiglia delle Cannabaceae; al genere della Cannabis appartengono tre specie: Sativa, Indica e Ruderalis. Secondo alcuni, le varietà Indica e Ruderalis sono delle sottospecie della Sativa, mentre secondo altri in realtà sarebbero tre specie distinte. La pianta della specie Sativa (= utile) ha origine in Asia Centrale, ma anche in Paesi del centro America come Messico, Perù e zone tropicali; ha bisogno di climi molto caldi e necessita di molto tempo e tanta luce per fiorire. La pianta della Sativa è la varietà che lascia effetti più energizzanti, con proprietà anti-ansiolitiche e anti-depressive. Contiene più THC (Tetraidrocannabinolo) rispetto al CBD (cannabidiolo). Il THC è la frazione psicoattiva della cannabis e il CBD è quella non psicoattiva, utilizzata come medicinale. Di conseguenza la Sativa aumenta la serotonina prodotta dal cervello, con influenze a livello di concentrazione e creatività. Nota per le sue fibre, è molto utilizzata in agricoltura e nell’industria tessile. La pianta della specie Indica (= indiana) ha origini nel subcontinente indiano (Nepal, Tibet, India del nord); può crescere anche in climi meno caldi (ma non freddi!), ha una fioritura rapida ed una resa maggiore con gemme piú dense. La specie Indica contiene più CBD difatti aumenta il rilassamento mentale e muscolare, grazie alla stimolazione del cervello nella produzione di dopamina. La pianta della specie Ruderalis (=ruderale) è nativa della Russia e della Siberia: pianta piccola, robusta e legnosa, è una specie selvatica naturalmente povera di THC (1,2) e viene usata negli incroci per far aumentare la robustezza delle piante di altre specie. Questi i principali ceppi della Cannabis, dai quali vengono studiati incroci e da cui sono nate moltitudini di varietà con caratteristiche diverse ed adattate alle esigenze di mercato.

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LASCELTAVEGANA

LA CANNABIS FA BENE, LO DICE L’OMS Il 24 gennaio scorso, dopo un lungo lavoro di ricerca scientifica sugli usi terapeutici e sugli eventuali danni e pericoli derivanti dall’uso della cannabis, l’Organizzazione Mondiale della Sanità (Oms) ha inviato all’ONU e alla CND (Commission on Narcotics Drug) la sua raccomandazione che la cannabis venga rimossa dalla IVª tabella della Convenzione sulle droghe del 1961, riservata alle sostanze considerate più pericolose come eroina e cocaina e di valore medico o terapeutico estremamente ridotto, e che il principio attivo del THC venga tolto dalla Convenzione del 1971, e riclassificato alla tabella I della Convenzione del 1961, Stando ai risultati della ricerca, secondo l’OMS non sembra che la cannabis possa avere effetti negativi paragonabili alle altre sostanze presenti nella IVª tabella e ne ha invece sottolineato la potenzialità terapeutica per curare e alleviare sintomi di varie patologie, in particolar modo il dolore cronico e altre malattie come l’epilessia e la sclerosi multipla. In aggiunta, sottolinea come il THC abbia effetti simili alla cannabis e alla resina di cannabis, motivo per cui ha senso che queste sostanze abbiano la stessa classificazione. Il THC (delta-9-tetraidrocannabinolo) e il CBD (cannabidiolo) sono due cannabinoidi che si trovano nella cannabis sativa, ed entrambi hanno effetti sui recettori del corpo e del cervello umano. Il THC è il principale componente psicoattivo della cannabis, responsabile per la sensazione di «high» ottenuta. I suoi effetti possono includere rilassatezza, alterazioni dei sensi, appetito, fatica e aggressività ridotta. Il THC può anche aiutare nel contrastare gli effetti negativi della chemioterapia e della sclerosi multipla. Il CBD non è psicoattivo anche se ha la stessa formula chimica del THC. È quindi possibile utilizzarlo per fini terapeutici senza riscontrare effetti significativi sulle abilità cognitive. Può aiutare nel contrastare il dolore cronico e la depressione. L’OMS dichiara che non si conoscono effetti negativi del cannabidiolo (CBD), che può essere invece usato a scopo medico; ad esempio, ne è già stato riconosciuto l’uso negli Stati Uniti come trattamento per l’epilessia infantile. È importante ricordare come nonostante sia vietato dalle convenzioni internazionali, un numero crescente di legislazioni a livello statuale negli Usa e in Paesi come Uruguay, Canada, Messico e Jamaica stiano legalizzando la cannabis per usi non medico-scientifici, mentre cresce sistematicamente il numero di Stati che ne permettono l’uso terapeutico come l’Italia. La proposta di riclassificazione della cannabis era una notizia attesa da tutti coloro che da anni si battono per una regolamentazione della produzione, consumo e commercio della pianta della cannabis Indica e dei suoi derivati. La proposta non è stata messa ai voti durante l’ultima sessione del 18 Marzo della

Commission on Narcotic Drug, in quanto la comunicazione della raccomandazione è giunta solo due mesi prima e quindi fuori tempo limite di almeno tre mesi previsti dalla regolamentazione in materia di classificazione delle sostanze. Nonostante ciò, la presa di posizione dell’OMS sulla cannabis parla chiaro e pone gli Stati di fronte alla responsabilità di rispondere con norme adeguate. (Fonte www.forumdroghe.it)

GRAZIE ALLA CANNABIS LEGALE, AFFIORANO I PRODOTTI DI CANAPA La canapa viene utilizzata con diverse applicazioni da migliaia di anni. La sua coltivazione in Italia iniziò a svilupparsi maggiormente dal XVIII° secolo, momento in cui si intensificarono le coltivazioni anche grazie al massiccio impiego tessile, edile e fu persino utilizzata per la produzione di carburante. Si introdusse la varietà Sativa anche in cucina, ma avevano tutte un bassissimo, se non nullo, contenuto di THC. La produzione di canapa subì una battuta di arresto mondiale con l’introduzione del cotone e dei materiali sintetici e quando fu dichiarata illegale negli Stati Uniti. Con il sopraggiungere della “cannabis light” o “marijuana legale” ed in certi casi della completa legalizzazione della cannabis, che sta interessando diversi stati del mondo, si ha avuto come effetto diretto il ritorno della canapa e di tutti i suoi derivati sul mercato. Il conseguente business sta crescendo ogni giorno sempre di più e vede la canapa come materia prima di base per la realizzazione di diversi prodotti che variano dal settore alimentare, a quello tessile, alla bioedilizia e ora affronterà il suo utilizzo anche a scopo terapeutico. La cannabis è davvero un prodotto tanto versatile quanto vantaggioso in termini di sostenibilità ambientale, in quanto richiede un impiego di risorse nettamente inferiore rispetto al cotone: ha una forte resistenza agli stress climatici, adeguandosi con estrema facilità ai climi più disparati, non richiede molta acqua e tantomeno sostanze chimiche come erbicidi o pesticidi per la sua crescita. Di fatto, è sempre stata coltivata in vasti campi, solo successivamente, quando fu dichiarata sostanza illegale, veniva coltivata al chiuso, illuminata con luci artificiali, con sistema idroponico, ma questo tipo di coltivazione ha un forte impatto ambientale a causa degli alti consumi energetici. Oggi che è tornata “legale” bisognerebbe spingere per una coltivazione biologica sui campi, utilizzando fertilizzanti naturali vegetali in modo da ridurre l’impatto sull’ambiente ed incrementarne la qualità.

CANNABIS DA MANGIARE Il seme della canapa è il custode della sua versatilità in cucina. Neanche a dirlo, sono le piante femmine a dare semi con la

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LA SCELTA VEGANA

polpa più preziosa, ricca di sostanze nutritive ed estremamente lavorabile. I semi sono ricoperti da una buccia piuttosto coriacea che protegge il seme, permettendogli di mantenere inalterati i valori nutrizionali sino al suo utilizzo. Una volta che i semi vengono raccolti e privati della loro buccia, possono essere consumati interi o inseriti all’interno di preparazioni, come biscottini, barrette energetiche, zuppe, cracker, etc... Non è tutto: i semi possono essere macinati per ottenere una farina naturalmente senza glutine, adatta a svariate preparazioni per impasti sia dolci che salati. Dai semi, costituiti al 75% da grassi, si può ricavare un ottimo olio, a livello nutrizionale ed organoletticamente equilibrato, molto aromatico, dalle note nocciola e lievemente amare per il suo contenuto di clorofilla che ne denota anche il suo colore verde acceso. Le proprietà energetiche del seme di canapa sono eccezionali oltre che nutrizionalmente bilanciate e complete: le proteine corrispondono al 25%, sono complete di tutti gli otto aminoacidi essenziali; i grassi insaturi della famiglia degli omega 3 e 6 coprono il restante 75%, sono acidi polinsaturi importantissimi nella prevenzione di malattie cardiovascolari, del colesterolo, per l’artrosi e a tutela del sistema respiratorio. A livello di vitaminie e minerali, da non sottovalutare l’alto contenuto di vitamina E e dei sali come calcio, magnesio e potassio. Il mercato della canapa in campo alimentare è in continua espansione, la troviamo nelle più disparate forme che vanno dai biscottini, alle caramelle gommose, ai cioccolatini, ai dolcetti come brownies, torte e persino panettoni, fino agli infusi. I prodotti a base di canapa stanno riscuotendo enorme successo proprio perché si può beneficiare delle sue proprietà nutritive senza le possibili controindicazioni date, ad esempio, dal suo utilizzo a scopo ricreativo.

ANCHE IL VINO VUOLE LA SUA CANAPA Oltre al campo gastronomico, anche quello enologico è stato conquistato dalla canapa. Canavì è il primo vino italiano e d’Europa alla cannabis prodotto nelle Marche e nato dalla collaborazione con l’azienda Canapa Verde e la cantina Monte Schiavo prendendo ispirazione dalla California, dove producono questo tipo di prodotto già da qualche tempo. In realtà, tecnicamente non si può definire vino, piuttosto bevanda aromatizzata alla cannabis (per infusione) in uve da verdicchio marchigiano, ma chi lo ha provato assicura sia speciale!

LA CANNABIS UN VALIDO AIUTO ANCHE PER GLI ANIMALI? Le proprietà positive del CBD (e quindi non psico attive), sembrerebbero essere efficaci anche su cani e gatti, e non solo

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sull’uomo. Parrebbe che qualche goccia di olio di CBD già utilizzato a scopo terapeutico sull’uomo per placare dolori, ansia e per stimolare l’appetito, siano altrettanto efficaci per i nostri cani e gatti, senza controindicazioni, sebbene con dosaggi e modalità di assunzione diverse. In realtà non ci sono ancora delle comunicazioni ufficiali da parte degli esperti, ma anche questa è materia di studio e le premesse per una sua evoluzione ci sono tutte. In caso di dubbi, prima di somministrare qualsiasi sostanza ai vostri amici pelosi, consultate il vostro veterinario di fiducia che saprà sicuramente indicarvi la strada migliore.

UNA VALIDA ALTERNATIVA ALLA PLASTICA Grazie all’idea di due giovani siciliani, Giovanni Milazzo e Antonio Caruso, è nata la start up “Kanèsis” che produce bioplastiche derivate dall’unione della canapa ad altri materiali di scarto vegetale. Kanèsis propone una plastica ecosostenibile e 100% compostabile che s’immette nel già presente mercato delle bioplastiche con amido di mais e canna da zucchero, ma con una marcia in più, essendo la canapa costituita principalmente da cellulosa e pertanto molto più versatile rispetto ad altre bioplastiche. Inoltre beneficia di una coltivazione a ridottissimo impatto ambientale, riducendo drasticamente le emissioni di anidride carbonica. “HempBioPlastic” HBP, è il nome del filamento della canapa di colore marrone naturale, senza coloranti industriali, atossico, leggero, resistente e soprattutto biodegradabile. Il primo prototipo risale al 2015 e si basa sul concetto di economia circolare e sostenibile, ovvero realizzare un prodotto industriale con materiali provenienti dalla Terra e rispettosi della Terra stessa. Proprio come fu per la “Hemp Body Car“, il prototipo di automobile progettata da Henry Ford nel 1932 con telaio e carrozzeria realizzati grazie alla lavorazione di semi di soia e canapa. Oggi più che mai, l’intuizione di Ford si rivela una necessità: i nostri mari ed i suoi abitanti sono in estremo pericolo: si calcola che in meno di 30 anni avremo gli oceani abitati da plastica invece che pesci. Siamo già nel pieno sconvolgimento dell’ecosistema terrestre!

LA SFIDA ECOSOSTENIBILE, OLTRE ALLA PLASTICA, LA CARTA DI CANAPA L’uso della fibra di canapa per produrre carta risale a più di 2mila anni fa; le prime copie della Bibbia di Gutemberg, realizzata tra il 1453 e il 1455, furono realizzate proprio con la pasta di canapa,


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così come la Dichiarazione di Indipendenza degli Stati Uniti d’America del 1776 e la Costituzione Francese del 1791. La qualità della carta di canapa è eccezionale perché è una carta sottile, molto resistente e durevole nel tempo, rispetto a quella prodotta da altre piante. Inoltre non richiede sbiancanti chimici per via della polpa già naturalmente chiara. Altro fattore da non trascurare è che la coltura della pianta di canapa é eticamente ed ecologicamente piú vantaggiosa per l’ambiente e l’uomo: a parità di quantità rispetto alle piantagioni di cotone o di lino, la canapa produce cellulosa quattro volte tanto, al contempo necessita meno acqua per la crescita ed assorbe maggiori quantitá di anidride carbonica. In italia Sandro Tiberi, artigiano della storica cartiera di Fabriano, ha in progetto di avviare una filiera per la lavorazione della cellulosa di canapa, utilizzando esclusivamente materie prime italiane. L’idea è in collaborazione con il Comune di Fabriano per la raccolta fondi. Un progetto che ci auguriamo possa partire molto presto, contribuendo di fatto alla diminuzione delle pratiche di disboscamento Che tutte queste “nuove” forme della cannabis siano la chiave per un cambiamento vero di approccio alla canapa - sostanza tanto demonizzata per i suoi effetti ricreativi per condurci invece ad un utilizzo più diffuso, sostenibile, consapevole e di salvaguardia del nostro ecosistema?

A BRIGHTON, IL PRIMO RISTORANTE VEGANO CON CANNABIS Il 1 Dicembre 2018 è stato inaugurato a Brighton in Inghilterra “The Canna Kitchen”, il primo ristorante 100% plant based che vanta l’utilizzo della cannabis tra gli ingredienti primari della sua cucina, una cucina sana, vegana ma con il tocco speciale della

cannabis. Sam Evolution, il proprietario del ristorante, ha intrapreso questa scelta per cambiare la percezione di molte persone rispetto alla cannabis vista unicamente come sostanza ricreativa. La canapa è una pianta nutriente, versatile, ricca di sapori e profumi e dai naturali benefici terapeutici. “LET FOOD BE THY MEDICINE” cioè “LASCIA CHE IL CIBO SIA LA TUA MEDICINA” è lo slogan di The Canna Kitchen, con la mission di mostrare la canapa sotto vesti diverse, proponendo dei piatti belli da vedere, sani, rispettosi e che fanno bene. La cucina del ristorante utilizza solo ingredienti vegetali, naturali, freschi e di provenienza locale e biologica laddove possibile, e piante di cannabis contenenti i fitocannabinoidi CBD (cannabidiolo), CBG (cannabigerolo) e CBN (cannabinolo), con un livello di THC che rientra nei limiti consentiti dalla legge. Una cucina alternativa solo in apparenza, perché in fondo sfrutta la materia prima offerta dalla terra. Il menu è principalmente vegano con opzioni vegetariane, molto creativo, con opzioni gluten free e varia a seconda dei momenti della giornata. Tra le delizie vegane del Canna Kitchen troviamo Tofu o tofu burmese (a base di ceci) strapazzato con cipolle, pane a lievitazione naturale, cipolle, avocado, pesto di canapa e semi di girasole; carote affumicate con blinis di canapa e grano saraceno, spalmabile al cocco ed olio di canapa aromatizzato all’aneto e barbabietole fermentate; budda bowl energetiche e ben bilanciate; zuppe del giorno servite con pane a lievitazione naturale e olio di canapa; brownie di canapa con gocce di cioccolato servito caldo con salsa di cioccolato CBD terpene, nocciole caramellate e gelato alla vaniglia e canapa. Abbasso quindi stereotipi e pregiudizi: The Canna Kitchen conduce verso un’esperienza di benessere psico-fisico!

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Chef Sara Samuel - Cucinandosuruote.it

BRUTTI MA BUONI CANAPOSI INGREDIENTI ml. 150 di acqua faba, g. 160 di zucchero a velo, succo di limone, semi di canapa, nocciole, mandorle, scorza di agrumi, infiorescenza secca di canapa.

CUCINANDO SU RUOTE: È IN ITALIA LO STREET FOOD GOURMET CON CANAPA Sara Samuel, una ragazza solare ed energica, è alla guida di Gigetta, un furgone tutto rosa che attraversa l’Italia proponendo ricette gourmet che hanno come protagonista nientepopodimeno che la canapa in tutte le sue varianti: semi, latte, farina, olio ed infiorescenze. La passione di Sara per la canapa è data proprio dalla possibilità di usarla in mille modi anche in cucina, avvalendosi delle sue proprietà benefiche senza l’effetto “high” a cui molti tendenzialmente associano gli effetti di questa pianta. Le avventure di Gigetta, e quindi di “Cucinando Su Ruote” iniziano nel 2014, dopo due anni nella cucina di in un ristorante, Sara decise di diffondere la cultura della cucina su ruote, con l’obiettivo di avvicinare sempre più persone alla cucina vegetale, nel rispetto di tutti: animali, ambiente e uomo. I suoi piatti sono semplici, colorati, con tocco gourmet, privi di soia, non utilizza seitan o surrogati, ma predilige un attento lavoro con frutta, verdura, cereali e legumi di stagione ed italiani e ovviamente la canapa, pianta dai mille usi, che fa bene alla terra e all’uomo. Oltre ad alcuni festival di streetfood, trovate Sara e la sua Gigetta ad eventi, dove la cucina è di contorno ad un altro evento e ciò le permette di proporre piatti più ricercati e a raccontare storie. Sara ci confessa anche che dopo anni in tour sente il bisogno di cambiare, non di fermarsi fissa in un posto, ma cambiare il suo modo di divulgare, non solo quindi una scelta ed un tipo di cucina, ma un modo di stare.

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Procedimento Montare con frullino elettrico l’acqua faba in una capiente ciotola, aggiungere qualche goccia di limone e, man mano che monta, lo zucchero a velo sino ad ottenere un impasto fermo e lucido. Intanto preriscaldare il forno a 100°C. A parte preparare semi di canapa leggermente tostati, nocciole e mandorle tagliate grossolanamente, la scorza degli agrumi. Incorporare la montata al trito, poco alla volta. Con un cucchiaio fare dei piccoli mucchietti sulla placca e infornare per almeno 1 ora e mezzo (il tempo varia secondo le dimensioni).



IL MENU ENGINEERING

a cura di Lorenzo Ferrari Direttore Marketing di RistoratoreTop

COS’È, NELL’IMMAGINARIO COMUNE, UN MENU? “Menu” è una parola che nell’uso corrente sta a significare l’oggetto “fisico” dal quale i clienti scelgono cosa mangiare all’interno di un ristorante. Va da sé che viene quindi considerato dalla maggior parte dei ristoratori, erroneamente, come una sorta di listino prezzi, un “qualcosa” dentro al quale scrivere quali piatti la cucina del ristorante è in grado di preparare, e quanto denaro è necessario investire per farli gustare. Ma è davvero solo questo? No. Il menu è uno strumento molto più complesso, variegato e composito. Tre le sue parti fondamentali: il cosa, il come e il perché. Vediamole nello specifico: 1. COSA inserire a Menu. Siamo d’accordo sul fatto che sia impossibile che un cliente ordini una carbonara dal menu se prima questa non è stata pensata, ideata, testata e infine inserita. Qualsiasi piatto, prima di essere inserito sul menu, e quindi scelto da un qualsivoglia cliente, va “pensato”! Ecco, la componente “cosa” comprende tutti i piatti che hanno passato con successo quel processo di ideazione, test e inserimento. È in sostanza la parte creativa, laterale, intuitiva, estrosa che riguarda il menu. Di norma il “cosa” è la componente preferita di chiunque si occupi di ristorazione in Italia, e va da sé che sia la parte sulla quale chiunque si concentra maggiormente.

