La Madia Travelfood n. 343 - Gennaio/Febbraio/Marzo 2020

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© ph Marco Poderi

Mensile Sped. In Abb. Post. - Gruppo III° - 45% - Art.2 Comma 20/B Legge 662/96 - Fil. Forlì - Tassa Pagata - Taxe Perçue - Reg. Trib. Di Forlì N.653 - Del 14/6/84 - Dir. Resp. Elsa Mazzolini - La Madia Srl - Via Pacchioni, 365 - Cesena - Euro 4,00 - In caso di mancato recapito restituire al mittente che si impegna a pagare la relativa tassa

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ANNI

www.lamadia.com

ANNO XXXV Gennaio/Febbraio/Marzo 2020 - N. 343 - €E 4,00 Direttore ELSA MAZZOLINI

Modena al centro dell’universo gastronomico

LE CUCINE TOP DI

BOTTURA E MARCHINI

LA MADIA EDITORE



Sommario LA MADIA TRAVELFOOD N. 343 GourmetFood

di

Giulia Gavagnin

GourmetFood

di

Elisabetta Degli Esposti Merli

pag. 34

pag. 42

MASSIMO BOTTURA

LUCA MARCHINI

Alla ricerca delle sue e delle nostre radici nella valle del Po.

Zen e arte al ristorante l’Erba del Re

La cultura del benessere L’alimentazione? Purtroppo è solo una questione di marketing! di Primo Vercilli......................................................................... pag. 4 La scelta vegana Veganuary: il cambiamento globale sta nel piatto! di Silvia Bianco.......................................................................... pag. 5 Il menu engineering Compromessi nella ristorazione: perché la perfezione assoluta non esiste di Lorenzo Ferrari..................................................................... pag. 6 EVO - L’olio extravergine di oliva L’olio nuovo di Antonietta Mazzeo............................................................. pag. 9 EventiFood Tirreno C.T. ............................................................................... pag. 10 Golavagando Marco Sacco di Fabrizio Salce....................................................................... pag. 12 I Salaioli a Pistoia di Claudio Mollo....................................................................... pag. 14 The Market Place a Como di Lisa Foletti............................................................................. pag. 16 EraGoffi a Torino di Giorgia Giuliano.................................................................. pag. 18 Ristorante Syrah nel lucchese di Domenico Acconci.............................................................. pag. 21 Il Linchetto a Capannori (LU) di Domenico Acconci.............................................................. pag. 22 Golavagando Oraviaggiando Cosimo Russo Ristorante a Leverano (LE) di Stefania Leo.......................................................................... pag. 26 Chef di Spirito Arcangelo Zulli di Sonia Leo............................................................................... pag. 30

TravelFood Un’esperienza gastronomica nel deserto di Flavia Tomaello................................................................... pag. 48 Surgital 40° Le ricette degli chef Luigi Sartini, Karl Baumgartner, Marco Cavallucci, Dario Picchiotti, Gino Angelini, Giuseppe Aversa...... pag. 53 Viaggi nel vino.............................................................................. pag. 61 Il silenzio del rumore di Alessandro Rossi................................................................. pag. 62 Enovità di Marco Tonelli........................................................................ pag. 64 Colti sul Più... Bello di Alessandra Piubello........................................................... pag. 66 Azienda Agricola Gorgo di Riccardo Stebini.................................................................. pag. 68 By the glass di Luca Furzi.............................................................................. pag. 72 Moda & Tendenze di Riccardo Stebini.................................................................. pag. 74 Vania’s Lounge: The Wild World of Bubbles di Riccardo Stebini.................................................................. pag. 77 Il focus di Alessandro Rossi Non è più ammesso bere in bicchieri sbagliati............ pag. 80 Di(s)sapore: L’idea di un vino che verrà di Costantino Antonio Gabardi.......................................... pag. 81 Antonio Arrighi: il vino greco prodoto all’Isola d’Elba di Stefano Bramanti................................................................ pag. 84 TravelFood La Carnia di Fabrizio Salce....................................................................... pag. 90 San Marino di Teresa Cremona.................................................................. pag. 94


laculturadelbenessere

a cura di

Primo Vercilli Medico Dietologo

L’ALIMENTAZIONE?

PURTROPPO È SOLO UNA QUESTIONE DI MARKETING! Siamo bombardati da notizie roboanti e fuorvianti che non fanno altro che confonderci sistematicamente, alterando il nostro normale rapporto con il cibo. Esperti di comunicazione ci dicono che “Il Media è il messaggio… ma dipende chi è il media”, ponendo l’accento sul fatto che è di estrema importanza CHI dà il messaggio, ancor prima di COSA dice il messaggio e di COME questo è veicolato. Infatti quando si pensa ad acquisire e fidelizzare clienti, si deve in primo luogo pensare a chi si è, e agire di conseguenza. Ho cercato di trasferire questi concetti nel campo della nutrizione. Proprio in campo nutrizionale si assiste quotidianamente alla totale delegittimazione di CHI è autorevole per dare un messaggio, mentre conta sempre di più COSA e COME questi messaggi vengono propinati. Ne è la prova il fatto che personaggi estremamente autorevoli hanno più volte utilizzato la loro competenza ed autorevolezza per dare messaggi importanti nel campo dell’indirizzo alimentare. Non c’è minimamente paragone tra l’appeal di un messaggio (falso!) mandato in rete ma che sia eclatante (bere il vino equivale a fare 1 ora di attività fisica al giorno) e quello (vero!) di un professore che mette in guardia le persone dall’uso indiscriminato di carni processate. In questo tempo CHI dà il messaggio non corrisponde necessariamente a CHI è veramente la persona, ma a come questa viene percepita dagli altri. Basti pensare all’attuale guru della dietologia: Panzironi, inventore, a suo dire, del sistema alimentare che ci permette di vivere 120 anni. Perché Panzironi viene ascoltato come se fosse un guru, senza neanche essere un medico? Perché Panzironi viene percepito in un modo talmente autorevole da resistere a qualsiasi obiezione? Panzironi viene percepito così solo ed esclusivamente perché si è mosso, nel campo della comunicazione, in modo subdolo e furbo aggredendo una fascia di persone con reali necessità, ma anche con poca conoscenza alimentare. Lo ha fatto registrando una trasmissione in cui parlava solo lui e

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le domande erano tutte preconfezionate, con risposte che non potevano essere messe in discussione. Ha affittato lo spazio di una ventina di emittenti private locali e ha cominciato a bombardare le televisioni con questo tipo di trasmissione. Ma voi direte: ma se ha seguito vuol dire che la sua dieta funziona! E io vi dico: la sua dieta funziona perché lui ci fa vedere solo le persone che con la sua dieta hanno successo. Ma intanto (in assenza di casistiche scientificamente provate, che ovviamente con Panzironi non avremo mai) il metodo va avanti e un giornalista (magari anche bravo a fare il suo lavoro) si è appropriato di un lavoro che non è il suo, denigrando tutta la classe medica, facendoci passare tutti per incompetenti e attaccati al potere o al denaro (io che non fatturo neanche 1/50 di quello che fattura il buon Panzironi con il suo business!). Quello che conta è SOLO COME LA GENTE TI PERCEPISCE. Non è più importante CHI veramente sei. È importante COME LA GENTE TI VEDE. Solo se sei percepito come GURU allora ti puoi permettere di fare il guru. Ma per essere percepito come guru, purtroppo, non hai bisogno di competenze, semplicemente perché le persone non sono in grado di valutare le competenze. Se sentono dire che il limone al mattino fa dimagrire, allora tutti bevono il limone al mattino, tanto, “tutt’al più il limone male non fa”…. Ecco nati i fenomeni Dukan, Panzironi, ecc. ecc. La triste verità è che chi riesce a capire CHI è, poi può, barando, far percepire agli altri di essere qualcos’altro (il guru, l’esperto, l’unico che ci capisce qualcosa): questo è il rischio che stiamo continuamente correndo in campo nutrizionale. Quello a cui assistiamo è solo la corsa di personaggi (o multinazionali, perché no?) ad accreditarsi, secondo manovre non sempre deontologicamente corrette, nei confronti delle persone facendo leva sul reale bisogno di stare meglio attraverso l’alimentazione. E nel frattempo c’è chi fa realmente denaro sulla nostra salute…


lasceltavegana

a cura di

Silvia Bianco testimonial di cucina vegana

VEGANUARY

IL CAMBIAMENTO GLOBALE STA NEL PIATTO! Veganuary è un’organizzazione internazionale senza scopo di lucro che incoraggia verso un’alimentazione 100% vegetale. Nata nel 2014 in Inghilterra, ad oggi conta oltre 500.000 partecipanti provenienti da 178 Paesi. L’obiettivo è un mondo vegano, senza allevamenti e macelli. Un mondo in cui la produzione alimentare non distrugga foreste, non inquini fiumi ed oceani, non peggiori il cambiamento climatico e ponga fine all’estinzione di animali selvatici. La campagna di sensibilizzazione lanciata nel gennaio scorso, non si limiterà a questo mese ma proseguirà tutto l’anno, supportando tutti coloro che intraprenderanno una dieta vegetale. Tra gli obiettivi, il supporto ad aziende come ristoranti, supermercati e vari brand di prodotti di consumo guidandoli al cambiamento. Oltre 500 marchi hanno già promosso la campagna con ben più di 200 nuovi prodotti e menu vegani immessi nel solo mercato britannico, tra cui il famoso Vegan sausage roll di Greggs, la pizza con BBQ jackfruit promossa da Pizza Hut e la gamma di prodotti Plant Kitchen di Marks&Spencer. L’iniziativa di Veganuary nasce per ampliare la consapevolezza della sofferenza animale nelle fattorie e macelli, attraverso il supporto dei media ed ambasciatori internazionali creando un movimento di massa globale con azioni collettive. L’urgente invito all’azione è supportato da attori di Hollywood, ambientalisti e atleti di altissimo livello. Joaquin Phoenix è il Global Ambassador 2020. Da tempo attivista per i diritti degli animali, invita chi si sente impotente di fronte alla crisi climatica ed alla violenza del nostro sistema alimentare ad iscriversi alla campagna. Mai come in questi ultimi tempi passare ad una dieta vegetale è diventata una vera e propria urgenza. Non c’è giorno che i media non parlino dell’emergenza clima, ciò che però non diffondono è che per arrestare il surriscaldamento globale, basta non consumare più carne e derivati,

la cui produzione è responsabile di oltre il 51% di gas serra globali, oltre ad essere responsabile di un massacro legalizzato di oltre 60 miliardi di animali all’anno. L’attrice Alicia Silverstone è della stessa opinione: “Riciclare correttamente, stare attenti al risparmio energetico e all’inquinamento dei mari non basta, perché il massimo impatto positivo che possiamo avere per il pianeta è adottare una dieta 100% vegetale”. Il forte messaggio dei due attori è stato ripreso dal giornalista ambientalista George Monbiot: “Se vogliamo seriamente proteggere il pianeta e tutti i suoi abitanti, dobbiamo accettare che carne e prodotti lattiero-caseari sono sprechi eccessivi che non possiamo più permetterci”. Tra gli ambassador troviamo atleti come Leilani Munter, pilota d’auto da corsa, secondo la quale essere vegan è il modo più semplice per attuare un cambiamento positivo nel mondo, ed ognuno di noi ha la possibilità di farlo. Anthony Mullally, giocatore di rugby professionista, ammette che da quando è vegano le sue performance in campo sono nettamente migliorate, ha molta più energia, si allena di più, conseguendo ottimi risultati anche in termini di lucidità mentale. Quest’anno l’Italia aderisce alla campagna Veganuary grazie alla collaborazione con l’associazione Essere Animali, tra i sostenitori troviamo Rosita Celentano, Massimo Wertmüller, Daniela Poggi, Pietro Leemann, il filosofo Leonardo Caffo ed infine la Dottoressa Silvia Goggi che è il riferimento per tutti gli iscritti, risponde a tutte le domande, sfatando falsi miti e fake news sull’alimentazione vegetale. A tavola ognuno di noi può essere il protagonista per combattere il caos climatico, basta aderire alla campagna iscrivendosi al link bit.ly/Veganuary_it. Tutte le risorse sono completamente gratuite, facilmente fruibili così da aiutare a preservare il futuro del nostro pianeta e dei nostri figli! Forza, che aspettate!

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ilmenuengineering

a cura di Lorenzo Ferrari Direttore Marketing di RistoratoreTop

COMPROMESSI NELLA RISTORAZIONE PERCHÉ LA PERFEZIONE ASSOLUTA NON ESISTE

Chi scrive ha la fortuna di confrontarsi con imprenditori che gli concedono fiducia e attenzione ogni singolo giorno e questo non perché sia chissà quale guru sceso dalla montagna, ma semplicemente perché gli attribuiscono una competenza specifica su un campo nel quale hanno carenze o zone d’ombra: il marketing per la ristorazione. Partecipando attivamente a centinaia di campagne l’anno - alcune di successo, altre meno, altre ben lontane da tale definizione - e vedendone i retroscena, posso condividere un aspetto comune a qualsiasi situazione. E cioè che QUALSIASI aspetto che riguardi l’attività imprenditoriale nel campo della ristorazione è frutto di compromessi. Sono altresì convinto sia una costante anche in tutti gli altri ambiti imprenditoriali. Anzi, rilancio, qualsiasi aspetto che riguardi la natura umana è frutto di compromessi. È il motivo per il quale quel piatto non sarà mai come lo si era pensato, quel tavolo non sarà del materiale che si era sempre sognato, quella serata non avrà mai incassato quanto avrebbe potuto e quell’evento non sarà mai organizzato con la maniacalità che si aveva in mente. Nulla di ciò che è reale è uguale a come era stato immaginato, progettato, pensato. Tutto è frutto di uno o più compromessi. Questo perché tra il dire e il fare c’è di mezzo la realtà. E la realtà è fatta di budget, di tempistiche, di pareri altrui e di imprevisti che vanno rispettati e di cui va tenuto conto. Quanto appena descritto è tanto ovvio quanto incompreso ai più. Perché chiunque di noi, quando non vede rispettate le proprie aspettative, si sente deluso. E se questa delusione non viene gestita nel modo corretto, cioè metabolizzando il fatto che è normale che ciò accada, ed è un qualcosa che non è sotto il nostro completo controllo, succedono i guai. Succede che l’imprenditore non è mai soddisfatto, perennemente alla ricerca della perfezione, sempre tentato dall’im-

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mobilità e intrappolato in una costante caccia al colpevole. Ma soprattutto, con l’occhio puntato al concorrente. Quando succede, è facile convincersi che quello che si fa sia tutto terribile, mentre quello che fanno gli altri sia tutto perfetto. Basterebbe invece godersi il risultato imperfetto delle proprie azioni ed essere fieri ed orgogliosi di essere umani a capo di team composti da umani e, in quanto tali, imperfetti. Che non significa che ci si debba accontentare. Questo no. Significa che bisogna dare il massimo e puntare ad alzare l’asticella, sempre. Ma alle volte occorre anche fermarsi, sedersi, guardarsi attorno ed essere contenti di ciò che si è realizzato, consapevoli che “fatto ma non perfetto” è comunque meglio di “perfetto ma non fatto”. Chi scrive ha la fortuna di ricoprire una posizione privilegiata: quella di colui che vede voi e tutti i vostri colleghi (o concorrenti, come desiderate) progettare e realizzare. Pensare e fare. Sognare e scontrarsi con la realtà. Ecco, siete uguali. Siete nella stessa situazione. Ed entrambi non siete completamente soddisfatti di ciò che avete realizzato, quando invece dovreste esserlo. E magari dovreste brindare al rispettivo successo, ma qua, chi scrive lo sa, si pretenderebbe troppo.




Antonietta Mazzeo Tecnico ed Esperto degli Oli d’Oliva Vergini ed Extravergini a cura di

L’OLIO NUOVO

L’OLIO NUOVO È IL FRUTTO DELLA SPREMITURA OTTENUTO DAL RACCOLTO DELLE PRIME OLIVE DELLA STAGIONE IN CORSO “Olio nuovo e vino vecchio”, se per il vino il tempo è spesso un alleato che può esaltarne le qualità, per l’olio extravergine, invece, avviene proprio il contrario: il tempo è uno dei nemici da cui difendersi. Il tempo, l’aria, la luce e la temperatura elevata sono infatti fattori che incidono pesantemente sulle caratteristiche fisiche, chimiche e nutrizionali dell’olio, fino ad annullarle completamente. Con il passare dei mesi gli aromi dell’olio si attenuano, i sapori si “appiattiscono” e le proprietà organolettiche, primi fra tutti i polifenoli, iniziano progressivamente a calare; per queste ragioni è preferibile consumare l’olio extravergine nell’arco di 12, massimo 18 mesi dalla sua produzione (la Legge Mongiello, Legge n.9/2013, art.7, stabilisce che il termine minimo di conservazione non può essere superiore ai 18mesi dalla data d’imbottigliamento del prodotto). Ma, considerando la varietà di partenza da cui si estrae un olio e quindi il suo diverso contenuto in sostanze antiossidanti e le modalità di conservazione del prodotto, purtroppo non sempre adeguate, quanti sono gli oli capaci di mantenere inalterate le proprie caratteristiche per tempi di conservazione anche così lunghi? Proprio per questo motivo il Consiglio Oleicolo Internazionale (COI) ha emanato una norma commerciale (che però non è mai stata recepita in termini di legge) secondo la quale il termine minimo di conservazione non dovrebbe superare i dodici mesi dalla data di confezionamento per gli oli commercializzati in contenitori di vetro e i diciotto mesi per le confezioni metalliche. L’olio nuovo, categoria non prevista da alcuna normativa, viene prodotto tra la fine ottobre e l’inizio dicembre (ovviamente dipende dalla tipologia di cultivar); è caratterizzato dalla fragranza intensa, dal profumo tipico delle olive appena frante e da un gusto forte e deciso: una ricchezza di aromi, sapori e proprietà organolettiche incomparabili.

Nell’olio nuovo, quello di qualità, sono esaltate la proprietà dell’extravergine quale “alicamento” (alimento e medicamento), derivanti dalla presenza di composti bioattivi dalle proprietà altamente benefiche per il nostro organismo: l’acido oleico, i polifenoli come l’oleocantale, l’oleuropeina, e i potenti antitumorali, idrossitirosolo, tirosolo e i lignani. L’olio extravergine, quindi, va d’accordo con la salute, la bellezza, la linea. Il segreto sta nello scegliere un olio che proviene dalla spremitura di un frutto, l’oliva, secondo adeguati standard di qualità. Ecco allora alcune indicazioni semplici da seguire ma importanti per individuare un olio di buona qualità. • Controlliamo la data della campagna di produzione per comprendere quando l’olio è stato prodotto ed entro quando va consumato. Eviteremo così di comprare un olio già vecchio. • La provenienza delle olive è importante: assicuriamoci sempre che sia riportata l’indicazione di origine “italiano”, olio fatto cioè con sole olive italiane. Troppo spesso troviamo, a prezzi e quindi a qualità molto bassi, oli provenienti dalle coltivazioni intensive di altri Stati della Comunità Europea e/o extracomunitari. • Privilegiamo l’olio prodotto da una sola varietà di olive (monocultivar) che garantisce un olio di qualità superiore, con un gusto riconoscibile ed unico. • Quando troviamo l’olio “low cost”, cioè a prezzi molto bassi, 4/5 euro al litro, o anche meno, chiediamoci sempre il perché in quanto le risposte sono due: olio di scarsa qualità, olio vecchio e scadente. Una bottiglia di un buon extravergine non può costare meno dell’olio che utilizziamo… per la nostra auto. Soprattutto non può avere un prezzo inferiore anche ai soli costi di produzione, ovviamente se parliamo di un processo produttivo orientato, in ogni sua fase, alla qualità e al rispetto del territorio, delle persone e dell’ulivo stesso.

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EventiFood

A CARRARAFIERE

TIRRENO C.T. COMPIE 40 ANNI DI ATTIVITÀ Quarant’anni di crescita del settore della ristorazione, dell’accoglienza più in generale e, ultimamente, anche degli stabilimenti balneari. Tirreno C.T. che si svolgerà a Carrarafiere dall’1 al 4 marzo 2020 soffia su quaranta candeline con l’edizione 2020, toccando un traguardo che fa di questa una delle fiere più longeve di un settore che coinvolge ristoranti, bar, alberghi, pizzerie, gelaterie, pasticcerie. La manifestazione in questi anni è diventata un vero e proprio punto di riferimento grazie alla continua crescita di consensi. Sia in termini di offerta commerciale con oltre 430 espositori in rappresentanza di quasi 900 marchi, sia in termini di pubblico con 62mila presenze che caratterizzano il successo della quattro giorni apuana. Tra i 40mila metri quadrati dei padiglioni di Carrarafiere, Tirreno C.T. ha il suo vero cuore nell’incontro qualificato fra domanda e offerta di questo settore per dare vita ad un importante scambio business-to-business tra gli operatori del centro e nord Italia. La fiera è un momento di confronto con i tanti eventi collaterali che ogni anno arricchiscono un programma denso di convegni, seminari e workshop, master gratuiti per professionisti, incontri con esperti di settore, campionati nazionali e inter-

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EventiFood

nazionali di pasticceria, cucina, gelateria, pizzeria e barman, oltre a degustazioni e dimostrazioni per tutti gli operatori. Come quanto propone lo spazio della Fucina dei Saperi Sapori e Conoscenze con la presenza di personaggi e ricette della tradizione italiana per dare visibilità alla manualità e ai racconti di questa professione. A caratterizzare ogni edizione dell’evento, la presenza di tutte le associazioni di categoria in rappresentanza dei pasticceri, dei barman, dei pizzaioli, dei sommelier e dei cuochi, e i grandi marchi del food&beverage italiano che propongono non soltanto la semplice esposizione delle novità e dei prodotti di punta, ma anche presentazioni e momenti di approfondimento. Dal pane alla pizza, dai prodotti lavorati e semilavorati per la cucina alle forniture alberghiere, passando per la gelateria e la pasticceria. Un’intera area dedicata al caffè e alle innovazioni del settore grandi impianti. Inoltre tutto ciò che riguarda le attrezzature per la tavola, bar, gelateria e pasticceria fino all’arredo contract per interni ed esterni, compresi tappezzerie e arredo bagno. A questo si aggiunge il legame con Balnearia, il salone professionale dell’outdoor design, benessere ed attrezzature balneari che fanno di Tirreno C.T. un unico grande evento di riferimento per il segmento dell’accoglienza, dalla ristorazione al wellness, dallo street food all’hotellerie per arrivare all’ospitalità in spiaggia. 40ª EDIZIONE TIRRENO C.T. DALL’1 AL 4 MARZO 2020 CARRARAFIERE Marina di Carrara (MS) Tel. 0585 787963

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Golavagando

MARCO SACCO IL BUON GUSTO SALE AL 35° PIANO DEL GRATTACIELO, A TORINO di

Fabrizio Salce

Marco Sacco è un signore. Prima ancora di essere un grande chef, è una persona gentile e cordiale, positiva e generosa. In ogni occasione in cui abbiate modo di incontrarlo - e penso al suo bellissimo ristorante “Piccolo Lago” sul lago di Mergozzo (Verbano-Cusio-Ossola), oppure sull’Isola dei Pescatori con il Movimento Gente di Lago e di Fiume, o ancora ad un evento internazionale come Les Etoiles de Mougins - avrete sempre da parte sua un sorriso di cortesia che prelude alle caratteristiche dei suoi piatti. La storia di Marco è lunga: parlano chiaro le due stelle Michelin riconosciutegli da anni; ma non è del passato, sia pure ricchissimo di esperienze importanti, di cui parlano. Oltre al Piccolo Lago di Mergozzo, dal marzo 2019 Marco è anche al ristorante “Castellana” di Hong Kong all’interno del modernissimo grattacielo Cubus, primo ristorante della ex colonia britannica dove gustare l’alta cucina piemontese. Castellana in oriente ma da questo febbraio 2020 anche a Saluzzo, la città della provincia di Cuneo celebre per il suo antico marchesato ed oggi più che mai anello di congiunzione tra le provincie di Torino e di Cuneo. Marco Sacco è anche l’ideatore e fondatore del movimento “Gente di Lago e di Fiume”, trasformatosi nel 2018 in Associazione con eventi sull’Isola dei Pescatori del Lago Maggiore, dedicati all’itticoltura di acqua dolce. Da pochi mesi ha aggiunto un altro tassello alla sua storia: al 35esimo piano del grattacielo Intesa Sanpaolo di Torino - nuovo simbolo della città firmato da Renzo Piano - possiamo gustare la tradizionale cucina piemontese firmata dallo chef.

