La Madia Travelfood n. 342 - Novembre/Dicembre 2019

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Mensile Sped. In Abb. Post. - Gruppo III° - 45% - Art.2 Comma 20/B Legge 662/96 - Fil. Forlì - Tassa Pagata - Taxe Perçue - Reg. Trib. Di Forlì N.653 - Del 14/6/84 - Dir. Resp. Elsa Mazzolini - La Madia Srl - Via Pacchioni, 365 - Cesena - Euro 4,00 - In caso di mancato recapito restituire al mittente che si impegna a pagare la relativa tassa

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ANNI

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ANNO XXXV Novembre/Dicembre 2019 - N. 342 - €E 4,00 Direttore ELSA MAZZOLINI

Champagne

FASCINO SENZA TEMPO

SPECIALE SICILIA

Ristorante SIGNUM a Malfa

Festival del PESCE AZZURRO a Marzamemi

Ristorante SUM a Catania

I VINI dell’Etna

LA MADIA EDITORE




Sommario LA MADIA TRAVELFOOD N. 342 GourmetFood

Vinaria

pag. 27

pag. 62

SPECIALE SICILIA

CHAMPAGNE

Ristorante Signum, Festival del Pesce Azzurro, Ristorante Sum, i vini dell’Etna.

La storia, le zone vocate, i vitigni.

La cultura del benessere Articoli ed etichette, che bombardamento! di Primo Vercilli......................................................................... pag. 6 La scelta vegana Scuole ed università vegan friendly verso un futuro sostenibile di Silvia Bianco.......................................................................... pag. 8 Il menu engineering Il media è il messaggio di Lorenzo Ferrari..................................................................... pag. 12 EVO - L’olio extravergine di oliva Il turismo “extravergine” e i musei dell’olio di Antonietta Mazzeo............................................................. pag. 15 Golavagando Mein Matillhof a Laces di Daniele Briani....................................................................... pag. 20 Chef di Spirito Il territorio di Spirito Contadino, tra grani antichi, riscoperta delle tradizioni e novità di Sonia Leo............................................................................... pag. 22 Buone Nuove................................................................................ pag. 26 Speciale Sicilia Ristorante Signum a Malfa di Alessandra Meldolesi........................................................ pag. 28 Cuciniamo Azzurro a Marzamemi..................................... pag. 36 Ristorante Sum a Catania..................................................... pag. 42 I vini dell’Etna di Fabrizio Salce....................................................................... pag. 44 Giovani Talenti Angelica Lodi di Maria Chiara Zucchi.......................................................... pag. 46

GourmetFood Imàgo a Roma di Jerry Bortolan...................................................................... pag. 54 Vinaria Il focus di Alessandro Rossi Il principio del tempo-vino di Alessandro Rossi................................................................. pag. 60 Champagne Breve storia dello Champagne di Mario Federzoni............................................................. pag. 62 La montagna di Reims di Mario Federzoni............................................................. pag. 72 Pinot Meunier di Mario Federzoni............................................................. pag. 75 I vitigni antichi nella Champagne di Mario Federzoni............................................................. pag. 76 Maison De Venoge............................................................. pag. 78 I vini delle feste secondo i massimi esperti di Alessandro Rossi................................................................. pag. 80 La vite più vecchia del mondo di Mario Federzoni.................................................................. pag. 86 Eros Teboni di Alessandro Rossi................................................................. pag. 88 Vidussi: i vini del Collio goriziano di Gianni Di Lorenzo............................................................... pag. 92 Azienda Agricola Colombarda di Antonietta Mazzeo............................................................. pag. 96



laculturadelbenessere

a cura di

Primo Vercilli Medico Dietologo

ARTICOLI ED ETICHETTE CHE BOMBARDAMENTO!

Magari è superfluo, ma quello che mi interessa oggi è soprattutto invitarvi a leggere criticamente quello che vi viene proposto. Siamo talmente vittime del bombardamento mediatico che ormai non siamo neanche in grado di fare il piccolo sforzo di essere critici: assorbiamo inconsapevolmente tutto. Tra tutti i bombardamenti, fate attenzione soprattutto ad etichette nutrizionali ed articoli di giornale! Purtroppo la verità non è mai (ma veramente MAI) quella che appare a prima vista, anzi dovete sempre pensare che quello che leggete è fatto sempre in modo che vi convinciate ad acquistare un certo prodotto, che sia alimentare o paradossalmente la semplice lettura di un articolo (anche in questo caso state inconsapevolmente acquistando qualcosa!). Pochi mesi fa ha fatto scalpore sul web e sui giornali una notizia pazzesca: bere il vino la sera fa dimagrire perché equivale a fare 2 ore di attività fisica al

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giorno! Pensate lo scalpore che ha fatto questa notizia. È bastata una settimana che tutti i giornali, tutti i siti salutistici ne parlassero. E, purtroppo, a nulla è servita la smentita ufficiale del povero studioso che aveva pubblicato un articolo sui benefici del resveratrolo (contenuto nell’uva rossa e quindi anche nel vino). È bastato questo innocuo articolo per far partire una campagna mediatica oscena, che ovviamente ha disorientato tutte le persone che non hanno una solida cultura nutrizionale (e sono tante!). Ma questo è solo un esempio. Tempo fa apparve un articolo su un importante quotidiano italiano, dal titolo, “Il paradosso dell’obeso: il grasso fa vivere meglio”. Ecco che, con un titolo del genere, siamo tutti a illuderci che, alla fin fine, “c’è troppo allarmismo…la verità è che (lo dice anche il giornale) qualche chilo di troppo fa solo bene!”. In grande, nell’articolo, si legge ancora che “le ultime ricerche smentiscono ciò che pareva assodato: magro non è sempre bello. A molte malattie si reagisce se si hanno più chili. A patto di fare esercizio”. Credetemi trovo tutto questo letteralmente inquietante. Eppure, davanti a titoli così fuorvianti, basterebbe farsi qualche domanda: “ma, se è vero, che i diabetici grassi vivono meglio, come mai la principale causa del diabete è l’alimentazione?”….”ma, se i cardiopatici grassi vivono meglio, come è possibile che la principale causa di ictus, ipercolesterolemia, infarti sia l’alimentazione?”….”ma se i grassi vivono meglio, come mai l’80% delle persone in sovrappeso ha, con l’età, problemi di artropatia gravi tali da subire interventi di protesi al ginocchio o all’anca?”… ed è proprio a questo livello che si genera un’enorme confusione: siamo ormai bombardati da notizie, articoli, pseudo studi scientifici che ci sbattono in faccia verità apparenti, ma affascinanti, stimolanti, comode, che è quello che vogliamo tutti. Ed è proprio sulla confusione che le industrie alimentari puntano, quando ci

fanno vedere con orgoglio le informazioni nutrizionali sui loro prodotti, puntando l’accento su qualcosa di positivo, per nascondere la maggior parte che invece non positiva non è! Un esempio tra tutti? La margarina. Ci sono ancora persone che comprano la margarina, perché “è priva di colesterolo” e quindi è migliore di qualsiasi altro grasso di condimento! Già dagli anni 70, un numero sempre maggiore di studi ha analizzato il possibile ruolo dei grassi parzialmente idrogenati (caratteristici della margarina e responsabili della sua consistenza molle, semisolida) nell’insorgenza delle malattie cardiovascolari. In quel periodo, la margarina e i grassi simili presentavano un livello elevato di grassi trans (39-50%). Nel 2003 l’assunzione quotidiana di grassi trans da parte degli americani era di circa 7 grammi al giorno per gli uomini e 5 per le donne. Il principale organo di controllo americano sull’alimentazione, la FDA, stimò che la presenza di grassi trans negli alimenti poteva causare la morte per patologia coronarica di 1000 americani all’anno. Con il tempo la percentuale di grassi trans nella margarina è di molto diminuita, ma resta comunque un alimento che viene proposto come

“salutare” e che invece è dannosissimo. E, a proposito di confusione, c’è da dire che non sempre quello che leggiamo è comprensibile: secondo un’indagine che ha coinvolto, nel 2011, 56 Paesi, condotta dalla Global Nielsen Survey, 6 consumatori su 10 non capiscono le etichette delle confezioni. Infatti, poi, il più delle volte, non capendo bene il significato delle tabelle nutrizionali, si fidano degli slogan e degli spot. Come, per esempio, quando si trovano di fronte ad un prodotto “magro”! Le persone sono ancora convinte che un prodotto a “zero grassi” sia un prodotto a “zero calorie”! Ma allora, se fosse così, vorrebbe dire che lo zucchero (zero grassi) è paragonabile all’acqua fresca!... oppure pensano che “cibi grassi” sia sinonimo di “cibi cattivi”! E, in questo caso, l’olio di oliva (elemento fondamentale per la salute) sarebbe dannosissimo! Che fatica, amici, orientarci nella jungla degli articoli salutistici, delle etichette nutrizionali e degli spot pubblicitari! …. Meglio chiudere il giornale, spegnere la tele, riporre in frigo il nostro prodotto “zero grassi” e farsi una bella passeggiata all’aria aperta!

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a cura di

Silvia Bianco testimonial di cucina vegana

© ph Kevin Moran

SCUOLE ED UNIVERSITÀ VEGAN FRIENDLY VERSO UN FUTURO SOSTENIBILE

La crescente richiesta globale nei confronti delle istituzioni per prendersi le proprie responsabilità ed arrestare il cambiamento climatico è impossibile da ignorare. Poco meno di un anno fa (ottobre 2018) uno studio dell’Università di Oxford afferma che le diete ben bilanciate e prevalentemente a base vegetale possono migliorare i livelli dei nutrienti, ridurre di oltre il 20% i decessi prematuri per malattie croniche, ridurre le emissioni di gas serra, l’applicazione di fertilizzanti e l’uso di colture e acqua dolce a livello globale e nella maggior parte delle regioni. I ricercatori di Oxford hanno analizzato il 90% di tutti gli alimenti consumati e hanno scoperto che la produzione di carne e prodotti lattiero-caseari è responsabile per un totale del 60% delle emissioni di gas a effetto serra provenienti dall’industria agricola, superando di gran lunga le emissioni dagli alimenti vegetali come ortaggi, legumi, frutta e verdure. La carne bovina, in particolare, è responsabile di 20 volte in più delle emissioni di gas serra rispetto alle proteine vegetali.

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L’UNIVERSITÀ DI LONDRA HA ELIMINATO LA CARNE DI MANZO Sulla scia dello studio di Oxford, l’Università di Londra Goldsmiths (foto pagina accanto) ha vietato la vendita di tutti i prodotti a base di carne bovina nei suoi campus, impegnandosi a diventare carbon neutral entro il 2025. L’università conta un totale di circa 10.000 studenti iscritti e recentemente ha scoperto che la propria carbon foot print era giunta a livelli eccessivi: 3,7 milioni di kg di emissioni di carbonio ogni anno. Studenti, personale e docenti della Goldsmiths hanno quindi preso seriamente la questione, condividendo lo spirito della nuova direttrice del college, Frances Corner, secondo la quale l’emergenza climatica non può rimanere una mera e vuota dichiarazione di constatazione, ma devono seguire delle azioni concrete. È per questo che la Goldsmiths si assume le proprie responsabilità, partecipando attivamente ad eliminare il proprio contributo ai cambiamenti climatici. Oltre al divieto di prodotti a base di carne di manzo, Goldsmiths ha imposto una tassa di 12 centesimi su tutta l’acqua in bottiglia e bicchieri di plastica monouso per scoraggiarne l’uso, installerà più pannelli solari nel campus e passerà ad un fornitore di energia pulita al 100% in brevissimo tempo. Inoltre l’università continuerà nella sua azione di riduzione dell’impatto climatico investendo nelle sue proprietà, identificando luoghi idonei per seminare e coltivare piante per assorbire maggior anidride carbonica ed introdurrà gli studenti a moduli educativi con oggetto i cambiamenti climatici e quale il ruolo che possono assumere gli individui e le organizzazioni nella riduzione delle emissioni di carbonio. Tra gli impegni assunti dall’università, la decisione di non detenere più investimenti in aziende che generano più del 10% delle proprie entrate dall’estrazione di combustibili fossili, già a partire dal prossimo dicembre.

CALIFORNIA E NEW YORK CITY,

I MODELLI AMERICANI ECOCOMPATIBILI Muse School, scuola vegan in California Ispirandosi all’intraprendenza della direttrice Frances Corner, 53 mila studenti dell’Università della California hanno sottoscritto una petizione online lo scorso settembre: chiedono la messa al bando della carne rossa da tutti gli esercizi di ristorazione dell’università. L’Università della California è uno dei più grandi sistemi universitari al mondo e rappresenta quasi 300.000 studenti, le conseguenze di un semplice cambiamento come questo, scaturirebbero un enorme impatto positivo. In realtà in California esiste già una scuola improntata sulla sostenibilità: si tratta di MUSE School fondata nel 2006 a Calabasas da Suzy Amis Cameron, suo marito, il regista Premio Oscar, James Cameron e sua sorel-

Suzy Amis Cameron

la, Rebecca Amis. Il modello educativo della scuola è focalizzato sulle tematiche ambientali, sulla sostenibilità e prevede lezioni specializzate che incoraggiano una vita eco-compatibile insegnandone i principi già in tenera età sino ad arrivare all’adolescenza. La MUSE School offre pasti completamente vegani secondo i principi del modello “OMD: One Meal a Day, for the planet”, di cui si possono trovare le linee guida nel libro scritto da Suzy Amis Cameron (foto qui sopra) “OMD:The Simple, Plant-Based Program to Save Your Health, Save Your Waistline, and Save the Planet”. Tra i programmi educativi alla base di Muse School, troviamo il “Seed to table”: nei campus sono presenti oltre 140 orticelli, realizzati con materiali di recupero. Gli studenti scelgono le varietà di piante da coltivare, provvedono alla semina, se ne prendono cura, producono e raccolgono per il ristorante della scuola “Muse Kitchen” e per i ristoranti partner della comunità. Suzy Cameron ha spiegato perché ha deciso di aprire una scuola plantbased “Una persona che consuma un pasto a base vegetale al giorno, per un anno intero, risparmia 200.000 litri d’acqua e una quantità di carbonio pari a quello emesso guidando da Los Angeles a New York ... Ogni volta che i nostri studenti guardano ciò che stanno mettendo nei loro piatti, sanno che questo può fare la differenza. Ciò li responsabilizza molto...” Ai bambini viene quindi insegnato perché alla Muse School mangiano vegetale e le diverse implicazioni positive per l’ambiente. “Muse – aggiunge Suzy Amis Cameron – è nata perché volevo una vera esperienza edu-

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cativa per i miei figli, che nutrisse le loro passioni e stimolasse le loro curiosità e la mission è proprio quella di Ispirare e preparare i giovani a vivere coscientemente con se stessi, gli altri ed il pianeta...” Oltre ad offrire piatti 100% vegan, Muse è alimentata con un impianto ad energia solare ed è zero waste. Grazie al positivo riscontro avuto in tutti questi anni, Muse School oggi offre la possibilità del franchising nazionale ed internazionale. La prima nuova sede in franchising “Muse Global School” aprirà i battenti a Settembre 2020 nella Bay Area di San Francisco, California. Sarà di proprietà e gestita dalla coppia locale Goly e John Casey. Goly Casey è già proprietaria e direttrice di una scuola materna privata nella zona, mentre John Casey è senior manager di un’azienda tecnologica; entrambi cercano di incoraggiare i giovani verso una maggiore attenzione all’ambiente e alla società.

NEW YORK PONE FINE AI TRADIZIONALI HOT DOG E BACON NELLE SCUOLE PUBBLICHE Il Consiglio cittadino di New York ha approvato la messa al bando di tutte le carni processate dalle mense scolastiche, invitando quindi il Dipartimento della Pubblica istruzione a bandire hot dog, bacon, affettati e qualsiasi altro tipo di carne processata, affinché le scuole pubbliche di New York City offrano scelte alimentari sane e meno gravanti sull’ambiente. Questo è uno degli importanti passi intrapresi dal New York City Council, che già nel 2017 introdusse un’opzione vegana nei menu di oltre 1200 scuole della città invitandole ad aderire alla campagna internazionale del “Meatless Monday” (lunedì senza carne). Una proposta estesa a tutte le 1700 scuole pubbliche della città ad inizio di quest’anno che, per l’appunto, di lunedì non servono più piatti a base di carne. Queste azioni rientrano nel programma “Green New Deal” del sindaco di New York Bill de Blasio, che mira a ridurre le emissioni di gas serra della città del 30% entro il 2030. La messa al bando di hot dog e carni processate da tutte le mense pubbliche delle scuole, ospedali e carceri ha come obiettivo di azzerare gli acquisti di carni processate per le medesime strutture entro e non oltre il 2040 “…per migliorare la salute dei newyorkesi e ridurre le emissioni di gas serra“, dice il sindaco, Bill de Blasio “...e per mantenere i nostri pranzi ed il nostro pianeta il più green possibile a favore delle generazioni future...”. Eric L. Adams, presidente del distretto di Brooklyn, appoggia in pieno la mossa green del sindaco “... Sulla base delle diverse dimostrazioni scientifiche, non possiamo più dare da mangiare ai nostri bambini tutte queste sostanze che aumentano il rischio di cancro…”. Proprio grazie a lui, New York City diede il via ai primi esperimenti di “Meatless Monday” nelle scuole di Brooklyn, quando Eric L. Adams rivelò la sua svolta vegana-salutistica, dopo aver scoperto di soffrire di diabete.

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L’UNIVERSITÀ PIÙ LONGEVA DEL PORTOGALLO SARÀ A EMISSIONI ZERO ENTRO IL 2030 Se New York rappresenta, a livello internazionale, un importante trampolino di lancio nell’educazione pubblica per la promozione delle diete a base vegetale, il modello europeo dell’Università di Goldsmiths sembra essere il più organizzato ed avanzato. Sulla stessa linea britannica troviamo anche l’antica Università di Coimbra in Portogallo; anch’essa ha messo al bando la carne rossa e la plastica monouso come cannucce, bicchieri, posate e bottiglie in plastica a partire dal prossimo gennaio 2020 in tutti i 14 esercizi di ristorazione universitari. La decisione presa del direttore Amílcar Falcão mira alla sensibilizzazione dei propri studenti, docenti e tutto il personale universitario nell’ottica di rendere Coimbra la prima università portoghese ad emissioni zero entro il 2030. “…Stiamo vivendo una vera e propria emergenza climatica ed è nostro dovere bloccare questa catastrofe ambientale…” asserisce il rettore Amilcar Falcão. Tra le importanti azioni green intraprese dall’Università di Coimbra, l’invito agli studenti di sostenere il programma universitario “UC Plantas”, ovvero piantare alberi nel giardino botanico dell’ateneo, per poi farli crescere e trasferirli in aree verdi della regione, devastate da incendi o alluvioni. Inoltre, verranno sostituiti i prodotti in plastica del “kit di benvenuto” fornito ai nuovi studenti con altrettanti prodotti in metallo; verranno posizionati diversi pannelli fotovoltaici e contenitori per la raccolta differenziata in tutte le residenze universitarie.

LA SVEZIA, MODELLO FORMATIVO AMBIENTALE SIN DALLA TENERA ETÀ L’impegno dell’università di Coimbra e di Londra è davvero incoraggiante: sono un puro modello istituzionale che non si ferma soltanto a dichiarare l’emergenza climatica, ma sta cercando di porvi fine o quantomeno a rallentarla, agendo in modo diretto per


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la salvaguardia del nostro futuro e quello dei nostri bambini. È altresì importante che già in tenera età i ragazzi vengano formati ed educati sulla questione ambientale, proprio come fa la scuola californiana Muse. Un altro straordinario esempio educativo (stavolta europeo) per bambini e ragazzi dai 6 ai 15 anni, è proposto dalla scuola Waldorf Hagaskolan, la prima, e presumibilmente unica, scuola vegana in Svezia e di tutti i paesi nordici. Posizionata vicinissimo allo splendido parco Hagaparken di Solna, poco fuori Stoccolma, Hagaskolan fu originariamente fondata nel 2006 nel centro di Stoccolma e trasferita nella posizione attuale nel 2018, anno in cui la scuola è diventata vegana. L’essenza della filosofia educativa Waldorf (steineriana) ha un profondo interesse per la natura e l’ambiente. Diventando una scuola plant-based e vegan a tutti gli effetti, Hagaskolan ha attualizzato l’interesse ed impegno ecologico creando un modello educativo attinente allo stile di vita nonché alle problematiche del 21° secolo. La scuola è un’organizzazione non profit e nasce dall’idea di tre mamme, Louise Kistner, Anna Waldenström e Sara Thavenius le quali, sedute al parco di Djurgården di Stoccolma mentre i loro bimbi giocavano, pensarono a quanto sarebbe stato meraviglioso far crescere i propri bambini nel verde, lontano dallo stress, dall’asfalto e dall’inquinamento cittadino. Dopo anni di lavoro, nel 2005 inaugurarono la prima sede. La scuola oggi comprende uno staff di 28 persone e ha 185 studenti iscritti. Tutti i cibi serviti sono vegan, selezionati e preparati con attenzione, rivolgendo un accurata scelta verso le materie prime biologiche e di stagione. Il gruppo gestisce anche un asilo nido, il Vanadislundens förskola, sito a Stoccolma, anch’esso vegano. Il programma della scuola prevede un lavoro di insegnamento attivo e costante sulla consapevolezza ambientale. Molte delle lezioni si svolgono all’aperto e gli studenti imparano tutto dalla coltivazione, dall’interazione umana con la natura. Inoltre parte del programma verte su materie come la musica e l’artigianato, con particolare attenzione ai materiali usati, spesso di riciclo e quindi ecosostenibili. Il clima scolastico è familiare ed accogliente, volto a formare i piccoli studenti in persone adulte libere e responsabili, che possono fare la differenza nel loro e nostro futuro. Arrestare la catastrofe climatica ed ambientale annunciata è possibile. Lo possono fare tutti, nessuno escluso. Le istituzioni come queste scuole ed università sono delle strutture fondamentali che stanno compiendo dei passi incredibili e che sono un modello educativo per tutti. Se possono apportare cambiamenti nelle loro strutture, affinché migliorino le condizioni del nostro pianeta, allora anche tante altre organizzazioni ed ogni singolo individuo possono trarne ispirazione per un’azione diretta.

Chef Max Noacco Ristorante Al Tiglio cucina naturale - Moruzzo (UD)

QUINOA IN VIOLA CON TOFU ALLE ERBE PROVENZALI Preferisco la quinoa rossa, bianca e nera. Si presta benissimo per insalate

e primi piatti, è nutriente e non contiene glutine. Da un pò di tempo si coltiva anche in Italia.

Propongo un piatto molto ricco ma leggero, dove la quinoa si tinge di vio-

la e la maio di giallo intenso. Le erbe e i germogli, assieme ai fiori, creano un gioco di colori divertente; il sapore rimane piacevolmente delicato. INGREDIENTI per 2 persone

g. 200 di quinoa, g.100 di tofu naturale, erbe provenzali essiccate, g. 50 di panna di riso, ml. 50 di succo estratto di barbabietola, olio evo, sale, germogli di pisello, fiori freschi di nasturzio o altro. Per la maio al curry

ml. 100 di latte di soia, 1 cucchiaio di senape, 1 cucchiaio di aceto di

mele, 1 cucchiaio di succo di agave, 2 pizzichi di sale, 2 cucchiaini di curry in polvere, ml. 250 di olio di girasole. PREPARAZIONE

Preparare la maio unendo nel mixer il latte di soia, la senape, il succo di

agave e l’aceto di mele, il sale e il curry in polvere. Azionare la lama e, a filo, versare l’olio di girasole (dobbiamo ottenere una maio morbida e so-

lida che rimanga attaccata al cucchiaio. Se dovesse risultare troppo liquida, basterà aggiungere dell’olio e mixare ancora un pochino).

Cuocere la quinoa in acqua salata per 12 minuti, scolarla e raffreddarla. Tenere da parte.

Tagliare il tofu a cubetti di 5 millimetri, saltarli in padella con un filo di olio evo e un po’ di sale; farli abbrustolire su tutti i lati, aggiungere le erbe provenzali, la quinoa, aggiustare di sale e colorare con il succo di barba-

bietola. Legare tutto con la panna di riso, spegnere la fiamma e servire caldo. Guarnire con gocce di maio al curry, germogli e fiori, una spolveratina di erbe provenzali e un filo di olio evo.


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a cura di Lorenzo Ferrari Direttore Marketing di RistoratoreTop

IL MEDIA È IL MESSAGGIO MA DIPENDE CHI È IL MEDIA...

Siamo negli anni ‘70, agli albori del marketing e della comunicazione per come li conosciamo oggi. Un certo Marshall Mc Luhan proferì una frase che cambiò il marketing per sempre. La frase era questa: “Il Media È il Messaggio” Ne sono rimasto folgorato. All’interno di questa frase, costruita in modo così semplice, concreto e perfetto, sono concentrati talmente tanti significati, così tante sfumature, così tante riflessioni e così tanti segreti che tutto l’inchiostro presente sul pianeta terra non sarebbe sufficiente per sviscerare la questione in modo esaustivo. Il significato più importante nascosto in quella frase combacia - secondo il mio parere - con il VERO segreto per acquisire e fidelizzare clienti nel settore della ristorazione, indipendentemente dalla tipologia di attività: ristorante, pizzeria, bar, trattoria, osteria, cocktail bar, caffetteria, mensa… …Non è importante. Se si coglie il significato profondo racchiuso all’interno di questa frase è è possibile scoprire il VERO segreto per acquisire e fidelizzare clienti alla tua attività. Per fare chiarezza, partiamo dalle doverose definizioni.

un’email ai tuoi clienti, ogni volta che invii una campagna di SMS massiva ai tuoi contatti stai veicolando un messaggio tramite un media. Persino un comodino, se lo analizziamo dal punto di vista della comunicazione, può essere considerato un Messaggio veicolato tramite un Media. Per capire si pensi a questi due comodini:

Cos’è un Media? È un mezzo di comunicazione. La televisione è un media, i giornali sono media, la radio è un media, Facebook, Instagram e tutti i social network sono media. Una lettera cartacea è un media. Insomma, qualsiasi mezzo in grado di veicolare un’informazione può essere considerata un media.

La funzione è la stessa, ma il messaggio che veicolano è ben diverso. Il primo, di fattura e materiali classici, comunica proprio questo: classicità, tradizione, antichità. Il secondo, dal design e dai materiali ricercati e moderni, comunica pari-pari il contrario: innovazione, estro, minimalismo. Ora, quello che Mc Luhan intendeva dire con la memorabile frase “Il Media È il Messaggio” è che i Media sono intrinsecamente in grado di manipolare la percezione dei messaggi che veicolano.

