La Madia Travelfood n. 341 - Ottobre 2019

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Mensile Sped. In Abb. Post. - Gruppo III° - 45% - Art.2 Comma 20/B Legge 662/96 - Fil. Forlì - Tassa Pagata - Taxe Perçue - Reg. Trib. Di Forlì N.653 - Del 14/6/84 - Dir. Resp. Elsa Mazzolini - La Madia Srl - Via Pacchioni, 365 - Cesena - Euro 4,00 - In caso di mancato recapito restituire al mittente che si impegna a pagare la relativa tassa

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ANNI

www.lamadia.com

ANNO XXXV Ottobre 2019 - N. 341 - €E 4,00 Direttore ELSA MAZZOLINI

Cucine a confronto

La Peca Dal Pescatore

Italia vs Portogallo José Avillez João Rodrigues

VINO

Vendita en primeur

VINI GREEN

Ma quali sono le differenze?

LA MADIA EDITORE




Sommario LA MADIA TRAVELFOOD N. 341

GourmetFood

di

Alessandra Meldolesi

GourmetFood

di

Simone Rosti

pag. 38

pag. 56

pag. 46

LA PECA

DAL PESCATORE

I primi trent’anni di Cinzia, Nicola e Pierluigi Portinari.

Andata e ritorno. Un viaggio nella grande cucina italiana.

GourmetFood

Vinaria

di

Alessandra Meldolesi

pag. 60

di

Mario Federzoni

pag. 90

PORTOGALLO

VINI GREEN

Il segreto culinario meglio tenuto d’Europa.

Ma quali sono le differenze?


La cultura del benessere

Buone Nuove................................................................................ pag. 53

Ma quanto fa male questo colesterolo?

GourmetFood

di Primo Vercilli......................................................................... pag. 6

I Carracci a Bologna

La scelta vegana

di Antonietta Mazzeo............................................................. pag. 56

Come promuovere un menu vegetale

FashionFood

di Silvia Bianco.......................................................................... pag. 8

Hotel Les Saint Paul

Il menu engineering

di Luigino Filippi....................................................................... pag. 72

Abitudini alimentari ed immigrazione: c’è il nesso

Faccio cose... vedo gente...

di Lorenzo Ferrari..................................................................... pag. 12

Capolavori a Tavola

EVO - L’olio extravergine di oliva

a cura di Elsa Mazzolini......................................................... pag. 76

Olio Extravergine di Oliva Garda DOP

Eventi

di Antonietta Mazzeo............................................................. pag. 16

19° Festival della Cucina Italiana........................................ pag. 78

Golavagando

Vinaria

Terramira nell’Aretino

Il focus di Alessandro Rossi

di Maria Chiara Zucchi.......................................................... pag. 20

Cemento VS Ceramica

Golavagando Oraviaggiando

di Alessandro Rossi............................................................ pag. 80

Locanda Montelippo nel Pesarese

Cantina Menegola

di Alessia Pellegrini................................................................. pag. 26

di Fabrizio Salce....................................................................... pag. 82

Golavagando

Vino: la vendita en primeur

L’Edicola a Torino.................................................................... pag. 27

di Mario Federzoni.................................................................. pag. 84

Pizzeria Partenopea a Milano............................................. pag. 27

Fantaenologia

Golavagando Oraviaggiando

di Gianluca Ricci....................................................................... pag. 88

Ristorante Vattelapesca in Valle d’Itria

Lambrusco

di Alessia Pellegrini................................................................. pag. 28

di Mario Federzoni.................................................................. pag. 94

Chef di Spirito

Gli Orange Wines

Silver Succi

di Mario Federzoni.................................................................. pag. 96

di Sonia Leo............................................................................... pag. 32 GourmetFood Stefano Masanti di Giorgia Giuliano.................................................................. pag. 50


laculturadelbenessere

a cura di

Primo Vercilli Medico Dietologo

MA QUANTO FA MALE QUESTO COLESTEROLO? Questa è una domanda che in molti si pongono, ma che alla fine ha una risposta che il più delle volte viene totalmente ignorata. La maggior parte di noi ha il colesterolo alto, ma fondamentalmente tratta la cosa con estrema leggerezza, quando invece questo dovrebbe sempre essere visto come un campanello d’allarme. Che il colesterolo alto faccia male è indubbio, ma è altrettanto indubbio che il più delle volte ci barrichiamo dietro una presunta familiarità per non prendere invece provvedimenti che potrebbero, obiettivamente, allungarci la vita. La Società Europea dell’Aterosclerosi e la Società Europea di Cardiologia hanno ultimamente pubblicato delle linee guida al fine di indirizzarci verso una maggiore consapevolezza del problema: il colesterolo cattivo (colesterolo LDL) deve essere il più basso possibile! Pensate che il colesterolo alto è la maggiore causa di infarti e ictus, responsabili del 30% dei decessi e delle disabilità nel mondo. Ebbene, la prevenzione si ottiene a tavola e, vi assicuro, sono veramente rari i casi di familiarità che non permettono di ottenere dei risultati lusinghieri con le sole regole alimentari. Il colesterolo LDL non dovrebbe superate i 100-115 mg/ dL, a seconda che la persona si trovi già in un rischio medio o basso. Ma, pensate, se la persona si trova già in una situazione di alto rischio cardiovascolare, il tasso ematico di colesterolo LDL non deve superare i 70 mg/dl. E allora cosa fare? Capisco che la risposta a questa domanda potrebbe incontrare reazioni poco favorevoli, ma la consapevolezza a tavola nasce anche dallo scontro con realtà che non ci fa molto piacere ascoltare. Quello che è da preferire in questi casi è sicuramente l’apporto di prodotti di tipo vegetale, soprattutto verdura, legumi e cereali integrali. Invece, ahimè, sono da limitare notevolmente tutti i dolci (che contengano o meno colesterolo di per sé), carni rosse, uova e formaggi, soprattutto se inseriti in una alimentazione altamente calorica e ricca di farine raffinate. Ma, nello specifico ci sono alimenti che ci possono aiutare a combattere il colesterolo alto? Ebbene sì, ci sono e la prima cosa che dovete ricordarvi è quella che avete come alleato il colore rosso! Fragole, pomodori e anguria sono alimenti che differenti studi hanno provato essere di estremo aiuto per combattere il colesterolo alto: le fragole perché contengono antocianine, il pomodoro per il suo

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contenuto di licopene e l’anguria perché ricca di citrullina. C’è anche un altro frutto che è estremamente utile in questa lotta: la mela, per il suo alto contenuto in pectine. Già con queste poche notizie possiamo intuire che, per combattere il colesterolo, potremmo fare uno spuntino a metà mattino alternando fragole, anguria e mele e poi mangiare a pranzo della pasta integrale condita con pomodoro e olio d’oliva! Mi raccomando però: che la pasta sia veramente integrale e non apparentemente… Dopo la pasta potremmo consumare delle melanzane che, secondo una ricerca fatta ad Harvard, sono molto utili contro il colesterolo oppure prepararci un’insalata con lattuga, noci e agrumi, con la certezza che, anche in questo caso i grassi buoni delle noci e gli antociani delle arance ci possono dare una grossa mano. E per lo spuntino del pomeriggio? Una manciata di frutta secca è l’ideale. Mandorle, arachidi e pistacchi (visto che le noci le abbiamo magari prese a pranzo) ci danno un’altra importante mano. Ma, allora, visto che ci stiamo impegnando, come possiamo fare colazione? Bella domanda: è chiaro che, in questo caso dovete dimenticarsi di succulente brioche o mega-biscottisuper-grassi. La colazione è un momento importante perché è fondamentale sin dal mattino assumere un certo quantitativo di fibre. Pensate, durante il giorno noi ne dovremmo assumere circa 30 grammi e normalmente, nella quotidianità, ne assumiamo sì e no appena 6 grammi! Iniziare la mattina con delle fibre significa nutrire in modo adeguato subito la nostra flora batterica intestinale che ci permetterà poi di metabolizzare meglio quello che mangeremo durante la giornata. La flora batterica intestinale (cioè quello che ormai viene chiamato microbiota) è responsabile di tutte me modificazioni che il cibo subisce una volta che noi lo abbiamo digerito nello stomaco. Ed è fondamentale anche per

il nostro colesterolo! Quindi un buon latte vegetale (o un kefir) con dei fiocchi di avena e, dopo, per chiudere, un buon caffè possono essere gli elementi giusti per una buona colazione anticolesterolo. E, se facciamo così, una volta a settimana possiamo anche concederci una buona fetta di torta fatta in casa! Ma a questo punto ci manca solo la cena! Largo ad una buona minestra di verdure per cominciare e poi un buon piatto proteico privilegiando pesce (soprattutto azzurro, ricco di omega 3) e legumi, accompagnati sempre da un buon pane integrale. La pizza? Certo! Una volta a settimana, ma, per favore, evitiamo doppia mozzarella, doppia salsiccia, doppio impasto, ecc. e, se possibile proviamo impasti integrali. E qui arriva il bello: confrontiamo questo schema alimentare con quello che noi normalmente facciamo e poi chiediamoci: siamo veramente sicuri che il nostro colesterolo sia familiare?


lasceltavegana

a cura di

Silvia Bianco testimonial di cucina vegana

COME PROMUOVERE UN MENU VEGETALE

PER INCREMENTARE LE VENDITE E QUINDI INQUINARE MENO, RISPETTANDO OGNI ESSERE VIVENTE L’organizzazione americana non profit World Resource Institute (WRI) nacque nei primi anni 80 per la necessità di affrontare le preoccupazioni ambientali già emerse con forza negli anni ‘60 e ‘70 come la deforestazione, desertificazione e cambiamenti climatici. Queste complesse questioni globali sono ad oggi sotto l’occhio di tutti e WRI procede con la sua Mission, ovvero condurre l’essere umano a vivere in modo da proteggere la Terra per permettergli di mantenere la sua capacità di provvedere ai bisogni ed aspirazioni delle generazioni presenti e future. Il Better Buying Lab (BBL) è il laboratorio di ricerca del World Resources Institute. Il team del laboratorio BBL è formato da ricercatori, economisti, esperti di marketing e grosse aziende e per circa due anni ha condotto una serie di test per introdurre nuove strategie di mercato per promuovere l’alimentazione vegetale a tutta la popolazione, in quanto è la più salutare e la cui produzione è decisamente meno inquinante per il pianeta. A febbraio 2019, il BBL ha pubblicato le prime conclusioni di un interessante studio su come la descrizione di un piatto guidi la clientela di un qualsiasi esercizio di ristorazione verso la scelta di un prodotto tra le varie proposte. La ricerca è stata condotta con una serie di test sia online, sia sul campo principalmente in Gran Bretagna e negli Stati Uniti e sulla base dei risultati ha stilato un vademecum di come stilare un menu, soffermandosi su linguaggio ed aspetti da evitare e quelli a cui ricorrere per incoraggiare una dieta il più possibile a base vegetale e meno dannosa per l’ambiente. Sebbene veganismo e vegetarianismo siano ormai un po’ sulla bocca di tutti, non sono ancora ben radicati nella coscienza della popolazione mondiale, basti pensare ai dati Eurispes 2019 che stimano la popolazione italiana vegana al’1,9%, (un punto

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percentuale in più rispetto lo scorso anno), mentre quella vegetariana corrisponde al 5,4% degli italiani (in calo rispetto al 2018 dello 0,8%). Come mai? La ricerca di BBL spiega che coloro che non seguono un regime alimentare vegano o vegetariano è perché hanno un’idea distorta di essa: percepiscono i cibi vegetali poco soddisfacenti, poco gustosi e non sazianti, ritenendoli più che altro una privazione da scegliere una volta ogni tanto a scopo salutistico. Sappiamo però che il cibo vegetale non è unicamente broccoli al vapore e miglio bollito, ma è anche un piatto di pasta condito con uno sfizioso sugo al pomodoro, o aglio olio extravergine e peperoncino, una lasagna con un gustoso ragu vegetale, una calda ribollita toscana oppure delle goderecce patatine fritte che niente hanno a che vedere con la tristezza ed il non essere appaganti. Vediamo nel dettaglio cosa evitare e le strategie da attuare, secondo BBL, per implementare le vendite delle opzioni alimentari vegetali in un qualsiasi servizio di ristorazione, dal ristorante, alla gastronomia, al bar, ai semplici prodotti confezionati venduti al supermercato.

LE COSE DA NON FARE 1) Non indicare un piatto come “senza carne” Chi solitamente mangia carne, interpreta quel “senza” come un “meno”, una privazione. Scrivere “senza” fa scattare nella nostra mente una limitazione e l’evidenziarla tramite questo vocabolo “di negazione” si ottiene che chi normalmente mangia carne interpreta quel piatto vegetale come “mangio di meno, non mi sazio, spendo di più rispetto ad un piatto con la bistecca”.


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Alcuni test fatti dal BBL, grazie anche alla collaborazione della catena di supermercati brittannica Sainsbury’s, dimostrano che togliendo quel “senza carne”, le vendite dei cibi aumentano incredibilmente. In una caffetteria Sainsbury’s nella cittadina di Truro sono stati testati nel corso dei mesi nomi alternativi al piatto “Meat-Free Sausage and Mash” (Salsiccia senza carne con purè) arrivando a sostituirlo definitivamente con “CumberlandSpiced Veggie Sausage & Mash” (Salsiccia vegetale speziata alla Cumberland con purè) riscontrando un aumento delle vendite di questo piatto pari al 76% (tutti i risultati dei test sono fruibili sul sito del World Resource Institute www.wrs.org). E’ evidente che sottolineare che un piatto è senza carne, gioca a sfavore del commerciante, se l’obiettivo primario è proprio quello di attirare coloro che si nutrono principalmente di carne. 2) Non definire un piatto “vegan” Già nel 2011 uno studio sui giornali britannici rivelò che il 74 percento di 397 articoli contenenti la parola “vegan” descriveva l’alimentazione vegana come difficile o addirittura impossibile da mantenere e spesso associata a termini come restrittiva, modaiola, per hippie e deboli. Secondo Brandwatch, una delle principali società di analisi dei social media, da allora non è cambiato molto negli anni. Nel 2017, BBL ha commissionato proprio a Brandwatch la scansione di 15,4 milioni di post su Twitter, Instagram, blog e forum della Gran Bretagna e degli Stati Uniti che includevano riferimenti al cibo plant-based, vegan e vegetariano. Come risultato, il termine “vegan” aveva più del doppio delle probabilità di essere utilizzato in contesti negativi rispetto alla parola “plant-based”. Sembra che la parola “vegan” possa alienare le scelte dei consumatori, tanto da impedire ad una importante utenza di assaggiare la crescente

gamma di prodotti vegetali disponibili sul mercato, ma soprattutto di scoprire la buona cucina vegetale. Se quindi da un lato lo studio raccomanda di non utilizzare “vegan” per descrivere piatti a base vegetale, dall’altro consiglia di utilizzare un piccolo simbolo, come una foglia verde, all’interno dei menu al ristorante o sulle confezioni di prodotti di rivendita da banco nei supermercati, negozi o bar per indicare che è un alimento adatto ai vegani. 3) Non utilizzare neanche “vegetariano” Il risultato di uno studio del 2016 condotto dalla London School of Economics (LSE) dichiarò che chi mangia carne abitualmente avrà il 56% in meno di probabilità di ordinare un piatto vegetale se quest’ultimo viene inserito in un menu dedicato per vegetariani, di quando questo stesso piatto viene invece incluso in un menu neutro senza fare distinzioni tra piatti onnivori e piatti esclusivamente vegetali. Le diete vegetariane sono percepite con meno negatività rispetto a quelle vegane, vengono associate ad aspetti positivi, ma al contempo anche negativi dalla maggioranza degli onnivori. Positivamente, perché in generale la popolazione considera la dieta vegetariana sana e con meno grassi saturi ed associata ad un senso di benessere e pace che conduce ad un appagamento mentale generale. Al contempo è negativa, perché in molti la ritengono priva di proteine e ferro e conseguentemente squilibrata dal punto di vista nutrizionale. Inoltre è recepita come noiosa, insipida e non abbastanza gustosa e sappiamo che il gusto è un fattore determinante nelle scelte di acquisto dei consumatori. Oltre a tutto ciò, non sono da tralasciare gli stereotipi sui vegetariani, i quali nonostante vengano percepiti come persone virtuose, premurose ed amanti degli animali, sono al contempo connotati come


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deboli ed un onnivoro non vuole di certo far parte di stereotipi negativi. Inoltre molti uomini temono che una dieta vegetariana faccia regredire la loro mascolinità, rendendoli meno virili. Abbiamo però appurato che definire una dieta vegana come promotrice di scarsa virilità, sia solo una credenza obsoleta, frutto di marketing spietato dei colossi della carne. Tantomeno ci sono studi scientifici al riguardo, anzi ci sono ricerche che ne testimoniano il contrario ed è l’argomento trattato nel numero di Settembre 2019 su La Madia Travel Food, dedicato al film “The Game Changers” (regia di James Cameron) relativo agli studi scientifici effettuati su sportivi vegani di altissimo livello. 4) Non utilizzare vocaboli che identificano un alimento come sano Sempre secondo le ricerche di BBL definizioni come “Opzione salutare” oppure “a basso contenuto di grassi”, “con pochi zuccheri” o “a basso contenuto di sale” rendono un menu poco allettante. Questi termini vengono recepiti come vocaboli negativi, definiscono che qualcosa manca e quindi non è appagante e non è saporito. Un semplicissimo esperimento condotto ad una festa negli Stati Uniti, fu quello di servire il lassi al mango con due distinzioni: a metà degli ospiti venne offerto come “opzione salutare” della serata, mentre all’altra metà come “poco sana”. Il risultato del test fu che chi assaggiò il drink etichettato come “healthy” lo valutò come poco gradevole al 55%, rispetto a coloro i quali fu offerto lo stesso drink, ma etichettato come “unhealthy”. Se gli alimenti a base vegetale sono ancora considerati come “noiosi e insipidi”, evidenziarne i benefici per la salute attraverso un linguaggio di negazione non fa altro che renderli poco attraenti, conseguentemente si rischia di compilare un menu con delle proposte dallo scarso successo. Questa valutazione non è universale e può variare a seconda del paese ed addirittura a seconda del momento. Ad esempio in Francia, i prodotti “più sani” sono considerati più gustosi, oppure nella stessa America e Gran Bretagna, l’healthy lunch del lunedì è invece molto richiesto, probabilmente per “compensare” i bagordi enogastronomici del fine settimana.

LE COSE DA FARE 1) Evidenziare la provenienza di un piatto Puntare sulla provenienza di un alimento è una potente tattica per creare associazioni positive nella percezione del consumatore nei confronti di un dato prodotto. Lo conferma uno dei 18 ristoranti di Panera Bread di Los Angeles che ha rinominato il piatto “Low Fat Vegetarian Black Bean Soup” (Zuppa vegetariana di fagioli neri a basso contenuto di grassi) in “Cuban Black Bean Soup” (Zuppa cubana di fagioli neri), ottenendo un incre-

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mento delle vendite pari al 13 percento in più. Attraverso la sola lettura della provenienza del piatto, il consumatore viene stuzzicato dall’ordinare un piatto, piuttosto che un altro, perché ogni proposta evoca sapori e luoghi a cui è particolarmente legato, oppure vorrebbe visitare. Un altro esempio lo troviamo nella gastronomia dei supermercati Sainsbury’s: da “Meat-free Breakfast” si è passati a “Garden breakfast” e poi “Field Grown Breakfast” aumentando le vendite rispettivamente del 12 e del 17 percento. Includere la provenienza in termini propri dell’ambiente naturale in cui certi alimenti vengono coltivati o prodotti è sicuramente vantaggioso. Lo testimoniano persino diverse aziende di prodotti vegetali, il cui proprio nome del marchio prende vocaboli che sottolineano il legame dei loro prodotti con l’ambiente naturale (vedi Field Roast, Garden Gourmet, Sweet Earth e tanti altri ancora). Infine, rinominare il “Curry di patate e ceci” in “Estate indiana” ha comportato un aumento del 15% delle probabilità dichiarate dai consumatori di ordinare il piatto. Giocare con la strategia dell’origine di un piatto risulta efficace, perché crea dei forti legami tra le percezioni sensoriali ed immagini positive ed inoltre dona genuinità al prodotto stesso. 2) Mettere in risalto i sapori! Pensare ad un dato sapore ci fa venire l’acquolina in bocca, ce lo conferma uno studio dell’Università di Stanford che si è concentrata sui sapori nella descrizione di alcuni contorni vegetali come “Rich Buttery Roasted Sweet Corn” (Mais dolce arrosto con burro ricco) e “Zesty Ginger Turmeric Sweet Potatoes” (Patate dolci speziate alla curcuma e zenzero). Questi piatti descritti esaltandone il sapore sono stati scelti il 41 per cento in più rispetto a piatti preparati in maniera identica, ma inseriti nel menu come “opzione sana” e il 25 percento in più se inseriti in modo più neutro. Da quando il piatto “Chickpea and potato curry” (Curry di ceci e patate) è stato rinominato come “Mild and sweet chickpea and potato curry” (Curry delicato e dolce di ceci e patate) è stato ordinato il 108 per cento di volte in più. Esaltare i sapori con vocaboli che li contraddistinguano ponendo l’attenzione su quanto siano deliziosi e li distinguano da altri è una tattica di marketing potente che “stimola le papille” e rende invitanti i piatti proposti nel menu. Soffermiamoci dunque su ingredienti saporiti, metodi di cottura che ne potenziano il sapore e particolari accostamenti di aromi per aumentare l’appetibilità sensoriale. 3) Enfatizzare aspetto e consistenza di un cibo Porre attenzione alle caratteristiche come il sapore, l’aspetto e la consistenza intesa come sensazione che avrà un cibo in bocca influenza notevolmente le preferenze dei commensali. Gli alimenti vegetali sono potenti proprio perché racchiudono tutte


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e tre le caratteristiche: sono molto colorati, più di quelli a base di latte, carne e pesce e ogni colore rimanda all’idea di un dato sapore. Proprio il colore è stato individuato come il più grande indizio interpretato dalla mente per determinare le aspettative sul sapore di un determinato cibo. Prendiamo ad esempio una “Rainbow Salad”, essa crea già di per sé un’aspettativa di un piatto fresco, vivace e ricco di sapore. La sensazione che si avrà mordendo un alimento è fondamentale, è diversa dal sapore, è più inerente alla consistenza ed alla sensazione che ne scaturisce durante la masticazione. Sempre dalla ricerca BBL, ribattezzare “Gnocchi with mushroom, fresh spinach and Parmesan sauce”(Gnocchi con funghi, spinaci freschi e salsa di parmigiano) in “Melt in the mouth gnocchi with mushroom, fresh spinach and creamy Parmesan sauce” (Fondente di gnocchi ai funghi, spinaci freschi e cremoso al parmigiano) ha generato un aumento del 14 percento di probabilità dichiarata dai consumatori di ordinare il piatto. L’utilizzo di un linguaggio più stuzzicante relativo alla sensazione che si percepirà durante la masticazione come “si scioglie in bocca”, “cremoso”, “caldo”, “croccante”, “spumoso”, “soffice” etc… associato per lo più a cibi ricchi di grassi, viene accolto molto positivamente dai consumatori, permettendogli di superare quei pregiudizi secondo cui l’alimentazione vegetale è poco varia, gratificante e saporita. La psicologia dietro questa ricerca è a dir poco affascinante. Il cibo definisce noi e le nostre culture. Fa parte della nostra cultura. Il cibo è un modo per socializzare e comunicare, forma la nostra identità sociale e determina la formazione di schieramenti e gruppi affini, con visioni e modelli simili che naturalmente allontanano i dissimili che, in questo caso specifico, corrispondono alle scelte vegane, perché non rientrano nelle tradizioni culturali. Un linguaggio negativo o che viene recepito come tale ( “senza”, “a basso contenuto di”, “con pochi grassi”, etc…) scaturisce il voler evitare di ordinare un piatto per paura di perdersi qualcosa nel momento in cui lo si sceglie. Definire qualcosa su come non sarà, limita la capacità del cervello ad immaginare in maniera positiva il sapore di un alimento. Il pubblico tradizionale onnivoro è fortemente ancorato alla propria formazione sociale, è quindi necessario sviluppare un nuovo linguaggio che eluda queste differenze “noi(onnivori)-loro(vegani)” e che non precluda la scelta dei piatti vegetali solo ai vegani, ma che si ampli a tutti.