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Golavagando

Qui una serra bioclimatica ricca di piante di varie specie impreziosisce il modernissimo ristorante più alto d’Italia, la cui cucina tradizionale propone piatti come il raviolo Torino, il vitello tonnato, la zucca al forno con gorgonzola e amaretti, i tagliolini con fonduta di Castelmagno e tartufo, l’albese con porcini, la guancia di fassone al Barolo, il frangipane di nocciole con zabaione allo spumante. A questi piatti si aggiungono ben sette creazioni culinarie del Piccolo Lago e altri percorsi gastronomici di primissimo livello. “Torino è una città storica, bella, elegante, un luogo a dimensione

d’uomo in cui mi sento bene e posso esprime al meglio il mio lavoro.” Con queste parole Marco Sacco rende omaggio alla città, ai suoi palazzi di elegante signorilità, al museo del Risorgimento, a quello del cinema o all’Armeria Reale, alla Piazza Vittorio da cui osservare la Basilica di Superga, visti dall’alto di un ristorante di elevato profilo.

PIANO35 Grattacielo Intesa Sanpaolo Corso Inghilterra, 3 - Torino Tel. 011 438 7800

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Golavagando

A PISTOIA

I SALAIOLI CUSTODISCONO UN SERBATOIO DI PRELIBATEZZE fotoservizio di

Felice connubio tra idee, innovazione, produzioni d’eccellenza, commercio e buona cucina. Un marchio che parla di storia, di commercianti, di cose buone. Una famiglia, quella dei Bovani, che nel 1987 dà vita allo “Spaccio del Parmigiano”, al tempo, importante riferimento per la città di Pistoia, uno tra i primi simboli di qualità alimentare, in un’antica bottega

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Claudio Mollo

esistente dal 1953, che con i nuovi proprietari riprende vita e si trasforma. Qui si inizia fin da subito a proporre una riuscita fusione di attività: bottega e ristorante. Si comincia al mattino presto e si chiude la sera tardi. In brevissimo tempo I Salaioli, nome tratto da Piazza della Sala, sulla quale si affaccia il locale, diventa un incredibile incrocio di anime, tutte alla ricerca di un grande prodotto, di una cucina sfiziosa e ricca di varianti. Un posto dove rilassarsi piacevolmente con i buoni sapori. La ricerca è continua e vengono spese nei confronti dei prodotti grandi attenzioni, attraverso contatti diretti con i produttori, visite nelle

aziende e tante altre attività che servono a portare dentro i Salaioli il meglio di un prodotto, la qualità, l’eccellenza. Oggi i Salaioli, a Pistoia, funzionano come un enorme serbatoio di prelibatezze: nei banchi abbondano selezioni locali e nazionali. All’ora di pranzo si attiva una cucina più light, semplice, gustosa, sempre nuova, mentre la sera prende vita la parte gourmet, con un menu di tutto rispetto che fonde piacevolmente tradizione e innovazione, messo in pratica da Marco, il giovanissimo chef dei Salaioli, che governa comunque tutta l’attività alimentare, compresa la realizzazione di pani, schiacciate e altre prelibatezze. L’impegno è importante e Simone e Federica


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IL MICCONE DI PAVIA A MILANO lo portano avanti con grande passione. Loro, nel ristorante, si occupano del coordinamento generale e della sala, insieme ad altro personale decisamente preparato. Simone, in particolar modo, supervisiona anche l’approvvigionamento dei vini, che seleziona personalmente, consiglia e somministra. Una carta di tutto rispetto, in primis toscana ma anche del resto d’Italia, ricca anche di tante bollicine, sempre attenta alle novità e al loro rapporto qualità-prezzo. Ottima la proposta al calice, in grado

di soddisfare le creazioni dello chef in continua evoluzione. I Salaioli, un connubio di bontà che non si ferma mai durante la giornata, in grado di accogliere dal turista curioso ad una clientela esigente che sa di trovare in Piazza della Sala a Pistoia una ristorazione valida e variegata.

Il ristorante Miccone, un “fast food” della tradizione territoriale piemontese, nasce in via dei Mille a Pavia nel 2014 per mano del giovane imprenditore Giuseppe Dabbene che dà nuova vita al bar di famiglia, attivo da tre generazioni, con l’obiettivo di riscoprire e salvare l’antica ricetta dell’iconico pane e proporre come farciture i prodotti del territorio. Dopo un anno passato a Londra con un food truck che ha portato i sapori pavesi oltremanica, Dabbene ha deciso di dare una seconda casa al ristorante aprendo a Milano, città ricettiva e attenta anche alle tradizioni “esotiche”. Nel nuovo locale in via del Torchio, a metà strada tra S. Ambrogio e Missori e ad un passo da via Torino, vengono serviti tutti i micconi con le farciture più classiche del territorio pavese, come la coppa al Bonarda, il salame di Varzi, la confettura di zucca bertagnina di Dorno, le cipolle di Breme e le bevande dell’Oltrepò, dai vini, che confluiscono anche in una particolare ricetta di spritz, alle birre artigianali del birrificio Stüvenagh ai piedi del castello di Stefanago. Il nuovo Miccone eredita dal fratello pavese anche la caffetteria, attiva soprattutto a colazione, con specialty coffee tostati internamente e abbinati a dolci pavesi, come la “Torta di Miccone 1978” fatta con i resti del pane per ridurre gli sprechi, latte e gocce di cioccolato. MICCONE

Via del Torchio, 1 - 20123 Milano

I SALAIOLI Piazza della Sala, 20 - Pistoia - Tel. 0573 20225 www.isalaioli.it

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THE MARKET PLACE REGALA IDENTITÀ E NOVITÀ ALLA GASTRONOMIA COMASCA di

Lisa Foletti

La città di Como, gastronomicamente parlando, è un po’ come il Molise, o il Lichtenstein: qualcuno sostiene che esista, ma nessuno lo sa con certezza. Orfana del suo figlio prediletto, Paolo Lopriore, non si può certo dire che brilli nel firmamento delle capitali gourmet italiane. Tuttavia negli ultimi tempi, complice un incremento del turismo lacustre (bisognerà forse ringraziare il divo Clooney), pare che l’offerta ricettiva stia crescendo e, con essa, la proposta gastronomica di qualità. Lo chef Davide Maci (foto a destra), classe 1980 e un curriculum internazionale dove spiccano le collaborazioni con Pierre Gagnaire e Gordon Ramsay, nel 2011 ha scelto di tornare nella sua Como per aprire il primo ristorante da chefpatron, The Market Place. Già dal nome si intuisce l’impronta cosmopolita del locale, uno spazio dai tratti industriali e dal design essenziale che proietta l’ospite più in un market londinese che in un tipico ristorante italiano. La cucina di Maci, però, è fieramente italiana. Di un’italianità ispirata e mai nostalgica, che abita i propri territori buttando l’oc-

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Golavagando

chio al di fuori di essi con curiosità e rispetto. Si può selezionare qualche piatto dalla carta (due corse a 50€, tre corse a 70€) oppure farsi guidare dallo chef lungo due percorsi di degustazione (sei corse a 75€, 8 corse a 95€). Come sempre, noi scegliamo di non scegliere e optiamo per una degustazione con abbinamento vini, lasciandoci anche sorprendere dalle creazioni del mixologist Andrea Attanasio, titolare (insieme allo chef Maci) del Fresco Cocktail Shop, un cocktail bar a pochi passi dal ristorante che propone, oltre ai classici drink al bicchiere, curiosi cocktail premixati e imbottigliati, ai quali occorre aggiungere solo la parte alcolica. Dopo una serie di gradevoli appetizer, arriva la capasanta con topinambur e caviale, accompagnata da una chip di coralli e daikon al sesamo nero; segue la zucca con finferli e consommè alla birra, e poi il piatto più centrato e impattante dell’intero percorso, la golosissima trippa con ‘nduja, yuzu, sfoglia di seppia cruda e calamaretti spillo.

Si prosegue con le delicate linguine con lime e bottarga di tonno, affiancate da una ciotola di dashi al pomodoro confit; a seguire, un boccone carnoso di ricciola con leche de tigre (ovvero succo di ceviche), radicchio rosso e crema di cavolo viola, pietanza dagli ottimi contrasti. Si passa poi alla carne, con il piccione alla Wellington accompagnato da salsiccia homemade di quinto quarto di piccione, piatto scenografico (poiché porzionato al tavolo) e davvero ben cucinato. Si chiude con la dolcezza dell’ananas e nocciole, fresco e ricco al contempo. Discreta la carta vini, in attesa di maggiore definizione e personalità. Con questo pranzo possiamo confermare che la città di Como (così come il Molise) esiste davvero, e merita certo una sosta. THE MARKET PLACE Via Giuseppe Rovelli, 51 - Como - Tel. 342 366 4109 www.themarketplace.it - info@themarketplace.it

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A TORINO

ERAGOFFI ESPRIME I NUOVI PERCORSI DELLA TRADIZIONE di

Ed eccolo lì il plin del Goffi Del Lauro. Stavolta il famoso pizzicotto piemontese non chiude tanto la pasta fresca, quanto piuttosto sigilla l’anima dello storico ristorante che dall’800 ha riunito la borghesia torinese e grandi artisti. EraGoffi, nonostante suoni al passato, è ora di una freschezza masticabile, palpabile, riconoscibile. Il suo “ripieno” giovane ha già un anno ed è ben identificabile: il nuovo ristorante di Corso Casale a Torino è l’espressione gastronomica di una tradizione che non serve affatto complicare. Una tradizione che molto spesso ha verdure ed ortaggi, così come vuole lo chef Lorenzo Careggio, originario di Casablanca, ma ormai naturalizzato italiano. Gli studi all’Accademia di Niko Romito, poi l’esperienza da Marco Miglioli e da Fabrizio Tesse presso il ristorante Carignano, fino a quando, insieme agli altri due soci Alberto Fele e Marco Pandoli, Lorenzo ha dato vita al ristorante EraGoffi, dove la materia prima appare potenziata e valorizzata in tutte le sue componenti.

In cucina lo chef Lorenzo Careggio: l’amore per il mondo vegetale e la continua ricerca del sapore in purezza.

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Giorgia Giuliano

Persino l’ambiente è sapido: le tinte tenui delle pareti e dei tavoli, i muri di mattoni, le luci discrete, sono un boccone gustoso per gli occhi. C’è compostezza, elegante garbo e un’energia che si catapulta persino in cortile, cuore sempreverde del ristorante, dove si trova un maestoso lauro. EraGoffi tutela l’intimità e la vizia con una sala a parte, la Cantina, per degustazioni dedicate. Quattro i menu che passeggiano tra i sapori di piatti con la fassona e la vicciola, (la razza bovina piemontese allevata nient’altro che a nocciole), o con il pesce di lago e di fiume. Quella di EraGoffi è una proposta gastronomica di tradizione contemporanea, con licenze espressive meditate. Ne è un


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esempio il Tonno di Saluzzo: il classico piemontese Tonno di coniglio viene giocosamente rivisto, impiegando le carni della gallina bianca di Saluzzo, presidio Slow Food. La sostituzione dell’ingrediente di base viene esibita prima nel packaging e poi nel piatto: la scatoletta di tonno (di pollo) viene aperta e servita a tavola. Un approccio pop che mira al divertissement. Quella dello chef Lorenzo Careggio è una cucina con flashback di un passato che ha un nostalgico ma futuristico sapore.

L’INTERVISTA Come si è evoluta la tua filosofia in cucina? Ho condensato nella mia esperienza professionale le ricette che ho imparato da mia nonna e quelle delle cucine in cui ho lavorato. In cucina bisogna provare e riprovare. Il valore aggiunto dei miei piatti è tuttavia il territorio, l’autentico sapore piemontese. Gestire una cucina è proprio quello a cui volevo arrivare, ma si tratta tuttavia di una grande sfida. Ho cominciato con un metodo che dopo un anno sto modificando per raggiugere obiettivi di alto livello. La cucina è fatta di collaborazione: insieme alla mia brigata mi adopero affinché il gusto di un piatto sia proprio lo stesso che ho in mente. EraGoffi. E SaràGoffi invece? Come vedi il futuro del tuo ristorante? Vorrei raggiungere un doppio obiettivo: un rientro economico che però includa la felicità delle persone nel venire a mangiare da EraGoffi. Cerco in prima persona i produttori, vado tutti i giorni al mercato, sono a favore della qualità, ricerco sempre il buon prodotto che è basilare per la buona riuscita del piatto.

Il ripieno dei tuoi plin ha le melanzane. Non credi sia un po’ un rischio visto che si differenzia dal tradizionale plin alla carne? Il plin ripieno di verdure è una chiara traccia della mia esperienza in cucina presso il Ristorante Carignano: la pasta fresca era farcita con le materie prime più diverse, dalla carne al pesce. Era un raviolo molto

PLIN DI MELANZANE CON MELOGRANO E MENTA INGREDIENTI

kg. 1 di melanzane

g. 500 di pasta fresca, (fatta in casa: kg. 1 di farina, g. 600 di tuorlo d’uovo, g. 5 di sale) g. 50 di taina cumino q.b.

succo di limone q.b.

g. 50 di grani di melograno g. 100 di menta fresca g. 50 di burro

PREPARAZIONE

Cuocere le melanzane intere in forno a

180°C, ricavarne la polpa e frullarla con la taina, il cumino, il succo di limone e poco sale, mettere la farcia in sac a poche.

Stendere la pasta e confezionare i plin, congelare e utilizzare al bisogno.

Realizzare un burro aromatizzato alla menta lasciando la menta in infusione nel burro

sciolto per mezz’ora, filtrare e tenere in frigo. Cuocere i plin per 4 minuti in abbon-

dante acqua salata, saltarli in padella con il

burro alla menta, servireli e guarnire con il melograno.

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TONNO DI SALUZZO INGREDIENTI

1 pollo bianco di Saluzzo di circa kg. 1,5 (presidio Slow Food)

ml. 500 di olio evo, aromi

(alloro timo maggiorana e aglio) g. 50 di misticanza dell’orto g. 50 di spinaci olio

sale

maionese di pollo

maionese all’aneto PREPARAZIONE

Pulire il pollo e cuocere i petti per 20 minuti e le cosce per un’ora in acqua bollente salata.

Una volta terminata la cottura, spolpare petti e cosce avendo cura di preservare le fibre per avere di bei filetti da servire (la bianca di Saluzzo aiuta avendo delle carni sodissime); lasciar

raffreddare e mettere sott’olio con gli aromi

per almeno due settimane. Con le carcasse del

pollo realizzare un fondo, ridurre bene e, una volta freddo, emulsionare con olio di semi per

ottenere la maionese di pollo. Preparare un olio all’aneto frullando olio di semi e aneto, filtrare ed emulsionare con un uovo per ottenere la maionese all’aneto. Assemblare un’insalatina cotta e cruda con la misticanza e gli spinaci

saltati in padella; guarnire con le maionesi e servire con il Tonno di Saluzzo.

estroso. Il plin che proponiamo da EraGoffi è ispirato al Babaganoush, ovvero a un caviale di melanzane a cui ho unito la menta e il melograno. La tua è una cucina gentile ma tosta… Concordo. È il mio primo anno da chef e sto esprimendo la mia diversità rispetto agli altri. Credo sia importantissimo raggiungere questa consapevolezza. Ad esempio, adesso nei miei piatti sto in-

troducendo anche l’elemento marocchino: sto utilizzando tanti limoni in salamoia e l’harissa, una salsa molto piccante. Io sono originario di Casablanca, ma non voglio però discostarmi dal fare cucina italiana e piemontese. C’è un buon sapore di famiglia nei tuoi piatti… Sì, sono molto legato al ricordo dei bei momenti passati a tavola insieme ai miei genitori, ai miei parenti e soprattutto a mia nonna materna. È grazie a lei se mi sono riscoperto in cucina. Lei cucinava tanto. Ricordo ancora il tavolo di marmo dove preparava gli agnolotti e gli gnocchi. Ogni domenica sfornava piatti buonissimi, anche francesi. Era molto brava, una perfezionista. Di certo, per lei non avrei mai cucinato un suo piatto: probabilmente le avrei preparato il Tonno di Saluzzo.

ERAGOFFI C.so Casale, 117 - Torino - Tel. 011 4273450 www.eragoffi.it - info@eragoffi.it


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A MANGIARE FRA GLI OLIVI

RISTORANTE SYRAH SULLE COLLINE DI MONTECARLO, NEL LUCCHESE di

Il ristorante nasce dall’amore della famiglia Fontana, da gran tempo interessata dapprima al vino con la produzione di oltre 300.000 bottiglie annue. Da queste solide basi hanno pensato di dar vita ad una realizzazione satellitare in prossimità della fattoria, in una spianata dove prima erano gli olivi e con ancora olivi tutt’intorno, nonché filari di viti e un panorama stupendo. L’edificio è una grande cupola metallica - unica ed originale fra le sedi di ristorazione - entro cui sono sistemate le cucine ed i tavoli imbanditi, nonché una sala superiore a cui si accede da una scaletta destinata agli aperitivi; la sala grande è anche dotata di un soppalco corredato da tre tavoli per cene romantiche a due, inoltre la cupola è circondata da una splendida ter-

Domenico Acconci

razza su cui sono sistemati quattro gazebi, ognuno dei quali può essere riservato in esclusiva ad un massimo di venti persone per riunioni d’affari o feste di famiglia. Il progetto del complesso - realizzato brillantemente - si deve al rinomato architetto Paolo Riani di Firenze. L’intento della famiglia Fontana è stato quello di offrire alla clientela un’esperienza enogastronomica particolare esaltando, con il principio della stagionalità, le eccellenti materie locali, come l’olio extravergine di oliva, ovviamente il vino, l’attenta selezione dei prodotti di panificazione, di salumeria e di macelleria, col pesce pescato quotidianamente nel mare di Viareggio. A produrre le squisitezze è stato chiamato Stefano Gallo, classe 1992, nato a Lamezia Terme, in Calabria e già con diverse espe-

rienze in ristoranti stellati in Europa e in America, le cui preparazioni sono improntate ad una cucina moderna con tocchi personalizzati. Tra le proposte, i must della gastronomia toscana, tra cui i tortelli tipici alla lucchese, gli spaghetti aglio olio e peperoncino con ricci di mare, la rosticciana arrotolata con bietola e patate, la bistecca alla fiorentina ma anche il pescato del giorno al forno con verdure di stagione e una serie di dolci appetitosi, il tutto in abbinamento a vini del territorio.

RISTORANTE SYRAH Buonamico Wine Resort Via Provinciale di Montecarlo, 43 Montecarlo (LU) - Tel. 0583 180979

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“IL LINCHETTO” UN FOLLETTO VIVACE E GOLOSO di

Per decifrare il nome del Linchetto aiuta il “Vocabolario del vernacolo lucchese” di Idelfonso Nieri, il quale annota “folletto vivace e goloso, uso a depredare le dispense dei contadini”. Ben a ragione è stato preso a insegna di un ristorante di cucina tipica della Lucchesia. A lui si affianca un altro folletto, il Coboldo, questo però di tradizione germanica, conosciuto come “custode dei focolari” che si ritrova, appunto, nell’arrosto del Coboldo, piatto di carne alla brace. La lucchesità del ristorante si evidenzia in un primo piatto, la Garmugia, nome caratteristico di antica origine contadinesca, che è una zuppa con gran varietà di verdure. I piatti vengono usualmente presentati con nomi scherzosi, così intanto ci si

Domenico Acconci

diverte a scorrere la lista della vivande. Curiosando sul menu troviamo, fra gli antipasti: crostini e bruschette, il fagottino dell’orto, il carpaccio del Linchetto, e diversi altri “diverti bocca” dove salumi formaggi e verdure sono ben amalgamati; fra i primi piatti: gli immancabili tordelli al ragù, gli gnocchi del calderone (con salsiccia, porri, formaggio pecorino), il risotto del contadino, al pomodoro; i maltagliati del boscaiolo; fra i secondi piatti: il dispetto del Linchetto, ossia galletto al forno, l’umido del macellaio (con trippa), il baccalà alla griglia, il fritto dell’aia (con pollo e coniglio) e la sempre presente bistecca di manzo. Fra i dolci primeggia la “torta di erbi” con verdure uvetta e pinoli, e il buccellato, il pane dolce tipico lucchese, da mangiarsi

di solito inzuppato nel vin santo. Per gli amatori non mancano le pizze, i calzoni, il pane arabo e le focacce con diversi condimenti di solito di invenzione della casa. Collaborano al successo di questo locale Silvia Colombini in sala e Mario Pulvirenti ai fornelli, che hanno fondato il Linchetto dopo diverse, proficue esperienze nei più rinomati ristoranti del comprensorio.

IL LINCHETTO Via del Casalino, 35 - Capannori (LU) Tel. 0583 935872 340/3015961 Aperto solo la sera

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AL PALAZZO ROSSO RICORDANDO LA CONTEA DI NEIVE di

“Chi dice Piemonte, pensa subito al paesaggio collinare esteso a sud del Tanaro, sogna anzitutto una ghiotta cucina che ne esprima il sentimento, e quando alla finestra la nebbia vela il paesaggio, sente i profumi del tartufo e del mosto, immagina di essere sull’alto colle di Neive a guardare la distesa immensa delle colline e, giù in fondo, le montagne innevate, dal Monte Rosa al Monviso. A questo punto l’afferra una gran voglia di agnolotti e brasato, di carne e tartufo, di polenta e spezzatino. Allora dice alle montagne: “state lì e aspettate” ed entra nella locanda di Tonino e Claudia ove il sogno diventa realtà.” Questo incantevole pensiero fu scritto tanti anni fa da Giovanni Goria, celebre gastronomo e scrittore astigiano, un avvocato legato alla terra e all’agricoltura delle colline. Quando lui entrava a far parte dell’Accademia Italiana della Cucina era il 1962. Nella sua lunga carriera ha ricoperto innumerevoli cariche legate al settore della buona tavola, ha scritto e raccontato con maestria e passione il lavoro della gente, le tradizioni, i sapori e il buon gusto.

Fabrizio Salce

Quella locanda di Neive, conosciuta ed amata dai migliori gourmet professionisti e dai tantissimi clienti era frequentata anche da Luigi Veronelli e dal famoso grappaiolo angelico Romano Levi. L’eleganza dei locali storici di un antico palazzo, dove i camerieri ti servivano con i guanti bianchi, la straordinaria cucina tipica di Claudia Francalanci e il gran cuore di Tonino Verro l’avevano resa meta indiscutibile per i palati più raffinati. Era “La Contea”, era la locanda dove ti sentivi veramente bene: per la tavola e per l’amicizia. Era, e non è più. A Neive, splendido borgo annoverato tra i più belli d’Italia, dove cresce persino il cappero sugli storici muraglioni, ci sono tornato con piacere per conoscere una deliziosa soluzione per il soggiorno. Si chiama “small hotel” Al Palazzo Rosso. Il piccolo hotel è ambientato all’interno di un palazzo del XVII secolo, completamente ristrutturato nel 2016, e offre al turista quattro camere matrimoniali, tre standard e una più spaziosa. Le camere si affacciano sulla piazza principale del borgo antico, un

luogo delizioso in tutte le stagioni dell’anno, ricco di ristoranti, bar, enoteche e dalla terrazza posizionata all’ultimo piano si può godere di una gradevole vista sulle colline circostanti; quelle colline patrimonio UNESCO dal 2014 e tanto amate da Giovanni Goria. Al piano terra del palazzo è stato allestito un negozietto dove si possono acquistare i vini della cantina Cà Barun e oggetti di interior design, inoltre spesso vengono organizzate degustazioni ed eventi d’arte. L’antica dimora è stata acquistata da Bendetta Bona, innamorata di Neive, con il compagno di vita, Peter Thomsen, un simpaticissimo danese che ama produrre vino a pochi chilometri di distanza: Cà Barun è la sua cantina, appunto. E qui è bello ricordare Claudia e Tonino, “La Contea” e il contributo eccezionale che quella grande cucina di allora ha dato all’evoluzione della grande ristorazione di oggi. AL PALAZZO ROSSO Piazza Italia, 6 - 12052 Neive (CN) Tel. +39 333 1179 127 www.al-palazzo-rosso.it info@al-palazzo-rosso.it

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LOCANDA SOLAGNA SAPORE, OSPITALITÀ, TERRITORIO L’identità di Locanda Solagna è tutta racchiusa nella selezione delle materie prime e delle lavorazioni. La cucina è legame forte con i territori con di ciò che ancora cresce con i ritmi della natura. Il suo menu si regge su cinque pilastri, di volta in volta reinterpretati dallo chef Raffaele Minute: il territorio, la tradizione, la carne, il pesce e un percorso vegano. Una ricerca che non dimentica le origini venete, ma che non si pone confini e si prende anche la libertà di sondare là dove c’è identità forte.