E cos’è un Messaggio? È un’informazione veicolata tramite un Media. Ogni volta che scrivi un post su Facebook, ogni volta che scrivi

“Il Media è il Messaggio” significa che gli stessi Messaggi, veicolati da Media diversi, assumono significati diversi. Insomma…

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Qualsiasi cosa detta o fatta assume un significato totalmente diverso quando cambia chi o cosa la dice o la fa. Si pensi al classico “pazzo del villaggio”: sguardo perso nel vuoto, capelli bianchi e disordinati, vestiti trasandati e logori, puzzo d’alcool e tic nervosi galoppanti, che entra in un’aula universitaria urlando: “Tra 10 anni andremo su Marte!” Il messaggio, veicolato da quel media, risulterebbe quantomeno fuori luogo. Ridicolo. Strano. Difficile da credere. Ora si pensi allo stesso messaggio (“Tra 10 anni andremo su Marte!”) proferito durante una conferenza al MIT (Massachusetts Institute of Technology) di Boston, dopo una conferenza durata diverse ore, dalla bocca di Elon Musk, fondatore di PayPal, amministratore delegato di Tesla e di SpaceX, azienda che si occupa di lanci aerospaziali. In questo caso il messaggio suonerebbe in modo totalmente diverso. Sarebbe entusiasmante, verosimile… Credibile! Eppure è lo stesso Messaggio che abbiamo fatto proferire dalla bocca del pazzo del villaggio qualche riga più sopra. Tuttavia il significato è stato completamente stravolto semplicemente… Cambiando il Media! E questo cambio di significato, di credibilità, di fiducia, persino di attenzione, dovuto al cambio di media, a parità di messaggio, accade sempre e comunque, a qualsiasi livello. Anche nella ristorazione. Questa è la ragione per la quale quanto tu impartisci un ordine al tuo personale di cucina essi lo seguono a menadito, mentre lo stesso identico ordine avrebbe tutt’altro esito se ad impartirlo fosse il lavapiatti al secondo giorno di stage. Ma è anche la ragione per la quale quando l’Antica Pizzeria da Michele può permettersi di continuare a fare margherite e marinare e le persone si mettono comunque in fila per mangiarle, mentre se lo facesse un pizzaiolo qualunque appena arrivato sul mercato dovrebbe fare il triplo dello sforzo per ottenere un terzo del risultato. Così come è la stessa ragione che si cela dietro al fallimento di tantissime campagne di marketing e comunicazione, lanciate ogni giorno da decine di ristoratori e imprenditori nella ristorazione in Italia, che si concentrano solo sul Messaggio e non sul Media che lo veicola.

Pensano a COSA dire o al COME dirlo, dimenticandosi che prima di ogni altra cosa dovrebbero occuparsi del CHI lo dice! Non è SEMPRE sbagliato il Messaggio ma, spesso, non si è ancora considerati dei Media autorevoli o degni di nota, e questo basta per rendere inefficace (o irrilevante) tutto quanto. Insomma, quello che Mc Luhan ci ha lasciato in eredità con la sua memorabile frase “Il Media è il Messaggio” è che… Quando si tratta di acquisire clienti e fidelizzarli non è SOLO importante COSA si dice o COSA si fa, ma soprattutto CHI si è mentre lo si dice o lo si fa. Ecco, secondo il parere di chi scrive quello che si è appena detto è... il vero segreto per acquisire e fidelizzare clienti nella ristorazione! Il vero segreto per acquisire e fidelizzare TANTI clienti non ha tanto a che fare con COSA SI FA a livello di Marketing o con COSA si dice a livello di Comunicazione. Ma ha a che fare con CHI si è. A questo punto è doveroso un distinguo. Perché oggi, nel 2019 (ma sarà così per tutta la storia dell’umanità), il “chi sei” non dipende da chi sei veramente, ma SOLO da come sei percepito dai tuoi clienti o dai tuoi potenziali clienti. Il “chi sei” esiste solo nella mente dei tuoi clienti. Il “chi sei” è un’immagine residua che i tuoi clienti hanno della tua attività, nella loro mente, quando sentono nominarla. Quello che di norma si chiama “brand”, marchio. Se nomino Starbucks si accendono diverse lampadine in mente: alcune positive, altre negative, altre indifferenti. Se ti dicessi Caffè Corallo - che potrebbe essere il nome di un bar qualsiasi aperto nell’ultima settimana in qualsiasi provincia italiana - probabilmente nulla si accenderebbe. Ecco, nel caso di Starbucks c’è un brand, quindi un’immagine ben precisa all’interno della mente delle persone, mentre non c’è nel caso del Caffè Corallo… E questo è sufficiente a cambiare tutto. Insomma, quando si pensa ad acquisire e fidelizzare clienti, si deve in primo luogo pensare a chi si è, e agire di conseguenza.

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a cura di Antonietta Mazzeo Tecnico ed Esperto degli Oli d’Oliva Vergini ed Extravergini

IL TURISMO “EXTRAVERGINE” E I MUSEI DELL’OLIO Il relazione tra la rappresentazione di patrimonio, paesaggio culturale e conformazione storica del territorio è di particolare rilevanza; il rilievo della dimensione paesaggistica del territorio e la necessità di preservarla come elemento essenziale della cultura è stata riconosciuta in alcune dichiarazioni internazionali (la Convenzione del patrimonio mondiale dell’UNESCO; la Carta del paesaggio mediterraneo, la Convenzione europea del paesaggio e l’Agenda territoriale di l’Unione Europea 2020). Il territorio costituisce di per sé una risorsa primaria, culturale ed economica, riferita a un nuovo concetto, quello del “patrimonio territoriale”, collegato sia alla sua disposizione fisico-naturale che alle risorse patrimoniali, fruibili in ogni area. La crescente sensibilità che la società mostra apprezzando alcune esternalità, in particolare quelle di natura ambientale, conferma quanto sia essenziale l’impiego del capitale territoriale per promuovere lo sviluppo del territorio. I paesaggi dell’oliveto rappresentano un elemento strategico per comprendere la configurazione del territorio; da sempre la cultura dell’olivo ha contribuito alla valorizzazione del nostro patrimonio paesaggistico e ambientale. La diversità di questi scenari rappresenta una condizione ideale per iniziative che utilizzano, a fini turistici, tutti gli elementi culturali legati a questa coltura. L’oleoturismo consente di valorizzare la natura polivalente dei paesaggi dell’oliveto utilizzando le risorse esistenti in modo sostenibile. Il settore turistico è diventato uno dei principali motori dello sviluppo socioeconomico secondo le previsioni dell’Organizzazione

Mondiale del Turismo e dovrebbe essere la prima attività economica nel mondo entro il 2020. Il “Turismo dell’Olio” è un argomento di grande attualità, dal momento che il fenomeno registra una crescita costante e inarrestabile: l’olio italiano è riconosciuto a livello internazionale come prodotto di eccellenza, autentico ambasciatore dell’Italia nel Mondo, di cui tutti gli italiani si sentono giustamente orgogliosi. Lo sviluppo di un turismo attento e consapevole, con appassionati provenienti da tutto il mondo, è un fattore di rilevanza fondamentale per lo sviluppo del settore turistico nel suo complesso, e favorisce una conoscenza esaustiva del nostro patrimonio enogastronomico. L’oleoturismo è una risorsa per far conoscere e promuovere la coltura olivicola e olearia; strutture organizzate si propongono di valorizzare la cultura dell’extravergine attraverso percorsi che mettono a sistema tutti gli attori della filiera, partendo dalla coltivazione e arrivando al confezionamento, accogliendo turisti che potranno conoscere tutte le fasi della produzione dell’olio extravergine di oliva. Questi apprenderanno quali sono le diverse cultivar di olive da olio, oppure sapranno riconoscere le caratteristiche di un buon olio extravergine. I maestosi ulivi secolari, monumenti di straordinario fascino, sono la testimonianza di un patrimonio paesaggistico unico, custodi di cultura e di tradizioni. Un turismo legato all’olio, e non più solo al cibo e al vino. Un nuovo modo di viaggiare, fra degustazioni, laboratori, visite guidate nei frantoi, nelle oleoteche, nei ristoranti con una carta degli oli, ma anche nei musei.

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Ecco quali sono i musei dell’olio da non perdere. MUSEO DELL’OLIO DELLA SABINA Viale Regina Margherita - Castelnuovo di Farfa (RI) Il Museo dell’olio della Sabina, a Castelnuovo di Farfa, dal 2001 celebra l’arte dell’olivicoltura del territorio, uno dei primi a conoscere l’olivo, in tutte le sue sfumature. Le visite guidate iniziano a Palazzo Perelli e proseguono poi nel frantoio a trazione animale del Settecento, nell’antico forno cittadino e nel sito archeologico medioevale della chiesa di San Donato. Per un percorso a ritroso che non manca di spiegare le varie tecniche di lavorazione moderne. MUSEO DELLA CIVILTÀ DELL’ULIVO Largo Don Giovanni Bosco - Trevi (PG) Si trova negli spazi dell’ex convento di San Francesco, accanto alla Pinacoteca comunale, e racconta la storia dell’olivicoltura del luogo attraverso espressioni dialettali, proverbi antichi, aneddoti, rituali, superstizioni e tutte le credenze che hanno come protagonista l’extravergine. MUSEO DELL’OLIO DI TORGIANO via Garibaldi, 10 - Torgiano (PG) Nasce grazie alla Fondazione Lungarotti, onlus creata da Giorgio e Maria Grazia Lungarotti nell’87 con l’obiettivo di promuovere la cultura del vino e dell’olio. All’interno di un antico frantoio ristrutturato, è possibile osservare i tanti impieghi dell’olio, dal passato

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a oggi, dalla cosmesi alla medicina, passando per l’illuminazione e le funzioni religiose. MUSEO DELL’OLIO DI CANTINARTE, BUCCHIANICO Vico III San Camillo, 21 - Bucchianico (CH) Sorge nel punto che un tempo ospitava un frantoio settecentesco, e fa luce sulle principali differenze tra i metodi di lavorazione del passato e quelli moderni. Illustra le zone di provenienza, le caratteristiche delle varie cultivar e il modo corretto per riconoscere un buon olio attraverso la degustazione. MUSEO DELL’OLIO DI LORETO APRUTINO via Cesare Battisti, 28 - Loreto Aprutino (PE) Ospita reperti d’altri tempi, come il trapetum oleario di epoca romana, e che mostra tutti i metodi di conservazione che si sono susseguiti negli anni, dagli orci alle latte MUSEO DELL’OLIO, SEGGIANO Piazza Umberto I, 16 - Seggiano (GR) Il Museo dell’Olio di Seggiano fa parte della rete Musei di Maremma e propone un percorso innovativo che comincia dalla grande cisterna sulla cinta muraria che custodisce una delle più affascinanti installazioni del settore. È l’ulivo aeroponico, un albero recuperato da una frana e sospeso in questo spazio con tutte le radici, alimentato con tecnologia aeroponica, ovvero tramite vapore acqueo. Presenti, poi, un frantoio dell’Ottocento e un’oleoteca dove è possibile degustare e acquistare diversi oli di livello.


MUSEO DELL’OLIVO DI CARLO CARLI Via Garessio, 13 - Imperia (IM) Diciotto sale, diciotto tappe di un viaggio alla scoperta dell’ulivo: è questo l’itinerario all’interno del Museo dell’Olivo di Carlo Carli a Imperia, composto da opere d’arte, reperti archeologici e filmati a tema. Un luogo da visitare anche solo per la bellezza degli spazi esterni, con il frantoio ligure dell’Ottocento, quello a macine coniche dello stesso periodo e i tanti ulivi millenari che costeggiano il museo. MUSEO DELL’OLIO, CISANO via Peschiera, 54 - Cisano (VR) In Veneto, nella provincia di Verona, si trova il Museo dell’olio dell’Oleificio Cisano, famiglia da sempre dedita all’olivicoltura e che, alla fine degli anni ’80, ha dato vita a un percorso didattico con varie esposizioni di strumenti antichi, suppellettili e attrezzi utilizzati nelle diverse epoche. Si trovano così la pressa a leva in legno di quercia, oppure il frantoio azionato da una ruota a trazione idrica ancora funzionante: tutto racchiuso nella sede dell’azienda a Cisano di Bardolino. MUSEO DELL’OLIO AGORÀ ORSI COPPINI via Bruno Ferrari, 3 - San Secondo Parmense (PR) È allestito in un ex caseificio dell’Ottocento, il Museo Agorà Orsi Coppini a San Secondo Parmense. Ad avere l’idea, la famiglia Coppini, olivicoltori appassionati che si propongono di diffondere la cultura dell’oro verde nel cuore della Food Valley. Quello del museo è uno spazio attrezzato anche per conferenze, concerti, spettacoli e seminari, pensato come luogo di condivisione e incontro per tutti gli addetti ai lavori e appassionati.

MOOM, MUSEO DELL’OLIO D’OLIVA MATERA Vico I Casalnuovo, 3 - Matera (MT) Il Moom, Museo dell’Olio di Oliva di Matera, è nato negli spazi di un frantoio del Cinquecento, originariamente una grotta scavata nella roccia tufacea, in seguito ampliata per permettere l’aumento delle sale. Durante i lavori, sono emerse diverse scoperte curiose: le pietre utilizzate come basi delle presse, le nove vasche comunicanti tra loro e il ponticello in tufo per accedere al frantoio. All’ingresso della zona che era destinata al frantoiano, poi, sono stati ritrovati dipinti di fine Settecento realizzati su un intonaco già secco, mantenuto in buone condizioni grazie al buio che ha impedito la crescita della microflora. SA MOLA DE SU NOTARIU viale Europa, 18 - Dolianova (CA) In Sardegna, è stato Francesco Locci dell’Oleificio Locci di Dolianova, in provincia di Cagliari, a creare il museo dell’olio Sa mola de su notariu, con l’idea di rendere fruibili a tutti oggetti, documenti e attrezzature conservate con cura, durante gli anni, dalla sua famiglia. Fra i pezzi esposti, anche una bella collezione di lucerne alimentate a olio provenienti da tutto il mondo, segno indelebile del ruolo fondamentale che questo prodotto ha ricoperto nel tempo. I MUSEI DELL’OLIO IN SICILIA: GLI STRUMENTI DEL PASSATO via Montesano - Chiaramonte Gulfi (RG) A Chiaramonte Gulfi, Ragusa, c’è il Museo dell’Olio d’Oliva, un percorso strutturato in sette sale che racchiudono la storia e l’evoluzione dell’estrazione dell’olio. Si possono ammirare presse idromeccaniche dei primi del Novecento, giare, oliere, aratri, panieri e altri elementi un tempo indispensabili per gli olivicoltori.




Golavagando

MEIN MATILLHOF UN VINUM HOTEL IN ALTO ADIGE di

Daniele Briani

Immaginatevi una cantina vecchia di 900 anni, le sue volte sorrette da spessi muri in pietra e illuminate da fioche luci che lasciano intravvedere antiche botti, sopravvissute alla loro perpetua funzione di affinamento del vino ed elevate a testimoni delle tradizioni passate. Aggiungete una serie di scaffali di legno colmi di bottiglie; alcune dal vetro lucido, altre avvolte in sudari di polvere che ne rivelano l’età. Un tavolo imbandito, circondato da panche di legno, aspetta che vi accomodiate per poter degustare una cena gourmet deliziati dalla piacevole compagnia di Hansjörg Dietl, che vi farà passeggiare, comodamente seduti, tra le tradizioni eno-gastronomiche dell’Alto Adige e della Val Venosta in particolare. Far parte dei Vinum Hotel è tutto questo e molto altro ancora. Si pensi che per entrare in questo circuito, che comprende oggi 29 strutture, bisogna rispondere a criteri molto restrittivi quali: l’ubicazione della struttura, che deve trovarsi in una delle zone vinicole riconosciute dell’Alto Adige; la collaborazione dell’hotel con almeno un agricoltore o produttore locale per assicurare prodotti a km 0 nel buffet della colazione. Inoltre, nella carta dei vini, l’Alto Adige deve essere la zona di produzione maggiormente rappresentata, con almeno uno speciale vino di nicchia altoatesino; ogni albergo deve avere una propria cantina vinicola o una sala degustazioni; l’albergatore deve essere un sommelier certificato o un enologo con licenza per la produzione di vino, tutto il personale di servizio deve essere istruito sul tema vino e deve aver partecipato almeno a un seminario di base sul vino. Criteri di inclusione sono anche le esperienze di vino da garantire ai propri clienti: quattro la settimana, di cui una effettuata con l’albergatore che accompagna di persona gli ospiti. Due esperienze sul tema vino devono svolgersi all’esterno, ad esempio visite guidate ai vigneti o in una cantina, escursioni enologiche e altro. Le altre due esperienze sono le degustazioni di vini che si svolgono nella sala degustazioni o nella cantina della struttura. In poche parole, se non ami il vino e la tua terra non puoi far parte di Vinum Hotel.

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Golavagando

Al Mein Matillhof tutti questi criteri sono ampiamente rispettati proprio perché l’amore e la cura che Hansjörg Dietl e sua moglie Charlotte mettono nella loro attività sfocia in un’empatica professionalità. Nulla viene tralasciato: dalla tradizione di cucina esaltata dalle materie prime bio che arrivano direttamente dai terreni di proprietà, alle misture a base di vinacce e oli essenziali create appositamente per gli ospiti della spa, per finire con gli arredi dell’ho-

tel che mescolano armoniosamente una modernità minimalista con tracce di antichi materiali recuperati da magioni dismesse. Mein Matillhof è anche sinonimo di relax, con due piscine ( una interna e l’altra esterna ) e una Spa che include una sauna finlandese panoramica, il bagno di vapore alle erbe e al fieno, la grotta salina con idromassaggio e le numerose oasi di pace per il riposo. Tutto questo è la Natur.Veda.SPA. il regno dedicato al benessere del corpo e dello spirito che comprende anche massaggi e trattamenti energetici sia in stile orientale che legato alla tradizionale medicina cinese. Se poi si vuole unire il piacere del corpo a quello dei sensi si può trascorrere qualche ora in coppia nella Spa privata del Castelletto tra un massaggio rivitalizzante, un bagno

MEIN MATILLHOF SUPERIOR

Via H. Pegger 6a - Laces (BZ) - Tel. 0473 623444 www.hotelmatillhof.com

Rasul e una cena al lume di candela. Il paese di Laces e la Val Venosta offrono panorami tipici dell’Alto Adige che possono essere ammirati dalla sauna oppure visitati con tranquille passeggiate a piedi o in bicicletta. Da qui è possibile raggiungere il vicino Castelbello che domina la vallata dal suo sperone roccioso, il castello medievale Juval MMM che fa parte del progetto “Messner Mountain Museum”, fino al Castel Coira, uno dei più grandiosi e meglio conservati dell’Alto Adige. Ora ritorniamo alla cena in cantina perché Hansjörg sta per aprire una delle sue speciali bottiglie vecchia di almeno vent’anni e sicuramente anche questa volta saprà stupire i suoi commensali.

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BUONENUOVE!

Agape, quando un olio è di qualità Aristotele disse: “Noi siamo quello che facciamo, sempre. L’eccellenza non è un atto ma un’abitudine.” Nel 1955, Agape Venturi acquistò il frantoio locale con il marito, Duilio Guerra ed insieme iniziarono l’attività nelle Marche, senza alcun marchio. Agape viene dal greco ἀγάπη e significa amore disinteressato; era anche il nome e il volto stilizzato della donna che ha dato vita ad un olio eccellente. Il cambio generazionale avvenne con il subentro della figlia Nilvana, che affiancò i genitori nell’azienda, apportando preziose migliorie, sostituendo le tradizionali macine con un frantoio a ciclo continuo: l’utilizzo di tecnologie e il rispetto delle tradizioni permette di ottenere una selezionata e curata qualità di Olio Extra Vergine di Oliva, oggetto di numerosi riconoscimenti. La cura nei minimi particolari avviene in tutte le fasi del processo produttivo, dalla selezione delle olive dai profumi più intensi, dai sapori più decisi, all’attenzione posta nel momento della raccolta, fino alla molitura nell’arco delle 24 ore successive, con la corretta conservazione di questo alleato della nostra salute. (A.M.)

www.olioagape.it

La dolcezza dei 30 anni Trent’anni di lavoro, di professionalità, di soddisfazioni, di miglioramenti palesi. La pasticceria di Gianluca Casadei (nella foto insieme alla moglie e ad alcune collaboratrici) di Gambettola (FC) è, a ragione, una delle migliori in Romagna per la ricerca costante della qualità nei prodotti e nei servizi: solo materie prime eccellenti - dalla vaniglia migliore ai cru di cioccolato più preziosi, al caffè selezionato con cura e tostato direttamente nei propri laboratori - recupero puntiglioso della tradizione più autentica, innovazione ragionata, per portare le proposte di pasticceria ai livelli di offerta dell’alta ristorazione. Una festa con amici e clienti ne ha sancito l’importante traguardo.

Pasticceria Casadei Via del Lavoro, 27 - Gambettola (FC) - Tel. 0547 53186


GourmetFood © ph Lido Vannucchi

SPECIALE

SICILIA Ristorante SIGNUM a Malfa Festival del PESCE AZZURRO a Marzamemi Ristorante SUM a Catania I VINI dell’Etna

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IN HOC SIGNUM COME VINCONO I FRATELLI CARUSO di

Alessandra Meldolesi

Un’isola nell’isola: questa è Salina. La saltellante traversata in aliscafo per raggiungere il molo da Milazzo non è breve: le miglia sono una cinquantina, prima di scoprire una quintessenza di Sicilia, per così dire al quadrato, ma incontaminata, su cui rampicano i ghirigori salmastri dei capperi. Forse la più gentile delle Eolie, arcipelago squassato da vulcani ancora attivi, celebre per le sabbie nere, sui cui crateri incandescenti a suo tempo si affacciava come su uno specchio Friedrich Nietzsche. Della lava e dei lapilli restano i colori e la fertilità variopinta, quasi azzorriana nell’intreccio di macchia e di fiori, che respira fra le tipiche case eoliane, parallelepipedi squadrati e bianchi, esempio canonico di architettura spontanea. La macchina le costeggia seguendo il profilo del monte per 8 chilometri fino a Malfa, paese più grande dell’isola, nel cui centro una freccia conduce al viottolo del Signum, sigillo che la famiglia Caruso sta imprimendo sulla ristorazione isolana. I riflettori si sono accesi sul ristorante da quando la Michelin, qualche mese fa, ha premiato la giovanissima Martina, classe 1989, migliore chef donna dell’anno.

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In zona il turismo è arrivato tardi, negli anni ’70: mamma Clara, di professione psicologa, e papà Michele, impiegato comunale, sono stati fra i primi a presagirlo. “Entrambi eoliani, a un certo punto hanno deciso di restare sull’isola, abbandonando il pendolarismo. Hanno iniziato con 16 camere e pian piano siamo arrivati a 30. Papà è rimasto solo in cucina per quindici anni: preparava i piatti tipici come l’insalata di capperi, le paste fresche, il pescato del giorno sulla foglia di limone, secondo quel che offriva l’isola”, racconta Martina. “Mi piaceva osservare mio padre al lavoro, ma i miei genitori non volevano che facessi la cuoca: lo giudicavano un lavoro gravoso. A 14 anni, al momento di scegliere le superiori, avrei voluto frequentare l’alberghiero di Messina, tuttavia la disciplina del collegio mi ha

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frenato e ho ripiegato su ragioneria a Lipari. Ma non mi sentivo contenta, tanto che dopo 2 anni sono tornata a Salina e ho ripreso l’idea dell’alberghiero con altre ragazze di qui. D’estate lavoravo con mio padre, il resto dell’anno, nel fine settimana, in un ristorante d’albergo a Cefalù”. La formazione è proseguita alla scuola romana del Gambero Rosso e in stage alla Rosetta, da Antonello Colonna e Pipero al Rex, nonché a Londra con Jamie Oliver. Ma l’esperienza più segnante è stata alla Torre del Saracino con Gennaro Esposito, cattedratico di gusto mediterraneo. A Malfa Martina è chef dal 2013, nel giro di 3 anni stellata. Il merito è anche di Luca(foto qui sopra), fratello maggiore di Martina, che per primo ha iniziato a pianificare il rilancio gourmet della struttura. Diplomato in ragioneria, si è fatto le ossa da cliente di tavole eccellenti, spesso in compagnia della sorella, cosicché ama calarsi in quei panni anche al Signum, alla ricerca del massimo comfort per l’ospite. Sono una ventina d’anni che ammassa etichette con un progetto ambizioso di cantina: oggi le referenze sono 1500 e soddisfano un po’ tutti i gusti. Le descrive come un sassolino che forma cerchi concentrici nel mare: da Salina alla Sicilia, all’Italia, con un focus particolare sulla Toscana, fino alla Francia e alla Germania. Gli Champagne in particolare sono 120, grandi maison ma anche piccoli vignaioli. In cucina comanda Salina, a causa delle difficoltà di approvvigionamento, che propiziano il chilometro zero. “Occorre pianificare tutto in anticipo ed entrare nel mood isola, perché se qualcosa non arriva o il tempo è cattivo, è necessario trovare una soluzione, da cui può nascere qualcosa di buono. Lavoro per l’80%


DENTICE LATTUGA MARINATA, ARANCIA E ACCIUGHE INGREDIENTI

4 filetti di dentice puliti di g. 200 Per la lattuga marinata

2 cespi di lattuga romana g. 200 di sale

g. 14 di zucchero l. 1 di acqua

Per il succo di lattuga estratto di lattuga

5 filetti di acciughe sott’olio succo di limone

olio extravergine d’oliva Per la laccatura di acciughe ml. 500 di brodo di pesce

6 filetti di acciughe sott’olio olio extravergine d’oliva Per la salsa d’arancia 5 arance a vivo 1 carota

g. 40 di guanciale

olio extravergine d’oliva sale

arancia candita PREPARAZIONE

Per la lattuga marinata: porre i cuori di lattuga sottovuoto insie-

me alla salamoia e conservare in frigo per una notte. Piastrare con un filo d’olio.

Per il succo di lattuga: unire tutti gli ingredienti e frullare mantenendo il recipiente freddo.

Per la laccatura di acciughe: far ristringere il brodo, aggiungere i filetti d’acciuga e frullare aggiungendo l’olio a filo.

Per la salsa d’arancia: soffriggere la carota e il guanciale, aggiun-

gere l’arancia e lasciare restringere, controllare il sapore. Frullare e setacciare fino a ottenere una salsa densa e liscia.

Per completare il piatto, piastrare da tutti i lati il dentice e finire la cottura in forno lasciando il cuore succoso.

Predisporre nel piatto il dentice, la lattuga piastrata, la salsa d’arancia, dei cubetti di arancia candita e il succo di lattuga.