Chef Max Noacco Ristorante Al Tiglio cucina naturale - Moruzzo (UD)

RITORNO DAL BOSCO INGREDIENTI per 2 persone

g. 250 g di funghi shiitake freschi, 1 spicchio d’aglio, prezzemolo, sale, olio evo.

Per la salsa di porcini: g. 30 di funghi porcini secchi, g. 100 di

panna di riso, 1/4 di cipolla, 1 spicchio d’aglio, prezzemolo, sale, olio evo.

Per guarnire: cacao in polvere, fave di cacao in scaglie, riso soffiato, prezzemolo riccio, prezzemolo comune, semi di papavero. PREPARAZIONE

Per la salsa di porcini: ammollare i funghi in acqua tiepida per 30 minuti, scolarli, strizzarli e saltarli in padella con olio evo, cipolla

affettata, aglio e sale; lasciare raffreddare e passare nel mixer aggiungendo la panna e un pò di prezzemolo. Tenere da parte.

Tagliare grossolanamente i funghi shiitake e saltarli in padella con gli altri ingredienti.

Usufruendo di un coppapasta di forma quadra di cm. 12x12, stendere qualche millimetro di crema sul piatto, spolverizzare di cacao

in polvere, sistemare gli shiitake sopra di essa e scorpargere con i

semi di papavero, le scaglie di fave di cacao e il riso soffiato. Sistemare qualche ciuffo di prezzemolo riccio e comune qua e là.

© Roberto Casasola

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a cura di Lorenzo Ferrari Direttore Marketing di RistoratoreTop

ABITUDINI ALIMENTARI ED IMMIGRAZIONE: C’È IL NESSO Per aumentare la consapevolezza di chiunque lavori nel campo della ristorazione, è importante conoscere al meglio il mercato in cui si opera. Per fare ciò, uno dei tanti parametri da tenere sotto controllo riguarda i flussi di immigrazione ed emigrazione. Questi sono, infatti, direttamente e indirettamente responsabili della creazione di nuove abitudini alimentari, di un nuovo modo di consumare e della scomparsa di alcuni usi e tradizioni. Il numero degli stranieri in Italia è sempre andato aumentando dal 2007 ad oggi. All’inizio del 2018, gli stranieri in Italia erano 5.144.440, pari al 8,5% della popolazione totale.

La curva della distribuzione delle età - a differenza di quella relativa alla popolazione totale - è parecchio schiacciata verso sinistra, a conferma della presenza più importante di stranieri giovani e giovanissimi in Italia, come conferma un’analisi prodotta da Osservatorio Ristorazione, lo stesso Osservatorio che ha prodotto gli altri dati presenti in questo articolo.

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La comunità straniera più numerosa è quella proveniente dalla Romania con il 23,2% di tutti gli stranieri presenti sul territorio, seguita dall’Albania (8,9%) e dal Marocco (8,3%). Chi scrive non crede sia un caso che, negli ultimi decenni, si sia visto un’impennata delle aperture dei locali cosiddetti “etnici”, cioè condotti da stranieri. Secondo una ricerca della Camera di Commercio Monza Brianza e Lodi i dati parlano chiaro: è un boom per la ristorazione «etnica», con un +40% in 5 anni. A fine 2017 erano 22.608 le imprese di ristorazione condotte da stranieri in Italia (su un totale di 333.647, quindi il 6,78%) per un totale di 667.735 addetti impiegati nel settore, e il trend non accenna a diminuire.

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Ma non c’è da considerare solamente una immigrazione dall’estero verso l’Italia, ma anche quella interna, in particolar modo dal Sud al Nord. Nell’ultimo ventennio il Mezzogiorno ha perso 1 milione e 113 mila di abitanti - come se l’intera popolazione di Napoli si fosse trasferita al nord. Nei 7 anni della crisi (dal 2008 al 2015) il saldo migratorio netto è stato di 653mila unità: 478mila giovani di cui 133mila laureati. Un trend che alcuni hanno cavalcato, anche nel mondo della ristorazione. Si pensi a SlowSud, locale milanese che ha saputo cavalcare la nostalgia dei migranti al nord e farli sentire sempre a casa, come al sud, proponendo specialità tipiche del Sud Italia e promuovendo la cultura del “terrone” (parole loro!). Questi (e tanti altri) fattori hanno portato a quello che abbiamo più volte definito come il “cambio di abitudini alimentari più grande dal dopoguerra”, anche sulle pagine di questa prestigiosa rivista. Una delle principali conseguenze di ciò che abbiamo visto è il cambio di abitudini alimentari dell’Italiano, IN e FUORI casa.

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Il pasto tradizionale italiano, che era composto da 4 portate (antipasto, primo piatto, secondo piatto con contorno, dessert) sia IN casa che FUORI casa, sta venendo sostituito da un pasto composto prevalentemente da due, massimo tre piatti (starter, main dish, dessert) dall’impronta internazionale. Si pensi alle Hamburgerie, un fenomeno nazionale che ha cavalcato in pieno questo cambio di abitudini, e nelle quali il pasto era composto da un antipasto, magari condiviso, un piatto principale (l’hamburger) e un dessert, in taluni casi. Si pensi al recente successo delle pizzerie, in tutte le declinazioni: non crediamo sia un caso che il pasto in pizzeria combaci con quello che è il trend imperante nel nostro settore. E così la maggior parte dei locali “etnici”, che propongono una formula enogastronomica che, quando non ruota attorno alla condivisione, lo fa attorno alle tre portate, ormai diventate la prassi in tutta Italia. Insomma, il futuro si preannuncia sempre meno “tradizionale”, almeno per quanto riguarda il numero delle portate.



a cura di Antonietta Mazzeo Tecnico ed Esperto degli Oli d’Oliva Vergini ed Extravergini

OLIO EXTRAVERGINE DI OLIVA GARDA DOP «Suso in Italia bella giace un laco, a piè de l’Alpe che serra Lamagna sovra Tiralli, c’ha nome Benaco.» (Dante Alighieri, Inferno, Canto XX[3][4]) Il Lago di Garda ha il respiro di un piccolo mare, piacevolmente stretto com’è tra le Alpi e la Pianura Padana; chiamato anche Benàco (dal latino Benacus), è il maggiore lago italiano. Il clima assai mite permette non solo la crescita di una vegetazione “mediterranea”, ma rende il lago di Garda anche un’amata meta turistica internazionale. Le colline gardesane discendono dolcemente verso il lago, ma sanno trasformarsi in montagna vera nel giro di pochi chilometri, in uno scenario dove predomina il binomio agrario olivo-vite, che si avvicenda a spazi erbosi. La coltura dell’olivo sul lago di Garda può sembrare una “contraddizione agricola”, considerato che gli olivi crescono in una zona molto più a nord rispetto ai valori climatici dell’area definita come vocata all’agricoltura mediterranea. Le piante si sviluppano infatti ad una altitudine che si allontana dai parametri pedoclimatici che delimitano geograficamente la coltura “ideale”, di solito estesa fra il 30° ed il 45° parallelo nord , ma la coltivazione degli olivi nella zona del Lago di Garda è storicamente documentata da secoli

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e già nel Medioevo l’olio che qui si produceva si distingueva per la qualità e per l’alto valore economico. In epoca rinascimentale e moderna fu poi disegnato il paesaggio agrario con pendii e terrazze che, dal 1968, resero la zona riconoscibile e famosa come “Riviera degli Olivi”. Oggi le aziende che si dedicano a questa produzione punteggiano il territorio del lago, rendendolo unico per bellezza ed armonia; gli olivi sono piantati prevalentemente su terreni collinari che si riscaldano facilmente a fine inverno, favorendo la rapida ripresa dello stato vegetativo. Le piogge, ben distribuite durante tutto l’anno, salvaguardano gli olivi da stress idrici ed evitano il formarsi di ristagni che sarebbero dannosi sia alla pianta, sia alla qualità dell’olio. Da questo particolare connubio di ambiente e clima nascono le peculiarità dell’olio Garda DOP, che lo rendono unico e facilmente riconoscibile tra gli altri oli italiani DOP. Nelle diverse zone attorno al Lago di Garda sono presenti particolari e microclimi che danno vita a differenze organolettiche nel prodotto finale, molto apprezzate dai consumatori. I produttori sono suddivisi su quattro province, Verona, Brescia, Mantova e Trento. Le cultivar più diffuse sono Casaliva, Frantoio e Leccino e il disciplinare di


produzione ne stabilisce le diverse percentuali per la denominazione DOP nelle tre sottozone: OLIO GARDA DOP GARDA BRESCIANO DOP Casaliva, Frantoio, Leccino ≥ 55% GARDA ORIENTALE DOP Casaliva, Frantoio, Leccino ≥ 55% GARDA TRENTINO DOP Casaliva, Frantoio, Leccino, Pendolino ≥ 80%

LE CARATTERISTICHE DELL’OLIO GARDA DOP Colore: dal verde al giallo più o meno intensi Profumi: fruttato medio o leggero Gusto: fruttato di erba fresca, foglia di pomodoro, in chiusura la dolcezza della mandorla, nel caso in cui il colore tenda al giallo i sentori saranno più maturi; fieno, pomodoro, mela matura che accentueranno le note dolci e morbide. Tutte le sfumature dipendono da molteplici fattori: zona di provenienza delle olive, cultivar, grado di maturazione (invaiatura) tempo e temperature della molitura... ed altri importanti passaggi non trascurabili per un bravo frantoiano ed agronomo, perché un buon extravergine nasce in campagna, in frantoio si possono ottenere eccellenze oppure rovinare un meraviglioso raccolto.

L’olio Garda DOP in cucina è versatile, buono sia crudo che in cottura. Con la sua leggerezza si abbina a molti piatti e ricette a base di pesce di lago, ma anche a carni, carpacci carne salada, pinzimoni, verdure cotte e crude, bruschette e a formaggi magri o stracchino. Eccellente per preparare dolci, abbinato al cioccolato, per sorbetti e gelato. Nel 1997 l’olio extra vergine di oliva Garda ha ottenuto dall’unione europea il riconoscimento di Denominazione di Origine Protetta; oggi l’olio DOP Garda è tra le prime cinque realtà produttive olivicole italiane DOP. La certificazione è resa evidente sulla bottiglia da un particolare contrassegno numerato che permette di risalire all’origine del prodotto, assicurandone la qualità e la tipicità. Il consorzio, presieduto da Laura Turri, riunisce gli olivicoltori, i molitori e i confezionatori che operano all’interno della zona di produzione Garda D.O.P. Oltre ai compiti assegnatigli dal riconoscimento ministeriale, il consorzio assiste i propri soci olivicoltori frantoiani e imbottigliatori fornendo formazione e assistenza tecnica, recuperando e incentivando l’olivicoltura nella convinzione che questa forma secolare di coltivazione sia necessaria per mantenere la biodiversità del territorio gardesano. Se è vero che il turismo è un fattore importante e consolidato del lago di Garda, l’olio rappresenta un’occasione alternativa per visitare l’entroterra del Garda attraverso uno dei suoi prodotti simbolo, a conferma che cultura significa estendere un progetto al di là della spremitura e dell’imbottigliamento, significa conoscere e preservare l’ambiente, tramandare un sistema di produzione, valorizzare l’olio non solo come prodotto ma anche come paesaggio, che non si limita al lago ma anche al suo entroterra, tra storia e archeologia.




Golavagando

NELL’ARETINO

TERRAMIRA PORTA NOVITÀ NELL’OFFERTA LOCALE di

Maria Chiara Zucchi

Nel panorama non troppo vivace della ristorazione aretina, si affaccia una novità interessante: lo è sia per la sua splendida collocazione – nel suggestivo borgo di Capolona, sotto gli archi di un ponte storico, con affaccio sulle rive dell’Arno – sia per il potenziale della giovane brigata i cui componenti possono esibire collaborazioni professionali di tutto rispetto. Preparazione, entusiasmo, passione e studio potrebbero infatti costituire il viatico per portare una ventata di freschezza e nuovi contenuti nello scenario dell’offerta locale, con risultati che sembrano positivi già dai primi passi dell’attività (il bel locale, dotato di ampie vetrate, è aperto da una decina di mesi): il pubblico apprezza il tipo di offerta e comincia a fidelizzarsi. Portavoce del cambiamento sono Filippo e Lorenzo Scapecchi, il primo chef con esperienze in locali come Arnolfo, Bracali, Vespasia, Trussardi alla Scala, la Bottega (Ginevra), l’altro ex sommelier (miglior sommelier Toscana AIS 2014) del Four Seasons e Ora d’Aria. Insieme decidono di mettere in campo le conoscenze acquisite negli anni e di dar vita ad un progetto che potesse esprimere appieno la loro idea di ristorazione: valorizzazione dei prodotti del territorio, un ritorno alle origini ma con un pizzico di innovazione, sempre nel rispetto della materia prima. Un lavoro basato sulla manualità e la conoscenza del prodotto.

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Terramira

Ne sono una prova le mazzancolle, animelle di vitello, gambero rosso crudo, zenzero, cetrioli e yogurt greco, dove i crostacei rendono più intrigante l’approccio con le animelle cotte in olio e glassate nel fondo bruno di vitello, o il risotto allo zafferano, pecorino di fossa, lime e briciole di cipolla rossa, che rispolvera un classico sempre in voga. Il piccione: petto e patè con ciliegie, pinoli e pan brioche e l’agnello del Casentino: cubo di coscia e spalla confit, costoletta arrosto, pancia in porchetta, fegatello, fagioli zolfini e peperoni arrosto riportano al concetto di utilizzo correlato delle varie parti della materia prima, le cui diverse cotture consentono una piacevole fruizione sistemica dell’intero prodotto. I dolci come il tartufo di semifreddo alle nocciole, cioccolato fondente e tè matcha e la patata dolce, yogurt di pecora e pepe di Timut sono il

MAZZANCOLLE ANIMELLE DI VITELLO, ZENZERO, CETRIOLI E YOGURT GRECO INGREDIENTI per 4 persone

Per le animelle di vitello: g. 500 di animelle vitello, 2 spicchi d’aglio, g. 5 di pepe

nero in grani, 1 foglia di alloro, 2 foglie di salvia, g. 200 di aceto di vino bianco, g. 200 di vino bianco, g. 200 di fondo bruno di vitello.

Per lo zazziki: g. 100 di yogurt greco, g. 50 di cetrioli grattugiati, g. 2 di aglio grattugiato, sale, olio, pepe q.b.

Per le mazzancolle: 12 mazzancolle grandi, zenzero in agrodolce, pane cuscino, 1 cetriolo lungo, foglie di viola mammola. PREPARAZIONE

Per le animelle: lavare sotto acqua corrente le animelle per circa 30 minuti. Met-

tere in una pentola sul fuoco 3 litri di acqua e, raggiunta l’ebollizione, aggiungere aceto, vino bianco, aglio, pepe e alloro. Immergere le animelle. Cuocere per circa

15 minuti. Scolare le animelle e raffreddarle. Con l’aiuto di un coltello eliminare tutte le pellicine e le parti callose delle animelle, tagliarle in pezzi uguali e rosolare

in padella con aglio, olio e salvia. Una volta dorate, asciugarle dall’olio in eccesso e glassarle nel fondo bruno di vitello. Tenere in caldo.

Per lo zazziki: strizzare bene il cetriolo grattugiato per eliminare l’acqua di vegetazione e mescolare con il resto degli ingredienti dello zazziki. Aggiustare con sale e pepe.

Per le mazzancolle: sgusciare le mazzancolle ed eliminare l’intestino, rosolarle su ambo i lati in una padella con olio; salare e pepare. Tenere in caldo.

Per il cetriolo lungo: tagliare a fettine il cetriolo e, con l’aiuto di un coppapasta, ricavare dei cerchi di varie dimensioni.

Composizione del piatto: disporre 4 pezzi di animella glassata sul piatto, posizio-

narvi accanto 4 piccole noci di zazziki e sopra di esse appoggiare 3 mazzancolle; guarnire con zenzero in agrodolce, cerchi di cetriolo, pane cuscino e fiori di viola mammola.

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RISOTTO ALLO ZAFFERANO PECORINO DI FOSSA, LIME E BRICIOLE DI CIPOLLA ROSSA INGREDIENTI per 2 persone

g. 140 di riso carnaroli riserva San Massimo, g. 1 di zafferano, 1 lime, g. 300 di

cipolla rossa, g. 20 di burro, g. 100 di pecorino di fossa, g. 50 di latte, g. 25 di panna.

PREPARAZIONE

Per la cipolla rossa: tagliare finemente la cipolla rossa ed essiccarla a 65°C in formo o essiccatore fino a quando non risulterà croccante. Tritare con il coltello per ottenere le briciole.

Per la fonduta di pecorino: portare a ebollizione il latte e la panna, versare sul pecorino di fossa precedentemente grattugiato, frullare il tutto e passare al colino fine.

Tostare a secco il riso, bagnare con acqua, aggiungere lo zafferano e portare a cot-

tura. Mantecare il riso con burro, succo di lime e un cucchiaio di pecorino di fossa

grattugiato. Disporre il riso su due piatti da portata, appiattirlo, versarvi sopra la fonduta di pecorino di fossa, grattugiare la scorza di lime fresca e spolverare con le briciole di cipolla rossa.

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frutto di un lavoro di squadra, ma riconducono agli insegnamenti che Lorenzo Iannone, ora capopartita ai primi, ha assorbito da Iginio Massari. La sala è condotta da Lorenzo e Leonardo Lazzerini in maniera precisa, dinamica e professionale. La carta dei vini vanta circa 400 etichette, dove è possibile trovare i grandi rossi toscani e una selezione dei più grandi vini italiani ed esteri, insieme a piccole realtà minuziosamente selezionate. La lista di distillati elenca etichette provenienti da tutto il mondo.


Terramira

LO STAFF Filippo Scapecchi Chef- Patron Lorenzo Scapecchi Sommelier - Patron Leonardo Lazzerini Maitre Mattia della Gatta Capo partita Lorenzo Iannone Capo partita

TARTUFO DI SEMIFREDDO ALLE NOCCIOLE, CIOCCOLATO FONDENTE E TÈ MATCHA INGREDIENTI per 4 persone

g. 5 di farina di mandorle, g. 15 di cacao.

meringa italiana, g. 100 di crema di

fino ad ottenere un panetto uniforme.

g. 250 di panna montata, g. 125 di nocciole.

Per la meringa italiana: g. 100 di albume, g. 150 di zucchero, g. 50 di acqua, g. 10 di destrosio.

RISTORANTE TERRAMIRA

Montare gli albumi con il destrosio,

Tel. 0575 420989

chero e versare sugli albumi in planeta-

Piazza Della Vittoria, 13 - Capolona (AR) www.terramira.it

portarli a 121°C in acqua con lo zucria continuando a montare fino al completo raffreddamento del prodotto.

Per la crema di nocciole: g. 50 di pasta di nocciola pura, g. 25 di zucchero, g. 20 di destrosio, g. 30 di acqua.

Portare a ebollizione lo zucchero, de-

strosio e acqua e versare sulla pasta di

nocciole, mescolare con una frusta e raffreddare.

Per il semifreddo: mescolare delicamenti con una frusta la crema di noc-

ciola con la meringa cotta e alla fine

Mescolare con le mani gli ingredienti

Riporre in frigorifero. Dopo circa un ora

grattugiare su una teglia e infornare a 170°C per 10 minuti.

Per il cremoso al cioccolato fondente:

g. 50 di cioccolato fondente, g. 150 di crema inglese classica.

Fondere a bagnomaria il cioccolato e

versarvi la crema inglese calda sopra, emulsionare con il mini-pimer e far riposare per una notte in frigo.

Per la spugna al tè matcha: 3 uova, g. 40

di farina 00, g. 5 di tè matcha, g. 25 di zucchero.

Frullare tutti gli ingredienti con il minipimer, inserire nel sifone e caricare con

2 cariche. Riempire dei bicchieri di pla-

stica e cuocere in microonde per 20 secondi alla massima potenza.

incorporare con la panna montata.

PREPARAZIONE

modellarli con le mani. Passarli nel ca-

colato fondente, coprire con il crum-

Abbattere a -18°C, tagliare i tartufi e cao e riporli in freezer.

Per il crumble al cacao: g. 50 di farina 0, g. 50 di burro, g. 50 di zucchero di canna,

Disporre nel piatto il cremoso di ciocble, appoggiare il tartufo e decorare con nocciole sabbiate, spugna di te matcha e polvere di té matcha.

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NEL PESARESE

LOCANDA MONTELIPPO L’IDENTITÀ LOCALE COINCIDE CON LA PROFESSIONALITÀ di foto di

Alessia Pellegrini Giovanni Mastropasqua

Il paradiso esiste e non è neppure così fuori rotta: si trova a Colbordolo, a pochi passi dalle città di Pesaro e Urbino, ed ha il nome di Locanda Montelippo. Il patchwork giocoso delle colline marchigiane, una grande casa in pietra, alberi e ulivi, cespugli di piccoli frutti, animali e ottimo cibo. Il ristorante dell’agriturismo propone una cucina “domestica” e “familiare” nel sentimento: la maggior parte dei prodotti arriva dall’azienda agricola e dall’orto. La famiglia Aiudi gestisce l’agriturismo con lo spirito antico della Locanda: accoglienza autentica, senza false pose. Domestica, familiare e sostenibile nel senso più proprio del termine, perché qui la natura viene rispettata e assecondata nei suoi giusti tempi. Ingredienti freschi di giornata esaltati nella loro naturalità, paste fresche tirate a mano, pane cotto nel forno a legna e dolci di produzione propria.

LA STORIA Questo è un luogo in cui si viene e si va, si mangia e si dorme, si sosta, ci si ristora, si lascia. E poi ci si ritorna. Andrea Aiudi, chef patron della cucina di Locanda Montelippo, classe ‘71, ha due vite da raccontare, perché si perde il conto dei viaggi, dei Paesi e dei continenti che ha attraversato per amore della cucina. Un amore che è stato un crescendo:

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PASSATELLI CON CECI GOLETTA E ROSMARINO INGREDIENTI per 4 persone

Scolare i ceci che sono stati in am-

tato, g. 200 di parmigiano reggiano

una pentola, aggiungere il rametto

Per i passatelli: g. 200 di pangratgrattugiato, 5 uova, scorza di mezzo limone, sale fino q.b., 1 abbondante grattugiata di noce moscata.