La cantina è senza dubbio uno degli spazi più suggestivi e amati del locale, perfettamente recuperato durante i recenti lavori di restauro. Un luogo dedicato alla voglia di diffondere la cultura del buon bere, con una selezione di circa 400 etichette pensata per garantire qualità su diverse fasce di prezzo, dove trova spazio anche una piccola parete didattica per raccontare la vite e l’arte del vinificare. La locanda dal 1956 fa da testimone attento al passare della vita nel tranquillo borgo di Quero-Vas, con il fiume Piave che le scorre pochi metri accanto, in posizione perfetta per inoltrarsi alla scoperta delle Dolomiti Bellunesi o per percorrere i dolci pendii delle colline del Prosecco di Valdobbiadene. Qui sotto, da sinistra, papazioi da lat, piccoli frutti ed erbe; sgombro allo zafferano delle dolomiti e cipollotto rosso; zuppa primavera e coda di bue.

LOCANDA SOLAGNA Piazza I Novembre, 2 - 32038 Vas, Quero Vas (BL) - Tel. 0439 788019 - www.locandasolagna.it

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A L’ALBERETA NASCE IL NUOVO

LEONFELICE VISTA LAGO Se è vero che la semplicità è la chiave del lusso, la scelta di Martino de Rosa - anima dell’intera operazione LeoneFelice con atCarmen, la società fondata con la moglie Carmen Moretti - va incontro all’esigenza di ritornare alle origini e di investire sulla qualità, sul territorio e sulla pulizia del gusto. Dall’unione del VistaLago Bistrò e del ristorante gourmet LeoneFelice nasce il LeoneFelice Vista Lago, un luogo in cui dare vita a una grande cucina di tradizione con un attento servizio di sala, in un contesto di estrema bellezza come quello de L’Albereta. Il menu del nuovo LeoneFelice Vista Lago è frutto della creatività dello chef Fabio Abbattista, che ha saputo traghettare la cucina de L’Albereta nel post Gualtiero Marchesi. Nei piatti, quanto di meglio proviene dal territorio per portare in tavola prodotti buoni, accessibili e di qualità. Le materie prime arrivano in gran parte dalla Franciacorta, sono acquistate in piccole quantità e con frequenza, per garantire sempre freschezza e stagionalità.

LEONEFELICE VISTA LAGO L’Albereta Relais & Chateaux Via Vittorio Emanuele 23 - Erbusco (BS) - Tel. 030 776 0550 www.albereta.it

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NEL LECCESE

COSIMO RUSSO RISTORANTE IMPRIME UN’IDENTITÀ PRECISA E AFFIDABILE ALLA RISTORAZIONE PUGLIESE di

Stefania Leo Ezio d’Onghia

foto di

Il Cosimo Russo Ristorante di Leverano è una meta vicinissima ai percorsi turistici del Salento. Porto Cesareo, Gallipoli e la stessa Lecce, infatti, sono ad un tiro di schioppo. Qui sentirsi a casa è facile, anche solo grazie a una tovaglia di lino, una sedia comoda e ai sorrisi dei padroni di casa. Ciò che è più facile, però, è mangiar bene, perché Cosimo Russo è uno dei giovani talenti più promettenti del Sud Italia. Dopo l’importante esperienza con Sergio Mei al Four Season e dopo la parentesi nel bellissimo ristorante Aqua, decide di aprire il suo primo “signature restaurant” nel paese natale della sua compagna di vita, Katia De Mitry. Quello che troverete, cenando da Russo, è un locale che restituisce quel senso di calore e familiarità immediata, un luogo in cui si riscontra attenzione ai dettagli e grande tecnica in cucina. Andarci, vale il viaggio.

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LA STORIA Classe 1984, originario di Massafra, Cosimo Russo è cresciuto in una famiglia di macellai. Il cibo era di casa. Tra la maestria di una madre “cuoca non ordinaria” e un papà che lo ha fatto entrare in confidenza col mondo delle masserie, Russo è cresciuto con la voglia di diventare un grande cuoco. Dopo aver intrapreso gli studi di veterinaria, è riuscito a ritagliarsi gli spazi


necessari per lavorare nelle cucine dei locali di Massafra e muovere i primi passi in cucina. La pietra miliare della sua formazione è senza ombra di dubbio la brigata di Sergio Mei al Four Season Hotel di Milano. Qui si forma imparando l’arte della sfilettatura dei grandi pesci, la gestione della lievitazione e della lavorazione della pasticceria, le imprescindibili preparazioni della cucina classica italiana e, soprattutto, qui intrappola nella mente l’arte della preparazione del risotto. Vangelo e religione nel Nord Italia, il risotto di Cosimo Russo è una vera perla nel cuore profondo del Salento. Dopo un’esperienza parigina, Russo si fa un nome lavorando come chef executive presso il ristorante Aqua Le Dune di Porto Cesareo. Qui incontra la sua attuale compagna, con la quale inizia a condividere il sogno del suo primo signature restaurant. Cosimo Russo Ristorante nasce dunque a Leverano, il 15 luglio 2019, «in un territorio poco pronto a questo tipo di ristorazione», ma in cui chi ha imparato a conoscerlo, non tarda a recarsi.

LA CUCINA Cosimo Russo adatta il suo menù alle stagioni. La materia prima viene trattata con grande rispetto e ricercata con attenzione. C’è un team di tre ricercatori («quasi tutti anziani», spiega Russo) che procurano al ristorante le erbe aromatiche e quelle spontanee, fondamentali nella ricerca del gusto dello chef. Altra caratteristica della cucina di Russo: la presenza di frutta e verdura di stagione. «Cerco di inserire la frutta nell’antipasto e la verdura nel dolce». Cosimo Russo Ristorante propone una cucina italiana, mediterranea, leggermente rivisitata ma ampiamente leggibile, fedele alla materia prima. A creare l’esperienza per un totale di quaranta coperti, ci sono cinque persone. Russo e la compagna si occupano anche della selezio-

SGOMBRO CARAMELLATO

PESCA, BASILICO E LATTE DI MANDORLA INGREDIENTI Per lo sgombro g. 600 di sgombro grosso acqua, sale, ghiaccio q.b. Per la marinatura dello sgombro sale fino q.b. zucchero semolato q.b. Per la guarnizione g. 300 di pesca gialla g. 300 di latte di mandorla g. 100 di perle di tapioca olio extravergine d’oliva q.b. aceto rosso q.b. basilico q.b.

re e asciugare. Sottovuotare e abbattere di temperatura. Al momento del servizio eliminare la pelle superficiale dal filetto, cospargere con zucchero semolato e caramellare con il cannello. Per la guarnizione: cuocere le perle di tapioca in metà del latte di mandorla. Una volta cotte, raffreddarle sotto l’acqua corrente e conservare in frigo utilizzando l’altra metà del latte. Sbucciare le pesche e tagliarle a cubettini. Condirle con basilico, olio, sale, pepe e poco aceto rosso. Servire tutto al piatto.

PREPARAZIONE Per lo sgombro: pulire e sfilettare lo sgombro, lavarlo nella soluzione preparata e asciugarlo. Eliminare tutte le spine e marinare con la miscela di sale e zucchero. Porre in frigorifero per 10 ore. Sciacqua-

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ne dei vini. In cantina ci sono oltre 100 referenze, che spaziano tra espressioni cardine del territorio, a vini “naturali” e “biodinamici”. Il percorso vini, consigliato in abbinamento ai menù degustazione, vanno dai 25 ai 35 euro.

LA DEGUSTAZIONE Da Cosimo Russo Ristorante si possono fare due percorsi degustazione, uno da 45 euro, l’altro da 80 euro vini esclusi, oppure mangiare à la carte per una media di 45 euro a persona, vini esclusi. I “must” da non perdere però sono cinque. Si inizia dal crudo di mare, con le ostriche imperiali allevate in zona. Si continua con la seppia al carbone, cotta sul barbecue, quest’ultimo vero talismano e valigia di ricordi per Russo.

RISOTTO ALLA PESCATORA INGREDIENTI Per il risotto g. 300 di riso Carnaroli, g. 180 di frutti di mare sgusciati cotti (tartufi, vongole, cozze), g. 100 di code di gambero viola di Gallipoli sguaciate, g. 60 di calamaretti spillo puliti, g. 400 di brodetto ridotto di pesce e crostacei al pomodoro, acqua di cottura dei molluschi q.b., g. 90 di olio extravergine di oliva, dl. 5 di vino bianco secco, g. 300 di prezzemolo sfogliato, salicornia fresca q.b., sale e pepe q.b.

«Il barbecue è per me un elemento molto importante. Il sabato sera si faceva il fornello in macelleria e ho voluto riportare quei profumi e quei sapori nei miei piatti». La seppia è arricchita con prezzemolo, tarallo e la conserva amara salentina, a base di peperone e peperoncino. La specialità da non perdere: il risotto alla pescatora. Passando ai primi, Russo consiglia lo spaghetto aglio, olio, peperoncino, vongole e

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PREPARAZIONE Sbianchire le foglie di prezzemolo in acqua bollente per 3 minuti. Scolare e raffreddare in acqua e ghiaccio. Una volta fredde, scolarle e frullarle con olio sale e pepe, unire un po’ di acqua di raffreddamento, se necessario. Filtrare al colino fine e conservare in frigorifero. Aprire i conchigliacei in padella con poco olio, uno spicchio d’aglio e qualche gambo di prezzemolo. Sgusciare e filtrare l’acqua. Tenere in caldo i molluschi.

In una casseruola tostare il riso, bagnarlo con il vino bianco e lasciare ridurre. Continuare la cottura bagnando con l’acqua di cottura dei molluschi. Condire i calamaretti con olio, sale e pepe; scottarli brevemente in padella molto calda. Condire le code di gamberi con olio, sale e pepe e tenerle da parte. Completare la cottura del risotto, toglierlo dal fuoco e mantecarlo con l’olio; regolare di sapore. Formare con la crema di prezzemolo un anello di 10 centimetri di diametro al centro del piatto. Disporre al suo interno tutti molluschi, i calamaretti scottati e le code dei gamberi crude. Versarvi sopra il brodetto caldo ben denso, finire con poche foglie di prezzemolo fritto e qualche punta di salicornia Servire il riso ben mantecato in un pentolino da presentare a parte. Terminare l’impiattamento davanti al cliente, disponendo tre cucchiaiate di risotto al centro del piatto.


TORTA AL LIMONE MODERNA INGREDIENTI Per il crumble alle mandorle: g. 150 di burro morbido, g. 150 di zucchero, g. 4 di sale fino, g. 150 di mandorle in polvere, g. 150 di farina debole. Per la crema al limone: 5 limoni spremuti, g. 150 di zucchero semolato, g. 35 di amido di riso, 6 tuorli. Per la meringa: g. 200 di albume, g. 300 di zucchero, g. 70 di acqua.

ricci. Ma il piatto davvero irrinunciabile è il risotto alla pescatora. «Ho acquisito il modus operandi durante gli anni milanesi. Anche il riso Carnaroli che uso viene dal Nord. Credo che sia il mio cavallo di battaglia perché al Sud viene spesso servito un piatto slegato, non un vero risotto mantecato», spiega Russo. Il suo risotto alla pescatora cambia sin dall’impiattamento. Viene servito un piatto con crema di prezzemolo e brodetto denso, su cui sono adagiati i frutti e la “verdura di mare”. Il risotto bianco cotto con acqua di cozze e vongole viene aggiunto in un secondo momento, dal pentolino al piatto. Suggestivo. Un altro must della cucina di Russo è il quataro alla moda di Porto Cesareo, ricordo degli anni all’Aqua restaurant. Si tratta di una zuppa di pesce con verdure di stagione, alleggerita rispetto alle preparazioni tradizionali. Infine, il dessert. «Non amo molto lo zucchero - sottolinea lo chef - per questo preferisco creare “dolci non dolci”, come il pane, olio e

cioccolato, anche se sono un amante del tiramisù classico». Il Salento, sempre più preda di moti turistici invasivi e poco attenti, sta diventando una fucina di locali senza identità e qualità gastronomica. Cosimo Russo ha scelto di uscire dai percorsi turistici, arroccandosi nell’entroterra accogliente e fecondo, dove sentirsi a casa è facile. La sua cucina è divertente, perfetta nella modulazione dei sapori e sempre ben presentata dal punta di vista estetico. Indubbiamente una meta irrinunciabile per chi ama la cucina gourmet made in Puglia.

PREPARAZIONE Per la tartelletta (pasta sablée): unire tutti gli ingredienti fino ad ottenre un composto omogeneo. Conservare l’impasto nel frigorifero. Per la crema al limone: procedere con gli ingredienti elencati, come per una crema pasticciera. Per il crumble: grattugiare la pasta su una placca ricoperta con carta forno, distribuendola in modo uniforme. Cuocere in forno a 160°C fino a colorazione. Lasciar raffreddare. Per la meringa: cuocere lo zucchero e l’acqua a 121°C; semimontare l’albume e versarvi lo zucchero; continuare a montare fino a raffreddamento. Presentazione: disporre sul piatto il crumble e la crema. Ricoprire.

COSIMO RUSSO RISTORANTE Via Vittorio Veneto, 9 73045 Leverano (LE) Tel. 375 535 1682

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GourmetFood © ph Marco Poderi

MASSIMO

BOTTURA

ALLA RICERCA DELLE SUE E DELLE NOSTRE RADICI NELLA VALLE DEL PO. ORA NELLA NUOVISSIMA VESTE DEL SUO RISTORANTE. di

Giulia Gavagnin

C’è ancora bisogno di spendere parole su Massimo Bottura? Miglior chef italiano in patria e nel mondo non solo secondo la “50 Best” che l’ha inserito tra gli emeriti come fosse Papa Ratzinger, lui che il Papa in carica l’ha incontrato in questi giorni a riprova dell’alone di santità che lo circonda come un sapiente cui l’indiscusso magistero conferisce negli anni un alone di misticismo. Lui, che balza come un folletto danzante tra progetti umanitari, Refettori in punti lontanissimi del globo, Tortellanti per assicurare un futuro a ragazzi disabili, progetti mirabili per case di moda, collezionismi artistici, conferenze mondiali sui temi cardinali dell’alimentazione a partire dagli annosi sprechi, incontri con capi di governo e illustri statisti pur in quest’epoca di egemonia economica e aridità politica. Tutti ne scrivono, tutti ne parlano, tutti gli rendono doveroso omaggio. Allora perché parlare ancora di lui? È presto detto. Massimo Bottura, a dispetto dell’immagine pubblica, degli impegni ormai istituzionali, del ruolo di testimonial d’eccellenza della cucina italiana nel mondo, non si è coperto dei panni del meta-chef, continua a vestire la giubba del cuoco-intellettuale, il primo e (tuttora) unico dopo Gualtiero Marchesi. E, parafrasando una frase impropriamente attribuita a Dostoevskij, “solo la cultura salverà il mondo”.

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MassimoBottura

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L’OMAGGIO A MARIO SOLDATI E AI CANTARELLI Bottura ne è consapevole a tal punto che, dall’alto della sua essenza ferocemente “glocal”, nell’anno in corso ha reso omaggio a uno dei padri della cultura gastronomica italiana, a quel Mario Soldati che a cavallo tra il ’57 e il ’58 percorse la Valle del Po dal suo Monviso all’Adriatico, nel primo viaggio itinerante alla scoperta della ricca gastronomia del percorso fluviale, quando l’Italia aveva da poco terminato di raccogliere i cocci della Seconda Guerra Mondiale e si accingeva a vivere il proprio personale boom economico. Non è certamente il punto d’arrivo nel mondo visionario di Bottura, ma l’ennesimo, gustoso episodio, dove l’attenzione alle radici rivela tratti emozionali più marcati rispetto ai percorsi consueti dello chef.

È un tripudio di fiori, colori e farfalle la nuova Francescana. “Dopo anni di minimalismo ho voluto regalare alla clientela una nuova idea di bellezza”, dice Bottura. E forse, anche qualche nuova farfalla nello stomaco, diremmo noi. Sono state disegnate su misura da Gucci le due poltrone d’ingresso di seta rosa con un’enorme farfalla disegnata. E le opere d’arte propriamente dette sono di artisti di fama mondiale. La ruota allegorica su piattaforma rotante è nientemeno che di Damien Hirst. La moquette è del designer belga Marcel Wanders. La statua bronzea che raffigura un’anziana signora al mercato delle pulci è dell’artista americano Duane Hanson, della scuderia Saatchi. Le sue sculture sono diventate celebri per l’iperrealismo con cui sono state realizzate e concepite: persone e scene quotidiane di un giorno come gli altri nella società americana. Omaggio all’arte pop statunitense anche nella tela che raffigura un mosaico di chewingum, dell’artista irriverente Dan Colen, che a proposito di questo concept dice: “il mio lavoro gioca su ciò che è astratto e ciò che è pittorico. Questo quadro è chewingum o è un quadro astratto che utilizza chewingum?” Per scoprirlo bisogna proprio andare a Modena in via Stella 22.

© ph Nicole Marnati

La cucina del modenese, infatti, è in primo luogo concettuale, procede per immaginazione cui segue la realizzazione; se fosse un personaggio de La Scuola di Atene di Raffaello, Bottura sarebbe Platone che indica in alto il mondo delle idee, contrapposto ad Aristotele che tende in avanti la mano indicando la sostanza. In Bottura la sostanza non manca per nulla, sia chiaro, ma questa è il punto di arrivo, il termine del processo. Non è un caso che per lui si sia scomodato anni addietro Achille Bonito Oliva che lo definì “il sesto artista della Transavanguardia” perché i

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MassimoBottura © ph Nicole Marnati

suoi piatti nascono da un’idea e poi seguono uno sviluppo circolare, quasi a spirale, che di quell’idea si nutre. L’arcinoto “Omaggio a Thelonious Monk” è la sintesi di questa attitudine, è la traduzione in termini culinari dell’essenza di Monk che, secondo lo stesso Bottura: “ha cercato per tutta la vita il suono delle proprie radici” ispirando allo chef un piatto tutto nero di nero di seppia, merluzzo, brodo di tonno alla giapponese, dove “il cuoco spegne la luce lasciando l’esperienza al solo palato”. La realizzazione pratica di una delle forme d’arte che ispirano Bottura, il

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GourmetFood © ph Nicole Marnati

Un’anguilla che risale il Po © ph Paolo Terzi

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jazz, connubio di tecnica e improvvisazione che in cucina diventa “improvvisazione di un’idea”. E che, poco casualmente, rappresenta il trait d’union ideale con due piatti iconici di Marchesi, la “seppia al nero” e “il rosso e il nero”. L’attuale astrazione botturiana affonda nella storia più che nell’arte: forse è proprio questo il punto di contatto più evidente con l’amato Monk, perché è possibile che qui lo chef “abbia cercato per tutta la vita il gusto del-

le proprie radici”. Nel dipanarsi della collezione ragionata 2019-2020 dell’Osteria Francescana ci sono sempre alcuni classici, perché in fondo la cucina di Massimo Bottura non prescinde mai da quelle radici coerenti che attaccano a Campazzo con le azdore e crescono con la spina dorsale di Cogny, Ducasse e Adrià: Magnum di foie gras e croccante; le cinque stagionature di parmigiano; e la generosa anguilla che risale il Fiume Po sulla stoviglia Ginori (foto a lato), “fiaba e storia” che ripercorre il faticoso viaggio dei duchi d’Este D’Este nel trasferimento della capitale da Ferrara a Modena, sempre ammaliante nella sua laccatura “alla giapponese” nella localissima salsa di Saba, ottenuta dal mosto giovane, cui s’accompagna la composta di mela campanina di Mantova.


MassimoBottura © ph Marco Poderi

QUI NASCE IL PO Sono intermezzi coerenti, tappe nell’itinerario, che inizia con un brodo essenziale di vongole, erbe spontanee, alghe marine: “Pollution Revolution!” che suona come la premessa di un manifesto programmatico invero forse già visto, che induce a “trarre il buono dal brutto” dove però subito dopo si affaccia il bello, “La Vie en Rose” che induce meraviglia, con la scoperta dell’Ostrica Rosa del Po, una Tabouriech di particolare complessità gustativa coltivata nell’incontaminata Sacca degli Scardovari da Alessio Greguoldo, che Bottura accompagna a crème fraiche, uova di trota, polvere di karkadè e brodo di lambrusco dealcolizzato. Lo chef è in sala, guizza d’orgoglio quando introduce il primo piatto filologico del percorso, che coglierebbe di sorpresa anche il più consumato appassionato di volumi polverosi: il Caviaro di Messisbugo, cuoco ferrarese del © ph Nicole Marnati

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Rinascimento che avrebbe codificato il primo caviale di storione del territorio. Siamo nella foce del Po, il viaggio procede lentamente verso ovest con una deviazione nelle paludi degli estensi: il brodo è nero di cipolla bruciata e prosciutto, con il cucchiaio si pesca lo storione essiccato con il caviale e i gamberi di fiume, l’effetto è diverso da Thelonious Monk, vuole forse suscitare un ricordo atavico di sapori infantili per i nativi del luogo e sorprendere chi è cresciuto altrove, in altri territori. Il viaggio procede verso la sorgente, il “riso tra acqua dolce e salata” ha crema di carpione e succo d’arancia tra branzino marinato e finocchietto è quasi un intermezzo, un divertissement. L’anguilla è uno dei piatti storici di Bottura, precede “neve al sole” crema di patate con funghi, tartufi, lumache, polvere di caffè e una crema di aglio di vibrante personalità che simula la neve quanRavioli di patate arrosto in salsa di faraona arrosto © ph Paolo Terzi

Faraona alla creta Omaggio ai Cantarelli © ph Paolo Terzi

do si scioglie e schiude i profumi della terra. Il piatto principale è la faraona in tre portate, dedicata a Milena Cantarelli. “E’ stato un luogo della mia infanzia” dice lo chef, “festeggiavamo là i nostri compleanni, tra le mura di quel luogo incantato a Samboseto”. L’emozione lascia spazio al rigore, ravioli di patate con salsa della carcassa, il petto arrosto sormontato da uno strato di bollito, una foglia di tartufo, salsa al foie gras e mostarda, completata dalla sfera finale di pelle croccante, fegatini, cioccolato e tartufo. Un gioco che riprende molte delle regole transalpine, che sono le stesse che praticava Milena Cantarelli nel suo mitologico percorso. Il percorso si chiude con le castagne del Monviso, con la riproduzione dell’iconica lapide immortalata nel programma di Soldati: “qui nasce il Po”.

OSTERIA FRANCESCANA Via Stella, 22 - Modena - Tel. 059 223912 www.osteriafrancescana.it - info@francescana.it

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FRANCESCHETTA 58 LA FIGLIA VIRTUOSA DELLA FRANCESCANA Franceschetta58 è lo spin-off dell’Osteria Francescana. Non è un bistrot che somministra piatti “minori” o riedizioni “soft” della Casa Madre, è un ristorante in piena regola benchè informale. Aperto sei giorni su sette, è forte di brigata e personale che hanno appreso i fondamenti del Bottura-pensiero già in via Stella 22. Sulle vetrine campeggia la scritta “I Love Modena”: è un manifesto programmatico che segue la filosofia glocal di Bottura nelle sue personali evoluzioni e nel ciclo delle stagioni. Nella proposta del momento ci sono echi di quel menu dedicato a Mario Soldati nel lento cammino lungo la Valle del Po: il risotto all’anguilla affumicata, il carpione di storione, il persico trota alla cacciatora, e poi gli inserimenti etnico-regional-creativi come nel branzino al peperone crusco e curry verde. Franceschetta 58 vive di luce propria, ma è Bottura al 100%. Non è improbabile trovarlo tra queste mura il lunedì, quando Francescana chiude per turno. FRANCESCHETTA 58 Via Vignolese, 58 - Modena - Tel. 059 3091008 www.franceschetta.it

RISOTTO ALL’ANGUILLA AFFUMICATA INGREDIENTI

Inserire l’anguilla e tutti gli ingredienti

nuti, in modo da lasciare una consistenza

rafano fresco.

composto a velocità elevata portando la

Rimuovere dal fuoco e scolare le verdure

Per il riso: g. 400 di riso Vialone Nano, Per il brodo di cappone: kg. 1,5 di cap-

pone, pulito ed eviscerato, 1 gambo di sedano, 1 carota, 1 cipolla bianca, 3 foglie d’alloro, 1 rametto di timo, g. 200 di croste di parmigiano reggiano, g. 10 di pepe ne-

ro, g. 30 di sale marino, 5 foglie di salvia, 2 rametti di rosmarino, 2 spicchi di aglio.