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Di solito questo passaggio è delegato alla cucina, oppure è il ristoratore stesso che se ne occupa, specialmente se è un appassionato della disciplina. Una volta che questo processo è stato ripetuto per ogni piatto e per ogni bevanda, si passa alla seconda componente, quella del “come”. 2. COME inserire i piatti a Menu. Una volta determinati quali saranno i piatti da inserire sul menu, c’è da capire come questi verranno chiamati e descritti e, in un secondo momento, quale design dovrà avere il menu nella sua complessità. Per quanto riguarda nomi e descrizioni, la disciplina che regola queste tematiche prende il nome di Menu Copywriting. Perché c’è differenza tra mettere sul menu una: Margherita - 5€ E una: Margherita 3019 La margherita del prossimo millennio. Con crema di mozzarella di bufala DOP, filetti di pomodoro San Marzano e gel di basilico al ghiaccio - 10€. Per quanto riguarda design, estetica e layout, la disciplina chiamata in causa è il Menu Design. C’è anche in questo caso differenza tra il gettare in mano ai clienti un menu stampato in ufficio su un foglio A4 da 80 grammi al metro quadro e consegnare tra le mani del cliente una tavoletta di cedro con pinza in ottone e fogli di pregiata fattura. Per molti - soprattutto tra chi ci segue o si è appassionato al Me-


nu Engineering - la componente “come” sembra essere il punto focale di tutto, tanto che molti confondono il menu (nella sua totalità) per il “come” è fatto il menu. Invece non è così. Il “come” è solo una delle tre parti. Ma c’è una terza tipologia di menu (che sono quelli che fanno veramente la differenza tra risultati di poco conto e risultati “game changing”), e questi menu si concentrano specialmente sulla terza componente. E lo fanno prima di concentrarsi sulle altri due. La terza componente è il perché. 3. PERCHÉ inserire i piatti a Menu. Quando chi scrive domanda “Perché avete inserito quel piatto sul menu?”, di solito il perché è inesistente. Non lo sa nessuno: ristoratore, cuoco, capo sala, lavapiatti, tutti si guardano con sguardo attonito, come a cercare risposte da chi, risposte, non le ha. A volte un perché c’è, ma non è sufficiente. Infatti mi si risponde spesso che il piatto è a menu perché… • Ispirazione. In un momento di relax la mente girovagava, e si è soffermata sull’idea di un nuovo piatto. Impossibile resistere! • Necessità. Ingredienti in scadenza, alcuni avanzi del giorno prima da riutilizzare: l’occasione fa l’uomo ladro. • Convenienza. Qualche fornitore abbassa determinati prezzi, c’erano particolari offerte sul mercato e sarebbe un peccato non utilizzarle. • Ecc ecc Queste - e tantissime altre - sono tutte motivazione lecite e comprensibilissime, ma non valide. Non sono sufficienti. Le uniche due ragioni che si reputano valide affinché un piatto vada inserito a menu sono queste: A) La prima riguarda il Marketing, e cioè che quel piatto deve darti dei vantaggi in termini di visibilità, di riconoscibilità del tuo brand, di coerenza con la propria Identità Differenziante, di differenziazione e memorabilità rispetto a tutti gli altri che si hanno sul menu e rispetto a tutti quelli presenti sui menu dei concorrenti. B) La seconda riguarda la Vendita, e cioè che quel piatto deve far guadagnare quanto si crede sia giusto, e questo “giusto” deve essere almeno “di più della media di tutti gli altri piatti presenti a menu”. Si seguano questi semplici passaggi la prossima volta che si decide di inserire un piatto a menu, e il cassetto, così come i clienti finali, ne gioveranno. Si pensi prima al “perché” e poi a tutto il resto!




a cura di Antonietta Mazzeo Tecnico ed Esperto degli Oli d’Oliva Vergini ed Extravergini

OLIO EXTRAVERGINE DI OLIVA CONTRAFFATTO? L’olivicoltura italiana rappresenta un settore produttivo strategico per il Made in Italy agroalimentare e per le economie locali, essendo presente in quasi tutte le Regioni, caratterizzandone il paesaggio ed assicurando la produzione di oli di oliva extravergini di elevata qualità. La contraffazione nel settore costituisce un caso di notevole rilevanza, sia per l’importanza della produzione dell’olio nel panorama delle produzioni agroalimentari italiane di qualità, sia per la gravità dei fenomeni di adulterazione e frode in essere; secondo le ultime stime, l’olio extravergine di oliva è uno dei prodotti immessi sul mercato più “falsificato” al mondo: quasi il 70% dell’olio commercializzato nel nostro Paese può considerarsi adulterato. Malgrado una posizione di assoluto rilievo (500-550 mila tonnellate/ anno), le avversità che da alcuni anni intaccano la produzione dell’olio d’oliva, i cambiamenti climatici, le malattie e i parassiti (Xylella e mosca olearia) hanno un impatto rilevante sul raccolto. La somma di questi fattori ha portato a una contrazione dei volumi, in ragione della quale l’Italia è scivolata dal secondo al terzo posto nella classifica dei Paesi produttori, dopo la Spagna e la Grecia. La produzione totale interna di olio di oliva, che varia ogni anno, non basta a soddisfare il fabbisogno nazionale, il nostro Paese ha bisogno di acquistare all’estero gli oli di oliva, necessari ad alimentare il consistente consumo interno, nonché l’industria olearia; ogni anno dalle 300 alle 400 mila tonnellate di olio di oliva straniero di Grecia e Spagna, ma anche di Tunisia, Turchia, Marocco, arrivano nel nostro Paese per essere in parte “riciclati” come italiani sugli scaffali di supermercati e negozi, e paradossalmente in parte per ripartire, destinati all’esportazione. La maggior parte deli oli extravergini di oliva immessi nei circuiti della grande distribuzione Europea, Italia inclusa, è costituito da un blend di oli italiani, comunitari ed extracomunitari. Le frodi e

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le contraffazioni più frequenti nel settore dell’olio riguardano la trasformazione di olio vergine in olio extravergine, attraverso tecniche chimiche di laboratorio che consentono l’acquisizione delle caratteristiche organolettiche di tale prodotto d’eccellenza, ovvero miscelando materie prime scadenti e non commercializzabili come olio extra vergine. In particolare, attraverso la tecnica della deodorazione, un olio di oliva avente inizialmente caratteristiche qualitative e compositive non conformi a quelle previste dalla legge per l’olio extravergine (con operazioni che consistono nell’arricchimento di oli vergini d’oliva o oli lampanti raffinati) è poi commercializzato come olio extravergine di oliva. Altro fenomeno frequente di contraffazione in senso lato, nel settore dell’olio d’oliva e in generale dei prodotti del settore agroalimentare, è rappresentato dal cosiddetto “italian sounding”, ossia pratiche di produzione e commercializzazione, essenzialmente all’estero, di oli aventi una falsa evocazione dell’italianità del prodotto. Si utilizzano nomi, simboli, colori, oppure si fanno imitazioni di denominazioni geografiche o utilizzo di immagini ed etichette che ingannano i consumatori circa l’italianità dei luoghi di origine della materia prima, senza tuttavia realizzare una fraudolenta utilizzazione o falsificazione di segni distintivi di prodotti di aziende italiane o di marchi collettivi DOP e IGP. Ognuno di noi, così come dovrebbe fare per altri alimenti di uso quotidiano, dovrebbe conoscere e informarsi sulla qualità dell’olio che porta a tavola, imparare a leggere le etichette ed avere le idee chiare su cosa acquista. Impariamo dunque a riconoscere e scoprire un falso olio extravergine di oliva: • IL PREZZO Il valore dell’olio aumenta a seconda della provenienza territoriale e ovviamente della qualità. Se si vuole acquistare un buon extravergine


italiano, bisogna fare attenzione ai prodotti venduti a meno di 10 euro al litro, che non coprono nemmeno i costi di produzione. • CONTROLLARE LA CLASSIFICAZIONE Sono quattro le categorie principali dell’olio che ogni consumatore dovrebbe conoscere. Olio extravergine di oliva Olio la cui estrazione da olive sane avviene solo mediante procedimenti meccanici, con acidità massima dello 0,8%. L’esame organolettico rileva che non ha difetti e che possiede sentore di vegetali. Per meritare infatti la definizione di “extravergine” un olio di oliva deve essere sottoposto a diversi test, raggruppati sotto il nome di panel, e rispondere a parametri ben precisi, definiti rigidamente dalle linee guida dell’Unione Europea. Olio di oliva Olio estratto in modo meccanico dalle olive, con percezione leggera di difetto e acidità che deve essere minore del 2%. ( non percettibile) Olio lampante Olio ottenuto tramite estrazione con soli metodi meccanici, ma non è utilizzabile per il consumo alimentare, con acidità superiore al 2%. È sgradevole al gusto e all’odore; un tempo veniva impiegato come combustibile nelle lampade per l’illuminazione domestica.. Olio di sansa di olive La sansa è lo scarto restante dall’operazione di estrazione dalle olive. L’olio ottenuto, di sansa, grezzo e poi raffinato, viene estratto industrialmente per mezzo di solventi chimici; non è commestibile, lo diventa solo dopo l’aggiunta di olio di oliva vergine. • IL PROFUMO L’olio è buono quando è caratterizzato dall’aroma di “fruttato d’oliva”, un odore fresco e gradevole che ricorda l’oliva, la foglia di ulivo

sfregata tra le mani, l’erba appena falciata ed eventuali note che ci ricordano la foglia di pomodoro, il carciofo e/o odori di vegetali e/o di frutta verde quali la mela o i frutti di bosco. • IL SAPORE Assaggiandolo dà una sensazione gustativa di amaro e/o piccante. Queste sensazioni sono dovute alla presenza di composti fenolici, antiossidanti naturali che proteggono l’olio durante la conservazione e proteggono le nostre cellule dall’invecchiamento e dallo stress ossidativo (bloccano i radicali liberi). L’amaro-piccante dell’olio (“olio che pizzica in gola”), è quindi un vero e proprio pregio del prodotto. • LA SCADENZA L’olio extravergine contenendo una quantità maggiore di antiossidanti, se ben conservato, può durare circa 18 mesi dal confezionamento. Il valore e la dimensione delle frodi dipendono da diversi aspetti. Il mercato dell’olio risulta particolarmente colpito dal fenomeno, ma questo non ci deve indurre a pensare che le verifiche non ci siano: il problema è conosciuto proprio perché il settore è controllato. Il fenomeno della contraffazione evidenzia, invece, quanto ci sia ancora da fare nel campo della divulgazione, dove il settore oleicolo deve investire ancora molto. L’olio extravergine di oliva è poco conosciuto per le sue reali qualità e la comunicazione è più spesso scandalistica, focalizzata sulle frodi e le illegalità, danneggiando fortemente la “reputazione nazionale”. Dovremmo, in egual misura, essere capaci di comunicare, come già avviene per il vino, anche la qualità, il valore unico, nutrizionale, sensoriale e culturale dell’olio extravergine di oliva e il suo legame con il territorio.




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A NEW YORK HA APERTO

“IL DIVO”

IN OMAGGIO A RODOLFO VALENTINO Nel gennaio scorso ha aperto a New York City il ristorante italiano IL DIVO, ispirato alla figura dell’attore Rodolfo Valentino, a cui i due soci Antonio Sinesi e Claudio Della Monica hanno voluto dedicare questo e il primo ristorante di Milano “Al Valentino”, aperto nel 2004 e molto noto in città. I due soci hanno scelto la Grande Mela come sede dell’apertura del secondo ristorante, mossi dal sogno imprenditoriale di conquistare la città americana con una location unica e signorile, ispirata alla vita dell’attore e alla sua apprezzata eleganza. A rendere l’esperienza culinaria esclusiva e raffinata sono lo stellato Michelin Massimo Sola, Corporate Chef, e l’Executive Chef Matteo Limoli. IL DIVO è situato nel cuore dell’Upper East Side (71st Street and 2nd Avenue).

Curato nei minimi dettagli, il ristorante di New York offre il giusto bilanciamento tra la qualità della cucina italiana e il glamour newyorkese. L’ambiente e il design sono stati curati personalmente da Antonio Sinesi che ha scelto mobili antichi, lampadari e poster originali delle pellicole di Rodolfo Valentino per immergere i commensali nelle atmosfere degli anni ‘20. Il ristorante è dotato di 50 posti a sedere, oltre ad altrettanti posti aggiuntivi collocati all’esterno e vuole offrire ai clienti newyorkesi un’autentica cucina italiana, delicata e ricercata, accompagnata da una perfetta selezione di vini.

IL DIVO

1347 2nd Ave, New York, NY 10021

Tel: +1 (212) 380-8164 www.ildivo.restaurant

reservation@ildivo.restaurant

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GIUSEPPE RICCHEBUONO RADDOPPIA E RILEVA LO STORICO RISTORANTE NAZIONALE A NOLI Nato nel 1916 come bottiglieria, tramandata dalla famiglia Gambetta alla famiglia Pistarino, che la trasforma in ristorante, il Nazionale nel 1950 passa ai coniugi Fontana, per restare nella loro famiglia fino a oggi. Nel 1966 infatti subentrano la figlia Stefania con il marito Pierantonio Bozzo, saldamente al timone del ristorante fino alla recente decisione di cederne la gestione allo chef Giuseppe Ricchebuono. “Ricordo ancora il sapore e i profumi dei cibi che i miei genitori mi hanno fatto scoprire già in tenera età proprio in questo luogo” ha dichiarato Ricchebuono. “Pensare che ora sarò io con la mia famiglia a portare avanti questa attività mi emoziona particolarmente” ha aggiunto.

“Conosciamo Giuse da quando, ancora bambino, veniva al ristorante insieme ai suoi genitori”, racconta Stefania Fontana. “L’abbiamo visto crescere nella vita privata e professionale. Proprio perché lo conosciamo bene o lo stimiamo, come uomo e come professionista, abbiamo pensato a lui per dare continuità alla nostra attività, non potendone portare avanti la tradizione

NAZIONALE

Corso Italia, 37 - (S.S. Aurelia) 17026 Noli (SV)

Tel. +39 019 7488 87

www.ricchebuonochef.it

nazionale@ricchebuonochef.it

nell’ambito della nostra famiglia” ha concluso la signora Fontana. “Lasciamo a lui un pezzo molto importate delle nostre vite, oltre che del nostro lavoro, con la certezza che la tradizione e la qualità che negli anni hanno contraddistinto la nostra cucina, con Giuse saranno in ottime mani” ha aggiunto Pierantonio Bozzo, cuoco e capo carismatico alla guida delle cucine del Nazionale per 52 anni. Chef presso il Ristorate Vescovado a Noli dal 2009, Ricchebuono ha già pensato a un menu fedele alla storia e alla tradizione del Nazionale, con una cucina classica di mare, leggermente rivisitata e integrata con qualche innovazione in “stile Ricchebuono”, con piatti d’autore in un contesto informale e accogliente, che “sa di casa”.

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APRE A ROMA

IL SAN GIORGIO MIX TRA INNOVAZIONE E CUCINA DI UNA VOLTA A due passi dal gioiello residenziale della “Piccola Londra”, “Il San Giorgio a Roma” si trova nel cuore del quartiere Flaminio. Guidato dallo chef Andrea Viola, il locale è raccolto - i coperti vanno dai 30 ai 35, con possibilità di mangiare anche all’aperto nel dehors - e pensato nel segno dell’accoglienza: uno spazio caldo, dai colori tenui sui toni del crema e dell’avana. Come la terra da cui proviene, Maccarese, la cucina dello chef Viola abbraccia la terra e il mare, mettendo insieme i prodotti ittici con le lavorazioni della carne, i sapori dei campi e dei fossi. Materia prima prediletta è la cacciagione. Impossibile, ad esempio, trovare altrove a Roma i gaffi, che provengono dalle bestie allevate a Maccarese; rarissimo imbattersi nelle coscette di rana, qui esaltate dal piatto Il fosso che le propone arrosto. Quando il pesce incontra la campagna i fegati di gambero rosso finiscono sul pane. I molluschi vengono gratinati nel piatto di benvenuto, il Bagnasciuga, in cui si ritrovano tutto il sapore e il colore dell’arenile: l’acqua di cozze e alga spirulina rimanda alle onde del Tirreno, i mitili si accompagnano al pane aromatizzato con pomodoro, limone e prezzemolo, mentre un granulato al nero di seppia fa da spiaggia. Andrea Viola, classe 1980, nasce a Roma ma le radici della sua ricerca culinaria affondano da sempre nelle terre che dividono il mare dalle colline lungo il litorale laziale. Solidi legami con le origini, genitori contadini, cresce a Maccarese, dove impara ad

amare la campagna e i suoi frutti, tra gli orti di famiglia e la cucina della nonna. I suoi piatti, infatti, sono le “cose di casa”, in fondo, riviste attraverso il filtro dell’esperienza maturata in Italia e all’estero. Allievo di Giulio Terrinoni (“Per Me”) e di Angelo Troiani (a “Il Convivio” guidando la partita dei primi e ad “Aquolina”), Viola scopre le sperimentazioni gourmet e gli assemblaggi che ancora oggi caratterizzano ogni sua creazione. Con sua moglie Noemi Apollonio, nel 2015, rileva il “San Giorgio” di Maccarese (il nome fa riferimento al santo patrono del paese) che tramuta in un centro creativo altamente riconoscibile, dove prende forma una cucina personalissima e di qualità, che rende necessario, dopo tre anni, uno spostamento nella Capitale per proseguire con più ampio schema il lavoro di ricerca e di sperimentazione culinaria.

IL SAN GIORGIO A ROMA

Viale del Vignola, 20 - Roma Tel. 06 64 520 871

www.ilsangiorgioaroma.it info@ilsangiorgioaroma.it

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ENOTECA-RISTORANTE

KLANG L’ERA DEL SUONO È ARRIVATA A ROMA A Roma, precisamente in uno stabile del Pigneto, ha aperto Klang. Cristiano Latini è il giovane fondatore e creatore, un luogo dove le cose “accadono”, uno spazio in cui ospitare una comunità fatta di sognatori che sappia apprezzare pienamente l’intersezione di vari piaceri della vita: la musica, il cibo, il bere. In questo locale dall’anima romanticamente notturna si distinguono bene due spazi dialoganti, con una parte che accoglie le sedute e il grande bancone, e una sala vocata essenzialmente allo “spettacolo” nel senso più ampio del termine, con un impianto acustico che mira alla totale perfezione ed esaltazione del suono. Qui si avvicendano eventi live e incontri musicali. L’altra faccia di Klang deriva dall’unione dell’elemento artistico con quello ristorativo. Klang vuole essere un luogo dove, per forte volontà di Cristiano, si può stare bene, mangiare bene, bere bene, con l’intento finale di vivere in modo completo e globale l’esperienza dello stare insieme e del condividere il tempo e lo spazio, su esempio dei club europei di maggior successo e lungimiranza.

L’ALCHIMISTA di

Annarita Pelaracci

L’Enoteca l’Alchimista nasce nel 2001 quando Patrizia Moretti, insieme al marito Claudio e alle figlie Cristina e Barbara, decide di aprire un’enoteca dove vendere i vini di Montefalco e le migliori etichette italiane accompagnati a salumi, formaggi e preparazioni fredde. In questi 20 anni molta strada è stata fatta e Patrizia, animata da una immensa passione per la cucina, è ad oggi la chef del ristorante. Le stagioni con i relativi colori, profumi e sapori sono i veri protagonisti della sua cucina: Patrizia ha saputo valorizzare le ricette della tradizione umbra, conferendo loro un carattere più moderno pur esaltandone il legame con il territorio. L’espressione che meglio racconta la storia dell’Alchimista è “innovazione continua”: lo studio ha permesso il miglioramento enogastronomico, il credere di non esser mai arrivati per crescere ogni giorno. L’ALCHIMISTA

Piazza del Comune, 14 - Montefalco (PG) - Tel. 0742 378558 www.ristorantealchimista.it

KLANG

Via Stefano Colonna, 9 – Roma - Tel. 06 4368 9987

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GIANNINO

RISTRUTTURA L’ELEGANZA DI UN TEMPO

1899. Tutto il mondo si prepara a dare il benvenuto al nuovo secolo e intanto, a Milano, Giovanni Bindi, chiamato da tutti Giannino, un uomo dotato di grande intuizione e coraggio, apre la sua trattoria. Trattoria che diventa ben presto un Ristorante estremamente raffinato e di classe e luogo di incontro del jet set internazionale. Tutti, da Grace di Monaco a Italo Balbo, da Primo Carnera ai Duchi di Kent, passano da Giannino. E oggi, con i suoi oltre 100 anni di storia, Giannino dal 1899, è un’istituzione della ristorazione gastronomica milanese. “È proprio da questo profondo e importante rapporto con la storia”, spiega il direttore, Giuseppe Varrella, “che è iniziato un importante progetto di ristrutturazione, con un unico obiettivo: riportare in vita l’eleganza di un tempo”. “Dall’arredamento alla mis en place”, continua il direttore, “tutto, è stato studiato nei minimi dettagli, per creare un’ambiente raffinato e ricercato, fatto di storia e cultura, all’insegna della più antica tradizione milanese e italiana, ma con una forte vocazione internazionale”.

RISTORANTE GIANNINO

Via Vittor Pisani, 6 - 20124 Milano (MI) Tel. (+39) 02 3651 9520

www.gianninoristorante.it

Tradizione e Milano. Questi sono i due concetti chiave attorno a cui ruota anche la cucina dello chef Alessandro Rimoldi, cultore della cucina Meneghina, che propone piatti della tradizione gastronomica milanese, reinterpretandoli in chiave moderna. Infatti, la Grand Carte del ristorante propone pasta fresca fatta in casa ed è caratterizzata da piatti storici come l’ossobuco, il risotto alla milanese e la costoletta di vitello, ma anche da piatti della tradizione meno conosciuti ai quali lo chef ha aggiunto un tocco personale, rivisitandoli in chiave moderna.

“L’eleganza è quella qualità del comportamento che trasforma la massima qualità dell’essere in apparire” Jean Paul Sartre 26


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RIAPRE A MILANO

L’EMPORIO ARMANI CAFFÈ E RISTORANTE

L’indirizzo è lo stesso: via Croce Rossa. Il locale, Emporio Armani Caffè e Ristorante, completamente diverso. Cambia la formula, la disposizione degli spazi, cambia il design e la proposta gastronomica di un luogo che ognuno può vivere come preferisce, aperto dal mattino fino a tarda sera. Inaugurato nel 2000 e già punto di riferimento dei milanesi, è il primo nel suo genere, e nella sua nuova veste diventa rappresentativo nel mondo. La novità testimonia ancora una volta il legame di Giorgio Armani con Milano, fatto di sentimenti forti, di gesti e iniziative importanti che di volta in volta valorizzano la città. Il piano terra si divide in due parti, collegate tra loro ma indipendenti. Da via Croce Rossa si accede al nuovo grande bar caffetteria dove è possibile gustare e acquistare sia pasticceria fresca di produzione propria, sia prodotti Armani/Dolci by Guido Gobino. Al pranzo vero e proprio, con un variegato menu e proposte di light lunch, è riservata invece la parte adiacente al bar. A quest’area si accede, per la prima volta, anche dal nuovo ingresso di via Giardini. Al piano superiore si accede con la sinuosa, scenografica scala verde scuro e oro che, come un segno netto, scandisce i volumi. Qui viene ospitato il ristorante, aperto a pranzo e a cena, con un ricco punto accoglienza ‘champagne bar’ all’ingresso. Il piano terra, più informale, offre sia a mezzogiorno che la sera una carta moderna, immediata e più veloce, con i piatti più classici, genuini e gustosi, che hanno da sempre contraddistinto l’Emporio Armani Caffè. Al piano superiore, il menu del ristorante è gourmet e mescola la tradizione all’innovazione.