Porre il pangrattato a fontana e rom-

pere al centro della buca le uova; aggiungere il parmigiano, una grattata di noce moscata, la scorza del

limone, sale e pepe. Amalgamare con le mani gli ingredienti fino a far raggiungere all’impasto una certa

compattezza. Far riposare l’impasto circa 2 ore, così i passatelli divente-

ranno più duri e non si disferanno durante la cottura. Passare l’impasto a tocchetti col ferro o nello schiac-

ciapatate, tagliarli e lasciarli cadere in un piatto o vassoio infarinato.

si iscrive alla scuola alberghiera di Pesaro e ha un paio di esperienze in ristoranti della zona, “Il Duomo” e “Da Lorenzo”, ma la scintilla scoppia a Londra: il “Toto’s Restaurant” e lo Chef Paolo Simeoni lo convincono che questa è la strada da percorrere. Grandi esperienze, grandi cucine, soprattutto cucine di hotel a cinque stelle, in Italia, in Spagna, in Messico, a San Francisco e, mentre è impegnato in un’apertura a New York per la catena alberghiera InterContinental Hotels Group, lascia tutto e parte per la Romania. Qui sente che ha bisogno di qualcosa di suo, che vuole fermarsi e tornare a casa. Viene convinto definitivamente da sua sorella Alice con l’aiuto tenace della sua famiglia. Il sogno da coronare è quello di “tornare alla terra”, fare di Locanda Montelippo un autentico punto di riferimento della ristorazione del territorio. Nel 2008 partono con la ristrutturazione di “Casino Montelippo” che nel 2011 diventa finalmente la Locanda che conosciamo oggi. Il progetto enogastronomico e ricettivo raccoglie tutta la famiglia: la cucina è nelle mani di Andrea, mentre l’accoglienza in sala e dell’albergo sono curate da Alice. L’azienda agricola, l’orto, gli animali sono curati da mamma Ivana e papà Giuliano, sempre sotto l’attenta supervisione dei figli.

Per la salsa con i ceci, la goletta e il rosmarino: g. 100 di ceci secchi (ammollarli per una notte), g. 120

di goletta o guanciale, 1 rametto di rosmarino.

mollo tutta la notte e trasferirli in

di rosmarino, coprirli con abbondante acqua e cuocerli per circa 2

ore. Raccogliere i ceci lessati in una ciotola, con parte del loro sughetto di cottura. Assaggiarli, se necessario aggiustate di sale, e passarli con

un frullatore ad immersione. Non

dovremo aggiungere altro, la crema di ceci è pronta.

Mettere in una casseruola la goletta

tagliata a listarelle, senza aggiunta di olio (rilascerà il suo grasso) e fare soffriggere fino quando diventerà

croccante; toglierla e metterla su un piatto (solo la goletta, lasciando

il suo grasso sulla pentola). Aggiungere la crema di ceci ottenuta in

precedenza nella pentola e insa-

porire il tutto. Cuocere i passatelli in acqua abbondate e salata (dovranno solo venire a galla, sarà ve-

locissimo) e spadellarli con la salsa.

Concludere il piatto con la goletta croccante, un filo d’olio e del rosmarino tritato.

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L’AMBIENTE Lo stile rustico del ristorante fa pendant con la sincera cordialità di tutta la famiglia, ma l’eleganza dei modi e la cura dei particolari si ritrovano tutte quando ci si siede a tavola. La sensazione che si percepisce è di protezione e accoglimento. D’estate ci si siede sotto la tettoia dove il legno e la pietra fanno da cornice al panorama mozzafiato. D’inverno l’atmosfera è ancora più calda: l’abbraccio delle pareti in mattoni, il caminetto acceso, pochi mobili incassati nelle pareti e bottiglie, riviste e libri sempre presenti. I tavoli si presentano apparecchiati ora in modo tipicamente campagnolo con la tovaglia a quadretti rossi e qualche ramo vegetale, ora con disegni semplici in stile provenzale. Luci basse, calde, soffuse, complici. L’ambiente è di fascino ed estremamente rilassante.

VELLUTATA DI CICERCHIA DI SERRA DEI CONTI CON TARTUFO NERO ESTIVO INGREDIENTI per 4 persone

g. 400 di cicerchia (da mettere a mollo per 24 ore cambiando l’acqua abbastanza spesso), 3 cucchiai di olio extravergine, 1 cipolla, 1 carota, 1 costa di

sedano, 1 rametto di rosmarino, sale q.b., crostini a piacere per accompa-

COSA MANGIARE La cucina che viene proposta è una cucina volutamente classica ma pur sempre “tecnica” che preferisce la semplicità dei prodotti freschi di giornata e le erbe aromatiche; papà Giuliano torna dall’orto con il cestino e Andrea decide cosa cucinare di buono. La maggior parte dei prodotti arriva direttamente dall’azienda: l’orto e i piccoli frutti vengono lavorati con metodi naturali perché ogni ingrediente sia buono e sano. Nel grande forno a legna viene preparato il pane con farine di grani antichi e lievito madre, le paste fresche vengono tirate con il mattarello, i salumi, i formaggi e le ricotte, arrivano da aziende del territorio, olio di casa. Anche in cantina si privilegia l’intorno e troverete vini da produzioni locali. Cosa mangiare? In un percorso a “canovaccio”, la tartare di manzo ai frutti di bosco, il passatello con la crema di ceci, goletta e rosmarino, lo stinco di maiale brasato e la panna cotta ai frutti di bosco. AGRITURISMO LOCANDA MONTELIPPO

Via Canarecchia, 29/31 - Colbordolo (PU) www.montelippo.it

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gnare, g. 30 di tartufo nero estivo. PROCEDIMENTO

Almeno un giorno prima è importante mettere la cicerchia a mollo in abbon-

dante acqua, avendo la premura di cambiarla abbastanza spesso, risciac-

quando così il legume. Scolare la cicerchia e lessarla in abbondante acqua

leggermente salata per un’ora. Scolare nuovamente. Nel frattempo, tritare finemente sedano, carota, cipolla e rosmarino.

Scaldare a fuoco basso l’olio in una pentola antiaderente, poi aggiungere il

trito e lasciarlo dorare lentamente. Unire la cicerchia scolata e farla insaporire per qualche minuto. Ora irrorare la zuppa con acqua fino a coprire i legumi e cuocere per una ventina di minuti in modo che acquisisca bene i sapori.

Passato il tempo di cottura, frullare con un mixer a immersione aggiungendo acqua fino ad ottenere la consistenza desiderata.

Servire con crostini o pane tostato e un filo di olio buono in superficie e una grattugiata di tartufo nero fresco.


A TORINO NASCE IL CONCEPT

L’EDICOLA

L’antico quartiere Aurora, le cui prime tracce risalgono al tardo medioevo, e che deve il suo nome all’antica Cascina Aurora (oggi Casa Aurora), è storicamente uno dei quartieri più popolari di Torino. E’ in questo contesto che il civico 25/D di Via Bologna, per molti anni, ha ospitato un’edicola, luogo di passaggio, di storie, di intrecci e, se vogliamo, anche di scambio. Uno scorrere di vita che non vuole essere interrotto e che è il trait d’union che hanno trovato Marta Cattaneo e Andrea Zalone, noto attore ed autore torinese, quando hanno deciso di cooperare e far nascere il concept L’Edicola. L’Edicola è un luogo informale in cui poter fare un pranzo veloce, una break pomeridiano o un aperitivo serale. Un locale accogliente, ricavato proprio dalla vecchia edicola, dove trascorrere del buon tempo, leggendo, ascoltando musica, degustando piatti e vini di qualità. La cucina, ispirata alla tradizione italiana, è fatta di piatti con ricette semplici e una particolare attenzione alla provenienza delle materie prime. Il menù propone antipasti, due primi e due secondi e la possibilità di ordinare la porzione intera o la mezza porzione. Le specialità della casa sono i frittini e le tapas. Il concept de L’Edicola offre tanto altro: sono previsti corsi, dibattiti, incontri musicali e presentazioni di libri. E poi ancora esposizioni di artisti e fotografi e un’accurata selezione musicale. L’EDICOLA

Via Bologna, 25/d - Torino - Tel. 011 020 5733 www.ledicolaviabologna.it

PIZZERIA PARTENOPEA A MILANO, LA PIZZA SECONDO NICO CARLEO Alla Pizzeria Partenopea l’attenzione parte dalla farina: tutte le pizze nascono da farina tipo 1 di grano tenero 100%, italiano e macinato a pietra, contenente tutte le parti del chicco in modo da mantenere inalterate le sue proprietà alimentari. L’impasto base viene creato quotidianamente, lievitato fino a 72 ore per rendere la pizza leggera digeribile. Emblema della qualità è la presenza delle “caverne”, che scavano il cornicione pronunciato della pizza e danno quella sensazione di assaporare una nuvola di gusto. Sulla pizza, gli ingredienti scelti sono di prima qualità, come pomodorini gialli (o rossi) di Piennolo, mozzarella di bufala di Aversa (o Battipaglia), alici e tonno di Cetara, ricotta di Agerola, verdure fresche di stagione o la parmigiana, creata per omaggiare la tradizione di uno dei piatti più caratteristici: la parmigiana di melanzane secondo la ricetta originale, adagiata sulla pizza per un’esplosione di sapori della nonna, sapori di casa. PIZZERIA PARTENOPEA

Via dei Transiti, 2 - Milano Tel. 02 2614 3477

www.pizzeriapartenopea.it

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RISTORANTE

VATTELAPESCA IL MARE IN VALLE D’ITRIA di

Alessia Pellegrini Ezio D’Onghia

foto di

Il ristorante Vattelapesca è la rivoluzione delle piccole cose fatte con intelligenza e sensibilità, senza bandiere o inutili proclami. Lo gestiscono tre simpatiche e preparate cinquantenni a Cisternino, nella Valle d’Itria: una piacevole novità, l’alternativa del mare e del pesce dove la carne impera. Il menù offre piatti di pesce freschissimo dal carattere originale: ritroviamo i prodotti tradizionali del territorio in una deliziosa sorpresa di gusto elegante. L’ambiente è conviviale e l’atmosfera è aperta e gioiosa come dire “bella la vita e bello il piacere di mangiare e bere bene”.

LA STORIA Vattelapesca è un progetto umano e gastronomico che riempie davvero il cuore di allegria ed entusiasmo perché Maddalena, Beatrice e Annamaria lo sanno: bisogna smettere di sognare e cominciare a farlo! Maddalena Veneziani e Beatrice Germinario sono amiche da un pezzo, amiche con la luce dentro, quel genere di amiche che sanno restare, anche quando le esperienze di vita o la distanza geografica allontanano un poco. Un legame profondo e senza nodi, libere e pazze di vita, dicono e fanno, si lanciano nel tempo senza paracadute. Sono due che ci provano e che mettono

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in conto di non riuscirci, ma non si fermano e ci sono riuscite. L’idea è stata quella di portare il mare e la buona cucina di pesce a Cisternino, proprio là dove la protagonista della ristorazione è la carne, così da arricchire il tessuto dell’offerta e dare la possibilità alle persone che frequentano la Valle d’Itria di scegliere tra cose diverse. Maddalena conosce bene il territorio, lo frequenta da sempre e nel locale ha portato tutta la sua esperienza nella gestione di bar e ristoranti; Beatrice si occupa del marketing, degli eventi e di tutto quello che ruota intorno al vino. A completare la triade è Annamar a Verri, la regina della cucina: lei mette insieme saperi diversi, l’esperienza in catering domestico, la conoscenza della tradizione, la cultura dell’aperitivo e delle piccole porzioni. A Vattelapesca non si vogliono riempire le pance tanto da non poterne più ma deliziare il gusto, con la giusta misura e il giusto equilibrio. Vi si trova una cucina buona e sana di pesce fresco che incontra gli ingredienti poveri della tradizione locale; i piatti - per usare una metafora sociale e sensibile - sono “relazioni” tra prodotti che non si erano mai incontrati e che hanno finito per piacersi e stare bene insieme. Come le polpette di melanzane e pesce spada al sugo di pomodoro o le tagliatelle tirate al Primitivo con porcini, gambero rosso di Mazara e la sua bisque. Il pane, la focaccia tradizionale e i dolci sono fatti in casa, il pesce fresco viene dal porto di Fasano e da Mola di Bari, la verdura, gli ortaggi e la frutta vengono acquistate dai contadini locali, l’olio è della zona. Da Vattelapesca il vino non è di semplice accompagnamento ma sostanza stessa del pasto; in cantina

CARPACCIO DI RICCIOLA INGREDIENTI

un carpaccio. Tagliare finemente il fi-

co, frutti di bosco, lime, zenzero, olio.

olio allo zenzero. Preparare a parte un

Ricciola, finocchio, finocchietto selvati-

PREPARAZIONE

Sfilettare la ricciola e ricavare dai filetti

nocchio a fettine e farlo marinare con

dressing con olio, lime e zenzero. Com-

porre il piatto con finocchio, carpaccio, frutti di bosco e condire con il dressing.

ORECCHIETTE DI CIME DI RAPE E GRANO ARSO INGREDIENTI

re il baccalà a cubi. Mantecare il tutto.

reggina infornato, olio, aglio in cami-

grano arso), disporre la crema di rape

Baccalà, crema di rape, pomodino cia, crumble di pane casereccio. PREPARAZIONE

Per il fondo: sbianchire

Una volta bollita la pasta (orecchiette di a specchio nel piatto e completare con

le orecchiette e crumble di pane casereccio.

le rape, frullarle con olio evo conservando

qualche cima. Soffriggere uno spicchio d’aglio in camicia ed aggiungere il pomodorino infornato. Dopo

poco, aggiunge-

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Golavagando

si è preferito dare spazio ai piccoli produttori locali e alle produzioni naturali, biologiche e biodinamiche, con bianchi e rosati, rossi freschi e poco tannici, bollicine e spumanti non filtrati.

COSA MANGIARE La nostra degustazione si è aperta con due piatti in antipasto: polpo doppia cottura, rustico di patate e quenelle di burrata; fritturina mediterranea di pesce e verdure. A seguire, troccolo con cozze su fonduta di provolone e strascinato di grano tostato Senatore Cappelli, baccalà, crema di rape e crumble di pane casareccio. I secondi piatti proposti sono darna di baccalà scottato con purè di fave e friggitelli; tataki di tonno in crosta di pepe nero; purè di patate allo scalogno e cicoriella selvatica. Chiudiamo in dolcezza con bavarese leccese, latte di mandorla e caffè, pere al Primitivo con crema Chantilly.

L’AMBIENTE Nel locale domina il bianco puro, denso e avvolgente della Puglia, dove i colori hanno una potenza e un’intensità che è difficile trovare in qualunque altro posto. Vattelapesca è un ambiente fresco e di eleganza asciutta, d’atmosfera allegra e aperta, familiare e confortevole: oggetti dal mare e del mare e materiali naturali, bellissimi grandi lampadari come steli di fiori in paglia intrecciata. Apparecchiatura semplice e tovagliato sabbia.

DARNA DI BACCALÀ SCOTTATA SU PUREA DI FAVE INGREDIENTI

una darna da una porzione di baccalà,

la, patata, friggitelli, olio.

Composizione del piatto: sul fondo

Darna di baccalà, fave bianche, cipol-

PREPARAZIONE

Lasciare a bagno le fave bianche per 12 ore, successivamente scolarle e portarle a cottura con acqua salata, cipolla bianca e una patata fino a quando non si inteneriscono.

VATTELAPPESCA RESTAURANT & WINE

Via San Quirico, 41 - Cisternino (BR) Tel. 080 444 8624

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Frullarle anco-

ra calde con olio evo.

Per il baccalà: ricavare

scottarla in olio bollente.

del piatto versare la purea di fave e poggiarvi la darna. Completare con dei friggitelli fritti.



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GourmetFood

UNA

PECA

NELLA HALL OF FAME I PRIMI TRENT’ANNI DI CINZIA, NICOLA E PIERLUIGI PORTINARI di

Alessandra Meldolesi Studio Gabrio Tomelleri

foto di

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LaPeca

Chi è senza Peca, salga in macchina e si diriga a Lonigo. L’indirizzo è quella che i vecchi chiamavano “contrà delle peche”, tagliata com’era da ladri di polli che, dileguandosi, lasciavano impronte (in dialetto “peche”) sulle collinette antecedenti un propizio boschetto. Pierluigi e Nicola Portinari lo scoprirono rispettivamente a 26 e 22 anni, conversando con il memorialista Egidio Mazzari, quando si apprestavano a calcare la creta della cucina italiana. Ed è diventato anche il simbolo del loro locale: l’impronta di una mano, che significa artigianalità, personalità, autografia in cucina. Correva l’anno 1987, oltre trent’anni orsono. E la passione bruciava. Era scoccata nella gastronomia di famiglia in via Roma, dove il severissimo papà Serafino sfornava anche settanta chili di baccalà a settimana, con l’aiuto di Nicola in cucina e Pierluigi al bancone. Alzava il sopracciglio, Serafino, al pensiero di quell’impresa azzardata, lui che avrebbe appeso il camice solo nel 2001. Eppure non fece mai mancare il suo sostegno, come pure mamma Irma Bortolaso, che collaborò nei primi anni alla preparazione delle basi di cucina. Due anni dopo ecco sopraggiungere Cinzia Boggian, arredatrice di professione, convertita in iconica guida della sala e prima sommelier del ristorante dall’amore per il marito Pierluigi. È lei la terza gamba di un percorso che si è spinto lontano, dove nessuno dei protagonisti si sarebbe mai aspettato. I due fratelli erano autodidatti totali: niente scuola alberghiera, piuttosto la frequentazione di qualche maison, come il Casin del Gamba, Dal Pescatore o santuari francesi sparsi, e tanti libri; in un secondo tempo, nel caso di Nicola, anche stage da Arzak e altri grandi di Spagna, mentre Pierluigi frequentava i corsi AIS e si specializzava in pasticceria, tuttora suo appannaggio. Cinzia, dal canto suo, ha imparato sul campo, folgorata da Nadia e Antonio del Pescatore e da Daria del Casin del Gamba. Oggi firma anche i centrotavola, che resuscitano a nuova vita materiali di cucina

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SPAGHETTONE AI RICCI DI MARE FEGATO GRASSO E BIRRA INGREDIENTI per 4 persone g. 280 di spaghettoni

g. 70 di grasso del fegato grasso g. 100 di birra geuze g. 150 di acqua

g. 50 di acqua di ostriche 1 spicchio d’aglio g. 70 di burrata

g. 25 di ricci di mare

g. 20 di riccioli di fegato grasso pepe sale

PREPARAZIONE

Sciogliere il grasso del fegato grasso, aggiungere l’acqua, la birra e frullare.

Pulire l’aglio e mettere in infusione nella salsa.

Cuocere gli spaghettoni, mettere la salsa nella

padella, mantecare con la burrata. Aggiustare di sale.

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esausti o danneggiati con delizioso sense of humor. “Per sette anni ho continuato a lavorare come arredatrice, poi l’amore per Gigi e la gastronomia ha prevalso. Nel 2010, dopo tanti anni di addobbi floreali, ho avuto voglia di sdrammatizzare l’atmosfera formale del fine dining con i miei giochi. L’ironia è la base della vita e la felicità del cliente è anche la mia”. Ma la gastronomia è una malattia di famiglia: oltre alla nonna Maria che aveva tenuto un’osteria a Lonigo ci sono due cugini, Francesco Ballico, pasticciere del Chiosco di Lonigo nonché eminenza dei lievitati, e Daniele Portinari, che sui vicini Colli Berici, ad Alonte, produce vini naturali presenti anche nella carta del ristorante. Ai fratelli, dieci anni fa, si è unito un figlioccio putativo, Matteo Bressan, sommelier che, dopo il triennio presso uno stellato di Arzignano, si è perfezionato con Pierluigi. Insieme a lui amministra una carta leggendaria: sono oltre 2000 le etichette suddivise per formati, bolle francesi e italiane, bianchi e rossi, con un buon terzo di vini naturali, passione della casa da tempi non sospetti, frammisti ai convenzionali e un buon affondo in verticale, soprattutto in materia di piemontesi e toscani. “Abbiamo anche una carta di vini al calice, ma grazie al Coravin siamo in grado di sbicchierare praticamente tutto. Di recente perfino uno Château Margaux e un Coche-Dury. La cucina di Nicola è complessa e composta di tanti ingredienti; mi piace arrivare al tavolo senza uno schema di abbinamento, per confezionare un pairing sartoriale sulle emozio-

ni del cliente”. E dell’abbinamento si tiene conto anche nel momento della messa a punto del piatto che, una volta varcato il passe, viene sottoposto a un assaggio collegiale ed eventualmente limato qua e là, soprattutto negli amari e nelle acidità, per propiziare la luna di miele. Non solo vini, ma anche birre, cocktail, succhi di frutta, acque aromatizzate. Nell’arco dei suoi primi trent’anni il sentiero della Peca si è fatto sempre più sicuro, rubando tecniche e sapori per dileguarsi nell’agio di una grande maison. Ed è un calco dell’hic et nunc, impresso di territorialità e stagionalità, a cominciare dalle materie prime. “Ci sono persone in zona che per me allevano animali da cortile o coltivano ortaggi, di cui monitoro costantemente la qualità. E la stagionalità riguarda anche le carni: le faraone e i polli in inverno, l’anatra da ottobre a novembre, in primavera i conigli e i cinghialini, incrociati con i maiali”, racconta Nicola. “Le verdure me le recapita fresche ogni mattina un contadino delle colline di Arzignano: broccolo fiolaro, cavolo nero, broccolo romanesco e quant’altro. Le erbe arrivano da dietro il ristorante o da una ditta di Cesena; quelle spontanee da due gemelle abilissime raccoglitrici, che siano germogli primaverili, tarassaco o rosole. Mentre il pesce è chiozzotto, sardo e talvolta genovese: nel primo caso arriva tutti i giorni, altrimenti due o tre volte a settimana. Preferisco conservarlo già pulito sottovuoto, in modo da non doverlo abbattere se non per il crudo”. E la tradizione veneta è anche il punto di partenza di gran parte delle ricette, vuoi per assecondare la curiosità della clientela straniera, vuoi per la comunanza di codice con i locali. Ma la contemporaneità preme nel meticciato degli abbinamenti e nella centratura del gusto, spesso ottenuta per via


LaPeca

LAGUNA VENETA INGREDIENTI per 4 persone

poi raffreddare subito in acqua e ghiaccio;

soffriggere i peperoncini e le foglie di

ze, 12 capelonghe, 12 garusoli, 12 cape-

acqua. Per le cozze fare lo stesso proce-

tutti i gusci dei frutti di mare e tostare per

4 tartufi di mare, 6 vongole veraci, 8 cozricce grosse (cardiidi), g. 50 di colatura

di alici, dl. 5 di vino bianco, 1 carota, 1 costa di sedano, 1/2 porro, 1/2 limone, 4 rametti di prezzemolo, 2 foglie di alloro,

3 peperoncini, 10 foglie di aglio da taglio, g. 50 di champonzu, g. 200 di prezzemolo

tuberoso, g. 20 di limone candito, g. 100 di olio semi arachide, g. 200 di olio evo,

g. 20 di acetato di umeboshi, g. 20 di alga tagliatella, g. 20 di lattuga di mare, g. 20

di alga kombu, g. 20 di alga dulse, g. 50 di

oca tuberosa, 12 asparagi di mare, 12 sal-

ty finger, 6 maji leave, 5 foglie limoncella, 12 foglioline santolina, Maizena q.b. PREPARAZIONE

Aprire a crudo i tartufi di mare e pastoriz-

zare tuffandoli in acqua salata per pochi secondi e poi freddare subito in ghiaccio; mantenere il frutto nella sua acqua.

Mettere sottovuoto le vongole e pastorizzarle per due minuti in acqua bollente,

sgusciare e mantenere il frutto nella sua dimento delle vongole aggiungendo un minuto alla cottura.