Coprire il cappone con 10 litri d’acqua fredda in una pentola capiente. Risciacquare le verdure e aggiungerle alla pentola insieme alle erbe, al pepe e al sale.

Aggiungere le croste di parmigiano, por-

tare a bollore e cuocere a fuoco lento per 5 ore. Passare al colino cinese.

Scaldare il brodo ottenuto a 80°C, aggiungere la salvia, il rosmarino e l’aglio.

Spegnere e lasciare in infusione per due ore e filtrare.

Per la crema di anguilla: g. 300 di ritagli

di anguilla cotta, g. 30 di aceto di vino bianco, g. 25 di olio extravergine di oliva, ml. 100 di acqua, sale.

Affumicare l’anguilla in un affumicatore tipo Green Egg per circa 3 minuti.

all’interno di un Thermomix. Frullare il

temperatura a 70°C in modo da ottenere una crema omogena ed emulsionata. Sco-

lare con colino a maglia fine, mettere in contenitore e lasciare raffreddare.

Per l’olio affumicato: g. 100 di olio extravergine di oliva.

Inserire l’olio in un pentolino e affumicare

croccate alle verdure.

conservando il liquido di cottura e lasciar

raffreddare separatamente. Inserire sia le verdure che il composto in un barattolo e conservare in frigorifero.

La quantità di verdure ottenute sarà maggiore di quello che servirà nel piatto.

per 3 minuti all’interno di un affumicatore

COTTURA

ra ambiente.

sfumare con il brodo di cappone, aggiun-

tipo Green Egg. Conservare a temperatuPer la saba concentrata: g. 200 di saba.

In un pentolino a fuoco lento ridurre la saba del 50% e tenere da parte.

Per la giardiniera: 1 peperone rosso, 1 peperone giallo, 1 carota spellata, g. 100

di acqua, g. 60 di zucchero, g. 200 di aceto di vino, g. 5 di sale.

Lavare e pulire le verdure, tagliarle a cu-

betti di cm. 0,5. Preparare il liquido della giardiniera versando in un pentolino l’aceto di aceto di vino bianco, sale, zucchero e l’acqua. Portare tutto a bollore.

Una volta raggiunta l’ebollizione, versare le verdure e lasciar cuocere per circa 3 mi-

Tostare il riso in una pentola antiaderente, gere il sale e cuocere come un classico

risotto. A metà cottura aggiungere tre cucchiai di crema di anguilla.

Portare a cottura con il brodo, bilancian-

do la sapidità e alternando con qualche

mestolo di acqua calda. A fine cottura, togliere la pentola dal fuoco e mantecare aggiungendo il resto della crema di anguilla e l’olio affumicato.

Alla base del piatto disporre la giardinie-

ra, un cucchiaio di saba precedentemente riscaldata in un pentolino a fuoco lento, il

riso e coprire tutto con una generosa grattugiata di rafano fresco.

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LUCA

MARCHINI

ZEN E ARTE AL RISTORANTE L’ERBA DEL RE di

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Elisabetta Degli Esposti Merli foto di Niko Boi


LucaMarchini

Passeggiando per Modena si può finire in un angolo molto suggestivo, un luogo raccolto e intimo: piazzetta della Pomposa. Lungo il muro che circonda il giardino della chiesa, una targa ricorda che a volerla fu Telesforo Fini, un famoso ristoratore per il quale “il segreto del (suo) successo sta tutto qui: nella genuinità dei prodotti.” Non è dunque un caso che a pochi metri di distanza si trovi la cucina di un altrettanto importante maestro dell’arte culinaria: Luca Marchini. Il suo ristorante porta un nome speciale: l’Erba del Re, ovvero il basilico. In numerose tradizioni, miti e leggende di diverse culture, si legge che questa pianta sacra fosse in grado di influenzare positivamente mente e spirito. Come fa Marchini con i suoi piatti. Persona equilibrata, avvolto da un’aura quasi zen, guida come un attento e saggio maestro “una sorta di famiglia professionale sulla quale ogni chef decide di puntare giorno dopo giorno. Questa famiglia si chiama staff”. Accoglienza, materia prima, verità, ordine e creatività: a ognuno dei “magnifici 5” della squadra di Marchini corrisponde uno di questi valori, dal maitre, al sous chef, dal sommelier fino alla pâtissière. E il risultato è un menù pulito, equilibrato che invita a destare tutti i sensi. La triade che apre le danze è composta da un pomme soufflé, con interno di crema di mortadella e riduzione a freddo di succo di limone e un amuse bouche di baccalà mantecato in una fragrante pastella a base di birra. Chiude il triangolo un burger di seppia in totale purezza: pane al nero di seppia cotto a vapore, con un morbido cuore al centro e un’emulsione di maionese, dove al posto delle uova sono utilizzate le proteine di un brodo, ovviamente di seppia.

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CALAMARO ABBRUSTOLITO CON TOPINAMBUR INGREDIENTI per 4 persone

Per il calamaro: pulire il calamaro, separa-

di cm. 10 circa di lunghezza

Mettere sottovuoto e cuocere in acqua,

4 calamari freschi

1 rametto di finocchietto fresco qualche fiore di cavolfiore

spezie (pepe bianco, pepe nero, anice stellato, stecca di cannella, cardamomo,

chiodo di garofano, ginepro, macis, noce moscata)

g. 5 di zucchero

bucce di 10 topinambur 4 scalogni

1 cucchiaino di miele di acacia sale olio

PROCEDIMENTO

Per il fondo bruno di topinambur: rosolare per alcuni minuti lo scalogno tagliato

a julienne e le bucce di topinambur. Ag-

re i tentacoli dal corpo.

con termostato ad immersione, a 53°C per una decina di minuti.

Togliere dal sottovuoto, tamponare, ungere e grigliare per pochi secondi da entrambi i lati, compresi i tentacoli (meglio la cottura Kamado).

Per il cavolfiore: preparare un brodo con

circa 800 grammi di acqua, le spezie, lo zucchero e poco sale.

Far bollire per 20 minuti e lasciar riposare per un paio d’ore.

Filtrare e portare ad ebollizione, aggiungere i fiori di cavolfiore tagliati piccoli e

cuocere per 1 minuto. Spegnere la fiamma

e mantenere nel brodo finché non si ammorbidisce.

giungere acqua e lasciar sobbollire per

PRESENTAZIONE

liquido, finché non risulta denso. Aggiun-

di cavolfiore sgocciolati, il calamaro con i

un’oretta e mezza. Setacciare e ridurre il gere il miele.

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In un piatto bianco disporre la salsa, i fiori suoi tentacoli e il finocchietto.

Il primo piatto è già un gioco di perfetti bilanciamenti: un calamaro in doppia cottura, prima sottovuoto a 53°C, poi brevemente sul kamado. Il leggero sentore di affumicato viene richiamato da un fondo bruno di bucce di topinambur, mentre profumate cimette di cavolfiore cotte in un infuso di spezie regalano croccantezza. Infine, a completare il cerchio, una nota di miele millefiori. Si passa poi a uno dei primi trompe-l’oeil con cui Marchini ama compiacere tanto la mente quanto


LucaMarchini

il palato: nel piatto un uovo (con il guscio), petto e coscia di quaglia su una crema di mele acidulata con aceto di mele, salsa di patate e aneto e piccoli vegetali tagliati e adagiati come fossero funghetti colorati. L’uovo in realtà è un guscio di cioccolato salato con all’interno una crema di soli tuorli: va mangiato per primo e in un sol boccone, per sorprendersi ancora una volta del fatto che l’abito non fa il monaco. Gli spaghetti con infuso ai carciofi, rombo e polvere di olive taggiasche (foto in basso) arrivano in tavola pettinati e composti: Marchini infatti usa una tecnica tutta sua, con cui cuoce per pochi minuti in acqua bollente gli spaghetti legati in piccoli fasci. Poi, sempre stretti tra loro in un abbraccio che non lascia disperdere gli amidi, li brasa in una crema di acciughe dissalate e lasciate sott’olio una settimana. Infine li avvolge come fossero uno chignon in un savarin di acciaio. Al centro del nido la morbidezza di una mousse di carciofi, mentre croccanti petali di carciofi fritti sovrastano il piatto, insieme a una

FISHBURGER DI SEPPIA INGREDIENTI

per 25 panini di g. 16/17 cadauno Per il panino

g. 260 di farina 00 g. 130 di acqua

g. 20 di nero di seppia

potente. Appena inizia a legare, inserire

il composto in una sacca da pasticceria e, con l’ausilio di un coppapasta tondo, formare dei fishburger di circa cm. 1,5 di

altezza. Raffreddare in frigorifero e rosolare in padella.

g. 25 di olio di semi di girasole

Per l’emulsione alla seppia: preparare il

g. 8 di lievito di birra

leggermente i ritagli di seppia ben lavati e

g. 4 di sale

olio di arachidi per la frittura Per il fishburger

kg. 1,5 di seppia nera 3 cubetti di ghiaccio Per l’emulsione

scarti della seppia carota

fondo bruno di seppia lasciando tostare asciugati.

Aggiungere acqua, carota, sedano e cipol-

la e lasciar ridurre per un’oretta. Filtrare e ridurre il liquido finché non si concentra.

Mettere in frigorifero. Utilizzare parte del fondo freddo al posto di un tuorlo d’uovo

per fare una maionese di seppia, con olio di semi, sale e succo di limone.

sedano

PRESENTAZIONE

g. 200 di olio di semi di arachide

in due il panino, mettendo l’emulsione in

cipolla

succo di mezzo limone sale

Comporre il fishburger di seppia tagliando entrambe le metà e adagiandovi la seppia in mezzo.

PREPARAZIONE

Per il panino: impastare tutti gli ingredienti, lasciarli lievitare finché non raddoppiano per circa due ore; formare i panini

prillandoli delicatamente, lievitare. Cuoce-

re per 14 minuti nel forno a vapore, poi a 180°C per 2 minuti. Abbattere di temperatura. Da congelati, friggerli in olio caldo. Per il fishburger: pulire la seppia, separare tutti i ritagli e metterli da parte per il fondo di seppia. Tritare la carne con alcuni cubetti di ghiaccio in un frullatore

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leggera e amarognola polvere di olive taggiasche. Infine il rombo appena scottato in padella, morbido e delicato, completa il tutto. La mineralità del piatto è spiazzante. Segue una rana pescatrice anch’essa elaborata in due passaggi: infatti prima viene marinata con la tecnica Gravlax, per concentrarne i sapori, per poi essere dorata in una perfetta tempura classica con le uova. La parte più emozionale del piatto è che con questa rana devi fare scarpetta in un caleidoscopio di 7 emulsioni e 3 creme vegetali di diversi colori: una sorta di pennello con cui mescolare una tavolozza di sapori che vanno a riempire completamente la bocca. All’acidità ci pensa la verza viola fermentata più di un mese e poi essiccata e frullata. Arriva poi il piatto tridimensionale: petto d’anatra servito su un foglio di pellicola teso su un piatto fondo vuoto, ma pieno di fumo. L’anatra è appena scottata e laccata con caramello all’aceto di lamponi. La accompagnano, sempre sospesi sul piatto, mele in osmosi con succo di lamponi e una maionese fatta con fondo bruno di ossa di anatra. Prima di iniziare occorre fare un piccolo foro sulla pellicola e poi utilizzare solo il cucchiaio per mangiare, in modo da esercitare sulla superficie (senza

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romperla) quel perfetto pompaggio che consente al sentore di affumicato di emergere e avvolgere ogni singolo pezzo. Oltre all’elemento del gioco e della stimolazione dei sensi, nel piatto ritornano due caratteristiche di Marchini: il rispetto del tempo e l’uso in cucina di tutto ciò che è edibile, compreso quello che comunemente viene chiamato scarto. Come dimostra il risotto con fondo bruno di carne e maionese al cren: vialone nano cotto prima in brodo vegetale (no cipolla, no vino, no burro) e poi con fondo bruno di tutti i volatili di cortile. Il cren insieme alla scorza di arancia candita puliscono la bocca. Il consiglio dello chef è di non mescolare: in questo modo ogni tanto arriva l’abbinamento, ogni tanto arriva la purezza. Poesia. Tra i 5 pilastri avevamo citato la creatività, che si manifesta nel suo splendore nel dessert, sempre che così lo si voglia chiamare. Una fetta di mortadella che ricopre qualcosa: di nuovo Marchini gioca ingannando la nostra vista. Si tratta infatti di un sottile strato di gelatina di fragole (e panna per la parte bianca) coppata a mo’ di fetta e adagiata su pezzetti di pane tostato con burro e zucchero, succo di ribes e un sorbetto di vino passito. Un piatto che arriva al cuore e alla pancia, che ci riporta un po’ all’infanzia e stimola la mente. “Il gusto è in parte dovuto agli ingredienti e in parte all’abilità dello chef. Quest’ultima può essere portata agli estremi. Ciò che il gourmet adora di più è vedere arrivare in tavola un’anatra laccata, inebriante e pregna di quello che deve essere il bouquet aromatico dei succhi della carne, solo per scoprire che l’ “anatra” è composta esclusivamente di verdura. Il cuoco di alto livello cerca di compiacere la mente tanto quanto l’appetito”. Così inizia uno dei capitoli de “L’Ultimo chef cinese” di Nicole Mones e credo non ci sia miglior chiosa per concludere questo viaggio esperienziale, alla corte dell’Erba del Re.


LucaMarchini

LA QUAGLIA E IL SUO UOVO INGREDIENTI

la salsa di soia, zest di limone e arancia.

patate viola, daikon e patata. Per quanto

ne, 1 arancia, 4 mele golden, g. 150 di

ridurlo, scolarlo, rimetterlo suo fuoco e

24 ore con la purea di lamponi. Per la pa-

2 quaglie, ml. 500 di salsa di soia, 1 limoaceto di vino bianco, g. 120 di zucchero,

g. 100 di acqua, g. 400 di patata, g. 25 di

panna, g. 30 di burro, g. 100 di latte, fino-

chietto q.b., ml. 200 di succo arancia, g. 50 di burro, 1 zucchina, 1 daikon, g. 50 di salsa lampone, 1 patata dolce, 1 patata viola, 1 patata, 1 bustina di zafferano in polvere.

Per fare l’uovo: 5 tuorli, g. 20 di aceto di mele, sale q.b., olio q.b., pepe q.b., g. 100 di burro di cacao, g. 100 di cioccolato salato. PROCEDIMENTO

Disossare le quaglie, metterere a marinare per 30 minuti il petto e le cosce con

Con le ossa delle quaglie fare il fondo,

farlo ridurre finché non si ottiene ml. 500

di fondo, aggiungerci il succo di arancia e

farlo ridurre per altri 5 minuti, dopodiché addensarlo con burro freddo.

A parte fare la purea di mele; sbucciarle e farle cuocere in acqua, aceto di vino bian-

co e zucchero. Una volta cotte, scolarle e

riguarda il daikon, lasciarlo marinare per

tata, cuocerla in una piccola quantità d’acqua con zafferano e poi metterla in acqua

e ghiaccio. E infine per le zucchine, patata dolce e patata viola, sbollentarle in acqua

salata e metterle in acqua e ghiaccio, quindi asciugarle.

frullarle con un mixer a immersione.

Per l’uovo: cuocere sottovuoto a bassa

per fare il purè; una volta pronte, sbucciar-

volta pronto, versarlo in un contenitore,

Nel frattempo mettere a cuocere le patate

le e schiacciarle, aggiungerci panna, burro, latte, finochietto e sale e finire il purè.

Dopodiché fare dei piccoli cerchi con le verdure, ovvero, zucchina, patata dolce,

temperatura (66°C) per 40 minuti. Una aggiungervi aceto di mele, olio, sale e pe-

pe e usare il mixer. Mettere il tuorlo nello stampo dell’uovo e poi passarlo nel cioccolato bianco e burro di cacao.

L’ERBA DEL RE

Via Castelmaraldo, 45 - 41121 Modena - Tel. 059 218188 - www.lerbadelre.it - ristorante@lerbadelre.it

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UN’ESPERIENZA GASTRONOMICA

NEL DESERTO IN SUDAMERICA LA CUCINA ESTREMA DI JUAN PABLO MARDONES di

Flavia Tomaello

No, non è un miraggio. In mezzo al nulla c’è davvero qualcosa. E quel “qualcosa” può diventare qualcosa di grande. Il ristorante Awasi, nell’estremo nord del Cile, è riuscito a salvare prodotti che non si utilizzano normalmente in gastronomia e a creare un’esperienza “desertica” ad Atacama. In questo luogo ha imparato a identificarsi con l’ambiente circostante affezionandosi ai prodotti locali e sviluppando menu incentrati sulla cucina tipica del deserto. Undicimila anni fa Atacama era già abitata da gruppi di cacciatori-raccoglitori. Le culture Tiahuanaco e Inca, e successivamente i conquistadores spagnoli, hanno avuto una grande influenza sulla cultura di Atacama che si è vista obbligata ad adattarsi ai cambiamenti per poter sopravvivere. Attualmente la popolazione è costituita dai discendenti dei primi abitanti della regione (gli atacameños) e dai discendenti dei coloni europei, nonostante ci sia anche una forte influenza cilena e quechua. Qui la natura crea un panorama unico e coinvolgente. Si sente ripetere che nel deserto non cresce nulla. Questa affermazione è vera fino a quando non si conosce Juan Pablo Mardones, lo chef responsabile del progetto più magico di Atacama, l’Awasi. Un progetto di lusso consapevole, con un’idea molto chiara su come interpretare il concetto stesso che non è ostentazione, ma valorizzazione dell’esistente: Awasi Atacama si trova oltre un vecchio muro di adobe, tanto che si potrebbe facilmente passarvi accanto senza rendersi conto che proprio lì dentro si trova una piccola capanna di charme aderente a Relais & Chateaux e aree comuni per poter ammirare i cieli più tersi del mondo.

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DA SANTIAGO AL DESERTO Juan Pablo si è avvicinato al mondo della cucina durante un viaggio negli Stati Uniti. “Lì, ho alcuni zii che si dedicano alla gastronomia - racconta -. Avevo 18 anni e non avevo piani per il futuro”. Quel viaggio è stato per lui come un’ispirazione. I suoi genitori, al ritorno, lo hanno spinto a continuare gli studi. Si è quindi iscritto all’Istituto “Culinary” di Santiago che ha frequentato per tre anni. Ha poi lavorato per un paio d’anni presso l’hotel Santiago Marriott, dove ha formato la propria tecnica ed etica professionale. “Eravamo una gran squadra – ricorda – ed è stato un periodo di duro lavoro, che allo stesso tempo mi ha arricchito molto”. Poi però è arrivata la crisi: al termine della sua esperienza nell’hotel si sentiva come scoraggiato, tuttavia ha però frequentato alcune lezioni di docenti collegati al mondo della cucina e da qui è tornato ad innamorarsene. A quel tempo aveva ormai maturato la decisione di andarsene da Santiago e proprio uno dei suoi docenti ha dato fuoco alla miccia invitandolo a recarsi ad Awasi. “Non ho dubitato un secondo. Ho accettato e me ne sono andato nel deserto”

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ci assicura. Curiosamente, l’esperienza che lo avrebbe portato verso il nulla, lo ha però circondato di tutto. “E’ che uno non vede le coltivazioni - dice parlando delle produzioni locali - ma in effetti qui crescono cose. E queste cose possono creare un piatto interessante”. I commensali infatti si stupiscono di come, partendo dalla semplicità, si possa arrivare a sapori così complessi. “La nostra idea è quella di portare il deserto nella tavola dei nostri viaggiatori. La nostra gastronomia va a braccetto con l’abiente circostante”. Mardones non aveva alle spalle alcun precedente nella zona. Aveva tuttavia dimestichezza con i prodotti di montagna come la patata, le fave, il mais e, assicura: “ero davvero entusiasta della sfida”. Ha lavorato molto duramente nello scavare a fondo le tradizioni culinarie presenti nella regione fin dai tempi antichi. “Cerco di mantenere vive tecniche di semina e coltivazione di molti anni fa e ciò comporta il fatto che la stagionalità di molti prodotti sia molto marcata -spiega-. La popolazione Lickan Antay si è affidata al cielo per la semina e anche per il raccolto, però oggi restano solo alcune famiglie in località diverse che mantengono questa tradizione, che quindi non è fcile da perpetuare”. Nella cucina dell’Awasi si cerca di spingere su preparazioni semplici in modo da ricreare il vero sapore di ciò che si vuole presentare. “Se l’ingrediente viene rispettato dal raccolto fino alla sua presentazione finale, allora si vince in identità”, spiega. Il carattere dell’esperienza gastronomica di Awasi consiste nell’usare la maggior quantità di prodotti locali e portarli in una cucina robusta, con l’anima. “Cucinare è un atto d’amore, di affetto, perciò mi sembra importante sottolineare ogni ingrediente locale che questa società così competitiva sta invece poco a poco dimenticando”.

TORTELLINI DI HUMITA AJÌ DI GALLINA INGREDIENTI per 10 persone

Per il ripieno: far sudare la cipolla taglia-

5 uova, 5 tuorli, un poco di olio d’oliva, un

Aggiungere il mais, il latte, il basilico, il

Per la pasta: g. 500 di farina di frumento poco di aceto bianco.

Per la crema di humita: g. 200 di cipolla tagliata a brunoise, kg. 1 di mais in grani,

g. 500 di latte intero, olio d’oliva, basilico

a piacere, g. 100 di burro, sale e zucchero q.b.

Per la salsa di ají giallo: 10 peperoncini gialli, g. 100 di cipolla tagliata a brunoise,

2 denti d’aglio tagliati a brunoise, olio d’oliva.

Per l’ají di gallina: 1 petto di pollo con l’osso, olio d’oliva, g. 300 di cipolla tagliata a brunoise, 4 denti d’aglio tagliati a

brunoise, 7 fette di pan carrè bianco senza

bordi, 1 vasetto di latte evaporato, brodo della cottura del pollo, salsa di peperoncino giallo a piacere. PREPARAZIONE

Realizzare una pasta omogenea mescolando gli ingredienti in una ciotola fino

ad unirli tutti e ottenere un composto uniforme. Riporre in una borsa di plastica e

lasciar riposare per almeno 2 ore a temperatura ambiente.

ta a brunoise fino a che diventi tenera.

sale e lo zucchero a piacere. Cuocere per

almeno 30 minuti a fuoco medio. Proces-

sare il preparato con il frullatore e filtrare

con un colino a maglie fine. Versare la

miscela in una pentola e cuocere fino ad ottenere spessore (dovrebbe ottenere la consistenza di un purè soffice), una volta

tolta dal fuoco aggiungere il burro tagliato

a cubetti e un po’ di basilico tagliato a chiffonade. Amalgamare il tutto velocemente.

Lasciar raffreddare in una sac a poche per poi riempire i tortellini.

Per i tortellini: stirare la pasta ben fina

(1/2 mm di spessore) e lasciar riposare le

sfogliate di pasta per almeno 10 minuti (così che al momento di tagliare non si

riducano). Tagliare con il tagliapasta delle

circonferenze di cm. 10 di diametro. Con un pennello passare dell’acqua sul bor-

do inferiore dell’impasto, aggiungere il

ripieno al centro e chiudere piegando la circonfernza verso l’alto, togliendo tutta l’aria e attaccando bene le due estremità

della pasta per dare la forma del tortellino, lascia rirposare.

Cuocere in acqua bollente (con sale grosso), senza farli bollire troppo altrimenti la pasta di può rompere.