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© ph Lido Vannucchi

con materia locale: frutta, verdura, pesce; e alle mancanze supplisco con i prodotti della costa siciliana. Salina non è solo capperi: abbiamo il pomodoro siccagno, coltivato a 400 metri di altitudine a Valdichiesa; ma in generale su questa terra vulcanica, così ricca di minerali ed esposta alle brezze salmastre, qualsiasi cosa acquista un sapore speciale”. Ci

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sono anche il piccolo orto e un frutteto coltivati da papà con metodo biologico. Ma le Eolie di Martina Caruso non sono solo prodotto: al termine dei suoi viaggi, il ritorno a casa ha significato indagare le tradizioni del territorio. Per esempio, l’essiccazione al sole, obbligata a fini conservativi laddove l’elettricità e la refrigerazione sono arrivate pochi decenni orsono; veniva praticata anche sul pesce, soprattutto sui totani, particolarmente abbondanti su queste coste, che venivano lasciati al sole tutto il giorno e poi custoditi di notte nelle case, per essere consumati previo ammollo. Essiccazione e non fermentazione, si badi bene, procedura questa meno tipica, sotto il segno dell’immediatezza mediterranea. Martina la applica a frutta, verdura ed erbe spontanee dell’isola, raccolte in inverno e in primavera, per un effetto di concentrazione e testurizzazione originale; senza dimenticare l’altrettanto tipica salagione, soprattutto del limone. Ma, in generale, l’impressione è quella di una giovane interprete, che da registri più comfort si sta spostando verso affondi ficcanti e inquietudini contemporanee, abbracciando gusti via via più scomodi e intriganti. Né manca l’amaro, insolito a queste latitudini, nel gioco di contrasti e consistenze del piatto.


I menu sono 3: il 5 portate dedicato ai prodotti eoliani, il 7 portate sulla contaminazione, il 9 portate il Sigillo, più personale, al prezzo rispettivamente di 100, 120 e 140 euro; più 4 pairing passepartout (Salina, Isola con vini siciliani, il Viaggio senza confini geografici e il Sigillo con calici più pregiati, a un prezzo compreso fra 55 e 140 euro) e piena facoltà di personalizzazione. Si comincia con la carota di Ispica disidratata e rinvenuta in succo di carota con hummus di ceci al sesamo tostato e olio alle erbe spontanee per riequilibrare le dolcezze; poi quello che è ormai un hit del ristorante, fungibile da benvenuto o intermezzo: la bagna cauda testurizzata e mitigata dalla purea di patata con ricci di mare crudi (foto qui sotto), sull’asse col Piemonte, dove secondo la leggenda i contrabbandieri di

BOTTONI DI MELANZANE BRODO DI NEPITELLA, FOGLIE DI CAPPERO E POMODORINI INGREDIENTI

Pasta fresca: g. 500 di semola di grano duro, g. 250 di acqua. Ripieno per il raviolo: 2 melanzane viola, g. 30 di parmigiano. Per il brodo di nepitella: 1 ciuffo di nepitella selvatica, acqua. Per i pomodorini confit: g. 500 di pomodorino siccagno,

aglio, 2 foglie di alloro, zucchero di canna, buccia di limone, sale, olio extravergine, foglie di capperi di Salina sotto sale, capperi di Salina sott’olio. PREPARAZIONE

Pulire e sbucciare le melanzane viola. Bollire in acqua salata

per 10 minuti e scolare bene. In una ciotola condire le melanzane e il parmigiano con un filo d’olio.

Impastare la farina con l’acqua e riempire i ravioli con il condimento. Fare un brodo di nepitella.

In forno caldo a 100°C per 1 ora e mezzo circa mettere la teglia con i pomodorini e tutti gli ingredienti.

Dissalare le foglie di capperi e sbollentarle leggermente. Dissalare i capperi e metterli sott’olio.

Cucinare i ravioli e servire con il brodo di nepitella, i pomodorini, i capperi e le foglie di cappero.

Finire con delle foglie di nepitella selvatica e un filo d’olio.

sale, bloccati dalla neve, avrebbero messo mano ai pesciolini. Ma il concetto gustativo è moderno: sapido su sapido, cosicché a risaltare infine è la dolcezza degli echinodermi. Da qualche tempo fra Salina e Panarea è iniziato lo sfruttamento di una fossa di gamberi rossi, che sono entrati stabilmente in carta. In inverno con conserva e caffè, d’estate in una versione più fresca. Marinati nel Bloody Mary, sono serviti con pesca in conserva acetica e polvere di albicocca, per una doppia acidità, cipolla, fiori e germogli. Ma è ottimo lo sgombro, tripudio di mediterraneità e di sole. Viene prima cotto confit, poi finito alla piastra fin quasi alla carbonizzazione superficiale, per la nota amara e l’effetto brace. Sul piatto con mozzarella di bufala ad arrotondare, finocchietto di mare sottaceto, capperi e una deliziosa zuppetta di acqua di pomodoro frullata con polpa di oliva verde. Dove la liquidità, ricorrente nel pasto, è pulizia. Martina però sa anche osare: vedi il tonno alalunga appena scottato e servito senza salsa apparente con una guarnizio-

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ne di fichi essiccati, reidratati, piastrati. Un piatto ardito, nudo, binario, appena legato dalla glassa leggera di centrifugato di fichi e dalla simpatia fra le testure, effetto prosciutto e fichi. I primi sono particolarmente centrati. Sia i bottoni ripieni di melanzana bollita con capperi e peperoncino, foglie di cappero e pomodorini confit in brodo balsamico di nepitella essiccata (ricetta a pag. 33), ottenuto per infusione effetto tisana, che i mezzi paccheri con tradizionale ragù nero di totano, tuma persa, in solidarietà con il caseificio Passalacqua, e foglie evanescenti di bieta marinate in succo di acetosella ed essiccate, per un gioco di testure, ferro e iodio, umami e sapidità, da cui esce vincitrice la sottile dolcezza del cefalopode. Più comfort la pasta mista, miscellanea dal sapore familiare, che veicola il doppio iodio delle zucchine dell’orto e delle cozze preparate in scapece alla spagnola, aperte e marinate in vino, aceto e concentrato di pomodoro, più il Ragusano a ingrassare. Mentre è già un signature, per quanto in progress, la triglia elaborata in tutte le sue componenti (il paté delle interiora, la lisca croccante, le squame fritte) che nuota verso nord nella classica salsa cacciucco. “Un ricordo delle triglie che mangiavo da piccola, col timore delle spine”. L’aliscafo fra salato e dolce è il gelato di capperi in mezzo alle cialde di pane al sesamo modello brioche siciliana, omaggio all’intermezzo tartufato di Sultano, dove la base è la ricotta di capra dell’unico caseificio eoliano, con sede a Vulcano. Ma della pasticceria si occupa Sara, pastry chef di Salina. Con Martina ha messo a punto la defaticante crostata di crema di limone salato con meringa all’italiana bruciata e gelatina di liquirizia.

CROSTATA DI LIMONE MERINGA BRUCIATA, GEL DI LIQUIRIZIA E SALE AGLI AGRUMI INGREDIENTI

Per la frolla Sablé g. 500 di farina 00 g. 500 di burro

g. 175 di zucchero semolato g. 50 di albumi

g. 175 di fecola di patate g. 2 di sale

Sabbiare burro freddo con farina, e

aggiungere gli altri ingredienti. La-

sciare riposare 2 ore in frigo. Stendere allo spessore di 3 millimetri, conferire una forma rettangolare e mettere su una teglia microforata; infornare 165°C per 10-12 minuti. Per la crema al limone g. 210 di acqua

g. 45 di succo di limone

g. 85 di zucchero semolato g. 35 di tuorlo

g. 25 di Maizena

g. 3 di gelatina in fogli Mettere in ammollo la gelatina in acqua fredda per 10 minuti. Bollire l’ac-

qua con la buccia di limone; a parte miscelare in una boule tuorlo e zucchero poi Maizena e succo di limone.

Quando l’acqua bolle, filtrare e versare sulla miscela preparata in precedenza, rimettere sul gas e raggiunge-

re gli 83°C, aggiungere la gelatina e raffreddare su una placca da forno.

Raffreddare e mettere in sac a poche. RISTORANTE SIGNUM

Salina, VIa Scalo, 15 - Malfa (ME) Tel. +39 090 984 42 22

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Per la meringa all’italiana g. 100 di albume

g. 200 di zucchero semolato g. 60 di acqua


Montare a bassa velocità in planetaria gli albumi. Nel frattempo, mettere acqua e

zucchero in un pentolino e cuocere fino a raggiungere 118-121°C. Dopo di ciò, versare a filo negli albumi che stanno montando a velocità alta. Montare fino a raffreddamento. Mettere in sac a poche. Per la gelatina di liquirizia g. 100 di acqua

g. 10 di zucchero g. 2 di agar agar

g. 5 di polvere di liquirizia g. 2 di sale

Bollire acqua, zucchero, liquirizia e sale.

Raggiunto il bollore, aggiungere con una frusta l’agar agar, cuocere per un minuto poi stendere caldo su un foglio di silpat leggermente inumidito, tenendo uno

spessore di 2 millimetri. Lasciare raffreddare e tagliare con un coppapasta. Per la polvere di foglie di limone

Essiccare le foglie di limone in forno a

100°C per 2 ore. Frullare finemente e setacciare.

Per il sale agli agrumi

Pelare ed essiccare le bucce di 2 arance

e 1 limone; una volta essiccate, frulla-

re grossolanamente e mescolare in 50 grammi di sale.

IMPIATTAMENTO

Alternare nel piatto un rettangolo di sablè

e uno strato di crema al limone per due volte, rifinire con uno strato di meringa

all’italiana, bruciare la meringa con il cannello, aggiungere un pizzico di sale agli

agrumi, polvere di foglie di limone e coprire il tutto con la gelatina di liquirizia.

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CUCINIAMO AZZURRO

A MARZAMEMI UN CONCORSO SUL PESCE “POVERO” Il Festival del Pesce Azzurro, giunto quest’anno alla sua quinta edizione, ha avuto luogo a Marzamemi nel giugno scorso. Il suo scopo è sempre stato quello di valorizzare l’antico borgo marinaro nei suoi valori più puri e antichi, quali la pesca e il lavoro manuale che, pur mutati nel tempo, costituiscono un punto di riferimento basilare per la popolazione. NeIl’ambito del Festival, si è tenuto il concorso di cucina calda “Cuciniamo Azzurro”, coordinato dallo chef Giuseppe Argentino, con la selezione di cinque chef professionisti (Vincenzo Forte, Davide Giurdanella, Giuseppe Catanese, Luigi Geraci, Giuseppe Germanà), i quali hanno trasformato il pesce “povero” in grandi piatti di alta ristorazione, sottoposti al giudizio di una giuria

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esperta e formata dal giudice di cucina, lo chef Sebastiano Bafumi, dal nutrizionista Antonio Galatà, dallo chef Roberto Pirelli, dal giornalista enogastronomico Gianni Di Lorenzo, dal direttore de La Madia Travelfood, Elsa Mazzolini, dall’avvocato Giuseppe Gambuzza. Il festival del Pesce Azzurro ha dunque saputo mettere in risalto i principali aspetti di Marzamemi e delle sue origini, risalenti al ‘600 e che vedevano al centro dell’economia proprio la pesca ed il lavoro manuale dei pescatori, coinvolgendo cittadini, visitatori e turisti.

CHEF VINCENZO FORTE - 1° CLASSIFICATO

IL NORD INCONTRA IL SUD INGREDIENTI per 6 persone

6 ossa di vitello modicano, 18 falde di cipolla in agrodolce, timo per affumicare, 18 filetti

di sarda, scorze di arancia e limone, olio, sale e origano q.b. PREPARAZIONE

Arrostire l’osso in padella e finirlo in forno a 200°C per 8/10 minuti.

Nel frattempo, preparare la tartare di sarde e condirla con olio, sale, scorze di agrumi. Sfumare l’osso con l’aceto.

Trascorso il tempo necessario, procedere con l’impiattamento. Posizionare del sale grosso al di sopra del quale porre alcuni rametti secchi di timo e l’osso sul quale verrà poi adagiata la tartare di sarde, le cipolle in agro e dei germogli misti, per dare freschezza. Alla fine, per conferire un sentore di affumicato, dare fuoco ai rametti di timo.

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GourmetFood

CHEF LUIGI GERACI

INSALATA DI SGOMBRO CON POMODORO CONFIT, CAVIALE DI CAROTA I.G.P. DI ISPICA E RIDUZIONE DI NERO D’AVOLA INGREDIENTI per 6 persone

6 sgombri sfilettati e spellati, 6 pomodori rossi, g. 100 di zucchero di canna, g. 5 di sale,

l. 1 di olio extravergine d’oliva, g. 200 di caviale di carota, l. 1 di nero d’Avola, g. 60 di aceto di vino bianco, g. 1 di origano, menta. PREPARAZIONE

Sfilettare e privare della pelle lo sgombro, metterlo in un pentolino con l’olio extravergine d’oliva e cuocerlo a 65°C (oliocottura). Una volta cotto, metterlo su carta assor-

OLTRE L’ACCIUGA L’elenco dei pesci azzurri, di mare e d’acqua dolce, è lunghissimo e comprende specie ignote ai più. Anche volendo attenersi alla delimitazione più restrittiva (e meno pratica), che considera solo gli appartenenti all’ordine dei Clupeiformi, le varietà sono otto: acciuga o alice (Engraulis encrasicolus), sardina (Sardina pilchardus), alaccia (Sardinella aurata), alosa o cheppia (Alosa fallax nilotica), agone (Alosa fallax lacutris), argentina (Argentina sphyraena), papalina (Sprattus sprattus), aringa (Clupea harengus, l’unico pesce azzurro che non vive nelle nostre acque). In realtà è consuetudine radicata considerare pesce azzurro anche alcuni membri appartenenti agli ordini dei Perciformi e dei Beloniformi. Per il primo gruppo si possono ricordare lo sgombro (Scomber scombrus),

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il lanzardo o lacerto (Scomber japonicus colias), il suro o sugarello (Trachurus trachuras), la palamita (Sarda sarda) e il cicerello (Gymammodites cicerelus). Per il secondo gruppo sono rilevanti soprattutto l’aguglia (Tetrapturus belone) e la costardella (Scomberesox saurus). Con questi altri sette, il numero complessivo sale


bente in cella e lasciarlo raffreddare. Spellare

il pomodoro e privarlo dei semi per ottenere

soltanto le falde; condire con il sale, lo zucchero di canna e gli aromi e cuocere in forno per 20 minuti a 120°C.

Per il caviale di carota: estrarre il succo delle carote e aggiungervi la colla di pesce.

Lasciare raffreddare e, con l’aiuto di un sacchetto da pasticceria, far cadere le goc-

ce di succo in olio freddo di semi, in modo da poterlo addensare. Sciacquare in acqua fredda: il caviale è pronto. PRESENTAZIONE

Sfilacciare lo sgombro, condirlo con aceto, menta e origano; adagiarlo al centro del piatto

CHEF DAVIDE GIURDANELLA

CAPRESE DI SGOMBRO

dove è stata fatta una decorazione con il nero d’Avol. Sistemarvi sopra le falde di pomodoro confit e aggiungere il caviale di carota.

INGREDIENTI per 6 persone

da mantenere la sua naturale forma. Chiu-

Pachino IGP, g. 20 di capperi al sa-

una cottura in acqua a temperatura sotto

3 sgombri, g. 400 di pomodoro Ciliegino le, g. 200 di ricotta vaccina, 1 cipolla

bianca, 1 manciata di finocchietto di

a quindici. E sarebbe già un bell’assortimento. Ma ci sono molti che tendono ad includere nel novero dei pesci azzurri un po’ tutte le varietà dotate di dorso blu o bluastro (o blu-verdastro, o verdebluastro, o grigio-bluastro) e ventre argenteo: in particolare il pesce spada e vari tipi di tonni e tonnetti (tonno rosso, alalunga, alletterato, tombarello ecc.). Qualcuno si spinge fino a comprendere l’anguilla, il cui colore è molto variabile e talora può volgere al blu cupo. Su questa interpretazione così largheggiante abbiamo alcune perplessità. Il concetto tradizionale di pesce azzurro si identifica con l’idea di pesce povero, sia per il prezzo che per l’aspetto, molto umile, anche nelle dimensioni. Tenderemmo dunque ad escludere i grandi pesci, imponenti, robusti, adatti ad essere tagliati in tranci e non di rado molto più costosi (anche se con un miglior rapporto tra parte edibile e

mare, g. 40 di mandorle, 2 rametti di basi-

lico genovese, basilico nero, 1 rametto di origano fresco, 10 foglie di pomodoro, g. 40 di olio extravergine d’oliva, g. 10 di

Maizena, g. 100 di acqua, sale e zucchero q.b. PREPARAZIONE

Iniziare la ricetta partendo dalla salsa ri-

stretta di pomodorino Pachino al forno; sbianchire i pomodorini in acqua bollente non salata, sbucciarli, tagliarli a metà

e condirli su una placca da forno come un’insalata, con olio, sale, zucchero, origano fresco, basilico, capperi e cipolla. Cuocere in forno per due ore circa a 120°C.

Con le bucce ottenere una polvere facen-

dole asciugare a 50°C. Pulire gli sgombri, quindi spinare i filetti con una pinza ido-

dere le estremità con due nodi. Effettuare ebollizione per 5 minuti.

Per la ricotta al finocchio di mare: sbollentare il finocchio di mare in acqua bol-

lente, raffreddarlo in acqua e ghiaccio, emulsionarlo con poca acqua e sale. Filtrare il tutto. Con un minipimer incorporare l’estratto di finocchietto alla ricotta;

sistemarla in un sac a poche. Inserire nella ricetta la mandorla, ottenendo una polvere o un’aria: frullare le mandorle con l’ac-

qua ottenendo un latte che, emulsionato,

crea una schiuma. Filtrando il tutto, la fibra che rimane può essere asciugata ed ottenere una polvere.

Per la parte croccante: realizzare una cialda al finocchietto di mare in padel-

la facendo una pastellina di acqua, sale, Maizena, olio d’oliva ed estratto del finocchietto precedentemente realizzato.

nea.

IMPIATTAMENTO

mente i filetti con un coltello ben affilato

nare il pesce al centro e sistemare il resto

Per lo sgombro farcito: scavare legger-

in modo da ottenere delle cavità in grado di ospitare la salsa ristreta di pomodoro Pachino su uno dei due filetti. Chiudere

con l’altro filetto e avvolgere il pesce farcito nella pellicola ben stretto, in modo

Utilizzare un piatto piano tondo: posizio-

degli elementi in sequenza circolare in modo da dare movimento al piatto.

Rifinire il piatto con foglie di basilico, foglie e fiori di pomodoro, germogli di finocchietto di mare.

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GourmetFood

CHEF VINCENZO FORTE - 1° CLASSIFICATO

TONNO ALLA PIZZAIOLA INGREDIENTI per 6 persone

IMPIATTAMENTO

6 cialde al nero di seppia, g. 100 di pomodoro dat-

di pomodoro datterino, al

g. 400 di ventresca, g. 60 di patè di olive nere, terino, g. 6 di capperi, g. 60 di gelato di origano. PREPARAZIONE

Tagliare la ventresca in porzioni da 70 grammi, cuocerle a bassa temperatura (58°C) per 40 minuti. Ap-

pena cotte, finirle in padella. Frullare il pomodoro datterino e passarlo al setaccio, lasciarlo al naturale.

Sul fondo versare la crema centro adagiare il patè di

olive e sopra appoggiare la

ventresca passata in padel-

la precedentemente. Sopra

quest’ultima adagiare la cial-

da al nero di seppia con una quenelle di gelato all’origano.

scarti). Dunque il tonno e lo spada non ci sembrano completamente al loro posto nell’esercito del pesce azzurro. Altrimenti, se è solo una questione cromatica, dovremmo inserire varietà come la salpa, la leccia, l’occhiata e chissà quante altre. I colori della “livrea” non dovrebbero essere l’unico criterio discriminante anche perché sono spesso cangianti: si veda per esempio il melù, che da vivo è indubbiamente azzurro, mentre da morto assume una colorazione grigiastra.

CHEF GIUSEPPE GERMANÀ

GIARDINO AZZURRO

Per la cipolla di Tropea in agrodolce: pulire le cipolle e metterle in

INGREDIENTI per 6 persone

ml. 3 di aceto bianco, ml. 3 di olio evo e scorza d’arancia. Confezionare

kg. 1,2 di palamita, g. 100 di cipolla di Tropea in agrodolce, g.150

di granita di pomodorino di Pachino e limone candito, 2 cialde alla salicornia, g. 100 di maionese alle acciughe, g. 30 di polvere di olive nere, olio extravergine d’oliva, sale q.b. PREPARAZIONE

Sfilettare la palamita (precedentemente abbattuta a -20°C per

circa 36 ore) e ricavarne due filetti, togliere la parte della pancia

e privarla della pelle, tagliare a mo’ di tartare. Condire con sale, pepe e olio.

un sacchetto sottovuoto; aggiungervi g. 1,5 di sale, g. 2,5 di zucchero, il sacchetto al 99,9% e cuocere in forno a vapore a 85°C per 15 minuti.

Per la granita di pomodorino Pachino e limone candito: togliere la buccia e i semi a 300 grammi di pomodorini Pachino. Aggiungere il limone candito precedentemente preparato e mixare il tutto fino a quando non si ottiene un composto simile a quello della granita.

Per il limone candito: portare ad ebollizione le zeste di un limone (ripetere il procedimento per 2 volte, cambiando l’acqua). Preparare

uno sciroppo di zucchero con ml. 100 di acqua e g. 100 di zucchero, portarlo a bollore, aggiungervi le zeste e far sobbollire per circa 3 mi-

nuti. Spegnere il fuoco e lasciar riposare per circa 5 minuti. Mettere in abbattitore e far raffreddare.

Per le cialde alla salicornia: prendere g. 80 di acqua, g. 20 di olio di

semi di arachidi, g. 10 di farina 00 e g. 20 di salicornia. Mixare il tutto, filtrarlo e versarlo in una padella rovente fino a farlo asciugare.

Per la maionese alle acciughe: utilizzare 2 tuorli d’uovo, 1 bicchiere di olio di girasole, 1 cucchiaio d’aceto, sale fino, 5 filetti d’acciughe e g. 0,3 di Xantana. Mixare prima i tuorli, le acciughe e l’olio a filo, fino

ad ottenere un composto spumoso. Aggiungervi l’aceto e la Xantana per stabilizzare il tutto.

Per la polvere di olive nere: mettere in forno, a 80°C, 200 grammi di

olive nere denocciolate per circa 1 ora e 30 minuti. Lasciarle fino all’essiccazione. Frullarle, in seguito, fino ad ottenere una polvere. Servire come da foto.

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CHEF LUIGI GERACI

SANDWICH DI SGOMBRO CON CREMA DI MELANZANA, SPUMA DI PATATE, POLVERE DI CAPPERO DI PANTELLERIA I.G.P. E SALE AI LAMPONI INGREDIENTI per 6 persone

Per la spuma di patate: pelare e ta-

lanzane, g. 500 di spuma di patate, g. 10

le in una pentola con olio ex-

6 sgombri sfilettati, g. 500 di crema di medi sale fino, g. 20 di olio extravergine d’oliva, g. 20 di sale grosso ai lamponi. PREPARAZIONE

Sfilettare lo sgombro e adagiarlo in una

gliare finemente le patate, mettertravergine d’oliva e cipolla e cuocere con panna e un po’ d’acqua. Frullare e mettere in un sifone.

teglia, sistemarvi sopra la crema di me-

PRESENTAZIONE

infornare a 165° C per 8 minuti.

di sgombro al centro

lanzane, sistemare l’altro filetto sopra ed Per la crema di melanzana: pelare le melanzane e tagliarle a cubetti, mettere

in pentola con basilico, olio extravergine d’oliva e cipolla; cuocere. Una volta cotta,

Disporre il sandwich

del piatto, accanto siste-

mare la spuma di patate e il sale ai lamponi.

frullare e regolare di sale.

CHEF GIUSEPPE CATANESE

RICORDI DI MARZA COTOLETTE DI SARDA E INSALATA DI CILIEGINO, CAPPERI E CIPOLLA DI GIARRATANA CON RAGUSANO FRESCO, CARBONE DI TONDA IBLEA SU LETTO DI CAVOLO VECCHIO DI ROSOLINI (SLOW FOOD) E GOCCE DI VINO COTTO DI CARRUBE INGREDIENTI per 6 persone

18 sarde, mollica aromatizzata con erbe

selvatiche, 2 uova, 30 pomodori Ciliegino,

Tagliare le foglie di cavolo vecchio e condirle con olio sale e aceto.

1 cipolla di Giarratana (non molto gran-

COMPOSIZIONE

vecchio, g. 200 di ragusano fresco, carbo-

cucchiaino di marmellata di

de), capperi q.b., foglie tenere di cavolo

ne di olive, basilico fresco, origano fresco,

sale olio evo, vino cotto di carrube e marmellata di clementine. PREPARAZIONE

Dopo aver eviscerato, sciacquato e sfi-

lettato le sarde, impanarle con la mollica aromatizzata e conservarle nella parte più

fredda del frigorifero. Nel frattempo pre-

parare l’insalata di Ciliegino con capperi, cipolla, origano, olio e sale.

Mettere al centro del piatto un mandarini e coprirla con il cavolo vecchio.

Sistemare le cotolette di sarda alternandole con l’insalata di Ciliegino e scaglie di Ragusano. Guarnire con germoglio di basilico fresco, carbone di olive, cu-

cuncio e gocce di “vinocotto” di carrube.