Aprire le capelonghe a crudo, tenere so-

lo la parte centrale del frutto e marinare per un minuto nello champonzu. Fare un

brodo utilizzando 2 litri di acqua, carota, sedano, porro, prezzemolo, alloro, limone

e 3 dl di vino bianco; cuocere per venti minuti circa i garusoli, poi sgusciarli e

mantenerli all’interno di una piccola parte del loro brodo.

aglio da taglio per pochi secondi, inserire qualche minuto; sfumare con 2 dl di vino bianco e coprire con acqua. Dopo aver

fatto bollire il tutto per pochi minuti, setacciare con una etamina e fare riposare in

frigorifero per fare affiorare il grasso e depositare l’eventuale sabbia. Dopo aver pu-

rificato il brodo ottenuto dai gusci, fare un

blend con il restante brodo di cottura dei

garusoli; portare il tutto a concentrazione e infine legare con poca Maizena.

Aprire a crudo le capericce, pulire bene

IMPIATAMENTO

con la colatura di alici. Cucinare a vapore il

zemolo tuberoso, inserire tutti i frutti di

la sacca dell’intestino e marinare il frutto prezzemolo tuberoso tagliato a pezzi, poi formare una emulsione con l’olio di semi

e una piccola parte di olio extra vergine, aggiustando di sale con il limone candito e la colatura di alici.

Dissalare le alghe lavando con acqua e, dopo averle ben asciugate, marinarle con

acetato di umeboshi. In una casseruola

Fare tre spuntoni con l’emulsione di prezmare ben asciutti, unire le alghe in modo

voluminoso, decorare con fettine di oca tuberosa, maji leave, salty finger, asparagi di mare, limoncella a julienne e pez-

zetti di santolina; inserire il brodo caldo

in un brick e completare il piatto davanti

al cliente versando il liquido sopra a tutti i frutti.

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GourmetFood

tecnologica. Giacché l’acribia è degli autodidatti. “Adesso ci stiamo concentrando sulla fermentazione veloce di ortaggi di stagione, come melanzane e peperoni: utilizziamo l’Ooco per sviluppare l’acidità naturale e concentrare il gusto in 24 ore, senza esagerare. Vi introduco anche foglie e cortecce per estrarre note di sottobosco e di muschio in un piatto chiamato la Terra e suoi frutti, che cambia ogni stagione. Poi c’è il Rotovapor, che serve per concentrare i gusti dei brodi, eliminare l’alcol dai distillati, in modo da isolare i profumi, o le note sgradevoli dai fumetti”. I menu sono 5: per il lunch c’è Ore 12 con le sue 3 corse a 45 euro; a pranzo e a cena Giorno per giorno, 4 corse a sorpresa a 95 euro; I Freschi d’Estate o Terra e territorio, con 8 corse a 145 euro; Mare, con 9 corse a 160 euro;

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Impronte, con 13 corse a 200 euro. Più il foie gras, 14 assaggi prenotabili una settimana al mese in stagione. Portate che in alcuni casi sono ripescate dai menu precedenti, magari in versione up-to-date al fine di scongiurare la staticità. “Perché è il cliente che comanda”. Dopo gli appetizer (fra cui il nido di patata con cioccolato affumicato e olive disidratate, l’amatriciana di piselli, la polpetta di alghe e aria di umeboshi) e il pane (grissini, cialde di mais effetto crosta di polenta/nachos e pagnotta a lievito madre da farina semintegrale), è già un signature Laguna veneta, paradossale connubio di crudità (tartufi, cappelunghe, telline, piè d’asino, cappe ricce) e tecnologia (il brodo dei gusci, concentrato previa bollitura al Rotovapor). Dove il prezzemolo di rito nella tradizione veneta è rappresentato dal prezzemolo tuberoso in purea, che porta sensazioni gustative e visive terrose; mentre lo iodio è spinto da alghe varie, foglie ostrica e salty finger. Ancora Veneto nell’uovo di asparago, evoluzione del fiore di uovo, altro hit (et nunc) del ristorante. Dove l’albume è un simil-flan di purea di asparago bianco addensato alla chiara, farcito di ragù di maruzzelle con salsa di carote per simulare il tuorlo, asparago verde crudo e sfere di alghe. Nel bicchiere resta il Pietrobianco 2017 di Daniele Portinari, a base di Tai Bianco e Pinot Bianco, che con freschezza e bevibilità sottolinea l’eleganza dei piatti. Ma Nicola Portinari ama anche sparigliare. Vedi gamberi e faraona, con il petto del volatile in shabu shabu leggero del brodo di teste (la coscia può essere servita come secondo), il gambero al vapore, alghe e verdurine a ripulire per via sapida e amara, la bisque e le sfere di jus per legare. Dolce/umami. Oppure, sempre mare


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LEPRE IN CIVET RAPA SCORZONERA E CAVOLO RICCIO ALL’ACETO DI VINO ROSSO INGREDIENTI per 4 persone

PREPARAZIONE

g. 50 di sedano

circa 2 giorni.

kg. 2 di sella di lepre g. 100 di carote

g. 100 di cipolla

g. 100 di fegato grasso

g. 400 di rapa scorzonera ml. 500 di latte d’avena g. 300 di cavolo riccio

g. 200 di trombetta dei morti

g. 100 di crema di topinambur g. 10 di farina di riso precotta sale Maldon

Pulire le selle di lepre e mettere a marinare i carrè con sale, pepe e le erbe secche per Togliere la marinata e coprire di vino rosso per circa 10 minuti. Scolare e asciugare.

Rosolare bene le ossa, aggiungere le verdure, bagnare con vino rosso, aggiungere il sangue e coprire con acqua.

Continuare la cottura delle ossa per circa 2 ore. Setacciare e continuare a restringere la salsa, aggiungendo il fegato grasso.

Tagliare la rapa a fettine sottili e cucinarla in una padella con latte d’avena e sale. Sbollentare il cavolo riccio in acqua salata e condire con sale, pepe e bitter.

Spadellare le trombette con olio, sale, pepe e uno spicchio d’aglio. Mescolare 100 grammi di crema di topinambur con 10 grammi di farina di riso precotta. Stendere su una placca e seccare in forno a 40°C.

pepe

erbe selvatiche di montagna secche olio extravergine d’oliva

ml. 500 di vino rosso barricato per la marinatura

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e terra, sempre sotto il segno di liquidità dissetanti (“non amo le salse legate, che in bocca sono più invasive: la concentrazione è sufficiente per la persistenza di brodi dove posso valorizzare gli scarti”), i ravioli di piovra cotta nell’Ocoo, in modo da raccogliere umori leggermente addensati e scartare le fibre, con dadolata di tomatillo per l’acidità e consommé bianco di cervo, speziato al krachai, radice tailandese piccante, sedano e alghe. E i primi sono sensazionali. Per esempio le tagliatelle Fracasso, in cui trova impiego la sostanza filosofale dei Portinari: i lieviti da sboccatura del metodo classico a base di durello Bellaguardia, spumeggiante quintessenza del territorio. Si presentano inizialmente come una fanghiglia, con la parte tannica cristallizzata e il liquido separato. Lasciati riposare per 15 giorni con l’aggiunta di vino fresco, per sprigionare i sentori di pane appena cotto, possono essere affinati al Pacojet e polverizzati o privati dell’alcol al Rotovapor fino a consistenza cremosa, aiutando a ridurre i grassi in mantecatura. La loro leggera acidità con note di umami va a nozze con gli scampi (crostacei e bollicine), più crema di chipotle dal gusto tabacco, crema di alghe e un ulteriore brodo blando di crostacei a legare. Tanti ingredienti, ma non sempre. Vedi la dinamica triangolazione dello spaghettone su base aglio e olio con ricci di mare ghiacciati per lo choc gusto-termico, riccioli di foie gras crudo che portano in trionfo il minerale e riduzione di birra Gueuze, dal profumo di sacco di iuta e dalla forte acidità su retrogusto amaro, ristretta a un decimo ed emulsionata con acqua di cottura e olio di vinaccioli. Qui Bressan mesce una Birra Kriek alle ciliegie Hof ten Dormaal, doppio malto prodotta da una farm in Belgio, che aiuta a staccare dalla potenza del piatto grazie all’equilibrio tra dolcezza e acidità. Anche i secondi ingranano

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Via Giovanelli, 2 - Lonigo (VI) Tel. 0444830214

www.lapeca.it - info@lapeca.it

la retromarcia verso la riduzione: il black cod marinato in una miscela di 3 aceti giapponesi e spadellato a secco, caramellando i loro zuccheri residui, con piselli di Lumignano al baccello per la freschezza e fragole, in un tripudio stagionale; come la gallinella spadellata e glassata con la concentrazione al Rotovapor del suo guazzetto allo zafferano, spruzzata di coriandoli di sfoglie di riso multigusto (rapa rossa, prezzemolo, topinambur). Ma è un capolavoro la lepre in salmì, con la polpa marinata a secco e lasciata appesa per 2 giorni in cella, poi rinvenuta in brandy, vino rosso e spezie per 12 minuti, a mimare i gusti di sempre, servita cruda e scaloppata come un salume, con salsa cotta tipo civet di ossa e sangue, scorzonera per la nota terragna di tartufo e sfoglie croccanti di topinambur al barbecue. La pasticceria è il regno di Pierluigi, autodidatta totale, grande palato prima che uomo di sala e sommelier, che per l’esecuzione si affida a Martina Gaspari. La sua impronta è classica, con ottima centratura e leggerezza, cura del dettaglio e accorgimenti nascosti. Vedi la crostatina al limone, ottenuta non con la classica crema (“non amo il gusto metallico”), ma con una marmellata delle bucce, in cui la polpa è aggiunta alla fine per massimizzare la freschezza, e una crema inglese ottenuta con il latte concentrato al distillatore. Dove la mandorla è presente in diversi stati: nella frolla, nel sorbetto all’estrattore, tostata e salata. Oppure, impalpabili, i bignè a base di farina di riso, quindi anche per celiaci, non farciti, ma lavorati a semisfere ripiene di crema a freddo, serviti con gelato al bergamotto.

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DAL PESCATORE ANDATA E RITORNO. UN VIAGGIO NELLA GRANDE CUCINA ITALIANA di

Simone Rosti

Correva l’anno 1997. Varcai l’ingresso Dal Pescatore con tanta emozione, ero impacciato, ero in un sogno, ero molto giovane. Pochi minuti e mi sentii subito a mio agio, grazie soprattutto all’anfitrione, Antonio Santini. Solo pochi anni fa l’alta ristorazione era affare di pochi eletti, una sorta di club snob, ma la sostanza prevaleva sull’inconsistenza degli storytelling e dei social. Nessuna nostalgia, si cambia e ci si evolve; nel frattempo ho avuto la fortuna di accomodarmi a tante tavole importanti in Italia e non solo e assistere alla crescita esponenziale dei frequentatori e divulgatori della ristorazione (di ogni livello). In questi anni, mentre tutto cambiava, le tre stelle Dal Pescatore della famiglia Santini restavano intatte, un baluardo familiare affidabile. Ogni anno mi ripromettevo di tornare da quel signore dai modi eleganti e garbati che è Antonio Santini.

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DalPescatore

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E così ho varcato nuovamente l’ingresso Dal Pescatore, dove lui, con la medesima classe di vent’anni prima, mi ha accolto con un sorriso rassicurante e benevolo: ero tornato a casa. Non c’era l’emozione della prima volta, ma la consapevolezza di chi torna da un lungo viaggio. L’eleganza del locale (incluso lo straordinario dehors), con recenti tocchi di modernità, resta immutata; prevale la luce e la solarità a dispetto del freddo minimalismo di tanti locali moderni. I passaggi generazionali all’interno della famiglia Santini non sembrano intaccare l’immenso patrimonio costruito, anzi si avverte un’attenzione affettuosa a preservarlo, a renderlo immortale, facendolo ulteriormente evolvere. La cucina è l’armonioso scenario del-

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la celebratissima Nadia con il figlio Giovanni (oltre alla nonna Bruna), mentre Alberto Santini (con il supporto sempre vigile di Antonio) governa con sobria professionalità la squadra dei giovani camerieri. Rigore ma non affettazione in questo consacrato tempio dell’alta ristorazione. Dal Pescatore si conferma dunque una grande tavola che, partendo dal territorio, fa della tradizione il suo architrave e dell’imprinting d’oltralpe la sua chiave di volta. Nessun superfluo fuoco d’artificio ma solo perfetta calibratura dei sapori, nessun picco di acidità e di contrasti, ma solo armonia e piacevolezza. Il piatto signature è la Misticanza con orata marinata, mousse di melanzane, burrata e maionese allo zenzero, una creazione dai sapori lievi che arrivano uno dietro l’altro in euritmico climax. La terrina di astice con caviale Oscietra Royal è molto più essenziale, pur nel ben calibrarto trionfo della materia prima. Perfezione e rigore con la carne: petto d’anatra al balsamico tradizionale con mostarda di frutta. I dolci concludono un viaggio emblematico nella grande tradizione gastronomica italiana con il soufflé all’arancia con coulis al frutto della passione e con la torta di amaretti. La carta dei vini è un monumento in linea con il livello del locale.

DAL PESCATORE

Località Runate, 15 - Riserva del Parco Oglio Sud - Canneto sull’Oglio (MN) Tel. +39 0376 723001

www.dalpescatore.com - santini@dalpescatore.com

MACCHERONI DI ANANAS FRAGOLINE DI BOSCO, MENTA E FRULLATO DI LAMPONI INGREDIENTI

1/3 di ananas, foglie piccole di menta, 1 cestino di fragoline di bosco, panna montata q.b. PREPARAZIONE

Per formare i maccheroni dovremo tagliare l’ananas a fette con spessore massimo di 1,5 millimetri, aiutandoci con l’affettatrice. Arrotolare la fetta intera per ottenere un cilindro e tagliare il maccherone a metà. Disporre le metà in piedi e vicine fra loro, fino ad avere un cerchio di 6 piccoli cilindri. Farcire

con panna montata e guarnire con fra-

goline di bosco, piccole foglie di menta.

Servire con un frullato naturale di lamponi.

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MISTICANZA DELL’ORTO INGREDIENTI

Per il fiore: tagliare il pomodorino in 4 per il lato lungo e farlo

la, 1 fagiolino, 1/2 zucchina lunga, 1 ravanello, 1/2 cavolo roma-

lente per qualche secondo carota, taccola, fagiolino e il cavolo

Per il fiore: 1 carota gialla, 1 pomodorino datterino rosso, 1 tacconesco, 1/2 rapa rossa, 1 mango, g. 30 di ombrina.

Per la mousse: 1 melanzana nera tonda, g. 50 di sedano, g. 20 di cipollotto fresco, g. 20 di olio extravergine d’oliva

Per la mousse di ricotta e burrata: g. 50 di burro, g. 100 di ricotta vaccina, g. 100 di burrata, g. 10 di latte.

Per la maionese allo zenzero: 1 rosso d’uovo, g. 20 di olio

extravergine d’oliva, 1/4 di limone, g. 2 di aceto, g. 2 di acqua di zenzero.

PREPARAZIONE

Per la mousse di melanzana: mettere in una casseruola il trito di sedano e cipollotto, con olio extravergine d’oliva. Quando le ver-

dure avranno perso completamente la loro acqua, aggiungere la melanzana, precedentemente lavata, pelata e tagliata a cubetti di

2 centimetri per lato. Far rosolare a fuoco moderato la melanzana, per almeno 5 minuti, salare e continuare a mescolare. Aggiungere

confit in forno a 90°C per 30 minuti. Sbollentare in acqua bolromanesco (la carota avrà bisogno almeno di due minuti di cot-

tura, ma questo dipende dalla sua grandezza). Raffreddare tutto in acqua e ghiaccio.

Cuocere la rapa rossa per 30 minuti in acqua bollente. Raffreddare in acqua e ghiaccio.

Tagliare la carota per il lungo con l’affettatrice, in uno spessore di 0,5 centimetri.

Fare 3 lamelle di taccole e fagiolini. Ricavare dalle punte esterne del cavolo romanesco 3 cime di dimensioni uguali.

Tagliare a rondelle zucchina e ravanello. Tagliare una fetta alta

0,5 centimetri di rapa rossa e, con l’uso di una punta sac a pochè di 2 millimetri, realizzare dei piccoli cilindri.

Tagliare una fettina di mango alta 0.5 cm, per poi, con l’uso di un coppapasta, ricavarne un fiore. Tagliare a carpaccio 3 fette di ombrina e metterla a marinare in olio extravergine di oliva.

poi acqua e, se possibile, una piccola quantità di brodo e cuocere

COMPOSIZIONE DEL PIATTO

zana dal suo liquido, utilizzando un setaccio a maglia fine. Frullare

In ogni petalo aggiungere, con l’uso di 2 sac a poche, le mousse,

per 20 minuti. Dividere la parte solida, quindi la “polpa” di melanla “polpa” di melanzana con un minipimer aggiungendo il burro tagliato a piccoli pezzi. Aggiustare di sale e porre a raffreddare.

Per la mousse di ricotta e burrata: in una bastardella unire ricotta, burrata e latte; mescolare tutti gli ingredienti. Frullare in Pakojet per 2 volte e mettere a raffreddare.

Per la maionese allo zenzero: realizzare una salsa maionese

classica, quindi rosso d’uovo, limone e aceto, poi, a filo, l’olio extravergine d’oliva. Aggiungere l’acqua di zenzero, ottenuta fa-

cendolo cuocere 4 volte in acqua e aceto di vino bianco, per poi tenere l’ultima acqua di “cottura”.

Disporre a forma di petalo 6 fettine di carota. alternandole tra di loro.

Nei petali con la mousse di melanzana, partire dal pomodoro

confit (freddo), continuando con taccole, fagiolini, 1/2 rondella di zucchina, 1/2 rondella di ravanello, il cavolo romanesco e la rapa rossa, il “gioco” di verdure.

Nel petalo di ricotta vaccina e burrata, disporre l’ombrina mari-

nata. Dove i 6 petali si toccano così da formare un “tronchetto” del fiore, posizionare il mango.

Chiudere il piatto con la maionese allo zenzero, alla destra dell’ultimo petalo del fiore.

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STEFANO

MASANTI

E IL CANTINONE DI MADESIMO. QUANDO LA CUCINA (DELLA VALCHIAVENNA) È ARTIGIANATO di

Giorgia Giuliano -

Stefano Masanti si è avvicinato alla cucina dopo un diploma di operatore turistico all’Istituto Alberghiero e la frequentazione della facoltà di relazioni pubbliche a Milano, in mezzo i corsi di cucina professionale. Ad oggi Masanti ricrea la sua Italia anche in America dove dal 2009 è consulente della Vittorio Sattui Winery di Saint Helena, Napa Valley, in California, e dal 2015 - da aprile a novembre - executive event chef. Dal 2017 è anche consulente del ristorante Simply Italian di Hong Kong. Si tratta di uno chef che a dir poco scavalca piatti e impiattamenti per riscoprirsi anche produttore di brisaole locali, così chiamate perché originali della Valchiavenna: prodotti unici, pezzature importanti la cui lavorazione rispetta i ritmi della natura e ingloba tutto il territorio circostante.

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© Cristian Daniel Tam

MA! OFFICINA GASTRONOMICA MA! Officina Gastronomica è il laboratorio messo a punto da Masanti, sua moglie Raffaella Mazzina, sommelier del ristorante Il Cantinone di Madesimo, e il suo fidato sous chef Stefano Ciabarri: dalla produzione di sole brisaole si è passati presto anche alle conserve e alle confetture come quella ai mirtilli selvatici, erbe, oli aromatizzati e i salumi di capra, maiale nero delle Alpi e selvaggina di vario tipo. Per le brisaole, lavorazione e produzione vengono eseguite tutte manualmente con una miscela speciale di spezie, l’aglio fresco e il sale di Trapani. Le fasi dell’asciugatura e della stagionatura (che va dai 30 ai 60 giorni) sono monitorate ogni giorno senza fretta: un metodo che prende insomma le distanze da quello veloce ed industriale. Presso MA! Officina Gastronomica si produce anche il tradizionale Violino di Capra della Valchiavenna, presidio Slow Food. Un laboratorio di idee, cuore pulsante di Madesimo.

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StefanoMasanti

RISOTTO AL BITTO “STORICO RIBELLE” FIORNI DI ALPEGGIO E SUCCO DI ACHILLLEA MILLEFOGLIE Un classico risotto alla parmigiana dove sostituiamo il parmigiano con del bitto

storico ribelle di 5 anni di invecchiamento, decoriamo con fiorni di alpeggio e un succo di achiella millefoglie che cresce spontanea sugli alpeggi madesimini.

RISTORANTE IL CANTINONE All’interno dello Sport Hotel Alpina, che conta in tutto 8 suites, c’è posto per un ristorante che ama la sera: è il Cantinone di Madesimo, una stella Michelin, che Stefano Masanti gestisce dal 1989; lo ha ricreato e modellato da vero artigiano, eliminando la pizzeria che negli anni aveva affiancato il ristorante sotto la gestione di suo nonno materno Ezio Rigamonti. È stato tuttavia suo nonno paterno, Mario Masanti, ad aprire Il Cantinone nel 1975: all’epoca offriva assaggi di vini locali e salumi di produzione propria. Ad oggi il ristorante è aperto tutti i giorni esclusivamente a cena con due menu degustazione da 5 o da 7

CARPACCIO DI CERVO MADESIMINO CON GAMBERI ROSSI DI SICILIA, COCCO, ZENZERO E GEL DI PASSION FRUIT Affettare sottilmente il lombo del cervo, marinare i gamberi rossi con olio extravergine valtellinese, sale e pepe e poco succo di mela verde. Ottenere una

crema miscelando latte di cocco e zenzero. Gelifica-

re il succo del passion fruit con agar agar. Disporre

il carpaccio di cervo nel piatto, aggiungere degli spuntoni di crema di cocco, quindi di passion fruit e

i gamberi di Sicilia marinati; terminare con germogli e fiori eduli.

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GourmetFood

portate che non vengono svelate fino a quando i piatti non arrivano a tavola. È un tipo di ristorazione intermittente la cui luce però non è mai fioca, anzi, illumina il territorio adorno di montagne per permettere ai padroni di casa e alla brigata intera di cogliere nuove ispirazioni, sentire altri profumi, sperimentare spunti, combinare ingredienti: un lavoro di ricerca ben studiato e possibile perché il Cantinone è aperto soltanto durante la stagione invernale, da dicembre agli inizi di aprile. Ed è proprio la stagione l’ingrediente primo di ogni portata del menu, ideata giornalmente in base alla disponibilità dei prodotti forniti da piccole realtà locali o da realtà più grandi, anche oltreconfine. Spesso la cucina non è mai il primo sogno, poi però diventa la previsione perfetta di come uno s’immagina tra dieci, vent’anni: da ingegnere a giovane sous chef a partire dal 2014,

MAIALINO NERO DELLE ALPI CON CREMA DI PATATE VIOLA DI GORDONA Facciamo cuocere il maialino in forno a bassa temperatura per 12 ore con aromi

e olio. Quindi lo priviamo della pelle, lo spolpiamo e lo riscostruiamo in una placca. Prima la pelle e quindi la polpa. Lo rosoliamo e lo accompagnamo con una crema di patate viola montate leggermente

con il burro, il fondo delle ossa del maialino e qualche petalo di fiore per decorare.

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Stefano Ciabarri è il braccio destro di Masanti. Ha iniziato al Joia di Leeman e ha poi continuato a perfezionarsi in giro per l’Italia e per il mondo, dal Mudec di Enrico Bartolini al ristorante tre stelle Michelin Geranium di Copenhagen. Presso Il Cantinone di Madesimo si sta in bilico tra la semplicità del legno chiaro che contraddistingue il ristorante e la bellissima complessità dei piatti che cacciano fuori due, tre anime di uno stesso ingrediente. Una cucina capace, di squadra, in un ambiente che quasi sa di casa.