TravelFood

L’ADATTAMENTO ALL’ORTO DEL DESERTO

“Lavorare nella ricerca degli ingredienti autoctoni è stato un processo lungo e laborioso” - dice lo chef -. “Come per la maggioranza delle sperimentazioni, mi sono basato sullo studio e sugli errori. Provi un’erba prima nei piatti salati, poi in quelli dolci, nei cocktails, ecc., e alla fine magari riesci a trovare dove sta davvero bene”. Quando l’aereo sorvola il deserto e si ammira il paesaggio sottostante, il niente è unico e sorprendente. Questo è il luogo scelto per posizionare uno dei telescopi del progetto ALMA che ha fotografato per la prima volta un buco nero; è dove si è insediata la miniera di rame più grande del pianeta, Chuquicamata; è uno dei tre luoghi dove si conservano in vita gli stromatoliti, gli organismi che hanno dato origine alla vita nel pianeta... Qui, in mezzo a geysers, canyon, pozzi e vulcani si arriva a piccole oasi dove la popolazione di Atacama riesce a coltivare patate, fave, mais, prezzemolo, ecc. Niente è facile e il clima è difficile per la semina. “Qui stanno anche i prodotti che crescono naturalmente nell’altopiano e nelle oasi (Ayllus) – racconta lo chef. Grazie a raccoglitori amici riusciamo a ottenere il frutto del chañar con cui facciamo sciroppi e polveri che poi ci servono per salse, gelati, purè, ecc. La rica-rica, un’erba officinale, è molto aromatica ed è perfetta per il pisco sour, inoltre sta bene nella salsa di funghi; l’ayrampo si usa come colorante naturale ed è il seme del cactus. La muña-muña è un’erba mentolata che si combina molto bene con il limone. Il suico che dà un fiore molto bello con note di maracuyá è ideale per il pesce fresco. Poi c’è il cacao della Bolivia dal potente gusto amaro, il cachiyuyo con la sua salatura naturale, la foglia di coca, ecc.”. Nel menu si mantengono le caratteristiche specifiche dei prodotti e delle preparazioni che riportano tutto alla stagionalità. “Cambiamo ogni volta che ne sentiamo la necessità; - assicura – a volte un piatto dura per soli due servizi perchè non ci convince e altre volte usiamo per un anno la stessa ricetta. La nostra forza sta nella personalizzazione; quello che ci interessa

come ristorante è adattarci quotidianamente alle preferenze e alle richieste dei nostri ospiti. Ad esempio, in un servizio normale è facile avere 3 o 4 menu diversi: quello senza carne, senza glutine o se qualcuno richiede qualcosa di tradizionale come empanadas, ecc. … e questo succede tutti i giorni, per questo ci rinnoviamo continuamente”. Per Mardones non è possibile visitare Atacama senza fare l’esperienza dei tortellini di humita con ají di gallina. “Secondo me questo piatto è sensazionale e ci rappresenta molto. Ho imparato a fare questa crema di mais o di humita grazie a uno zio in casa, preparando il lavoro per la scuola. Adoro la pasta, in tutti i sensi, è una delle mie ricette preferite quando devo cucinare perchè bisogna dedicare del tempo per farla bene, cosicché, ogni volta che ci capita, mettiamo della buona musica e avanti per due ore di lavoro senza fretta, per farla uscire buona buona... l’ají di gallina deve risultare una delle cose più sfiziose da mangiare. Ma, al di là di tutto questo rituale, l’importante è il tema culturale: l’unione di tre dei Paesi dove mangerai meglio in Sudamerica: l’humita e ciò che significa per i cileni, l’ají di gallina che rappresenta il grande Perú e la pasta così fortemente radicata nel cuore dell’Argentina, con la sua influenza italiana”. Quella di Atacama è una cucina onesta e per questo fa bene a tutti. “Abbiamo piatti un po’ più estremi di altri, – continua - ma cercheremo sempre di avvicinarci al gusto di ogni ospite”. Sapore, sentimento, ricerca del prodotto, esperienza, tecnica, vita... Questo è quanto si vive nell’Awasi. Perchè, anche se in mezzo al deserto, non si può condividere il tavolo con la gente che non si ama. AWASI ATACAMA

Tocopillo 4 • San Pedro de Atacama Región de Antofagasta • Cile www.awasiatacama.com

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40 anni di collaborazione con chef e ristoratori 40 anni dedicati alla valorizzazione della pasta fresca 40 anni di successi del grande Made in Italy brand dedicati a diversi target e ad alto contenuto di servizio

Qui le ricette di Luigi Sartini, Karl Baumgartner, Marco Cavvallucci, Dario Picchiotti, Gino Angelini, Giuseppe Aversa


Fossatelli del Rubicone

con cardi, animelle e sangiovese riserva INGREDIENTI per 4 persone

20 Fossatelli del Rubicone Divine Creazioni Surgital g. 150 di cardi bolliti tenuti in acqua e ghiaccio g. 200 di animelle bollite l. 1 di sangiovese riserva 2 scalogni g. 200 di fondo di vitello 1 ciuffo di cerfoglio g. 150 di burro sale, pepe q.b. PREPARAZIONE Rosolare con una noce di burro i due scalogni tagliati a julienne; versare

il sangiovese e far ridurre per metĂ , quindi aggiungere il fondo di vitello. Portare la salsa alla giusta consistenza, salare, pepare e montarla con burro a fiocchi. A parte tagliare i cardi a rombi e le animelle a cubi. In un saltiere, con una noce di burro, saltare i cardi; salare e pepare. Cuocere i Fossatelli in acqua salata bollente, quindi aggiungerla nel saltiere per insaporirla insieme ai cardi. Disporre la pasta sui piatti; sistemare i cubi di animelle ripassate nel burro e condire con la salsa al vino rosso a filo, guarnendo con foglioline di cerfoglio.

lamĂ dia

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LUIGI SARTINI

Ristorante Righi - San Marino

GRANDI INTERPRETI

Divine Creazioni PER

2010


Quadrelli con Chianina e cardoncelli nel bosco

INGREDIENTI per 4 persone

20 Quadrelli con Chianina e Cardoncelli Divine Creazioni Surgital funghi porcini funghi galletti prezzemolo 1 noce di burro erbe aromatiche olio extravergine d’oliva q.b. sale q.b.

PREPARAZIONE Saltare i funghi porcini e i galletti in olio extravergine d’oliva con uno spicchio d’aglio, un trito di lardo, timo, prezzemolo e una noce di burro. Cuocere i Quadrelli con chianina e cardoncelli in un brodo di gallina e funghi. Scolarli e saltarli insieme ai funghi precedentemente cotti, legando il tutto con un fondo chiaro di gallina. Insaporire con un pesto di erbe aromatiche appena sbollentate e trattate in Pacojet: melissa, menta, basilico e prezzemolo con aggiunta di pinoli, pecorino e olio extravergine d’oliva. Impiattare e spolverare con paprika dolce.

KARL BAUMGARTNER

Ristorante Schöneck - Falzes (BZ)

GRANDI INTERPRETI

Divine Creazioni PER

2010

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Scrigni con burrata di Puglia

su carpaccio di scampi e crema di piselli INGREDIENTI per 4 persone

16 Scrigni con Burrata di Puglia Divine Creazioni Surgital ˷ 20 scampi ˷ g. 500 di piselli sgusciati ˷ 1 patata ˷ limone ˷ 1 scalogno ˷ 1 rametto di cerfoglio ˷ 1 rametto di finocchio selvatico ˷

PREPARAZIONE Prendere gli scampi, estrarne la polpa, condirla con limone, sale, pepe e olio, quindi metterla in una busta di plastica e batterla fino ad ottenere uno spessore di circa 3 millimetri, cercan-

do di darle una forma quadrata; far raffreddare in frigorifero. Preparare una crema di piselli facendo appassire uno scalogno tritato con un filo d’olio, aggiungendo una patata tagliata a tocchetti e i piselli sgranati. Unire il brodo ottenuto coi carapaci degli scampi utilizzati e cuocere per circa 20 minuti, fino a che la crema non si sarà addensata. Regolare di sale e pepe e passare al setaccio. Disporre al centro del piatto il carpaccio di scampi e disporvi sopra gli Scrigni con Burrata di Puglia precedentemente cotti in acqua bollente salata. Creare una cornice attorno al carpaccio di scampi con la crema di piselli e guarnire al centro con foglie di cerfoglio e finocchio selvatico.

MARCO CAVALLUCCI

Freelance Già Ristorante La Frasca

GRANDI INTERPRETI

Divine Creazioni PER

2015


I Caciopepe

con crudo di pesce INGREDIENTI per 4 persone

16 Caciopepe Divine Creazioni Surgital 16 Caciopepe ˷ 4 scampi ˷ 4 calamari ˷ 4 gamberi rossi ˷ 4 cubi di pesce bianco ˷ 1 tubetto di Wasabi ˷ erbe fresche di stagione ˷ soya q.b.

PREPARAZIONE Friggere i Caciopepe in abbondante olio extravergine d’oliva. Asciugarli accuratamente e adagiarli su un piatto grande, un po’ distanziati tra loro. Disporre accanto ad ogni Caciopepe il pesce crudo precedentemente pulito, abbattuto e passato nella salsa di soya. Per finire, schizzare il piatto con la crema di wasabi ottenuta stemperando la pasta del tubetto con acqua. Decorare con erbe fresche a piacere.

DARIO PICCHIOTTI

Antica Trattoria Sacerno Sacerno (BO)

GRANDI INTERPRETI

Divine Creazioni PER

2015

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Tortellini alla moda di Bologna

con crema di piselli e prosciutto croccante INGREDIENTI per 4 persone

g. 300 di Tortellini alla moda di Bologna g. 200 di piselli freschi 2 scalogni g. 40 di parmigiano reggiano 4 fette di prosciutto crudo di Parma 1 tazza di brodo vegetale olio extravergine d’oliva q.b. sale e pepe q.b. 1 foglio di carta da forno g. 20 di burro PREPARAZIONE Preparare un soffritto con lo scalogno tritato e appassito in olio extravergine d’oliva; aggiungere i piselli insaporiti con sale e pepe, versare il brodo vegetale; fare cuocere per 10/15 minuti.

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Passare il tutto al mixer con aggiunta di un filo di olio extravergine d’oliva. Nel frattempo porre le quattro fette di prosciutto in una teglia ricoperta con un foglio di carta da forno; con un altro foglio di carta da forno ricoprire il prosciutto. Inserire la teglia in forno preriscaldato a 70°C per una ventina di minuti. In un souté fare scaldare il burro. In una pentola con acqua salata bollente cuocere i tortellini, scolarli e versarli nel souté contenente il burro già sciolto; amalgamare con il parmigiano reggiano grattugiato. In quattro fondine capienti dividere la crema di piselli, versare i tortellini, infine guarnire con il prosciutto precedentemente asciugato nel forno.

GINO ANGELINI

Osteria Angelini - Los Angeles

GRANDI INTERPRETI

Divine Creazioni PER

2010


Intrighi

ai ricci di mare e crudo di pomodoro con pesto di prezzemolo selvatico INGREDIENTI per 4 persone

g. 250 di Intrighi Divine Creazioni Surgital 12 ricci di mare ml. 100 di olio extravergine d’oliva 1 aglio 1 limone prezzemolo selvatico q.b. PREPARAZIONE Aprire i ricci di mare e, aiutandosi con un cucchiaino, estrarne la polpa. Metterla in un tegame aggiungendo olio extravergine d’oliva con uno spicchio d’aglio tagliato a metà, prezzemolo tagliato al momento e 10 gocce di limone. Dopo averli lessati in acqua bollente salata, scolare gli Intrighi e mantecarli, una volta raffreddati, con tutto l’insieme, aglio escluso.

Per il crudo di pomodoro con cui condire gli Intrighi ai ricci: prendere 4 pomodori tondi rossi e inciderli a croce. Immergerli in acqua bollente per pochi secondi, privarli dei semi e delle buccia, porre le falde in un bicchiere da frullatore e aggiungere sale, pepe, olio, tabasco e worcestershire. Con la salsa ottenuta condire gli Intrighi già insaporiti nei ricci. Per il pesto di prezzemolo selvatico: mettere in un bicchiere da mixer olio, prezzemolo selvatico, aglio, noci e pinoli in parti uguali e frullare il tutto. Decorare il piatto con il pesto ottenuto, che servirà a rafforzare il sapore degli Intrighi.

GIUSEPPE AVERSA

Ristorante Il Buco - Sorrento (NA)

GRANDI INTERPRETI

Divine Creazioni PER

2010

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Vinaria

a cura di Angelo Gaja Wine Maker • Wine Philosopher

FINANZIARE

LA RICERCA

NECESSARIA PER IL COMPARTO ENOLOGICO di

Angelo Gaja

La Comunità Europea sostiene l’agricoltura con lauta elargizione di denaro pubblico. Ne gode anche il settore vinicolo italiano. Del vino si celebrano i successi per la propensione all’export, la funzione di traino dell’agroalimentare e l’immagine di prestigio che dona al nostro Paese. Oltre un centinaio di milioni di euro all’anno di contributi provenienti dalla Comunità Europea vengono destinati ad azioni di promozione del vino italiano sui mercati extra-europei. E’ stato possibile beneficiarne per 12 anni. È certo che, almeno agli inizi, il contributo pubblico sia servito per spronare le cantine che seppero beneficiarne ad avviare sui mercati esteri azioni di marketing più coraggiose. Attualmente ne beneficiano cantine che hanno nel frattempo acquisito consapevolezza di quanto sia indispensabile operare sui mercati esteri per realizzare obiettivi di crescita e mettere in sicurezza i fatturati aziendali. La larga maggioranza delle cantine beneficiarie, avrebbero possibilità ormai di attingere a mezzi propri, rinunciando almeno in parte al sostegno pubblico. Si tratta allora di vedere come potrebbe essere investita parte del finanziamento pubblico, distraendola dalla ripetitiva azione di stimolo all’export a beneficio di tutti gli operatori del settore vinicolo. Proporrei di destinarla alla ricerca. Giusto per fare un esempio, orientandola alla produzione di: • Portainnesti e varietà capaci di fronteggiare gli stress climatici • Varietà atte a produrre vini DOP ed IGP che possano essere coltivate con zero-bassissimo impiego di fitofarmaci • Sistemi di lotta biologica (attraverso l’impiego di parassitanti dei patogeni) • Metodi di contrasto all’eccessivo accumulo di zucchero nell’uva • Individuazione di lieviti dal minore potere alcoligeno • Metodi “puliti” di contrasto dei batteri inquinanti che possono alterare la qualità organolettica del vino • eccetera In presenza delle problematiche causate dal cambiamento climatico la ricerca scientifica costituisce la risorsa alla quale attingere per ottenere soluzioni di contrasto praticabili e compatibili. La ricerca deve essere sostenuta, non va temuta. I risultati che sarà in grado di fornire dovranno essere disponibili per tutti, alle stesse condizioni. Ai produttori, che non intenderanno attingervi, resteranno maggiori possibilità di differenziazione dei propri vini.

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ViagginelVino

VIAGGI NEL

VINO UN LUNGO VIAGGIO INTROSPETTIVO NELL’ESSENZA DEL VINO...

Alessandro

Rossi

Intenditore di vino, cucina e un bon vivant. Wine Manager, ideatore del premio “Dire Fare Sognare” e del format audio “Deep Red Stories”, cerca nuove forme di comunicazione e filosofie per facilitare l’approccio al mondo del vino.

Alessandra

Marco

Luca

Giornalista e scrittrice veronese, degustatrice professionista. E’ co-curatrice della Guida Oro I Vini di Veronelli e autrice per la guida I Ristoranti d’Italia de L’Espresso.

Scrive da anni di cibo, vino, distillati e sigari - è il primo Habanos Sommelier Italiano - sulla migliore stampa italiana.

È un talento, di quelli giovani nati con il pedigree e con una passione smisurata per il vino, diplomatosi all’Istituto Superiore Professionale per i servizi alberghieri e della ristorazione di Chianciano Terme.

Vania

Riccardo

Costantino Antonio

Master Sommelier ALMA e Degustatrice Ufficiale AIS, è coautrice della Guida Italiana dedicata agli Champagne “Grandi Champagne”, nonché redattrice del sito “Lemiebollicine”.

Si forma accademicamente all’Università IULM specializzandosi in Psicologia dei Consumi e Food & Wine Communication. Dedica buona parte della sua vita alla formazione nel settore F&B.

Figlio di ristoratori gardesani, inizia la carriera come sommelier, poi critico e comunicatore nel mondo vino. Oggi consulente enologico di aziende in Italia, Spagna e Francia.

Piubello

Valentini

Tonelli

Stebini

Furzi

Gabardi

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ViagginelVino

IL SILENZIO

DEL RUMORE L’AVANGUARDISMO TOTALE DEL VINO: AUDACIA E ANTICIPO di

Alessandro Rossi

Ardengo Soffici, Popone e fiasco di vino, ca 1914.

L’avanguardismo, sviluppatisi nel Novecento ma derivante da tendenze politico-culturali ottocentesche - racconta la Treccani - è l’atteggiamento ideologico ed espressivo nei movimenti d’avanguardia, ovvero fenomeni del comportamento o dell’opinione intellettuale innovativi, in anticipo sui gusti e sulle conoscenze. Insomma un movimento culturale, soprattutto artistico-letteraria, atto all’anticipo dei tempi. Audacia e anticipo ovvero quello che serve al mondo del vino; un nuovo verbo e una nuova traduzione del gusto del consumatore. Il suffisso “totale”, invece, fu coniato all’inizio degli anni ‘70 per il mondo del calcio. Calcio totale è l’espressione con cui si definisce quello stile di gioco per cui ogni calciatore che si sposta dalla propria posizione è immediatamente sostituito da un compagno, permettendo così alla squadra di mantenere inalterata la propria disposizione tattica. L’interprete principale fu quel Johan Cruyff tanto famoso alle platee calcistiche che rivoluzionò il calcio moderno diventando la personificazione del “calciatore totale”. Suona particolarmente strano applicare un concetto come questo al vino

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ViagginelVino

perché audacia e anticipo non sono così di moda, anzi. Contenere l’audacia (a meno che non si parli di vini naturali) e azzardare anticipi nel gusto (più semplice nel dizionario culinario) per il mondo del vino non è così facile e scontato. Ci siamo stufati di un dizionario a volte troppo quadrato ma fatichiamo a costruirne un altro più visionario e moderno. Le nuove leve non si identificano più nel vecchio verbo e sono alla ricerca di un’altra forma di espressione più moderna e al passo con i tempi. Fatichiamo a calarci in un nuovo modo di comunicare ancorato meno alla soggettività e più all’oggettività; siamo figli di una scuola spesso vecchia non in grado di preparare a modo le nuove generazioni. Cambiano i dizionari e le enciclopedie figuriamoci se non può mutare il linguaggio del vino. La vera abilità del degustatore risiede non solo nella capacità di percepire odori, sapori e struttura di un vino, ma nel saper tradurre tutte queste sensazioni in un linguaggio universale. E’ giusto coniare un modo di esprimersi che abbia per tutti lo stesso significato perché la sensazione provata dopo un assaggio è istintiva e non immediata. Tradurre una percezione è affare non semplice, la scelta dei termini e la codifica di un lessico professionale è ancora più complicata soprattutto in fase di avvicinamento alla materia.

Qui sopra, etichette realizzate dall’artista Fortunato De Pero, esponente del movimento futurista, realizzate intorno agli anni ‘20. A sinistra, un’altra opera dello stesso artista: Anacapri (Riesumazioni alpine), 1920.

Più oggettività, senza sostituirsi all’enologo appropriandosi di termini troppo tecnici o di analisi, ma meno barocchi figli della vecchia scuola. Ancora più complicato quando si parla del futuro punto di bevuto, cercando di anticipare i tempi per essere visionari e precursori. Cambia lo stile cambia il palato, cambia la gastronomia e cambiano le abitudini, ma questa è un’altra storia ancora. Cerchiamo ancora una volta di rendere il vino “totale”, questa volta inteso come un bene prezioso per tutti e non solo per alcuni. Rendiamolo più semplice ed immediato perché - non scordiamoci mai - che un grande vino è grande quando la bottiglia finisce e magari ne ricompriamo un’altra.

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eno ità a cura di

Marco Tonelli

TUA RITA LODANO 2018 Lodano anche nel senso che in tanti apprezzano le doti di questo vino bianco, prodotto in una zona di rossi, e che rossi, come Suvereto. La volontà di fare un grande bianco qui è di Rita, la stessa a cui è dedicata l’azienda che produce questa etichetta, frutto di un mix di uve (Chardonnay, Traminer e Riesling). Naso potente ma non stordente, il Traminer fa il suo ma senza esagerare. La bocca sa reggere l’urto con preparazioni saporite, merito anche di una speziatura che arriva da un affinamento in legno, avvertibile ma senza quegli eccessi di ‘falegnameria’ che spesso ingolfa i vini bianchi, giovani o vecchi che siano. Prodotto da Tua Rita - www.tuarita.it

COL SANDAGO VIGNA DEL CUC Di Prosecco ce ne è tanto, ma mica è tutto uguale. In questo, prodotto da Col Sadago, abbiamo innanzitutto la dicitura Superiore, accoppiata alla sigla Docg. Due elementi che certificano la qualità migliore del Prosecco, in questo caso prodotto con sola uva Glera. A tutto questo infine dobbiamo aggiungere, cosa rara anche nella produzione del Prosecco Docg, l’indicazione della vigna da cui proviene il vino, in questo caso la Vigna del Cuc. Questa etichetta nasce dopo una lunga rifermentazione in autoclave, ben 2 mesi, che gli permette di sviluppare profumi, tanti e non stucchevoli, oltre a un sapore fruttato, succoso e con una beva da sorsi a ripetizione. Prodotto da Col Sandago, www.colsandago.it

POLVANERA B La lettera B in etichetta va riferita non certo alla qualità del vino, visto che Filippo Cassano, patron di Polvanera, dà sempre vita a sorsi di serie A. In questo suo vino come in molti altri, rossi compresi, la leggerezza del sapore arriva in particolar modo dai terreni calcarei dei vigneti da cui si ricava il Minutolo, vitigno protagonista di questa bolla prodotta mediante metodo Charmat. Il Minutolo è un’uva poco conosciuta -a torto- come mostra il naso profumatamente floreale, ma mai in maniera troppo ruffiana. In bocca quest’etichetta è fruttata, agrumata, asciutta. La beva ingrana la quinta sin dal primo sorso. Prodotto da Cantine Povanera, www.cantinepolvanera.it

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COS

METODO CLASSICO

EXTRA BRUT

Tecnicamente un Blanc de Noirs, anche se qui il Pinot Nero non c’entra. Cos, azienda legatissima al proprio territorio (Vittoria), ha scelto di utilizzare per il proprio metodo classico il vitigno che meglio rappresenta casa: il Frappato. Uva dal carattere floreale e vinoso, il Frappato dona a questo metodo classico beva e sapidità. Cos ha scelto di effettuare la prima fermentazione in anfore di terracotta con lieviti indigeni, per poi lasciare che il vino rifermenti in bottiglia, rimanendo successivamente sui propri lieviti per ben 56 mesi. Tanto tempo qui equivale a tanto gusto, reso per altro ancora più ‘sincero’ dal non utilizzare zuccheri aggiunti. Prodotto da Cos, distribuito da Les Caves de Pyrene, www.lescaves.it


OPERA 02 OPERA ROSA

HARTMANN DONÀ GRANIT 2018 Da un manico dei vini dell’Alto Adige e da uno dei vitigni più interessanti provenienti dalla stessa regione, la Schiava, ecco un vino, anzi tre, che raccontano come il vitigno, alla fine sia solo un mezzo e non un fine. Hartmann Donà, già enologo di Cantine Terlano per un decennio, ha infatti deciso che il comune denominatore di questo trio di etichette fosse la Schiava, mentre le differenze dovessero derivare da altrettante altitudini, ma soprattutto dalla diversa conformazione geologica dei terreni da cui questi vini si ricavano. Nel caso del Granit la Schiava si mostra quasi luminosa, filante, sapida, in una parola: invogliante. Hartmann Donà distribuito da Vino & Design, www.vinoedesign.it

Sulle colline di Castelvetro domina quella varietà di Lambrusco chiamata Grasparossa, per quel suo ‘arrossire’ tutto, raspi compresi, nella stagione autunnale. Di solito il colore del vino è viola, con un richiamo al fiore dello stesso nome persino al gusto. L’azienda condotta da Mattia Montanari dà al vitigno un’interpretazione rosa, con il suo Opera Rosa. Bello acceso il colore, cui fa seguito una coerenza di naso e bocca, entrambi giocati su toni di lamponi, viola e mandarino. Le bolle derivano da rifermentazione in autoclave. La facilità di abbinamento, preparazioni di pesce comprese, è imbarazzante, per quanto facile.

eno ità

Prodotto da Opera 02 Cà Montanari distribuito da Balan www.balan.it

STEFANIA BARBOT ION 2016 Azienda giovane che porta il nome e cognome di una produttrice che, per ora, si dedica solo all’Aglianico in quel di Paternopoli (AV). Stefania produce due vini, uno di questi si chiama Ion. In greco viola, per quel colore e quel sapore che ritroviamo in questo vino ottenuto da piante giovani, poco meno di 15 anni, ma che beneficiano dell’altitudine e di quei terreni composti da un mix di argilla, calcare e sabbia. Questi due elementi sono decisivi nel far sì che il vino esprima immediatezza, finezza e anche un lato che potremmo definire spensierato, liberando lo Ion da cervellotici descrittori, restituendocelo, fruttato (rosso), salato, a tratti selvatico. Prodotto da Stefania Barbot, distribuito da Sagna www.sagna.it