EMPORIO ARMANI CAFFÈ Via Croce Rossa, 2 20121 Milano

Tel. 02 7231 8680

www.armani.com/restaurant RISTORANTE

Via dei Giardini, 2 20121 Milano

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RIVIERA

RISTORANTE PER ONNIVORI A VENEZIA

di foto di

Lisa Foletti Stefano Caffarri

A passeggio per le calli di Venezia, inseguendo scatti originali e insoliti, si disquisiva sulla difficoltà di restituire la meraviglia di quegli scorci senza inciampare nella retorica più consunta, e si finiva poi travolti dall’evidenza di tanta smaccata bellezza. Giunti sulla soglia del ristorante “Riviera”, lungo la Fondamenta delle Zattere, nessuna traccia di banalità o stucchevolezza ad accoglierci, bensì la folta chioma di Giovanni Pietro Francesco Maria Cremonini, detto “Gp”, uomo minuto ed elegante, con i lunghi capelli brizzolati sulla schiena, gli occhiali rossi e i modi garbati. Un anfitrione carismatico, dalla teatralità misurata, a suo agio con l’eloquio e con la temperanza. Dopo 25 anni trascorsi a Parigi, dove ha brillato come musicista jazz e interprete di musica leggera, stanco dello show business, Gp è tornato nella sua Venezia dapprima aprendo un bacaro al Rialto e poi rilevando lo storico “Riviera”. In quei locali, negli anni Settanta, l’ex maître dell’Harry’s aprì un bar che doveva accogliere i gaudenti a passeggio sul Canale della Giudecca: il Riviera fu luogo di dolce vita per anni, fino a quando la stanchezza lo fece scivolare nella trascuratezza e nell’oblio. Ci sono volute la curiosità e la determinazione di Gp per riportare l’insegna all’antico splendore, ma sotto una nuova luce. “Ristorante per onnivori” si legge accanto al nome del locale, perché qui si preferisce palesare i propri limiti nel gestire restrizioni

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alimentari: niente proposte vegetariane o vegane, bensì piatti di laguna, di mare e di terra “a chilometro 150” - come ama dire Gp - realizzati con materie prime in prevalenza regionali selezionate personalmente dal patron. L’atmosfera è elegantemente fuori dal tempo, soprattutto d’inverno, quando l’incantevole déhors affacciato sul canale è smantellato e i pasti si consumano fra le mura impregnate di storia delle due salette interne, avvolti dalla tappezzeria damascata, dai marmettoni bianchi e neri, dalla vecchia boiserie e da piccoli tocchi d’arte contemporanea. La cucina è a vista, decisamente ridotta ma moderna e ben gestita dalle otto persone che vi si muovono sincronizzate. A capo di questa brigata c’è lo chef Samuele Silvestri (foto a lato), giovane e solido cuoco veneziano che al Riviera opera in stretta sinergia con il patron Gp. Tre i menu degustazione, “Sott’acqua”, “Terra emersa” e “Di qua e di là”, rispettivamente da 7, 7 e 11 portate, oltre a una selezione giustamente calibrata di piatti alla carta. Colpisce la lista dei vini, frutto della ricerca e della passione di Gp, abituato a intrecciare rapporti personali con i produttori selezionati: un bel focus sul Veneto e sul Friuli, dove spiccano artigiani del vino più che maison blasonate, e una panoramica enoica molto personale, dai ricarichi sostenuti ma ampiamente giustificati dalla logistica e dalla location. Iniziamo il nostro pasto con una piccola e fragrante brioche al pecorino (foto a lato) accompagnata da una crema di zucca con gocce di olio al rosmarino, eco di un goloso petit déjeuner. A seguire, una tartare di scampi con radicchio tardivo, semi di zucca, foglia di cappero, carota marinata e tapioca (qui a lato), di una carnosità fresca e sferzante.

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Ancora freschezza nelle acciughe marinate con anice stellato e cuore di radicchio tardivo in olio aromatizzato. Sorprendente essenzialità nella zuppetta di canocchie accompagnata da un piccolo “airbag” di pane croccante. Fieramente stagionale, e kandinskijano nell’aspetto, il “merluzzo e cavoli suoi”, un piccolo trancio di merluzzo avvolto in una foglia di verza con cavolo nero essiccato e gocce di cavolo viola e verde. Confortanti ed equilibrati gli gnocchi di stracchino ripieni di guancia brasata di manzo con fondo di manzo e mostarda di frutta (foto a lato). Tecnica e raffinatezza nell’ossobuco di topinambur ripieno di tartare di manzo, spuma di midollo e mandorle (foto in basso). Una classica pancia di vitello si accompagna a porro e zucca in un matrimonio invernale ben riuscito, al quale manca solo un pizzico di brio. Ineccepibile e lussurioso il fegato di sorana glassato al “Merlino“ (vino rosso fortificato dell’azienda Pojer & Sandri) con la clementina confit. Per concludere, “Campi e profumi” (in basso a destra), un’impalpabile e croccante cialda di riso ripiena di ricotta di bufala, cioccolato, lamponi ed erbe aromatiche, di una dolcezza

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soffusa. Ad accompagnare la nostra degustazione: “Col Tamarie” di Vigna San Lorenzo, frizzante col fondo da uve glera, verdiso, bianchetta, boschera e perera (quelle del Prosecco), golosissimo e rinfrescante; “Bischofsleiten” 2017 di Castelsalleg; rebula “JNK” di Kristina Mervic; vitovska 2015 di Marko Fon; vitovska di Kociančič; “Upupa Rot” 2015 di Weingut Abraham; e per finire, un magnetico schioppettino 2013 di Fulvio Bressan. L’atmosfera senza tempo, la buona tavola, l’accoglienza garbata e lo spessore umano del padrone di casa fanno del Riviera una tappa di sicura soddisfazione in questo lembo d’innegabile grazia, fragilità e bellezza che ancora oggi - e forse per sempre - è Venezia. RISTORANTE RIVIERA

Fondamenta Zattere al Ponte Longo, 1473 - 30123 Venezia Tel. +39 041 522 7621

www.ristoranteriviera.it - rivieravenexia@gmail.com


GOURMETFOOD

L'alta ristorazione in Italia e nel mondo

Mauro Uliassi | Matteo Baronetto | Terry Giacomello | Andrea Papa GastĂłn Riveira | Virgilio MartĂ­nez | Mauro Colagreco

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GOURMETFOOD

MAURO ULIASSI UN RE DIVERSO DA TUTTI di

Giulia Gavagnin

Nel 2018 la Michelin ha incoronato un nuovo re. Il Re Atipico, quello per cui “l’impresa eccezionale è essere normale”. Il corrente anno 2019 ci dirà se è vero ciò che alcuni pensano, ossia che il conferimento della terza stella a Mauro Uliassi potrebbe rappresentare uno spartiacque tra il “prima” e il “dopo” della Rossa in Italia. Uliassi non sarà forse il migliore, ma è diverso da tutti; si nutre di essenze territoriali che attraverso le sue mani e la sua visione divengono universali, in una misura che però le rende irriproducibili. Ha già 60 anni, ma ha attraversato un percorso di crescita lineare e costante che ha raggiunto l’apice negli ultimi anni, con la lezione di Ferran Adrià completamente assorbita e interiorizzata. Non possiede un ristorante di lusso, ha trasformato una baracca sul mare di una spiaggia “normale” in un sobrio ed elegante bagno con

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pareti bianche e arredi azzurri, completamente alieno ai fasti delle sale che caratterizzano i tristellati. Definisce la sua, semplicemente, “cucina di mare”, ma è consapevole che dietro c’è molto di più, non solo per la presenza della selvaggina in stagione. È forse il cuoco più amato dagli addetti ai lavori, per una condivisibile serie di ragioni: il carattere gentile, la profondità di visione, la sobrietà di stile che l’ha sempre tenuto lontano dai teleschermi delle battaglie culinarie, intrise di acido sadismo. Uliassi, in fondo, è un elitarista, preferisce l’apprezzamento garbato dei clienti che lo guardano negli occhi, agli strepiti della massa. Di lui s’è scritto molto, moltissimo: dagli immancabili inizi avventurosi, alla folgorazione per Ferran Adrià, da “poeta del mare” all’improbabile definizio-


ALTA

RISTORAZIONE

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GOURMETFOOD

ne di “cuoco rock”. Ciononostante, mai nessuno è riuscito a descrivere davvero la sua cucina: perché è soltanto sua, non assomiglia a quella di nessun altro. È una cucina di mare plastica e semplice, spettacolare nelle texture, in cui tra la stoviglia e l’assemblaggio degli ingredienti c’è un sottile velo di mistero. Il mistero, per Uliassi, è quello che per Marchesi era l’arte, l’interstizio tra il colore e la tela. Nessuno potrà mai svelarlo, forse nemmeno lui stesso, perché questo mistero è ispirazione pura che nasce dal respiro del mare e si condensa nelle mani del cuoco attraverso la sua personalissima visione. Mauro Uliassi è figlio della sua epoca, quella in cui il cuoco, dopo la scuola alberghiera, faceva qualche esperienza in giro per l’Italia e poi tornava nel paese d’origine. Cresciuto insieme alla sorella Catia nel bar materno, ha tentato gli studi tecnici, salvo ritirarsi per manifesta assenza di femmine. Ha ripiegato sull’alberghiero, trascorrendo anni “tra vino e donne”, dice. Il primo impiego è stato da professore, proprio all’alberghiero. “Mi piaceva insegnare, venivo pagato bene, non mi interessava ancora fare il cuoco”. Poi, la svolta: conosce una bella ragazza, Chantal che poi diverrà sua moglie. Si concede un sabbatico, trascorre qualche mese da innamo-

rato in giro per il sud Italia e, infine, su richiesta della fidanzata, cucina una lussuosa cena per lei e altri amici scoprendo che sì, avrebbe dovuto fare il cuoco. Nel 1990 acquista la baracca sul mare a Senigallia coi soldi del padre (”erano anni in cui se lavoravi fatturavi, se non lavoravi no, ma non c’erano sorprese”) ma tiene i piedi per terra, non pensa ai riconoscimenti. Lavora alacremente con la sorella Catia a una proposta di ristorazione tradizionale, marinara. “A sorpresa” dice lui “arrivò la prima stella nel 1994. Da lì capimmo che potevano esserci nuovi obiettivi da raggiungere, con lavoro e una lenta ricerca. Lenta perché siamo pigri”. Nel 1998, l’ulteriore svolta: la folgorazione

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ALTA

RISTORAZIONE

per Adrià e la scuola del Bulli: “Ferran ha sconvolto il mondo della cucina mondiale perché ha insegnato a tutti ad avere una visione che trascende le padelle, non a copiare i suoi piatti che non sono replicabili. Così, anche grazie alle tecniche che ha inventato, io ho iniziato a esplorare la mia personale visione di cucina”. Il paradigma dell’irriproducibilità è stato sviluppato negli anni e trova oggi trova la sua vena più sperimentale nei famosi “lab” che scaturiscono da tre mesi di chiusura invernale in cui lo chef, insieme ai fidi secondi Luciano Serritelli, Marco Paolini e Michele Rocchi (foto nella pagina a lato) elabora i leit-motiv contemporanei: “Il lab è un’idea moderna, legata a tempi di incertezza: oggi c’è un’idea, domani può non esserci più”. Il resto è storia recente: nel 2008 la seconda stella, l’ascesa all’Olimpo dei cuochi e la consacrazione definitiva avvenuta nei mesi scorsi. Era un percorso attraverso gli scarti del pesce il “lab 2017”, lo stesso tema è stato contaminato nel 2018 da alcuni inserimenti di terra e di parti che sarebbe più corretto definire “meno nobili” piuttosto che “scarti”. Complessivamente, l’edizione 2018 ci ha regalato forse il miglior Uliassi di sempre. L’attenzione allo scarto è virtuosistico oltre che etico: la corona del rombo alla griglia, semi di olive, finocchio e tzatziki all’arancia valorizza una parte negletta, e la bravura del cuoco è indispensabile. L’apertura del percorso è stato affidato sempre all’immancabile wafer di foie gras e nocciola con kir royal e, oggi, a un nuovo instant-classic, il pancotto, ricci di mare e mandorle che rappresenta l’essenza stessa della cucina di Uliassi: mandorle di diversa consistenza, i ricci ghiacciati sul fondo, con la profondità del riccio a deflagrare sulla brezza marina della mandorla. A seguire, la canocchia con le sue uova e semi di frutto della passione, in un intreccio mediterraneo dal tocco leggermente esotico ma ben caratterizzato nelle nude materie. Semplicemente magistrale il fusillone

CANOCCHIE MARINATE con le loro uova

INGREDIENTI per 4 persone

10 minuti; raffreddare e poi, con l’aiuto

(di g. 50 ciascuna con uova)

grammi di succo con l’agar agar e porre 5

8 canocchie fresche

10 frutti della passione

g. 4 di olio al pepe rosa g. 250 di zucchero g. 250 di sale fino

g. 50 di succo di granchio g. 0,1 di agar agar

PROCEDIMENTO

Per le cannocchie marinate: congelare

le canocchie, sgusciarle e lasciarle scongelare; mescolare il sale e lo zucchero e ricoprire le canocchie per 15 minuti.

Trascorso questo tempo, toglierle dalla marinata, lavarle velocemente, asciugar-

del torchio, estrarre il succo. Far bollire 50 grammi di quest’ultimo sul fondo di ogni piatto. Preparare 4 piatti.

Per il concentrato di frutto della passio-

ne: tagliare a metà i frutti della passione, estrarre la polpa che andrà setacciata, porre i semi a parte e mettere il succo nell’e-

vaporatore rotante; far addensare il succo fino a densità voluta.

Per l’olio al pepe rosa: schiacciare 4 grammi di pepe rosa con 40 grammi di olio di oliva, metterli in un bicchiere del

Pacojet, farlo congelare, passarlo al Pacojet e con l’etamina filtrare l’olio.

le e congelarle nuovamente. Tagliare a

Prendere i piatti con il succo di granchio

latore.

gocce di concentrato del frutto della pas-

fettine di 2 millimetri e riporre in conge-

Per il succo di granchio: g. 300 di granchi

freschi, puliti. Cuocere in forno a vapore 300 grammi di granchi freschi e puliti, per

addensato, distribuire su ogni piatto 9 sione, adagiare le canocchie tagliate, farle scongelare, porre 16 semi del frutto della passione e 5 di olio al pepe rosa.

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GOURMETFOOD

FUSILLI CON POLPO INGREDIENTI

1 polpo di kg. 4, 4 rametti di rosmarino, 4 rametti di timo, 1 testa d’aglio, g. 200 di acqua di vongole, 2 mazzi di finocchietto, semi di finocchio q.b. PROCEDIMENTO

Mettere il polpo in surgelatore per una settimana. Tiralo fuori e, da intero, sbatterlo in una bacinella capiente con dell’acqua di mare. Una volta inturgidito, tagliargli i tentacoli, togliergli le ventose e la pelle in eccesso, poi appenderlo nel forno a 35°C

in essicazione per 6/8 ore fino a quando risulterà asciutto. Ta-

gliare i tentacoli in troncotti di 10/15 centimetri e rosolarli velocemente in padella con olio di semi a 180°C circa. Raffreddarli

in abbattitore, pararli molto bene tenendo da parte le parature che metteremo di nuovo ad essiccare a 60/70°C. Abbattere i

tentacoli e affettarli a 2 centimetro per la lunghezza; conservare in surgelatore. Una volta ben secche, frullare le parature, setacciarle e conservarle in frigorifero. Fare un olio profumato

soffriggendo delicatamente rosmarino e aglio. Preparare un Pakojet con il finocchietto, i semi di finocchio e olio d’oliva a coprire; una volta abbattuto, pacossare e filtrare ricavando un olio

al finocchietto. Fare un aglio e olio con l’acqua di vongola, saltarci i fusilli, in mantecazione aggiungere uno spicchio d’aglio,

il timo e un pochino di olio al rosmarino. Impiattare mettendo i fusilli ben salsati alla base del piatto, aggiungere una fettina di polpo per ogni fusillo. Concludere con foglioline di timo, olio al finocchietto e la polvere di polpo tostato.

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con lardo e polvere di polpo, l’ennesima riproposizione del tema dell’illusione, di una cosa che sembra una e invece è altra, qui ottenuta dopo un lavoro certosino di estrazione e cottura. Era estratta dal lab 2017 la mezza manica “au beurre blanc”, triglie e fegato di triglia, così citazionista nell’ascendenza francese ma così adriatica nel risultato finale. Invece, è totalmente contemporanea la tagliatella con rigaglie di selvaggina e riduzione di pomodoro al chiodo di garofano. Non manca il ritorno alle acque, con Benvenuti al mare, un brodo ottenuto da vari pesci e crostacei dove il salmastro incontra il profumo inconfondibile della banchina. È il prodromo a Il mare dentro, un percorso attraverso le interiora di rana pescatrice, ombrina, baccalà e crostacei per sondare le sfumature di un mare diverso. Ancora scarti ittici, con il collo di rombo fritto alla milanese e servito con un saor rivisitato, e selvaggina con la lepre in salmì e carbonella croccante al ginepro. Il lab 2019 si preannuncia a 360 gradi, con inserimenti di selvaggina ancora più importanti e un’attenzione particolare rivolta all’elemento vegetale. C’è un’immagine in bianco e nero scattata da Lido Vannucchi in cui si


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RISTORAZIONE

TARTAR DI COLOMBACCIO e sugo di agnello all’eucalipto INGREDIENTI

Per il sugo di agnello

kg. 2 di ossa di agnello g. 250 di carote

g. 160 di sedano g. 200 di cipolla

4 spicchi d’aglio g. 3 di salvia

g. 200 di vino bianco olio evo

PROCEDIMENTO

In una casseruola tostare uniformemente le ossa di agnello con dell’olio evo. A tostatura avvenuta, sfumare con il vino bianco

e aggiungere carote, sedano, cipolla, aglio e salvia. Coprire

il tutto con acqua e portare ad ebollizione. Far bollire per 45 minuti a fuoco lento, dopodiché, filtrare il fondo con l’aiuto di

uno chinois a maglia fine e ridurre in una padella fino a densità

e gusto desiderato. Filtrare il fondo con un’etamina. Abbattere e conservare.

Per l’estratto di eucalipto: passare al green star delle foglie di eucalipto belle verdi e fresche.

Condire del petto di colombaccio, tagliato a tartare grande, con sale pepe e olio. Mantenere giustamente freddo.

Impiattare una quenelle di tartare con a fianco un cucchiaio di salsa agnello. Finire con 6/7 gocce di estratto di eucalipto.

vede Uliassi in casacca e grembiule camminare sui lastroni del lungomare di Senigallia, quasi sospeso nell’aria. È una foto che coglie la sua essenza, quel passo sospeso è la lievità soltanto sua che porta nei piatti, è il sigillo della sua differenza, è la grazia con la quale estrae l’impalpabile affumicatura dei suoi spaghetti con vongole e pendolini. Tuttavia è un cuoco profondamente verticale, dipinge a olio, non ad acquarello come il suo gemello diverso Moreno Cedroni, che accenna con pennellate ampie storie personali di mare e di terra. Per questo il nuovo re è diverso da quelli che l’hanno preceduto, perché è pura essenza, irriproducibilità, sostanza nella cornice di un decor sobrio, scevro da ogni opulenza barocca. Potrebbe essere l’inizio di una nuova epoca ma di Uliassi, si sa, ce n’è uno solo.

ULIASSI

Banchina di Levante, 6 - 60019 Senigallia (AN) Tel. 071 65463

www.uliassi.it - info@uliassi.it

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GOURMETFOOD

LA METAMORFOSI DEL CAMBIO COME MATTEO BARONETTO HA RIVOLUZIONATO LA CUCINA SABAUDA di

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Alessandra Meldolesi


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RISTORAZIONE

Qualcuno l’ha definito il ristorante più bello d’Italia. Del Cambio, a Torino, è un monumento della torinesità, non meno della Mole Antonelliana, affacciato sulle austere architetture barocche e poi ottocentesche di una città che sta tornando capitale gastronomica del nord ovest. Facilmente si immagina Camillo Benso di Cavour che si alza dagli scranni del primo parlamento d’Italia e traccia una diagonale a passo di redingote per Piazza Carignano, fino a quella porta di solenne discrezione (come si usa da queste parti), sovrastata dalla lunetta Del Cambio. Esercizio che a dispetto del nome, varcata la soglia precipita nella penombra di una macchina del tempo, dove tutto è immutato. I lampadari di cristallo, le boiserie e le specchiere, gli stucchi e gli affreschi di Roberto Bonelli. Perfino il tavolino del conte habitué, con la sua seduta cardinalizia in velluto rosso. Sembrava un ossimoro, cambiare Del Cambio, eppure a distanza di 4 anni dal passaggio di proprietà, si può certificare che l’operazione è riuscita. Sembrava soprattutto inaudito che a tentarla fosse chiamato uno dei cuochi più inquieti e irriverenti di quella che è stata l’avanguardia italiana, giovane creativo nato a pochi chilometri di distanza, in quel di Giaveno, città degli chef, da cui arriva pure Mammoliti. Ma è stata proprio questa la chiave di un’evoluzione che non si è ancora arrestata. La si legge nel design dei luoghi, a cominciare dalla sala Pistoletto, rimaneggiata dal grande artista con i suoi celebri quadri specchianti. Perché non c’è arte più inclusiva della gastronomia. Soprattutto nella filosofia di una cucina che pratica la stessa intermittenza fra culto della memoria e maieutica del futuro. Qualcosa di profondamente torinese, se è vero, come scriveva Calvino, che questa “è una città che invita al rigore, alla linearità, allo stile. Invita alla logica e, attraverso la logica,

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GOURMETFOOD

apre alla follia”, come dimostrano decenni di rivoluzioni e controrivoluzioni culinarie. Proprio per questo è in punta di piedi che Baronetto, figlio di un operaio Fiat, ha fatto il suo ingresso nel sancta sanctorum. “Sono arrivato nel rispetto dei luoghi, perché qui mi sento ospite”, dice. “Del Cambio esisterà ancora dopo di me: è un patrimonio della città, come dico sempre, un museo pubblico e privato che vive sull’accoglienza ed è l’accoglienza stessa, insieme al modo di mangiare, a essere cambiata. La cucina, il vino, perfino le sedute”. Da temporeggiatore qual è, fin dai tempi di Cracco-Peck, quando cofirmava la cucina restando un passo indietro, ha aspettato che maturassero i tempi per spostare l’asticella verso la creatività, talvolta felicemente ispirata da polverosi lasciti testamentari. La partenza è stata sotto il segno della tradizione, con classici quali la sogliola alla mugnaia o la finanziera, prediletta da Cavour, riportati in auge senza imbellettamenti modaioli. Poi nuove proposte si sono aggiunte nelle diverse sale. Oggi la carta è divisa in due sezioni:

la tradizione e la contemporaneità, in modo che ogni ospite trovi facilmente le chiavi del suo pasto. Chi opta per la prima può ricevere un degustazione da 7 corse a 110 euro, più abbinamenti a 60-85. Piatti che spaziano dall’antipasto piemontese al vitello tonnato, dagli agnolotti a un marchesiano controfiletto al vapore, fino all’immancabile bonet. “Sono totem che ho cercato di interpretare, conservandone l’anima, in modo da valorizzare la ricetta tradizionale. Per esempio gli agnolotti, che sono classici, ma al posto del sugo d’arrosto con il vino c’è un fondo di carne alleggerito; sotto ho spolverizzato il parmigiano e sopra il pangrattato passato in padella per la nota tostata e croccante, così da spostare gli equilibri”. Poi c’è il menu Nel Tempo, che riproduce plasticamente la geografia non solo stilistica del ristorante. Come sulla soglia fra le sale Risorgimento e Pistoletto, le ricette di sempre sono proposte in variazione, da una parte la filologia, dall’altra l’interpretazione d’autore. Un concetto già proprio di un altro torinese, Pier Bussetti, che Baronetto sviluppa a modo suo, forte dei luoghi. Ci sono le acciughe al verde e i gamberi viola in salsa rosa, gli gnocchi alla romana, l’orata alla mugnaia e il filetto alla Rossini, con l’alternativa della costoletta alla milanese, per

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RISTORAZIONE

AGNOLOTTI 2.0 INGREDIENTI

Per la pasta fresca

g. 250 di farina 000

g. 25 di semola rimacinata 3 tuorli

1 uovo intero

g. 10 di olio evo g. 10 di acqua

Per la farcia tradizionale

g. 200 di tenerone di vitello g. 50 di pancetta fresca g. 50 di salsiccia di Bra g. 10 di carota

g. 10 di sedano g. 10 di cipolla

g. 50 di vino bianco pepe

g. 20 di parmigiano Per la farcia rivisitata

g. 50 di maionese bianca g. 30 di fondo di carne PROCEDIMENTO

Preparare la farcia rosolando carne e verdure in un rondò capiente. Sfumare con vino bianco e coprire fino a metà con acqua. Lasciar cuocere il tutto per almeno 2 ore, aggiungendo acqua man mano che asciuga. Una volta cotta, passare il tutto al tritacarne e aggiustare di sapore con pepe nero, parmigiano e sale.