CANTINONE

Via Antonio de Giacomi, 39 Madesimo (SO)

Tel. 0343 56120

www.ristorantecantinone.com info@sporthotelalpina.it


BUONENUOVE!

TerraQuilia, il metodo Ancestrale Nata dall’amore per la terra e per i suoi frutti, nel pieno rispetto dell’ambiente, la cantina TerraQuilia si trova nel comune di Guiglia (MO), inserita in un contesto naturale incontaminato. Il produttore Romano Mattioli l’ha voluta e pensata per tutti coloro che amano e apprezzano il vino come espressione di una filosofia produttiva che ha radici antiche. Tutte le proposte enologiche interpretano la tradizione dei primi veri produttori di vino naturale, tutti i vini sono ottenuti con il nostro metodo ancestrale, vinificati senza l’aggiunta di zuccheri o lieviti selezionati e senza filtrare, hanno un bassissimo contenuto residuo di solfiti e sono ottenuti senza aggiunta di altre sostanze ammesse per uso enologico.

TerraQuilia Via per Marano 583 41052 Guiglia (MO) Tel. +39.059.931023 info@terraquilia.it www.terraquilia.it

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GourmetFood

A BOLOGNA

RISTORANTE I CARRACCI L’ELEGANZA DEL GUSTO, CON STILE di

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Antonietta Mazzeo


ICarracci

Autorevole spettatore della storia del capoluogo Felsineo, il Grand Hotel Majestic “già Baglioni” - unico prestigioso hotel 5 stelle lusso di Bologna, parte di The Leading Hotels of The World dal 1990 - è ubicato in uno storico e prestigioso palazzo risalente al XVIII secolo nel pieno centro storico di Bologna. L’hotel vanta sale, camere e suite tra le più lussuose della città grazie agli affreschi del XVIII secolo, ai suoi meravigliosi arredi, ai marmi e ai mosaici. L’area ristoranti, con ingresso dedicato anche alla clientela esterna, si divide in tre spazi diversi ma al tempo stesso complementari fra loro: il Cafè Marinetti, luogo ideale per una pausa di relax, per un incontro di lavoro, o per gustare un aperitivo; l’Enoteca Morandi, storica cantina dei vini del Grand Hotel che con una selezione di più di 300 etichette di vini italiani e internazionali, rappresenta la location ideale per degustazioni enogastronomiche, cene private, anniversari, feste, aperitivi e serate musicali a tema; e il prestigioso Ristorante I Carracci, uno tra i locali più eleganti della città per la sua calda e intima atmosfera. Il Ristorante I Carracci prende vita in un magnifico salone del XV secolo annesso all’hotel solo agli inizi del ‘900. Una scenografia impreziosita dai prestigiosi affreschi originali della scuola dei fratelli Carracci sposa una cucina raffinata legata alla tradizione bolognese, affiancata da innovative proposte di pesce e vegetariane: a conferma della qualità

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GourmetFood

TAGLIOLINI IN NERO SEPPIA, INCHIOSTRO, CAVIALE DI ARINGA, AGLIO NERO DI VOGHIERA INGREDIENTI per 4 persone Per la pasta fresca g. 150 di farina 00

g. 100 di brodo vegetale g. 0,1 di Xantana

g. 150 di semola g.d. rimacinata

Per la roccia al nero di seppia

g. 40 di nero di seppia

g. 10 di olio evo

3 uova intere

Per le seppie al nero

g. 300 di seppie da nassa della sacca di Goro

1 scalogno piccolo

1 spicchio di aglio nero di Voghiera g. 30 di prezzemolo g. 50 di olio evo

g. 10 di concentrato pomodoro

g. 30 di scalogno g. 15 di albume g. 10 di tuorlo

g. 10 di isomalto

g. 4 di nero di seppia g. 4 di farina

Per il caviale

g. 20 di caviale di aringa

g. 50 di vino bianco secco

PREPARAZIONE

sale e pepe nero q.b.

gredienti e metterli sottovuoto per 3 ore in

1 foglia di alloro

Perla crema al Nero di Voghiera

5 spicchi di aglio nero di Voghiera pelato

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Per la pasta fresca: impastare tutti gli in-

lo; aggiungervi le seppie pulite e tagliate a listarelle. A rosolatura ultimata, aggiun-

gere il vino bianco e sfumare; sciogliere il nero di seppia in una ciotola con dell’acqua e filtrare nella pentole con le seppie

aggiungendovi anche il concentrato e l’al-

loro. Cuocere a fuoco basso e, a cottura ultimata, se serve, regolare il sapore.

Per la roccia: imbiondire lo scalogno af-

fettato nell’olio e sgocciolarlo dai liquidi in eccesso. Mixare tutti gli ingredienti e met-

terli nel sifone con 2 cariche e far riposare per 12 ore.

Sifonare negli stampi e cuocere alla massima potenza; quando si estraggono dal

microonde, togliere dallo stampo e far seccare in forno a 60°C.

frigorifero; sfogliare e tagliare della misura

FINITURA DEL PIATTO

Per le seppie al nero: far imbiondire nell’o-

pie. Servire con la polvere di roccia, il ca-

desiderata.

lio un trito di scalogno, aglio e prezzemo-

Cuocere la pasta e spadellarla con le sepviale e la salsa all’aglio.


ICarracci

della cucina e degli ambienti, il Ristorante I Carracci è stato recentemente premiato con le tre forchette Michelin. Cristian Mometti ne è l’executive chef. Diplomato all’Istituto Alberghiero di Treviso, inizia il suo percorso professionale in cucina lavorando in diversi ristoranti e hotel; approda a Bologna, prima per curare la riapertura de “La Porta Restaurant & Café” e poi nell’aprile del 2018 arriva al Grand Hotel Majestic. Il menu del Ristorante I Carracci, da sempre contraddistinto da una proposta culinaria di tradizione emiliano romagnola in chiave internazionale, con l’arrivo di Cristian Mometti si è arricchita di suggestioni innovative per modalità di cottura e creatività, grazie anche alle incursioni di sapori provenienti da altri Paesi. Chef dalla multiforme esperienza non solo culinaria ma anche gestionale, maestro indiscusso della vasocottura,

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GourmetFood

ANGUILLA TRA DELTA DEL PO E ORIENTE: ANGUILLA ALLA PLANCIA, RISO SOFFIATO, SALSA KABAYAKI E PORRO INGREDIENTI

Con il porro rimasto fare delle rondelle

Per l’anguilla: sfilettare l’anguilla, scotta-

1 anguilla Valli di Comacchio

vapore e passarle a burro chiarificato con

e raffreddare velocemente. Cuocere in

Per l’anguilla

g. 100 di sakè de alcolato

spesse 3 centrimetri, cuocerle 3 minuti a i porri baby.

re in forno a 250°C per 2 minuti per lato

sottovuoto a 100°C per 15 minuti con la

marinata di sakè de alcolato e un po di

Per la salsa kabaiaki

Per il riso: stracuocere in acqua priva di

g. 150 di mirin

tura ultimata frullare il carnaroli e scolare il

FINITURA DEL PIATTO

to una crema liscia stendere su di un salpa

croccantezza e poi brevemente dalla parte

g. 50 di salsa soia g. 150 di sake

g. 60 di zucchero Per il porro

2 porri medi 1 scalogno

olio evo q.b.

1 patata farinosa 4 porri baby

g. 20 di burro chiarificato Per il riso soffiato

g. 150 di riso carnaroli g. 40 di riso venere

olio di arachide q.b. PREPARAZIONE

Per la salsa kabayaki: portare ad ebollizione gli ingredienti e restringere.

Per il porro: con un porro fare una crema partendo da un fondo di scalogno, patate a fette e

la parte bianca del porro rosolati in poco olio.

Cuocere il tutto con del bro-

do vegetale, a cottura ultima-

ta frullare e raffreddare. Con

la parte verde fate una crema

sbianchendo le foglie in acqua

bollente e raffreddandole in ac-

qua e ghiaccio, frullare a crema,

filtrare, raffreddare ed incorporare alla crema bianca.

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sale i risi in due diverse casseruole; a cotvenere.quando il riso bianco sarà diventae cosporgere a pioggio con il riso nero ed

essiccare per una notte a 80°C in modalità secco con ventola a bassi giri.

Lasciar riposare 3 giorni in un contenitore ermetico e poi friggere.

salsa kabayaki.

rosolare dalla parte della pella fino alla della carne. Servire con la salsa di porro i porri rosolati, il riso soffiato e la salsa kabayaki.


ICarracci

MONT BLANC INGREDIENTI

ebollizione panna e latte, versare sui tuorli

g. 70 di panna 35%

Cuocere a 82/84°C fino ad addensamen-

Per il cremoso al Guanaja g. 70 di latte

g. 25 di tuorlo

g. 12 di zucchero

g. 50 di cioccolato fondente guanaja Per il crumble salato al cacao g. 20 di cacao amaro g. 230 di farina 00

g. 180 di burro salato g. 130 di zucchero Per la meringa

g. 80 di albume

g. 150 di zucchero velo g. 25 di albumina

tecnica attuale ma dalle radici antiche, Cristian è anche autore del libro “Vasocottura”, vincitore nel 2011 al Best First Book in Italy. Le sue preparazioni uniscono il senso estetico alla leggerezza e alla centralità del gusto. Essenze, profumi, colori e consistenze, sintetizzano la filosofia di una cucina che è espressione di uno stile moderno, posizionato tra tradizione e avanguardia. Il Grand Hotel Majestic “già Baglioni”, rappresenta una delle eccellenze del Made in Italy nel cuore di Bologna: in 100 anni di storia ha ospitato sovrani, politici, premi Nobel e star del cinema. L’attenzione e la competenza del General Manager, Tiberio Biondi, l’eleganza, la tradizione, un servizio impeccabile e una tecnologia di ultima generazione, si coniugano con un’ospitalità attenta, allineata a quell’aura aristocratica che l’hotel emana.

Per la ganache spumosa ai marroni g. 100 di panna

g. 75 di pasta di marroni naturale g. 75 di panna montata

g. 130 di cioccolato azelia g. 1,5 di gelatina fogli

mescolati con lo zucchero.

to, aggiungere il cioccolato a temperatura ambiente tagliato a scaglie.

Passare al colino e raffreddare. Per il crumble: mescolare la farina ed

il cacao setacciati , quando sono leggermente amalgamati aggiungere il burro po-

mato. Sbriciolare e cuocere a 160°C secco per 15 minuti.

Per la meringa: montare fino al raddop-

pio dell’impasto, stendere su un silpat e cuocere a 90°C a secco con valvola aperta fino alla completa asciugatura.

Per la ganache montata: scaldare la pan-

na, aggiungere la gelatina reidratata in acqua e ghiaccio e versare in 3 volte sul cioccolato sciolto.

Aggiungere la pasta di marroni ammorbidita e portare il composto a 35°C incorporando la panna montata. Raffreddare.

caramello

Finitura del piatto

panna montata

ti di cremoso, versarvi il crumble e formare

marron glacè

PREPARAZIONE

Per il cremoso al Guanaja: portare ad

Posizionare sul fondo del piatti alcuni punal di sopra una quenelle di ganache. De-

corare con la panna montata, il cremoso, i marron glacè, il caramello e la meringa.

I CARRACCI Grand Hotel Majestic Già Baglioni Via Manzoni, 2 - Bologna (BO) Tel. 051 225445

www.grandhotelmajestic.duetorrihotels.com

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GourmetFood

© GrupoJoseAvillez

PORTOGALLO

IL SEGRETO CULINARIO MEGLIO TENUTO D’EUROPA di

Alessandra Meldolesi

È il momento del Portogallo, è il momento di Lisbona. Capitale perennemente fuori sincrono, improvvisamente all’unisono col mondo. Per le stradine scoscese di Alfama non si affacciano più i pescatori e le robuste matrone sui banchetti di sardine (oggi effigiate agli spigoli fra esquinas), ma truppe di turisti anglosassoni con la valigia in mano. Tra le destinazioni più trendy dell’estate, stordisce la bellezza di una città che somiglia a un continente, tanto è mutevole e trafficata, impossibile da bloccare nell’immagine di un luogo. Continente, o forse groviglio intercontinentale, fra il razionalismo settecentesco, la memoria struggente del passato imperiale, con il suo melting pot ante litteram, e la contemporaneità ruggente post Expo.

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Portogallo

© GrupoJoseAvillez

La Spagna è vicina e lontana, sicuramente ingombrante ma in fondo un po’ estranea. Ai tempi in cui sbrilluccicava il suo siglo de oro culinario, la ristorazione in Portogallo era ancora poca cosa, a parte il papa straniero Dieter Koschina, di nascita austriaco, a Vila Joya. Terminata da non molto l’era Salazar, pagava ancora lo scotto del suo isolazionismo (“siamo soli”, rivendicava il dittatore), paradossale in una terra che aveva fatto del mosaico fra tessere fenicie, romane e arabe la sua identità arabescata, destinata a incurvarsi ancora nei ghirigori del merletto manuelino e nelle rotte degli esploratori a caccia di spezie. Tanto che se c’è un principio di individuazione per la portoghesità, sta forse

nell’attitudine sensualmente femminile a lasciarsi guidare, nella certezza che qualsiasi influenza sarà riassorbita in un’identità tentacolare. Lo dicono gli azulejos, patchwork geniale di tecniche italiane, motivi arabi e cinesi; o la cucina, che ha distillato tipicità da un pesce dei mari del nord. La stessa storia di vini leggendari, al cui conio hanno contribuito non poco i mercanti inglesi, che oggi sono un vanto nazionale. Ma tutta la produzione enoica è in gran crescita, con un rapporto qualità/prezzo da primato. © BoaOnda


GourmetFood

JOSÉ

AVILLEZ

Il rinascimento è iniziato con Expo 1998: è stato allora che un popolo da sempre incline alla malinconia del fado ha rialzato la testa, scoprendosi carismatico e alla moda. In cucina ha avuto un volto: quello scavato di José Avillez (foto a lato), oggi quarantaduesimo ai 50 Best. Non ancora quarantenne, conserva un sogno nel cassetto, chiuso fra lo spelucchino e la mandolina: quello delle 3 stelle, che in Portogallo non hanno mai brillato. Il suo Belcanto ne conta 2, come Alma, sempre a Lisbona, e altri 4 esercizi nel Paese; mentre le stelle singole sono 20, concentrate negli epicentri turistici, quindi la capitale, Porto, Algarve e Madera. C’è chi giura che la ragione stia nella penuria di ispettori della Rossa, quasi tutti spagnoli, quindi diretti concorren-

© GrupoJoseAvillez

ti della cenerentola iberica. Ma la missione non sembra impossibile, anche grazie a prodotti incomparabili, su tutti i mariscos pescati lungo la costa atlantica: gli stessi della confinante Galizia, c’è chi dice perfino migliori, percebes e carabineiros su tutti. Né mancano altre carte da calare, le migliori potrebbero anzi essere ancora girate. È stata la CNN qualche tempo fa a definire il Portogallo come “il segreto culinario meglio tenuto d’Europa”. Il momento è magico per l’ottimismo elettrico, le nuove potenzialità del mercato e anche le sacche di arretratezza fuori dagli avamposti del turismo, fonte di reddito ormai preponderante del Paese. Configurano uno sviluppo a più velocità che significa contemporaneità del non contemporaneo, tecnologia e ruralità, mezzi e materia. Insomma sogno. “Dieci, quindici anni fa chi veniva in Portogallo si sarebbe imbattuto in ottimi ristoranti tradizionali, ma non avrebbe trovato il ventaglio di opzioni che si è aperto adesso. Il paese è rimasto a lungo una destinazione gastronomica sconosciuta. Ma alcuni anni fa si è verificata una rinascita culturale e gradualmente è diventato un nuovo posto da esplorare”, conferma Avillez, fresco del trionfo a Singapore. “Gli chef portoghesi hanno modernizzato i piatti tipici, in modo da rendere la cucina nazionale più visibile. La tradizione, intesa come combinazione di ingredienti e tecniche, è stata coniugata ad elementi contemporanei con uno spirito innovativo. La scena culinaria è diventata sempre più eccitante: il Portogallo sta diventando un punto di riferimento”. Ma quali sono gli atout del paese, in una scena ipercompetitiva e globale? “Direi la tradizione, le influenze, la diversità, la qualità e il sapore. La cucina portoghese è incredibilmente ricca e varia. Grazie ai nostri esploratori, mostra influenze africane ed asiatiche. Non solo il Portogallo è estremamente vario in termini di morfologia del terreno, condizioni climatiche e suoli, ma dal punto di vista geografico non è una nazione omogenea. Il nord è montuoso, le coste centrali presentano dune e pinete, il sud, o Alentejo, è pianeggiante. Cosicché © BoaOnda

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Portogallo

© Paulo Barata

GAZPACHO DI CILIEGIE E AVOCADO INGREDIENTI per 4 persone

g. 500 di ciliegie denocciolate 7 pomodori perini con i rami 1 cipolla media

1 1/2 peperone rosso 1 cetriolo piccolo

1 fetta grande di pane di Alentejo (oppure 3 fette piccole)

1/2 scatola di succo di pomodoro dl. 1 di aceto di Xerez

6-10 cubetti di ghiaccio 1 avocado

succo di limone q.b.

g. 40 di cipolle rosse olio d’oliva q.b. sale q.b.

pepe q.b. PREPARAZIONE

In una ciotola grande, versare il pane senza crosta tagliato a cubetti, il pomodoro tagliato

a piccoli pezzi, la cipolla sbucciata e tagliata a cubetti, il cetriolo pelato e senza semi tagliato a fette e il peperone senza semi tagliato

a piccoli pezzi. Condire tutto con il succo di pomodoro, olio d’oliva, aceto di Xerez, sale e

pepe. Mescolare bene. Coprire con cubetti di ghiaccio. Ricoprire com pellicola trasparente e lasciare nel frigorifero per 12 ore.

Versare l’avocado senza il nocciolo e senza la buccia in una ciotola. Condire con succo di limone, schiacciare com una forchetta e aggiun-

gere un po’ di cipolla rossa tritata. Mescolare bene, aggiungere un filo d’olio d’oliva e mescolare ancora. Conservare al freddo.

Tritare molto bene le ciliegie denocciola-

te, scolarle e conservare a parte. Prendere il gazpacho dal frigo e tritarlo due volte. Per ogni litro di gazpacho, aggiungere 4 dl di passato di ciliegie. Mescolare bene. Se si preferi-

sce una consistenza un po’ piu sottile, passare il gazpacho per un colino. In ogni piatto, met-

tere un po’ della crema d’avocado al centro e aggiungere il gazpacho. Finire con un filo d’olio d’oliva e servire subito con basilico o menta.

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GourmetFood

GAMBERETTI ALLA BULHÃO PATO INGREDIENTI per 4 persone g. 800 di gamberetti 40/50 g. 50 di aglio laminato, senza germe e pelato ml. 80 di vino bianco succo di limone q.b.

coriandoli laminati a piccolissimi pezzi q.b. olio d’oliva q.b. sale q.b.

PREPARAZIONE

Sbucciare i gamberetti, togliere l’intestino e condirli con sale. In una padella antiaderente, mettere un po’ d’olio d’oliva, lasciare scaldare leggermente, aggiungere

l’aglio laminato e cuocere per 30 secondi, senza far perdere colore. Aggiungere i

gamberetti, farli cuocere un po’ voltandoli

uno per uno per una cottura uniforme, bagnarli con il vino bianco, aggiungere i

coriandoli e togliere dal fuoco. Finire con

il succo di limone e il sale, se c’è bisogno. Servire subito.

© Paulo Barata

ogni regione vanta prodotti diversi, formaggi o norcineria, carni, frutta, verdura o erbe… Oltre a una cucina a sé. La nostra gastronomia riflette l’apertura al mondo e la capacità di trarre il meglio dai diversi ingredienti in modi altrettanto vari”. Se Avillez è riuscito a smuovere le acque del Tago, è probabilmente grazie allo spirito imprenditoriale, oltre che al talento, visto che oggi guida 17 locali. “Sono appassionato di cibo e di cucina fin da piccolo: già a 7 anni cuocevo torte con mia sorella, che vendevamo a familiari, amici o vicini. Senza pesare gli ingredienti, riuscivano niente male. Nell’ultimo anno dei miei studi universitari in Business Communication, ho deciso di fare lo chef, ho partecipato a

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sessioni di studio con Maria de Lourdes Modesto, la nostra autrice più importante sulla tradizione, e ho avuto l’opportunità di entrare in una cucina professionale, dove il mio cuore ha iniziato a battere all’impazzata. Le emozioni mi hanno sopraffatto a tal punto, che ho realizzato di aver trovato la mia strada. Negli anni ho incontrato un secondo mentore, che mi ha veramente ispirato: José Bento dos Santos, il più importante gastronomo portoghese. Lui e Maria mi hanno trasmesso generosamente le loro conoscenze e mi hanno sempre supportato, cosa di cui sarò sempre grato. Mentre a scuola da Alain Ducasse ho imparato a padroneggiare le tecniche classiche, conoscere il prodotto e i fornitori, alla ricerca della perfezione. Al Bristol con Éric Fréchon è stata la volta dell’organizzazione, della precisione e della disciplina. Ma Ferran Adrià è stato colui che mi ha aperto la mente e mi ha fatto guardare avanti. Ha cambiato la mia carriera e la mia vita, insegnandomi a pensare e a saltare le barriere mentali”. Fresco di trasloco, il suo nuovo Belcanto è un ristorante elegante nel cuore della città, proprio di fronte alla statua di Pessoa firmata da Folon. Conta su un Lab, modello elBulli, che dopo lo spostamento è ancora in progress, e su un’azienda agricola bio, Quinta do Poial, dove Avillez ha voluto piantare sementi scelte in giro per il mondo; più l’orto personale a Cascais, dove ama piantare, selezionare e raccogliere personalmente ortaggi, frutta ed erbe.