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GourmetFood

A CATANIA APRE

SUM

CON L’ESTRO CREATIVO DI DAVIDE GUIDARA Tra l’Etna ed il mare, dentro la città, ma allo stesso tempo fuori dai ritmi frenetici cittadini, SUM sorge all’interno del complesso Romano Palace Luxury Hotel, il primo cinque stelle di lusso di quest’area della Sicilia, che con il suo parco si rivela un’oasi verde in cui trovare ristoro a pochi passi dal mare. Il progetto è stato sviluppato insieme allo stesso chef Davide Guidara, dando vita ad una sala gourmet da cui gli ospiti hanno visivamente “accesso” diretto alla cucina mediante la realizzazione di un taglio sulla parete che divide i due ambienti. Alla sala gourmet interna è affiancata la sala dessert esterna, immersa nel verde e concepita come un’oasi di benessere e catarsi dei sensi. Tutti i piatti del ristorante SUM sono realizzati con pochi ingredienti: due o tre, che si trasformano in esplosioni di gusto grazie all’estro ed allo studio dello chef, oltre che a una conoscenza profonda della materia prima e al processo di ricerca e lavorazione di cui ogni ingrediente è protagonista. “In Sicilia - spiega Davide Guidara - la tradizione popolare esprime molto bene il concetto che io porto nella mia cucina; un proverbio popolare dice, infatti, che u

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supecchiu è comu o mancanti, nel senso che saper dosare e scegliere è un’arte difficile. È proprio quella che noi mettiamo al centro della nostra cucina”. La tecnica sposa la creatività di Guidara e orienta ogni piatto al suo Umami, al suo “gusto buono”, secondo la traduzione letterale dal giapponese. Via il superfluo, la cucina di SUM lavora per sottrazione, tornando prepotentemente alla valorizzazione della materia prima, instaurando un nuovo concetto di cucina, passando da “una cucina DI prodotto” a “una cucina PER il prodotto”. Classe 1994, Davide Guidara, dopo la formazione all’istituto alberghiero di Castelvenere e anni di lavoro passati nelle cucine di Raffaele D’Addio, Nino Di Costanzo, Alfonso Iaccarino, Michel Bras e Renè Redzepi, nel 2016 inizia la sua avventura all’Eolian Milazzo Hotel che lo porterà a confrontarsi con un pubblico ampio presso cui riscuote curiosità e interesse; nel 2017 vince il Premio “Best in Sicily 2017” nella categoria “Miglior ristorante”.

RISTORANTE SUM Romano Palace Luxury Hotel

Viale Presidente Kennedy, 28 - Catania

Tel. 095 596 7111 - www.romanopalace.it



Vinaria

VINI DELL’ETNA SORSI DI “LAVA” TRA CANTINE E VIGNETI di

Fabrizio Salce

Il vulcano, il mare, il sole, il vento, la fatica dell’uomo: con i respiri dell’Etna ad accompagnarmi, affronto un nuovo viaggio tra vigne e vini, curiosità e sapori, amici cari e una magica terra. La prima tappa del mio percorso la vivo tra il parco dell’Etna e il parco fluviale dell’Alcantara in località Passopisciaro nel Comune di Castiglione di Sicilia. Qui, con grande piacere, incontro Franco, Gianni e Giusy della cantina di famiglia Calcagno che, dal 2006 - primo anno di imbottigliamento -, producono vini dalla marcata espressione del territorio dovuta proprio al clima e alla posizione geografica. I vitigni sono quelli tipici di questo lembo di Sicilia: Nerello Mascalese, Nerello Cappuccio, Carricante. I vini, Etna Rosso, Etna Bianco, Etna Bianco Superiore, Etna Rosato, sono particolarmente gradevoli. I rossi, pur essendo lavorati con le stesse tecniche sia in vigna che in cantina, pur avendo le stesse percentuali delle uve, risultano decisamente diversi tra loro. Ma è normale e sarà il leitmotiv che troverò in ogni cantina che visiterò, perché qui, sul vulcano, basta spostarsi di qualche metro per avere un diverso “terroir”, una condizione unica dovuta alle differenti colate laviche che si sono succedute nei secoli. Mi sposto e scendo a sud del parco dell’Etna per raggiungere il Comune di Trecastagni; qui, a 760 metri di altezza, mi reco in contrada Càrpene, una delle 133 contrade etnee dove si producono vini Doc, lungo la Strada dei Vini dell’Etna. Ad attendermi ci sono Sebastiano, mamma Santina e papà Saro che da oltre dieci anni coltivano con il metodo dell’agricoltura biologica nella Tenuta Monte Gorna. Anche in quest’azienda a carattere familiare passeggio tra i filari che sono posizionati vicino ai

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boschi su terreni formatisi dal disfacimento della lava, inseriti in un contesto ambientale in cui la forte escursione termica tra il giorno e la notte favorisce la più corretta maturazione delle uve, fissandone profumi e sapori. Nelle vicinanze delle vigne il Monte Gorna, con filari anche di Catarratto, un altro vitigno tipico di questa terra. Assaggio i vini abbinati ai sapori locali dei piatti preparati da Santina: caponata, zucchine in agrodolce, involtini di maiale, parmigiana, timballo di anelletti e altro ancora. Mi sposto per seguire la manifestazione “ViniMilo”, nell’omonimo paese, dove si celebrano i vini da “Terre Estreme”, ovvero quei vini prodotti in ambienti particolarmente difficili come la montagna, le piccole isole, i terreni impervi, dove la fatica dell’uomo viene amplificata dalle difficili condizioni territoriali. Per questo momento a Milo sono presenti vini di varie cantine provenienti da differenti regioni d’Italia, dal Piemonte al Veneto, dalla Campania alla Toscana, dal Friuli alla Liguria. A Sant’Alfio trovo le vigne di Fabio e Novella delle Tenute di Nuna. I filari sono stati impiantati su un lembo di terra bonificata dall’eruzione del 1971. Il vigneto è molto ordinato e il loro Etna Bianco particolarmente piacevole, fresco, sapido e persistente com’è. Ed eccoci poi nella Cantina Barone di Villagrande di Marco Nicolosi. Qui la storia affonda le radici alla fine del 600 e arriva ai giorni nostri. Oltre ai vigneti che ricordano un grande anfiteatro, visito la bottaia e gli spazi dedicati all’ospitalità. L’azienda dispone di 4 camere immerse in una deliziosa cornice e arricchite da una splendida piscina affacciata sulle vigne (foto a lato). I vini possono essere degustati in abbinamento alla cucina e il personale è decisamente cordiale e gentile. Il wine resort è situato nel Comune di Milo ma la

proprietà ha anche vigne sull’isola di Salina. Per assaggiare qualcosa di frizzante raggiungo le cantine di Antonino Destro nel Comune di Randazzo, nella parte più a nord del parco dell’Etna, ad una altitudine di circa 750 metri. Antonino produce vari vini, sempre con le uve autoctone che ho già menzionato, e una parte della produzione è dedicata a quelle che ormai comu-

nemente si definiscono bollicine. Con grande coraggio il produttore, che in cantina si è affidato all’enologo Giovanni Rizzo, ha realizzato un Saxanigra Dosaggio Zero molto interessante per quel suo finale iodato, ma soprattutto il Saxanigra 60 mesi Etna Brut, entrambi da Nerello Mascalese 100% le cui note minerali, unite a freschezza e sapidità, regalano un frizzante ricordo di questo territorio straordinario.

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Giovani talenti di

Maria Chiara Zucchi Niko Boi

foto di

ANGELICA LODI UN GIOVANE TALENTO È USCITO DAL GUSCIO

L’

età di Angelica Lodi è inversamente proporzionale alla grandezza della sua passione per la cucina: appena ventritreenne si è già fatta notare nel mondo del food professionale. Fin dalle elementari ha manifestato il suo amore per la manipolazione dei cibi e, dopo una battuta d’arresto adolescenziale, ha intrapreso il percorso alla scuola Alberghiera di Ferrara, sua città natale. Uno degli insegnanti dell’alberghiero le ha procurato uno stage presso la Locanda La Chiocciola di Portomaggiore (FE), magistralmente gestita dalla famiglia Migliari. Athos Adalberto Migliari non era particolarmente felice di avere “tra i piedi” l’ennesima stagista, peraltro dal carattere apparentemente chiuso e ribelle, ma presto ha dovuto riconoscere in lei un naturale talento e grande tenacia. “Adoro l’adrenalina che provo quando il locale è pieno e in cucina abbiamo molto da fare” asserisce Angelica rivelando così la sua determinazione a ricoprire un ruolo da protagonista in questa professione.

TRATTORIA LOCANDA LA CHIOCCIOLA

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AngelicaLodi

TERRINA DI ANGUILLA CIPOLLA ALL’AGRO DI LAMPONI, OLIVE E CAPPERI E PATÉ DEL SUO FEGATO INGREDIENTI per 8 persone

Montare la terrina sovrapponendo i filetti

chio d’aglio intero e appena schiacciato.

3 anguille intere di g. 800 circa

fogli di acetato fino a riempiere lo stampo.

biano colore bagnare con il vino passi-

Per la terrina

2 scalogni di Romagna 2 foglie di alloro sale, pepe nero olio evo

Per la cipolla all’agro di lamponi 2 cipolle rosse di Medicina g. 100 di acqua

g. 100 di aceto di lamponi g. 50 di lamponi freschi g. 50 di zucchero sale

Per le olive e capperi

g. 60 di olive taggiasche

g. 45 di capperi sottosale di Pantelleria Per il patè di fegato di anguilla 1 spicchio di aglio di Voghiera g. 50 di fegato di anguilla g. 50 di vino passito

di anguilla dentro uno stampo rivestito di Chiudere lo stampo in una busta sottovuo-

to e cuocere a bassa temperatura a 70°C per circa due ore e mezza. Abbattere ra-

pidamente di temperatura e conservare al fresco.

Per la cipolla: portare ad ebollizione i liquidi assieme allo zucchero, il sale e i

lamponi. Frullare e passare al setaccio. Portare di nuovo ad ebollizione, unire le

cipolle pulite e tagliate a falde, lasciare sobboliire per 3 minuti. Togliere dal fuoco

e lasciare raffreddare la cipolla immersa nel liquido di cottura.

Per le olive: denocciolare le olive e tritar-

le assieme ai capperi dissalati ottenendo una sorta di pesto.

Per il patè di fegato: scaldare un fi-

Unire i fegati dell’anguilla, appena camto. Regolare di sale e un pizzico di pepe e lasciare cuocere per 10 minuti a fiam-

ma bassissima. Infine unire il burro fuori dal fuoco e le foglie di basilico. Togliere l’aglio. Frullare il tutto molto finemente,

filtrare con un setaccio e raffreddare rapidamente.

Allestire il piatto con qualche foglia di ra-

dicchio verde condito, sopra alcune fette di terrina di anguilla, precedentemente

tolta dallo stampo ed affettata, il battuto

di olive e capperi, alcune falde di cipol-

la ai lamponi, uno spuntone di paté di

fegato dell’anguilla decorando con un germoglio di piselli e un pezzo di cialda di polenta.

lo d’olio in una casseruola con lo spic-

g. 50 di burro

2 foglie di basilico sale, pepe bianco

Per il radicchio verde germogli di piselli cialda di mais

PREPARAZIONE

Per la terrina: evi-

scerare le anguille, spellarle e sfilettarle.

Lavare in acqua cor-

rente e fredda i filetti,

condirli con sale, pepe,

alloro, scalogno a pezzi e

un filo di olio extravergine

d’oliva. Lasciare marinare per 12 ore in frigorifero.

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Giovani talenti

ANGELICA LODI INTERPRETA

TORTELLINI ALLA MODA DI BOLOGNA CON BRODO DI PARMIGIANO, PORRO BRUCIATO E CROSTONE DI PANE CON GEL DI SEDANO E POMODORO INGREDIENTI per 4 persone

PREPARAZIONE

Divine Creazioni Surgital

di parmigiano e inserirle in una pentola a pressione con acqua; aggiungere il porro e un

g. 400 di Tortellini alla moda di Bologna

Per il brodo

g. 250 di porro

croste di parmigiano q.b. g. 700 di acqua

Per il gel di sedano

Per il brodo: lavare il porro e cuocerlo nel bbq fino ad abbrustolirlo. Raschiare le croste pizzico di sale. Lasciare bollire tutto per circo 20 minuti dal momento del “fischio” della pentola a pressione.

Per il gel di sedano: passare il sedano nell’estrattore per mantenere colore e sostanze

nutritive. Ottenuto il succo, portarlo ad ebollizione e aggiungere l’agar agar e un pizzico di sale. Raffreddare subito in abbattitore e frullare.

g. 180 di sedano

Per il gel di pomodoro: schiacciare i datterini nell’acqua dentro ad una caraffa per

sale q.b.

unire i pomodorini e portare ad ebollizione. Togliere l’aglio e passarlo in un colino fine;

g. 2 di agar agar aglio

Per il gel di pomodoro g. 140 di datterini g. 2 di agar agar sale q.b. olio evo aglio

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eliminare i semini; rosolare uno spicchio d’aglio in una casseruola con un filo d’olio, aggiungere l’agar agar e riportare ad ebollizione. Raffreddare in abbattitore e frullare.

Cuocere i Tortellini in acqua bollente salata, intanto posizionare nel mezzo del piatto

qualche filo di porro ottenuto dall’essicazione della buccia esterna, appoggiarvi sopra il crostone e con una sac à poche creare due o tre pallini di gel. Disporre intorno i Tortel-

lini e infine versarvi sopra il brodo di porro e parmigiano per inzuppare per bene anche il crostone.


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Giovani talenti per

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Giovani talenti

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Giovani talenti per

SCRIGNI AI FUNGHI PORCINI LUMACHE TRIFOLATE, CAVOLFIORE, SPINACI E SALSA AL PARMIGIANO INGREDIENTI per 4 persone

della metà. Aggiungere le lumache, il

Divine Creazioni Surgital

re insaporire il tutto. Infine, lontano dal

12 Scrigni ai funghi porcini

Per la salsa al parmigiano

g. 100 di parmigiano grattugiato g. 50 di acqua di cottura g. 25 di burro freddo

Per la spugna di spinaci g. 12,5 di burro

cavolfiore precedentemente cotto e fa-

fuoco, aggiungere una noce di burro e amalgamare il tutto.

Per la crema al parmigiano: stemperare il

parmigiano insieme all’acqua di cottura e montare con il minipimer unendo il burro.

Per la spugna di spinaci: frullare tutto

g. 75 di spinaci

dentro al Bimby a 40°C per circa 8/10 mi-

g. 75 di farina

versarlo in un sifone e caricarlo con una

g. 112,5 di acqua g. 4 di lievito 2 uova

g. 3 di sale Per le lumache

g. 100 di lumache g. 30 di scalogno

g. 60 di vino bianco

nuti. Passare il composto al colino fine, cartuccia di protossido d’azoto.

Lasciare riposare per mezz’ora tenendo il sifone coricato. Sifonare dentro ad un bicchiere fino alla sua metà e cuocere in

microonde per 40 secondi alla massima potenza. Capovolgere il composto per far sì che si asciughi.

burro q.b.

PRESENTAZIONE

olio evo

ando una specie di “virgola” con un cuc-

1 spicchio d’aglio

PREPARAZIONE

Per le lumache: in una casseruola ver-

sare un filo d’olio e farvi rosolare uno spicchio d’aglio, aggiungere lo scalogno tritato e farlo imbiondire. Aggiungere il vino bianco e fare sfumare riducendo

Servire la crema di parmigiano caldo crechiaio, posizionare gli Scrigni, precedentemente cotti in acqua bollente salata e

scolati, ben distanziati l’uno dall’altro; posizionare le lumache trifolate e i cavolfiori a

piacimento, e infine, per decorare il tutto,

rompere con le mani la spugna e metterne qualche pezzetto sul piatto.

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Giovani talenti

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www.surgital.it

Giovani talenti per PANCIOTTI® CON CAPPESANTE E GAMBERI DEI MARI DEL NORD SALSA BISQUE E MAZZANCOLLE AL BBQ INGREDIENTI per 4 persone

per rosolarle e conferire il sapore del tosta-

dei mari del Nord Divine Creazioni Sur-

pelata togliendo il nero della tostatura;

12 Panciotti® con cappesante e gamberi gital

4 mazzancolle intere Per la salsa bisque

to. Unire i pomodorini, le teste e la cipolla inserire in una bowl e frullare il tutto con

un minipimer. Passare ad un colino fine e regolare di sapidità.

g. 250 di pomodorini rossi

Per la cenere di cipolla: tagliare le cipolle

1 cipolla

cuocerle in forno fino a quando non risul-

teste di mazzancolle q.b. sale

olio evo timo

Per la cenere di cipolla 2 cipolle intere

PROCEDIMENTO

Per la salsa: cuocere i pomodorini in una vaschetta di alluminio dentro al bbq, precedentemente conditi con olio, sale e timo. Cuocere la cipolla sempre nel bbq, fino ad intenerirla.

Togliere le teste delle mazzancolle dal resto del corpo, tagliare gli occhi con le for-

bici, altrimenti le mazzancolle potrebbero risultare amare, e passarle nel bbq

a julienne e metterle in una placca;

tino bruciate. Frullare dentro ad un Bimby per ridurle in polvere.

Cuocere i Panciotti® in abbondante acqua bollente salata; nel frattempo adagiare nel

bbq il corpo delle mazzancolle un minuto per lato, per conferire solamente il sapore del tostato della griglia.

Servire la salsa bisque calda al centro del piatto, aiutandosi con una spatola per darle una circonferenza, posizionare i Panciotti® distanti l’uno dall’altro, aggiungere

le mazzancolle e infine, per ricordare il sapore del tostato della griglia, “sporcare” i Panciotti® con un po’ di cenere di cipolla.

Per concludere irrorare con un filo di olio extravergine.

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GourmetFood

IL NUOVO CORSO DI

IMÀGO A ROMA CON LO CHEF ANDREA ANTONINI di

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Jerry Bortolan


,

Imago

“Ho creato Imàgo 12 anni fa per farlo diventare il luogo in cui assaggiare il futuro”: lo afferma Roberto Wirth - GM e Patron dell’Hotel Hassler dove risiede l’Imago, l’iconico e top ristorante stellato – presentando il nuovo chef, Andrea Antonini (foto pagina accanto), chiamato a dare nuova anima alla cucina. E chi meglio di uno chef giovane ed entusiasta, alla guida di una brigata di ragazzi che non superano i trent’anni ciascuno, può raccontare la cucina che verrà? Andrea Antonini, una volta dentro la nuova cucina all’Imàgo, spariglia subito i concetti del fare fino a quel momento proposti, inserendo una serie di piatti esplorativi che saranno propedeutici alla formazione del nuovo menu. Niente lunghe cotture e sotto vuoti pronti, ma tutto realizzato al momento con prodotti del territorio che arrivano giornalmente e che saranno la base per la creazione di un menu a “degustazione a sorpresa”. ”L’Imàgo - sottolinea Andrea Antonini - sarà il contenitore della nuova filosofia che esprimo attraverso un percorso gastronomico unico e originale.” Tra i piatti del suo menu citiamo il riso verde, gamberi e limone (foto qui sopra), che gioca sulla progressione del gusto e la modulazione dei sapori che ogni ingrediente apporta, e l’astice alla Catalana, un gioco performante realizzato con alimenti come il cetriolo, la cipolla in carpione e la salsa tartara in perfetta fusione.

Il background di Andrea Antonini - entrato come un meteorite nell’alta ed esigente ristorazione della capitale - ce lo racconta lui stesso: classe 1991, nasce a Roma e, nonostante la scuola di perito tecnico, sente immediatamente il richiamo della cucina. Entra nella brigata dello chef stellato Andrea Fusco e con lui matura il tipo di approccio alla gastronomia che vuole studiare e realizzare. Dopo un’altra esperienza con lo chef stellato Roy Caceres, decide di partire per l’estero e lavorare in ristoranti ove il piatto sia al centro

Riso verde, gamberi e limone

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GourmetFood

di un vero e proprio processo creativo. Inizia la sua avventura iberica (che durerà diversi anni), entrando prima nel laboratorio creativo di Quique Dacosta, 3 stelle Michelin, laboratorio organizzato come un’accademia militare per rigidità dei ruoli e organizzazione. Dopo i primi sei mesi capisce che, per dirla con le sue stesse parole, “la cucina può essere un luogo d’avanguardia e che questo si realizza, però, solo quando tutto è organizzato alla perfe-

zione, senza spazi per l’approssimazione.” Si sposta poi a El Celler de Can Roca, 3 stelle Michelin, miglior ristorante per i 50Best Restaurants. Ma il richiamo dell’Italia è forte e quando arriva la possibilità di entrare a lavorare nel team di Enrico Crippa capisce che è ora di tornare a casa. Quello che segue, è il prezioso racconto di Andrea su come la cucina spagnola sia diventata una leader mondiale e come per lui sia diventata un punto di riferimento importante. “Secondo me - afferma - c’è stato un distacco della cucina mondiale con un preAdrià e un post Adrià. Mancando a loro una storia gastronomica della cucina paragonabile alla nostra, la Spagna ha trovato il suo punto di forza nell’avanguardia, nello sviluppo delle idee, nella creatività in un momento storico in cui il mondo del food era fermo. Il successo deriva dalla novità: eravamo abituati a mangiare bene ma in modo classico e, quando sbuca qualcosa di nuovo, la gente ne è attirata, vuole essere coinvolta anche se ancora non è pronta a certe novità”. Certe cucine di moda spesso hanno vita breve mentre le cucine classiche esistono e marcano il tempo da sempre. Ci ricordiamo di piatti storici, centenari. Oggi quali sono le nuove frontiere? La cucina classica si basa su fondamenta vere, quella innovativa su qualcosa che si deve sempre cercare. A volte il risultato è esaltante, a volte non riesce a raggiungere la perfezione alla quale si tende. E tu dove vuoi arrivare con la tua cucina? Noi cerchiamo per prima cosa di trasmettere sicurezza ai clienti nel senso che chi viene da noi trova nel piatto tutto quello che legge sul menu e non capita mai che non sappia cos’è o da dove viene ciò che sta mangiando.

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Imago

INSALATA DI CAPPESANTE POMODORI, FINOCCHI INGREDIENTI

Per il leche de tigre all’italiana 4 cappesante

g. 8 di peperoncino dolce senza semi g. 40 di zenzero pelato g. 12 di basilico

g. 12 di prezzemolo g. 7 di sale

g. 40 di acqua Lavorare tutti gli ingrediente al mortaio pestando bene tutti gli elementi. Lasciar

riposare 10 minuti. Passati i 10 minuti, in-

corporare 180 grammi di succo di lime e 100 grammi di succo di limone. Lasciar ri-

posare 10 minuti. Preparare 50 grammi di dentice tagliati a cubetti e, a seguire, ver-

sare sopra il composto precedentemente filtrato. Lasciare riposare il tutto ancora 10 minuti. Frullare, passare allo chinoix fino e incorporare 40 grammi di olio EVO e 20 grammi di base Xantana.

Una volta completa, marinare per 10 minuti le cappesante, precedentemente tagliate a metà.

Per la gelatina di acqua di pomodoro

Frullare grossolanamente i pomodori datterini e lasciar filtrare in carta per una not-

1 pezzo di anice stellato

IMPIATTAMENTO

3 chiodi garofano

di diametro nel centro di una fondina e

1 bacca di cannella

Portare tutto a bollore. Lasciar raffreddare

e filtrare. Tagliare i cetrioli dello spessore di 1 mm, ricavarne dei rettangoli di 2x3 centimetri e marinare 3 ore nel pickle liquid. Tagliare i baby finocchi dello spes-

sore di 2 millimetri e marinare 5 minuti nel picke liquid.

Disporre un coppapasta di 7 centimetri

collocarvi 4 fettine di cappasanta marinata. Aggiungere poca marinata e aggiungere

dei cristalli di sale Maldon. Coprire completamente le cappesante con le lamelle di pomodoro trasparente. Coprire il tutto

con la gelatina di acqua di pomodoro e decorare con salsa di pomodoro arrostito, cetrioli e finocchi marinati. Completare aggiungendo aneto e nepitella.

te. Ottenuta l’acqua, legare con l’1% di agar-agar e stendere il composto (spesso-

re di circa 1 millimetro) su placche (dopo aver portato ad ebollizione).

Tagliare della forma desiderata. Per la salsa di pomodoro bruciato

Tostare in forno a 200°C i pomodori dat-

terini con olio, sale, aglio, timo, scalogno.

Una volta caramellati, frullare i pomodori

solamente con lo scalogno. Passare allo chinoix fino.

Per il pickle liquid

ml. 225 di aceto bianco g. 100 di zucchero

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GourmetFood

CARNE CRUDA INGREDIENTI

PREPARAZIONE

duro, g. 250 di acqua.

In una ciotola condire le melanzane e il parmigiano con un filo d’olio.

Pasta fresca: g. 500 di semola di grano

Ripieno per il raviolo: 2 melanzane viola, g. 30 di parmigiano.

Per il brodo di nepitella: 1 ciuffo di nepitella selvatica, acqua.

Per i pomodorini confit: g. 500 di pomo-

dorino siccagno, aglio, 2 foglie di alloro, zucchero di canna, buccia di limone, sale,

olio extravergine, foglie di capperi di Salina sotto sale, capperi di Salina sott’olio.

Adesso voglio provocarti: la tua catalana non è quella che tutti conosciamo... perché allora la chiami col suo nome classico? Abbiamo costruito un piatto basato su un classico della cucina internazionale con un po’ di nostro e un po’ dell’alta tecnica spagnola. Abbiamo

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Pulire e sbucciare le melanzane viola. Bollire in acqua salata per 10 minuti e scolare bene. Impastare la farina con l’acqua e riempire i ravioli con il condimento. Fare un brodo di ne-

pitella. In forno caldo a 100°C per 1 ora e mezzo circa mettere la teglia con i pomodorini e tutti gli ingredienti. Dissalare le foglie di capperi e sbollentare leggermente. Dissalare i capperi e metterli sott’olio.

Cuocere i ravioli e servire con il brodo di nepitella, i pomodorini, i capperi e le foglie di cappero.

Finire con delle foglie di nepitella selvatica e un filo d’olio.

Farcire i fiori di zucca con emulsione di alice e carne cruda, adagiarli al centro del piatto e decorare la parte restante con l’emulsione di alice. Completare la decorazione con le

lische di alice, alici fresche e capperi e concludere con salsa di mozzarella di bufala e fiori di zucca cristallizzati.

scelto di fare una bisque d’astice ridottissima, potentissima di sapore e all’ interno ci abbiamo messo una escabeche, un classico spagnolo. Fondamentalmente ciò che abbiamo fatto è stato riproporre un piatto classicissimo con gli stessi identici ingredienti: secondo noi, abbiamo dato al

piatto un tocco di eleganza e un po’ di sapore in più. L’esperienza fatta all’estero mi ha arricchito e completato, ma Roma è la città che amo. E ai romani dico che “nella mia cucina creativa, sono presenti il mare e la montagna ma con una porta aperta sul mondo”.


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Imago

PICCIONE, CAMOMILLA, BORRAGINE FIORI DI ZUCCA, ALICI

PREPARAZIONE

Pe le coscette di piccione

Procedere come per un normale fon-

sottovuoto in olio 5 ore a 85°C.

Per il fondo di piccione

do però, a differenza degli altri, deglassare la prima volta con Brandy e la

Una volta ricavate le coscette, cuocerle

Per il gel di camomilla

seconda con Porto. Una volta ottenuto

Portare l’acqua a 85°C e mettere in in-

gnare il successivo fondo. Una volta

3 minuti. Filtrare e aggiustare di sale e

il primo fondo usare il brodo per ba-

ottenuto questo doppio brodo, usarlo per bagnare il seguente fondo ed una volta ottenuto l’ultimo brodo, sgrassare e portare in riduzione.

fusione i fiori secchi di camomilla per

zucchero. Una volta fredda, aggiungere

1,5/100 agar-agar e gelificare. Frullare e setacciare.

