Anno XXXIII N. 3 Maggio 2012 Euro 2,00
Ischia Ponte
La Torre del Pontano e la Torre dei Parlamentari Alphonse de Lamartine a Casamicciola Ex libris - Rassegna Libri Fonti archivistiche
I luoghi sacri del territorio dell’Università di Fontana Periodico di ricerche e di temi turistici, culturali, politici e sportivi Dir. responsabile Raffaele Castagna
La Rassegna d’Ischia Anno XXXIII - N. 3 Maggio 2012 Euro 2,00
Periodico di ricerche e di temi turistici, culturali, politici e sportivi Editore e Direttore responsabile : Raffaele Castagna
La Rassegna d’Ischia Via IV novembre 25 - 80076 Lacco Ameno (NA) Registrazione Tribunale di Napoli n. 2907 del 16.02.1980 Iscritto al Registro degli Operatori di Comunicazione n. 8661.
Stampa : Press Up - Ladispoli (Roma)
Sommario 3 Motivi 5 Giornata internazionaale della donna... 6 Nuovi lavori alla Torre Guevara 8 Ex libris
13 Ottilia duchessa di Acquaviva e la Torre S. Montano
14 Itinerari storici ischitani La Torre di Santa Restituta 16 Rassegma Libri 18 A. De Lamartine a Casamicciola
24 Ischia Ponte Torre del Pontano e Torre dei Parlamentari 33 Fonti archivistiche - Serrara-Fontana
39 Arte Fausto Melotti : la poetica della forma
42 Storia Don Luigi de’ Medici Principe di Ottajano
44 Le due Italie, l’unificazione la questione meridionale (III)
49 Rassegna Stampa Castello 51 Il sogno della luce di P. Balestriere
53 Premio Ischia di giornalismo 54 Mostre
Nuovi lavori effettuati alla Torre Guevara Nel ciclo di restauro degli affreschi cinquecenteschi della Torre Guevara d’Ischia, sono stati completati quelli relativi ad un’altra delle quattro pareti del piano nobile, dopo la prima esperienza del 2011, in virtù di un accordo fra il Ministero dei Beni Culturali, il Comune di Ischia proprietario dell’immobile, la Hochschule für Bildende Künste di Dresda (esperti nel recupero di affreschi murari) e il circolo culturale Georges Sadoul quale coordinatore e promotore dell’iniziativa. Una ventina di giovani specialisti tedeschi hanno riportato alla luce nuovi dettagli dei dipinti ed iscrizioni in latino (vedansi pagne 6 e 7). Nel 2011 furono eseguiti rilievi e campionature delle pareti di vari piani della torre, con descialbo di tutta la parete ovest della sala del primo piano, dove furono riportati alla luce alcuni affreschi allora sconosciuti. Tutta la parete fu consolidata e ripulita. Nell’anno in corso si è proceduto ad ulteriore scoprimento delle pitture della sala del primo piano continuando le operazioni di rilevazione, consolidamento e ripulitura, effettuando ulteriori test nelle sale del pianterreno. Durante le operazioni, si è cercato, per quanto possibile, di consentire le visite al cantiere per fare in modo che isolani e turisti potessero godere delle bellezze artistiche e paesaggistiche del luogo. Dal 4 al 25 aprile 2012 presso i Giardini Ravino si svolgerà una mostra degli antichi mestieri dell’isola d’Ischia (dall’archivio fotografico di Michele Magnanimo): una documentazione unica con alcune foto mai esposte prima sulle attività tradizionali che si svolgevano sull’isola e che rischiano di scomparire per sempre, a causa di un progresso tecnologico che minaccia di appiattire la creatività dell’uomo. Le opinioni espresse dagli autori non impegnano la rivista La collaborazione ospitata s’intende offerta gratuitamente - Manoscritti, fotografie ed altro (anche se non pubblicati), libri e giornali non si restituiscono - La Direzione ha facoltà di condensare, secondo le esigenze di impaginazione e di spazio e senza alterarne la sostanza, gli scritti a disposizione. conto corrente postale n. 29034808 intestato a Raffaele Castagna - Via IV novembre 25 80076 Lacco Ameno (NA) www.larassegnadischia.i www.ischiainsula.eu info@larassegnadischia.it rassegna@alice.it
MOTIVI
Il 6 e 7 maggio 2012 gli elettori di quattro Comuni (Barano, Casamicciola Terme, Ischia, Lacco Ameno) saranno chiamati a rinnovare le loro amministrazioni, alla conclusione normale o quasi del percorso quinquennale iniziato nel 2007; il quasi si riferisce alla circostanza che a Casamicciola e Lacco Ameno, per interne questioni, si è voluto interrompere anzitempo il mandato ad appena pochissimi mesi dalla nuova consultazione e consentire così il passaggio ai commissari prefettizi. Ma non è comunque che gli anni precedenti siano trascorsi in genere senza contrasti e tentennamenti all’interno dei civici consessi, e non siano mancati mutamenti di posizioni e di schieramenti, sicché spesso esponenti di maggioramza e minoranza si sono invertiti i ruoli, dando scarso significato a quelle che erano state le risultanze del voto popolare. In ambito dialettico ogni circostanza ha avuto (fortunatamente!?) quale motivo e finalità “il bene del paese”: espressione un po’ tipica in politica, a qualsiasi livello nazionale e locale, propositiva e mutevole a ciascuna propria personale dislocazione in un gruppo o nell’altro. Quale sia questo “bene” non si è mai pienamente capito, considerata la realtà e i problemi che, invece di essere risolti e superati, si presentano sempre più pesanti per le popolazioni. “Pro bono pacis” dicevano gli antichi nel senso che, per non turbare la pace, spesso anche in famiglia si transigeva con le proprie idee, diverse da quelle degli altri. Ora prevalgono le lotte fra le fazioni (piccole espressioni dei partiti di un tempo), le quali, come scriveva lo storico Tito Livio, furono sempre e saranno pei popoli di maggior danno che non le guerre esterne, che non fame ed epidemie1. 1 Tito Livio, Hist. 4, 9, 3: Certamina factionum fuerunt eruntque pluribus populis magis exitio, quam bella externa, quam fames morbive.