Portogallo

I coperti non sono pochi (come accennato, Avillez è un imprenditore nato), ma l’atmosfera e il servizio sono quelli di una grande maison. E si beve benissimo: per il 90% portoghese (con il pairing al 100%), fra cui rarità quali i sapidi vini delle Azzorre, i macerati di nuova tendenza e una sezione dedicata al Madeira. Anche nel suo stato liquido è un Portogallo eclettico al limite dell’arrendevolezza, tutto da scoprire. Il menu Evolution (185 euro, più 100 o 120 per il pairing) è una mitragliata di trouvailles, che magnificano il prodotto locale con svolgimenti ora comfort, ora avanguardisti. Vedi i cannolicchi con scaglie di purea di lupini ghiacciata, ricci e pesca verde; l’incomparabile carabineiro dell’Algarve in due servizi, prima la coda con il porridge di mais e le vesciche di baccalà alla menta, poi la testa nella crosta di sale alla barbabietola; il tuorlo con purea di topinambur e salsa di sangue o il sorprendente dessert Tinta de choco, con cioccolato e nero di seppia. Ma ci sono anche i signature del ristorante a 165 euro, più

70 o 85 euro, e la carta. “Dico spesso che la tradizione si evolve”, commenta Avillez. “Quando parliamo di cucina contemporanea, ci riferiamo a un processo evolutivo costante: impavidamente ricreare, reinventare, rivisitare, perché pensiamo che le cose si possano fare sempre meglio o quantomeno si possano battere nuovi sentieri. Il processo evolutivo di un piatto rappresenta il nostro stesso processo evolutivo e cammino creativo. Metto le tecniche al servizio del prodotto e la ricetta è il risultato finale”. Nel centro cittadino è fresco di apertura un altro ristorante di Avillez, la Casa dos Prazeres, consacrata a una creatività panasiatica collisa da feticci nazionali, come il Madera nel curry, in collaborazione con lo chef argentino Estanis Carenzo. Il gourmet è al primo piano, dietro lo “speakeasy” di un bancone da street food con asporto. Si aggiunge al mini bar, al bairro, al café, alla cantina peruana, al Cantinho e alla “pizzaria” solo a Lisbona. “Ogni ristorante riflette la mia passione per il cibo e la cucina. Sono tutti unici. Indipendentemente dallo stile, cerco sempre la qualità e il mio scopo è offrire ai clienti una piacevole esperienza. Ogni locale rappresenta un lato della mia personalità, ma Belcanto è lo specchio della mia evoluzione creativa”. Lisbona tuttavia non è solo Avillez, per quanto nessuno neghi il suo ruolo di apripista: negli anni è venuta avanti una generazione di giovani cuochi determinati a sovvertire le mappe geogastronomiche. Impossibile non parlare di Loco, dove Alexandre Silva abbozza una modernità autoriale per i sapori portoghesi, forte del Project 4, piattaforma che riunisce cuochi e produttori del paese, o il figliol prodigo Nuno Mendes, baciato dal successo a Londra, che ha appena inaugurato il suo ristorante a Lisbona, all’ultimo piano del Bairro Alto hotel. BELCANTO

Rua Serpa Pinto, 10 A - 1200-445 Lisboa - Tel. +351 213 420 607 www.belcanto.pt

© GrupoJoseAvillez

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GourmetFood

JOÃO

RODRIGUES

Poi c’è João Rodrigues, 100% lisboeto, più volte eletto cuoco dell’anno dalla critica nazionale. A differenza di Avillez e Mendes si è formato unicamente in Portogallo, dove ha affiancato anche chef francesi, che lo hanno profondamente influenzato nella morbida eleganza. “Per esempio ho lavorato con Sébastien Grospelier”, racconta. “Ai tempi aveva due stelle e ha rappresentato un cambiamento gigantesco nella mia vita professionale. Una questione di dettagli, tecniche e profondo rispetto dell’ingrediente. Ho iniziato a capire che bisogna prendersi cura e sentirsi responsabili di tutti i prodotti e del cibo utilizzato in cucina”. Dal 2009 è chef di Feitoria, ristorante dell’hotel Altis a pochi passi dalla torre manuelina di Belem. Il nome (letteralmente “dove si fanno le cose”) indica l’avamposto che i portoghesi impiantavano ovunque arrivassero durante le esplorazioni del XVI secolo: qui potevano stabilizzarsi, praticare commerci e scambi con i nativi, tanto che vi si concentravano tutte le ricchezze, oro, seta o spezie. Ed è proprio la scena dell’arrivo degli esploratori portoghesi in Giappone a essere riprodotta sul divisorio del ristorante, che per il resto mostra arredi moderni. “Il nostro ritardo nella ristorazione è dovuto soprattutto alla dittatura, che si è protratta fino al 1974, per più di mezzo secolo, con il suo corredo di povertà e mancanza di educazione. Penso che il cibo regionale e tradizionale in Portogallo abbia molto a che fare con la sopravvivenza, quindi l’uso di prodotti locali per sostentarsi. Si sono in questo modo sviluppati molti modi per trasformare qualsiasi parte

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Portogallo

degli animali, dei pesci e dei vegetali in piatti schietti dai sapori diretti. Nel contempo quanto giungeva da fuori veniva considerato contraffatto e sofisticato. Ma ora tutto è diverso: i giovani stanno tornando alla campagna con uno spirito nuovo, ci sentiamo fieri delle nostre origini, possiamo estrapolare il dna del gusto portoghese e renderlo sexy. È arrivato il momento di imparare a venderci e mostrare al mondo in che paese stupendo viviamo”. In questo quadro si inserisce il progetto Materia, che Rodrigues ha avviato nel 2015. “Si tratta di censire piccoli, onesti, seri produttori di tutto il Portogallo, in modo da creare una rete con noi cuochi e favorire la sostenibilità delle nicchie. Ma ha anche riflessi sociali e storici. Voglio che diventi uno strumento informativo per i giovani chef e qualcosa di utile in generale per i ristoratori, gli artigiani e il loro pubblico. La mia cucina è una questione di persone. Ciò che oggi chiamiamo tradizione è il frutto di un’evoluzione,

TONNO ROSSO DAIKON E CAVIALE INGREDIENTI

PREPARAZIONE

1 lime

dire con poche gocce

g. 50 di ventresca di tonno rosso fiore di sale Castro Marim dl. 1 di olio extravergine g. 20 di daikon

g. 2 di maionese al rafano g. 6 di caviale osietra

Tagliare il tonno. Condi succo di lime, fiore di sale ed olio extravergine. Affettare il daikon in lamelle rotonde. Adagiarle con cura sul tonno. Disporvi

sopra la maionese

con crescione e pe-

rilla. Completare con

una quenelle di caviale.

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GourmetFood

Tartelletta di conserva di pomodoro e guance di maiale di Alentejo Pesce del mercato di Peniche, foglie e castagne

Porcino, nocciole e topinambur Piccola selvaggina, fagioli bianchi, cavoli e tartufi

Succo di mela e prezzemolo

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Serra da estrela

Tartare di gambero rosso dell’Algarve, ravanelli e wasabi


Portogallo

nel senso che il cibo è sempre cambiato nella storia. Nemmeno noi siamo gli stessi di un decennio fa. Certo molti piatti hanno una storia e vanno codificati, per fissare qualche punto fermo. Ma preferisco l’idea di un DNA gustativo che rappresenti il Portogallo: identità, persone e modi di fare, storie, mani e abitudini. Insomma gente. Personalmente mi piace raccontare una storia, una curiosità, mostrare da dove arrivano i prodotti”. Per questo prima del pasto arriva in tavola una mappa del Portogallo, che situa e ordina gli ingredienti in un viaggio attraverso il paese, dal mare all’entroterra, di nuovo ventimila leghe sotto l’oceano, visto che Rodrigues prima di coltivare l’hobby del surf si sognava biologo marino. “Aiuta a visualizzare ciò che stiamo dicendo e a capire il lavoro dietro i piatti”. Ma non c’è solo il pesce, rigorosamente di lenza: il vegetale è protagonista di

CALAMARO DI LENZA SALSA AL BURRO DI PECORA CON LIME ED ERBA CIPOLLINA INGREDIENTI

1 calamaro di g. 60

g. 100 di burro di pecora 1 limone

g. 10 di erba cipollina PREPARAZIONE

Mondare e lavare bene il calamaro, asciugarlo

con carta da cucina. Cuocere su una padella caldissima 30 secondi per lato.

Versare poca acqua in un tegame e portare a

ebollizione, togliere dal fuoco e, quando la temperatura scende a 80°C, aggiungere lentamente

il burro freddissimo a dadi, montando con la frusta fino a ottenere una salsa liscia e cremosa.

Aggiungere qualche goccia di limone ed erba cipollina tritata, di nuovo senza aggiunta di sale.

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GourmetFood

OSTRICA CUORI EDULI E RISO CAROLINO ALLA SALICORNIA BRUCIATA INGREDIENTI

PREPARAZIONE

3 grandi cuori eduli di Foz do Arelho

fino alla temperatura al cuore di 48°C.

g. 100 di triglia 1 tazza di riso

2 tazze di fumetto aglio e cipolla

salicornia, lattuga di mare, coriandolo succo di lime

burro di alga codium

Spadellare la triglia e farla riposare Cuocere i cuori eduli in acqua di mare finché non si aprono e sgusciarli.

Soffriggere nell’olio di oliva aglio e

cipolla tritati, unire il riso e il fumet-

to, portare a cottura. Aggiungere la salicornia bruciata, la lattuga di mare, coriandolo, succo di lime e pepe.

Incorporare il burro di alga codium e mantecare fino al rilascio degli amidi e alla legatura.

FEITORIA

Altis Belem Hotel & Spa Doca do Bom Sucesso

1400-038 Lisboa, Portogallo Tel. +351 21 040 0208

www.restaurantefeitoria.com

una degustazione ricca di spunti, Terra, alternativo ai due Materia da 4 e 6 corse (rispettivamente 85, 110 e 135 euro, più il pairing a 45 o 60 euro). Poi c’è lo Chef’s Table per un massimo di due persone, da prenotare con due giorni di anticipo, dove lo chef serve e spiega i piatti. Ed è imperdibile il carabineiro, signature di Rodrigues: un prodotto, una ricetta, senza aggiunta di sale o aromi, solo fumo. “L’idea è quel-

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Portogallo

la di mostrare che less is more e un ingrediente può bastare al fine dining. Per prima cosa viene preparato un olio di carabineiro, in cui si cuoce la coda del crostaceo; mentre le teste sono grigliate e spremute à la presse, quella d’argento in uso per l’anatra. I succhi che se ne ricavano, ricchi e minerali, vengono serviti con le code ed è come mangiare un carabineiro alla griglia di fronte al mare”. Provare per credere.

CARABINEIRO DELL’ALGARVE INGREDIENTI

1 gambero carabineiro di g. 135 dl. 1 di olio di gambero PREPARAZIONE

Separare la testa dalla coda. Decorticare la coda ed estrarre delicatamente il budellino. Cuocerla a fuoco medio nell’olio fino alla temperatura di 47°C al cuore.

Grigliare la testa sui carboni fino a cottura uniforme. Estrarne i succhi con la pressa d’argento, emulsionarli e versare la salsa a fianco della coda. Non salare.

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FashionFood

HOTEL

LE SAINT PAUL UN INTIMO RIFUGIO NEL CUORE DELLA PROVENZA di

Luigino Filippi

Saint Paul de Vence ha ogni anno milioni di visitatori. La sua fama nacque negli anni ’20 del secolo scorso, anche grazie agli artisti celebri ed agli attori famosi che lo elessero come loro dimora, nella calma e lontano dai clamori della Cote. Oggi il minuscolo centro storico è quasi interamente occupato da decine di qualificatissime Gallerie d’Arte che espongono opere di pittori e scultori di fama internazionale. L’ufficio del Turismo stampa depliant anche in italiano ed organizza visite guidate di diversi tipi e persino lezioni di bocce a … Petanque. Nonostante che l’Hotel in pietra faccia parte delle architetture spontanee dei vicoli del XVI secolo, all’interno degli antichi bastioni, si arriva senza scendere dall’auto, citofonando all’ingresso del villaggio, annunciando la propria prenotazione all’Hotel e, come d’incanto le barriere si apriranno subito e proseguirete in auto costeggiando i bastioni, senza percorrere i vicoli del borgo. Questo Relais & Chateau è uno dei più intimi della catena Boscolo. Ha soltanto 3 camere e 13 suite di gran lusso non “sfacciato”, con superficie media di 50 mq ciascuna, qualcuna anche su due piani. Non mancano i gerani rossi ai davanzali che danno sui tetti di coppi antichi multicolori, protetti da persiane e tende oscuranti. La mia 21 aveva un salottino con caminetto poltrone e divano comodi, bei quadri alle pareti, un angolo scrivania, lampade ovunque, una capace cabina armadio con molte grucce tutte uguali, enormi specchiere qua e là, la TV a schermo piatto, un lettone con simpatico baldacchino stilizzato e, co-

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LeSaintPaul me tavolini da notte, due antichi mobili-toeletta. In bagno, con locale wc separato, la illuminazione è a giorno, la vasca Jacuzzi e la doccia sono spaziosissime, due i lavabi nell’antibagno, il bidet (sempre più raro all’estero), una fornitura generosa di asciugamani morbidi e riscaldati, dotazione di specchio concavo e minuterie da toeletta. Venendo quindi al ristorante, sulla terrazza fiorita di fronte alla vallata con vista da cartolina, oppure nelle sue due splendide salette in pietra bianca locale, con tanto di fontana del ‘600 ed affreschi di fiori e frutta sul soffitto che ricordano

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FashionFood

FEGATO D’ANATRA DEL PERIGORD CANDITO DI FINOCCHIO ALL’ARANCIA, PANE DI GÊNES ALLE NOCCIOLE DEL PIEMONTE INGREDIENTI per 6 persone

che non si rapprenda. Conservare al fresco

to di anatra di circa g. 500, g. 8 di sale fino,

Per il paté di frutta d’arancia amara: in una

Per il fegato di anatra del Perigord: 1 fegag. 1 di zucchero, g. 2 di pepe di Timut, g. 20 di Amaretto, buccia d’arancia.

Per il candito di finocchio all’arancia: g. 190 di finocchio (1 bulbo), g. 160 di arancia pelata a vivo, g. 120 di zucchero, g. 3 di fior di sale.

Per il pane di Genova: g. 110 di zucchero,

g. 100 di burro, 3 uove intere, g. 125 di noc-

ciole tostate e pestate, g. 60 di farina, g. 20 di Maizena, 3 cucchiai da tavola di Amaretto.

Per il paté di frutta di arancio amaro: ml. 265 di succo di arancia amara, g. 230 di zucchero, g. 2 di agar-agar, la scorza di un’arancia amara.

PREPARAZIONE

Per il fegato di anatra: prendere il fegato

di anatra e preparare la marinata mescolan-

do tutti gli ingredienti; mettere il fegato a marinare al fresco per 6 ore, avendo cura di capovolgerlo di tanto in tanto.

Per il candito di finocchio all’arancia: ta-

gliare il finocchio in mirpoix e imbiancare per 5 minuti; sbucciare le arance e raccogliare il

tutto con lo zucchero e il sale. Lasciare amal-

gamare per 20 minuti, facendo attenzione

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una nottata.

casseruola, raccogliere tutti gli ingredienti della pasta di polpa del frutto e cuocere a fuoco lento fino a 107°C. Una volta in temperatura,

mantenere in ebollizione per 1 minuto senza superare i 107°C. Lasciare riposare a temperatura ambiente in uno stampo per 2 ore, prima di conservarlo al freddo per tutta la notte.

Per il pane di Genova: montare le uova con lo zucchero e aggiungervi il burro fuso. Al setaccio e con una Maryse aggiungere

lentamente la farina e la Maizena (otterremo

così una miscela ben omogenea); alla fine aggiungere l’Amaretto e le nocciole tostate

e pestate. Cottura a 160°C per 35 minuti. Tenerlo una notte al fresco.

Per il fegato di anatra: tirare fuori il lobo

di fegato d’anatra e, con l’aiuto di una carta oleata, conferirgli una forma cilindrica. Ese-

guire l’operazione due volte con una pellicola alimentare e fare attenzione a chiudere ogni

estremità (con nodi). Per la cottura, portare a

ebollizione una grande pentola d’acqua, spegnere il gas e, fuori dal fuoco, immergere il

fegato di anatra per 23 minuti, poi raffreddar-

lo in acqua fredda (non ghiacciata). Lasciare riposare tutta una notte prima di servire, ricoprendo con il pane di Genova.

un po’ le atmosfere da “Chi vuol essere lieto sia, con musica in vago sottofondo, le fiammelle in boules rosse fanno pendant con corolle di rose fresche ad ogni tavolo, dai rassicuranti tovaglioli grandi e morbidissimi. Già dall’Amuse Bouche al tartufo, l’impronta è di quelle che ti fanno pensare subito: “Ci siamo”, mentre in contemporanea giungono tre tipi di buon pane tiepido per l’inizio pasto. La Carta offre 4 Entre delle quali cito il Foie Gras de Canard du Périgord, confit de fenouil à l’orange et Pain de Gènes aux noisettes du Piemont. Invitante anche la proposta di Sashimi de Loup de Ligne, saisì minute d’un bouillon de racines exotiques, huile de coriandre et jeunes poireaux. Seguono 2 Plat di mare, la Maigre de Méditerranée cuit au beurre safrané, pétites legumes croquants, fèves, moules croustillantes et jus de mer à la rouille; oppure la Tartelette provencale, confit d’oignon, anchois fumés et sirop de tomate anisé. Dei Secondi di Terra cito il Veau en cuisson lente, carottes jaunes aux fines herbes, artichaut poivrade, larde de Colonnata grillé et jus réduit à la sauge.


LeSaintPaul

HOTEL LE SAINT PAUL Boscolo Hotel - Relais & Château 86 Rue Grande

Saint Paul de Vence - Francia Tel. +33 (0)493 326 525 www.lesaintpaul.com

Ai Dessert, oltre a quattro formaggi locali più uno di Corsica, scelti dall’affinatore Maitre Fromager Thomas Metin, che fanno bella mostra all’ingresso del ristorante, esiste un tris di dolci di Paviot Melina chèf patissière, dei quali cito volentieri il Cheescake Mangue, sablé léger au romarin, crème cheese légère à la vanille, sorbet mangue. Esistono anche 3 menu: il Menu Gourmand du Chef, che offre sei portate, a di 72 euro. Un po’ più impegnativo il Menu Degustation di otto portate, comprendente anche due secondi, a 115 euro. Infine il Menu du Marche del mezzodì, che prevede tre portate a soli 42 euro. Prezzi invitanti,

per un’albergo cinque stelle. Il tutto grazie a Romain Massart, chef ventottenne (formatosi alle Cuisine du Magnan à la Mole e poi a reputati fornelli parigini), nonché del suo piccolo staff di cucina per una trentina di ospiti al massimo. Il servizio è diretto da Vincent Forfida, maitre “navigatissimo” già su navi da crociera da giro del mondo. La Carta Vini è un volume da un centinaio di titoli, a partire da 40 euro, ha una anche pagina di mezze bottiglie ed è ancora in via di potenziamento. Concludendo: un indirizzo da inserire in agenda come rifugio romantico per gourmet gourmand, vogliosi di una

sosta in una struttura e in un villaggio che renderanno chiarissimo e indimenticabile ciò che significa in Francia la vera “vie en rose”… Consigliata la bassa stagione, quando non si troverà la “processione” di turisti nelle ruelles del villaggio. Infine: con la tariffa Gran Lusso Baglioni Hotels, si risparmia sino al 35% del valore commerciale dei benefit inclusi nel pacchetto, ma ci si può accomodare qui anche come clienti passanti, semplicemente per consumare una prima colazione con formule diverse (intorno ai 10 euro) e un buffet ricchissimo e ben lontano dai consueti standard alberghieri.

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...FACCIOCOSE... VEDOGENTE... Elsa Mazzolini Giovambattista Latorella

a cura di foto di

Capolavori a Tavola 2019 Venticinque grandi chef italiani si sono ritrovati in Casentino per un vero e proprio galà delle eccellenze enogastronomiche tricolori. Nel luglio scorso si è rinnovato il tradizionale appuntamento estivo di “Capolavori a Tavola” che ha vissuto un’edizione particolarmente significativa: l’evento, infatti, giunto alla diciottesima edizione, ha festeggiato la maggiore età riunendo in una sola sera alcuni dei migliori rappresentanti della cucina nazionale, tra cui ben dodici cuochi stellati Michelin. L’iniziativa è nata nel 2001 dall’intuizione del noto macellaio di Rassina, Simone Fracassi come occasione per promuovere e per far conoscere il prosciutto del Casentino ma, di anno in anno, è cresciuta ed ha coinvolto professionisti e aziende sempre più importanti da tutta la penisola per proporre una cena aperta a tutti che unisce la buona cucina alla beneficenza. L’intero ricavato di questa edizione di “Capolavori a Tavola”, infatti, è stata devoluta in sostegno alla Fondazione Meyer per il reparto di Psichiatria dell’Infanzia e Adolescenza e Neuroriabilitazione dell’Ospedale Pediatrico di Firenze. La serata si è aperta con l’aperitivo in giardino dove erano riuniti i prodotti più celebri delle diverse tradizioni culinarie italiane: dal parmigiano reggiano alle mozzarelle campane, dai presidi Slowfood ai salumi lucani, friulani e toscani, dallo spumante Trento Doc Ferrari a bianchi e rosati della Strada del Vino - Terre di Arezzo. La cena si è svolta poi con un percorso tra tante postazioni dove i vari chef hanno praparato e proposto alcuni dei loro migliori piatti, con molti nomi nuovi tra cui Giuseppe Iannotti, Alessandro Martellini, Giancarlo Morelli, Marco Ortolani, Daniele Sera e Pasquale Torrente. L’edizione del 2019 ha avuto anche un tocco di internazionalità con la presenza di Stelios Sakalis e di Saverio Sbaragli da Ginevra poi, nel parterre degli chef, ha spiccato il

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...facciocose... vedogente...

ritorno della famiglia Cerea di Brusaporto che vanta le tre stelle Michelin e che si è occupata del dolce, oltre a Francesco Bracali e Gaetano Trovato (due stelle Michelin), a Tommaso Arrigoni, Giuseppe Aversa, Stefano Bartolini, Giovanni Luca Di Pirro e Vincenzo Guarino (tutti una stella Michelin) e a tanti altri ancora. Questo percorso culinario è stato accompagnato da champagne francesi e da spumanti, birre e vini del territorio aretino e italiano.

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Eventi

FESTIVAL DELLA CUCINA ITALIANA A PESARO LA 19ª EDIZIONE Tre e diciannove. Sono i numeri del Festival della Cucina Italiana svoltosi a Pesaro dal 20 al 22 settembre. Tre sono le edizioni consecutive nella città di Gioachino Rossini, così come tre sono stati i giorni all’insegna dei buoni sapori. Diciannove sono le edizioni di questo evento che quest’anno si è concentrato su un ambiente maggiormente conviviale con oltre 300 posti a sedere attorno a grandi tavoli rotondi illuminati da centinaia di lucine nella centralissima piazza del Popolo, alla presenza di 25 cuochi dell’Accademia Nazionale Italcuochi, coordinati dallo chef Luca Angelini, presidente della sezione romagnola del sodalizio. Sono stati loro gli ambasciatori del gusto della tre giorni a Pesaro, in un portfolio di proposte per tutti i palati: il gran fritto dell’Adriatico, la polenta Taragna della Lombardia proposta con i funghi Cardoncelli pugliesi, dalla Sicilia non sono mancati arancini e cannoli, così come dalla Romagna sono arrivati gli arrosticini fatti a mano e la speciale porchetta di allevamento locale, insaporita e cotta alla brace direttamente dai pastori. E ancora, le Mariette artusiane, fedeli custodi della tradizione del gastronomo Pellegrino Artusi, alle prese con la pasta fatta mano delle lasagne e con i condimenti di orecchiette e tortellini; senza dimenticare il caffè d’autore, come quello verde, celebre per le sue proprietà antiaging, presentato da Lady Cafè.

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FestivaldellaCucinaItaliana

Ampio spazio è stato riservato al beverage con un’isola dedicata a vini e champagne, un’altra alle birre artigianali. E per gli amanti della mixology d’avanguardia, uno dei più affermati bartender, Charles Flamminio, mago dei cocktail. Insomma, un Festival che come al solito ha puntato sulla più grande qualità, ma accessibile a tutte le tasche, che in questa diciannovesima edizione ha fatto una precisa scelta di campo concentrandosi esclusivamente sui cavalli di battaglia che hanno contraddistinto le passate edizioni. Il Festival è coordinato da La Madia Travelfood e realizzato in collaborazione con il Comune di Pesaro (nella pagina a fianco, la presentazione stampa con Elsa Mazzolini, direttore de La Madia Travelfood e l’Assessore alla Bellezza, Daniele Vimini).