Preparare la pasta impastando tutti gli ingredienti per

qualche minuto per ottenere un impasto sodo e com-

patto. Tirare la pasta molto fina e mettere giù la farcia,

usando una sac-à-poche, disponendola in modo sim-

metrico su metà della sfoglia tirata. Chiudere l’altra metà

sopra la farcia e, usando una coppapasta, eliminare l’aria

in eccesso creando una cupola. Usare la rotella zigrinata per ritagliare gli agnolotti.

Per quelli rivisitati, unire alla maionese la salsa di carne tiepi-

da, stendere la pasta e coppare dei dischi di pasta. Disporre con

un cucchiaino da caffè il composto al centro del disco e chiuderlo

a mezzaluna. Preparare il piatto legando in padella gli agnolotti tradi-

zionali con la salsa di carne e il burro mentre per quelli in chiave moder-

na usare dell’olio di nocciola e disporre al centro una mezzaluna ripiena di maionese alla salsa di carne.

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GOURMETFOOD

RAMEN PIEMONTESE INGREDIENTI

Per il brodo: ml. 800 di fondo di bianco di carne, g. 2 di colatura di alici, g. 5 di olio di

nocciola, 4 champignon con terra, 1 peperoncino rosso piccolo, 1/2 spicchio d’aglio, 1 carota, 1 costa di sedano, 1 cipolla bianca piccola, g. 10 di jus di vitello.

Partendo da un classico fondo bianco di carne, aggiungere tutti gli ingredienti a freddo e portare a leggero bollore. Dopo un’ora circa filtrare il tutto con una garza sottile.

Per la polenta fritta: g. 250 di polenta di mais, l. 1 di acqua, g. 50 di tuorlo pastorizzato.

Portare a cottura la polenta. Terminata la cottura aggiungere il tuorlo, farla raffreddare stendendola su una placca, coppare e friggere in olio di semi.

1 castagna affumicata in fette, 3 fette di porro arrostite, 3 losanghe di peperone arrostito senza pelle, 1 cubo di testina bollita, g. 10 di carne cruda, 1 piccolo cardoncello al

burro, 1 uovo cotto a 64°C, 3 fette sottili di daikon, 3 fette sottili di rapanello, 2 piccole foglie di cavolo nero essiccate, g. 30 di rafano crudo grattugiato, 1 filetto di acciuga del Cantabrico in 3 pezzi, 3 nocciole tostate, g. 10 di tagliolini di pasta fresca, 2 fette di tartufo nero.

Comporre il piatto adagiando gli elementi con cura in una fondina e versandovi sopra il brodo bollente. Servire a parte 3 fette sottili di bresaola wagyu al porro, che andre-

mo a intingere nel nostro ramen. Terminare servendo a parte tre pezzi di polenta precedentemente fritta in abbondante olio.

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finire con la cheesecake. Due volte otto piatti a 125 euro, più 75-95 per gli eventuali abbinamenti. Ne fa parte anche il ramen piemontese, quasi una provocazione, all’apparenza, fra i fantasmi di Cavour. Dove la struttura è quella del modello giapponese, ma ingredienti e sapori arrivano dal territorio: ci sono il brodo di manzo alle croste di Parmigiano, l’acciuga, il peperone alla brace, il tartufo, i tajarin, le nocciole e a fianco la tuile di polenta fritta. Giustamente comfort, anche per variare gli stili verso una proliferazione non meno barocca delle facciate prospicienti. Mentre il confronto con il ramen originale inverte i ruoli fra modello e variazione, noto e ignoto. E la bresaola di Gio’ Porro affiancata da fettine di estratto di barbabietola addensato al tuorlo marinato: un trompe-l’oeil in cui confluiscono i due filoni di ricerca di Cracco-Peck. “Anche il modo per attirare l’attenzione su come la bresaola spesso sia mascherata dal suo condimento, nel secondo caso parmigiano, rucola e limone”. La creatività di Baronetto però batte soprattutto nel menu intitolato all’Improvvisazione ragionata (6 corse a 135 euro), ovvero a un modus operandi ossimorico, che tuttavia “si allinea”, dove l’improvvisazione è il compimento subitaneo del piatto e la ragionevolezza qualcosa di anteriore, già presente in nuce. Viene cucito sulle preferenze dell’ospite, con la possibilità di abbinare 4 o 5 calici per una forchetta di prezzo compresa fra 60 e 95 euro. La sua composizione è a sorpresa, secondo gli arrivi quotidiani di carne, pesce e verdure (spesso prodotte nell’orto della casa), con un precipitato più o meno avanzato di sperimentazioni dello Chef’s Table. E soprattutto nello Chef’s Table stesso, esperienza in tutti i sensi irripetibile. Ci si accomoda nel retro della cu-


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RISTORAZIONE

cina scintillante, in un antro nascosto che immette nella Farmacia, ora pasticceria del Cambio. Quasi uno speakeasy, senza separazione dai fornelli, tanto che sono i cuochi stessi a porgere i piatti dal bancone, spiegandoli. E il servizio è ridotto ai minimi termini, con il sommelier che ogni tanto sbuca con qualche bottiglia. I posti sono al massimo 5 e vanno prenotati prima al ristorante, poi con Baronetto in persona, che verifica la compatibilità con gli impegni della cucina e sonda gusti e aspettative degli ospiti. Ne risultano 10-12 piatti sempre diversi, messi in sequenza collegialmente insieme alla brigata, al prezzo non modico di 270 euro, bevande escluse. Impossibile pentirsene. Matteo Baronetto è infatti uno dei pochi creativi puri della cucina contemporanea italiana. Come da Cracco-Peck, il flusso di ricette ex novo è ininterrotto, per quanto percorra e ripercorra i canali di ossessioni straordinariamente coerenti, in un senso e nell’opposto, configurando uno stile personale. Lo stile di solista quale Baronetto, passato unicamente per insegnamenti marchesiani di primo e di secondo grado, senza esperienze decisive in Francia e in Spagna, indubbiamente è. Vedi lo schema più che mari e monti, mari e viscere, inaugurato a Milano da un epocale musetto con gli scampi e reinterpretato continuamente. Indimenticabile, ad esempio, l’incastro perfetto fra il rognone e i ricci di mare in un piatto binario, dal tasso di difficoltà altissimo nella massima semplicità tecnica e compositiva. Ma le complementarietà fra l’elemento ittico e quello “di pancia” possono essere diverse, ora nel gusto, ora nelle testure, ora visivamente, per analogia o per contrasto. È il caso dei rossetti crudi con coda brasata, per la similitudine visiva, o

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GOURMETFOOD

paté di fegatini: nord e sud sulla bruschetta, con il secondo che condisce i primi, l’amaro sulla sapidità. O ancora di epocali ricci con sugo di carne ed estratto di limone. Oggi nel piattino con i dischi di midollo al forno alternati alle rondelle di capasanta cruda, dove il primo elemento va a condire il secondo, nella similitudine delle geometrie, mentre il disegno sottostante dell’insetto evoca la metamorfosi in atto nel piatto. La tecnica si svuota, in favore del pensiero e soprattutto dell’istinto del cuoco, la cui cognizione della materia sembra quasi sconfinare in una forma di sciamanesimo. Anche qui costruzione ad enigma e struttura binaria. Oppure del più “marchesizzante” filetto di triglia con la fettina di testina che lo ingrassa, ricomponendo il collagene di un pesce da zuppa, mentre l’idea del bollito è ripresa dalla quasi salsa verde di purea di prezzemolo e colatura di alici, che scartavetra con i suoi flavonoidi. Poi c’è il filone, ispirato ai luoghi, dei piatti vintage. Ieri il geniale aspic di pasta, oggi il raviolo di pasta al vapore, impalpabile e carezzevole, sovrastato da una fettina di branzino crudo con centrifugato di scorza di limone per la freschezza, tassidermia di un classicismo d’antan, pre nouvelle cuisine. Ma financo le ricette nitidamente avanguardiste sono trapuntate di riferimenti classici, francesi o marchesiani. Il piatto è nudo, l’ingrediente solitario: esaltarlo senza banalizzazioni, attraverso un gesto o un accostamento, è la sfida dello chef, sempre più disinteressato alle piro-tecniche del recente passato. Vedi, emblematico, lo scampo crudo, steso sul piatto apparentemente al naturale, in realtà spennellato di un olio di vinaccioli infusionato a caldo alle foglie di fico, che ne amplifica miracolosamente l’aromaticità, mentre ne addenta la

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DEL CAMBIO

Piazza Carignano, 2 - Torino Tel. +39 011 546690 www.delcambio.it

welcome@delcambio.it

grassezza dolce attraverso la leggera grip vegetale e amarotica. Senza aggiunta di sale. Un non piatto di anticucina, che può riuscire solo a un grande chef. Viene servito con un altro piattino a fianco, dalle sembianze ospedaliere: puntarelle appena spadellate e finocchio sbollentato, le cui testure coincidono grazie al punto di cottura al secondo, nel filone delle similitudini spiazzanti. Ma da un anno e mezzo la ricerca è focalizzata soprattutto sugli aceti, intesi quale veicolo di profumo più che di acidità. Vengono aromatizzati per infusione degli ingredienti più vari, con l’aggiunta di una parte di zucchero per innescare la fermentazione, e anche per ammorbidire. Dopo qualche mese, fino a un anno, di riposo in un recipiente chiuso vengono utilizzati con il contagocce. “Perché voglio che siano sfumature nel piatto”. È il caso dei fiori di limone, ma anche di mandarino verde, uva fragola, salvia, caffè, sambuco, zafferano; dell’aceto alle spezie con insalata salanova dell’orto, riduzione di barbabietola e sugo di carne o di quello al tè affumicato con merluzzo marinato al vino rosso. Il sommelier è Cristian Brancaleoni, già in forze a Villa Sparina: amministra una carta di oltre 2000 etichette, con il Barolo e il Barbaresco in evidenza. C’è anche la Cuvée Del Cambio, provvisoriamente fuori denominazione, realizzata da Contratto. Ma l’abbinamento è a geometrie variabili, come la cucina, ora per concordanza, con l’acidità in scia sugli aceti, ora per contrasto. Vedi il Moscato d’Asti La Moscata Mongioia sull’insalata piemontese, per la freschezza agrumata sulle sapidità.



GOURMETFOOD

IL NUOVO CORSO DI

ROMANO A VIAREGGIO

fotoservizio di

Claudio Mollo

Ma quanto sarà bello entrare in un ristorante storico come Romano, a Viareggio, sfogliare il menu e trovare, ancora oggi, in mezzo alle nuove proposte, piatti che da oltre 50 anni rappresentano la storia del locale e della cucina italiana. Punti fermi che mai un cliente, vecchio o nuovo, si sognerebbe di snobbare, che continuano a sopravvivere alle idee più moderne, per ricordare a chiunque quanta bontà e schiettezza ci sia nella cucina classica di un grande ristorante. Ma le mode avanzano e la voglia di proporre nuove ricette, nuovi spunti gastronomici, in rigoroso stile “Romano”, per una clientela sempre più preparata ed esigente, era tanta. Inizia allora un lento ed attento restyling di quella che è stata per diversi decenni la filosofia di cucina di Franca Checchi (cuoca amorosa e proprietaria, insieme al marito Romano Franceschini, dell’omonimo ristorante), che è riuscita a trasmettere a chi da qualche anno l’ha affiancata, il compito di continuare a raccontare un pezzo di storia culinaria come quella del ristorante Romano. Ed ecco che i calamaretti ripieni, un must del locale, svettano ancora tra i piatti classici, insieme

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ALTA

RISTORAZIONE

ai profumatissimi antipasti di crostacei e molluschi cotti a vapore, accompagnati dalla maionese fatta praticamente davanti al cliente. Pochi piatti, conservati gelosamente e amati da chi conosce bene Romano, che si fondono perfettamente con le nuove e intriganti proposte che arricchiscono il menu, in costante evoluzione. A contribuire al cambiamento e a firmare i nuovi piatti è Andrea Papa, giovane chef originario della provincia di Potenza che, dopo il felice periodo di affiancamento con Franca, è riuscito ad entrare in piena sintonia con la filosofia della famiglia Franceschini, stabilendo anche un’ottima sinergia con Roberto Franceschini, figlio di Franca e Romano, che sta traghettando con successo il nome di famiglia da una generazione all’altra. Figura più che nota all’interno del locale del quale gestisce l’organizzazione generale e la parte enologica, come grande esperto di vini, pluripremiato, è riconosciuto a livello nazionale e presente nel ristorante fin da giovane. E Romano Franceschini, naturalmente, continua ad essere sempre attivissimo in sala, nel suo inossidabile ruolo di anfitrione, mentre Franca, dopo aver affidato ad Andrea il prezioso compito di continuare il suo incredibile lavoro di cucina, è più defilata. Un’evoluzione gentile, un passaggio di consegne per niente scontato quello che è avvenuto tra i fornelli del ristorante Romano, ma a quanto pare ben riuscito, a giudicare dai commenti e dalla soddisfazione della clientela, vecchia ma soprattutto nuova, sempre più numerosa, che accorre curiosa di scoprire nei piatti gli ingredienti di questo ennesimo successo del famoso ristorante viareggino.

OMBRINA MARINATA

seppia, mix di grani e semi, zuppetta bianca di pesce INGREDIENTI per 4 persone

della testa, della sacca del nero e dei fega-

tracina, 1 gallinella, g. 200 di triglie, 1 ci-

nel Bimby con il 10% di albume sul totale.

2 ombrine di g. 200/300, 1 scorfano, 1 polla, g. 300 di basilico, g. 500 di seppie sporche, 1 finocchio, 1 costa di sedano, grano saraceno e semi di girasole, kg. 1

di limoni, g. 15 di gelificante naturale agar

agar, olio evo, ml. 200 di riso, ml. 200 di

aceto di vino bianco, g. 400 di zucchero, ml. 200 di acqua

Aromi: aglio, peperoncino, maggiorana, basilico, menta, alloro. PROCEDIMENTO

Per l’ombrina marinata: sfilettare, privare della pelle e spinare le ombrine, porle in

una teglia, salare abbondantemente; far riposare per circa 2 ore, toglierle dal sale e asciugare i filetti.

Stendere nuovamente i filetti in una teglia. In una casseruola, far bollire l’acqua, lo

zucchero e i due aceti; una volta raffreddato, versare il contenuto sui filetti e lasciarli

marinare per circa 4 ore. Si tolgono dalla marinatura, si lasciano asciugare e si mettono barattolo da conserva.

tini, utilizzare solo la parte bianca; frullare Mettere in un sacchetto sottovuoto e sten-

dere più sottile possibile; cuocere a 80°C di vapore per circa 4 minuti.

Procedimento per il gel di limone: far cuocere in una casseruola 200 grammi di succo di limone filtrato, 600 grammi di acqua, 200 grammi di zucchero, 16

grammi di gelificante naturale agar agar; amalgamare ben bene, filtrare e lasciare

raffreddare. Frullare al Bimby fino ad ot-

tenere un gel liscio e lucido. Versare in un sac a poche.

Per la zuppetta bianca di pesce: in una

casseruola fare appassire la cipolla, il seda-

no e il finocchio, aggiungere i pesci privati delle interiora e degli occhi, rosolare e sfu-

mare con il vino bianco. Ricoprire di ghiaccio e far cuocere a fuoco dolce per circa 2

ore. Passare in un passaverdura, aggiungere il basilico e lasciare in infusione a bordo

stufa per 30 minuti, filtrare e aggiustare di sale e pepe.

In un casseruola scaldare a 70°C l’olio evo

COMPOSIZIONE

trare. Una volta freddo, ricoprire i filetti di

coprire con un velo di seppia, aggiungere

con tutti gli aromi; lasciare insaporire e filombrina e lasciare in frigo per un giorno prima di servire.

Per la seppia: pulire le seppie, privarle

In un piatto fondo, adagiarvi l’ombrina, i semi e il grano precedentemente tostati,

qualche punta di gel di limone e servire guarnendo con la zuppa non troppo calda.

ROMANO

Via Giuseppe Mazzini, 120 Viareggio (LU)

Tel. 0584 31382

www.romanoristorante.it

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GOURMETFOOD

RISOTTO ALLA MARINARA 2018

crostacei, nero di seppia, polvere di gamberi rossi e alghe con bisque di scampi INGREDIENTI per 4 persone

tare una schiuma con l’aiuto della lecitina

game far aprire le vongole, preceden-

sporche, g. 250 di scampi, g. 200 di cicale

Per la polvere di gamberi rossi: levare

il vino bianco. Recuperare il liquido di

g. 250 di riso Carnaroli Superfino, 2 seppie

(a Viareggio così si chiamano le canocchie), g. 250 di gamberi rossi, olio di semi,

g. 200 di alghe lattuga di mare, g. 200 di vongole veraci, 1/2 bicchiere di vino

bianco, lecitina di soia, 1/2 cipolla, brodo vegetale.

PROCEDIMENTO

Per la bisque di scampi: in un rondeau

rosolare un fondo di carote, sedano, cipolle e basilico; aggiungere le teste degli scampi e continuare a rosolare a fuoco forte.

Bagnare con il brandy, far evaporare l’al-

cool, aggiungere del ghiaccio e far cuoce-

re per circa un’ora. Filtrare il liquido ottenuto e far ridurre di almeno un 1/3. Mon-

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di soia.

le teste ai gamberi, sbollentarle per circa

un minuto, adagiarle in una teglia e lasciar disidratare in forno a 65°C fino a completa

essiccazione; frullare il tutto e passare al setaccio.

Per la polvere di alghe: dissalare le alghe

temente ben spurgate, sfumandole con

cottura delle vongole in un bicchiere del mixer e iniziare a frullare con un frullatore

a immersione aggiungendo a filo l’olio di semi, fino ad ottenere la cremosità della maionese.

lattuga di mare, asciugarle e farle essicca-

Tostare il riso in un tegame, bagnare con il

Per il nero di seppia: pulire le seppie la-

6 minuti aggiungere le code dei crostacei

re. Frullare il tutto e passare al setaccio.

sciando da parte testa e corpo, staccando delicatamente la sacca contenente il nero

e i fegatini. Metterli a cuocere in un fondo di cipolle, olio extravergine di oliva e basilico per circa un ora a fuoco basso. Filtrare

il tutto e lasciare ridurre fino alla consistenza desiderata.

Per la maionese di vongole: in un te-

brodo vegetale e iniziare la cottura. Dopo

battute al coltello, un cucchiaio di bisque

e ultimare la cottura per altri 12 minuti. Mantecare con un cucchiao di olio evo, un cucchiaio di maionese di vongole, aggiu-

stare di sale e pepe. Adagiare nei piatti, guarnire con polvere di alghe, polvere di

gamberi rossi, salsa al nero di seppia e la schiuma di bisque di scampi.


ALTA

RISTORAZIONE

SPAGHETTI ALLA CHITARRA

piselli, acqua di ostriche, crudo di scampi e polvere di capperi di Pantelleria INGREDIENTI per 4 persone

Sgusciare gli scampi, togliere il fi-

leria piccoli, 4 ostriche, ml. 100 di olio di semi, 1/2 limone, 1/2 cipolla, 1/2 bicchiere di

code al coltello, condirli con un filo

g. 400 di pasta fresca all’uovo, g. 300 di piselli freschi, una manciata di capperi di Pantelvino bianco, 6 scampi, brodo vegetale, sale, pepe, peperoncino, aglio. PROCEDIMENTO

Per la polvere di capperi: dissalare i capperi, farli disidratare in forno a 65°C, poi frullarli fino ad ottenere una polvere finissima.

Procedimento per la crema di piselli: in una casseruola fare appassire la cipolla, aggiun-

gere i piselli e far cuocere per 10-15 minuti; versare in un bicchiere del mixer, aggiungere

mezzo bicchiere di brodo vegetale, un cucchiaio di olio evo, aggiustare di sale e pepe e frullare con un frullatore a immersione.

Per la salsa di ostriche: aprire le ostriche, raccogliere l’acqua custodita al loro interno, filtrandola con un colino a maglia fine. Montare la salsa con un filo di olio di semi, tutto a freddo.

lo intestinale, battere la carne delle di olio evo, un briciolo di sale, pepe e zeste di limone. Stendere la pasta

fino a uno spessore di 3 millimetri e tagliarla con la tradizionale chitarra.

Cuocere la pasta in acqua salata, scolarla e mantecarla fuori dal fuoco con la crema di piselli. Adagiare sul fondo del piatto l’acqua di ostriche, lo spaghetto, il battuto di scampo e

finire con una spolverata di polvere di capperi.

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GOURMETFOOD

PANCIA DI VITELLO

mix di germogli, scalogno al vino rosso e bernese all’erba senape INGREDIENTI per 4 persone

un sacchetto per cottura sottovuoto con il

vino bianco, aceto, scalogno, pepe e allo-

burro chiarificato, dragoncello, glucosio, l.

per circa 18 ore.

a bagnomaria con il burro chiarificato; una

kg. 2 di pancia di vitello, 2 rossi d’uovo,

1 di vino rosso, 1 bicchiere di vino bianco, 1/2 bicchiere di aceto di vino bianco, 1/2

cipolla, pepe, 2 scalogni, g. 100 di burro, g. 100 di olio evo, aceto di mele, fondo di vitello.

Aromi: rosmarino, salvia e timo.

Germogli: senape, mostarda, basilico, cipolla.

PROCEDIMENTO

Per la pancia: pulire la pancia, inserirla in

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burro, gli aromi, il pepe e cuocere a 63°C Per lo scalogno al vino rosso: pulire gli scalogni e lasciarli in acqua fredda. In una casseruola far ridurre il vino rosso con un

cucchiaio di glucosio e qualche bacca di

ro; fare ridurre di un 1/3. Montare i tuorli

volta montato, aggiungere la riduzione di aceto, il dragoncello e l’erba senape tritati finemente e aggiustare di sale.

ginepro fino a consistenza desiderata. Sal-

COMPOSIZIONE

cuocere a fuoco dolce per circa 15 minuti;

con olio evo, adagiarla nel piatto, napparla

tare gli scalogni con burro e timo e farli aggiungere la riduzione di vino rosso e

un cucchiao di fondo di vitello; ultimare la cottura e filtrare il fondo.