IMPIATTAMENTO

Decorare il piatto con gel di camomilla, facendo dei punti. Adagiare sul piatto i petti di piccione dopo averli conditi col gel di camomilla e una foglia di borragine

croccante. Terminare il tutto con il fondo del piccione.

IMÀGO

Piazza della Trinità dei Monti, 6 - Roma Tel. 06 6993 4726

www.hotelhasslerroma.com

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ilFocusdiAlessandroRossi

a cura di

Alessandro Rossi esperto di vino, bon vivant, fondatore del Premio “Dire Fare Sognare”

IL PRINCIPIO DEL TEMPO-VINO DIAMO TEMPO AL TEMPO Partiamo da questo presupposto: non tutti i vini nascono per invecchiare e non tutti i vini invecchiano bene. Se andiamo ancora più in profondità, neanche tutti i vitigni possono invecchiare: solo alcuni sono in grado di dare il meglio nelle curve del tempo. Rimbaud scriveva nelle sue lettere a Georges Izambard: “Tanto peggio per il legno che si ritrova violino”; nessuno è in grado di intuire il mestiere che potrà fare da adulto, tanto meno un vino sarà in grado di leggersi – da solo - in gioventù, diamo quindi tempo al tempo. Il tempo per il vino è una variabile indecifrabile. Esistono vini capaci di evolversi per tantissimi anni, mentre altri a malapena possono arrivare all’anno successivo. I vini, per poter sfidare il tempo, devono essere pensati e prodotti con questo specifico obiettivo e si parte sempre dalla vigna. Ogni varietà ha possibilità di evoluzione nel tempo assolutamente proprie: anche a parità di criteri produttivi, ogni uva difficilmente evolverà opportunamente oltre i propri limiti. Il tempo comunque determina nel vino cambiamenti incredibili. La relatività del “concetto-tempo” legato al vino non si può infatti misurare in termini assoluti come accade per le persone o qualsiasi essere vivente. Ogni varietà, ogni territorio, ogni area viticola ha termini di confronto del tutto propri e non misurabili con altri. Non si può infatti affermare che tutti i vini dopo solo qualche anno di evoluzione sono da considerarsi ancora giovani, poiché questa valutazione è strettamente legata alla qualità e alle caratteristiche di ognuno di essi. Anche la stessa varietà può avere una vita diversamente lunga: tutto dipende dal territorio, dall’esposizione, dal microclima e dalla composizione del suolo.

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Altra bizzarra attitudine del vino è quella di esprimersi diversamente in base al territorio di appartenenza; logico ma non scontato. Poi si passa al tempo-bottiglia, il luogo dove partono e finiscono le grandi scommesse e dove il tempo più lentamente inizia il suo vero lavoro. Alcune varietà con il tempo si assottigliano maggiormente, altre rimangono più dense e meno diluite, il colore può in alcuni casi essere più stabile e la bocca può virare meno prepotentemente sulle note terziarie, ma nessuno è in grado di deciderlo a tavolino. Incide l’uomo - è vero - anche su questi fattori, ma la vigna e le diverse vendemmie comandano sempre. Il vino sostanzialmente è umano e umorale, cambia atteggiamento spesso durante la sua crescita prima di arrivare inevitabilmente alla morte, perché anche i vini, come gli esseri umani, sono destinati a morire. Durante il suo lento percorso le differenze, i cambiamenti e le fasi di crescita sono così numerose da mettere apparentemente in discussione la sua identità. Non può essere giudicato troppo frettolosamente: il vino è materia ambigua e oggettiva che richiede infinita pazienza e dedizione; fallire le previsioni è molto semplice, molti ci cascano. L’instabilità della materia vino, la sua tendenza ad apparire ogni volta diverso da sé, non mette però in discussione la sua personalità, la sua originalità e la complessità che si confermano nella capacità di evolvere. Il vino in fondo è intelligente, scostante e irrequieto da giovane, posato e saggio quando maturo. Balzac scriveva: ”Ogni potere umano è composto di tempo e pazienza”. Credo che lo stesso concetto, in fondo, valga anche per il vino.



Vinaria

BREVE STORIA DELLO

CHAMPAGNE UN AFFASCINANTE PERCORSO NEI SECOLI di

Mario Federzoni

La fama dei vini della Champagne era arcinota anche prima dell’arrivo del “leggendario” Dom Perignon, solo che i vini erano fermi, abbastanza leggeri, aromatici e aciduli, quindi assai gradevoli e beverini, ma con una forte tendenza a rifermentare; erano rossi, bianchi, “grigi”, rosati, ed apprezzati soprattutto dai nobili inglesi, disposti a pagarli assai profumatamente. All’inizio furono i monaci a coltivare i vigneti per produrre il vino sacro per la celebrazione delle messe. In seguito, una combinazione fortuita di eventi ha assicurato allo Champagne un posto importante nella storia: Saint Rémi, vescovo di Reims, residente in una villa cinta da vigne presso l’attuale Epernay, convertì al Cristianesimo Clodoveo, re dei Franchi e, quando la notte di Natale del 496 il primo re di Francia fu battezzato, la sua consacrazione avvenne con lo Champagne, nella regione della Champagne. È infatti a Reims, nel cuore della regione della Champagne, che tra l’898 e il 1825 tutti i re di Francia furono incoronati e, nel corso dei festeggiamenti, lo Champagne scorreva a fiumi. I vini della zona erano apprezzati per i loro aromi e per il gusto eccezionale ed erano offerti in dono ai sovrani che, accorsi, con ampio seguito, per assistere alle cerimonie regali, visitavano tutta la regione.

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I vini allora erano graditi e bevuti dolci e senza bollicine, tanto che se ce ne fossero state, si sarebbero disperse nell’acqua che veniva subito usata per diluirli ; vi era infatti la credenza che il vino facesse male senza acqua, specie quello frizzante. In realtà, essendo più piacevole berlo puro, faceva solo subire forti ubriacature. Nel 1152 Tibaldo Secondo il Grande, che regnò sulla Contea di Troyes, riuscì a riunire tutta la Regione sotto il suo dominio, creando un periodo di pace militare e benessere durante il quale fiorirono copiose importanti fiere locali, e vari commerci soprattutto tra la Francia, la Borgogna e la Lorena, frequenti erano anche gli scambi di merci e di vino tra il Mediterraneo e gli abitanti del Mare del Nord. Nel 1362 la Champagne diviene poi parte integrante del regno di Francia sotto l’egida di Filippo il Bello. La storia racconta di tanti sovrani e dignitari di ogni parte della Francia e d’Europa che giunti nella Champagne prendevano solenni sbornie tracannando grandi quantità di vini locali. Questi vini ebbero talmente successo che già nel 1412 l’enologia divenne l’attività principale a Reims e dintorni tanto da far nascere la figura dei “courtiers en vin”, una sorta di mediatori, con il compito di diffondere la fama dei vini della Champagne e fissarne il prezzo di vendita. Durante tutto questo periodo, ed anche successivamente, i religiosi continuarono a coltivare la vite estendendo e incoraggiando la sua coltivazione in tutte le regioni ove si recavano, facendo inoltre su di essa vari esperimenti e studi interessanti. La necessità di disporre di vino genuino, e possibilmente buono, per la celebrazione quotidiana della Santa Messa, contribuì enormemente alla espansione della viticoltura; i missionari, conquistando nuovi territori alla religione cristiana, favorivano l’impianto di nuovi vigneti per avere pronto il vino sul posto. Fino al Due/Trecento, durante la messa, il vino era bevuto non solo dal prete, ma anche, e pare abbondantemente e


storiadellochampagne

con grande soddisfazione, da tutti i “numerosissimi” partecipanti al rito (il popolino non aveva vino, beveva acqua o al massimo birra, se e quando c’era). I monaci dell’epoca cercavano di produrre vini di buona qualità e di avere buone rese unitarie, anche per accrescere le entrate dei loro ordini, il commercio del vino era, infatti, l’unico permesso dalle istituzioni della Chiesa. E’ per questo motivo che numerosi “crus” francesi (Chateauneuf-du-Pape, Clos de Bèze, La Roche-au-Moines e tanti altri) hanno origine ecclesiastica. Tra il 500 e l’anno 1000 anche la nobiltà contribuì alla diffusione e conservazione della viticoltura. Bere vino all’epoca era espressione tangibile della dignità sociale; la nobiltà e le classi emergenti erano orgogliose di offrire nei banchetti i vini prodotti nei loro vigneti. Nel Nord Europa i vigneti venivano coltivati soprattutto lungo i fiumi, dato che il costo del trasporto su acqua era molto inferiore e assai meno pericoloso di quello su strada. Molti Imperatori, Papi e Re acquistarono vigneti in questa regione, infine, col regno di Luigi XIV, il consumo di vino della Champagne crebbe e le esportazioni ebbero un nuovo e più importante impulso.

COME NACQUE E CREBBE LA SUA FAMA (PRIMA IN INGHILTERRA, POI IN FRANCIA) Con l’arrivo in Francia dell’esule Enrico VII Tudor la Champagne visse un periodo molto florido; la fama dei suoi vini conquistò gli inglesi a tal punto che a Londra alcuni commercianti iniziarono ad imbottigliare vino giovane, non rifermentato, proveniente dalla Champagne producendo loro poi, per primi, uno “Champagne effervescente”. Ma come, dopo tutte le belle storielle che si raccontano su S. Remigio, sui monaci di Hautvillers e compagnia bella si apprende che lo Champagne (dopo lo “smacco” già subito dallo “spumantem” dei romani) come lo conosciamo oggi, fu una scoperta (o riscoperta) dovuta agli inglesi? Beh, in un certo senso sì e, addirittura, fu proprio il successo che questo nettare riscosse a Londra a convincere ed a spingere i francesi a cercare di duplicarlo e, possibilmente, a migliorarlo. Si pensi che per indurre la rifermentazione utilizzavano qualsiasi mezzo, aggiungendo spezie, acquavite ed altre sostanze varie, come ci riferisce l’Abate Godino nel suo “manuale sul modo di produrre lo Champagne”, già pubblicato nel 1718 . Così, già da una decina d’anni e prima che Dom Perignon entrasse nel convento di Hautvillers, gli inglesi erano riusciti a fare quello che poi la leggenda volle attribuirgli: produrre cioè vini con le bollicine aggiungendo zucchero al vino francese. L’arcinoto Dom Pierre Perignon - di cui alcuni negano persino la presenza nella Champagne ed altri dicono fosse vegetariano convinto e addirittura astemio - fu nominato nel 1670 cellario dell’Abbazia di Hautvillers e fu qui che ebbe inizio il suo paziente lavoro di miglioramento qualitativo che riguardò sicuramente più i vigneti e la selezione delle uve, che il vino. Pare addirittura che egli non amasse molto il vino frizzante e che, in un primo tempo, avesse tentato di tutto per evitare che il suo vino rifermentasse, ma senza mai riuscirci.

Il monaco di Hautvillers non fu sicuramente il primo e nemmeno il solo ad utilizzare il sughero, poiché vari documenti storici riferiscono che già prima lo si faceva a Limoux nell’Abbazia di Saint-Hilarie dove, tra l’altro, da tempo si producevano vini spumanti, lui fu però, concediamogli almeno questo, certamente il primo ad utilizzarlo usualmente. Così come lo Champagne non può essere considerato come una geniale scoperta di un singolo, ma il frutto di costanti e progressivi sviluppi legati al lavoro di molte persone durante un lungo periodo storico, è a questo punto doveroso anche riconoscere al nostro Dom Perignon i propri numerosi meriti come, ad esempio, la sua grande conoscenza delle uve e dei vitigni. Ed è proprio in base ai suoi approfonditi studi che comprese e concentrò gli sforzi sugli elementi più importanti che diverranno poi le basi della moderna enologia della Champagne: l’importanza della potatura - che egli voleva fosse fatta a fondo su piante che non dovevano superare il metro di altezza, in modo da avere poca quantità ma tanta qualità - il valore della selezione dei grappoli in vendemmia, della necessaria maturità delle uve, della pulizia e dell’ordine in cantina ; egli, ad esempio, non permetteva assolutamente che si pigiasse l’uva coi piedi, come si usava fare all’epoca. Inoltre gli andrà riconosciuta certamente l’effettiva detenzione del primato nella maestria con cui imparò a mescolare le uve in percentuali idonee prima della pressatura e l’intuizione di abbandonare i vini “grigi” e dedicarsi alla vinificazione in bianco, separando raspi e bucce di uve rosse miscelate a seconda delle annate e della loro diversa provenienza. Egli constatò che i vini bianchi, soprattutto quelli prodotti con le uve Pinot, avevano tendenza a rifermentare con

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Vinaria

il ritorno dei primi caldi primaverili. Mise quindi a punto una tecnica di ammostatura soffice ed iniziò a far fermentare il vino direttamente in bottiglia, riponendo queste ultime in profonde cantine interrate, cercando in questo modo di renderlo sì frizzante, ma anche di mantenerlo giovane e dolce. Dom Pierre introdusse per primo il concetto moderno della Cuveé, cioè il saper assemblare mosti provenienti sia da uve diverse che da zone differenti ed anche da diverse fasi di torchiatura. Si rese anche conto, sempre tra i primi, che la cantina interrata, con temperatura bassa e costante, era un fattore importante per evitare che le bottiglie esplodessero e siccome il sottosuolo della Champagne è costituito principalmente da banchi di “belemnite” (gesso di origine marina, materiale leggero ma assai compatto, l’ideale per cantine profonde senza rischi di crollo), fu facile scavarvi gallerie ove ricoverare poi le bottiglie. Questi terreni, formatisi nell’era secondaria, furono sottoposti ad una successiva erosione che ha fatto emergere due ben definite linee di rilievi montuosi inclinati ad occidente (Coteaux de Champagne). Già i Romani sotto la città di Reims scavarono enormi cave per estrarvi pietre da costruzione, così fu ovvio che queste venissero poi usate per affinare lo Champagne (come avviene ancora oggi).

LE BOLLICINE, PURTROPPO...! Il vero cruccio del nostro buon Dom Pierre rimase però quello di non essere mai riuscito ad impedire il formarsi delle bollicine, anche perché, fino ai primi dell’800, il vino in Champagne era comunque amato e venduto rosso e fermo, spesso molto dolce. Alla fine del 17° secolo dunque, con l’aumento della produzione dei vini dello Champagne, la bottiglia comincia ad essere uno strumento ideale per la conservazione ed il trasporto del vino, oltre ovviamente a facilitarne la produzione; fino ad allora, il vino veniva venduto in grandi contenitori e poi imbottigliato direttamente dal consumatore.
 I francesi, che all’epoca consideravano l’effervescenza come una prerogativa della sola birra, non avevano alcuna simpatia per i vini spumeggianti. Solo quindici anni dopo la morte di Dom Perignon cominciò, seppur all’inizio molto lentamente, la commercializzazione del vino di Champagne sotto forma di spumante anche in Francia. Molti courtiers en vin rendendosi conto dell’incapacità di quasi tutti i vignaioli dell’epoca di riuscire a produrre bollicine di qualità, decisero di sostituirli nella coltivazione delle vigne e, soprattutto, nella produzione del vino facendo di fatto nascere le prime grandi Maison dello Champagne. Fondamentale fu anche l’intuito di Jean Godinot, che introdusse la legatura dei tappi al collo della bottiglia con uno spago, precursore delle successive gabbiette metalliche. Ed ecco apparire l’altra importante invenzione, nata dal perfezionamento di pratiche precedenti, che contribuì alla diffusione dello Champagne, quella del “muselet”: la capsula metallica che, assieme alla tipica gabbietta in filo di ferro, trattiene il tappo delle bottiglie dei vini spumanti prodotti nel mondo intero. L’idea e lo sviluppo dei primi prototipi fu merito di Adolphe Jacquesson, un pro-

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duttore di Champagne di Chalon-surMarne, nella prima metà del 1800. Risale, infatti, al 15 novembre 1844 la data di deposito del suo “Brevetto” di vari tipi di capsule in lamierino, fissate sulla parte superiore del tappo ed assicurate al collo della bottiglia con vari sistemi, i principali dei quali consistevano in una gabbietta di filo di ferro ritorto (anche se, come vedremo, qualcosa di simile era già stato usato). Prima di ciò, con le legature a spago, la pressione interna faceva sì che la cordicella tagliasse il sughero e penetrasse nel tappo; si creavano così perdite di vino e gas facendo diminuire e scomparire quasi del tutto il caratteristico spumeggiare dello Champagne. Altre volte succedeva che lo spago ammuffisse per l’umidità delle cantine, durante la fase d’invecchiamento, salvo che anche qualche topo non se lo rosicchiasse, quindi la corda s’indeboliva e poi si spezzava, liberando il tappo di sughero che veniva espulso dalla forte pressione interna con la conseguente irrimediabile perdita del vino. Sin dai tempi di Dom Pérignon, quando fu messo a punto il primordiale metodo per la rifermentazione in bottiglia, ci si pose il problema della buona chiusura; è vero che si passò ai tappi di sughero che però, pur avendo una migliore tenuta, dovevano forzatamente essere fissati con delle cordicelle di canapa, annodate a mano per evitarne l’espulsione. A garanzia di una migliore tenuta, più tardi, alcuni negozianti aggiunsero allo spago uno o due fili di ferro ritorto. Per rendere più facile l’apertura delle bottiglie, senza dover usare pinze, uncini o quant’altro, qualcuno (non ben storicamente individuato) ebbe l’idea di formare anche un anello sul filo di ferro ritorto, che poteva così essere rimosso facilmente. Spesso su questo anello era posto un sigillo di piombo, con impresa la parola Champagne o il


storiadellochampagne

nome e/o il marchio del produttore. Il lavoro per l’applicazione dello spago e del filo di ferro era però lungo, difficile ed assai costoso; si cominciò così a sagomare il fil di ferro in modo da facilitarne l’applicazione sui tappi e il fissaggio sulle bottiglie : era nata quella che noi oggi chiamiamo gabbietta, ovvero il nostro “muselet”. Fu così che la forma originaria della gabbietta venne modificata nuovamente, lo spazio centrale diventò più grande per contenere la placchetta metallica ideata da Jaquesson, stampata con quattro scanalature perimetrali per poter ospitare i montanti, la stessa forma che oggi conosciamo e che da allora non è più stata cambiata.

LE BOTTIGLIE DA CHAMPAGNE IL PRIMATO È INGLESE, LO SFRUTTAMENTO DELL’IDEA È FRANCESE Il primo Champagne creato, se ancora si potrà dire - cosa di cui, secondo le più recenti ricerche e rivelazioni secondo i principi messi a punto da Dom Perignon si ebbe nel 1690; anche se i vini della Chamapgne erano già conosciuti, egli ebbe un vantaggio notevole rispetto ai suoi predecessori, infatti poté iniziare ad utilizzare bottiglie di vetro, una invenzione, come al solito, dell’inglese Kenelm Digby. La bottiglia, infatti, non alterava il gusto del vino come succedeva con le botti di legno, e questo fu un importante elemento migliorativo per lo Champagne. Il nostro Perignon poi, memore di quello che facevano i romani con le loro anfore, per evitare che le bollicine fuoriuscissero, volle riadottare il sughero a chiusura delle sue bottiglie, poiché si rese presto conto che il cavicchio di legno avvolto nella stoppa imbevuta d’olio, come d’uso ai tempi, non era sufficiente a trattenere la pressione. Bisogna sapere che i primi più importanti sviluppi della tecnica produttiva vetraria sorgono intorno alla metà del ‘600.

 In concomitanza a tali nuove tecniche, in Inghilterra “nasce” il cristallo al piombo ed in Boemia il cristallo potassico; nasce soprattutto la vera bottiglia atta alla conservazione ed al trasporto delle varie bevande.

Nel 1615 Re Giacomo I° d’Inghilterra proibì l’uso della legna e relativo carbone nelle vetrerie, in quanto le foreste inglesi venivano drasticamente distrutte causa l’eccessivo utilizzo del legname, imponendo l’utilizzo del carbone minerale, dando il via indirettamente allo sfruttamento minerario industriale. In Inghilterra nasce la prima vera “ bottiglia da vino”; come detto, Sir Kenelm Digby la realizzò nel 1652 ma purtroppo non si preoccupò di brevettarla. Pare invece che sia stata brevettata nel 1661 da John Colnett al quale va il merito di questo memorabile avvenimento, che fissa così la data storica della prima bottiglia da vino. Tale bottiglia aveva la composizione in vetro, forte e pesante, mentre la struttura era a forma di palla con una base leggermente rientrante dando così stabilità. Attorno al collo, qualche centimetro sotto l’imboccatura, era posizionato un anello di rinforzo del collo stesso a cui veniva legata la cordicella che bloccava il tappo di carta o pergamena pressata. Nei successivi 30/40 anni, la bottiglia “allungò” il corpo mentre il collo diveniva sempre più corto per migliorarne la stabilità. Le bottiglie di allora erano preparate con vetro fuso a carbone di legno e rimanevano sempre comun-

que molto, troppo fragili. In Francia l’arrivo dall’Inghilterra della bottiglia più pesante, pare abbia coinciso con le prime prove di produzione dello Champagne ad opera del nostro supercitato Dom Perignon (?), disperato per le rotture delle sue bottiglie che talvolta superavano il 95%; solamente verso i primi decenni del ‘700 però, si arrivò alla produzione di bottiglie con robustezza tale da resistere alla pressione dello Champagne. All’inizio del 18° secolo, le Maisons francesi, compresE le aziende spumantistiche della Champagne, ma soprattutto di Bordeaux e Bourgogne, adottarono specifici formati di bottiglie che ancora oggi ne identificano le esclusive zone produttive.

 Tornando ai primi del 19° secolo, riportiamo qui una curiosità: le bottiglie artigianali dell’epoca venivano lavorate singolarmente ed esclusivamente a mano, così non era possibile controllarne la capacità, per cui ognuna poteva contenere quantità di liquido diverse, a tal punto da creare imbarazzo nel commercio al momento del pagamento del relativo contenuto! Poi col 19° secolo, la produzione industriale del vetro si divide in due grandi momenti:
i vetri di lavorazione artigianale della prima metà, ed i vetri lavorati con procedimento semiautomatico o quasi industriale, del secondo periodo.

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LE BOLLE IN GABBIETTA Fino al 1728 il vino si continuò a vendere prevalentemente sfuso o in botti di legno, ma il giorno 8 Marzo del 1735 Luigi XV, Re di Francia, con un suo decreto sanciva, oltre a liberalizzarne il trasporto, che le bottiglie per lo Champagne dovevano pesare 28 once (contenuto circa 750 cl.) ed avere un tappo assicurato al collo della bottiglia da tre giri di spago a forma di croce. Da allora lo Champagne a poco a poco conquistò tutti, dai nobili ai popolani, dai Re ai rivoluzionari, attraversando tutte le Corti d’Europa. Ad esempio, dopo la caduta di Napoleone, il mercato russo diventò talmente importante che lo zar Alessandro II, nel 1876 acquistò per sé tutta la produzione dei Roederer, pretendendo solo bottiglie di cristallo. Dalle 300.000 bottiglie prodotte nel 1780 si passò ai 20 milioni vendute nel 1900, e ciò nonostante il problema della fragilità dei vetri, che scoppiavano in numero considerevole; questo grosso problema fu risolto solo nel 1850 quando i vetrai inglesi Holden e Colent brevettarono, come precedentemente descritto, un nuovo tipo di vetro ancora più resistente di tutti i precedenti. Nel 1805 Nicole-Barve Ponsardin, rimasta vedova di Francois Cliquot, cominciò a commercializzare un prodotto estremamente dolce: prima di spedire le sue bottiglie, toglieva il sedimento e riempiva il vuoto creatosi con una miscela sciropposa di vino, zucchero, alcol e brandy. Ciò fu possibile per l’intuizione di un suo dipendente, Antoine de Muller, che inventò il sistema del “remuage” per eliminare il deposito che si formava nelle bottiglie. Prima di ciò si usava il “dépotage”, ossia il travaso in altra bottiglia che però faceva perdere grandi quantità di spuma.
 Grazie a questo innovativo sistema il vino era assai più frizzante, piacevole e soprattutto limpido. La produzione era, però, molto costosa: le bottiglie, come detto, non erano affidabili, e non venivano riutilizzate perché si credeva che la pressione le indebolisse. Prima di usare il sughero, come chiusura delle bottiglie si preferiva usare altro: pergamena, carta, piombo, stoffa, cavicchi di legno e per molto tempo si usarono anche tappi di vetro smerigliati, fatti su misura per il collo della bottiglia; il sughero non veniva preso in considerazione (anche se già usato dai romani per chiudere le preso in considerazione (anche se già usato dai romani per chiudere le anfore), forse perché i sugheri all’epoca erano di cattiva qualità causando al vino il “sapore di tappo”, o anche perché si riteneva che il sughero, con la sua porosità, permettesse all’aria di penetrare e danneggiare il vino. I tappi di vetro erano fatti in maniera da poterli legare alla bottiglia per la quale erano stati appositamente forgiati ed alla quale si adattavano perfettamente, ma furono gradualmente abbandonati perché troppo spesso era impossibile toglierli senza rompere la bottiglia.