IN COLLABORAZIONE CON

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ilFocusdiAlessandroRossi

a cura di

Alessandro Rossi esperto di vino, bon vivant, fondatore del Premio “Dire Fare Sognare” Giacomo Tachis

© ph Clay McLachlan

CEMENTO VS CERAMICA PASSATO E PRESENTE SULLO STESSO BINARIO PER IL FUTURO Il futuro poggia sempre sulle basi del passato, su questo non vi sono dubbi. Nell’immaginario popolare agreste i nostri vecchi avevano (quasi) sempre ragione. Se consideriamo ciò un assioma (un po’ azzardato) possiamo riconoscere che in campo agronomico questa può essere in qualche modo una verità. In enologia starei leggermente più cauto ma è indubbio che si cerca di guardare al futuro ripescando dal passato, anche perché i cicli del gusto, le evoluzioni del palato sono circolari e prima o poi si ritorna sempre al punto di partenza. Terracotte, cemento, acciaio, legno; ora acciaio, ceramiche e nuovamente cemento. E’ il gusto che comanda nel mondo del vino e le tecniche devono andare

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a supporto dello stile. Ma torniamo alla nostra nuova sfida: cemento vs ceramica come da titolo dell’articolo. Giacomo Tachis (foto qui sopra) riteneva il cemento fondamentale per l’affinamento dei suoi vini e, veggente ipotizzò, un ritorno massivo di questo contenitore. Per Tachis i vini vinificati in cemento dal punto di vista sensoriale avevano sempre un naso molto pulito e aperto, in bocca più sapidità e rotondità oltre a una notevole riduzione dell’attività ossidativa. Il cemento, sempre secondo lui, non accorciava la vita dei vini, anzi. Anche il maestro assaggiatore Giulio Gambelli (foto nella pagina accanto) utilizzava le vasche in cemento per la fermentazione alcolica e malica, prima di traferire il


ilFocusdiAlessandroRossi

tutto nei legni destinati all’evoluzione. Dunque: il cemento contiene la riduzione del vino, lo stabilizza maggiormente, preserva ed esalta la parte frutto, mantiene le temperature delle masse contenute più costanti in fermentazione e lo rende più pulito. Insomma un contenitore che arriva dal passato, perfetto per il futuro. Ma il futuro dicono non sia fatto solo di cemento: ecco, infatti, i contenitori di ceramica per il vino. L’uso della ceramica per la vinificazione ha radici molto antiche databili con certezza a 7000 anni fa. La cantina più antica del mondo è stata scoperta in Armenia, dove si produceva vino oltre 6000 anni fa. In antichità si usava la ceramica perché era considerata il materiale più diffuso per contenere i liquidi ad esigenze alimentari (quindi prestato anche alle pratiche enologiche del passato), come dire che la vinificazione veniva fatta in ceramica semplicemente perché questo era uno dei pochi materiali di cui si disponeva. La scelta della ceramica quindi, inizialmente, fu casuale, ma poi ci si accorse che era particolarmente adatta a questo scopo e adottata definitivamente per moltissimi anni. Anche in questo caso le caratteristiche più importanti dell’argilla ai fini della vinificazione sono l’inerzia termica ma anche la porosità considerata necessaria per l’evoluzione. Chiunque è in grado di capire che, essendo il vino un prodotto vivo, è importante non subisca sbalzi di temperatura rilevanti durante la vinificazione e la stabilizzazione, fasi fondamentali per il vino. La porosità che la ceramica tra le sue caratteristiche principali consente un’ottima ossigenazione che concorre alla perfetta maturazione del vino non solo nella vinificazione in rosso. Il gres è molto più resistente della terracotta e offre prestazioni superiori per quanto riguar-

da la manutenzione e la pulizia, che può essere eseguita con metodi utilizzati anche per i contenitori in legno, come per esempio attraverso il vapore. Quindi, in sostanza, cosa ci regala la ceramica? I vini vinificati in ceramica hanno profumi e sapori più netti e del tutto diversi da altri contenitori: grande propensione all’evoluzione e stabilità nei vini. Quindi? Niente, la sfida finisce qui. Nessun vincitore perché sarà il tempo a decidere cosa il nostro palato vorrà bere in futuro. Per ora sono felice di accettare le tante prove e sperimentazioni che stanno arrivando sul mercato. Felice di un passato che possa diventare futuro e che premi le intuizioni futuristiche di un passato a volte tanto lontano.

Giulio Gambelli


Vinaria

CANTINA

MENEGOLA UNA PASSIONE CHIAMATA VALTELLINA di

Fabrizio Salce

Gentile, ospitale, educato e tanto simpatico: è Walter Menegola, produttore di ottimi vini in Valtellina, una delle aree più importanti dell’enologia lombarda, e allo stesso tempo zona geografica indiscutibilmente difficile da lavorare. Quella che si svolge su questo territorio viene definita “enologia eroica”, che potremmo qui chiamare più semplicemente “passione”. La passione traspare dagli occhi ed emerge dalle parole di Walter mentre ci racconta la storia della sua famiglia, viticoltori dal 1850, di quelle piccole parcelle centenarie di vigna, due ettari in tutto, curate in modo maniacale perché il vino si fa in vigna. Passione per la sua terra, questa Valle che è la seconda area vitata a Nebbiolo più estesa al mondo, per quei vini che se anche richiedono tanti sacrifici sanno bene come regalare altrettante soddisfazioni. La piccola cantina è di recente fondazione, anno 2006, ma sin da subito, con il primo raccolto, Walter e suo fratello Orlando hanno dato prova di abilità non indifferente producendo vini molto interessanti. Nebbiolo chiaramente, coltivato rigorosamente a mano sui terrazzamenti impervi di questo particolare terroir dove le vigne hanno storia secolare che

si perde nel tempo. Vini che si sono messi subito in evidenza sin dal primo assaggio: freschezza, sapidità, eleganza, profumi, delizioso risultato di un lavoro ben fatto su tutta la filiera produttiva. Quattro espressioni da non farsi mancare nella propria cantina: Orante, un 100% Nebbiolo da vigne poste su terreni argillosi con età media di 35 anni, Valtellina Superiore DOCG, molto profumato e fresco. Rupestre Sassella DOCG da uve Nebbiolo coltivate su terreni rocciosi, vigne di età media di oltre 60 anni, vino elegantissimo e dalla deliziosa bevibilità. Doveroso ricordare che il Sassella DOCG si realizza nella zona compresa fra Castione Andevenno e la parte territoriale a ovest di Sondrio, l’aerea decisamente impervia supera di poco i 100 ettari. Riserva Sassella DOCG: per questo vino le vigne superano i 100 anni di vita, il tempo e la mano dell’uomo hanno saputo arrivare ad un risultato finale nel bicchiere che è vanto e orgoglio dell’azienda. Vino interessantissimo con tannini vellutati e dall’ottimo equilibrio tra mineralità, sapidità e freschezza. Sforzato, Sforzato di Valtellina DOCG, da vigneti più giovani, 25 anni di media, si presenta come il risultato di un vino di pregio decisamente piacevole e generoso di emozioni per chi lo gusta. Una quinta espressione è rappresentata da un gradevolissimo vino rosato, Inciso, ricco di note floreali e molto amato dal pubblico femminile. Una realtà a sfondo artigianale quella dei fratelli Menegola, ma decisamente di altissimo livello qualitativo: qualità e non numeri, questa è la giusta filosofia di chi vuole lavorare bene. Di fronte alla cantina c’è poi La Tavernetta, il ristorante di Walter e Orlando. È un locale che si addice senza false parole a tutte le situazioni: cena romantica, in famiglia, pizza con amici, serata a base di pesce, piatti tipici della Valtellina, cerimonie. Posto accogliente, ottimo il servizio e ricercata scelta delle materie prime; bere i vini della cantina con i piatti più idonei completa l’esperienza enogastronomica. CANTINA MENEGOLA

Via Ezio Vanoni, 16 - Castione Andevenno (SO)

www.cantinamenegola.it - info@cantinamenegola.it

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Vinaria

VINO

LA VENDITA EN PRIMEUR di

Questo tipo di vendita, che ormai ha preso piede anche in Borgogna e in Côtes du Rhône, è riservata ai migliori vini di Bordeaux; i commercianti, attraverso i broker, acquistano quasi il 90% dei Grands Crus. Dopo la transazione, il vino rimane sotto la responsabilità del venditore, che lo conserva e lo affina nelle proprie cantine fino all’imbottigliamento, circa 18 mesi dopo. Pertanto, ad esempio, i vini dell’annata 2013, venduti in primeur nel 2014, saranno consegnati a partire dalla prima metà del 2017, al momento dell’imbottigliamento, e previo pagamento dell’IVA. A Bordeaux questa pratica conta circa 300 parti interessate, dal piccolo distributore/rivenditore alle grandi aziende che combinano l’attività di distribuzione in-

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Mario Federzoni

ternazionale con l’ulteriore affinamento dei vini acquistati. Sono almeno 2 i vantaggi derivanti dall’acquisto en primeur: 1. Prezzi molto vantaggiosi rispetto a quelli che verranno applicati due anni dopo. Quindi si realizzerà un risparmio di circa il 10-30% e più, a seconda del valore degli Chateau. Ma attenzione alle delusioni! E soprattutto a prezzi che potrebbero essere più interessanti negli scaffali dei supermercati e nelle fiere del vino. Per quanto riguarda le aziende vinicole, queste ultime beneficiano di notevoli somme ricevute in anticipo rispetto all’uscita dei loro vini. 2. Assicurazione di poter disporre dei vini desiderati, soprattutto quando si tratta di grandi vini o di un’annata am-

bita che promette di essere eccellente. Quali sono i rischi? Ciò che viene acquistato non esiste ancora. Questo è il rischio principale e, in termini assoluti, tutto è possibile: ad esempio, in attesa della consegna, il venditore potrebbe essere fallito e non più in grado di consegnare la merce e, nella legislazione francese, un creditore semplice non ha alcuna sicurezza particolare ecc… In molti, negli anni scorsi, sostenevano che l’acquisto en primeur non sempre si rivela un buon investimento, ma Jean-Christophe Estève, noto assaggiatore di Bordeaux, fondatore e presidente del club di vendita di vino per corrispondenza Sovinat, ha osservato che negli ultimi anni l’acquisto è sempre un buon affare; ciò in funzione di


Lavenditaenprimeur

alcune sue osservazioni che riportiamo in sunto: (annata 2008) Château Talbot (Saint-Julien) € 28,50 en primeur e € 44,00 nel 2011; Château Giscours (Margaux) da € 30,00 a € 45,00; Château Calon Ségur (Saint-Estèphe) da € 32,50 a € 70,00; Château Beychevelle (Saint-Julien) da € 29,50 a € 85,00; Château Brane Cantenac (Margaux)

da € 28,50 a € 50,00; Château HautBailly (Pessac-Léognan) da € 46,00 a € 73,00. E ancora, Chateau Ausone (Saint-Emilion), venduto in primeur a € 480,00 raggiunge € 1.500,00; Château Margaux è passato da € 178,00 a € 780,00; Château Latour (Pauillac) da € 168,00 a € 1.230,00; Petrus (Pomerol) da € 295,00 a € 2.400,00 ecc…

LA SETTIMANA DELLE DEGUSTAZIONI Di solito si svolge all’inizio di aprile: gli acquirenti di vino, provenienti da tutto il mondo, si affollano a Bordeaux per assaggiare i campioni prelevati dalle botti. Erano 8.000 nel 2011, professionisti provenienti da quasi 70 paesi che rappresentano quasi il 40% dei visitatori. Le degustazioni sono coordinate dal CIVB; si assaggia, ma soprattutto si annota e si vive nell’attesa dei pareri delle di riviste specializzate come La Revue du Vin de France, Wine Advocate di Robert Parker, Wine Spectator, Le Point eccetera… I loro voti saranno decisivi sia per la formazione dei prezzi (annunciata alla fine di giugno) che per la richiesta di mercato. Un vino valutato sopra i 90 punti da Parker beneficerà di un costo più alto e di una richiesta più forte. In ogni caso è noto che le vendite in primeur reggono un giro d’affari di oltre un miliardo di euro. La settimana delle degustazioni si svolge come una settimana della moda, in cui devi essere ovunque e avere talento e palato per valutare bene i vini più importanti, le cui scorte sono tutt’altro che inesauribili. Ecco fondamentalmente dove bisognerebbe essere (a quanto pare, avendo il dono dell’ubiquità): Degustazione dei futures Bordeaux e Bordeaux Supérieur: • Settimana dei Futures dell’Unione dei Grands Crus di Bordeaux (UGCB - 132 soci). • Degustazione Dolce Bordeaux (vini dolci) • Degustazione Syndicat Viticole des Graves • Degustazione di vini Saint-Emilion Grands Crus Classés Association • Degustazione di Lalande de Pomerol • Degustazione del gruppo di Premiers Grands Crus Classés di Saint-Emilion • Degustazione di Biodyvin • Degustazione di fuori classe • Collezione di degustazione di oenoconseil • Degustazione dei vini di Michel e Dany Rolland e di quelli vinificati in collaborazione con François Lurton • Degustazione di vini Bernard Magrez • Degustazione di Hubert de Boüard.

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Vinaria

Dalla vendemmia 2012 Chateau Latour e Chateau d’Yquem hanno deciso di abbandonare le vedite en primeur; per unanime decisione, i loro vini saranno commercializzati solo nel momento in cui saranno pronti da bere. Come non dar loro ragione quando, ad esempio, un Château Latour 2008, venduto in primeur a 150 € la bottiglia raggiunge oggi sul mercato oltre gli € 800. Ma comprare vino en primeur nel nostro Paese è possibile? Pare siano 3 le possibilità: 1. Rivolgersi a una enoteca che, sotto la propria responsabilità, in Italia venda i cosiddetti “future” (prenotazioni di di bottiglie). In un recente passato anche alcuni produttori ci provarono, ad esempio tempo fa (1995 e 1997), furono emessi future sul Brunello di Montalcino della Banfi e (1998) sul Barolo di Fontanafredda, ma le operazioni non furono più ripetute. 2. Rivolgersi al Banco di Sicilia che, da qualche anno, vende certificati en primeur emessi da alcune (poche) notissime case vitivinicole italiane, che danno al loro possessore il diritto di ricevere a casa propria il tipo di vino richiesto, nella data indicata sul certificato. È la Banca stessa, in questo caso, a dare garanzia di rimborso nel caso in cui l’azienda produttrice, per qualunque motivo, non dovesse consegnare il vino alla scadenza pattuita. 3. Rivolgersi a società - on line - che si occupano di gestire vendite “en primeur”, e che, in base alle disponibilità dei vari lotti, mettono a disposizione degli acquirenti oltre 25 etichette dei più famosi vini italiani.

ESEMPIO DI VENDITA EN PRIMEUR 1. Settembre 2014. Vendemmia. 2. Ottobre 2014. Il vino viene messo in botte. 3. Marzo/Aprile 2015. I produttori invitano i commercianti all’ingrosso e i giornalisti specializzati per degustare i vini in corso di elaborazione. I critici attribuiscono un punteggio ai vini che avrà un valore fondamentale per la fissazione dei prezzi. 4. Maggio 2015. I produttori fissano i prezzi dei loro vini, determinati dalle valutazioni ottenute durante la settimana delle primeur; la vendita in primeur permette loro di essere pagati prima che i loro vini siano pronti per essere immessi sul mercato. 5. Maggio/Giugno 2015. Vendita en Primeur… I commercianti acquistano i vini a prezzi più convenienti di quelli finali; poi li rivendono ai distributori, ai ristoranti ecc.. con aumento di prezzo rispetto al loro acquisto. Ovvio che la Primeur favorisce la speculazione e l’incetta dei vini più pregiati. 6. 2017. Dopo circa tre anni d’affinamento, consegna dei vini imbottigliati agli acquirenti. Nota: nel 2014 sono state vendute 685 milioni di bottiglie, per un valore di 3,7 miliardi di euro, delle quali circa il 40% all’estero (principalmente in Cina, Germania e Belgio).

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Vinaria

FANTAENOLOGIA? IL VINO SU MARTE di

È molto probabile che, prima dell’uomo, a mettere radici su Marte sia una vite. Questo è infatti l’ambizioso obiettivo che un gruppo di scienziati e tecnici della Georgia si è prefissato di raggiungere nel volgere dei prossimi anni, contro lo scetticismo e le facili ironie di chi ha accolto la notizia come l’ennesimo fake da web. Eppure le dichiarazioni del fondatore dell’agenzia di ricerca spaziale della Georgia, Nikoloz Doborjginidze, vanno esattamente in questa direzione: «I nostri antenati hanno portato il vino sulla Terra - avrebbe detto - noi possiamo fare la stessa cosa su Marte». Tutto nasce dalla recente valorizzazione da parte di molti esperti e tecnici europei delle

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Gianluca Ricci

peculiarità della Vitis vinifera Mgaloblishvili, un vitigno autoctono georgiano che secondo i numerosi esami a cui è stato sottoposto avrebbe sviluppato un raro ma preziosissimo sistema di autodifesa dagli assalti letali della peronospora. A studiarne le miracolose caratteristiche sono stati dei caparbi ricercatori italiani di Milano e Trento, in collaborazione con alcuni colleghi georgiani: questa scoperta permetterà da un lato di lavorare alla creazione di varietà di vite resistenti autonomamente alla malattia e capaci comunque di dare vita a vini di qualità e dall’altro di esportarle in territori anche apparentemente poco adatti alla coltivazione. Marte rappresenterebbe dunque la

soluzione estrema, ma certamente la più affascinante. Ecco perché in Georgia si sta alacremente lavorando per rendere realistico un progetto che fino a qualche mese fa sarebbe sembrato un ottimo soggetto per un romanzo di fantascienza. D’altronde le scoperte fatte dall’equipe di ricercatori sulla Vitis vinifera Mgaloblishvili vengono considerate nell’ambiente uno dei più importanti risultati ottenuti nel campo della tutela e della valorizzazione delle risorse genetiche della vite, al punto tale che i risultati del loro lavoro sono stati pubblicati sulla prestigiosa rivista Nature, nella sezione Scientific Reports. Se opportunamente sviluppato, questo progetto potrebbe portare ad


fantaenologia

una riduzione dell’80% dei fitofarmaci attualmente utilizzati per proteggere i vigneti dai pericoli delle malattie e alla diminuzione dell’uso del rame in campagna. La varietà su cui si è concentrata l’attenzione dei ricercatori ha permesso di individuare ben sei geni che potrebbero essere la causa della resistenza alla peronospora: ora basterà andare per esclusione e individuare il gene che potrebbe liberare per sempre l’enologia dal flagello peronospora. Per questo, insieme alla mappatura genomica, si stanno sperimentando i primi incroci, per il momento con l’internazionalissimo Pinot Nero. Se le ricerche avranno esito postivo, avremo presto un Pinot resistente alle malattie ed esportabile ovunque. Persino su Marte. Pare confermato che in Georgia, Paese di origine della supervite, si sia già messo in moto un team formato da scienziati dello spazio e dell’agricoltura per sviluppare un’uva in grado di attecchire nei deserti rocciosi del pianeta rosso e di crescere a dispetto dello scetticismo di molti: si tratterebbe del progetto “IX Millennium”, attivato all’indomani delle richieste avan-

zate dalla Nasa per promuovere idee funzionali al miglioramento delle condizioni di vita dell’uomo su Marte. IX Millennium perché in Georgia si vantano di coltivare la vite da 9mila anni, secondo quanto certificato da recenti scoperte archeologiche. La coltura sperimentale dovrebbe essere quella del “vertical farming”, ovvero l’agricoltura verticale che si pratica solitamente in mancanza di spazio. Essa andrà integrata con un’attenta sperimentazione dei terreni più adatti al suo attecchimento, in modo da simulare dati alla mano la migliore opzione di sviluppo sul suolo marziano: va inoltre aggiunto che le variabili ambientali risulteranno decisamente differenti rispetto a quelle terrestri, visto che le temperature si manterranno ben al di sotto della soglia dello zero, che i livelli di monossido di carbonio saranno assai più elevati e che la pressione atmosferica, parametrata a quella del nostro pianeta, risulterà pari a quella che da noi si misura a 6mila metri di altezza. Una missione impossibile all’apparenza, ma alla quale un team di scienziati sta già lavorando alacremente: allo studio i sistemi più adatti per far fronte alle anomalie appena descritte attraverso accorgimenti ultramoderni che dovrebbero mitigare gli effetti negativi delle condizioni ambientali apparentemente avverse. E se per miracolo dal suolo del pianeta rosso germinerà un vitigno, si tratterà di verificare chi e come provvederà a trasformare i suoi frutti in vino: un’impresa per la quale sarà forse opportuno mettere al lavoro un’altra equipe di tecnici visionari. Suggestiva è l’idea però che un giorno un astronauta-contadino possa raccogliere qualche grappolo d’uva, lavorarlo con qualche rudimentale marchingegno trasportato chissà come dalla terra e brindare al successo della missione con un vino più che autoctono. I più informati sostengono che nel bicchiere sarà molto più probabile che sia presente un bianco, per sua natura più vocato a lavorazioni “difficili”. Se non altro si potrà dare vita ad una nuova branca scientifica, la fantaenologia.

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GourmetFood Vinaria

“VINI GREEN” MA QUALI SONO LE DIFFERENZE? di

Mario Federzoni

Cercando di fare maggiore chiarezza sui recenti movimenti dei produttori vinicoli cosiddetti “green”, non nego di aver percepito, oltre a parecchie note positive, anche diverse criticità, prima tra tutte quelle relative ai controlli: in molti casi non si capisce chi è che deve porsi a garante del “manifesto”, chi è che ha il compito della sorveglianza, e se chi poi alla fine certifica, abbia verificato in loco, anche con visite frequenti e approfondite. Non vorrei che gestione e conduzione delle varie categorie sotto indicate siano affidate solo alla “serietà” dei produttori o che ricalchino, come spesso accede in Italia, le tante (e, a questo punto, forse anche troppe) certificazioni ISO che, alla prova dei fatti, producono solo confusione e un mare di documenti elencanti i metodi da seguire, senza che vengano effettuate profonde e continuative verifiche relative alla merceologia cui si riferiscono (purtroppo durante la mia carriera ne ho avuto più di una prova diretta). A chi avrà la bontà di leggere questo articolo lascio il giudizio finale, che nel caso, non sarebbe male corredare di qualche bell’assaggio a riprova.

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IL VINO BIOLOGICO In base al Regolamento Europeo 203/2012 possono fregiarsi del logo Bio solo i produttori che: 1) utilizzano solo uve coltivate con metodi di agricoltura biologici, senza sostanze chimiche di sintesi e senza Ogm. 2) effettuano la vinificazione utilizzando solo prodotti enologici e processi autorizzati dal citato regolamento 203/2012, evitando l’aggiunta di sostanze chimiche abitualmente in uso per la correzione del vino: non è consentito l’uso di acido sorbico e la desolforazione. 3) quantità massima di solfiti ammessi per il vino biologico 100 mg/l per i vini rossi e 150 mg/l per i bianchi e rosé, con un differenziale di 30 mg/l quando il tenore di zucchero residuo è superiore a 2 grammi per lt. ; la derivazione del prodotto da uve biologiche sarà controllata e certificata dai vari enti certificatori, che stilano ognuno un proprio disciplinare (?) con le norme da seguire affinché il vino possa essere certificato come biologico. (Esempio di enti certificatori per l’agricoltura: AIAB, CCPB, IMC, ECOCERT, FEDERBIO, CODEX etc...; per la vinificazione : AIAB, ICEA, CCPB etc…)

IL VINO BIODINAMICO L’agricoltura biodinamica è un sistema di coltivazione nato dalle ricerche del filosofo austriaco Rudolf Steiner negli anni Venti. Il concetto di base di questo tipo d’agricoltura, come vedremo, è quello dell’eco-sostenibilità (rispetto dell’ambiente, mantenere la terra fertile, usare solo sostanze naturali, produrre vini di alta qualità).