Per la bernese: realizzare una riduzione di

Rosolare la pancia in una padella di ferro con il fondo di vitello, condire i germogli con un goccio di aceto di mele e ultimare

il piatto con lo scalogno e il suo fondo di cottura.


ALTA

RISTORAZIONE

SGOMBRO

provola e melanzane affumicate, maionese al tè matcha ed estratto di basilico INGREDIENTI per 4 persone

2 sgombri, g. 200 di provola affumicata, 1 melanzana, g. 500 di basilico, 1 uovo, ml. 200 di olio di semi, ml. 20 di succo di limone,

sale, ml. 100 di panna, ml. 100 di latte fresco, ml. 100 di olio evo, g. 5 di gelificante naturale, g. 15 di polvere di tè verde Matcha. PROCEDIMENTO

Per la melanzana: cuocere la melanzana su una griglia per circa

2 ore, fino a quando non si sarà completamente bruciata la pelle. Spellarla, eliminare i semi e trasformare la polpa in purea.

Per l’estratto di basilico: lavare bene il basilico e farlo sbollen-

tare per 2 minuti in acqua bollente, per poi farlo raffreddare in acqua e ghiaccio. Montarlo con un robot da cucina, tipo Bimby,

con ghiaccio, olio evo e il gelificante naturale; filtrare l’estratto ottenuto.

Per la provola affu-

micata: in un bicchiere

da cucina inserire la sca-

morza, la panna e il latte fre-

sco, porre in un microonde a

potenza media per 20 minuti; una

volta sciolta, filtrare e mettere in un

COMPOSIZIONE

sifone per panna, caricare il gas e lasciare

Scottare i filetti di

riposare per un ora circa in frigo.

Per la maionese al tè Matcha: preparare una norma-

le maionese, lasciandola leggermente più morbida, aggiungere la

sgombro in una padella an-

tiaderente, soltanto dalla parte della pelle,

polvere di tè matcha, far amalgamare bene e metterla in un sac a

fino a quando non diventa croccante; porre nel centro del piatto

Nel frattempo pulire gli sgombri eviscerandoli e poi sfilettarli, spi-

melanzana e maionese al tè.

poche.

narli e metterli in frigo.

il filetto, sifonare sopra la provola, qualche spuntone di purea di Servire con l’estratto di basilico.

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GOURMETFOOD

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ALTA

RISTORAZIONE

LE VIBRAZIONI 2.7 DI

TERRY GIACOMELLO IL VIAGGIO SENSORIALE DI INKIOSTRO di

Maria Vittoria Caporale foto di Niko Boi

Le Vibrazioni 2.7 di Terry Giacomello: benvenuti da Inkiostro. Nella periferia di Parma è difficile immaginare di incontrare un ristorante come Inkiostro. E invece è proprio qui, nella Città Creativa UNESCO per la Gastronomia, all’interno di un cubo nero iper-moderno fondato dalla famiglia Poli nel 2011, che brilla la stella Michelin dello chef friulano Terry Giacomello, alla guida della cucina di Inkiostro dal 2015. Varcata la soglia, in un’atmosfera elegante, si viene accolti dal personale di sala attento e preparato, orchestrato dalla patronne Francesca Poli che narrerà, con minuziosa precisione, le creazioni dello chef. Vibrazioni 2.7 compie un anno a giugno ed è il menu degustazione che meglio esprime l’offerta gastronomica del ristorante, è un viaggio sensoriale che dura il tempo di quindici portate e che, piatto dopo piatto, fa vibrare tutti e cinque i sensi. La cucina di Giacomello è contaminazione, è voglia di stupire i commensali giocando con i loro sensi, con l’uso dei colori, delle consistenze e le inusuali tecniche di preparazione, prime fra tutte, la fermentazione. È un giro intorno al globo attraverso i viaggi dello chef passando per le cucine che lo hanno formato: in Francia con Marc Veyrat e Michel Bras, quasi quattro anni al Bulli con Ferran Adria, con Alex Atala in Brasile, al Mugaritz con Andoni Luis

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GOURMETFOOD

Aduriz e infine in Italia, con Sergio Mei al Four Season di Milano. Ma è anche una cucina di grande rispetto, per il suo territorio di adozione e per le materie prime, come testimonia da subito Cellophane, uno dei piatti in apertura: un sottile foglio trasparente di fecola e tapioca racchiude un cubetto di zenzero, uno di Parmigiano Reggiano Vacche Rosse e menta. Il risultato? Un’esplosione di gusto, filo conduttore dei piatti in degustazione. Penna di Calamaro (a sinistra), è un piatto monoingrediente così esteticamente perfetto da indurre il cameriere a precisare che la penna edibile è unicamente quella posta al centro del piatto. La struttura è realizzata con manitolo e isomalto, al suo interno un’emulsione di calamari scottati e grigliati viene decorata con gocce di Garum, una salsa di pesce amatissima degli antichi romani e già utilizzata dai Greci nel V secolo a.C. ottenuta facendo fermentare le interiora di pesce. Qui lo chef utilizza le interiora del

PENNA DI CALAMARO INGREDIENTI

g. 90 di manitolo, g. 10 di isomalto, g. 250 di calamari puliti e crudi, g. 250 di calamari cotti, g. 110 di olio di semi. PROCEDIMENTO

Mettere settovuoto i calamari con l’olio di semi e cuocere a 70°C per 2 ore. Quando

saranno cotti, scolare e frullare con un mix e montare come se fosse una maionese; tenere da parte.

Per la penna: unire manitolo ed isomalto e portarli a 120°C, quindi prendere lo

stampo a forma di penna ed immergerlo nel liquido ottenuto. Far raffreddare… attenzione perché è molto fragile.

Per il garum: utilizzare 250 grammi di scarto di calamaro, 110 grammi di sale, 400

grammi di acqua, 110 grammi di koji. Mescolare tutto, sterilizzare sottovuoto a 60°C per 10 minuti e mantenere in armadio caldo per 6 settimane a 60°C.

Prima di servire, prendere la penna di zucchero, mettervi sopra la maionese di calamaro, terminare con la salsa di garum.

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ALTA

RISTORAZIONE

calamaro stesso. Fermentando il latte vaccino, invece, si ottiene il kefir, nota acidula nel brodo di olio extravergine di oliva del Lago di Garda in cui è immersa la ventresca di salmone cotta sulla sua pelle in caviale e salmone. Il territorio emiliano lo si incontra in Midollo (qui sotto), un’emulsione di midollo di prosciutto di Parma Ruliano 18 mesi con colatura di alici, melassa di fichi e sorbetto d’uva ed è il protagonista di Nidi di Rondine in cui il Parmigiano Reggiano incontra la Cina: i filamenti di siero di Parmigiano 24 mesi vengono serviti su un succo di lattuga fermentato, grani di kefir e, a chiudere, gocce di aromatico olio di palissandro, ottenuto dalla distillazione dei trucioli di legno. L’Oriente è una terra molto presente in Vibrazioni 2.7. Il Giappone fa capolino in Cuore (foto a pag. 56), quello di vitello di razza Rendena marinato nel sale di Maldon e nel succo di rapa rossa per 35 giorni, accompagnato da una composta di alga Nori e Wasabi e

Vadouvan, ma anche in Aletta di Pollo, disossata e cotta a bassa temperatura, dove i fagioli rossi, molto utilizzati nella pasticceria nipponica, vengono fermentati con tofu e poi filtrati per creare una salsa affiancata a quella di clementine. Il fiore di Loto (foto a pag. 56), altro ingrediente comune sulle tavole dell’Asia orientale e meridionale, viene trasformato dallo chef: il suo germoglio, privato della pelle, è marinato per una settimana in un vaso ermetico con zucchero, aceto e acqua e servito su un letto di salsa olandese, la cui origine risale all’epoca rinascimentale francese, aromatizzata con burro di nocciole. Il tutto viene spolverato con shiso rosso e salsa di soia disidratati. Ed è proprio la salsa di soia uno degli elementi che si ritrova in Rana Pescatrice a cui attribuisce, con la sua affumicatura, un’interessante nota aromatica. Il fegato di questo pesce è perfetto abbinato al Tacupì, salsa tradizionale

brasiliana prodotta dalla linfa estratta dalla radice della manioca, al miele di tiglio, apprezzato per la sua dolcezza e le sue note balsamiche, nonché ai germogli di coriandolo. Della Francia Terry Giacomello celebra la tradizione con la creatività che lo contraddistingue: Patata Fondente (qui sopra) è un involucro di manitolo farcito di spuma di patata su gelée di fondo di vitello. Un gioco di consistenze, sapidità e dolcezza. Il percorso sensoriale giunge al termine con due importanti tributi.

MIDOLLO DI PROSCIUTTO CRUDO INGREDIENTI

etamina. Portare a bollire acqua con agar,

sciutto crudo 18 mesi, g. 0,6 di agar agar,

frullare ed aggiungere la Xantana e colare

g. 100 di acqua, g. 20 di midollo di prog. 0,4 di Xantana, g. 25 di grasso di pro-

sciutto crudo fuso, g. 360 di succo d’uva, g. 110 di acqua, g. 20 di glucosio, g. 70 di prosorbet, g. 100 di zucchero semolato,

g. 0,3 di Xantana, g. 10 di caviale di acciughe, g. 200 di uva fresca bianca, g. 2 di mosto cotto di fico. PROCEDIMENTO

Prendere un midollo di prosciutto crudo, rompere l’osso ed estrarne l’interno. Nel

unire il midollo, il grasso di prosciutto, nello stampo. Mettere in frigo e lasciar rapprendere.

Per il sorbetto all’uva: unire il glucosio,

lo zucchero, il prosorbet, la Xantana e l’ac-

qua. Scaldare il tutto mescolando fino a quando non si ottiene un composto omogeneo. Metterlo in planetaria e raffreddare con azoto liquido.

Per la colatura di alici: procedere con il metodo della sferificazione.

frattempo procedere alla distillazione del

PRESENTAZIONE

di quest’ultimo. Passare il midollo di pro-

gere colatura di alici e mosto ed il sorbet-

grasso di prosciutto, utilizzando la cotenna sciutto crudo al Pacojet e passarlo su una

Posizionare su un piatto il midollo, aggiunto. Decorare con uva fresca.

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GOURMETFOOD

FIORE DI LOTO INGREDIENTI

g. 40 di germo-

glio di fior di loto pelato, foglie di

shiso rosse, uova,

salsa di soya, burro

nocciola, germogli. PROCEDIMENTO

Per i germogli di loto:

mettere sotto-aceto i ger-

mogli di fior di loto in una ma-

rinata composta da 500 grammi

di zucchero, 400 grammi di aceto, 200

grammi di acqua. Lasciare marinare per una settimana in un vaso ermetico.

Per il misto di spezie: fare disidratare lo shiso, quindi tritarlo finemente con salsa

di soya essiccata, ottenuta a sua volta

dalla disidratazione della salsa liquida. Mettere il composto da parte.

Per la salsa olandese: sbattere le uo-

va con succo di limone, sale e burro nocciola, quindi cuocere il compo-

sto a bagnomaria come per fare una

normale salsa olandese. Introdurre il composto ottenuto in un sifone da mantenere a temperatura ambiente.

La salsa olandese va fatta di volta in volta, quando necessaria per l’uso. PRESENTAZIONE

Mettere la salsa olandese in una fondi-

na, inserire il germogli di fiore di loto in piedi, aggiungere ad ogni bulbo la polvere di spezia. Guarnire a piacere.

CUORE DI MANZO INGREDIENTI

g. 100 di cuore di vitello intero pulito (razza Rendena), g. 70 di succo di rapa rossa, g. 60 di sale Maldon, g. 150 di zucchero moscovado, g. 30 di zucchero di canna

demerara, g. 10 di foglie di limone griglia-

te, 1 cipolla grigliata, g. 10 di coriandolo, g. 10 di semi di finocchio, g. 10 di cardamomo, wasabi, alga, insalatine miste. PROCEDIMENTO

Per il cuore: preparare succo per la marinatura del cuore (70 grammi di succo

di rapa rossa, 60 grammi di sale Maldon, 150 grammi di zucchero moscovado, 30 grammi di zucchero di canna demerara.

Mescolare ed inserire in un sacchetto per il sottovuoto. Introdurre il cuore pulito.

Lasciare marinare per 35 giorni a tempera-

tura ambiente. Verificare di tanto in tanto il processo, facendo attenzione che non

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ALTA

RISTORAZIONE

‘’Mugaritz’’ (a destra) è una dedica dello chef all’omonimo ristorante bistellato di Errenteria ed è un capolavoro di tecnica ed estetica. La mela, dopo un bagno di due ore in calce viva e una cottura in acqua e lattosio viene inoculata con Pennicillium Candidum che svilupperà, nell’arco di 4 giorni, la muffa bianca tipica di alcuni formaggi come il Camembert. Al suo interno, un cuore di crema di mela verde centrifugata aromatizzata al cardamomo. Non poteva mancare un omaggio alla famiglia Poli, che Francesca rappresenta da Inkiostro: Poli-stirolo, un cannolo di riso soffiato ripieno di gelato alla violetta di Parma e spuma di cavolo viola. Lo studio e le sperimentazioni di Terry Giacomello non si arrestano mai, Vibrazioni 2.7 ‘’verrà presto sostituito dal nuovo menu’’ e, a noi, non resta che attendere.

RISTORANTE INKIOSTRO

Via S. Leonardo, 124 - Parma Tel. 0521 776047

www.ristoranteinkiostro.it info@ristoranteinkiostro.it

rinatura. Passati i 35 giorni, estrarre il

“OMAGGIO A MUGARITZ” - LA MELA

lo in frigo.

INGREDIENTI

foglie di limone e una cipolla, quin-

qua, g. 250 di latte, g. 1 di pinicillina candidumdum, mele verdi, g. 3 di cardamo-

si formino alterazioni durante la macuore dal sacchetto, quindi conservarPer le spezie: grigliare 10 grammi di di tritare entrambi con il coriandolo,

i semi di finocchio e il cardamomo.

g. 80 - 6 mele gialle, l. 1 di acqua, g. 20 di calce viva, kg. 2 di lattosio, l. 3 di acmo, g. 3 di agar agar.

Conservare in un barattolo ermetico.

PROCEDIMENTO

fresco a cubetti piccoli, quindi mettere

mergerle in un bagno di acqua e calce viva per 2 ore mescolando di tanto in

Per la composta: tagliare il wasabi

a cuocere con 50 grammi di zucchero

e 80 grammi di acqua. Una volta che il

wasabi è diventato tenero, aggiungere le alghe wakame e frullare il tutto. PRESENTAZIONE

Tagliare il cuore sottilissimo a fette,

adagiarlo su un piatto per il servizio. Aggiungere quindi l’insalatina a lato.

Sopra il cuore aggiungere polvere di spezie e composta di wasabi ed alga.

Completare con una goccia di olio extravergine e sale Maldon.

Prendere le mele gialle, sbucciarle e cercare di dare una forma omogenea. Imtanto. Trascorse le due ore, lavarle e cuocerle per 30 minuti in un bagno di acqua

e lattosio, quindi scolare e lasciar raffreddare nel liquido di cottura. Togliere il picciolo partendo dal basso ed estraendo la polpa con l’aiuto di uno scavino.

Nel frattempo centrifugare la mela verde fino ad ottenerne 220 grammi, e mettere il succo in infusione con il cardamomo per un giorno sottovuoto.

Trascorso questo tempo, scolare e reidratare con agar agar e poi porre il com-

posto in frigo a rassodare. Una volta rassodato, frullare il tutto per ottenerne una spessa crema.

Aggiungere al latte il penicillum e mescolare, quindi prendere le mele gialle ed immergerle.

A questo punto collocare le mele in una teca di cristallo, e lasciarle fermentare

per 4 giorni ad una temperatura di 20-23°C. Quando la muffa sarà formata, farcirle con la crema di mela verde.

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© Matteo Carassale

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GOURMETFOOD


ALTA

RISTORAZIONE

A MENTON

MAURO COLAGRECO È L’ARGENTINO CHE HA CONQUISTATO LA FRANCIA di

Flavia Tomaello

Mauro Colagreco è riuscito a raggiungere le posizioni più alte della cucina mondiale e tre stelle Michelin. In questa conversazione esclusiva per La Madia, ci ricorda un po’ la sua storia. Cresciuto nella città di La Plata, era solito trascorrere l’estate a Tandil, nella casa dei nonni che coltivavano un orto. Era lì che mangiava i pomodori colti direttamente dalla pianta. Diciannove anni fa, la decisone di inseguire il suo sogno e il trasferimento proprio nella culla della gastronomia mondiale, senza quasi conoscere il francese e senza risorse economiche. Ricorda che aveva con sé solo il numero di telefono dell’amico di un amico. Questo gli ha fatto capire fin dall’inizio che era da solo a vivere in un microcosmo estremamente autoreferenziale e dove lasciar spazio ad un outsider sarebbe stato quasi una vergogna. Ma ecco ad un tratto, e come sempre per caso, presentarsi una possibilità. Dopo cinque anni passati a lavare i piatti degli altri, dai discorsi di alcuni commensali trapela un’informazione: un ristorante chiuso ormai da anni apre a una possibile speranza. Si trova a Menton, dove il “bonjour” e il “buongiorno” si mescolano. Non era la migliore delle opzioni; non era da considerarsi centrale tutto ciò che non portasse clienti di passaggio. Aveva chiuso i battenti con una pessima fama addosso e non sarebbe stato facile recuperare affidabilità. Ma è quel panorama mozzafiato, quella vista che si gettava a picco sulla Costa Azzurra a proporre allo chef il matrimonio e a dare inizio così alla sua prima esperienza diretta.

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GOURMETFOOD

L’INTERVISTA Quello che è successo in seguito è ormai parte del mito che aleggia sullo chef argentino che suole definirsi un autodidatta e che è diventato il primo chef latino ad ottenere tre stelle Michelin, e il primo straniero ad ottenere il riconoscimento in terra francese. Ha creato una tendenza: la cucina argentina con ispirazione mediterranea. Con questi presupposti si è spinto anche oltre le ripide montagne di Menton: il Four Seasons Resort a Palm Beach, Florida; Shangri-la Hotel a Pechino e la stazione sciistica sulle Alpi di Courchevel nell’Hotel Barriere Les Neiges hanno un ristorante che segue le sue indicazioni. All’interno dei confini argentini la sua luce brilla con “Carne”, mentre a Parigi “Abuelo” è la birreria che ha scelto di progettare nel quartiere di Marais.

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Qual è il suo primo ricordo collegato alla cucina? La raccolta nei campi di pomodori con mia nonna a Tandil, dove andavo per le vacanze, e la pasta fresca fatta in casa insieme a lei. Era nata a Bilbao ma era arrivata in Argentina quando aveva due anni e non era più riuscita a a far ritorno nella sua città natale. Il suo baccalà con ceci e patate era squisito. Cosa mangiava in casa da piccolo? Il puchero (bollito, ndr) di mia mamma. Ce lo preparava in inverno quando tornavamo dal collegio e faceva freddo. C’erano ingredienti che non amava a quel tempo? In realtà mia mamma era sempre molto premurosa e mi cucinava sempre piatti che mi piacevano. Era il suo modo di viziarci. Come viene influenzata la sua gastronomia dalle sue diverse esperienza di vita? Senza dubbio l’arricchiscono. Tutte le esperienze, belle o brutte che siano, aggiungono un tassello al mio stile. I primi anni della mia carriera in Francia non sono stati facili. Questo mi ha insegnato l’importanza di ogni piccolo gesto, di ogni dettaglio e soprattutto mi ha insegnato a evitare gli sprechi. Le esperienze come cuoco nelle cucine di Alain Ducasse, Alain Passard, Guy Martin mi hanno formato per lavorare in ogni situazione e in ogni tipo di ruolo in cucina. I continui viaggi per il mondo non fanno altro che alimentare la mia creatività!


ALTA

RISTORAZIONE

Zucchine, lumache di mare e basilico.

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GOURMETFOOD

ASPARAGI

lardo e aglio selvatico INGREDIENTI per 4 persone

Per il condimento di aglio selvatico: cc. 5 di olio extravergine d’oliva, g. 50 di limone cedro, g. 280 di foglia di fiore d’aglio selvatico, g. 50 di foglie di coriandolo, g. 20 di purè di spinaci, g. 5 di zenzero fresco, 1/4 di arancia grattugiata, succo di 1/4 d’arancia, fior di sale.

Per la crema doppia di grana padano: g. 100 di grana padano stagionato 36 mesi, g. 100 di burro, 5 uova, g. 30 di panna da cucina (con il 35% di grasso) montata.

Per il raviolo di lardo di Colonnata: cc. 5 di olio extravergine d’oliva, g. 30 di scalogno, g. 80 di asparago verde, g. 20 di pasta di miso bianco, 4 fette lunghe di lardo di Colonnata. Per gli asparagi: 4 asparagi verdi grandi, succo di 1/2 limone, fior di sale. Per l’aglio selvatico: 1 rametto di aglio con fiori e bulbo, sale. PROCEDIMENTO

Per il condimento di aglio selvatico: in una casseruola, scaldare l’olio d’oliva e aggiungere il limone cedro tagliato a brunoise, facendolo traspirare senza che prenda colore.

Aggiungere 200 grammi di foglie di fiore d’aglio e le foglie di coriandolo. Cuocere

per appena un paio di minuti. Togliere dal fuoco. Salare. Tagliare e aggiungere il purè di spinaci, lo zenzero fresco tagliato

a brunoise, l’arancia grattugiata e il succo. Tagliare i restanti 80 grammi di foglie di

fiore d’aglio in striscioline lunghe, strette e ben schiacciate e ggiungerle al composto.

Per la crema doppia di grana padano: versare il formaggio grattugiato, il burro e

le uova in un Thermomix e mescolare, cucinando a 65°C per 5 minuti. Poi, alzare la temperatura a 75°C per altri 5 minuti. Aggiungere la panna da cucina ben montata.

Per il raviolo di lardo di Colonnata: per il ripieno, scaldare l’olio e rosolare lo sca-

logno tagliato a brunoise, facendo attenzione che non prenda colore. Aggiungere

l’asparago verde tagliato a brunoise, la

pasta di miso bianco e cuocere per qualche minuto. Lasciar raffreddare.

Distribuire su ogni striscia di lardo di Colonnata 30 grammi di ripieno.

Chiudere a mo’ di pacchetto (realizzare quattro pacchetti). Scaldarli velocemente in una padella in modo che prendano un

po’ di colore e mantenere il calore del forno a 30°C.

Per gli asparagi: pelare gli asparagi, sbiancarli in acqua bollente con sale e succo di mezzo limone. Toglierli velocemente dall’acqua e passarli sotto l’acqua fredda.

Per l’aglio selvatico: sbiancare il rametto

di aglio selvatico in acqua bollente e sale.