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COLTI SUL

PIÙ... BELLO di

Cari Umani, la leggenda della pentola d’oro e dell’arcobaleno la conoscete tutti. Il protagonista è un folletto, come me figlio del piccolo popolo. Ho pensato che questa rivista fosse il luogo ideale per manifestarmi e per provare a stabilire un dialogo con voi. Eh già, perché poi piacerebbe a mia volta leggervi e qui in redazione mi faranno da fermo posta. Sono una creatura che vive i ritmi della natura, scorrazzando libera e vispa per le vigne italiane. Vivo con loro, parlo con loro. Proprio in questo periodo le state potando, un gesto per accompagnarle al vostro progetto, un atto che da Nord a Sud dello stivale, le accomuna. In questo momento ancora infreddolite dall’inverno, docilmente si lasciano modellare a nuova forma. Poi con il germogliamento si esprimeranno ognuna a modo proprio, in tempi diversi, in piena autonomia. Amo le vigne, sono le mie compagne di giochi, con le creature che vivono nel terreno insieme alle vigne (anche se non le trovo in tutti i vigneti, purtroppo, alcuni sono completamente privi di esseri viventi). La terra infatti è stata avvelenata con prodotti chimici per anni e anni. Non riesco a spiegarmi un vostro ragionamento: perché chi lavora rispettando la terra, mantenendo salubre il terreno e con esso tutti quelli che lo abitano, deve pagare per certificarsi e oltretutto spiegare al mondo perché lo

Alessandra Piubello

fa? Ma non dovrebbe essere un fatto normale? Perché invece chi inquina, chi usa prodotti chimici di sintesi, chi usa pesticidi non è obbligato a nulla, e nell’etichetta non si capisce che ci sta intossicando? Noi folletti amiamo bere il vino del vignaiolo, di quell’Umano che custodisce la vigna, aiutandola nei momenti di difficoltà con modi naturali. Il suo vino, purché non sia difettoso, ci piace perché ci stimola a pensare. Mi capita di incontrare Umani che fanno cose strane, roteano per ore un bicchiere, annusano, annusano e poi bevono un piccolo sorso. Tutto d’un tratto sputano fuori il vino e le sentenze. A guardarli ci diamo di gomito, tenendoci la pancia! Da noi il vino è elemento vitale che suscita liberi pensieri e ispirazioni insperate, che anima emozioni, che scioglie il cuore. Diventiamo poeti e siamo ancora più in sintonia con la natura. A sentire invece alcuni discorsi umani il vino si trasforma in elemento pensato e ingabbiato in uno schema rigido, vivisezionato, smagandolo così della sua intima Bellezza. A volte dalle vigne mi introduco in qualche cantina, osservo tutto, ascolto i discorsi e mi capita di andare in stanze nascoste alla vista dove ci sono scatole e sacchi: enzimi, antiossidanti, solfitanti, attivanti, tannini, miglioratori biologici, stabilizzanti, kit per dare il giusto aroma di legno (doghe, listelle, barrette, chips) dal tostato al torrefatto e ancora e ancora. Vedo delle cose,

che voi Umani non potete neppure immaginare. E poi sento dire che il vino si fa in vigna, nelle mie amate vigne? Noi folletti, ci domandiamo, scherzandoci sopra: ma useranno ancora l’uva per fare il vino? Quando ci troviamo intorno al fuoco, sul far della sera e parliamo di voi, pensiamo che molti fra voi si siano persi. Perché non prendete la strada di casa, quella che porta alla terra? Noi folletti siamo in grado di predire il futuro: non vorrete che scoppi la bolla, vero? Perché allora non ce n’è più per nessuno, neppure per il piccolo popolo. Noi siamo stanziali, ci divertiamo con le farfalle, le api, i fiori, le nostre vigne e siamo rubizzi per l’aria che ci arrossa le gote (e non solo, d’accordo) e vediamo alcuni fra voi, concitati e ansiosi, prendere aerei andare a vendere vino in altri Paesi nel mondo, tutti fieri di sproloquiare che distribuiscono di qui, di là, persino in Tibet… già, e sulle vostre tavole? E gli stranieri in Italia che si bevono? Noi folletti siamo una grande famiglia, da Nord a Sud, un’associazione segreta che si scambia tutte le informazioni. Se il piccolo popolo non trova i vini del territorio, combina sempre qualche scherzetto. Non ci si può fidare degli Umani che non fanno trovare nella loro terra il loro vino. Ora torno in vigna, scrivetemi i vostri pensieri, li leggerò sotto una quercia, illuminata da un buon calice. Un buffetto dalla folletta Morebello.

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AZIENDA AGRICOLA

GORGO

FRA TRADIZIONE ED INNOVAZIONE. IL CUSTOZA CHE AFFASCINA IL MONDO. di

Riccardo Stebini

Quando si parla di vino, in particolare di vino italiano, non bisognerebbe mai dimenticare che, nonostante spesso a dominare la scena siano i grandi produttori o i nomi più blasonati, la realtà si compone di migliaia di piccole e medie aziende che lottano quotidianamente per emergere in un mondo competitivo e spesso caotico. Per questo, parlare con Roberta Bricolo dell’Azienda Agricola Gorgo è stata una ventata di aria fresca. La cantina che rappresenta è una realtà storica (quasi cinquant’anni di vita) nel veronese, posizionata in quella parte di Veneto che guarda al Garda e a cui quest’ultimo, in un’epoca lontanissima, ha regalato le terre dove adesso crescono le viti. Le produzioni sono le eccellenza di questa zona; Custoza DOC, Bardolino DOC, Chiaretto, alcune IGT territoriali e qualche varietà internazionale reinterpretata in chiave “local”. La storia di questa azienda ci aiuta ad inquadrare una realtà abituata a prendere scelte coraggiose. I genitori di Roberta, infatti, decidono di rinunciare ad una vita di “altri mestieri” per inseguire il sogno di un azienda vinicola. Così come loro, anche

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la figlia, intraprende una brillante carriera da avvocato per poi trovarsi ad immaginare sempre più di frequente la vita da vigneron e decidere a sua volta che la cantina è la sua strada. Parafrasando un celebre proverbio, l’acino non cade mai lontano dalla vite. Da un retaggio del genere non può che emergere una passione quasi sanguigna per il vino e tutto ciò che vi è intorno, che influenza le scelte di stile ed etiche di tutta la cantina. “Il biologico non è una scelta, è l’unico modo che credo rispecchi la nostra idea di fare vino […] d’altra parte non riesco nemmeno a contare tutte le nuove idee e proposte che ci vengono continuamente di cose nuove da fare. Nessuna preclusione sull’innovazione, ma bisogna procedere step by step e aspettare i tempi giusti.” Così Roberta commenta la scelta della cantina di certificarsi biologica in toto. Una splendida apertura rispetto a tutto quello che è nuovo, ma in grado di portare ulteriore valore al proprio vino. Una splendida e perfettamente equilibrata dicotomia, fra tutto ciò che è tradizionale e legato al territorio e tutto quello che è innovazione e cambiamento. Esagerando; forse perfino rallentata da un mercato non ancora pronto per alcune proposte.

Una delle difficoltà più grandi? Portare le denominazioni sui mercati emergenti. Per questo occorrono sforzi continui ed un grande lavoro da parte dell’intera filiera e di tutto il territorio. Fortunatamente, tutte le aziende stanno provando a fare fronte comune, aiutate dalle istituzioni che promuovono il vino, per raggiungere le masse critiche e portare il livello di consapevolezza su questi vini a livelli sempre più alti. Percorso che si sta rivelando vincente su tutta la linea.

lenza come il Custoza ed il Bardolino è frutto di un lavoro capace, continuato e guidato da scelte lungimiranti. Ovviamente, ancora di vitale importanza i momenti d’incontro con gli interlocutori esteri. Complici in questo percorso le grandi organizzazioni promotrici del vino italiano all’estero, come Gambero Rosso e Slow Food, che certificano inoltre regolarmente la qualità dei prodotti dell’Azienda Agricola Gorgo con i loro riconoscimenti.

“Numeri incredibili con i rosati […] e una grossa spinta sull’estero data dalla capacità dei nostri vini di essere estremamente bevibili, ma allo stesso tempo di mostrare una grande complessità e mineralità.”

“Come in molte aziende private a conduzione familiare, è stata accantonata per diverso tempo per ragioni di prevalenza […] ma da qualche anno a questa parte abbiamo iniziato a strutturare una strategia che la vedrà sempre più curata e potenziata, anche alla luce dell’importanza che ha nel mantenere i contatti con gli interlocutori all’estero. A brevissimo altri cambiamenti.”

Che il Rosè non fosse un vino solo estivo, forse si poteva intuire dai trend, ma portare nel mondo eccel-

E la comunicazione?

Ma come si confronta una impresa così con il mondo del vino fuor dalI’Italia? “Abbiamo i nostri mercati di riferimento che sono Stati Uniti ed Europa […], ma ultimamente sono stata sorpresa dalle possibilità di apertura verso nuovi paesi (Giappone, Canada) che iniziano a guardare con interesse anche ai vini italiani con denominazioni che solo i mercati maturi solitamente approcciavano.”

© Tiziano Cristofoli

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I social saranno una delle risorse fondamentali nel breve termine e la voglia di investire in questo campo senza precludersi nulla, dimostra un apertura mentale perfettamente in linea con le idee della cantina. Gli obiettivi per il futuro sono chiari: Continuare su questa strada! Lavorare continuamente per aprire nuovi mercati e nuove possibilità. Farsi promotori in prima persona dalla conoscenza di queste denominazioni e continuare a lavorare di squadra con le altre realtà del territorio. Il quadro finale è lampante. Un’azienda decisamente fuori dal comune. Giovane. A carattere prevalentemente femminile. Capace di trasmettere al consumatore la grande passione di chi definisce le strategie. La storia da raccontare c’è. I vini anche. L’unica cosa che rimane da fare è vedere quanto lontano potrà andare questa realtà da cui, per spirito d’iniziativa e collaborazione, si dovrebbe sicuramente prendere esempio.

AZIENDA AGRICOLA GORGO

Via Gorgo, 19 - 37066 Custoza (VR) Tel. 045 516063

www.cantinagorgo.com

gorgo@cantinagorgo.com

LA DEGUSTAZIONE a cura di

Alessandro Rossi

La geologia influisce in maniera determinante sulle caratteristiche organolettiche del Bianco di Custoza. I detriti rocciosi che compongono il substrato di questa area essendo ricchi di minerali, sono fondamentale per lo stile dei vini qui prodotti ad oggi tanto in linea le richieste del consumatore finale: acidità e sapidità. Il secondo fattore che più caratterizza il terroir del Custoza, invece, è il clima. Le correnti provenienti dal lago, mitigando le temperature, creano un microclima tendenzialmente mediterraneo atipico per una zona dell’Italia settentrionale. Il clima estremamente temperato aiuta nel Bianco di Custoza a sviluppare gli aromi di frutta bianca, gialla e spesso anche sfumature agrumate. Le note fruttate tendendo in qualche modo all’aromaticità, non diventano mai aggressive o dominanti, infatti, lasciano spazio anche ai profumi più delicati floreali. CUSTOZA D.O.C. SAN MICHELIN 2018 L’annata 2018 è stata un’annata favorevole per i vini bianchi di queste zone. In degustazione emergono dal bicchiere note intense, freschissime e floreali al primo impatto; successivamente sensazioni citrine; pompelmo rosa, lime e silice seguite da arancia dolce, mela renetta e frutta secca in chiusura. La bocca è salata, il corpo è denso a bilanciamento della parte citrina che richiama il bicchiere e lo rende elegante e moderno nel suo stile. Un grandissimo esempio di rapporto qualità/prezzo, un vino estremamente centrato per il momento storico che stiamo attraversando. 92/100 CUSTOZA D.O.C. SAN MICHELIN 2017 L’impatto olfattivo a differenza dell’annata 2018 è più materico. Maggiore l’apporto di frutta a pasta bianca matura, come pesca e frutta tropicale, ma richiami anche di geranio e fiori di campo. Nonostante questo continua a seguire perfettamente la logica aziendale: vini verticali e giocati su importanti tensioni acide. La bocca è vibrante e molto lunga sul finale, dove il marchio di fabbrica anche in questo caso non si discute: sapidità. 89/100 CUSTOZA D.O.C. SAN MICHELIN 2016 L’annata 2016 ci racconta perfettamente come questa selezione possa – nonostante tutto – sfidare le curve del tempo. Al naso iniziano ad emergere note idrocarburiche e il bagaglio aromatico si espande notevolmente: pesca, arancio, papaia oltre a note agrumate, spezie dolci e delicate come il pepe rosa. La bocca è densa ma con una lunga vena acida a sostentamento della struttura. Un grande vino seppur ancora giovanissimo. 93/100

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CUSTOZA D.O.C. SAN MICHELIN 2015 Annata totalmente differente da quelle assaggiate precedentemente; un patrimonio più terziario come fiori e frutta secca, cumino, canditi oltre a spezie dolci e miele su una ottima base di frutta a pasta gialla. La bocca racconta di un vino ancora giovane. La struttura è di maggior volume se la paragoniamo alle annate che l’hanno preceduto in degustazione, ma ancora assolutamente integra e pronta a lanciare la sfida agli anni a seguire. Un finale esaltante con un perfetto mix tra acidità/densità/sapidità. 94/100 CUSTOZA SUPERIORE D.O.C. Summa 2018: Anche in questo caso - come per altro per il San Michelin - l’acciaio è l’unico interprete di questo vino. E’ una selezione proveniente dalle aree più alte e più vocate, il tutto unito al grande rispetto per il territorio. Questa annata è giocata sostanzialmente su espressioni prettamente citrine e sapide. Anche in questo caso pompelmo rosa, note lemoniche e ricordi di zenzero in lontananza determinano il bouquet olfattivo di questo vino. La bocca è assolutamente in equilibrio; materia sostanziosa che alleggerisce l’aggressione acida – dovuta anche alla gioventù – e perfetto equilibrio in chiusura. Come per il San Michelin un’autentica interpretazione del territorio. Un grande futuro. 93/100 CU STOZ A S U P E R I O R E D.O.C . SUMMA 2017 Le aree più elevate altimetricalmente hanno aiutato non poco questa vendemmia estremamente calda. Al naso la frutta gialla ne fa da padrona; miele, frutta tropicale, ma anche acacia e fiori di campo come la ca-

momilla arricchiscono il bouquet di questo vino. Ruotando il bicchiere la densità glicerica racconta perfettamente la struttura, addolcita da sfumature mielose ma sostenuta da un’ottima freschezza. La bocca è piena e succosa, materica ma elegante al tempo stesso. Un’ottima acidità fa da impalcatura ad un vino imponente con ancora anni davanti per esprimere al meglio le potenzialità. 91/100 CU STOZ A S U P E R I O R E D.O.C . SUMMA 2016 Freschissimo, elegante, immediato ma complesso al tempo stesso, ecco cosa racconta il bicchiere appena ci si butta il naso dentro. Una grande spinta acida sostiene l’impatto olfattivo. Il corredo aromatico è estremamente complesso, un up and down di frutta, fiori e spezie che regolano ad arte questo vino. Potente e vibrante, lascia spazio ad una bocca succosa e tesa che alterna note citriche a note mine-

rali. Un grande vino che unisce struttura e alterna eleganza e longevità. 94/100 CU STOZ A S U P E R I O R E D.O.C . SUMMA 2013 Metti un’annata fresca stile anni ’80 e falla evolvere in acciaio; aggiungi anni di bottiglia ed ecco il risultato: un vino diverso dalle ultime annate prodotte ma estremamente in sintonia con l’idea dei vini del tempo e che regala, ad oggi, sensazioni uniche. La frutta vira su una polpa più densa, si abbandona la pasta bianca e i ricordi viaggiano su qualcosa di più zuccherino come albicocca matura a pasta gialla, figlia di un’idea agronomica che ricorda un leggero appassimento in vigna. Note idrocarburiche, speziate a tratti, anticipano una bocca serrata e affilata come pochi vini possono lasciar presumere. Un vino non per tutti, ad oggi freschissimo, che regala una grande idea enologica. 93/100

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BY THE GLASS VINO NOBILE DI MONTEPULCIANO DOCG di

Luca Furzi

Montepulciano, un paese a cavallo tra la Val di Chiana e la Val d’Orcia, posto a 600 metri s.l.m. circa, storicamente importante già dal medioevo per la produzione di vino rosso. Nel 1980 è la prima denominazione Toscana che entra in commercio dopo aver ricevuto la DOCG. Presenta un territorio ricco di argilla dove al Sangiovese o meglio, al Prugnolo Gentile, così è l’appellativo di questa zona, riesce a trasmettere struttura e complessità ai propri vini. Secondo il disciplinare ha una base minima di almeno il 70% di Prugnolo Gentile al quale si possono affiancare le uve Canaiolo Nero, Colorino e Mammolo. Il Vino Nobile di Montepulciano viene fatto maturare, prima dell’immissione in commercio, in botti o in barrique. Le tempistiche di invecchiamento variano dai 24 mesi per il vino base e 36 per la Riserva. Gli abbinamenti si sposano perfettamente con la classica cucina toscana, dove la carne alla brace e la selvaggina sono al primo posto. Di seguito alcuni vini degustati dell’annata 2016, da molti definita un’annata da “incorniciare”.

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LA DEGUSTAZIONE VINO NOBILE DI MONTEPULCIANO 2016 BOSCARELLI Naso avvolgente e d’impatto. Possiamo trovare subito al palato una ciliegia croccante con delle belle sfumature speziate. In bocca si notano subito un’acidità e una mineralità pronunciate che lasciano spazio ai profumi già anticipati al naso. Il tannino è vivo e presente nella materia. Vino sicuramente di corpo, equilibrato, fine e abbastanza persistente. 89/100 VINO NOBILE DI MONTEPULCIANO RISERVA “ASINONE” 2016 POLIZIANO Al naso è vino ampio: apre con un ricco bouquet floreale per poi lasciare spazio a note che vanno dalla ciliegia ai frutti di bosco, dal cuoio alla pietra focaia fino ad arrivare al tabacco. In bocca è imponente ha un’elegantissima acidità sorretta in perfetto equilibrio da un tannino marcato e molto preciso. Successivamente largo spazio a note di frutta rossa ben matura e a un retrogusto vanigliato. Equilibrato, fine ed estremamente persistente. 95/100 VINO NOBILE DI MONTEPULCIANO 2016 CROCIANI Il naso apre con profumi per lo più floreali come la viola, per poi disperdersi e lasciare spazio a sentori di frutta scura, prugna e mora su tutti. Il palato è denso sorretto dall’acidità che da struttura al vino; asciutto in bocca e dal tannino delicato. Un vino fine, equilibrato e di ottima persistenza. 90/100

VINO NOBILE DI MONTEPULCIANO 2016 DE RICCI Dal primo impatto olfattivo si percepisce subito che la matrice è l’eleganza. Apre con note floreali che lasciano spazio a quelle fruttate come la ciliegia e la fragolina di bosco. In bocca è verticale, la struttura di questo vino rende il sorso progressivo grazie anche all’acidità ben marcata e al tannino preciso. Fine e Persistente, un vino che deve ancora dire la sua ma questo solo dopo aver aspettato l’affinamento in bottiglia per qualche anno. 93/100 NOBILE DI MONTEPULCIANO 2016 SALCHETO Il naso è estremamente complesso; spiccano subito eleganti note fruttate, di frutta matura come la ciliegia e la prugna, ma anche sentori speziati

come il pepe nero, il cuoio e il tabacco. Al palato è fresco grazie alla bella acidità e mineralità che insieme ad un preciso tannino danno struttura ed equilibrio al vino. Fine, di corpo e persistente. 92/100 NOBILE DI MONTEPULCIANO “VIGNA D’ALFIERO” 2016 VALDIPIATTA Ampio, un vino che prende subito spazio. Il naso varia dalla frutta rossa matura al floreale a cui seguono note terziarie. Ciliegia, cioccolato, cuoio; il tutto unito insieme da un’ottima levigatura dovuta all’evoluzione in legno. In bocca è verticale, dritto e longilineo sorretto da un’ottima acidità seguita da grande struttura e trama tannica che fa ben sperare per il futuro. Vino equilibrato, fine, di corpo ed estremamente persistente. 94/100

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MODA & TENDENZE di

Riccardo Stebini

I NUOVI ANNI ’20 DEL VINO ITALIANO: LA 4 DOMANDE A CUI RISPONDERE! Gli ultimi anni ’20, di cui ormai si può tranquillamente leggere nei libri di testo, sono stati un decennio decisamente turbolento, per quanto affascinante. Un periodo ricco di chiaroscuri ed incredibilmente denso di avvenimenti. Si sviluppa la musica jazz, viene presentato il primo film parlato della storia, Einstein vince il nobel e nasce il topo più amato e acclamato della storia. Anche il modo di approcciarsi al cibo e alla tavola cambia. Un ritrovato benessere gli infonde quel doveroso spunto verso la ricerca del piacere, che contribuisce al moltiplicarsi e al proliferare di ristoranti, trattorie, bar e luoghi di svago. Oggi è passato un secolo dagli “années folles” e gli ultimi cento anni hanno visto il vino italiano attraversare un lungo percorso fatto di cambiamenti, innovazioni, crisi e successi. Nei primi giorni di una nuova decade viene quindi spontaneo guardare al futuro. Solitamente lo si fa azzardando previsioni, che però si rivelano troppo spesso errate. Una maniera diversa è cercare di capire cosa succederà nel mondo del vino ponendosi dei quesiti. Questo permette di riflettere, guardare avanti, senza però giocare completamente ai dadi. Quindi ecco qui le 4 domande al vino italiano per il prossimo decennio!

L’ITALIA TORNERÀ A BERE? Il Bel Paese riuscirà finalmente a rialzare il proprio consumo interno di vino? Dal 2014 ad oggi si è vista una timida risalita del consumo totale e pro capite interno, ma per chi sogna e ricorda i cari e vecchi numeri della seconda metà del ‘900, il consiglio è di rassegnarsi. Il vino ha cambiato momento di consumo e questa è una verità. Da alimento fondamentale si è trasformato in un prodotto ad uso sporadico. I dati a confronto fra gli anni, su quest’ultimo indicatore mostrano un gap formi-

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dabile. É quindi possibile immaginare che questo trend cresca sempre di più, anche grazie alle nuove generazioni ormai completamente disabituate al bottiglione sulla tavola domestica. I consumi potrebbero quindi effettivamente aumentare, ma sicuramente le modalità saranno completamente diverse. Per quanto tutto ciò possa creare dei potenziali problemi ad uno degli alimenti più storici italiani, difficile non vedere l’altro lato della medaglia che offre infinite nuove possibilità nel proporsi al mercato. Sarà una grande sfida per chi lavora in questo settore. Un valido proposito? Cercare quanto più possibile di rispondere alle nuove esigenze dei consumatori che sempre più cercano l’ossimoro di una tradizionalità che strizza l’occhio all’innovazione. COME FINIRÀ LA GRANDE “SFIDA AI MILLENNIALS”? Il vino, per sua peculiarità, è un prodotto dalle tempistiche lente. La vite impiega in media quattro anni per diventare produttiva, un metodo classico può impiegare decine di mesi per affinarsi e anche in termini di innovazione, salvo qualche caso limite, il settore ha sempre impiegato delle tempistiche piuttosto importanti. La sfida nell’approcciare la generazione dei Millennials ha caratterizzato e canalizzato moltissimi degli sforzi dell’intero settore. I risultati? Probabilmente non quelli attesi. I motivi? Svariati e complessi, ma questo non cancella il fatto che nell’approcciare questa nuova audience si siano commesse alcune leggerezze. Sicuramente l’ascesa degli spirits e dei soft-drink, non ha aiutato, ma spesso e volentieri il problema può essere individuato nella diversità di pensiero e approccio fra chi pensa le strategie ed

il consumatore a cui si vuole comunicare e, di conseguenza, vendere. In definitiva la sfida è ancora aperta e, si spera, ricca di colpi di scena. La speranza è che il mondo del vino italiano riesca finalmente a trovare la chiave per il cuore dei Millennials. Nei nuovi anni ’20 quindi non solo si vedrà il proseguimento e, ci si augura, il buon esito di questa macro-strategia per rivolgersi ad un nuovo target, bisognerà considerare e prevedere l’arrivo di una nuova sfida. Infatti mentre l’intero comparto impiegava anni per perfezionare un nuovo linguaggio, gli anni sono passati ed i consumatori sono cresciuti. I nati nel 2000 hanno 20 anni! Si continui quindi a pensare ai Millennials, ma al contempo ci si prepari ad una nuova ed esaltante avventura… Arriva la Generazione Z! QUALI SONO LE PRINCIPALI MINACCE DEL PROSSIMO DECENNIO? Il cambiamento climatico sicuramente preoccupa, ma ne si parla già da anni. Sicuramente sarà necessario tenere sotto controllo le situazioni geo-politiche. Fenomeni come la Brexit o le politiche “Trumpiane”, di cui non si conoscono ancora gli esiti esatti, possono rivelarsi delle comete inaspettate dagli effetti importanti. Vi è però un’altra grande minaccia, di cui si parla solo da qualche anno. I dati però iniziano a delineare un nuovo trend che non si può non osservare. Il vino non è più in competizione solo con sè stesso e con le altre storiche categorie merceologiche pseudo-rivali. Sta nascendo, e crescendo ad una velocità spettacolare, un mondo fatto di soft-drink, bevande zuccherate e simili che a tutti gli effetti vengono associati, nella mente del consumatore, a dei validi sostitutivi.