Non esiste nessuna normativa ufficiale europea che certifichi il metodo biodinamico, se non gli scritti di Steiner e dei suoi allievi, tuttavia il sistema è regolamentato dalle associazioni volontarie “Demeter”, e dalla più recente “Renaissance d’Appellation” che, oltre a bandire completamente l’uso della chimica ed a ridurre al minimo l’uso di macchinari, escludono l’utilizzo di additivi aromatici, di enzimi e batteri, di zuccheri, ed escludono inoltre alcuni metodi spesso seguiti nella preparazione del vino, come l’acidificazione, la chiarificazione. L’agricoltura biodinamica si basa sul rispetto del corso naturale della natura e delle sue risorse; i suoi principali fondamenti, applicati alla coltivazione della vigna e alla produzione del vino, sono i seguenti: 1) mantenere la fertilità della terra, stimolando in essa le materie nutritive già presenti; 2) rendere sane le piante in modo che possano resistere alle malattie e ai parassiti senza l’utilizzo di composti chimici; 3) produrre vini di alta qualità, che nutrano l’organismo in modo corretto per preservare la condizione naturale di equilibrio; 4) ricreare l’humus nel terreno in cui vive la radice della pianta della vite; 5) utilizzo della cornosilice (501), un preparato da spruzzo che concentra e potenzia le forze luminose proprie della silice e che regola la maturazione dei frutti; 6) utilizzo del cornoletame (500), che stimola e armonizza i processi di formazione dell’humus. Quanto precede, ribalta completamente la logica dell’agricoltura industriale moderna, che utilizza in larga parte antiparassitari, pesticidi, antibiotici. Il vino biodinamico limita ulteriormente l’uso dei solfiti: 70 mg/l nei vini rossi, 90 mg/l nei vini bianchi e 60 mg/l in quelli frizzanti.

I presupposti sono dunque simili a quelli dell’agricoltura biologica, solo che, in questo caso, si affrontano le pratiche agrarie in modo più esoterico, con riti quasi magici, molto legati a pratiche ancestrali come, ad esempio, la concimazione con quarzo rosa o l’assoluta attenzione alle fasi lunari e dello zodiaco. Infatti, l’agricoltura biodinamica considera di primaria importanza le influenze “cosmiche”, ritenute essenziali per lo sviluppo degli esseri viventi, quindi utilizza le “dinamizzazioni”, cioè alcuni specifici preparati naturali che, usati in piccolissime percentuali, una volta disciolti in acqua, vengono dinamizzati (con veloce mescolamento alternato in senso antiorario e poi orario), poi distribuiti sui terreni o sulle foglie delle piante. Queste pratiche, secondo i principi biodinamici, servono ad incrementarne le capacità biologiche (fotosintesi,

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accumulo di sostanze, prelievo di nutrienti dal terreno, eccetera), tenendo in conto le leggi della natura, che è influenzata anche dai cicli cosmici (pianeti, satelliti e stelle). Infine, ma assolutamente non come ultima cosa, sono ritenuti importantissimi gli equilibri dell’habitat in cui crescono le viti, dove ogni essere vivente fa la sua parte, come le “micorrize” che aiutano le radici ad assorbire meglio i nutrienti dal terreno, o gli insetti “benevoli” che eliminano altri parassiti “dannosi” per la pianta (per micorrize s’intende il rapporto di simbiosi che si viene a creare nella rizosfera, ovvero la porzione di suolo adiacente alle radici della pianta: mycos è il termine greco per dire fungo mentre rhiza significa radice). Per i nuovi iscritti a Demeter questo è il percorso da seguire: - Fase di tutoraggio e preparazione tecnica, conoscitiva e relazionale dell’azienda per l’accesso al sistema di controllo per la concessione del marchio Demeter. - Fase ispettiva di accesso al sistema di controllo per la concessione del marchio Demeter. - Per poter avere accesso al sistema Demeter l’azienda agricola deve essere assoggettata al controllo per l’Agricoltura Biologica così come previsto dal Reg. CE 834/07 e 889/08; per avere il marchio infatti è obbligatorio essere anche certificati biologici. - Ogni anno le aziende agricole, di trasformazione e di distribuzione vengono ispezionate e valutate con relativa decisione del Consiglio Direttivo dell’associazione Demeter.

IL VINO NATURALE Leggermente più semplice è spiegare invece che cosa sono i vini cosiddetti “naturali”: si tratta di vini che, nelle intenzioni degli assuntori del “manifesto”, sono realizzati senza additivi chimici né manipolazioni o aggiunte da parte dell’uomo. Anche in questo caso, tuttavia, esistono alcune sfumature: le vigne, tutte a bassa resa, sono trattate, ma solo con sostanze naturali come zolfo e rame, ridotte al

minimo, così come la fermentazione e l’affinamento, che vengono effettuate solo con lieviti indigeni già presenti nell’uva. Per i solfiti, in alcuni casi, si può chiudere un occhio: anche se non dovrebbero essere aggiunti a quelli che si sviluppano naturalmente durante la fermentazione alcolica, nel caso si verificassero annate particolarmente carenti i solfiti possono essere utilizzati in quantità minime, mediamente 30 mg/l per vini rossi e rosati e 50 mg/l per i vini bianchi (?). Il concetto di “vino naturale” è, tuttavia, ancora abbastanza controverso, in quanto gli stessi viticoltori hanno spesso opinioni diverse sulle pratiche considerate accettabili, così resta, a tutt’oggi, difficile dare una precisa definizione di “vino naturale”, tanto che non esiste alcuna legislazione nazionale o europea sulla esatta definizione di questo tipo di produzioni. Il nome “vino naturale” non è quindi certificato da nessun organismo accreditato. C’è da dire, però, che tutti i produttori dichiarano di voler produrre vini con una specifica identità di terroir e proclamano di rifiutare le varie possibilità d’intervento in fase di vinificazione, che sarebbero permesse dalla legislazione europea sul vino biologico.

IL VINO LIBERO “Vino Libero” è un’associazione fondata nelle Langhe da Oscar Farinetti (patron di Eataly), con l’obiettivo di perseguire un’agricoltura sostenibile ed economicamente più vantaggiosa per le imprese agricole. I capisaldi dell’associazione sono: proporre vini liberi da concimi di sintesi, da erbicidi e con un contenuto di solfiti inferiore almeno del 40% rispetto al limite previsto per i vini cosiddetti “in-

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dustriali”. Le metodologie per far ciò sono le seguenti: in fase di vinificazione si pone particolare attenzione al tempo di attivazione della fermentazione, poiché una partenza veloce riduce i rischi di attacchi microbiologici e ossidativi; al termine dell’attività fermentativa, anche la gestione del vino sulle fecce fini rappresenta un’ottima alternativa all’uso della solforosa; infine, durante affinamento e travasi, si protegge il vino dal contatto con l’ossigeno mediante l’utilizzo di gas inerti. Tutto ciò dovrebbe dar vita a un nuovo modello agricolo, in grado di rispettare l’ambiente ed evitare pratiche dannose per il suolo, senza la necessità di obbligare le imprese agli esborsi necessari per ottenere la certificazione biologica (?). Quindi la differenza tra “vino biologico”, certificato secondo il Regolamento Europeo 203/2012, e “vino libero” consiste nella riduzione della chimica sia in cantina che in vigneto, ma il vino cosiddetto “libero” sarebbe tale semplicemente perché “autodisciplinato” da produttori che non intendono sottostare alle regole previste dall’Europa per ottenere le dovute certificazioni. Una questione che ha molto più a che fare coi costi aggiuntivi (o forse anche con i controlli) che ne deriverebbero, che con un più etico concetto di “libertà”.

I VINI TRIPLE A A Genova, nel 2003, Luca Gargano ha fondato il Movimento “Triple A”: Agricoltori, Artigiani, Artisti. Il movimento ha stilato un decalogo portato avanti dai produttori associati. Secondo gli aderenti al movimento i vini Triple A possono nascere solo: - da una selezione manuale delle future viti, per una vera selezione massale (ogni vignaiolo tenta cioè di selezionare le proprie viti “ideali”, che devono essere innanzitutto in grado di produrre uve sane, belle e integre. L’espressione “selezione masale” designa quindi la ricerca dei ceppi che producono le uve migliori allo scopo di moltiplicarli.); - da produttori agricoltori, che coltivano i vigneti senza utilizzare sostanze chimiche di sintesi rispettando la vite e i suoi cicli naturali; - da uve raccolte a maturazione fisiologica e perfettamente sane; - da mosti ai quali non venga aggiunta né anidride solforosa né altri additivi - l’anidride solforosa può essere aggiunta solo in minime quantità (?) al momento dell’imbottigliamento; - utilizzando solo lieviti indigeni ed escludendo i lieviti selezionati; - senza interventi chimici o fisici prima e durante la fermentazione alcolica diversi dal semplice controllo delle temperature. (Sono tassativamente esclusi gli interventi di concentrazione attuati con qualsiasi metodo); - maturando sulle proprie “fecce fini” fino all’imbottigliamento; - non correggendo nessun parametro chimico; - non chiarificando e filtrando prima dell’imbottigliamento. Non vi sono tracce di certificazioni di sorta, sia a livello nazionale che europeo, per questa categoria.

GLI ORANGE WINES Gli Orange Wines non sono altro che vini da uve bianche, solitamente molto aromatiche e piraziniche (che hanno cioè sentori vegetali, precussori di quelli propriamente aromatici del vitigno), ottenuti dal prolungato contatto con le bucce dell’uva, prima col mosto, e poi col vino (di durata variabile da pochi giorni a diversi mesi), al fine di ottenere il massimo di concentrazione delle sostanze aromatiche tipiche del vitigno. Infatti, sono le bucce dell’uva, artefici del naturale apporto di tannini, polifenoli e, in parte, di terpeni, a rendere questi vini molto complessi sia al naso, sia in bocca. Da questo processo, tipico di vinificazione dei vini rossi, solitamente ottenuto utilizzando i cosiddetti “qvevri” (anfore giganti in terracotta originarie della Georgia) o le più semplici botti o vasche in cemento nostrane, si ottengono anche colori assai inusuali per un vino bianco, molto carichi ed aranciati (da qui il nome “orange wine”). Questi vini dovranno assolutamente essere prodotti solo con uve da agricoltura super-pulita, biologica o biodinamica (?), perché tutto quello che si trova sulle bucce si ritroverà poi nel vino; inoltre, secondo il “manifesto”, non si possono usare additivi esterni.

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BUONENUOVE!

LAMBRUSCO

Xxxxx Xxxx

LA SUA STORIA, LE SUE CARATTERISTICHE di

Ebbene sì, lo confesso, sono modenese puroXxxxxxx sangue, sangue frizzante, del colore del nostro vino principe, il Lambrusco! Vorrei, in onore di questo nobile vino, fin troppo bistrattato in Italia (ma, grazie a Dio, di grande fortuna all’estero), accennare a un po’ della sua storia, forse una delle più antiche d’Europa, iniziando da quella che noi, in Emilia, abbiamo da sempre chiamato il matrimonio perfetto: “la vite maritata all’olmo”. Nelle nostre zone la vigna trovò nell’olmo qualcosa di più di un semplice sostegno, molti viticoltori di una volta affermano infatti che, quando qualcuno provò a sostituire l’olmo con altri alberi, il vigneto cresceva con minor vigoria, molto probabilmente perché quella della vite con l’olmo è una sorta di simbiosi, che riguarda anche l’apparato radicale e i funghi simbionti delle radici delle due piante (micorrizae). E’ l’agricoltura biodinamica che, ultimamente, ha riscoperto e valorizzato il ruolo importantissimo della simbiosi fungina nel ciclo vitale e nello sviluppo delle piante; ecco quindi spiegato il motivo dell’antico modo di dire “vite maritata all’olmo”, infatti, come detto. già dal tempo dei latini si usava l’immagine della vite con l’olmo come metafora del matrimonio perfetto. I vitigni coltivati, che anticamente si designavano come Lambruschi, erano assai rustici, con pezioli (segmenti anteriori dei peduncoli) rossi o con foglie che tendevano al rosso in autunno, con acini più o meno piccoli e radi, ma fortemente colorati e, come detto, amavano tutti quanti salire sui tronchi degli alberi. La storia del Lambrusco ha dunque radici e testimonianze antichissime, Etruschi, Romani, ed ancor prima i Galli Liguri conoscevano bene questo vitigno.

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Tra le reliquie della Mutina romana, ad esempio, si trovano reperti di tronchi d’albero maritati alla vite, riferentesi ad un’età più antica rispetto a quella degli etruschi e dei Galli Boj. Lucio Moderato Columella e Discoride, (medico e farmacologo greco) citano spesso la “lambrusca” già nel I° secolo, come pure Plinio il Vecchio, grande naturalista morto durante un’eruzione del Vesuvio, che, a proposito delle caratteristiche di questo antico parente del Lambrusco, afferma come sia “singulare remedium ad refrigerandos in morbis corporum ardores” (rimedio straordinario per raffreddare il calore e per curare i corpi). Come spesso accade nella storia del vino, i Romani iniziarono per primi a coltivare questa particolare pianta che produceva piccoli grappoli con acini minuti, ma dal colore assai intenso, che apprezzavano, poiché da essi si ricavava un vino spumacensis, titillans (e quindi frizzante) apprezzatissimo nelle occasioni conviviali. Infatti, la produzione di vini frizzanti è più antica di quello che si crede: la consuetudine di produrre vini con una sola fermentazione spontanea o controllata degli zuccheri, svolta in anfore di terracotta, chiuse ermeticamente, era comune in epoca romana, e tra i primi a testimoniarlo c’è il solito Virgilio (70 – 19 a.C.) che scrisse “Spumat plenis vindemia labris”. I Romani producevano il “Potropum”, un vino dolce e spumante ottenuto impedendo la fermentazione totale dei mosti con l’immersione dei vasi vinari nelle fredde acque dei pozzi, per poi riprenderla esponendo il mosto stesso a fonti di calore. Plinio notava a proposito del Protropo: “Così chiamano alcuni il mosto, che per sè medesimo esce dalle uve, prima che si

pigino. Lo lasciano bollire nei tini e poi lo lasciano fermentare quaranta giorni al sole durante l’estate”. Facendo un salto di qualche secolo, troviamo alcune leggende medievali riguardanti l’abbondante produzione vinicola del territorio modenese: in particolare si narra che nel 1084, durante una battaglia che vedeva i soldati di Matilde di Canossa contrapposti alle milizie imperiali, queste ultime, durante una pausa dei combattimenti, si recarono presso l’abitato di Sorbara per rimettersi in forze e rinfrancarsi lo spirito col vino locale. Pare che le truppe imperiali di vino ne bevessero tanto che, praticamente ubriache, furono facilmente sconfitte negli scontri successivi. E ancora: il medico romano Andrea Bacci, nel ’500, scrive che “Sulle colline di fronte a Parma, Reggio e Modena si coltivano le Lambrusche, uve bianche e rossicce, che danno vini di gusto delizioso e piccante, odorosi e spumeggianti quando si versano nei bicchieri”. Lasciando il medioevo e arrivando a secoli assai più recenti, riportiamo che, a fine’800, presso la trattoria e bottiglieria di Giuseppe Giusti, in contrada Posta Vecchia, una bottiglia di Lambrusco definito “soprafino” costava più di un primo e secondo piatto messi insieme, cioè 72 centesimi; mentre “Al Leopardo” una bottiglia di “Lambrusco vecchio” costava addirittura 1 lira (e pensare che oggi qualcuno si scandalizza perché un buon Lambrusco in enoteca costa 8/9 euro). Un curioso e particolare modo di vendere vino a Modena fu creato dall’Osteria di Porta Castello, in fondo a Corso Vittorio Emanuele, dove si poteva bere pagando “un tanto all’ora”; infatti per 25 centesimi l’ora si poteva tracannare vino


Lambrusco

a volontà, versandolo nel bicchiere tramite un mestolo col quale si prelevava la bevanda da un tino collocato sotto la botte. Non è detto di che tipo di vino si trattasse, ma difficilmente poteva essere Lambrusco, visto i prezzi degli altri locali. La spiccata nota acidula del vino proveniente da Vitis Lambrusca, nei decenni successivi, conseguì sempre maggiore successo ed importanza, specie nelle province di Modena e Reggio Emilia, tanto che se ne iniziò la coltivazione con metodi sempre più accurati, trasformando, nel tempo, quelli che erano considerati vini piacevoli ma non molto alcolici, in quelli che oggigiorno vengono considerati tra i vini più profumati, gradevoli e beverini d’Italia. Fino alla fine dell’800 l’imbottigliamento del Lambrusco non era un’operazione usuale. L’evoluzione delle bottiglie da vino fu, infatti, molto lenta; solo a partire dal XVII secolo, il vetraio inglese Digby cominciò a produrre le prime bottiglie spesse, che divennero via via sempre più robuste e più scure, e con queste ultime si diffuse anche l’uso dei tappi di sughero, legati con lo spago per migliorarne la chiusura. Francesco Agazzotti, nel 1867, fu il primo a classificare i vitigni atti ad ottenere il vino Lambrusco. Egli suddivise 3 tipologie di diversi vitigni: Sorbara, Salamino e Lambrusco di Graspi Ros-

si, dai quali si potevano ottenere, anche mischiandoli con altre diverse varietà, tutti i tipi di Lambrusco. In seguito Italo Cosmo, il più grande ampelografo italiano, nella sua monumentale opera “Principali vitigni di vino coltivati in Italia”, descrive meglio i tre diversi Lambruschi DOC modenesi: Lambrusco di Sorbara, Lambrusco Salamino di S.Croce e Lambrusco Grasparossa di Castelvetro, giudicando il Sorbara il più importante, perché “dà un vino più pregiato” degli altri. L’antico metodo “ancestrale” di produzione del Lambrusco è qui descritto dal dott. P.L. Cavazzuti nel suo libro “Note enologiche sul Lambrusco di Sorbara” del 1934: “All’inizio della primavera il vino chiarificato e filtrato si imbottiglia, turando provvisoriamente con turaccioli che si fanno entrare solo per due terzi nel collo e che si fissano alle bottiglie mediante una forte legatura con dello spago. Le bottiglie si ripongono in mucchi collocate orizzontalmente le une sulle altre. Nell’estate se s’è sviluppata una fermentazione forte: converrà portarle in ambiente più fresco; si ha sempre un po’ di rottura di bottiglie che si aggira dal 1 al 3%. D’inverno, un mese prima della spedizione o del consumo, le bottiglie si svinano perché la materia fecciosa vada al fondo e dopo se ne fa il tramutamento in locale fresco, stirandole e passando, a mano o con un enosifone, il vino

limpido in altre bottiglie pulite che si tappano stabilmente con ottimi turaccioli. Si perde nel travaso del gas carbonico, siccome il vino ne è provvisto ad esuberanza, gliene resta più che a sufficienza per spumare”. Avrei potuto citare tantissimi altri aneddoti riguardanti studiosi e personaggi illustri che riguardano il nostro protagonista, ma sarebbe stato troppo lungo e forse anche noioso per i non addetti ai lavori; infine non parlerò qui dell’arcinoto metodo di spumantizzazione in autoclave (charmat) o di quello classico della rifermentazione in bottiglia (champenoise), molto meno storici anche se assai più pratici ed usatissimi al presente, perché lo scopo di quanto scritto sopra è puramente storico e di mio puro divertimento nel ricordare quando ragazzino, ancora in calzoncini corti, aiutavo i miei a imbottigliare e turare il vino acquistato dal contadino in damigiane (per me la cosa più difficile da imparare fu quella di mettere la cordicella ferma-tappo); ricordo ancora gli scoppi delle bottiglie nelle estati troppo calde…ma quando alla fine lo bevevi, quel nettare, quella spremuta di frutti rossi, bello fresco, tolto dalla ghiacciaia (non era elettrica, ma un mobiletto foderato di lana di roccia nel quale si mettevano stecche di ghiaccio acquistate dalle apposite fabbriche) era una vera gioia per il palato, una vera manna. Prosit!

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E POI CI SONO GLI

“ORANGE WINES” di

Mario Federzoni

Chi parla di “stile antico e nuovo allo stesso tempo”, a mio avviso, deve togliere la seconda parte della frase. Gli Orange Wines non sono altro che vini da uve bianche, solitamente molto aromatiche e piraziniche (che hanno cioè sentori vegetali, precursori di quelli propriamente aromatici del vitigno), ottenuti dal prolungato contatto con le bucce dell’uva - prima col mosto, e poi col vino - al fine di ottenere il massimo di concentrazione delle sostanze aromatiche tipiche del vitigno. Infatti sono le bucce dell’uva, artefici del naturale apporto di polifenoli e, in parte, di terpeni, a rendere questo tipo di vino molto complesso sia al naso, sia in bocca. Da questo processo, che è poi quello tipico di vinificazione dei vini rossi, si ottengono anche colori assai inusuali per un vino bianco, molto carichi ed aranciati (da qui il nome orange wine). Questa tradizione contadina, oggi tornata un po’ di moda, che è resistita nei paesi “Adriatici” e in quelli Caucasici, era quasi del tutto scomparsa con l’avvento dei nuovi macchinari di cantina. Oggi, in Italia, sono il Friuli, l’Emilia, il Veneto e la Liguria i luoghi dove si possono trovare vini bianchi vinificati “in casa” con la tradizionale macerazione delle bucce. Qualcuno asserisce, addirittura, che il risultato ottenuto sia quello di “un vino alimento” da accompagnare alla gastronomia dei luoghi di origine, e che gli orange wine siano vini …“adatti a medi lunghi invecchia-

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menti, soprattutto quelli nati da lunghe macerazioni”. Il problema è che questi vini devono essere prodotti solo con uve da agricoltura super-pulita, biologica o biodinamica, perché tutto quello che è sulle bucce si ritrova poi nel vino; inoltre non vengono usati additivi esterni, e allora a volte i difetti che si possono riscontrare annullano il beneficio di avere vini più sani e ricchi di profumi e sapori. Personalmente penso che il più delle volte si assista a vere e proprie forzature e che questa moda, per quanto curiosa ed intrigante, per funzionare, per dare cioè vini gradevoli (ed è qui che spessissimo casca l’asino) debba essere appannaggio di produttori molto, ma molto esperti, perché per vinificare “in rosso” le uve bianche bisogna che queste ultime siano prima di tutto sanissime, ma l’essenziale è che i produttori sappiano assolutamente il fatto loro in materia di enologia e di vinificazione, mentre spesso accade che il tutto venga svolto in modo empirico e confusionario, con risultati che definire “deludenti” è un complimento. In più mi viene da dire che se il metodo può funzionare (sempre con i distinguo di cui sopra) con vitigni aromatici e pirazinici, è sicuramente meno interessante se si utilizzano uve bianche quasi neutre, come sono la maggior parte di quelle prodotte in italia, senza dimenticare che questo procedimento è sicuramente più“artigianale”, ma è molto rischioso, difficile, e non sempre i risultati ottenuti sono adeguati alle aspettative. Ci sono le eccezioni? Sì poche, ma ci sono, sta a voi cercare di scoprirle; ma non è forse questo che un vero amante del vino deve fare? Divertirsi con la scoperta di produzioni valide, eccellenti, senza pensare che, siccome è moda, tutto vada sempre e comunque bene… Prosit!



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