Toglierlo velocemente, facendo attenzione che gli ultimi centimetri di gambo e i fiori non tocchino l’acqua perchè il calore

li potrebbe rovinare. Passare subito sotto l’acqua fredda. IN TAVOLA

Scaldare gli asparagi con acqua e succo di limone, rimuoverli e tagliare il gambo di sbieco. Collocare un raviolo nel piatto, una cucchiaiata di crema di grana padano,

il resto degli asparagi e i fiori. Condire con

un cucchiaino del condimento di aglio selvatico e fior di sale.

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ALTA

RISTORAZIONE

Come si diventa leader in cucina? Quali caratteristiche occorre avere? Passione, dedizione totale, umiltà, curiosità e sete di conoscenza, amore, costanza, pazienza. Ho avuto la fortuna di crescere professionalmente in Francia dove c’è molta attenzione verso la scelta del prodotto e dove concepisce la cucina come un processo che parte da un buon prodotto, e quindi tutto è molto più facile perchè non devi nascondere imperfezioni o potenziare sapori: il sapore è dentro il prodotto. Un pomodoro che è cresciuto sulla pianta, che lì è maturato, che non è stato contaminato da agenti agrochimici è completamente diverso e si sente, e tutto diventa più semplice e facile. Come è riuscito a costruire uno stile proprio? L’ho alimentato giorno per giorno, facendomi sempre la stessa domanda: è questo il meglio che posso fare? E continuo a far così. Dove pensa che siano dirette le tendenze della gastronomia internazionale e, in particolare, le tendenze della sua cucina? Sicuramente verso la ricerca della qualità e dell’eccellenza, in forme sempre più sostenibili. Quali sfide affronta tutti i giorni nel suo ristorante? Proprio questo, l’ecosostenibilità: la battaglia quotidiana contro l’uso della plastica, la ricerca di fornitori responsabili e la consapevolezza del mio staff. Chi intende unirsi alla famiglia del Mirazur deve attenersi a questi principi fondamentali. Saprebbe differenziare queste sfide nella quotidianità nel Mirazur e in Carne? Si tratta di due concetti fondamentel-

© Eduardo Torres

mente diversi. Carne mira all’eccellenza dell’hamburgher e assicura la continuità nella massima qualità nel suo prodotto di punta; Mirazur lavora con ingredienti diversi ogni giorno secondo la disponibilità del mercato. I piatti cambiano con il ritmo della natura e stiamo sempre creando nuove ricette. Potrebbe formulare dieci aggettivi per lo stile della cucina che caratterizza il suo ristorante? Legata alla natura, generosa, di condivisione, bella, frontaliera, ecosotenibile, saporita, inaspettata, allegra, avvolgente, seducente. Potrebbe parlarci di cinque ingredienti o piatti che Le piace mangiare? Gli agrumi, simbolo di Menton, il pomodoro, il cioccolato, i gamberoni di Sanremo, prodotti d’eccellenza del Mar Mediterraneo che si apre davanti al Mirazur, il formaggio di Sospel, paesino sulle Alpi Marittime che ha un sapore incredibile. Se c’è stato un momento in cui è stato sul punto di gettare la spugna, cosa l’ha fatta tornare sui tuoi passi? I sacrifici della mia famiglia, tutto ciò che io e i miei genitori abbiamo investito in questo percorso. Lo dovevo a loro e a me stesso. C’è qualche traccia delle sue radici argentine che marca una differenza nella sua gastronomia? Mi piace a volte aggiungere un tocco argentino in certi piatti, per ricordare le mie radici e per permettere ai miei clienti di conoscermi ancor di più. È una cucina personale, chi mangia al Mirazur mangia anche un pezzo della mia vita ed è questo che fa la differenza. MIRAZUR

30 Avenue Aristide Briand, 06500 Menton, Francia Tel. +33 4 92 41 86 86

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GOURMETFOOD

CUCINA D’ALTA QUOTA di

Flavia Tomaello

Central rappresenta in Perù una rilettura personale della cultura culinaria locale. Virgilio Martínez l’ha pulita dalle erbacce e ha trovato un nuovo sapere che è riconosciuto a livello internazionale.

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ALTA

RISTORAZIONE

A

Lima si trovano tre dei 50 migliori ristoranti del mondo e al 5° posto si trova Central, un’impresa a gestione familiare di Virgilio Martínez e Pía León. I due, marito e moglie, hanno agganciato il ristorante ad un progetto di sostenibilità chiamato “Mater Iniciativa”, che coinvolge un gruppo di sperimentatori coscienti della mancanza di interazioni tra i diversi scenari del proprio Paese. Ogni campagna intrapresa è di fatto un’avventura orientata al rispetto della ciclicità che la terra determina. In questo modo la carta menu si nutre della foresta, della costa, del deserto, dell’altopiano e della pianura, cambiando con frequenza e adattandosi a ciò che il team scopre di volta in volta e a ciò che la cucina genera.

IL RECUPERO DELLA STORIA E DEI PRODOTTI TERRITORIALI Il gruppo di Central, insieme al suo alleato “Mater Iniciativa”, si sono imposti di valorizzare questo Paese come un luogo pieno di prodotti unici, di paesaggi, di cultura e tradizioni, di storie e, soprattutto, di persone che vivono per tramandarle. Questo gruppo lavora assiduamente per generare vincoli e cercare di rendere visibili elementi ai quali abitualmente la gente non farebbe caso. Ed è così che ha creato un ristorante urbano e cosmopolita nel quartiere di Miraflores, il più newyorkese di Lima. Senza contare la posizione, che risulta decisamente azzeccata, Martínez è uno chef che può permettersi di rischiare, creando i suoi piatti dagli ingredienti che trova nei villaggi andini, dopo essersi guadagnato la fiduca e l’adesione a progetti comuni. “Là fuori c’è sempre qualcosa di più”, questo è il messaggio che attraversa la sua cucina. La novità sta però nel coraggio di uscire e di andare a cercare senza alcun timore quel

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GOURMETFOOD

SUOLO MARINO INGREDIENTI per 4 persone

Per la base di latte di tigre: g. 100 di

Immergere il cetriolo ammorbidito nel

lo: g. 100 di purè di peperoncino giallo,

peperoncino limo pepper, g. 3 di aglio,

la decorazione.

Per il latte di tigre al peperoncino gialg. 100 di foglie e gambi di coriandolo, g. 5 di base di latte di tigre, g. 50 di succo di

cipolla bianca, g. 50 di sedano, g. 5 di g. 3 di zenzero.

Per la base di latte di tigre: mescola-

limone, g. 5 di sale, g. 20 di dorada.

PREPARAZIONE

cetriolo dolce (Jicama), g. 120 di mollu-

ebollizione 100 grammi di panna densa,

Per il servizio “Mise en place”: g. 350 di schi, cannolicchi, g. 20 di alghe marine, 16

lingue di ricci di mare, 2 cariche di N2O, 16 fiori di borragine.

Per il rivestimento: cannolicchi, latte di tigre peperoncino giallo, mousse di formaggio, cetriolo dolce, cetriolini sott’ace-

to, Yuyo Seaweed (Chondracanthus chamissoi), lingua di riccio di mare.

Per la mousse di formaggio: portare a

aggiungere gradualmente il formaggio di capra grattugiato fino a farlo scioglie-

aglio, peperoncino limo, aglio e zenzero)

fino a rendere soffice il composto e mantenere in luogo fresco.

Per il latte di tigre al peperoncino gial-

di formaggio con i restanti ingredienti.

giallo alla base di latte di tigre e mesco-

nuti a 80°C, scolare, aggiungere la base

Versare in un sifone e collocare due cariche di N2O. Refrigerare.

Per la base di cetriolo sott’aceto: scal-

ml. 50 di succo di limone, g. 5 di sale.

lasciarlo raffreddare. Refrigerare.

Per la base di cetriolini sott’aceto: g. 150

re insieme tutti gli ingredienti (cipolla,

re. Mescolare in un Thermomix per 6 mi-

Per la mousse di formaggio: g. 50 di for-

maggio di capra, g. 300 di panna spessa,

succo di clorofilla per 3 minuti prima del-

dare tutti gli ingredienti in una pentola e

lo: aggiungere la pasta di peperoncino lare il tutto. Unire il pesce e il sale. Aggiungere il succo di limone.

Fare un infuso freddo nella base di latte

di tigre con le foglie e i gambi di coriandolo per almeno 5 minuti. Spremere

bene i gambi di coriandolo per estrarne al massimo il sapore e mescolare il tutto.

di aceto bianco, g. 100 di acqua fredda,

Per i cetriolini sott’aceto: sbiancare gli

Per i cetriolini sott’aceto: g. 100 di ce-

fino ad ottenere una consistenza morbi-

Servizio mise en place: pulire e tagliare

con una mandolina (1 mm). Tagliare in

cetriolo dolce e mantenere in fesco. Ta-

g. 50 di zucchero bianco, g. 5 di sale.

trioli, g. 200 di spinaci, g. 50 di acqua fredda.

spinaci e mescolare con l’acqua fredda da. Scolare. Tagliare il cetriolo per lungo fette di 15 centimetri di lunghezza e uno di larghezza.

Bagnare le fette di cetriolo nel liquido di deca-

Mantenere al freddo.

i molluschi in 4 pezzi ciascuna. Pelare il gliare le punte delle alghe marine e pre-

servarle in acqua fredda. Pulire il riccio di mare e mantenere fredde le lingue.

paggio 3 volte in

Decorazione: mescolare in una tazza

per il sotto-

te di tigre peperoncino giallo. Usando

una macchina vuoto.

grande i molluschi cannolicchi con il latun piatto freddo, estrarre 30 grammi di questo composto. Coprire con la mousse di formaggio (15 grammi circa).

Tagliare il cetriolo dolce con una mandolina (1,5 mm). (Collocare queste fettine

nella parte superiore creando delle onde e facendo cosi in modo di conferire più altezza al piatto).

Collocare le fette di cetriolo sott’aceto

sopra il cetriolo dolce. Sovrapporre 4 lingue di riccio di mare.

Coprire gli spazi lasciati vuori con alghe Yuyo (Chondracanthus chamissoi) e fiori di borragine.

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ALTA

RISTORAZIONE

“qualcosa di più”. Questa è stata di fatto la ragione per la quale ha dato vita a “Mater Iniciativa”, un team di ricercatori che gira in lungo e in largo il Perù per raccogliere ingredienti che crescono lungo i fiumi, nella foresta amazzonica, in mezzo a un bosco nella montagna più fredda o sulle cime innevate a quattromila metri di altezza. La gastronomia di uno dei Paesi con più biodiversità al mondo, esige questo tipo di spedizioni. Questo manipolo di persone è il centro della ricerca biologica e culturale che sta dietro al Central: “Abbiamo compreso come un piatto di cibo non sarà mai più importante della tradizione di un ingrediente” assicura lo chef. Oggi Central non potrebbe funzionare senza l’appoggio di “Mater Iniciativa”: “Il processo di lavoro dell’uno coinvolge la ricerca e la conoscenza dell’altro”, continua.“Grazie alla ricerca di Mater, scopriamo ingredienti che in seguito impariamo ad usare nella cucina del Central. Il nostro obiettivo è quello di conoscere l’origine di questi ingredienti e apprendere la loro storia a partire dal primo momento in cui compaiono nel mondo fino al momento in cui arrivano ad essere ingredienti dei piatti che presentiamo”.

NUTRIRSI DI EMOZIONI Riuscire a trasmettere lo stupore che si prova quando si trovano nuovi prodotti direttamente nel loro habitat naturale, è semplicemente impossibile. Tuttavia il Central, grazie al lavoro di ricerca di Mater, ha la possibilità di esporre la bellezza silvestre di radici, semi, frutti, piante striscianti, tuberi, fiori aromatici che vengono raccolti lungo il cammino. Per la curiosità dei visitatori, il ristorante ha istituito la “Caja Mater”: una specia di vetrina dove si concentrano le scoperte dei loro viaggi. Fino ad oggi sono stati raccolti nell’esposizione più di 150 prodotti, ma “siamo convinti che la biodiversità del Perù non ci lascerà a corto di nuovi protagonisti”, assicura Martínez. Ad ogni viaggio, gli abitanti delle comunità presentano nuove specie e mostrano l’uso che ne fanno. A volte ne fanno degli infusi o preparano creme per lenire i dolori muscolari. “Noi inoltre – aggiunge – le studiamo: portiamo un campio-


GOURMETFOOD

ne a Lima e, con l’aiuto di esperti in botanica, rintracciamo il nome scientifico e scandagliamo le informazioni esistenti. In Perù ci sono ancora migliaia di piante che non sono state identificate e catalogate. Se non conosciamo ciò che cresce nel nostro suolo, sarà impossibile preservarlo”. Tutti i mesi un gruppo di ricercatori di Mater Iniciativa si reca in diversi posti del Perù per immagazzinare conoscenze. Si addentrano in zone nebbiose sotto la pioggia battente, seguendo le indicazioni degli abitanti del luogo, e magari scoprono, lungo il viaggio, qualche ingrediente sconosciuto. Il rapporto di fiducia con i produttori locali permette loro di raggiungere il prodotto di miglior qualità, così come di capirne il suo uso migliore. “Abbiamo lasciato che i periodi di semina e di raccolta dettassero i tempi del nostro percorso - afferma -. La bellezza degli ingredienti ha guidato la nostra curiosità verso la terra. Ognuno di questi ingredienti racchiude una parte di storia, conoscenza e tradizione del Perù. In questo modo abbiamo elaborato un menu che dipende dalla geografia e dalle stragioni”. Così spiega il suo mondo gastronomico lo chef del Central. “È un’esperienza che proviene direttamente dagli abitanti storici di un determinato paesaggio. Il nostro lavoro è quello di far tesoro degli ingredienti che gli andini ci offrono, in modo che possano trovare posto nei piatti che si servono al Central”. Nel loro ristorante di due piani e con 70 coperti, Virgilio Martínez e Pía León vigilano l’uscita di ogni piatto fin dalla

cucina che si affaccia sulla sala. Due menu, uno breve e uno di degustazioni, vengono preparati ogni giorno. Di fatto lo chef - che è passato dalla facoltà di giurisprudenza (senza peraltro laurearsi) per approdare allo studio della gastronomia presso Le Cordon Bleu in Canada - vanta molteplici esperienze nei luoghi più disparati: Londra, Singapore, Italia, Thailandia e New York. È stato anche la mano destra di Gastón Acurio, per il quale ha gestito l’inaugurazione di Astrid y Gastón a Madrid. Central è stato un suo personale viaggio per allontanarsi dalle esperienze accumulate e per trovare dentro di sé la propria strada. E ci è riuscito oltre ogni aspettativa. I commensali escono con un piccolo quaderno di appunti: “Altitudini, il mondo in dislivello”. Nella prima pagina si legge: “Se dividiamo il mondo per altitudini, come fanno gli uomini delle Ande, non si percepisce il terreno come un piano orizzontale, ma se ne comprende la sua verticalità”.

CENTRAL

Av. Pedro de Osma, 301 - Barraco - Lima - Perù Tel. (+51 1) 2416721 / 2428575 / 2428515 www.centralrestaurante.com.pe

reservas@centralrestaurante.com.pe

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GOURMETFOOD

A BUENOS AIRES

GASTÓN RIVEIRA È IL RE DELLA CARNE MIGLIORE AL MONDO di

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Flavia Tomaello


ALTA

RISTORAZIONE

L’Argentina è conosciuta in tutto il mondo per la sua carne alla griglia. I turisti che lasciano il Paese rimangono stupiti di fronte alla miriade di offerte. A questo dato di fatto aggiungiamo anche che proprio qui si trova il miglior “parrillero” del Paese, la cui esperienza e bravura lo collocano tra i migliori ristoranti del mondo. Un’inchiesta promossa dal Governo della città di Buenos Aires, Argentina, conferma il fatto che il 76,2% degli abitanti crede che l’”asado” sia il cibo più rappresentativo della cucina argentina. Il 72% degli intervistati assicura di uscire a mangiare con certa frequenza e il 23% di loro sceglie di recarsi a mangiare in una “parrilla”. Alla luce di queste statistiche si è sviluppato il dibattito riguardo al giusto punto di cottura, al modo in cui si cucina alla griglia, se a legna o a carbone, sui tagli con o senza osso, sulla forma della griglia o sul supporto tipico delle lastre di ferro. Nonostante Buenos Aires presenti svariate proposte per placare il fanatismo di tutti i palati, la regina indiscussa è risultata la griglia di uno chef da esportazione, che si è trasformato in imprenditore di se stesso. Gastón Riveira e La Cabrera sono stati catapultati al primo posto per 17.526 votanti. Lo chef Riveira ha inaugurato il ristorante nel 2001: questo l’inizio di un percorso che lo ha portato alla consacrazione mondiale. Qui si prova ogni giorno ad offrire una nuova visione dell’asado classico e si propongono antipasti originali come la provoleta con prosciutto e pesto di basilico, oppure proposte dedicate alle frattaglie: salsicce, sanguinaccio, animelle croccanti, reni al burro con salsa provenzale, fegatelli intrecciati. Tra le carni utilizzate il vitello di Angus Argentino, ma anche di Wagyu Argentino e perfino una costata di manzo con l’osso con 15 giorni di maturazione. Questo locale è stato anche eletto tra i 50 migliori ristoranti dell’America Latina per la guida “50 Best Restaurants”, sottolineandone la scelta delle carni di prima qualità, oltre al servizio speciale che invoglia a tornarci più e più volte.

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GOURMETFOOD

Il “chuletón” argentino è la parte della spalla che include diversi muscoli (il

trapezio, il latissimus dorsi o la “tapa de asado”, il serratus ventralis, che è il muscolo dell’”asado”, il rhomboideus o “la tapa del bife”, il muscolo centrale

AL PUNTO GIUSTO Cuoco, proprietario e fondatore, Riveira ha iniziato a sognare La Cabrera 15 anni fa e a farne poi una realtà. Il suo amore per la gastronomia ha vinto sulla tradizione familiare che lo voleva avvocato. Da bambino gli piaceva la cucina, una vocazione che gli è nata dal contatto con i nonni. Dopo la scuola superiore trascorsa in collegio, decide di studiare gastronomia. Si iscrive quindi alla scuola di Alicia Berger e allo stesso tempo lavora in diversi ristoranti e hotel. Poi si reca in Europa, studia in Francia, da Lenotre, e frequenta stage in Italia, Londra e Sao Paolo e, insieme ad Alex Atala, in Brasile. Quando sente che è il momento di avere uno spazio proprio, si orienta sulla carne, “l’ingrediente nazionale che piace a tutti” e decide di

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che si chiama longissimus dorsi), la vertebra, l’osso e la carne intercostale).


ALTA

RISTORAZIONE

“EMPANADAS” DI CARNE INGREDIENTI

rettificare il condimento, chiudere con un coperchio e mettere in

Per l’impasto: kg. 1 di farina 00, 1 pizzico di sale, g. 250/350 di

Per la pasta, diporre su un piano di lavoro ben pulito la farina e il

Per 3 dozzine

grasso di maiale o strutto fuso, acqua tiepida.

Per il ripieno: g. 50 di strutto; kg. 1 di cipolle tagliate a brunoise, kg. 1 di carne (può essere di filetto) tagliata al coltello a piccoli dadi; cumino e paprica dolce o piccante q.b., 1 cucchiaio di

zucchero, origano o miscela di erbe a piacere, il bianco di 1 porro

tagliato a rondelle, g. 250 di scalogno tagliato a rondelle, sale e pepe, a piacere.

Per la cottura: olio di semi di girasole, per friggere. PREPARAZIONE

Per il ripieno, far sciogliere il grasso in una padella con i bordi alti. Saltare le cipolle fino a quando diventano ben trasparenti.

Aggiungere la carne e il condimento fatto di cumino, paprica, sale, pepe, zucchero e altre erbe a piacere.

Cuocere per mezz’ora. Prima di togliere dal fuoco, aggiungere il porro e lo scalogno.

Mantenere sul fuoco per qualche minuto. Ritirare dal fuoco e

frigo per un giorno intero.

sale a forma di vulcano. Collocare nel centro il grasso di maiale o lo strutto e aggiungere acqua poco a poco, fino a ottenere un composto omogeneo.

Avvolgere il composto in una pellicola di plastica e mettere in frigorifero per 3 ore. Togliere dal frigorifero e lavorare l’impasto facendolo ruotare quattro o cinque volte, senza smettere di im-

pastare. Rimettere in frigorifero per un’altra mezz’ora. Stendere l’impasto sul piano di lavoro fino a ottenere uno spessore di 4

millimetri. Tagliare dei cerchi di circa 8 centimetri di diametro. Far riposare.

Distribuire il ripieno nel centro dei cerchi, piegare al centro e chiudere il bordo (ognuno ha qui una sua tecnica e io, da parte

mia, applico quella che mi ha insegnato mio nonno: unire i lembi di pasta e chiudere il bordo con una forchetta).

Friggere le “empanadas” in abbondante olio fino a quando

diventano dorate. Scolare, schiacciando leggermente con una spatola il liquido sopra della carta assorbente. Servire ben calde.

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GOURMETFOOD

creare un nuovo concetto di “parrilla”: “Volevo che il mio fosse un luogo impeccabile dove tutti potessero mangiare e stare bene. Sapevo che, per farlo funzionare, avrei dovuto contare su una buona squadra con me presente, perchè un ristorante non si può far funzionare con un telecomando a distanza. È così che è nata La Cabrera, una parrilla differente. Nel Paese delle mucche e delle grandi grigliate - continua Riveira - spero che il mio ristorante sia ricordato dalle prossime generazioni come una parrilla di culto. A Buenos Aires poche cose rappresentano lo spirito porteño meglio delle sue “parrillas”: luoghi d’incontro con la carne, ma anche con amici, compagni di lavoro o famigliari. Per realizzare una cucina di qualità ogni cuoco deve cucinare con gli ingredienti che gli sono più vicini, far propria la storia della sua gente, della sua terra e delle sue materie prime. - aggiunge - La Cabrera è una casa della carne ma mantiene indubbiamente quello spirito di taverna che tanto ricorda la famiglia. Tutto il percorso che vivono le persone dal momento in cui arrivano fino a quando se ne vanno, è un’esperienza pensata per connetterle con il desiderio e con il piacere di mangiare. Noi siamo questo: siamo menu, siamo ambiente e siamo servizio”.