Quale vigneron avrebbe mai pensato di doversela giocare, per il posto sulla tavola di uno stellato, con delle birre? Quale direttore marketing avrebbe pensato di dover includere fra i potenziali competitor delle bevande alla Marijuana? Chi si sarebbe aspettato che accanto ai vini, nell’apposito scaffale, sarebbero comparse bottiglie e lattine di bevande super zuccherate, coloratissime e di appeal? Se da trent’anni fa avessero potuto guardare il futuro, difficilmente avrebbero creduto ai loro occhi, ma questa adesso è realtà. Un mercato già complesso in termini di competizione globale, ha aumentato ulteriormente il suo livello di entropia con l’arrivo di un nuovo comparto di bevande che, sotto diversi aspetti, parlano la lingua dei giovani molto meglio. La speranza è che il mondo del vino, in particolare quello italiano, voglia sfoggiare tutta la sua resilienza. Accusando il colpo, senza spezzarsi e adattandosi con successo ai nuovi trend mondiali e ai desiderata di quella che sarà la nuova generazione di bevitori. COME SARÀ LA COMUNICAZIONE DEL VINO NEL PROSSIMO DECENNIO? Se si volesse trovare un filo conduttore nelle domande precedenti, sicuramente sarebbe la comunicazione. Una parte importantissima del prossimo futuro del comparto sarà sicuramente dettata dai prodotti; qualità, innovazione, sostenibilità, etc. Rimane comunque una certezza che alcune delle principali sfide saranno disputate sui terreni del marketing. In questo, generalizzando, l’Italia ha sempre giocato una partita sua. Sicura a ragion veduta delle sue eccellenza, ma discretamente indietro nell’aspetto comunicativo (soprattutto se paragonati ai cugini d’oltralpe).

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Demoralizzarsi è sempre controproducente, soprattutto alla luce del fatto che negli ultimi 2 anni si sono visti notevoli miglioramenti. Il clima che si respira fa pensare ad una nuova apertura nei confronti di ciò che è fuori dai canoni, come si addice ad un nuovo decennio. Numerosi i segnali che fanno ben sperare. Gli influencer che iniziano a spartirsi una fetta dell’informazione di settore, prima prerogativa unica dei giornalisti - Profili social curati, ben fatti, alle volte perfino engaging - Prodotti che si reinventano in nuovi contesti e perfino campagne pubblicitarie ardite. Il vecchio concetto che per vendere il vino, bisogna per forza farlo assaggiare, prova a cedere il passo. Non scom-

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pare, giustamente, ma viene integrato da strategie che mirano a creare brend accattivanti dall’importante valore semantico e comunicativo, invece che esclusivamente organolettico. Le nuove tecnologie aiutano. Offrono opportunità prima inaspettate. Chi avrebbe immaginato che un super trend come quello del podcasting sarebbe riuscito a declinarsi così in fretta in questo settore anche in Italia, grazie ad un pionieristico gruppo vinicolo e alcuni opinion leader? Questo è solo uno dei tanti esempi che fanno guardare con positività al prossimo decennio. La speranza è che l’Italia e i suoi vini si adattino alle nuove regole del gioco e che tutti capiscano che se LVMH organizza eventi clamorosi a casa di Lenny

Kravitz, l’immaginario del nonno che raccoglie i grappoli in vigna, forse non è più abbastanza. Concludendo, fare previsioni per il prossimo decennio è davvero complesso, ma magari rispondere a queste domande può aiutare a fare luce su dei temi che sicuramente saranno centrali nei prossimi anni. L’Italia è un paese di eccellenze, questo è fuori da ogni dubbio, ma ha ancora un pò di strada da fare e soprattutto tante sfide nuove da affrontare. La speranza? Che sappia affrontarle in modo da mantenere saldamente le sue posizioni, migliorale e consacrarsi ulteriormente nell’Olimpo del vino. La certezza? In qualche modo, anche questi anni ’20 saranno “Ruggenti”. Impossibile annoiarsi!


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Vania’s

LOUNGE

THE WILD WORLD OF

BUBBLES di

Vania Valentini

In un calice, le bollicine possono rappresentare l’apice della frivolezza per la maggior parte delle persone che non hanno avuto modo, o desiderio, di approfondire questo meraviglioso mondo che è quello del vino. Per molti di noi, invece, le bollicine altro non sono che un parco giochi inglobato in questa bevanda prodigiosa che possiede l’unica, straordinaria virtù di nascere da madre terra e arrivare nei nostri calici grazie alla mano dell’uomo. La bollicina, elemento in grado di sollevare, muovere, amplificare tutte quelle sensazioni che il vino già possiede e capace di definirne nuovi tracciati, disegni, pbarabole, spesso imprevedibili, il più delle volte sorprendenti.

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Vigna nella zona del Franciacorta

Non è un caso che il loro appeal non conosca battute d’arresto. Il consumo di Sparkling Wine è aumentato, negli ultimi dieci anni, quasi del 50%, con una produzione annuale che ormai sfiora i 2,43 miliardi di bottiglie prodotte. Un fenomeno in continuo crescendo, complici la spensieratezza, la trasversalità di questi sorsi, una vera e propria rivoluzione che vede, finalmente, lo Champagne emancipato dal suo unico ruolo di brand di lusso, di beverage riservato solo ed esclusivamente a feste, celebrazioni sportive, club privati, deturpato da candeline scintillanti e nelle mani di sciabolatori allo sbaraglio. Un vino dalla storia e dal fascino così enorme che ancora si tende a mettere in etichetta, laddove è possibile, questo nome pur di vendere, relegando il resto degli spumanti a un piano marginale. Un blasone che ha messo in ombra, fino almeno agli anni ’80, tutti

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quei vini ai quali veniva assegnata la definizione, più generica, di “sparkling wine”, a sinonimo di qualità inferiore. Gli stessi produttori, nel tempo, hanno adottato nomi più personali e identificativi, con l’intento di valorizzare e tutelare una specifica zona spumantistica e potersi, così, affacciare sul mercato con credibilità: è il caso del Cava, dei Sekt, dei Cap Classique, del Prosecco o della Franciacorta, per citarne alcuni italiani. Riguardo al Metodo Classico, non c’è territorio che non si sia cimentato nella difficile arte della spumantizzazione. Da Nord a Sud si elabora di tutto, dai vitigni vocati ai più improbabili, a volte con risultati stupefacenti, altri mediocri. La direzione, tuttavia, è quella giusta. Si sta dando, infatti, impulso ed entusiasmo a una categoria capace di dare origine a un’incredibile moltitudine di stili e tipologie e che sentiva ormai da tempo l’esigenza di liberarsi

da quell’omologazione, quei protocolli, che generano diffuso appiattimento e che portano a uniformare il gusto, anche laddove vi è enorme potenziale, con quello che impone il mercato di volta in volta. Oggi, il consumatore, trova finalmente vini (si, perché sono vini) dal più ampio respiro, autentici, originali, in grado di trasmettere, oltre a un territorio, una densa trama identitaria , una personalità. Francia, Spagna, Italia, Germania e Russia ormai da tempo si dividono i tre quarti della produzione mondiale, con l’Italia che rimane al secondo posto, dopo la Francia, grazie anche all’intramontabile successo del Prosecco e di distretti ormai consolidati come la Franciacorta, il Trento Doc, l’Alta Langa, l’Oltrepò Pavese, per citarne alcuni. Sorprende, invece, come lo scorso anno il Consorzio abbia voluto valorizzare l’immagine dell’Asti Spumante, proponendone una singolare versione


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‘secca’. Vista la posizione privilegiata di questo vino (è senza dubbio lo spumante dolce di maggior valore, senza considerare la sua grande tradizione), ritengo che sarebbe stato più logico e redditizio sottolinearne l’unicità, consolidando così questa identità di riferimento, anziché inseguire improbabili varianti che sembrano quasi rinnegare la natura di uno spumante unico per storia e piacevolezza. Soprattutto in un momento in cui, finalmente, gli spumanti dolci stanno tornando sulle nostre tavole e non solo al momento del dessert. Si sono avventurati nell’affascinante mondo dell’effervescenza paesi come Argentina, Australia, Cile e Stati Uniti, ma anche luoghi insoliti come Ungheria, Romania, Serbia. In Inghilterra, aiutati dal surriscaldamento climatico e dalla storia, che li vede protagonisti dello sviluppo dello Champagne, da diverso tempo si spumantizza, con l’ambizione di produrre di spumanti di livello elevati. Il cammino, tuttavia, è solo all’inizio. Infine, ben più lontani geograficamente e culturalmente, si stanno prodigando nella produzione di bollicine paesi insospettabili come Cina, India e Giappone, probabilmente affascinati dalla trasversalità di questi vini, capaci, soprattutto nelle versioni dolci, di elargire abbinamenti straordinari con la cucina asiatica. Alla luce dell’esperienza personale, tuttavia, mi permetto di aggiungere che, oggi, i grandi produttori di riferimento dei vini spumanti rimangono ancora i francesi della Champagne. Se si aggiunge poi il fatto che le nuove generazioni hanno viaggiato, studiato, sono piene di entusiasmo e stanno portando sul mercato champagne più originali, sani e, il più delle volte, tecnicamente ineccepibili, si fa presto ad intuire che sarà sempre più difficile raggiungerli. La Champagne sta cam-

biando, in meglio, e questo non farà che consolidare una volta per tutte il primato, qualitativo e d’immagine, del suo vino d’eccezione. Tuttavia, è d’obbligo sottolineare come l’Italia si sia, nel mondo anche nel settore dei vini spumanti, ritagliata un ruolo di primissimo piano, non certo grazie al fenomeno del Prosecco, bensì a due Regioni che si sono elevate a eccellenze del Metodo Classico. Mi riferisco alla Franciacorta e al Trento DOC, dove cantine capeggiate rispettivamente da Ca’ del Bosco e Ferrari hanno saputo sincronizzare alla perfezione territorio, passione e abilità tecnica, riuscendo così ad affermarsi anche nel difficile mercato dell’export. Lo hanno fatto puntando intelligentemente alla valorizzazione della propria personalità, quindi senza cadere mai nella trappola del paragone con lo champagne, che sembra tanto piacere a chi insegue il clamore di notizie d’effetto ma che in realtà, non hanno alcun senso. Le bollicine rimangono, da sempre, strumento indispensabile di celebrazione, associato alla gioia, alla festa, alla vittoria, legato all’eccezionalità di alcuni momenti della propria vita, marcatore di un istante di gratificazione, di felicità pura. Vigorose e danzanti, amplificano i sogni e rallegrano lo spirito, riportandoci a quando, ancora bambini, con lo sguardo sognante accompagnavano le fragili e luminose bolle di sapone salire al cielo. Inglobano storie, territori, stagioni e umori, ma invitano anche alla spensieratezza, alla leggerezza. Trasversali e contemporanee, sono insostituibili in aperitivo e alle feste, sulla tavola possono prestarsi a qualsiasi abbinamento e, con gli opportuni affinamenti, possono portare a straordinari vini da meditazione. In una parola sola: irrinunciabili.

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ilFocusdiAlessandroRossi

NON E’ PIU’ AMMESSO BERE IN

BICCHIERI SBAGLIATI CONSERVAZIONE E BICCHIERI DETERMINANO COME MINIMO IL 50% DI UNA BUONA BEVUTA di

Alessandro Rossi

Sareste realmente disposti a girare su una vecchia Prinz – la piccola autovettura prodotta dalla casa automobilistica tedesca NSU dal 1958 al 1973 - arrugginita in mezzo alla nuova Milano da bere? Forse sì o forse no, meno impegnativo se il vostro cognome fosse Elkann o Agnelli altrimenti dubito. Lo stesso vale, in altri termini, per un vino. Berreste un grande vino in un bicchiere mediocre? Forse no neanche se il vostro cognome fosse Parker, Robinson, Bettane o Suckling a cui sostanzialmente ogni cosa è concessa. Senza un grande bicchiere non può esistere una grande bottiglia, questo è un concetto oramai sdoganato da anni. “Il vino è un compagno problematico” scriveva il grande Luigi Veronelli. Considerando che la soggettività durante un assaggio è ovviamente scontata, per mantenere e per avvalorare ancora di più questa teoria, applicare quella della neutralità degli strumenti di assaggio è fondamentale. Credo sempre di più che l’eterno dilemma del giusto bicchiere per ciascun tipo di vino - ammesso e non concesso che esista – oggi sia ancora più di moda perché l’omologazione enologica è sempre più lontana, sempre di più all’orizzonte, con il vetro al centro dell’attenzione sul palco e con un ruolo di assoluto protagonista. Per molti, forse per troppi, l’importanza della forma del calice è per fare da “altoparlante del vino”, per veicolare le particelle olfattiva. Nel mondo del vino, non si parla più solo ed esclusivamente di profumi, il calice deve essere strumento per la bocca perché un vino lo si determina al palato e il vetro, con la sua forma, è fondamentale per capirlo. L’importanza del bicchiere da vino, principalmente in relazione alla sua forma e capienza, ma anche al

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materiale, è molto importante per un’ottima degustazione. I bicchieri da vino vengono catalogati in base alla quantità di piombo contenuta nel vetro. La percentuale di piombo incide pesantemente sull’infrangibilità ma anche, ahimè, sullo spessore, la finezza del bicchiere e la qualità della bevuta. Ora, come si determina se un bicchiere è corretto per un tipo di vino? Semplice, dal punto di caduta sulla lingua. Il punto di caduta del vino sulla lingua è fondamentale ed il corretto bicchiere da vino può essere di aiuto grazie al tipo di chiusura (ricordiamo che la percezione della parte dolce è all’inizio della lingua, l’acidità ai lati e il salato nella parte centrale, mentre l’amaro è sul fondo). È comunque sempre più diffusa l’abitudine di usare a tavola un solo tipo di bicchiere a forma di tulipano di dimensioni importanti (in grado di contenere almeno 500 millilitri), in cui versare tutte le tipologie di vino, compresi gli spumanti. Gettiamo uno sguardo verso il futuro mantenendo un occhio al passato: è giusto tornare alle forme corrette, perché sempre di più l’autoctonicità, il ritorno alla purezza del vitigno sdogana, come raccontavamo prima, dall’omologazione. Ogni tipologia, ogni denominazione ha bisogno di una sua forma. Pretendiamo calici adeguati, abituiamoci a bere correttamente scegliendo il giusto bicchiere per assaporare ancora di più le differenze stilistiche, di territorio e di storia ampelografica. Ricordate la formula matematica: Grande vino = grande conservazione + bicchiere corretto, il tutto condito da un pizzico di fortuna. Alcuni tra i migliori produttori di bicchieri da vino: • Stölzle Lausitz: www.stoelzle-lausitz.com • Spiegelau: www.spiegelau.com • Riedel: www.riedel.com • Zalto: www.zaltoglas.at • Sophienwald: www.sophienwald.com


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DI(S)SAPORE di

Costantino Antonio Gabardi

L’IDEA DI UN

VINO CHE VERRÀ PERCORSO GUIDATO NELLE CATEGORIE ANTROPOLOGICHE DEL VINO ITALIANO L’Italia del vino sta vivendo, forse, il più grande cambiamento ideologico della sua storia recente. Guardando indietro, tornando all’inizio, prima degli scandali, il vino ricopriva una funzione sociale. Era un aggregatore, un motivo per riunire gli amici intorno ad un tavolo e gioire della conversazione e del momento insieme. Facendo poi parte del paniere alimentare italiano, costituito da cardini come pane, pasta e vino, doveva essere sempre disponibile, in buona quantità, avere grado alcolico e di conseguenza apportare nutrimento. Questa è l’anticamera della visione enologica che ci ha accompagmato fino agli inizi degli anni ottanta dove alla domanda: “questo vino è buono ?”… la risposta era sempre: “certo ha 13 gradi di alcol!”. L’idea qualitativa, e non quantitativa, del vino nasce proprio dalla necessità di uscire dal fango dello scandalo del metanolo, un’esigenza profonda e necessaria per ripulire e rivalutare l’intero comparto. Gli attori sono molti: in primis i produttori, poi la nascente opinione del vino con a capo Luigi Veronelli ed infine, una

categoria professionale fondamentale in questa svolta: quella degli enologi. Sparisce il vino fatto in casa, difettoso e poco corretto e, a volte, persino pericoloso. Compaiono in ogni zona italiana i primi sostenitori di una viticoltura attenta e di una vinificazione corretta, diventando riferimenti, icone, per le proprie denominazioni. Realmente, però, ciò che si percepisce ed è stata venduta come una rivoluzione culturale del vino Italiano, non è stato altro che un adeguamento ai fini della sopravvivenza, riorganizzando un poco meglio il sapere contadino, applicando del buon senso e della ragione più orientata alla qualità, in pratica bisognava salvarsi la vita limitando i danni collaterali. Fin qui tutto bene, o meglio tutto procede, stiamo diventando, sul rapporto qualità prezzo, i migliori d’Europa dopo “i cugini d’oltralpe”, i Francesi sono in fuga e irraggiungibili sui termini di qualità assoluta, ma noi stiamo uscendo bene dal gruppo. A quest’epoca il termine caserecco sparisce, arriva tipico baluardo di autenticità, ma per lo più paravento dei frequenti casi, di sbavature tecniche, imperfezioni agronomiche e conseguente rusticità espressa.

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Un ruolo importante, in questa ulteriore fase, la ricoprono le Università, andando a formare una classe enologica nuova, intraprendente, manageriale e soprattutto furba. Enologi-manager capaci di gestire progetti importanti che vedranno, col rilancio del settore, il comparire di grandi investitori nazionali che interpretano il segmento vino come una reale diversificazione di capitale del loro “core business”. Nascono gli anni novanta e la visione dello stile del vino di quegli anni: strutturato, morbido e muscolare, possibilmente evoluto nel nuovo giocattolo enologico : la barrique (e non parlo di fermentini rotativi o rotomaceratori e concentratori a caldo). Siamo nel rinascimento della vitivinicoltura nazionale, idee e entusiasmo spingono sull’accelleratore della crescita, si afferma con autorevolezza la più autorevole guida al vino nazionale, che soppianterà ed erediterà l’importanza Veronelliana, le associzioni di degustatori rimpinguano le loro fila, si forma la domanda di mercato creando quei soggetti, definiti oggi sarcasticamente mostri da enoteca. Televisione, stampa e corsi didattici in ogni dove divulgano il verbo del vino nuovo, sano e giusto ; il vino si vende, anzi si stravende ; tutto, di tutti i settori e fasce, basta che sia ben recensito. Nascono le cantine dei ristoranti con carte dei vini in stile “Sacra Bibbia” e tutto va bene. Ma poi cosa succede?

Stay tuned… to be continued Percorso degustativo nello stile dei ruggenti ’90, attualizzato ma malinconicamente presente. Come conservare una grande classicità. Provateli, gioitene, guardateli con ocChianti Classico Riserva Rancia Vintage Tunina chi attenti, interpretateli e contestuaJermann lizzateli, rendete onore alla classicità Felsina e non siate bigotti conformisti o tenaci Cervaro della Sala Brunello di Montalcino Riserva innovatori. Vivetelo come un viaggio, Antinori Salvioni senza ordine, ma con rigore e rispetto per chi ha mantenuto una coerenza Kolbenhof Gewürtztraminer interpretativa. Barolo Ornato Hofstatter Divertitevi. Alla prossima puntata. Pio Cesare

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ANTONIO

ARRIGHI IL VINO GRECO PRODOTTO NELL’ISOLA D’ELBA, FATTO COME 2400 ANNI FA di

Stefano Bramanti

Il professor Attilio Scienza, ordinario di viticoltura dell’Università di Milano, seguendo l’esperimento in ogni sua fase insieme all’Università di Pisa, aveva detto nel 2018: “La sperimentazione portata avanti con Antonio Arrighi, nella tenuta agricola elbana omonima di Porto Azzurro, e nel suo vicino mare, è di interesse internazionale: mai nessuno ha tentato di riprodurre il vino come facevano i greci di Chio 2400 anni fa”. E il docente ha fatto centro con quella previsione, infatti il video che documenta tale progetto, chiamato “Vinum Insulae”, è stato presentato al Festival International OEnovidéo di Marsiglia, incassando due premi di livello mondiale: uno come miglior cortometraggio, con il chiaro riconoscimento della qualità tecnico-artistica dell’opera e un altro attribuito dalla Revue des OEnologues, per l’originalità e il valore della sperimentazione, battendo ben 144 video provenienti da 17 paesi del globo. Arrighi e tutti coloro che hanno creduto in questa impresa sono quindi da definirsi campioni del mondo. Un grande spot per l’Elba allora, a costo zero per l’isola, grazie ad una sperimenta-

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zione d’avanguardia. C’è stata, infatti, una forte diffusione mediatica grazie all’azienda Arrighi e a tutto quello che ruota attorno al vino realizzato alla maniera degli antichi greci: ne hanno parlato Rai Due, il Fatto quotidiano, La Repubblica e molti altri media qualificati. Non solo, il video elbano è l’unico premiato tra quelli italiani in concorso e i riconoscimenti, conquistati a Marsiglia, sono stati assegnati con una cerimonia d’onore al Palazzo Lussemburgo, a Parigi, il 14 ottobre scorso. Un successo che dà lustro all’Elba ma anche a tutta la Toscana e non a caso, sempre nell’ottobre scorso, il vino greco-elbano è stato presentato all’Accademia dei Georgofili di Firenze, presenti le maggiori autorità politiche e scientifiche. Il documentario vincitore è stato diretto e prodotto in modo magistrale dal regista elbano Stefano Muti (Cosmomedia) che ha raccontato ogni dettaglio dell’esperimento enologico originale, realizzato nell’azienda di Pian del Monte. L’azienda agricola Arrighi è situata nella parte orientale dell’isola, sulle colline alle spalle della baia di Porto Azzurro, una tenuta da sempre di proprietà della famiglia con una superficie di 12 ettari, tutti all’interno del Parco Nazionale dell’Arcipelago Toscano. “Ho esperienza decennale per la

produzione di vino in anfora - ci racconta Antonio Arrighi -, avendo già realizzato un nettare alla maniera degli antichi romani, che ho chiamato Hermia, un Igt Toscano Bianco dedicato allo schiavo cantiniere della villa rustica di San Giovanni all’Isola d’Elba, realmente esistito duemila cento

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anni fa. Ed anche per il vino Tresse Igt Rosso, siamo stati i primi produttori elbani, dopo i romani di 2000 anni fa, a riproporre sull’isola il vino in contenitori di terracotta, e la prima bottiglia l’abbiamo immessa in commercio nel 2011, coadiuvati dalla enologa Laura Zuddas”. Approfondiamo dunque il metodo per ottenere il vino greco marino, con Antonio: “L’Elba ha fondali bellissimi, che abbiamo sfruttato per immergere i grappoli della nostra uva Ansonica e abbiamo utilizzato le ceste di vimini, le nasse. Così facevano i greci di Chio 2400 anni fa, una metodologia che dava vantaggi. C’è da dire che l’Ansonica che ho scelto ha una buccia degli acini molto resistente, frutto di un probabile incrocio di due vitigni originari dell’Egeo, il Sideritis e il Roditis. L’abbiamo immersa a -7 metri, in un fondale di 10 per alcuni giorni. Ed è questo il segreto degli antichi greci di Chio. Il metodo serviva, e serve, a diminuire la presenza di una pellicola naturale cerosa e protettiva, detta pruina, presente sui chicchi dell’uva. grazie all’azione del sale marino. I greci volevano così ottenere, togliendo la pruina, l’appassimento successivo al sole sulle cannucce (graticci), più veloce, con il risultato di mantenere maggiori aromi e gusto. Il passaggio successivo è stato l’immissione in anfora, con tutte le bucce, per la fermentazione e l’affinamento. La notevole quantità di sale presente dopo i giorni in mare, supportata dalle analisi dell’Università di Pisa, ci ha detto che la componente salina è penetrata anche all’interno dei chicchi, per osmosi, e così ha permesso di evitare l’uso di solfiti: il sale presente funge da antiossidante e conservante. Nel marzo scorso, quando abbiamo assaggiato il vino dalle anfore con il professor Attilio Scienza, avevamo la sensazione di aver prodotto un vino come usciva dalle cantine dell’isola di Chio. È stato emozionante, ma ora questo è di certo un nostro vino elbano, fatto alla maniera dei greci di allora”. Attraverso tali sperimentazioni, cresce dunque l’attenzione per la produzione enologica elbana, visto, come detto, il risalto dato dai media, non solo nazionali. “È vero. Mi ha fatto un’intervista anche Thomas

Migge, della radio tedesca Swr ed ho precisato che per ora non commercializziamo questo vino unico, probabilmente lo faremo in seguito. In ogni caso – conclude il viticoltore elbano – stiamo lavorando perché l’Isola d’Elba torni ad avere lo spazio che merita nel panorama enologico nazionale. Ricordiamoci che nella prima metà dell’Ottocento la nostra isola era la principale produttrice di uva della Toscana, con 5000 ettari e 32 milioni di viti presenti sul territorio. Si sviluppava un grande commercio del nostro vino verso il centro Italia, in Liguria ed anche fino al sud della Francia”. Quindi chiudiamo con una immagine suggestiva: quella di Artemios, ideale cantiniere dell’antica Grecia, che potrebbe essere approdato all’Isola d’Elba 2400 anni fa. Ora gli succede Antonio, in grado di riprodurre il vino con le tecniche del suo collega remoto, il quale realizzava il vino marino per imprigionare i migliori sapori offerti dalla natura, proprio grazie all’azione del sale acquisito in mare, e il metodo è stato replicato oggi nella baia di Porto Azzurro. Quale sarà la prossima sperimentazione dell’intrepido elbano-romano-greco Arrighi?

