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Sei un collezionista? Puoi ancora guarire
Si guarisce in modo spontaneo, per nausea entropica. Arrivati a un certo punto della collezione, se ne smarrisce il senso
Cos’è che ha rovinato il mondo più di tutto? Il turismo di massa? I gratta e vinci? Gli applausi ai funerali? Le ciabatte infradito? Quelli che dicono “assolutamente sì”? A tutte queste indubbie cause del disfacimento contemporaneo aggiungerei anche il collezionismo, che poi è una forma specializzata di accumulazione esorcizzante.
Non siamo eterni e quindi, passando da queste parti giusto il tempo per un drink, cerchiamo di allungarlo quanto più possibile raccogliendo cose, oggetti, ricordi, soprammobili, che finiranno ai figli e ai nipoti, poi ai mercatini e alle riciclerie comunali, infine alla discarica e nell’inceneritore. Fatta la premessa, c’è da dire che il collezionismo è un’infiammazione della psiche che si manifesta a qualsiasi età e con un parco tematico praticamente illimitato. C’è il collezionista di francobolli, il collezionista di fossili equello di francobolli fossili, il collezionista di trenini, di manichini, quello di parrucche, di sassi, di bambolotti strabici e di bigodini. Il collezionismo è il disagio mentale più diffuso nel mondo, ma fortunatamente è una forma lieve, da cui si guarisce in modo spontaneo, per nausea entropica. Arrivati ad un certo punto della collezione, se ne comincia a perdere il senso e la raccolta di minerali, di lepidotteri, di bottigliette di liquore, di macinacaffè non ha più un perché o per cosa. È la rivelazione catastrofica, il collasso multiorgano di una ragione di vita. Per parte sua, chi scrive deve confessare come prima collezione assoluta quella dei fumetti di Zagor, ovvero lo spirito con la scure che vive in una capanna insieme al fido servitore Cico. Zagor è sempre dalla parte degli oppressi, grida «Aaahhhyaaaak!» e poi col pesante mattarello spacca la testa al malvagio di turno: sceriffi corrotti, pistoleri prezzolati, esquimesi bastardi, scienziati pazzi, perfino gli extraterrestri. A un certo punto ho cominciato a chiedermi come campava Zagor, se Cico era assunto regolarmente e se gli fossero pagati i contributi, e soprattutto cosa combinassero quei due nel capanno durante le lunghe sere invernali quando non c’era nessuno da combattere. Così, giubilata la raccolta di Zagor, iniziai con i francobolli e la mecca della mia nuova religione divenne un minuscolo negozio di filatelia in contrà Pescherie Vecchie. Era gestito da due soci perfetti come versione italiana della strana coppia di Neil Simon: un signore nervoso, col baffo sbrigativo e appuntito e l’altro biondo e riflessivo, l’occhio celeste acquoso dei Merovingi (i Capetingi e i Carolingi ingenere vanno più sul castano). Grazie a loro e ai francobolli acquistati mi feci una cultura semi-nazional-enciclopedica che andava dalla stazione Telespazio nella piana del Fucino all’Italia turistica disegnata da Vangelli (Gradara, Portofino, Isola Bella, Cefalù), da San Tommasod’Acquino all’Aeronautica Militare, passando per la serie filatelica Salviamo Venezia del 1973, questa sempre attualissima. Finito l’innamoramento bollato, al primo anno del liceo copiai di brutto la collezione di bibite in barattolo vista a casa di un mio compagno di scuola e nel giro di un’estate misi insieme una raccolta di centinaia di lattine raccattate senza ritegno ovunque si trovassero: birre, aranciate, limonate, cole, soda, etc. etc. Al piano terra adibito a taverna dellacasa di famiglia venne così a crearsi un’imbarazzante e totalmente insensata parete di tre metri per due di innumerevoli puzzolenti lattine su cui si erano posate centinaia di orrende bocche umane. Praticamente un laboratorio di Wuhan ante litteram. Quando dissi ai miei familiari dell’intenzione di buttare via tutto, fui investito da un’onda di entusiasmo senza precedenti e la montagna di barattoli venne sgombrata nel giro di mezz’ora. Da qui non ho più portato avanti alcuna collezione, se non quella di figure pietose, di emme, quelle che a distanza di anni restano sempre nitide e marroni nel cielo turchese dei ricordi. Ma amici collezionisti, di questo un’altra volta.
Alberto Graziani