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Sta di fatto che dopo l’introduzione dell’uso permanente del tappo di sughero, l’anello posto sul collo della bottiglia verrà portato a livello dell’imboccatura per rinforzare questa parte della bottiglia stessa e per permettere una migliore presa della gabbietta di contenimento. Le nuove bottiglie cosiddette “inglesi”, prodotte quindi dalle fornaci a carbone, non erano certo più trasparenti delle altre, erano più scure ma finalmente assai più resistenti; ciò favorì, ovviamente, la produzione massiccia dello Champagne. Per estrarre i tappi, però, si dovette ricorrere ad un’altra “invenzione”: quella del cavatappi, così finalmente si poteva inserire nel collo della bottiglia il tappo per tutta la sua lunghezza ; bisogna tuttavia aspettare il 1681 per trovare la prima menzione storica di un cavatappi, che pare sia stato inventato da un certo reverendo Samuel Henshall. All’inizio, per assicurare i tappi alla bottiglia, vennero fabbricate gabbiette semplici, con tre o quattro montanti, che formavano un quadratino o piccolo triangolo centrale, nella parte superiore. Le gabbiette erano posate direttamente sul tappo e sovente si inseriva una rondella metallica tra il sughero e la gabbietta per garantire una migliore tenuta. Come detto Adolphe Jacquesson ebbe per primo l’idea di utilizzare una capsula in lamierino metallico fustellata e preformata, senza altre scritte se non anche in rilievo la parola Champagne. La soluzione si dimostrò ben presto vincente, poiché permetteva di fissare saldamente il tappo, di avere un’ottima tenuta, e di far assumere ai tappi una forma tondeggiante e regolare, inoltre era esteticamente assai valida e, volendo, si poteva decorare coi marchi delle varie Maison produttrici.


storiadellochampagne

DA DOLCE A VERY DRY Il vino base della Champagne, all’epoca, non sempre era di buona qualità, i produttori più spregiudicati mascheravano l’inadeguatezza del prodotto con l’aggiunta di un’elevata percentuale di sciroppo zuccherino, visto che gli Champagne all’epoca piacevano dolci; Il tenore zuccherino arrivava a 165 gr./l. per la Francia e addirittura fino a 330 gr./l. per la Russia, mentre in Inghilterra era di soli 22-66 gr./l.. Spesso lo Champagne veniva servito, come si diceva all’epoca, “ frappé”, cioè quasi completamente congelato alla stregua di un sorbetto e assai spesso era colorato artificialmente con bacche di sambuco; ciò giustificava l’uso delle “coppe” larghe e poco profonde. Il gusto troppo dolce relegava però lo Champagne, al solo uso come vino da dessert o da fuori pasto; soltanto a partire dal 1850 si avranno le prime produzioni (all’inizio con scarso successo) di champagne secco. Comunque sia, salvo rarissime eccezioni, durante tutto l’Ottocento ed i primi del Novecento, ovunque in Europa si assistette al grande trionfo della gastronomia e dei vini francesi. E’ nel 1776 che il chimico Antoine Laurent Lavoisier scopre che le bollicine sospese nelle bottiglie dello Champagne altro non sono che “acido carbonico”. Quindi arriva la scoperta forse più importante: nel 1859 il fisico Louis Pasteur individuò, grazie all’uso del suo microscopio, i microrganismi autori della trasformazione degli zuccheri in alcool e gas, cioè della rifermentazione: i saccaromiceti, che sono funghi unicellulari, costituiti da cellule sferoidali, talvolta presenti anche in forme filamentose. Questi si moltiplicano per mezzo di

gemme che si accrescono progressivamente fino ad assumere la forma di un individuo completo che si staccherà dalla cellula madre nel punto in cui in essa si genererà una strozzatura. Queste cellule operano in ambiente privo di ossigeno e per nutrirsi utilizzano le sostanze organiche o zuccherine presenti, traendole anche dai residui di altri organismi. Dopo queste prime importanti scoperte si potè finalmente capire cosa avveniva durante la lavorazione del cosiddetto Metodo Champenoise; prima di allora, infatti, non avendo alcuna nozione di questi fenomeni, non si aggiungevano al vino, come di norma al giorno d’oggi, zucchero e lieviti in percentuali ben stabilite, per indurre e controllare la prima e la seconda fermentazione. I produttori, infatti, attendevano la primavera per veder riprendere naturalmente la fermentazione, lo zucchero si aggiungeva alla sboccatura solo per correggere eventuali difetti e l’alta acidità, ma soprattutto per mantenere il vino dolce. Questa pratica allora era considerata in un certo qual modo fraudolenta e si pensava fosse anche assai pericolosa per la salute. Ed ecco apparire nuove interessanti invenzioni: nel 1836 André François crea il suo “sucreoenométre”, uno strumento che può misurare la quantità di zucchero prima e dopo la fermentazione; nel 1818 Antoin de Muller, cantiniere di Veuve Cliquot, inventa anche le pupitre, oggetti utili per rimuovere dalle bottiglie i residui della fermentazione e rendere limpido il vino. Nel 1848 il commerciante di vino inglese Burners chiese alla Maison Perrier-Jouet di fornirgli uno spumante secco, pensando che si sarebbe potuto così bere anche durante i pasti. Dopo vari ripensamenti la Perrier-Jouet, alla fine, aderì alla richiesta, con grandi attese, ma senza ottenere il successo sperato. Purtroppo il mercato non era ancora pronto, i consumatori per troppo tempo erano stati abituati al gusto dolce del vino; inoltre uno spumante secco avrebbe costretto i produttori ad una lunga sosta del vino in cantina per smorzarne la rudezza che, se non controbilanciata dallo zucchero risultava all’epoca assai sgradevole, con conseguente pesante immobilizzazione dei loro capitali. Burners però, convinto che prima o poi uno spumante secco avrebbe avuto successo, fece un secondo tentativo con la Maison Louis Roderer da cui ottenne però risposta negativa. Nel 1860 le richieste dall’Inghilterra furono inoltrate ad altre diverse Aziende con esiti altalenanti; solo nel 1865 la Maison Bollinger spedì a Londra una partita di Champagne “very dry” ottenendo un discreto risultato, così da allora le richieste furono sempre maggiori e le vendite migliorarono sempre di più. Nel ‘900 arriva un’altra importantissima scoperta: il botanico Emil Chreistian Hansen riesce a riprodurre i lieviti in colture di laboratorio, così da poterne selezionare i ceppi migliori da usare per la rifermentazione, ciò darà inizio alla nuova era delle grandi produzioni dello Champagne.

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DRAPPIER

LA PASSIONE DI UNA FAMIGLIA, IL VALORE DI UN GRANDE CHAMPAGNE La sede dell’azienda era un tempo abitata dai monaci cistercensi di Clairvaux e vanta splendide cantine a volta costruite nel XII secolo. L’albero genealogico della Famiglia Drappier affonda le sue origini nel XVII secolo con la nascita di Remy Drappier nell’anno 1604, che diventerà, come Nicolas Ruinart, commerciante di tessuti a Reims. Suo nipote, Nicolas (1669-1724) sarà uno dei procuratori di Luigi XIV. Bisogna aspettare il 1808 per vedere uno degli antenati di Drappier coltivare la passione per lo champagne e l’erede di allora Georges Collot, nonno materno di Michel Drappier, attuale titolare dell’azienda, coltivare del Pinot Nero nella zona. Tale decisione fece sorridere qualcuno che gli diede il soprannome di “Papà Pinot”. Oggi questo vitigno rappresenta il 70% dei vigneti Drappier e quindi circa i tre quarti dei vitigni del territorio comunale. La storia ha pertanto dato torto agli “sbeffeggiatori”! Nel 1952 Andrè e Micheline Drappier lanciano la Cuvèe Carte D’or con la sua riconoscibile etichetta gialla: un’evocazione della gelatina di mela cotogna, frutto giallo di cui in ogni bottiglia si ritrova qualche sua nota aromatica. In seguito alla storica gelata del 1957 (la cui raccolta fu ridotta del 95%), Andrè introdusse il Pinot Meunier, vitigno maggiormente resistente al freddo primaverile. È proprio una cuvèe di Pinot Nero al 100% che nel 1965, a Colombey le deux Eglises, colpì piacevolmente il generale De Gaulle tanto da utilizzarlo per il consumo familiare. Nel 1968, Micheline ebbe l’idea di produrre uno Champagne rosè, al 100% Pinot Nero in una bottiglia di vetro bianca, un tocco femminile ancora troppo raro per l’epoca. Quarant’anni più tardi invece conobbe un

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Vinaria vero successo divenendo lo champagne ufficiale dell’Eliseo. Dal 1979 Michel Drappier domina la vinificazione dello Champagne tanto che papà Andrè - forte delle sue 60 “vendemmie” - guarda con occhio accorto i vigneti che oggi contano 53 ettari di proprietà e 40 ettari appartenenti a viticoltori conferitori che usufruiscono del controllo agronomico dell’azienda Drappier. Nel 1988 le cantine scavate nel sottosuolo gessoso di Reims (sotto Napoleone III) congiungono le proprietà familiari per accogliere le grandi cuvèe. I tre giovani figli di Michel e Silvye: Charline nata nel 1989, Hugo nel 1991 ed Antoine nel 1996 rappresentano così l’ottava generazione. Duecento anni di problemi climatici

ed economici non hanno alterato la passione che anima questa famiglia di produttori di champagne così radicata su una terra coltivata con tanto amore e oggi condotta da Michel Drappier. Terra d’estrazione del Pinot Nero, vitigno che “scorre nelle nostre vene” (sottolinea la proprietà): è proprio ad Urville che furono piantate le prime vigne, coltivate con i principi del bio e del naturale. Come testimonianza della lunga storia della Maison, qui si continuano a coltivare vitigni dimenticati e, pertanto, indimenticabili come l’Arbanne, il Petit Meslier e Le Blanc Vrai. Oggi all’eccellenza sofisticata (talvolta sopravalutata) si preferisce l’autenticità e la naturalezza. È risaputo che, grazie a un bassissimo dosaggio di

solforosa e a un utilizzo estremamente moderato dei solfiti, vengono messe in evidenza le molteplici sfaccettature dei territori e delle vinificazioni: la Cuvee Brut Nature sans soufre ne è il risultato.

CHAMPAGNE DRAPPIER

Rue des Vignes - 10200 Urville - France - www.champagne-drappier.com Importato e distribuito da: Partesa Srl

Via T. Edison 110 - 20099 Sesto San Giovanni (MI) - www.partesa.it

LA DEGUSTAZIONE

di Vania Valentini

BRUT NATURE SANS SOUFRE Senza solforosa aggiunta e senza dosaggio questo Blanc de Noirs di Drappier che riesce a portare nei calici un Pinot Nero luminoso, croccante, fresco e dalle generose sensazioni fruttate. La mela cotogna, la prugna gialla, finanche il thé, la foglia di tabacco, il tutto insieme a una mineralità pietrosa e a spunti iodati. Il Kimmerigiano, infine, la fa da padrone, portando al palato salinità salmastra e suggestioni rocciose, ammorbidite da piacevoli dolcezze agrumate. Un sorso schietto, gustoso e dinamico, perfetto in aperitivo ma anche su piatti di pesce. QUATTOUR Un Blanc de blancs davvero unico, viste le antiche varietà che affiancano nell’assemblaggio il classico Chardonnay: Arbanne, Petit Meslier e Blanc vrai. L’olfatto è raffinatissimo nelle sue delicate note di fiori bianchi, mela, agrumi gialli, thè bianco per poi proporre, con l’innalzarsi della temperatura, le erbe aromatiche, timo e il pepe, anch’esso bianco. È preciso, cristallino, come il sorso, che sorprende per

freschezza e vibrazione. Infine, è succoso, dall’impeccabile distribuzione e progressione al palato e dalla piacevolissima dolcezza fruttata, con un finale a sfumare su sensazioni di roccia. GRANDE SENDRÉE 2008 55% Pinot Noir, 45% Chardonnay La Cuvèe Grande Sendrée, trae il suo nome da un appezzamento di terreno ridotto in cenere in seguito a un incendio che devastò il villaggio di Urville nel 1838. Fu proprio un errore di ortografia nel ricopiare i dati del catasto che ha trasformato Cendrée (incenerito) in Sendrée che oggi dona il nome alla Cuvée. Incredibile come oggi proprio la Cuvée de Prestige di casa Drappier, qui nel milllesimo 2008, proponga all’olfatto affascinanti note scure di camino spento, polvere da sparo, cenere. Con l’evoluzione si affacciano poi gli agrumi gialli, le note di torrefazione, il thé nero e il miele di castagno. Infine, ecco il terroir: qui nelle suggestive note di coquillage. Succoso, pieno ed avvolgente al palato, intriga per profondità e austerità.

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LA CÔTE DES BLANCS L’ESCLUSIVITÀ DI UN TERRITORIO STRAORDINARIO UN SOTTOSUOLO UNICO AL MONDO La Champagne-Ardenne è una regione della Francia settentrionale, la cui punta estrema si trova a 40 minuti d’auto circa, dirigendosi da Parigi verso Est. Giuridicamente è composta da quattro dipartimenti: Aube, Ardenne (Ardennes), Alta Marna (Haute-Marne) e Marna (Marne). La regione comprende 15 arrondissement, 146 cantoni e 1.947 comuni. Dal 1º gennaio 2016 il governo francese ha deciso di far confluire la Champagne nella regione denominata Grand est. Il sottosuolo della zona nasconde un vero tesoro che non esiste in nessun altro comparto vinicolo: il “Craie”, un materiale composito, fatto di granuli di calcite da scheletri di microrganismi marini, di cui i più frequenti sono Belemniti (cefalopodi marini lontani parenti di seppie e calamari), Coccoliti (scaglie di carbonato di calcio formate da alghe unicellulari disposte attorno a loro in una struttura sferica detta cocco sfera, costituenti fanghi carbonatici e calcare). Le acque marine primordiali che qualche decina di milioni di anni fa invadevano il suolo Champenoise, pare non fossero molto profonde, ma assai spesso è invece lo strato di Craie (250 mt. circa) residuato dal loro successivo ritiro. I Romani di Giulio Cesare, durante la conquista delle Gallie, una volta giunti in zona, impararono velocemente a usare questo fantastico materiale per le loro costruzioni: il Craie, infatti, è compatto ma, nel contempo, estremamente leggero da trasportare. Le cave monumentali derivate dall’asportazione dei blocchi di gesso, sia in epoca romana che successiva, vengono ancora oggi utilizzate per l’affinamento delle loro bottiglie di Champagne da molte grandi Maisons. Per ciò che riguarda il vigneto, l‘alta porosità di questo gesso composito lo rende anche un vero serbatoio d’acqua (da 300 a 400 lt/m3) che garantisce un rifornimento idrico sufficiente anche nelle estati più secche. Il riscaldamento regolare del gesso immagazzina e restituisce facilmente il calore solare, inoltre la sua capacità di riverbero garantisce un’equilibrata vita vegetativa della vite e apporta un livello costante di zuccheri, i grappoli sono meno acidi e soprattutto più ricchi di composti fenolici: un fattore essenziale per ottenere una grande qualità.

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IL TERROIR Tradizione, e annosa convenzione, vogliono che l’area della Champagne, comprendente circa 34.000 ettari vitati, venga divisa in 4 macro-zone: Montagne de Reims, Vallèe de la Marne, Côte des Blancs e Aube, più o meno corrispondenti alla suddivisione giuridica della Regione. Oggi possiamo sostenere che tale suddivisione è piuttosto approssimativa, soprattutto se associamo, come appunto nel caso della Côte des Blancs, il vitigno alla denominazione dell’area, poiché anche in zone diverse da quest’ultima troviamo ottimi vigneti di Chardonnay sparsi un po’ ovunque, a macchia di leopardo (di cui daremo brevi cenni nel prosieguo), in tutto il comparto champenoise. Onestamente però c’è da dire che è stata principalmente la natura a guidare la distribuzione dei vitigni, e ciò anche in base a quello che i francesi chiamano “terroir”, che è una parola complessa, intraducibile in italiano con un unico termine.


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Per terroir dunque si deve intendere un’area specifica e ben delimitata nella quale la combinazione di diverse situazioni chimico-fisiche rendono unici e irripetibili i risultati ampelografici di determinati vitigni; le situazioni riassunte pocanzi si riferiscono dettagliatamente al tipo e composizione geologica del suolo e del sottosuolo, alla eventuale loro mutazione temporale intervenuta per fattori chimico-fisici ed anche biologici, all’intervento presente e passato di micro e macro organismi, il tipo di concimazione organica e minerale, l’esposizione del terreno rispetto al sole, alla ventilazione, l’andamento climatico, il tipo e la quantità fissa o variabile dell’approvvigionamento idrico, la temperatura e gli sbalzi annuali della stessa, il tasso di umidità, e, last but not least, l’opera dell’uomo, il suo modus operandi in vigna ed anche la tradizione dei consumi della zona. Da tutto questo deriva che lo stesso tipo di vitigno impiantato in aree diverse, o per meglio dire in terroirs diversi, produrrà sicuramente uve dalle caratteristiche diverse, sia nella loro intrinseca struttura che negli aromi e profumi del vino che se ne ricaverà. Quindi come la Côte des Blancs, anche la Côte de Sézanne e la Côte de Vitry che hanno sottosuolo gessoso e vigneti esposti ad oriente, danno ottimi ed interessanti risultati per il vitigno Chardonnay che, tra l’altro, richiede una dieta idrica regolare, mentre sul gesso molto più profondo delle Montagne di Reims cresce magnificamente il Pinot Nero. La Valle della Marna, il Massiccio di StThierry e la Valle dell’Ardre, sono a tendenza marnosa, cioè terreni con argilla e sabbia, dalla esposizione variabile (Sud, Est, Nord), e gli impianti migliori sono quelli di Pinot Meunier. La Côte des Bar, infine, essenzialmente composta da marne, è coltivata a Pinot Nero. Ecco perché, quando si parla di Champagne, è molto meglio iniziare a descrivere prima il suo specifico terroir, eventualmente aggiungendo anche il nome del “cru” o del “lieu dit”, di cui si sta parlando, piuttosto di nominare semplicemente la provenienza da una delle tradizionali quattro macro-aree. Parliamo ora dettagliatamente della Côte des Blancs, la cui area è storicamente collocata a sud della cittadina di Epernay, già dichiarata dall’Unesco “patrimonio dell’umanità”.

Ancora più a sud si snoda la Côte de Sezanne, tradizionalmente inserita anch’essa nella Côte des Blancs, anche se, a mio avviso, le due zone hanno caratteristiche e terroirs assai differenti. A questo punto, visto che si parla di vitigni a bacca bianca, mi piace citare anche la Côte de Vitry, che si trova più a Sud-est delle altre due, e la piccola zona di Montgueux, situata in un’altra parte del territorio nei pressi di Troyes, dove il sottosuolo è una miscellanea di marne grigie, ricche di carbonati di Micraster, (una specie di ricci di mare fossilizzati, comparsi tra il tardo Cretaceo e il Paleocene). Come diceva anche un illustre collega, a proposito del vitigno Chardonnay, possiamo affermare che esistono una Côte des Blancs - macro area tradizionale - e una Côte des Blancs a diverse - micro aree.

I VILLAGGI VIGNETO La cosiddetta zona storica o Côte des Blancs propriamente detta, misura circa una ventina di chilometri, e comprende 13 diversi villaggivigneto, sei dei quali sono classificati Grand Cru: Cramant, Avize, Chouilly, Oger e Mesnilsur-Oger, Oiry, (i primi due anche Classé Hors Ligne - cioè i primi e più antichi ad essere stati classificati come vigneti di gran pregio) e sette Premier Cru. Indubbiamente, alcune delle espressioni più interessanti e intense dello Chardonnay si ritrovano, per la maggior parte, in questa piccola striscia di terra che contiene i terroirs più adatti alla sua coltivazione.

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FAMOSA NEL MONDO

LA MONTAGNA DI REIMS LA CULLA DEGLI CHAMPAGNE (E NON SOLO) di

Mario Federzoni

Delimitata da una legge del 1927, l’area di produzione della Denominazione di Origine Controllata (AOC) Champagne copre 34.000 Ha, dove vengono prodotti oltre 1.900.000 ettolitri annui di vino; vi si contano 278.000 particelle (con superficie media di circa 18 Are), 17 villaggi denominati Grand Cru e 44 villaggi Premier Cru. L’area si divide tradizionalmente in cinque zone fondamentali, le prime tre più rinomate, le altre due, più a sud, poco conosciute: La Montagne de Reims - La Vallée de la Marne - La Côte de Blancs - La Côte de Sézanne - Le Regioni di Bar-sur-Aube e Bar-sur-Seine, nel dipartimento dell’Aube.

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La Montagna di Reims (chiamata anche l’isola montagnosa), è un rilievo boscoso disposto a mo’ di C rovesciata, tra le città di Reims e Épernay. Essa domina un’area per la maggior parte dichiarata Parco Naturale Regionale ed il suo territorio è caratterizzato da una massiccia presenza di impianti viticoli, dedicati ovviamente alla produzione dello Champagne. L’area si sviluppa in una vasta zona quasi tutta pianeggiante circondata da foreste. Si estende per 25 Km in lunghezza e 10 in larghezza, mentre il punto più elevato supera di poco i 280 metri; ciò nonostante, per definire la zona, viene usato il termine “montagna”, che pare sia dovuto al fatto che questi rilievi si stagliano


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nettamente e bruscamente sulle pianure circostanti. II terreno è costituito prevalentemente da sabbie e argille, mentre le aree collinari sono formate soprattutto da rocce calcaree, arenarie e marne. I vigneti sono coltivati per il 75% circa a Pinot Noir e Pinot Meunier, mentre il restante 25% riguarda lo Chardonnay. Questa estesa area viticola conta poco meno di 8.000 Ha di vigneti e comprende 101 villaggi, suddivisi in quattro ulteriori grandi parcelle: - La Grande Montagne de Reims conta circa 4.000 Ha vitati, di cui il 25% Chardonnay, 15% Pinot Meunier e 60% Pinot Noir; vi si trovano 27 villaggi e vi lavorano più di 2.000 operatori del settore vitivinicolo. - Le Massif de Saint Thierry, ha circa 900 Ha vitati (10% Chardonnay, 60% Pinot Meunier, 30% Pinot Noir) posti su 15 villaggi, e conta circa 400 operatori del settore. - La Vallée de la Vesle et de l’Ardre: 2.500 Ha vitati (10% Chardonnay, 65% Pinot Meunier, 25% Pinot Noir) sparsi in 54 villaggi, coltivati da oltre 1.100 operatori. - Le Monts de Berru, contiene più di 360 Ha vitati (90% Chardonnay, 8% Pinot Meunier, 2% Pinot Noir) suddivisi in 5 villaggi, coltivati da poco meno di 200 operatori. Montagna di Reims, come già detto, è un termine piuttosto iperbolico per descrivere un’estensione territoriale la cui altezza media non supera i trecento metri, ciononostante, si tratta del massiccio più alto di tutta la piana che costituisce la Champagne. E’ in questa zona che, grazie alla produzione di pinot noir, si realizzano, oltre ad ottimi spumanti, anche eccellenti vini rossi, commercializzati sotto la denominazione “Coteaux Champenoise”. I Comuni grand crus di questa zona sono 11 e, tra questi, i più rinomati sono: Ambonnay, Bouzy, Mailly, Sillery, Verzenay. La grande qualità dei vini prodotti in questi rilievi deriva principalmente dalla composizione del loro suolo: si tratta, infatti, di un massiccio blocco di gesso ricco di fossili marini (belemniti), inoltre la posizione geografica e l’esposizione particolare permettono al Pinot Noir di sviluppare tutte le sue migliori prerogative. I vigneti sono normalmente esposti a sud, tuttavia vi sono anche alcune aree esposte a nord, dove la maturazione delle uve è garantita dalla discesa a valle, durante la notte, dell’aria calda creatasi nelle ore diurne e soleggiate delle zone più alte. La posizione del sole rispetto alle varie parcelle apporta sensibili differenze: il Comune di Bouzy, orientato a sud, rende vini strutturati e potenti; sul versante orientale, a Verzenay si producono vini più vivaci e di grande eleganza; a Mailly, sul versante nord della Montagna, si hanno vini rotondi e strutturati.

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I SETTE VIGNETI CRAND CRU DELLA CÔTE DES BLANCS CHOUILLY E’ il primo villaggio che s’incontra dirigendosi da Epernay verso sud. La superficie vitata è pari a 522 Ha, ed è la più vasta di tutti i comuni della Champagne. Vari e diversi sono i suoi Liu Dits, con terroirs le cui differenze richiamano alla memoria la storia e la cultura locale. Le vigne sono al 99% Chardonnay e solo l’1% è di Pinot Noir. Chouilly gode di un clima più temperato rispetto agli altri Comuni Grand Cru della Côte, per cui i vini che se ne traggono, di norma, sono assai più pieni, grassi e strutturati. OIRY Il villaggio si trova ad Ovest di Chouilly, a sud-ovest di Cramant, e a sud di Avize. L’attuale superficie dei vigneti - tutti situati nella parte meridionale del Comune - è di 88,4 ettari, di cui il 99,4% piantati a Chardonnay lo 0,6% a Pinot Meunier. Pur essendo assai vicino agli altri Grand Cru della zona, Oiry presenta una conformazione morfologica assai più pianeggiante, l’umidità della zona è maggiore, per cui i suoi vini sono, di norma, più leggeri e beverini rispetto a quelli di Chouilly. CRAMANT Il comune dispone di 350 ha vitati completamente a Chardonnay. Il vigneto si presenta a forma di grande anfiteatro disposto ad Est, la pendenza non è esagerata ed è quasi isolato dal resto del paese. L’uva raggiunge un’ottima maturazione grazie alla in-

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solazione perfetta, dovuta alla esposizione privilegiata delle piante. Qui nascono vini di grande mineralità, potenza e complessità. AVIZE Probabilmente la zona dove il Craie è letteralmente affiorante, in alcune zone il terriccio sovrastante non raggiunge nemmeno i 15 cm. Sono 270 gli ettari di vigneto Grand Cru, al 99,8% impiantati a Chardonnay e il restante 0,2% comprende altri vitigni. I vini di Avize esprimono una verticalità ed una eleganza uniche, l’acidità è assai alta (indice di vini di lunga durata) e la loro mineralità è espressa all’ennesima potenza, si avvertono anche sensazioni fruttate tipiche del vitigno. OGER Il paese è ubicato esattamente al centro della Côte des Blancs, dove i pendii si fanno più dolci e i vigneti sono quasi tutti esposti ad Est. La vigna si estende per 403 ha, di cui il 99.6% piantati a Chardonnay e lo 0.4% a Pinot Noir, ed arriva sino al limite pianeggiante della foresta che circonda parte del Paese. I vini di Oger sono, per la maggior parte, ben strutturati, di buona maturità, assai eleganti, anche se non arrivano ad avere la potenza di alcuni altri Grand Cru della Côte. LES MESNIL SUR OGER I vigneti di Mesnil-sur-Oger occupano 433.8 ha, piantati per poco più del 99.5% a Chardonnay, per lo 0.4% a Pinot Noir, e poco meno dell’0.1% a Pinot Meunier, e si trovano tutti attor-

no al villaggio. I pendii rivolti a est sono dominanti, ma la loro inclinazione è varia: la più ripida è vicino alla foresta che domina l’abitato, in cima alla parte collinare della Côte des Blancs, per arrivare poi ai terreni quasi pianeggianti disposti sotto il paese. Il famoso vigneto o Cru chiamato Clos du Mesnil misura 1.84 ha e si trova al centro del villaggio. Qui, contrariamente alle altre zone situate più a nord, il sottosuolo inizia a cambiare, l’argilla si mischia parzialmente al gesso, così che i vini della zona guadagnano in eleganza, pur non perdendo in potenza e freschezza. VERTUS Il vigneto copre 433,8 ettari, di cui poco più del 99,5% piantato a Chardonnay, lo 0,4% a Pinot Nero e poco meno dello 0,1% a Pinot Meunier. La parte più a nord del Comune confina col territorio di Les Mesnil sur Oger, tanto che, in quella zona, suolo ed esposizione sono simili; tuttavia alcuni vigneti si trovano, a varie altitudini, sul Mont Ferrés. A mezza costa, dove le piante godono di maggior respiro, rendono uve dalle note assai diverse rispetto a quelle posizionate più verso la sommità, mentre le vigne situate più vicino al bosco producono frutti assai più ricchi e profumati, grazie alla maggior presenza di argilla nel sottosuolo. A Vertus la maggioranza degli Champagne si presentano taglienti, verticali, parecchio strutturati, ma ve ne sono anche alcuni, a seconda del tipo di parcella dalla quale derivano, che riportano delicate note minerali, saline, con sentori floreali.