AZIENDA AGRICOLA ARRIGHI Loc. Pian Del Monte 1 Porto Azzurro (LI) Isola d‘Elba

www.arrighivigneolivi.it

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PETER THOMSEN IL “DANESE” LANGAROLO di

Tutto ebbe inizio nel 1996 quando Peter, manager di una grossa azienda, durante una trasferta di lavoro in Italia restò ammaliato da “Ca’ Barun” ovvero la casa del barone. La casa è posizionata a 380 metri di altitudine a Santo Stefano Belbo (CN), il paese dove nacque Cesare Pavese. In realtà Peter stava lavorando a Milano ma il buon vino lo aveva sempre attirato e dove andare per bere bene se non nella Langhe. Nelle giornate di pausa dagli impegni professionali iniziò così non solo a godersi gli eccellenti vini del territorio, ma anche la dolcezze di quelle colline tanto decantate. Dalla Danimarca, dalla graziosa Copenaghen, alle vigne piemontesi, il passo fu breve trasformando il manager in imprenditore agricolo part time. Oggi la sua vita si divide tra la Scandinavia e il Piemonte, arricchita dai profumi del vino e solo la fisionomia e l’accento lo tradiscono: per il resto, ha assorbito l’essenza di questa terra che ti penetra appena la avvicini.

Fabrizio Salce

L’investimento sull’italico suolo, oltre alla casa del barone, comprende un ettaro di vigneto, che si estende ai piedi della terrazza di fronte al cascinale. L’uva Freisa è di casa, affiancata dal Pinot nero. Da allora, dai primi passi langaroli, Peter ha saputo cogliere l’anima di questo eccezionale, troppo spesso sottovalutato vitigno, parente stretto del celebre Nebbiolo. Mai commercializzata prima di 24 mesi, affinata in tonneau e barrique, la Freisa di Peter è una gran signora che non sente gli anni; dai colori brillanti, sempre fresca in bocca e dal tannino elegante, mai aggressivo. Oltre ai vini prodotti dal singolo vigneto, Peter seleziona altre produzioni della zona con etichette da lui stesso ideate e commercializzate nel suo Paese d’origine. Selezioni di Arneis, Barbaresco, Barolo, Barbera d’Asti e Nascetta vinificate da altre aziende. Tutti vini che

devono rigorosamente sposare in toto la filosofia di Peter: piccole produzioni, uve aziendali, elevata qualità e sostenibilità. Manca una componente: l’amore. No, non manca assolutamente, la compagna di Peter è italiana, anzi astigiana, si chiama Benedetta Bona una ex dirigente aziendale che gestisce a pochi chilometri un piccolo hotel, lo “Small Hotel” di Neive, uno dei borghi più belli d’Italia. Le Langhe, i grandi vini, una casa d’altri tempi e una compagna italiana: un poker vincente per un’avventura straordinaria.

CA’ BARUN

Strada Siondini 8

Santo Stefano Belbo (CN) www.ca-barun.com

ca-barun@hotmail.com

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VERMOUTH BIANCO DON GUGLIELMO 1918

UNA STORIA ANTICA DIETRO UN PRODOTTO SEMPRE ATTUALE di

Fabrizio Salce

Mi seggo comodamente, assaporo il piacere di un bicchierino di “elisir del tempo” e vago con la mente ad una storia che risale all’ormai lontano 1918; una storia vissuta nella mia Torino pochi mesi prima del ritorno della pace. Un ritorno che sul finire dell’autunno di quell’anno non calmò di certo lo scontro politico in città. Le tante divergenze tra la sinistra e la destra al momento dell’armistizio che chiudeva la Prima guerra mondiale evidenziarono profonde divisioni. Ma non sarà della politica di quel frangente storico o del conflitto bellico che voglio parlarvi ma di un evento, tragico e cruento, che fece molto scalpore nel febbraio 1918. Al numero 19 di Contrada San Filippo, oggi via Maria Vittoria, prese appartamento Pietro Balocco, un giovane arrivato in città da San Germano Vercellese. In più occasioni il Balocco fu visto entrare e uscire dall’abitazione in compagnia di un

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prete, Don Guglielmo Gnavi originario di Caluso, località non lontana da Torino. Con molta probabilità la cosa venne a ripetersi per un periodo fino a quando, in una fredda giornata invernale la portinaia, Giuseppina, notò Balocco uscire solo trascinando una pesante cesta dal dubbio contenuto. Alla misteriosa uscita solitaria del giovane si aggiunse un particolare: il sacerdote non fu più visto nella via. I sospetti della donna aumentarono col trascorrere dei giorni e vennero confermati da un caso fortuito. Successe infatti che, nel frattempo, un barcaiolo sul fiume Po notò qualcosa di insolito galleggiare, qualcosa con tutte le sembianze di una gamba umana. Giuseppina si fece forza e convinse la proprietaria dell’appartamento ad inscenare un guasto al suo interno, al fine di giustificarne un ingresso obbligato. Lo spettacolo che si trovarono di fronte fu raccapricciante: dentro ad una valigia il torso privo di testa e di gambe del religioso. Nello stesso istante il Balocco fuggì immediatamente. Il giovane venne braccato per settimane dalla polizia mentre i giornali dell’epoca, definendo il caso come “L’omicidio del prete fatto a pezzi”, pubblicarono le foto dell’assassino, foto che ne consentirono la cattura grazie al riconoscimento di una passante. Nell’aprile del 1921 il giovane venne condannato all’ergastolo e a 11 anni di cella di isolamento. Una storia macabra di cento anni fa, che ritorna oggi dentro al bicchierino del mio “elisir del tempo” che, in realtà, è il Vermouth Bianco Don Guglielmo 1918. La famiglia Gnavi di Caluso esiste tuttora e i discendenti hanno continuato nel tempo, così come allora, a produrre vini del territorio, quella terra dove regna sovrano l’Erbaluce. La storia della cantina Gnavi risale

alla fine dell’800 con la fondazione di un’azienda familiare di carradori che, oltre ad occuparsi del trasporto di merci, si specializza nella coltura della vite. A mettere radici sulla quella terra collinare canavesana di origine morenica fu il Cavalier Giovanni. La somma ottimale di terroir, clima, vitigno e la sapiente opera dell’uomo fa sì che i vini di quel lembo di Piemonte siano particolarmente interessanti. L’Erbaluce, storico vitigno, ha trovato nell’area di Caluso la sua giusta dimora e gli Gnavi, oggi Carlo, unico erede del sapere del padre e il nipote Giorgio, portano avanti la tradizione di famiglia producendo Erbaluce in differenti espressioni: fermo, spumante e passito. E il Vermouth? Caluso dista pochi chilometri da Torino e se c’è una chicca storica, un vino aromatico tipicamente torinese, è proprio il Vermouth. Un tempo molto diffuso, il vino liquoroso vive oggi una sua rinascita e una scoperta da parte dei giovani. Il Don Guglielmo 1918 è il nuovo prodotto

della cantina: è il Vermouth degli Gnavi. Preparato con vino Erbaluce, alcol, zucchero e le principali erbe e spezie: assenzio, achillea millefoglie, sambuco, coriandolo, dittamo, pompelmo, zenzero, arancia, menta, pepe; il Don Guglielmo 1918 ha un colore giallo paglierino intenso, sentori di agrumi ed una equilibrata dose di dolcezza e freschezza. Con il suo finale persistente al palato è decisamene piacevole; una bella sorpresa che all’assaggio ti regala una delicata emozione. Un vento tiepido di storia di un tempo lontano ma alquanto vicino, di una tragedia che si traduce oggi in piacevolezza. Un delicato Vermouth in ricordo di Guglielmo Gnavi.

SOCIETÀ AGRICOLA GNAVI CARLO

Via C. Battisti 8

10014 Caluso (TO)

www.cantinagnavi.it

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CARNIA L’ALTRA MONTAGNA di

Fabrizio Salce

Una passeggiata in totale solitudine e relax, una fetta di prosciutto di qualità, una pedalata in quota; oppure una sciata invernale, un piatto di polenta e funghi, una lezione di cucito, una carezza ad una capretta e il profumo del legno. Un fine settimana in malga dove si producono formaggi d’alpeggio, un’esperienza in un rifugio, qualche giorno o una lunga vacanza. Mi trovo in Friuli nel comprensorio territoriale della Carnia e farò base nel paese di Sutrio, dove alloggerò in un albergo diffuso. Questa soluzione di ricezione turistica, l’albergo diffuso, è nata proprio qui anni fa con il preciso intento di mettere in rete una serie di unità abitative facenti capo ad un’unica reception. In questo modo molti privati hanno la possibilità di affittare le loro

abitazioni ai turisti offrendo valide soluzioni sia per i piccoli nuclei famigliari che per i gruppi. Per le colazioni ci sono diversi locali del posto convenzionati e non mancano neppure le soluzioni abitative per i disabili. Sutrio è un borgo situato a 565 metri di altezza, ricco di storia e tradizioni. Ha due frazioni, Priola e Noiaris e poco più di mille abitanti. Siamo al confine con l’Austria, ai piedi del celebre Monte Zocolan, 1750 metri, un importante centro per gli sport invernali. Ma diverse sono le vette nella zona che meritano di essere conosciute e vissute in solitudine o accompagnati da guide esperte. A Sutro raggiungo l’enoteca prosciutteria “Il Marangon” che in lingua locale (un derivato dal Ladino) significa “il falegname”. Qui trovo i giovani Filippo Della Pietra e Stefania De Conti che mi preparano un delizioso tagliere con prosciutti e formaggi locali tra i quali il “Formadi Frant”; annaffio il tutto con della Malvasia Secca della cantine Ermacora di Ipplis di Premariacco (UD). Intanto arriva il tramonto sulle montagne: mi godo il momento e penso che è meglio riposare, domani ci saranno tante cose belle da vedere. Mi alzo di buon ora e, in compagnia di Enzo Marsilio, consigliere regionale, vado a visitare il Caseificio sociale Alto But di Sutrio. Qui si lavora il latte raccolto sul territorio e si produce un formaggio tipico locale chiamato proprio Alto But: lo si trova di 6 mesi, ma anche stagionato fino a 36 mesi. Incontro il casaro, Villiam Silverio,

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che oltre a farmi visitare la struttura produttiva, mi fa conoscere un altro loro formaggio: un erborinato molto interessante chiamato “Pastorut” (pastorello) e la ricotta affumicata. Presso lo spaccio del caseificio si possono acquistare moltissimi prodotti tipici come il frico, le confetture, il miele, i dolci, le paste, le erbe di montagna sott’aceto e i celebri cjarson, straordinari interpreti della cucina friulana di cui parlerò più avanti. Non lontano dal caseificio trovo la stalla di Franco Cortari (foto qui sotto). No, non parlo di mucche ma di splendide caprette, circa 90 capi di

razza camosciata alpina. Quanto ci arrivo è in corso la mungitura. Adoro questi animali, così come amo il loro latte e i formaggi che ne si producono. Mi regalo qualche minuto di pura fanciullezza giocando con le più piccine. E’ ora dell’aperitivo e a Sutrio, tra i vari locali, c’è “L’Ostarie da Alvise (foto qui sopra a destra) – cjamares e cusines”. I gestori sono i famigliari di Filippo del Marangon e ad offrirmi un buon vino Friulano con formaggi

di alpeggio e salame artigianale è suo fratello Alvise. Nel pomeriggio mi aspetta Chiara Selenati una blogger con la passione per la pasticceria, in particolare quella francese, e la cucina tipica di qui per raccontarmi e farmi vedere come si preparano i cjarson (foto in alto). In realtà i cjarson sono talmente tipici e popolari su questo territorio che ogni famiglia ha la sua ricetta privata. E’ una pasta ripiena e, come tale e come

succede anche in altre regioni, ognuno un tempo usava ciò che aveva a disposizione per realizzarli, ecco perché non esiste una vera ricetta ufficiale. In Carnia non si esclude che la loro origine derivi dai vecchi venditori ambulanti di spezie, i Cramars, che raggiungevano i paesi germanici con sulle spalle una sorta di cassettiera contenente le varie merci. Al rientro l’invenduto veniva usato per preparare i cjarson. Storia, leggenda, comunque romanticismo e

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GLI EVENTI Questa montagna è viva e crea eventi: la prima domenica di marzo c’è Fums, profumus, salums ovvero la tradizione norcina in Carnia. La prima domenica di giugno la festa dedicata ai cjarsons, mentre l’ultima di luglio c’è quella dei covoni di fieno: Fasin la mede. Si arriva poi a settembre con l’evento dedicato alla Magia del Legno, quindi ad ottobre con Farine di Flor ossia mulini, farine e delizie della Carnia, e poi a Natale con i Presepi.

forse nostalgia per un tempo che non tornerà più. Mi congedo da Chiara e vado in frazione Priola dove c’è l’Agriturismo Naunal (foto in basso). Qui si può soggiornare e mangiare i piatti della tradizione preparati con le erbe officinali del territorio, con i funghi della montagna, ma anche lo strudel, il succo e l’aceto di mele fatto con frutti di antiche varietà. I salumi e i formaggi, il frico, i cjarson, la pasta e fagioli, l’orzo. Ci sono i conigli, le capre, le pecore, gli asini, le galline, le faraone, le oche, i vitelli, i maiali e tanto altro.

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Il giorno dopo mi attende la bellezza di queste montagne, di questo comprensorio vasto e ricco di anfratti naturalistici straordinari. Mi accompagna Silvio Ortis, guida e conoscitore esperto di queste vette. Silvio mi racconta di tutto, sentieri, piante, fiori, storia e paesaggio. Mi godo l’aria, i fiori, saliamo più in su sui sentieri dove il silenzio della montagna ti abbraccia e ti coccola. Vedo le postazioni dei cannoni della prima guerra mondiale, ciclisti appassionati che sudano per salire, gruppi di turisti amanti della natura e passeggiatori solitari. Arriviamo al rifugio Chiadinas a Comeglians sulla panoramica delle vette del Monte Crostis. Il Rifugio è a 1934 metri, tra le pieghe delle verdi dorsali, a un passo dalla cima, e Patrizia e Martina mi fanno assaggiare i formaggi e gli affettati, ma anche delle deliziose cipolle preparate alla loro maniera e le torte salate di verdure degli orti di montagna. Con Silvio si prosegue alla conquista del Monte Zoncolan a 1750 metri. Durante l’inverno qui si scia alla grande, ma nella stagione estiva è un piacere per gli occhi e per le gambe: percor-

si meravigliosi e salite da brividi per le biciclette. Prima di rientrate a Sutrio scendo di qualche metro e vado a visitare la Malga Pozof (qui sopra) posizionata proprio sotto la vetta dello Zoncolan. E’ gestita dalla famiglia Gortani, hanno mucche di razza bruna e producono formaggi, burro e ricotta affumicata. Ci sono molti animali e il posto è un vero paradiso per i bambini. Ci trovo molti turisti che si godono l’ambiente e i loro prodotti abbinati all’immancabile polenta. È tempo di tornare a valle. Per cena un’altra sorpresa mi attende. Mi reco infatti alla Trattoria Alle Trote dove si può non solo mangiare, ma anche pernottare. Loro sono allevatori di trote e la mia cena non può che essere deliziata da piatti a base del buon pesce d’acqua dolce. Inizio con un carpaccio di trota, poi dei tortelli ripieni di trota e a ruota un bel filetto di trota con patate e olive taggiasche. Il locale è molto bello, caldo e accogliente, le ragazze che servono sono graziose e gentili. La Carnia, i suoi colori, i suoi profumi, la sua gente: il mio è solo un piccolo spaccato di una realtà affascinante che va amata, rispettata, tutelata.



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SAN MARINO LA SUA STORIA, LA CULTURA, IL TERRITORIO di

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Teresa Cremona


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Inserita nel Patrimonio Unesco, la Repubblica di San Marino - la più antica Repubblica del mondo - gode di una posizione che ne fa un luogo unico e indimenticabile, per la sua lunga storia e per la sua architettura, quasi un naturale continuum della roccia dalla quale si eleva.

La piccola capitale conserva un centro storico medioevale, caratteristico e poetico, con strade scoscese, porte d’ingresso maestose, Chiese, Monasteri e Basilica, Torri di Guardia, Antiche Carceri, Camminamenti arditi su mura merlate. Dalle terrazze panoramiche, lo sguar-

do arriva fino al mare, mentre dal lato rivolto agli Appennini si è sedotti dall’andamento morbido delle colline, un sinuoso andare verso l’infinito. Un turismo troppo frettoloso visita ogni giorno questo piccolo territorio. San Marino meriterebbe rispetto e onore e bisognerebbe cambiare l’offerta commerciale, e dare spazio ad un vero artigianato di qualità. Assolutamente da visìtare, la Collezione di opere della Galleria Nazionale di Arte contemporanea, oggi Galleria Nazionale di San Marino, ospitata in un edificio costruito negli Anni ’30, inizialmente destinato ad essere Museo Risorgimentale: ci si accede dagli spazi ombrosi e tranquilli dei Giardini. La Galleria, diretta con passione e competenza dalla professoressa Rita Cannarezza, ospita opere di Guttuso, Cagli, Vedova, Birolli, Perilli, Busignani Reffi ed altri.

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La Galleria

Questa collezione è la testimonianza dell’attività artistica di un recente passato di San Marino, un percorso iniziato nel 1956 e poi proseguito con le Biennali, fino agli Anni ’90, fino all’inizio del terzo millennio. Nelle belle e luminose sale, lontani dal confuso andare dei turisti, c’è tempo per godere delle opere esposte, per documentarsi, per conoscere ed apprezzare le storie degli artisti sanmarinesi che hanno contribuito a formare questa collezione, sia facendo venire artisti da fuori sia con le loro stesse opere. È un luogo di forte impatto, è un’impronta culturale ed è anche un’ipotesi di quella che potrebbe essere la vocazione di questa piccola, pacifica, indipendente, orgogliosa repubblica.

LE OPERE DEL MUSEO DIFFUSO Museo di Stato - Luciano Bartolini 1988 San Marino per tre Philip Taaffe 2004; Museo di Stato Pinacoteca di San Francesco - libri d’artista dall’Archivio Performativo 2013; Scala Santa Antico Monastero di Santa Chiara – Enzo Cucchi 1988; Contrada delle Mura Spiazzo del bastione – Testimonianza 1 e 2 Marina Busignani 1982; Ex Galleria Ferroviaria il Montale - Maurizio Cattelan 1991; Ridotto del Teatro Titano - Operazione difesa della natura – Joseph Beuys, Buby Durini.

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La Galleria, inoltre, si allarga a Museo Diffuso, nella città. Il progetto è nato in occasione della sua inaugurazione con l’obiettivo di valorizzare i luoghi pubblici dove sono esposte opere permanenti di arte contemporanea. Di tutt’altro argomento, ma di interesse, un’altra tappa da suggerire è la visita al Consorzio Vini tipici di San Marino nel quartiere di Borgomaggiore. Nel territorio della Repubblica, ci sono oltre 120 ettari vitati e circa 100 viticoltori, che hanno piccoli, piccolissimi appezzamenti e che portano alla cantina anche poche cassette di uva, ma che sono molto fieri del loro prodotto. I vitigni sono la Ribolla di San Marino e il Moscato (importato negli Anni ‘70 da un viticoltore piemontese), a questi si aggiungono quelli tipici del circostante territorio romagnolo, come il Trebbiano e il Sangiovese, e poi anche alcuni vitigni internazionali.


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DOVE MANGIARE Ristorante Righi www.ristoranterighi.com Stella Michelin, chef Luigi Sartini. Antica stazione di posta, nel Palazzo del Pianello, situato in piazza della Libertà, è un indirizzo storico oltre che oltremodo suggestivo per la cucina e per gli ambienti.

Il Consorzio lavora circa 10.000 quintali di uva commercializzati in 20 etichette: Roncale, Caldese, Biancale, per i Bianchi. Tessano, Brugneto, Sangiovese, Rosso dei Castelli, per i Rossi, sotto la guida dell’enologo Michele Margotti. Management giovane, professionale e che ha a cuore la qualità. Negli stessi locali si trovano i prodotti del Consorzio Terra di San Marino: conserve, miele, olio di oliva extravergine, farine da grani antichi macinate a pietra, marmellate e dolci tipici. Sono ovviamente prodotti di nicchia di produttori selezionati che fanno piccole quantità. Ma è importante per il territorio che esistano questi agricoltori–artigiani, e stupisce come nessuno spazio espositivo o di vendita sia loro dedicato nei negozi del centro storico.

Ristorante Cesare www.hotelcesare.com Buona cucina, pesce freschissimo dal vicino mare Adriatico, ottimo servizio, attenta presenza del proprietario. Ristorante la Terrazza www.ristorantelaterrazza.sm All’ultimo piano dell’hotel Titano, ma con ingresso indipendente, gode di una incredibile vista sul centro storico, sul Palazzo del Governo e sul panorama collinare.

DOVE DORMIRE B&B Antica Bifora www.anticabiforarsm.com B&B Balsimelli12 www.balsimelli12.com

INFO Per informazioni Ufficio del turismo Contrada Omagnana 20 47890 San Marino Tel. 0549 882914

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EDITORE La Madia srl Sede legale: Via E. De Amicis, 53 - 20123 Milano (MI) Sede operativa: Via Pacchioni, 365 - 47521 Cesena (FC) Tel. 0547 23821 - Fax 0547 25809 Internet: www.lamadia.com - E-mail: lamadia@lamadia.com

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DES GOURMETS La famiglia dei Gourmets europei si è data una nuova dimensione per valorizzare

il piacere

della convivialità e della cultura

enogastronomica italiana

Direttore responsabile: Elsa Mazzolini La Madia srl è parte del Gruppo Cose Belle d’Italia www.cosebelleditalia.com

REDAZIONE Direttore: Elsa Mazzolini Caporedattore: Maria Chiara Zucchi Stampa: D’Auria Printing SPA - (AP) Web e Social: Giorgia Zucchi Impaginazione: Andrea Amadori Redazione e centro di distribuzione in Gran Bretagna: ALIVINI Company Limited - London - Tel. +44 20 8880 2525

COLLABORATORI Domenico Acconci, Giovanni Angelucci, Silvia Bianco, Daniele Briani, Teresa Cremona, Mario Federzoni, Giulia Gavagnin, Giuseppe De Girolamo, Giorgia Giuliano, Maurizio Di Dio, Gianni Di Lorenzo, Lorenzo Ferrari, Luigi Filippi, Lisa Foletti, Lucy Gordan, Verdiana Gordini, Giuseppe Lo Russo, Furio Lottatori, Giovanni Mastropasqua, Antonietta Mazzeo, Alessandra Meldolesi, Claudio Mollo, Alessia Pellegrini, Alessandro Ricci, Gianluca Ricci, Alessandro Rossi, Simone Rosti, Flavia Tomaello, Marco Tonelli, Primo Vercilli. Fotografi: Nikoboi, Pasquale Spinelli, Andrea Amadori, Lido Vannucchi, Claudio Mollo, Riccardo Marcialis Illustratori: Patrizia Zavatti - Valentino Menghi

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