LAPROIEZIONE DI UNO STILE Innovatore e uomo inquieto; autentico, compulsivo riguardo alla carne alla griglia; e la sua curiosità e il suo spirito imprenditoriale lo rendono ossessivo nei dettagli. Oggi possiamo dire che è riuscito a creare un mix che funziona: un insieme tra bistrò francese e bodegon argentino. Ora si è inoltre imposto l’obiettivo di colonizzare il mondo con altri “cabreras”. È sbarcato con un sistema di franchising in Paraguay, Perú, Messico, Brasile, Bolivia, Filippine e, prossimamente, Cile. Per quest’anno si è prefisso la sfida di creare un percorso attraverso le culture latine. Avocado e platano messicano, patate peruane delle Ande, mandioca del Paraguay, fagioli neri del Brasile e quinoa boliviana sono solo alcuni degli ingredienti che andranno in tournée e accompagneranno i migliori tagli di carne, come la carne grigliata all’americana, l’”ojo de bife”, il controfiletto e la tagliata di Wagyu argentino o la pamplona ripiena di pollo. Ha inoltre pubblicato il suo primo libro che ha lo stesso titolo del suo ristorante. Qui si raccontano sia la storia che i segreti del suo locale, oltre che le sue ricette più famose, in spagnolo e in inglese. Ecco alcuni dei suoi segreti: fuoco in quantità a una distanza di 15 centimetri, sale, pepe e buona carne. Diversamente da altri che usano per la griglia i ferri profilati a forma di V, lui li preferisce tondi. La sua carne è lasciata maturare per due settimane a una temperatura che si aggira tra i 2 e gli 0 gradi centigradi, viene appesa con l’osso: ciò migliora la carne rendendola più tenera e dandole più sapore. Adora mangiare ciò che cucina, ma con moderazione, perchè, come egli stesso dice: “tanta carne ingrassa”.

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ALTA

RISTORAZIONE

COTOLETTA DI CONTROFILETTO ALLA NAPOLETANA INGREDIENTI

Per 1 persona

1 bistecca di controfiletto di g. 400 2 uova

aglio tritato a piacere

prezzemolo tritato a piacere pane grattugiato q.b. olio per friggere q.b.

formaggio provolone grattugiato q.b. 1 cucchiaio di salsa di pomodoro 2 fette di prosciutto cotto

4 fette di formaggio tagliato con l’affettatrice

1 pomodoro tagliato a fette origano a piacere

sale marino e pepe, a piacere PREPARAZIONE

Battere la carne in modo da schiacciarla bene. Sbattere le uova insieme con l’a-

glio, il prezzemolo, il sale e il pepe. Sala-

re la carne e impanarla passandola prima sul pane grattugiato e poi sull’uovo e di

nuovo sul pane grattugiato. Friggere in una padella profonda e con abbondante

olio o in una friggitrice. Grattugiare il formaggio provolone. Disporre sopra la cotoletta la salsa di pomodoro, le fette di

prosciutto crudo, le fette di formaggio, il provolone grattugiato, le fette di pomo-

doro e l’origano. Cuocere la cotoletta in forno fino a quando il formaggio si fonde e servire all’istante.

LA CABRERA

Cabrera 5099, Palermo

Buenos Aires - Argentina www.lacabrera.com.ar

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INTERVISTA A...

MASSIMO CIFARELLI IL PANE DI MATERA: UN PATRIMONIO MONDIALE di

Lucy Gordan

Per quanto riguarda il pane, il know-how italiano risale a tanti secoli fa. Oggi ogni città, dal nord al sud, può vantarsi del proprio pane “fatto in casa”, ma due tra i più apprezzati provengono da Altamura in Puglia e da Matera in Basilicata. Conosciuta per le sue chiesette rupestri e per le sue abitazioni caverne chiamate “sassi” (che hanno origine da insediamenti preistorici) Matera è tra gli insediamenti più vecchi d’Italia. Nel 1950 il governo italiano del dopoguerra ha obbligato con forza i residenti a lasciare “i sassi” (dove abitavano nella miseria e nelle malattie, nella stessa stanza con loro animali da lavoro) e a trasferirsi a Martella in case appena costruite appositamente, ma purtroppo a 15 kilometri di distanza e senza mezzi per poter continuare a lavorare nei territori abitati fino ad allora. Da sempre fino agli anni ’50 gli abitanti dei “Sassi” facevano il loro pane nei forni della comunità. Per riconoscere la loro pagnotta tutti, compresi i nonni di Massimo, il panettiere che perpetua la tradizione familiare, avevano il proprio timbro. “Una caratteristica speciale del pane di Matera,” ci ha spiegato durante la nostra visita al suo forno organizzata dall’APT di Matera, “è la preparazione del lievito con l’acqua proveniente dalle sorgenti naturali e della frutta macerata. Altre singolarità sono che la freschezza della pagnotta dura fino a 9/10 giorni e che la forma a cono è simile alle montagne intorno a Matera. Non per nulla prima di essere scelta quest’anno come capitale della cultura, Matera è diventato un UNESCO World Heritage Site nel 1993.” Camminare nei “Sassi”, sopranominati “la seconda Betlemme” è una passeggiata in un presepe vivente. Non per nulla sono un luogo prediletto dai registi del cinema di tutto il mondo per girare i loro film storici: “ll Vangelo secondo San Matteo” (1964) di Pier Paolo Pasolini, “Cristo s’è fermato a Eboli” (1979) di Francesco Rosi, “La Passione di Cristo” (2004) di Mel Gibson, per citarne soltanto alcuni. Non è dunque una sorpresa il fatto che di recente il New York Times abbia incluso la Basilicata come la terza nella propria lista dei “52 Places to Go in 2018”, definendola “Italy’s Best Kept Secret”.

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MASSIMOCIFARELLI

L’INTERVISTA

Perché Altamura e Matera sono così famose per il pane? Sono entrambe famose, per ragioni analoghe: per entrambe ci sono storia e tradizioni popolari legate al pane che si faceva in tutte le famiglie, la presenza di forni comuni dove portarlo a cuocere e la necessità di avere una forma di pane che permettesse di risparmiare spazio all’interno del forno. Quello di Altamura è famoso per la sua forma caratteristica grande e larga denominata “u sckuanète” su cui erano impresse le iniziali del capofamiglia, quello di Matera era più piccolo e alto al centro. Le differenze tra questi due tipi di pane? Sono pani molto simili tra loro e hanno in comune gli stessi 4 semplicissimi ingredienti: semola rimacinata di grano duro, lievito madre, acqua e sale, ma il processo produttivo è differente e questo determina differenze sostanziali nel prodotto finito!

Quali sono i suoi primi ricordi del pane? Quando avevo all’incirca 10 o 12 anni ricordo che al panificio producevamo molto più pane di oggi: si facevano 3 infornate ogni giorno (oggi solo 2) e l’ultimo pane usciva alle 16:00 ogni pomeriggio. Di conseguenza mio padre alle 15:30 andava al panificio ad aprire lo sportello del forno per permettere al vapore di uscire e al pane di asciugare bene per altri 30 minuti. Il fatto è che noi mangiavamo intorno alle 14:30, quindi vedevo mio padre scappar via non appena finivamo di mangiare, dato che i primi dipendenti arrivavano al panificio intorno alle 16:00.

Chi fu il primo Cifarelli a fare il pane? Il primo fu mio nonno Antonio, che era garzone presso un fornaio dei Sassi il quale non aveva figli e gli lasciò il mestiere. A quei tempi però bisogna sottolineare che mio nonno non “faceva” il pane, ma semplicemente infornava il pane che le massaie facevano in casa! Mio padre, nel 1981, ha trasformato il “forno” in “panificio” iniziando a “fare” il pane! Qual è la storia del panificio Cifarelli? Mio nonno negli anni ha trasferito 3 volte il forno: dal 1928 al 1936 il forno era nel Sasso Caveoso all’interno della chiesa sconsacrata di San Leonardo, poi si trasferì nel Sasso Barisano in un locale ipogeo di fronte alla chiesa di Sant’Agostino (1936-1947) ed infine lo trasferì nel nuovissimo quartiere di Piccianello (l’attuale panificio). Una sua giornata tipica? Alle 7:00 meno qualche minuto sono al panifico, controllo il pane già sfornato dai dipendenti che fanno il turno di notte e parlo con loro se noto che c’è stato qualche problema (pane troppo cotto, poco cotto, poco lievitato, troppo lievitato, lievito madre debole o forte, semola non buona...). Annoto ciò che manca su una lavagna nel laboratorio e quello diventa il programma della giornata; a questo punto non resta che dedicarsi alla produzione: preparo gli impasti necessari e, insieme con gli altri dipendenti, mi dedico alla produzione di biscotti, taralli, focacce fino alle 14:00. Dopo la pausa pranzo torno al panificio alle 17 per una sorta di controllo e supervisione.

CAPIRE MATERA Per capire meglio la vita di una volta nei “Sassi” la prima sosta dovrebbe essere Casa Noha in cima a Matera a Recinto Cavone, un palazzo del seicento donato a FAI, non lontano dal Duomo, costruito in stile romanico pugliese nel XIII secolo. A Casa Noha (aperta dalle 9 alle 19 da aprile ad ottobre con un orario più ristretto gli altri mesi, biglietto 7 euro) si può visionare un video di 25 minuti, “I Sassi invisibili: viaggio straordinario nella storia di Matera,” che offre una ricostruzione della storia della città dalle origini a oggi. Si può anche visitare una ricostruzione di una casa nei “Sassi”, ossia la storica Casa Grotta, in Piazza S. Pietro Caveoso (Vicinato di vico Solitario 11, aperta tutti giorni non-stop dalle 9:30 fino alla sera, biglietto 3 euro). Da vedere, fondato 21 anni fa dal poeta Donato Cascione, il Museo Laboratorio della Civiltà Contadina, Via San Giovanni Vecchio 60, aperto tutti i giorni dal 9-13 e 16-19, biglietto 2 euro.

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INTERVISTA A...

Quante pagnotte potete infornare per volta? Nel forno entrano (se si è bravi ad infornare) circa 240 forme da 1 kg, ma un tempo mio nonno infornava circa 350 kg di pane di grossa pezzatura (circa 5 o 6 kg). La temperatura del forno? Il forno raggiunge una temperatura di circa 260/270°C al momento dell’infornata e dopo 2 ore il forno è ad una temperatura di circa 190°C. PANIFICIO CIFARELLI

Che tipo di legno usate? Mio nonno usava legna di lentisco (macchia mediterranea) ma oggi è vietato tagliarla quindi usiamo legna di quercia. Quanti altri forni a legna come il vostro ci sono a Matera? Ne sono rimasti solo 4: la gestione di un forno a legna è lunga e faticosa, di conseguenza molti miei colleghi hanno rimpiazzato il forno a legna con quello a gas o elettrico. Quanti tipi di pane fate? Qual è il bestseller? Due tipi: quello tipico (alto con i tre tagli sulla sommità) e quello basso (anche detto pugliese); ma non c’è paragone sulle produzioni: circa 400 kg del primo (quello tipico) e solo 50 kg del secondo (quello pugliese). Quale grano usate e da dove viene? Aderendo al Consorzio di Tutela del Pane di Matera siamo obbligati dal Disciplinare ad utilizzare grani locali e una percentuale (30%) è rappresentata dal grano duro Senatore Cappelli. La totalità delle semole che utilizziamo sono Lucane, per buona parte provengono dalla zona di Genzano, Acerenza, Stigliano e Irsina.

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Via Istria, 17 – Tel. 0835 385630

Via La Martella, 93 – Tel. 0835 383099

Via San Francesco, 13 – Tel. 0835 1971365 75100 Matera

www.panificiocifarelli.it - info@panificiocifarelli.it

Che cosa le piace di più del suo lavoro? Mi piace moltissimo la soddisfazione che si prova nel “creare” un buon prodotto, poi c’è la clientela che ci fa tanti complimenti e questo mi dà la carica per andare avanti nonostante le tante difficoltà che purtroppo ci sono. Di meno? Il dover talvolta di affrontare argomenti antipatici come ad esempio il prezzo di questo o di quel prodotto. Spesso capita che i clienti ci facciano notare che altrove prodotti simili ai nostri costano di meno e alcune volte ho sentito pronunciare parole sgradevoli e offensive come “è un furto”, il che lascia sottintendere che “siamo dei ladri”. Un tempo affrontavo queste discussioni quasi con piacere perché ero convinto di poter spiegare le ragioni che si nascondono dietro determinati prezzi ma oggi, dopo 18 anni di lavoro, sinceramente sono stanco e spesso non argomento più, chiudo il discorso con un laconico “purtroppo è un prodotto costoso!!!”.

Ci ha detto che non vende a supermercati, alberghi o ristoranti; allora chi sono i suoi clienti? Il 98% dei miei clienti sono cittadini di Matera, il 2% è rappresentato da ristoratori che lo vengono a comprare direttamente al banco dei miei negozi ai quali non facciamo un prezzo di favore ma semplicemente la fattura al posto dello scontrino, così che lo possano contabilizzare e scaricare dalla loro contabilità. Al contrario i miei colleghi lo portano con furgoni e furgoncini direttamente ai ristoratori e fanno loro anche un prezzo di favore molto scontato!!! Lei e suo fratello avete figlie femmine; come vede il futuro della Ditta Cifarelli? Onestamente non mi auguro che le mie figlie o mia nipote prendano la mia stessa strada, perché questo è un lavoro ogni giorno sempre più difficile e duro, inoltre il ritorno economico è sempre minore in confronto alla quantità di lavoro e alle responsabilità che ci prendiamo!!!






ILFOCUSDIALESSANDROROSSI

a cura di

Alessandro Rossi

esperto di vino, bon vivant,

Premio “Dire Fare Sognare”

fondatore del

LA FRAGILITÀ DELLA MATERIA VINO

MOLTO TEMPO PER CREARLO, POCHISSIMO PER DISTRUGGERLO: I DIFETTI DEL VINO Esistono difetti considerati oggettivi che esulano dal campo del gusto personale anche nel mondo del vino ed è corretto parlarne per mettere in guardia ogni palato. Molti di questi problemi riscontrabili nel vino sono di varie categorie: visivo, olfattivo e gustativo. L’enologia moderna ha contribuito a diminuire drasticamente la presenza di questi difetti nei vini tuttavia, anche se in misura minore, sono ancora abbastanza diffusi. Il vino ha caratteristiche che gli permettono di mantenersi ma soprattutto evolversi nel tempo, e qui entra in gioco una componente fondamentale: la corretta conservazione. Luce, aria e calore possono alterare la stabilità della materia rendendo ancora più fragile il prodotto. Come dicevamo, possiamo catalogare una serie di difetti conclamati che durante il percorso di un vino vanno presi in considerazione. Partiamo dai difetti visivi prima di tutto: il principale è senza dubbio la limpidezza. L’aspetto estetico di un vino è un fattore importante (soprattutto per i non esperti) perché è il primo approccio del consumatore finale. Fortunatamente oggigiorno trovare un vino che presenti questi difetti (se non voluti) è oramai raro. E’ facile trovare sedimenti, ma nella maggior parte dei casi sono frutto della naturale evoluzione di un vino. Questi sedimenti possono essere dovuti alla polimerizzazione dei tannini e degli antociani (nei vini rossi), fenomeno che contribuisce anche al mutamento del colore in invecchiamento. Nei vini bianchi invece troviamo la famosa precipitazione tartarica ovvero la solidificazione provocata da uno shock termico che tende a formare sul fondo della bottiglia un deposito simile a cristalli trasparenti. Diverso quando invece le cause sono da attribuirsi a problemi

come rifermentazioni o stabilizzazioni che portano all’alterazione del gusto: allora qui la musica cambia. Stiamo parlando ovviamente della fermentazione alcolica e rifermentazione malica, ma non è da trascurare anche l’ossidazione. I difetti gusto-olfattivi sono ben peggiori di quelli visivi perché, come dicevamo, alterano il gusto pregiudicando la qualità del vino. I corretti processi produttivi e l’utilizzo della moderna tecnologia possono ridurre drasticamente questi difetti. I difetti più comuni che si possono riscontrare nel vino sono: - TCA (problemi di tappo): una sostanza chimica contenuta in un fungo (Armillaria mellea) che si sviluppa nel sughero e che determina lo sgradevole odore di muffa. - Brettanomyces: è un lievito che altera l’aroma ed è potenzialmente in grado di rovinare un vino. E’ possibile riconoscerlo perché all’olfatto il vino presenta note di cerotto, stalla, pollaio, cavallo o silicone. - Zolfo: indica la presenza di eccessiva anidride solforosa nonostante sia naturalmente presente nel vino perché considerata un sottoprodotto della fermentazione. - Note casearie: se in quantità eccessive, può essere considerato un difetto. Anche se gradevole nei vini bianchi, è dovuta all’eccessiva presenza di diacetilene che si sviluppa principalmente nella fermentazione malolattica. - Verdura cotta: difetto provocato dalla fermentazione malolattica che genera forti note simili al cavolo lessato. - Acetone: sgradevole nota simile allo smalto dovuta alla presenza di acetato di etile. - Uova marce: indica la presenza di idrogeno fosfato, un gas che si sviluppa alla fine della fermentazione. - Aceto: nota dovuto all’eccessiva presenza di acido acetico nei vini o quando alcool e l’ossigeno si combinano insieme.

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VINARIA

ANTEPRIMA BRUNELLO 2014

“PENSAVO ALL’ACQUA CHE NON È TEMPESTA” di

Alessandro Rossi

Esiste un detto: “Pensavo acqua, ma non tempesta”, che per fortuna non dobbiamo utilizzare nel caso della nostra degustazione. In questo caso, infatti, l’acqua non ha prodotto così tanti danni a Montalcino come si presumeva, per cui non tutto il male viene per nuocere. Sul sito del Consorzio del Brunello di Montalcino il presidente Patrizio Cencioni racconta: “L’annata 2014 è stata una vera e propria sfida che, grazie all’impegno congiunto di produttori ed enologi, oggi possiamo dire essere stata vinta sul mercato. È stata una stagione contrassegnata dalle difficoltà climatiche, quindi molto impegnativa, che ha comportato una riduzione della produzione stimata sui 6 milioni di bottiglie, quindi un 30% in meno rispetto al nostro standard. Solo l’ottimo lavoro in vigna e nella fase di fermentazione hanno potuto trasformare il prodotto in cantina nel vino all’altezza della fama del Brunello”. Mi soffermerei sull’ottimo lavoro in vigna perché concordo pienamente con il Presidente del Consorzio. Dopo un’annata stile anni ’80 come la vendemmia 2013, pare che i vignaioli di Montalcino abbiano tradotto molto bene in bottiglia un’annata fresca e ricca di piogge come la 2014. Questa vendemmia è stata particolarmente complicata sia sul fronte climatico sia su quello agronomico; molti sono riusciti a contenere la parte verde portando in bottiglia una buona uva. Il Brunello di Montalcino 2014 non si rivelerà un’annata banale e non va sottovalutata. Come si presenta nel bicchiere quest’annata? Come un Brunello che ha voglia di farsi bere subito ma che ammicca al futuro. Diluizione e grande bevibilità i tratti somatici di questa vendemmia, con vini estremamente eleganti. Stiamo parlando di sangiovesi esili, magri e verticali, ma non verdi e scorbutici come da copione per chi legge que-

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sta vendemmia sulla carta. Sicuramente la fragranza e, come dicevamo, la bevibilità la fanno da padrone; secondo il sottoscritto può rivelarsi una vendemmia atta a sfidare le curve del tempo. Ma di questo avremo modo di parlare. La vendemmia 2014 deve essere aspettata, ha bisogno ancora di bottiglia prima di potersi esprimere correttamente, ma già ad oggi ritroviamo una buona bevibilità nonostante la gioventù. Non tutti i versanti si sono comportati, ovviamente, nella stessa maniera. La zona, l’esposizione, la geologia e l’esperienza sono in grado di fare la differenza in un terroir come quello di Montalcino quando si affrontano annate difficili come queste. Il Brunello di Montalcino riserva 2013 è ancora di difficile lettura: solo il tempo potrà far chiarezza su un millesimo così contrastante, almeno in questo momento. I presupposti ci sono, ma qualche dubbio rimane.