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PINOT MEUNIER UN VITIGNO VERSATILE, ORMAI DIFFUSO NEL MONDO di

Mario Federzoni

Il vitigno Pinot Meunier, catologato nel Registro italiano varietà di vitis vinifera semplicemente come “Meunier”, è una delle varietà a bacca nera più diffuse in Francia, fa parte della grande famiglia dei Pinot, molto probabilmente derivato da una mutazione genetica del Pinot Nero. La parte inferiore delle sue foglie è colorata di un bianco lanuginoso e farinoso, tale da apparire come imbiancata, appunto, da farina (meunier, in francese = mugnaio). Nella zona dello Champagne il vitigno Pinot Meunier viene usato principalmente nella formulazione delle cuvée champenoise. Pur essendo meno pregiato del suo presunto progenitore, nelle zone più fredde, dove c’è alto rischio di gelate primaverili, il Pinot Meunier ha una produzione più sicura rispetto al Pinot Noir, perché germoglia dopo e matura prima rispetto a quest’ultimo, non solo, ma diventa un complemento ideale per rendere più soffici le cuvée non vintage. Questa varietà, avendo una acidità leggermente superiore a quella del Pinot Noir, un contenuto di pigmenti coloranti inferiore e note fruttate (ciliegia e ribes) molto più spinte, diventa un ottimo armonizzatore nelle cuvée d’assemblage champenoise. Il Meunier non ha, però, solo pregi: ad esempio ha il difetto di non invecchiare bene e, a volte, può compromettere, nel tempo, la stabilità delle cuvée cui è aggregato, tanto è vero che le grandi Maison non lo usano quando intendono creare le loro cuvée prestige o i loro grandi millesimati. Ma ecco che, subito a smentirmi, arrivano alcune eccezioni a confermare la regola: diversi Recoltant, specie nella valle della Marna o in quella dell’Ardre, producono oggi grandi bottiglie di Champagne usando Pinot Meunier in purezza, sia come Blanc de Noir che come Rosé de saignée.

Mi si dice che per far questo, in Champagne, occorre procedere a sistemi di allevamento del vitigno simili a quelli del Pinot Noir, con potature molto più rigide rispetto a quanto normalmente è permesso per il Meunier, che sarebbe altrimenti, come nella sua indole, molto, troppo, produttivo per ottenere la massima qualità. Le ultime notizie riportano che, oltre ad essere ormai diffuso in Champagne per più del 30% dei vigneti esistenti, il Meunier è coltivato, ed usato, come base spumante, anche in Alsazia, in Borgogna - solo per restare in Francia - ma vi sono molti altri paesi nel mondo che lo hanno adottato: Germania, Austria e Svizzera, Ungheria, Croazia, Boemia, Inghilterr; in California, addirittura, è coltivato sin dal 1980 e, ancor più recentemente, viene piantato anche in Nuova Zelanda, dove pare si riescano ad ottenere, da questa uva, ottimi vini rossi frizzanti. Infine in Italia rientra nella composizione varietale prevista per lo Spumante Trento Doc. Per completezza d’informazione aggiungiamo i vari sinonimi con cui è conosciuto nel mondo: • Francia: Pinot Meunier, Plant Meunier, Blanc Meunier, Munier (Daubs), Morillon taconé (Marne), Auvergnat gris (Loiret), Gris Meunier, Blanche feuille, Pineau Meunier, Plant de Brie (Seine-et-Oise), Fari-neaux; • Germania: Muller rebe, Fernaise, Muller Traube, Blachefeulle, Müllereben, Schwarzriesling, Müller Weib Fruhe blanc, Blanc Potitsch traube; • Ungheria: Molanr Toke; • Croazia: Rane Madra Mlinarica; • Boemia: Cerny Maneujk • Inghilterra: Miller Grape e Muller’s Burgundy

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I VITIGNI ANTICHI ANCORA IN USO NELLA CHAMPAGNE di

Mario Federzoni

Gli Champagne ottenuti da questi vitigni sono vere e proprie rarità dato che la superficie vitata di queste quattro varietà rappresenta appena lo 0,28% superficie vitata e non sono autorizzati nuovi impianti, anche se è permessa la sostituzione delle viti senza aumentare la superficie. ARBANNE | vitigno storico (uva a polpa e bacca bianca) PETIT MESLIER | storico incrocio tra Guoais Blanc e Savagnin, originario della Croazia (progenitore dello Chardonnay) FROMENTEAU (o Pinot Gris) | vitigno storico MORILLON (o Pinot Blanc) | vitigno storico (uva a bacca e polpa bianche)

ARBANNE L’uva Arbanne, nei vigneti di Bar-sur-Aube (Francia) e nelle zone circostanti, è considerata autoctona ed è residente in questi territori da qualche centinaio di anni. Era un’uva molto usata per la preparazione dello Champagne prima dell’invasione della fillossera, anche se ai vignaioli è sempre sembrata un’intrusa nel vigneto. Qualcuno nell’Aube racconta ancora che in certe annate l’acino restava così duro, e immaturo, che lo si poteva mettere nella carabina per sparare ai cinghiali che invadevano la vigna. Il vitigno si caratterizza per la produzione di grappoli che accolgono acini di dimensioni differenti, cioè piccoli e grandi; la buccia è invece alquanto spessa e resistente, tanto che crea qualche problemino nella pressatura. È un vitigno tardivo, per cui necessita di essere piantato su dei pendii ben esposti. E’ anche poco produttivo e cagionevole di salute: nonostante la scorza dura, è molto sensibile al marciume (anche nero), ciò spiega perché sia stato abbandonato a favore del Pinot Noir e del Meunier.

PETIT MESLIER La sua coltivazione è oggi concentrata quasi solo nella Francia orientale, anche se non ha mai raggiunto un’estensione di rilievo. Negli anni ‘50 era usato principalmente per

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produrre vini da tavola, mentre nella zona della Champagne veniva a volte inserito in alcune cuvèe dagli esiti per lo più poco apprezzabili. L’uva pare sia nata dall’incrocio tra il vitigno Savagnin, originario dello Jura, con il Gouias, importato dai Romani durante la conquista della Gallia. Il suo grappolo ha forma conica, piuttosto raccolta, ha bacche piccole e un peduncolo di colore rosso. Essendo una pianta dalla germogliazione precoce, deve essere allevata in zone con adeguata esposizione solare e preferibilmente su suoli calcarei. Lo sviluppo vegetativo è rivolto verso il basso, come fanno quasi tutti i vitigni che ricercano il calore del suolo e la luce solare. È un’uva che, se ben coltivata, è tuttavia in grado di dare vini di buona freschezza, che possono aggiungere vigoria ed aromi agrumati alle cuvée composte prevalentemente di uve a bacca bianca.


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FORMENTEAU O PINOT GRIS Fromenteau, così chiamavano il Pinot Grigio nel secolo scorso. Quest’uva dall’origine incerta era già presente in Borgogna ai primi del 400; c’è chi lo ritiene un progenitore del Pinot Grigio e pare che il suo nome derivi dal fatto che i suoi acini, originariamente, avessero il colore del grano maturo. È un’uva che produce mosti molto profumati e floreali. Nella Champagne pare essere comparsa attorno ai primi del 1200. Nonostante il

colore rosso-blu, appartiene alle varietà a bacca bianca, perché i pigmenti non sono nella polpa ma nella buccia degli acini. È un vitigno con una lunga ascendenza ed è probabilmente una mutazione del Pinot Noir avvenuta già nel Medioevo. Si presume che provenga dalla Borgogna. Il Pinot Gris è coltivato per la produzione di vino bianco e rosso. La denominazione del colore «gris» (grigio) indica una variazione nella pigmentazione; gli acini del Pinot Gris possono essere più chiari o più scuri, e il vino ottenuto è di un colore giallo oro. Negli anni ’50 la sua coltivazione era molto diffusa, poi venne superata dalla suntuosità del Pinot Nero e dall’estrema eleganza dello Chardonnay, cosicché oggi è il meno diffuso tra i vitigni “scomparsi” e, tranne una recentissima produzione biodinamica, non gli è dedicata alcuna cuvée. È facilmente riconoscibile in vigna perché i suoi acini hanno un colore rosa-grigiastro e sono piuttosto piccoli. Di solito i vini che se ne traggono hanno un contenuto alcolico leggermente superiore rispetto ad altre uve, ma non nella Marne, dove è mediamente un po’ meno dotato rispetto al Pinot Noir e al Pinot Blanc, . Il tenore di acidità è solitamente basso, per cui necessita di un clima piuttosto freddo, altrimenti, perdendo il suo spunto di acidità, non è ritenuto interessante per le creazioni delle cuvée.

MORILLON O PINOT BLANC Lungo la linea del 49° parallelo il Pinot Bianco assume il nome di: Blanc Vrai, cioè “bianco vero”. In Champagne è il più coltivato dei vecchi vitigni storici; nei filari lo si riconosce facilmente per la dimensione dei suoi grappoli, che sono molto allungati e conici. È un vitigno assai produttivo e, anche nel caso di gelate primaverili, è in grado di produrre frutti anche solo con pochi germogli rimasti, per questo veniva piantato anche nelle zone climaticamente più fredde. Ha una produzione piuttosto regolare e di buona qualità, la maturazione delle sue uve è molto rapida, ma può ammalarsi con facilità, infatti i vigneron più esperti dicono che, così come velocemente matura, così velocemente può marcire, e ancora, che può crescere bene solo due anni su dieci, mentre in tutti gli altri può essere aggredito continuamente dalla muffa. I più importanti produttori dell’Aube affermano però che è assai utile nella creazione delle varie cuvée, poiché dona morbidezza e buona struttura, doti assai importanti per l’equilibrio complessivo del vino prima del tirage. Purtroppo però ha un altro difetto, forse il più grave, che è quello di non riuscire a creare vini adatti a sopportare lunga autolisi, inoltre anche la sua evoluzione post sboccatura è sempre un po’ troppo rapida.

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DE VENOGE LA MAISON CHE RAPPRESENTA LA STORIA STESSA DELLO CHAMPAGNE

Henri-Marc de Venoge, nacque in Svizzera da una famiglia di notabili della cittadina che sorgeva nei pressi del fiume VENOGIZ, detto anche DE LA VENOGE, vicino a Ginevra. Trasferitosi in Champagne, nel 1837 fondò la Maison di Champagne de Venoge a Épernay dove, con primato assoluto, coniò fantasiosi nomi per le varie cuvées: Cuvée de la Comète - Grand Vin Impérial - Crémant Rosé - Vin du Paradis - Grand vin des Anglais. Egli depositò poi il marchio Cordon Bleu che, nel XVIII secolo, divenne simbolo di eccellenza per tutta la nobiltà: i membri della confraternita adottarono lo Champagne omonimo, prodotto da De Venoge. Il nome “Cordon Bleu” divenne così famoso che, ancora oggi, s’identifica con l’Azienda stessa (il Cordon Rouge di Mumm nacque 12 anni dopo). Verso la fine del 1858 Joseph creò due grandi cuvées: “Vin des Princes” e “Rosé Princesse”. Fondò la confraternita dei Principi de Venoge, con sedi anche a Manchester e ad Anversa, allora compresa nei Paesi Bassi Austriaci (ora Belgio) governati dai Principi di Orange ai quali venne appunto dedicata la Cuvée des Princes.

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Gaëtan de Venoge succedette a Joseph alla guida della Maison. Egli fece conoscere i suoi prodotti in tutto il mondo, specialmente negli USA. Nel 1880 fondò con la moglie Marie Papelart il “Magasin des Pauvres d’Épernay”: ospizio per il ricovero dei bisognosi. Nel 1882 è una delle Maison fondatrici del Sindacato “Grandes Marques de Champagne”. Successivamente al decesso di Gaëtan, subentrò alla guida dell’azienda il genero: il Marchese Adrien de Mun coadiuvato dalla moglie Yvonne de Venoge. Essi lanciarono il marchio de Venoge nell’alta società parigina ed annoverarono tra i clienti fissi: Sarah Bernhardt, la Contessa di Ségur, la Principessa di Ligne e altre notabili personalità francesi. Nel 1899 la Casa de Venoge acquistò il prestigioso monumentale immobile di Avenue de Champagne n. 30 in Épernay dalla maison PiperHeidsieck, e vi si trasferì con l’intera produzione. Alla fine del 1938 la Maison raggiunse l’apice della propria notorietà anche grazie all’invenzione di Joseph de Venoge: quella cuvèe des Princes cioè, che egli dedicò ai principi di Orange e che venne posta in particolari bottiglie a forma di decanter, in ricordo della pratica, allora in voga, di travasare appunto in decanter di cristallo lo champagne, per evitare che le fecce intorbidissero il vino. Queste particolari bottiglie, da allora, sono rimaste in uso e ancora oggi rappresentano, assieme all’etichetta “cordon bleu”, il segno distintivo, della Maison. Nel 1998 il Gruppo Boizel-Chanoine-Lanson Champagne, quotato alla borsa di Parigi, acquisì la maggioranza azionaria della Maison de Venoge e rilanciò il suo nobile e prestigioso marchio in tutto il mondo. Nel frattempo un giovane ed ambizioso laureto francese di origini nobili, Gilles de la Bassetière, venne assunto dalla Maison con l’incarico di gestire i mercati esteri. Dal 2005 ad oggi, grazie alle notevoli capacità e alla propria devozione, Gilles de la Bassetière è stato nominato Presidente della maison e durante questa sua entusiasmante ascesa egli ha riportato la Maison de Venoge ai fasti del passato. Ha riproposto alcune delle più antiche e prestigiose Cuvées rivisitandole e rendendole più moderne ed adatte al mercato attuale. Ha donato nuovo splendore alla sede aziendale nel prestigioso immobile di Avenue de Champagne 33, già patrimonio dell’Unesco, oggi completamente ristrutturato per dare elegante ed esclusiva accoglienza a tutti i visitatori. Al suo interno è conservata la più antica e prestigiosa collezione al mondo di etichette di Champagne. A Dicembre 2017 viene nominata Maison dell’anno dalla rivista Wine Advocate di Robert Parker, il quale ha premiato i suoi Champagne con punteggi altissimi, addirittura superiori a quelli di mostri sacri (e ben più costosi) come Salon e Krug.

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I VINI DELLE FESTE SECONDO I MASSIMI ESPERTI di

Alessandro Rossi

Le festività natalizie sono da sempre occasioni di ritrovo soprattutto sotto il profilo gastronomico e per antonomasia - se vogliamo - il momento più godereccio dell’anno. Durante il periodo delle feste, tra panettoni, pandori e chi più ne ha più ne metta, proporre il vino giusto è segno di attenzione e cura del dettaglio. L’Italia è lunga e stretta e ogni regione ha una sua tradizione culinaria locale e qui il vino assume un ruolo fondamentale come elemento aggregatore ma anche sotto il profilo culturale. Non può esistere una bella tavola senza un buon vino, perché noi italiani siamo abituati così, vogliamo stare bene! Il vino più ricercato e consumato in questo periodo è certamente quello con le bollicine. Come scegliamo lo sparkling più adatto al nostro palato e al nostro portafoglio? Questa è una domanda a cui tutti vorremmo rispondere ma è quasi impossibile perché ognuno di noi ha un gusto, uno stile di bevuta e questo determina una soggettività difficilmente decifrabile. Quindi? Ho pensato di chiedere ai tanti amici esperti, curatori di guide di vino, docenti e massimi esponenti della materia cosa berrebbero e che cosa consiglierebbero. Di seguito trovate un suggerimento da ognuno li loro; si parte dai prosecchi e si chiude in compagnia di Champagne molto suggestivi. Buone feste e a voi la scelta!

ROBERTO GARDINI Sommelier professionista, wine consultant con pluriennale esperienza come maître in hotel e ristoranti stellati tra Italia ed estero. Consulente per cantine di importanza nazionale. Docente AIS, Iulm, Alma Wine Academy e presso istituti universitari.

Champagne Brut Blanc de Blancs “Les 7 Crus” - Agrapart Il vino esprime luminosità e lucentezza, un perlage infinito e duraturo. Naso incisivo, frutto bianco e toni di brioches con finale tostato e agrumato. Al palato attacco deciso con tensione e profondità. Un sorso inebriante e duraturo. Lo consiglio per la bevibilità e la leggerezza.

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ALESSANDRA PIUBELLO Giornalista e scrittrice veronese, degustatrice professionista. È co-curatrice della Guida Oro I Vini di Veronelli e autrice per la guida I Ristoranti d’Italia de L’Espresso. Collabora con le più importanti riviste di settore, nazionali e internazionali. È membro di prestigiose associazioni di settore nazionali e internazionali e presenza costante nei più importanti concorsi enologici al mondo.

Champagne Krug Vintage 2004 Il lusso dell’arte sartoriale. Stoffa morbida e avvolgente, che accarezza sensualmente pelle, cuore e anima. Cade perfetta, con quel tocco di maestrìa esperienziale che rende unico e impareggiabile lo stile. Sfodera una mise luminosa che cattura lo sguardo. Ma il piacere di approcciarla, di indossarla, di renderla finalmente parte di noi, va ben oltre l’estetica. Krug non è solo una firma (e che firma!): classe innata, equilibrio vibrante, sottile energia dinamizzante… e chi se la scorda più questa collezione 2004?

ANDREA GORI Andrea Gori da Burde, sommelier informatico, giornalista pubblicista e Ambassadeur du Champagne 2011 per l’Italia.

Champagne Blanc de Blancs Grand Cru “Orpale” 2004 – De Saint Gall Per un bianco Natale ci vuole una bollicina bianca in tutto e per tutto e, ovviamente, in linea con le decorazioni dorate, sennò non è festa! Non sbaglierete se mandate in tavola l’ultima uscita di Orpale, un 2004 Grand Cru Chardonnay, struggente omaggio alla Cote des Blancs in Champagne da De Saint Gall, la cantina che forse lo conosce meglio, visto che vinifica centinaia di ettari nel cuore di questa regione . Il vino è affascinante, fumè delicato eppure potente, energico e soffice come una carezza.

CHARLIE ARTURAOLA Degustatore di fama internazionale, nel 2012 viene eletto migliore comunicatore del vino al Wine & Spirit Competition Comunicator Award. Protagonista di due documentari sul mondo del vino – El Camino del Vino; The Duel of Wine – è considerato tra i palati più preparati al mondo.

Valdobbiadene Prosecco Superiore Extra Dry Bortolomiol La bollicina che consiglio per queste feste è un prosecco: Valdobbiadene Prosecco Superiore Extra Dry – Bortolomiol. Si parla di Glera, di storia, della visione di Don Giuliano Bortolomiol. Il prosecco è la bubbly più famosa nel mondo in questo momento. Bisogna sempre avere un prosecco in cantina! I millennials saranno tutti happy!! We are in the golden times of prosecco!! Time to enjoy!!

ANDREA GRIGNAFFINI Curatore sezione vini Guida Espresso e Comitato Scientifico di Alma.

Ca’ del Vent - Change Man V.S.Q. 2012 Per un Natale che guarda a un futuro ricco di cambiamenti, ecco un Pas Operè a base di Chardonnay che non cede nulla alla morbidezza, ma che scatta come una lama a serramanico verso il futuro.

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CHIARA GIOVONI Ambassadeur du Champagne per l’Italia e Vice-Ambassadeur Européen nel 2012; laureata in Bocconi ed esperta di marketing e comunicazione; sommelier AIS. Autrice del libro Bollicineterapia (ed. Salani), ha una rubrica settimanale dedicata alle bollicine su DoctorWine di cui è co-autrice, come lo è anche per la “Guida Essenziale ai vini d’Italia”; cura la Guida dedicata allo Champagne di Spirito diVIno di cui è contributor, oltre a collaborare con altre testate.

Riserva del Fondatore Giulio Ferrari Rosé 2007 Tra le bollicine italiane ho nel cuore anche iconiche espressioni di Franciacorta, ma per queste feste 2019 non potrei esimermi dallo scegliere Riserva del Fondatore Giulio Ferrari Rosé, il più raro di tutti, tirato in soli 5000 esemplari, che dopo l’esordio si conferma in questo momento in grande forma con l’annata 2007. Oltre 10 anni sui lieviti per un Trentodoc che raccoglie la sfida del Pinot nero e che solo l’ossessione per l’eccellenza della famiglia Lunelli poteva realizzare. La materia viene plasmata in strutture armoniche e si fa eleganza affascinante, intensità avvincente, finezza densa di precisione. Esemplare.

COSTANTINO ANTONIO GABARDI Figlio di ristoratori gardesani, inizia la carriera come sommelier, poi critico e comunicatore nel mondo vino. Oggi consulente enologico di aziende in Italia, Spagna e Francia.

Metodo Classico Arunda Phineas Ne ho ancora tre bottiglie di quello con l’assemblaggio segreto di Rainer Zierok: le berrò in tre momenti importanti della mia vita. Come me, ha la montagna dentro. Mi piace quella sensazione totale di fusione con la sua espressione che ti regala nell’immediato e la sensazione di riuscure a darti ancora di più appena lo lasci cadere nella tua gola. Basa in egual misura il suo piacere sulla presenza e sulla sua assenza. Geniale.

DANIELA GUIDUCCI Laureata in Viticoltura ed Enologia presso la Facoltà di Agraria di Milano, è specializzata in Spumantistica conseguendo il diploma di Master Universitario in Gestione del Sistema Vitivinicolo-I Vini Spumanti. Assaggiatore e Docente O.N.A.V e socio ordinario Assoenologi.

Roccapietra Zero Pas Dosé metodo classico Oltrepò Pavese - Cantina Scuropasso Il sorso è pulito, profondo, sincero, fotografia precisa del carnale rapporto del Pinot nero con il territorio oltrepadano, di cui è espressione pura e diretta. È un vino senza compromessi. Non ci sono dolcezze nel calice, eppure è una festa per il palato, è appagante e versatile. Da portare senza esitazione a casa di amici per un aperitivo ricco e informale, ma altrettanto piacevole sarà assaporarne la compostezza insieme a piatti dai sapori antichi delle molte tradizioni locali italiane.

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FRANCO MARIA RICCI Presidente Fondazione Italiana Sommelier.

EROS TEBONI Classe 1990, di Vipiteno, vincitore del concorso della WSA (Worldwide Sommelier Association) per il titolo di Best Sommelier of the World nel 2018. Collabora con molte riviste e con grandi esperti del vino. Dal 2019 fa parte della giuria internazionale del BIWA Best Italian Wine Awards.

Lieselehof Metodo Classico Brut 2016 - Lieselehof Beviamo qualcosa di particolare, qualcosa di raro: solo 5000 bottiglie prodotte, una chicca! Lo consiglio perché è sicuramente qualcosa di sorprendete e molto soddisfacente. Questo spumante conferma che con questi vitigni resistenti si riescono a produrre grandi vini. Uno spumante adatto per l´aperitivo ma, tramite la sua buona struttura e ottima persistenza, anche per l´abbinamento a diverse tipologie di piatti. Fresco, pulito e floreale, con un ricordo di mela matura assieme a una leggera crosta di pane.

Franciacorta Annamaria Clementi Rosé 2009 – Cà del Bosco Perché questo spumante per le feste del 2019? Perché ritengo sia il migliore spumante italiano in questo momento della mia vita. Sì, spumante, perché per legge dello Stato è uno spumante per corretta definizione; come già detto, è un Franciacorta. Sicuramente non è una bollicina, né tantomeno una bolla.

GIANNI FABRIZIO Co-curatore della Guida Vini d’Italia – Gambero Rosso. È considerato uno tra i degustatori italiani più famosi e di notorietà internazionale.

Champagne Blanc des Millenaires 1995 Charles Heidsieck Consiglio questo Champagne perchè è stato prodotto dal più grande Chef de Cave della sua generazione: Daniel Thibault. È un grandissimo Champagne ad un prezzo estremamente abbordabile; lo considero la vera essenza dello Chardonnay. Da provare assolutamente – cercatelo – per festeggiare il periodo natalizio.

ERNESTO GENTILI Storico collaboratore prima della Guida Vini d’Italia del Gambero Rosso e successivamente per quella dei Vini de L’Espresso: è considerato uno tra i più importanti degustatori italiani di fama internazionale.

Champagne Cuveé “S” Le Mesnil Blanc de Blancs 1996 Salon La bollicina che mi è venuta subito in mente: Salon “S” 1996. C’è di meglio? Il primo e l’ultimo assaggio sono stati i migliori. Ed è inconfondibilmente Salon a prescindere dall’annata: agrumato e floreale al naso, freschissimo senza sbatterti sul palato (anche da giovane) lo sferzante urto acido del millesimo 1996. È denso, cremoso, falsamente sottile, soavemente intenso, tenacemente persistente. È uno dei pochi Champagne da bere da soli, al massimo da têteà-tête: te e quella bottiglia con la “S” di fronte.

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HELMUTH KÖCHER Helmut Köcher, appassionato visionario del mondo del vino, crea quasi 30 anni fa il Merano Wine Festival e, di fatto, crea il «salotto buono» del vino Italiano. Diventa il Wine Hunter e scopre nuovi talenti enologici che ripropone puntualmente nella sua Merano.

Brut Millesimato V.S.Q. Pinot Nero 2014 - Monsupello Spuma brillante e molto elegante; perlage fine con note fruttate i cui sentori ricordano la ciliegia di Marostica. Razza e classe dell’Oltrepò, lunga persistenza leggermente aromatica.

LEILA SALIMBENI Perpetua la ricerca del Graal mentre, tra una deadline e l’altra, dirige Spirito diVino e collabora a tutti i progetti editoriali di Passione Gourmet.