ANTEPRIMABRUNELLO2014

BRUNELLO DI MONTALCINO 2014 POGGIO DI SOTTO: un Brunello sottile giocato su frutta tenue, a tratti floreale e molto lineare. Succoso e salato sul finale, con richiami al melograno. Sottilissimo anche in bocca ma lungo e profondo: 96/100 TENUTE LE POTAZZINE: il naso è ben delineato, profondo, elegante, vellutato – salamoia e oliva nera su tutti. In bocca è materico, strutturato, ma allo stesso tempo sottile, un Brunello lungo e persistente: 95/100 CANALICCHIO DI SOPRA: asciutto e sottile al naso, frutta piccola di sottobosco e note mediterranee, un Brunello elegante che interpreta perfettamente un’annata non facile: 94/100 CAPANNA: al naso frutta rossa succosa, in bocca il tannino è sottile, a tratti dolce e iodato, sul finale con richiami all’arancia sanguinella: 94/100 IL MARRONETO: succo, polpa, dolcezza e spessore. In bocca eleganza e profondità oltre a balsamicità. Un Brunello lungo e iodato dalla buona acidità: 94/100 IL PARADISO DI MANFREDI: note tostate al naso; molto mediterraneo. La bocca è lunga, succosa, intensa e persistente. Bella acidità prolungata sul finale: 94/100 PODERE LE RIPI: frutta dark, al naso lungo e profondo. Oliva nera e richiami balsamici; crema struttura, lunghezza e grande profondità: 93/100 FRANCO PACENTI – CANALICCHIO: un grande naso da frutta piccola e scura; mediterraneo, richiami alla

salamoia, materia diluita e arancia sanguinella: 93/100 LISINI: frutta dolce, succosa, densa e piacevole. La bocca è ematica e di grande succosità. Piacevole il richiamo dolce dei tannini sul finale. Un Brunello molto armonico: 93/100 CIACCI PICCOLOMINI D’ARAGONA: rispecchia l’aspettativa dell’annata, un Brunello persistente e elegantemente diluito; il tannino è curato, levigato e piacevole, la chiusura è molto elegante: 92/100 FORNACELLA: Una buona materia scura a tratti dark; succo, eleganza e verticalità in bocca. Rosmarino, erbe officinali su tutte. Il finale è succoso e complesso: 92/200 BELPOGGIO: al naso è sottile, di frutta piccolissima molto agrumata. In bocca è a tratti balsamico e iodato: succoso e molto lungo, si espande sul finale chiudendo salato: 92/100 GIANNI BRUNELLI CHIUSE DI SOTTO: un gran del Brunello: elegante, note mediterranee, succoso con agrume giallo in evidenza. Profondo e lungo sul finale: 92/100 LE CHIUSE: il naso è dolce, ma in punta di piedi. Il tannino è vivo, elegante e molto delicato. La materia esiste e si sente, sempre in grande equilibrio. La bocca è sinuosa e molto lunga anche sul finale: 92/100 ARGIANO: bellissimo naso, tipico del Brunello: frutta dolce, succosa, con note terziarie in bella evidenza, tabacco su tutte. La bocca è di grande materia, potente e densa sul finale: 92/100

COL D’ORCIA: mediterraneo, profondo e succoso: La materia è sicuramente presente nella struttura di questo Brunello, succo e balsamico dal lungo finale: 92/100 SESTI: Una bella sorpesa. Un Brunello molto piacevole e lineare: piccola frutta di sottobosco; sottile e definito. Arancia sanguinella e note iodate su tutte. Molto disteso sul finale: 92/100 CAMIGLIANO: una grande pulizia al naso, piccola frutta rossa e in lontanaza note agrumate. In bocca è denso, acceso, oltre che lungo ed elegante. Pulitissimo sul finale: 92/100 CUPANO: immediatamente l’impatto è di frutta scura dark, legno e note terziarie in evidenza. In bocca è cremoso e il tannino è estremamente vibrante, soprattutto sul finale: 91/100 CAMPOGIOVANNI: un Brunello scuro e austero, selvaggio a tratti dove il cuoio e il cacao nero la fanno da padrone. La bocca è notevole e molto distesa, soprattutto sul finale: 91/100 UCCELLIERA: naso denso e scuro, macchia mediterranea ed erbe officinali su tutte. La bocca è ampia, lunga e severa; nel complesso una bella interpretazione dell’annata: 91/100 FANTI: un vino lineare; frutta matura e lamponi su tutti. La bocca è fresca e sanguinolenta, tipica del sangiovese in annate come queste. Sapido e lungo sul finale: 91/100 FULIGNI: Al naso subito note tostate, un Brunello di spessore. Frutta di sottobosco ma non solo frutta dolce;

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parti floreali in sospensione e un tannino ben levigato per una chiusura equilibrata: 91/100 CAPARZO: etereo e in punta di piedi; piccola frutta rossa e note vegetali di erba tagliata. Bocca sontuosa, carnosa ed ematica soprattutto sul finale: 90/100

CARPINETO: frutta fresca ed equilibrio le prime impressioni al naso. La sapidità è essenzialmente la caratteristica principale di questo Brunello, dove la bocca differisce dal naso. Sul finale è succoso e salato: 90/100 MASTROJANNI: il frutto è deciso; piccola frutta rossa dolce oltre a note

di legno ben dosate. La bocca è vibrante e armoniosa. Un vino molto equilibrato: 90/100 PIAN DELLE VIGNE: frutta rossa piccola e matura; note speziate e pepate anche sul profilo olfattivo. Succoso, lungo sul finale, sanguinolento e agrumato in chiusura: 90/100

BRUNELLO DI MONTALCINO RISERVA 2013 POGGIO DI SOTTO: salamoia, iodio, oliva, note mediterranee, tostatura da caffè e olio di nocciola. Un Brunello elegante oltre che sottile; complesso, molto lungo e da leggere attentamente. Il finale è succoso e prolungato: 96/100

TALENTI: naso statuario: sottobosco, frutta matura, spezie ma anche grandi note mediterranee. La bocca è lunga e succosa: emergono acidità e parti dolci che condensano in un finale di grande equilibrio: 93/100

CAMIGLIANO: pulito, intenso e vibrante. Note terziarie e di legno si possono evincere dal primo assaggio. Un Brunello di struttura e polpa. La bocca è seria e verticale, ma dalla grande bevibilità: 91/100

MASTROJANNI – SCHIENA D’ASINO: fruttato ma anche molto minerale; fresco e compatto al naso. La bocca è molto succosa, elegante, equilibrata e sottile. La chiusura è materica ma agrumata al tempo stesso: 95/100

CANALICCHIO DI SOPRA: L’eleganza è tipica di questo vino, sottile ed equilibrato anche al naso: arancia sanguinella e richiami agrumati su tutti. La bocca è equilibrata, verticale e dalla buona sapidità sul finale: 93/100

CAMPOGIOVANNI – IL QUERCIONE: la frutta fresca densa e le noti balsamiche sono le caratteristiche principali di questo Brunello di Montalcino. La bocca è anch’essa fresca e convincente, dalla buona salinità finale: 91/100

COL D’ORCIA – POGGIO AL VENTO: materia e note balsamiche, frutta nera e sottobosco con acidità che incalza. Il finale è davvero centrato, con note mediterranee al palato che emergono prepotenti: 94/100 PODERE LE RIPI – LUPI E SIRENE: subito al naso sono riconoscibili note di pietra, minerali, sale e salamoia. Un Brunello dalla grande complessità, un vino di spessore e di notevole carattere. La bocca è succosa ed ematica al tempo stesso: complessità e carattere: 94/100 LE MACIOCHE: un Brunello pieno di sorprese; polpa, densità e diluizione al tempo stesso, un po’ iodato e di grande succosità. La bocca è compressa, lunga e molto sapida: 94/100

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PODERE BRIZIO: al naso i primi richiami sono quelli della frutta ricca, non particolarmente scura con annesse note floreali e mediterranee. Polveroso ed ematico al palato, richiama la succosità sul finale: 92/100

GIANNI BRUNELLI: cacao e tostatura sono le principali note olfattive di questo Brunello di Montalcino. La bocca è succosa e setosa al tempo stesso, abbastanza diluito e lungo sul finale: 91/100

TIEZZI – VIGNA SOCCORSO: salamoia ed ematicità su tutto. Il naso ricorda frutta matura molto densa. La bocca vira decisamente su sensazioni più fresche e iodate. Ottima chiusura che porta a una grande bevibilità: 92/100

CAPANNA: frutta sì, ma anche tante altre note terziarie e speziate sono presenti al primo impatto olfattivo: grafite e polvere da sigaro su tutte. In bocca è molto elegante, sottile e dalla buona bevibilità: 91/100

LISINI – UGOLAIA: un Brunello più greve sotto certi aspetti, parti dark e ricordi bitter oltre ad un sottofondo balsamico e mentolato. La bocca è sicuramente fine ed elegante, con una chiusura asciutta che invita al bicchiere successivo: 92/100

CIACCI PICCOLOMINI D’ARAGONA – PIAINROSSO: Frutta, spezie e note iodate sono al naso le principali caratteristiche di questo Brunello. In bocca è un su e giù di note dolci/acide che equilibrano il tutto e ne aumentano il punto di bevuta: 91/100


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L’AFFINAMENTO DELLO CHAMPAGNE PIÙ È LUNGO NEL TEMPO, MAGGIORE È IL PREGIO di

Mario Federzoni

La durata dell’evoluzione sui lieviti per lo Champagne equivale all’invecchiamento di un vino tranquillo: maggiore è il periodo maggiore è l’esclusività e, soprattutto, la complessità dello spumante. Durante questa fase di maturazione si verifica la morte dei lieviti che nutrendosi degli zuccheri presenti, una volta terminato il loro cibo, vanno incontro a ciò che è chiamata “autolisi”, cioè un processo per il quale sono progressivamente cedute al vino tutta una serie di sostanze derivanti dalla morte delle cellule dei lieviti stessi, che possiamo suddividere nelle seguenti famiglie: Carboidrati: donano allo spumante morbidezza e rotondità. Sostanze Azotate: conferiscono il classico sentore di “lievito”. Frazioni di Acidi Nucleici: influenzano sia la sapidità che i profumi. Lipidi: assai importanti per avere buona consistenza della spuma. L’affinamento sui lieviti, oltre all’autolisi di questi ultimi, aggiunge anche una lenta ossidazione, dovuta all’ossigeno che filtra nella bottiglia attraverso il tappo con contemporanea fuoriuscita di un po’ di anidride carbonica.

La scelta del tappo è quindi un parametro determinante su cui basarsi per ottenere un’evoluzione più o meno rapida, infatti sono proprio quelle citate le due concause che contribuiscono alla formazione dei cosiddetti aromi terziari, verso i quali le note floreali e fruttate degli Champagne giovani evolvono gradatamente verso sentori di frutta matura e cotta, poi di frutta secca, sottobosco e infine di torrefazione per i più invecchiati. Alcuni test hanno rivelato che un vino, un mese dopo la presa di spuma, acquisisce un arricchimento in acidi amminici (= aminoacidi = unità costitutive delle proteine) totali dell’8,5%, mentre quattro anni dopo questa percentuale sale ad oltre l’80% ; col passare degli anni, infatti, aumenta la cessione di tali sostanze dai lieviti al Vino, modificandone in modo importante il profilo organolettico, sia a livello olfattivo che degustativo. Ci sono in commercio svariati Champagne delle più grandi denominazioni con affinamenti persino di 15/20 anni, a volte anche di più. Chiaramente i prezzi di queste bottiglie non sono decisamente popolari e, solitamente, sono preda di degustatori esperti e di intenditori appassionati. E’ bene precisare però che un “lungo” affinamento sui lieviti non è un percorso obbligatorio, nemmeno un rimedio atto a modificare eventuali difetti, o una “magia” enologica necessaria, perché è sempre e preminentemente il lavoro in vigna l’elemento fondamentale per ottenere una buona qualità degli Champagne.

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QUANDO SI BRINDA “ALLA SALUTE”! CHAMPAGNE E BOLLICINE CI FANNO BENE E CI FANNO STARE BENE di

Mario Federzoni

Dopo vari studi che dimostrano gli effetti positivi sulla salute legati al consumo di vino rosso, arrivano scoperte da tutto il mondo che rinnovano ed ampliano vecchie teorie, a proposito dei bianchi secchi e con le bollicine. Spesso si è soliti bere bollicine nelle occasioni più gioiose e nelle feste; da oggi avremo un motivo in più per farlo anche quotidianamente, poiché è stato scientificamente provato che gli spumanti fanno bene alla salute. Cosa risaputa, in verità, fin dai tempi degli antichi romani, infatti, già nel I° e II° secolo d.C. un certo Galeno, fondatore della medicina sistematica e della fisiologia, scrisse: ”Il vino spumante riscalda la bocca e solletica i sensi, soprattutto quelli della testa, infonde calore nelle viscere e fa digerire i cibi crudi, può essere impiegato per lavare le ferite con un panno di lana morbida inzuppata nel vino”. L’impiego di spumante a fini curativi, iniziando dai vari spumanti per finire allo Champagne, è stato ampiamente documentato a partire dal XVII secolo. A fine ‘700 il medico francese Claude Navier della facoltà di Medicina di Reims confermava l’efficacia dello Champagne (che all’epoca era dolce) per la salute attribuendone l’effetto benefico al gas carbonico. Nel 1817 studi scientifici arrivarono dalla Germania, frutto del lavoro di Eduard Loebenstain-Loebel, il quale constatò che lo spumante, e lo Champagne in particolare, favoriva la digestione, tonificava gli organi, calmava i soggetti nervosi ed era utile contro calcoli renali e gotta cronica, tanto che alla fine dello stesso secolo si iniziarono a produrre spumanti addizionati di principi attivi come chinino e pepsina ed erano venduti in farmacia. Nel 1935 il Congresso del Comitato Medico Internazionale per

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la Propaganda del Vino trattò sostanzialmente l’effetto salutista delle bollicine. Allo Champagne si attribuirono anche proprietà antibiotiche: l’affinamento per lunghi periodi sui lieviti arricchisce il vino di particolari composti rilasciati dai lieviti stessi, infatti, i medici, al tempo in cui non vi erano ancora farmaci efficaci, consigliavano di bere spumante a chi era affetto da malattie polmonari. Pare che anche al grande Stravinsky, durante un suo soggiorno a Napoli, venne consigliato di bere Champagne come antibiotico. Per la felicità delle signore, sappiate che grazie alle sue proprietà diuretiche e la sua capacità di stimolare la circolazione linfatica, lo Champagne limita il formarsi della cellulite, inoltre non fa ingrassare, infatti la sua gradazione alcolica è sui 12° contro la media dei 13,5/14° dei vini rossi e bianchi; quindi nel bicchiere troveremo solo 80/90 calorie contro le 120/130 dei vini fermi di media gradazione. E’ anche giusto berlo come aperitivo dato che grazie all’alcol risveglia l’appetito. Parlando dei componenti dello Champagne, vi sono amminoacidi in abbondanza (i mattoni di cui sono formate le proteine) che sono i precursori delle sostanze di cui si compone il nostro sistema nervoso: i neurotrasmettitori. L’Università di Reims negli anni ‘60 avviò studi sugli effetti che lo spumante, e lo Champagne in particolare, può avere sull’attività respiratoria e sulle difese immunitarie: riscontrarono un’azione più che positiva grazie al contenuto di zolfo e magnesio; dichiararono poi che anche la presenza di acidi organici e sostanze minerali quali calcio e potassio incidono favorevolmente sull’attività digestiva; ancora scrissero che la presenza di litio funge da ansiolitico, tranquillante e riduce l’angoscia e l’e-


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micrania, e che lo Champagne è anche un ottimo disintossicante. Molte delle sue componenti, inoltre, concentrando il loro effetto sulla serotonina, servono a combattere l’insonnia, cosa che era già nota, a quanto pare al poeta inglese Lord Byron, che pare bevesse un bicchiere di Champagne ogni sera prima di andare a dormire per favorire il sonno, proprietà oggi ampiamente dimostrata per la presenza di alcoli superiori e zinco. Il Prof. Albero Bertelli dell’Università di Milano ha accertato che l’alcol degli spumanti metodo classico agisce sulle pareti dei vasi sanguigni favorendo il rilascio di interferone e molecole simili, grazie alla sua capacità antinfiammatoria e antiossidante; bere Champagne contribuisce quindi all’aumento della produzione di ossido nitrico, riducendo l’aggregazione delle piastrine, inibendo la formazione di trombi e occlusioni arteriose; i polifenoli, in esso contenuti, combattono gli effetti dell’ispessimento arterioso (es. danni da nicotina), un calice di spumante contiene circa 150 microgrammi di sostanze anti sclerosanti, che aumentano anche la quantità di colesterolo Hdl (High Density Lipoprotein) principale difesa dell’organismo dall’aterosclerosi, con effetto anti-invecchiamento. Si è anche recentemente constatato che lo Champagne ha effetti anticancerogeni (soprattutto per il colon) grazie alla presenza di resveratrolo. Secondo una recente ricerca dell’Università di Reading (Gran Bretagna) un consumo regolare di Champagne migliora la memoria spaziale: la memoria spaziale non è la capacità di ricordarsi nomi o eventi o altro, ma saper riconoscere lo spazio che ci circonda e i suoi contorni. Questo tipo di memoria cala gradualmente dopo i 40 anni, ma la presenza degli antiossidanti contenuti nelle uve con cui si prepara lo Champagne aiuta a rallentarne il declino e migliora le performance cerebrali, ostacolando

l’invecchiamento dei neuroni e combattendo i radicali liberi. Questi risultati sono tuttavia da considerarsi sperimentali, in quanto derivati da test eseguiti sugli animali e non sull’uomo. Ricordiamo volentieri però Monsieur Roger Zéches, già chef de cave della Maison Veuve Clicquot, che morì alla veneranda età di 103 anni, e che fino a 85 anni ha praticato sport agonistico. Il suo segreto? - “Per stare bene bisogna fare sport e bere Champagne!”. Una pubblicazione del 2007 del Journal of Agricoultural and Food Chemistry scrive del fatto che un uso moderato di spumante Metodo Classico contribuisce a proteggere il cervello da lesioni da ictus e altre varie patologie come ad es. il morbo di Parkinson, grazie al contenuto di trisolo e acido caffeico. Prove di laboratorio dimostrarono che somministrando estratto di Champagne ad alcune cavie, le loro funzioni cerebrali si ristabilirono grazie ai composti fenolici che hanno proprietà antinfiammatorie. Ancora studi dell’Università di Reading condotti dalla Prof.ssa Giulia Corona e dal Prof. Jeremy Spencer, pubblicati su Antioxidants & Redox Signaling, hanno dimostrato che vari composti presenti nelle uve a bacca nera, come ad es. l’acido fenolico, se usati per la produzione di spumanti quali Pinot Nero e Pinot Meunier, contrastano disturbi quali demenza senile ed Alzhaimer. I n s o mma, mo l t i di noi dovrebbero essere sani come pesci!!!

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VINARIA

SANTA MASSENZA IL BORGO DELLA GRAPPA di

Gianluca Ricci

Dici Santa Massenza e pensi alla grappa. Probabilmente non esiste nessun altro luogo nel nostro Paese in cui l’abbinamento risulti altrettanto naturale ed immediato. Santa Massenza è un minuscolo borgo del Trentino ritagliato fra il laghetto omonimo, idrogeologicamente collegato al più noto lago di Toblino dominato dalla romantica mole del castello costruito su una piccola penisola, e la centrale in roccia che ne sfrutta il movimento delle acque, all’ingresso della vallata della Sarca che sfocia una dozzina di chilometri più a sud nel lago di Garda. Fin dai tempi del Principe Vescovo di Trento da quelle parti si comprese che le condizioni microclimatiche erano perfette per produrre distillati di vinacce di straordinaria qualità, al punto tale che agli inizi del Novecento nel paesino che oggi conta non più di 150 abitanti c’erano ben 13 distillerie.

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SANTAMASSENZA

Grappa sopraffina, che raggiungeva soprattutto le tavole dei nobili austriaci a cui era destinata la quasi totalità della produzione. Oggi le distillerie rimaste sono cinque e fanno tutte capo alla medesima famiglia, la Poli, che non ha però potuto valorizzare questo capitale onomastico a causa di una omonimia veneta protetta da copyright. Così i Poli si sono dovuti arrangiare diversamente, anche se la loro fama è universale sia in Trentino che negli immediati dintorni, dove finisce la maggior parte dei loro prodotti. Ecco così la Distilleria Giovanni Poli Santa Massenza e la Distilleria Francesco, la Distilleria Maxentia e la Distilleria Casimiro, per finire con la Giulio & Mauro, ciascuna con i suoi prodotti di punta e le sue peculiarità. Agli esordi gli alambicchi erano del tipo discontinuo

a caldaia, simili, tanto per capire l’effetto che producevano, ai modelli con cui si produceva il Cognac: un lavoraccio, soprattutto perché i momenti cruciali della distillazione andavano percepiti con il fiuto e l’intuito di chi ne aveva viste tante; gli unici strumenti ammessi erano il naso, la mano e l’occhio e dal loro saggio sfruttamento dipendeva il successo delle operazioni. Oggi ovviamente non funziona più così, visto che all’abilità del singolo distillatore si sono uniti accorgimenti tecnologici in grado di capitalizzare al massimo le procedure operative e, di conseguenza, la qualità del prodotto finale. La produzione continua a rimanere una faccenda familiare, nonostante gli strumenti permettano di organizzare filiere di carattere industriale. Ogni distilleria del borgo può vantare una gamma di pro-

dotti particolarmente ampia, nonostante da quelle parti il vitigno principe sia la Nosiola, con cui si producono un bianco fresco di pronta beva ma soprattutto uno dei gioielli della produzione enogastronomica trentina, ovvero il Vino Santo, ottenuto dalla pigiatura tardiva dei grappoli lasciati ad appassire al vento del Garda sulle arelle. Le vinacce che non sono raccolte in loco vengono selezionate presso produttori di fiducia in tutto il Trentino, in modo da poter produrre grappe bianche mono vitigno tra le più apprezzate dagli appassionati della selezione. Non mancano poi grappe invecchiate né grappe aromatizzate con erbe rigorosamente provenienti dai boschi e dai prati locali, anche se il top di gamma è rappresentato dalla grappa di Vino Santo, realizzata con le vinacce delle uve con cui si è data vita al principe dei vini trentini. Guai però a dimenticare una “o” e chiamarlo Vin Santo, anche se si ordina il relativo distillato: da quelle parti suona alle orecchie dei puristi come un’offesa, visto che tanti sforzi sono stati spesi per registrare un marchio che potesse garantire esclusività e protagonismo.

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VINARIA

Ovviamente ciascuna azienda si distingue per prodotti specifici, nonostante tutte facciano capo ad uno stesso capostipite: la Distilleria Francesco si caratterizza per un rigido rispetto della tradizione e articola la sua offerta fra monovitigni di sicura presa come Nosiola, Traminer e Müller Thurgau e acqueviti della migliore frutta del Trentino come quelle di prugne, uve e pere. Giulio & Mauro invece si sono specializzati nelle grappe mono vitigno come quelle di Schiava, Nosiola e Merlot, con piccoli gioielli come l’“Amara” (macerazione di genziana, asperula, ginepro, rabarbaro e timo), la “Raffinata” (doppia distillazione di vinacce di Cabernet Sauvignon) o la “Saros” (un cru ottenuto con le vinacce delle uve coltivate nell’omonimo appezzamento di Santa Massenza e raccolte in novembre in appassimento sulla pianta). Della Distilleria Giovanni Poli memorabili rimangono la grappa di Rebo e le grappe infusioni come quella al cirmolo o alla ruta. Da Maxentia invece si possono trovare anche i distillati mono vitigno di

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Marzemino e Teroldego, realizzati con vinacce provenienti da territori limitrofi, liquori a base di grappa al gusto di nocino, caffè e limone e i classici distillati di frutta proveniente dal territorio circostante. Infine Casimiro (foto in questa pagina), noto per la sua “Pica d’oro”, un distillato di vinacce provenienti da vitigni diversi armonicamente selezionati per sapori e profumi davvero unici; oltre alle grappe mono vitigno e ai distillati, meritano attenzione anche “Ambrosia” e “Ritocchi nel tempo”, due grappe invecchiate in piccole botti per un anno e mezzo o due, ma soprattutto “Antenata”, realizzata con distillati affinati separatamente per dieci anni e poi assemblati in un trionfo di sapori, e “Uve d’autunno”, selezione dei migliori prodotti della distilleria lasciati riposare in cantina per non meno di tre anni. Il sistema migliore per assaporare il meglio della produzione di Santa Massenza è partecipare alla Notte degli alambicchi accesi, nei primi giorni di dicembre, in cui uno spettacolo itinerante tocca tutte le distillerie e permette di

conoscerne i più intimi segreti. Ma nessuno dei Poli è tanto geloso da custodirli per tutto il resto dell’anno: bastano una visita, anche fugace, un assaggio, dò ciacole, come si dice da quelle parti, e il resto viene da sé.



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COLLABORATORI Domenico Acconci, Giovanni Angelucci, Silvia Bianco, Daniele Briani, Teresa Cremona, Giulia Gavagnin, Giuseppe De Girolamo, Giorgia Giuliano, Maurizio Di Dio, Gianni Di Lorenzo, Lorenzo Ferrari, Luigi Filippi, Lisa Foletti, Lucy Gordan, Verdiana Gordini, Giuseppe Lo Russo, Furio Lottatori, Giovanni Mastropasqua, Antonietta Mazzeo, Alessandra Meldolesi, Claudio Mollo, Alessia Pellegrini, Alessandro Ricci, Gianluca Ricci, Alessandro Rossi, Simone Rosti, Flavia Tomaello, Marco Tonelli, Primo Vercilli. Fotografi: Nikoboi, Pasquale Spinelli, Andrea Amadori, Lido Vannucchi, Claudio Mollo, Riccardo Marcialis Illustratori: Patrizia Zavatti - Valentino Menghi

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