Champagne Extra Brut 1er Cru Rosé de Saignée - Larmandier-Bernier Rosé de Saignée - e non poteva essere altrimenti dato il profondo, malinconico segmento ematico che figurativamente rimandiamo al salasso di Pinot noir (90%) e Pinot gris (10%) di Vertus, della Côte des Blancs -. Un sans année base 2016 che, al naso, è un florilegio appassito, un tracciato di storie di antiche venagioni, rimpolpato da una tornita cornucopia di frutta, bacche e radici, tutte rosse: rabarbaro, lamponi e ribes e finanche barbabietola. Al palato, tannini leggeri ma definiti, si direbbe quasi scolpiti, e un’acidità nobile e profonda che si rigenera senza mai scomporsi. Ricorsivo. “Perché si tratta di una bolla trans-gender: un nettare rosso esangue abitato da una sorta di eccitazione, un richiamo istintivo che, come un bramito notturno, rimanda alla Borgogna muschiata, animale e floreale di certi Fixin.”

NICOLA BONERA Consulente presso Associazione Italiana Sommelier, è stato nominato migliore sommelier d’Italia al Premio Franciacorta 2010.

Cuvée Elementare S.A. Monzio Compagnoni (Jéroboham) Si tratta di una cuvée di millesimati realizzata alla sboccatura, quattro dei millesimati aziendali, in particolare Extra Brut e Blanc de Noirs, travasati nel Jéroboam; cuvée realizzata per celebrare le trenta vendemmie dell’azienda. Se le feste sono il massimo momento di condivisione con gli affetti, con i famigliari, con le vere amicizie, cosa meglio di un grande formato, anch’esso realizzato unendo eccellenze aziendali allo scopo di condividere il meglio di ciascuna di esse. Vino che dalla somma dei singoli vini utilizzati per l’assemblaggio guadagna in ricchezza, tostatura, evoluzione; il Pinot nero garantisce struttura salda e tenuta nel tempo; al contempo, grazie al dosaggio moderato e alla quota di Chardonnay, si mantiene di ottima bevibilità.

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LUCA GARDINI Miglior Sommelier del Mondo nel 2010, Luca Gardini è il primo critico italiano ad entrare a far parte della rosa dei wine-critic di ‘Wine Searcher’. Cura la rubrica “Gazza Golosa” sulla Gazzetta dello Sport. Oggi comunica attraverso il suo sito gardininotes.com. Ideatore, insieme ad Andrea Grignaffini, del BIWA-Best Italian Wine Awards.

Altalanga metodo classico Brut “Rosa” 2015 - Cocchi Tensione e personalità al naso. Una bollicina croccante e piena; cremosità in ingresso, la bocca è densa con un ritorno di note leggermente aromatiche oltre a geranio e fragolina di bosco. Il finale di bocca è acido/salino. Perché dovete comprare questo spumante per le feste? Perchè lo dice Luca Gardini!

VANIA VALENTINI Master Sommelier ALMA-AIS, da diversi anni ormai dedica la sua vita, i suoi viaggi e i suoi seminari allo Champagne.

Lini Metodo Classico Millesimato Rosso (100% Salamino) Straordinaria interpretazione di un Lambrusco che ha riposato sui lieviti ben 12 anni, con la logica di un grande spumante e la fierezza di un grande vitigno: un Salamino in purezza in grado di miscelare finezza esecutiva, rusticità varietale, profondità, sapore ed eleganza. Appassionante, caldo… non può mancare nei giorni di festa e, soprattutto, sulla tavola di Natale.

PIERLUIGI GORGONI Giornalista, autore e degustatore della guida I Vini d’Italia de L’Espresso, docente di Enologia e di Enografia Internazionale per ALMA – Scuola Internazionale di Cucina Italiana. Membro del Comitato editoriale e responsabile delle degustazioni per la rivista bimestrale SpiritodiVino. Collabora inoltre con le riviste Kairos e Arbiter.

MARCO SABELLICO Giornalista e curatore della Guida Vini d’Italia del Gambero Rosso.

Valdobbiadene Brut Nature Particella 232 ’18 delle Sorelle Bronca La mia bollicina è una scelta meditata e... obbligata!!! Si tratta del Valdobbiadene Brut Nature Particella 232 ’18 delle Sorelle Bronca. È spettacolare, il più buon vino assaggiato quest’anno tra Conegliano e Valdobbiadene. E’ il risultato di un lavoro attento di selezione dei diversi terroir che vengono valorizzati con vinificazioni per cru. Altro che prodotti mass-market! È la Bollicina dell’Anno sulla Guida 2020 del Gambero Rosso.

Champagne Dame Jane Rosè - Henry Giraud La Maison Henry Giraud, con sede ad Ay, è storicamente legata ad uno stile di Champagne ricco, speziato, cremoso, dalla struttura imponente. Fa parte di quella categoria di Champagne all’opposto della tendenza a tutta verticalità e a tutto verde (no malo, no dosage) che sta ultimamente prendendo il sopravvento tra i consumatori. Un grande Champagne rosè d’assemblage, prodotto con 70% di Pinot Noir e 30% di Chardonnay la cui peculiarità consiste in una percentuale importante della cuveé composta da Pinot nero vinificato in rosso in anfore di terracotta (il restante è vinificato in bianco in botti della foresta di Argonne).

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Vinaria

LA VITE PIÙ VECCHIA DEL MONDO SI CHIAMA VERSOALN E SI TROVA IN ALTO ADIGE di

Mario Federzoni

Ai piedi di Castel Katzenzungen (letteralmente Castello delle Lingue di gatto) cresce la vite chiamata Versoaln, dagli acini piccoli e verdi, con lunghi rami; la Versoaln, infatti, è sicuramente la vite più spettacolare, più grande e più vecchia d’Europa. Secondo gli studi condotti dalla università tedesca di Gottinga nel 2004, coordinati dal professor Martin Worbes, (responsabile dell’International Tree Ring Laboratory) pare che l’età approssimativa di questo vigneto sia di oltre 350 anni, se così è, la Versoaln è di sicuro la vite in stato vegetativo più vecchia del mondo. Molti ritengono che sia anche la più grande ed estesa d’Europa, poiché oltre alle incredibili dimensioni del suo tronco, che misura circa 32 centimetri, coi suoi rami forma addirittura un pergolato di circa 350 mq. Questa favolosa pianta si trova in Alto Adige, a Prissiano, frazione di Tesimo (600 mt./slm), lungo un pendio costituito da rocce di porfido, presso il ponte di pietra di Castel del Gatto, costruzione nominata per la prima volta da Henricus de Cazenzunge nel lontano 1244. Una annosa leggenda narra che fu la nobile famiglia Schlandersberg a piantare, attorno al Quattrocento, la Versoaln, e fece poi in modo di lasciarla crescere il più possibile, al fine di poter vantare la vite più grande di tutto il Paese. Miracolosamente scampata alla fillossera, poiché isolata rispetto agli altri vigneti della zona, anni fa la pianta venne

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danneggiata dal mal dell’esca, che distrusse circa 50 mq. del suo pergolato. Anticamente la principale zona di coltivazione del Versoaln, vite autoctona dell’Alto Adige, era la Val Venosta, famosa per la ripidità dei suoi terrazzamenti; da ciò pare derivi anche il nome stesso della pianta: in dialetto altoatesino “versellen” significcherebbe appunto “assicurare con corde”. Il Castello e quindi il vigneto stesso, dopo vari passaggi di mano, rischiarono di andare in rovina ma, grazie alla famiglia Pobitzer che nel 1978 ne acquisì la proprietà, podere e maniero furono totalmente restaurati e, da allora, divennero un centro per eventi enogastronomici e culturali. E il vigneto? Della sua coltivazione e della vinificazione si occupa oggi la cantina del Centro di Sperimentazione Agrario e Forestale di Laimburg. La vigna produce piccoli grappoli i cui acini diventano quasi trasparenti al momento della vendemmia, che avviene verso fine settembre; la produzione vinicola è limitata a 3/7 q.li annui (a seconda dell’andamento climatico) da cui si ricavano 400-700 bottiglie numerate, acquistabili direttamente presso il Castello. Il vino, bianco dai brillanti riflessi verdolini, al naso emana sentori di lime e mela gialla, in bocca risulta essere assai elegante con una spiccata acidità. Ma, al di là delle sensazioni de gustative, l’emozione sarà quella di poter assaggiare un nettare proveniente da una pianta che vanta oltre 350 anni di storia.


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Vinaria

IL

EROS

TEBONI

DALLE PIÙ ALTE VETTE ALTOATESINE A QUELLE ANCORA PIÙ ALTE DEL MONDO DEL VINO di

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Alessandro Rossi

comparto vino è un mondo vasto, complesso, complicato e difficilmente estraibile dal contenitore che lo raccoglie. Spesso perdiamo il controllo e non diamo il giusto valore alle nuove leve, alle nuove generazioni, quelle che devono essere in grado di far compiere il definitivo salto di qualità utile e necessario per annoverare la nostra Italia ancora di più tra le nazioni con maggiore propensione e propulsione al successo nel mondo-vino. Si vivono da sempre battaglie a suon di bicchieri, battaglie combattute tra i tanti talenti provenienti da tutte le parti del globo che cercano notorietà. Ma partiamo con la nostra storia: chi è Eros Teboni? È una persona complessa ma al tempo stesso semplicissima in grado di vincere (quasi in sordina) un concorso estremamente importante come il WSA – miglior sommelier del mondo – precedentemente vinto da mostri sacri come Luca Gardini. Immediatamente dopo il successo racconta: “Mi ero presentato al concorso con l’obiettivo di arrivare tra i primi quindici poi, una volta entrato nelle finali, ho cercato con tutte le mie forze di vincere. Negli ultimi anni ho lavorato intensamente alla mia preparazione, ho studiato molto, degustato tantissimi vini e viaggiato in lungo e largo. Nel vino, per arrivare dove sono adesso, ho investito tempo e anche tanto denaro: sacrifici importanti che però mi hanno portato al successo tanto sperato”. Ripeto la domanda, chi è Eros Tebo-


ErosTeboni

ni e da dove arriva questo talento? Eros è un classe 1990, di Vipiteno, un comune italiano di 6.980 abitanti della provincia autonoma di Bolzano in Trentino-Alto Adige. Ora, la domanda è lecita: come può un giovane ragazzo che abita disperso sulle montagne più estreme del confine italiano, arrivare a tanto? Ritorniamo alla nostra storia: Eros frequenta il liceo scientifico e poi decide di iscriversi all´Università, per la precisione al corso di Viticultura ed Enologia che, purtroppo, non è ancora riuscito a terminare perché nel 2013 decide di intraprendere la lunga via che lo porterà ad essere in futuro un Master Sommelier presso la Court of Master Sommelier di Londra. Racconta Eros: “La mia passione per il vino me l´ha trasmessa mio padre; in famiglia abbiamo un’enoteca al Brennero che già all’età di 16 anni frequentavo e proprio qui ho iniziato ad interessarmi a questo affascinante mondo”. Poi, esattamente il 30 Giugno 2018, decide di partecipare al concorso della WSA (Worldwide Sommelier Association) per il titolo di Best Sommelier of the World (come raccontavamo in precedenza), e proprio qui ecco che Eros raggiunge l’apice del suo successo vincendo prepotentemente il concorso. Eros oggi collabora con molte riviste del settore; scrive per il Gardini Notes e dal 2019 fa parte della giuria internazionale del BIWA (Best Italian Wine Awards formata da Master of Wine e giornalisti del mondo del vino).

L’INTERVISTA Eros, la domanda è d’obbligo: cosa significa - personalmente parlando - essere eletto miglior sommelier del mondo Wsa? È stata una sorpresa anche per me, non mi sarei mai aspettato un risultato così importante alla luce del livello dei sommelier partecipanti. La preparazione è stata molto lunga e impegnativa, non smetterò mai di ringraziare le persone che mi sono state vicino e mi hanno spronato aiutandomi a non arrendermi. Ora, dopo il successo, studio e viaggio ancora di più per capire tutte le sfumature di questo infinito mondo che, per la sua immensità, non finisce mai di stupirmi. Raccontaci esattamente come di ti sei avvicinato a questo mondo. La mia famiglia lavora nel mondo del vino dagli inizi degli anni 90. Abbiamo una piccola enoteca al Brennero, dove ho incominciato a dare una mano quando avevo circa 15 anni. Mio padre - per me figura di grande ispirazione - è riuscito a trasmettermi questa passione incantandomi grazie al suo modo di parlare, di raccontare il vino, di venderlo e alla sua bravura nel saperlo degustare. Poi, all´età di 18 anni, ho intrapreso il percorso universitario, viticultura ed enologia per la precisione. Successivamente ho deciso di proseguire la mia formazione professionale tra Austria e Londra, rispettivamente nella Tiroler Sommelier-Verein e nella Court of Master Sommelier. Tornato poi in Italia, dopo aver lavorato diversi anni in Austria, sono entrato nella Fondazione Italiana Sommelier e questo mi ha permesso due anni dopo – precisamente nel 2018 - di partecipare al concorso Best Sommelier of the World -Worldwide Sommelier Association, dove sono riuscito a conquistare il gradino più alto del podio.

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Vinaria

Sei molto legato alla tua terra l’Alto Adige - una regione in questo momento stilisticamente molto copiata. Come vedi il futuro prossimo di questo territorio vitivinicolo? Amo la mia regione e, ovviamente, amo anche i vini qui prodotti; la nostra forza è nella ricerca e nella precisione, proprio per questo produciamo vini di altissima qualità. Non penso si possa copiare uno stile, forse si può cercare di lavorare in un modo il più simile possibile, ma copiare la vedo dura. Abbiamo un clima particolare e unico, come ogni zona vitivinicola del mondo e questo sicuramente riesce a marchiare i nostri vini e a trasmettere il territorio quando vengono degustati o bevuti. L´Alto Adige può solamente continuare a produrre il vino come sta facendo oggi, ovvero stando attento ai minimi particolari e puntando sull’alta qualità. Questo è l’unico modo per fortificare la nostra posizione sul mercato e a mostrare le innumerevoli sfaccettature dei nostri vini. Quale vorresti fosse il tuo ruolo oggi nel mondo del vino? Come ti vedi utile per questo segmento? È una domanda molto difficile quella che mi è stata posta; in questo momento sto lavorando con grandissimi professionisti in progetti molto importanti e questo mi permette di imparare e apprendendo molto. Le cose che vorrei fare sono tante, ma dare una risposta ben precisa a questa domanda mi è difficile in questo momento. Per adesso continuo a viaggiare, a degustare e conoscere persone che possono essermi utili in un futuro per tracciare la mia via. Continuo inoltre a condividere informazioni ed esperienze in modo da poter arricchire il mio bagaglio personale e quello delle persone con cui entro in contatto.

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Hai avuto nella tua carriera un maestro che ti ha guidato e indirizzato al successo? Ci sono state diverse figure che mi hanno accompagnato e tutt’oggi mi stanno accompagnando nel mio cammino. Alcune mi hanno motivato e dato energia in momenti difficili consigliandomi e standomi vicino durante lo studio e la preparazione ai concorsi, altre sono importanti figure, grandi amici e punti di riferimento che mi consigliano sostenendomi nelle scelte per il mio futuro. Eros, un vino che ti ha è rimasto impresso in questo 2019 e che consiglieresti. Uno solo è difficile, fortunatamente sto assaggiando tanto. Quest´anno penso di aver presentato una trentina di verticali e tenuto altrettante degustazioni senza tralasciare il lavoro al ristorante che, ogni sera, mia permette di stappare e assaggiare i grandi vini nazionali e internazionali. Ci sono molti vini che rimangono impressi nella memoria degustativa, come i momenti e le persone con cui li vivi. Ultimamente sto assaggiando molte annate mature della mia regione e sempre di più rimango sorpreso dal grande potenziale di invecchiamento che questa regione offre. Il vino che non scorderai mai? Anche in questo caso la risposta è tutt’altro che semplice, comunque direi: Brunello di Montalcino 1990 Soldera, Brunello di Montalcino Etichetta Bianca 1979 Casanova di Neri, Chateua Mouton-Rotschild 1945, Chateau Lafite Rothschild 1961, Dom Perignon Oenotheque 1996, Riesling Kellerberg Knoll 1994, Salon 1996 e tanti altri ancora, potrei scriverne altri 50! Come collochi il vino italiano nello scacchiere delle eccellenze mondiali? Sicuramente il vino italiano gioca un ruo-

lo importantissimo, la nostra fortuna è la grande varietà di vitigni e l´alta qualità prodotta. Le cantine stanno al passo con la tecnologia e la cura dei vigneti è diventata fortunatamente quasi maniacale. Il tutto naturalmente gioca a favore della qualità del vino da noi prodotto. Eros, esiste, secondo te, l’abbinamento cibo-vino, oppure è solo una mera suggestione? Naturalmente esiste, è il lavoro principale di noi sommelier riuscire a trovare il connubio perfetto, l´estrema armonia nella combinazione cibo-vino. Questo serve per poter esaltare entrambe le parti e per poter dare al nostro ospite il più alto livello possibile di soddisfazione quando viene per esempio nel nostro ristorante. Cosa manca alla comunicazione italiana per essere incisiva come quella estera? La comunicazione italiana è migliorata notevolmente. A mio parere all’Italia servono nuove figure di riferimento per sostenere gli sforzi delle nostre aziende vitivinicole, figure in grado di prendere per mano questa economia e portarla in giro per il mondo raccontando la nostra qualità e professionalità. Un’ultima domanda: come è stata la tua prima esperienza al BIWA di Luca Gardini e Andrea Grignaffini? È stata un’esperienza incredibile, una grande soddisfazione personale riuscire a far parte di questa giuria formata dai migliori professionisti del mondo del vino italiano ed estero. Ogni giorno ho avuto la possibilità di imparare qualcosa di nuovo da personaggi che fanno questo lavoro da molti anni; il potermi confrontare con loro non ha prezzo. È motivo di orgoglio per me essere stato selezionato dal BIWA come giudice e sono ancora grato a chi me lo ha permesso.



Vinaria

DAL CUORE DEL COLLIO

VIDUSSI

VINI ESPRESSIONE DEL TERRITORIO di

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Gianni Di Lorenzo


Vinaria

Vocato storicamente e geograficamente alla viticoltura, il Friuli Venezia Giulia annovera nel goriziano una serie di aziende che si sono distinte per la qualità dei vini prodotti e per la capacità di innovarsi e affrontare nuovi mercati. L’azienda Vidussi, a Capriva, si estende per oltre 30 ettari sulle colline meglio esposte nella zona di produzione del Collio. L’ottima posizione, il terreno marnoso di origine eocenica, i moderni vigneti con impianti a Guyot, le attente e oculate selezioni clonali, generano vini identitari di questo straordinario territorio. Fu proprio il fascino di un ambiente così ammaliante che indussee Ferruccio Vidussi a fondare negli anni ’80 l’omonima cantina, oggi gestita da Cantine Giacomo Montresor Spa sempre nel solco di una viticoltura d’eccellenza. La cantina, scavata nella collina, lavora esclusivamente uve provenienti dai vigneti aziendali, le cui principali varietà coltivate sono Friulano, Sau-

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Vinaria

vignon e Cabernet, particolarmente identificativi di queste zone per la loro intensa carica di profumi e sapiditĂ . Le vinificazioni in acciaio inox a temperatura controllata esaltano la fragranza degli aromi e la mineralitĂ , garantendo vini fruttati, genuini e longevi. Gli affinamenti avvengono in barrique per i vini rossi e per alcune piccole produzioni di vini bianchi, ma anche in vasche di cemento che permettono una lenta microssigenazione a temperatura costante. Una parte importante della produzio-

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Vinaria

VIDUSSI

Via Spessa, 18

Capriva del Friuli (GO) www.vinividussi.it info@vinividussi.it

ne è tuttavia riservata alla Ribolla Gialla, sia nella versione ferma che in quella spumantizzata. Ed è proprio in questo momento storico particolarmente felice per le “bolle” italiane, che Vidussi punta su uno spumante dal gusto fresco e leggermente citrino: l’ideale brindisi delle feste, ma anche nei menu di carni bianche o pesce.

RIBOLLA GIALLA SPUMANTE BRUT Questo nuovo progetto è stato sviluppato grazie alla grande tipicità del territorio del Collio e all’esperienza centenaria di Montresor nella produzione di vini spumanti. È dal legame profondo con il territorio che da sempre contraddistingue la produzione, che nasce la Ribolla Gialla Brut Vidussi, uno spumante prodotto con 100% uve Ribolla Gialla, secondo il Metodo Charmat Lungo Montresor: 3 mesi di permanenza sui lieviti e successivo affinamento in bottiglia prima della commercializzazione. Il vino si presenta elegante, fresco, delicato e dal perlage molto sottile e persistente, sinonimo di grande qualità e raffinatezza.

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Vinaria

COLOMBARDA LA ROMAGNA “IN PUREZZA” di

Antonietta Mazzeo

A nord di Cesena, a ridosso di Bertinoro in frazione San Vittore, dalla seconda metà del 1800 si estendono i vigneti, gli oliveti e i boschi che compongono i tre corpi aziendali della Tenuta Colombarda, attualmente di proprietà della famiglia Dionigi, oggi custode della storia di un territorio “in purezza”. 23 dei 50 ettari di cui si compone la proprietà sono coltivati a vigneto; prevalentemente esposti a Sud, Sud-Ovest, in una zona particolarmente vocata dal punto di vista morfologico e ambientale. Grazie al terreno argilloso-tufaceo, vi si producono uve di altissima qualità. Particolare attenzione è stata rivolta negli ultimi anni alla sostituzione di vecchi vigneti e alla riconversione a vigneto di terreni collinari, sottraendoli così all’erosione e operando, tra l’altro, importanti sistemazioni di drenaggio. La filosofia è quella di fare viticoltura nel rispetto della naturalità del territorio e della tipicità dei vitigni autoctoni nell’area di elezione: relazionando le varietà con la particolarità dei suoli, limitando la presenza della mano dell’uomo, adottando attente dinamiche di gestione del vigneto, riducendo i trattamenti al minimo indispensabile e utilizzando tecnologie d’avanguardia per produrre vini in purezza, che conservino inalterate le caratteristiche organolettiche, nel massimo rispetto del territorio. Come riconoscimento per l’impegno volto alla salvaguardia dell’ambiente, Tenuta Colombarda ha ricevuto dalla CIA - Agricoltori Italiani, la Bandiera Verde Agricoltura, nella sezione Agri-ecology e nel 2018 la guida Vinibuoni d’Italia gli ha conferito

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TenutaColombarda

I VINI il diploma di “Ecofriendly”, a testimonianza dell’autentico “approccio green” dell’azienda, che parte dal vigneto e si conclude in cantina, dove tra gli altri, si utilizzano tappi completamente riciclabili, ricavati da biopolimeri rinnovabili a base vegetale, estratti dalla canna da zucchero. La vera storia della Colombarda nasce negli anni ’40 con la costruzione della nuova cantina, la cui realizzazione è avvenuta nel tempo, a più riprese, e ha visto la trasformazione di tutte le unità operative: pigiatura, fermentazione, stoccaggio e stabilizzazione. Ma l’anno della “rivoluzione” è stato il 2013, quando, accogliendo le preziose indicazioni dell’enologo dell’azienda Giuseppe

ALBANA Romagna Albana DOCG Albana 100% SANGIOVESE Romagna Sangiovese Superiore DOP Sangiovese 100% PAGADEBIT Romagna Pagadebit DOP Bertinoro Bombino Bianco 100%

Meglioli, che di fatto ha dato inizio alla modernizzazione, sono state sostituite le vecchie attrezzature con altre più moderne, e perfezionati i sistemi di vinificazione. I vini sono vinificati in acciaio, separatamente, al fine di ottenere, esaltare e ritrovare la purezza del territorio e del vitigno, e vengono imbottigliate solo le annate migliori, secondo gli standard aziendali di qualità. Una parte delle lavorazioni è effettuata sotto azoto per evitare ossidazioni e garantire l’integrità dell’uva nelle fasi di produzione. Il vino così ottenuto è uno splendido connubio tra tecnologia e tradizione.

DIONISO Forlì Rosso IGP Merlot 50%; Cabernet Sauvignon 50% ROSALAURA Rubicone Rosato IGP Sangiovese 100% REBËL BIANCO Spumante Brut Rubicone IGP Bianco Bombino Bianco 100% REBËL ROSATO Spumante Brut Rosato IGT Rubicone Sangiovese 100%

TENUTA COLOMBARDA

Via Rio Acqua, 140 - 47522 San Vittore - Cesena (FC) - Tel. +39 0547 663688 - Fax +39 324 0203121 www.colombarda.it - info@colombarda.it

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EDITORE La Madia srl Sede legale: Via E. De Amicis, 53 - 20123 Milano (MI) Sede operativa: Via Pacchioni, 365 - 47521 Cesena (FC) Tel. 0547 23821 - Fax 0547 25809 Internet: www.lamadia.com - E-mail: lamadia@lamadia.com

CONFEDERATION EUROPEENNE

DES GOURMETS La famiglia dei Gourmets europei si è data una nuova dimensione per valorizzare

il piacere

della convivialità e della cultura

enogastronomica italiana

Direttore responsabile: Elsa Mazzolini La Madia srl è parte del Gruppo Cose Belle d’Italia www.cosebelleditalia.com

REDAZIONE Direttore: Elsa Mazzolini Caporedattore: Maria Chiara Zucchi Stampa: D’Auria Printing SPA - (AP) Web e Social: Giorgia Zucchi Impaginazione: Andrea Amadori Redazione e centro di distribuzione in Gran Bretagna: ALIVINI Company Limited - London - Tel. +44 20 8880 2525

COLLABORATORI Domenico Acconci, Giovanni Angelucci, Silvia Bianco, Daniele Briani, Teresa Cremona, Mario Federzoni, Giulia Gavagnin, Giuseppe De Girolamo, Giorgia Giuliano, Maurizio Di Dio, Gianni Di Lorenzo, Lorenzo Ferrari, Luigi Filippi, Lisa Foletti, Lucy Gordan, Verdiana Gordini, Giuseppe Lo Russo, Furio Lottatori, Giovanni Mastropasqua, Antonietta Mazzeo, Alessandra Meldolesi, Claudio Mollo, Alessia Pellegrini, Alessandro Ricci, Gianluca Ricci, Alessandro Rossi, Simone Rosti, Flavia Tomaello, Marco Tonelli, Primo Vercilli. Fotografi: Nikoboi, Pasquale Spinelli, Andrea Amadori, Lido Vannucchi, Claudio Mollo, Riccardo Marcialis Illustratori: Patrizia Zavatti - Valentino Menghi

PUBBLICITÀ CONTATTI: Romano Lambri - Presidente Cell. 393.9815078 Mauro Marelli - Console della Stampa Cell. 392.3591439 www.cegourmet.eu - info@cegourmet.eu

Stefano Basso - Account Manager Tel. 348 3103399 - s.basso@lamadia.com UPPER & SO.GE.CO B.M. SRL Novate Milanese Claudio Bettinelli 348 27 22 719 - sogeco@sogecobm.com

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