Raffaele Castagna Anche Plinio il Giovane suggeriva che si deve dar la preferenza all’utilità pubblica sopra l’utilità privata2. Queste massime non sembrano a volte trovare attuazione nella conduzione politica e amministrativa, anche perché il linguaggio preelettorale e le programmate prospettive di lavoro e di impegno si perdono massimamente nel vuoto e nell’oblio nel dopo-elezioni. La logorroica litigiosità dei partitini (si fa per dire) subentrati ai partiti di un tempo «convince di quanto sia difficile, faticoso e lento il passaggio ad una democrazia più compiuta; a questo vanno aggiunti i vari processi di globalizzazione che in pratica demoliscono la forma di Stato fondata sul vecchio principio di sovranità, che comporta la lenta, continua ed inesorabile perdita di controllo, da pate dello Stato, di settori molto importanti, col fondato rischio che al potere politico si sostituiscano altri poteri di “colonizzare” la società civile, come ad esempio, il potere economico, quello dei mass media o quello della magistratura3». Si dice che gli amministratori sono (o devono essere) al servizio dei cittadini e soltanto questo scopo sta alla base di una candidatura, di una aspirazione al potere (anche comunale), ma non si riesce a scorgere a volte questa realtà nella conferma di aver eletto persone che, con sacrificio e vera dedizione, si sono messe effettivamente ad operare a vantaggio del proclamato “bene del paese”. A volte ancora si dice che bisogna lasciare spazio ai giovani per visioni diverse e nuove, ma in fin dei conti i personaggi restano sempre gli stessi, restii a cedere il passo ad altri, facendosi vanto di restare in amministrazione da anni e anni, alla vecchia maniera. 2 Plinio il Giovane, Epist. 7, 18, 4: Oportet privatis utilitatibus publicas anteferre… 3 A. Raffaele Salvante, Un nuovo protagonismo, in Il Caltrano, n. 48 settembre/dicembre 2011.
*** A causa del terremoto del 1883 si provvide alla costruzione delle baracche per le popolazioni che furono colpite dal disastro totale. Furono anche approvati determinati regolamenti edilizi per la ricostruzione.4 Ma successivamente da una parte lo stato si è dimenticato dell’isola e dei centri che attendevano gli aiuti necessari per la ripresa della vita normale, dall’altra ci si è dimenticato presto di tener presenti certe norme, quando ha iniziato a prendere corpo l’intraprendenza locale e personale, per una migliore sussistenza, a mano a mano che si avviava lo sviluppo turistico. Rileggiamo in proposito una pagina di quei tempi, in cui vivevano insieme “baracche e nababbi dell’isola (bella a metà)5: «Riesce difficile parlare di “baracche” e di problemi inerenti la mancanza di una casa per tutti in un’isola che ha ormai raggiunto un’invidiabile posizione di preminenza tra le zone turistiche, climatiche e termali d’Italia. Ischia è diventata l’isola dei miliardari; la propaganda, la pubblicità non fanno che portare in giro per il mondo e decantare le bellezze naturali, le comodità moderne create dall’uomo, i comforts che sono stati approntati per il turista, per il villeggiante, per il visitatore. Ma sarà bene volgere l’attenzione anche all’altra faccia della medaglia ed allora si vedrà che non è tutta rosea la realtà: compariranno e si presenteranno dinanzi ai nostri occhi aspetti, meno appariscenti, meno studiati dalle competenti autorità, aspetti che ci mostrano un paese ancora arretrato, molto trascurato, una popolazione tesa con alterna fortuna all’aspirazione di un migliore tenore di vita, situazioni realistiche sconfortanti che sarebbe stato difficile immaginare sussistenti 4 Vedasi in altra parte del giornale la presentazione del liro su Casamicciola 1883. 5 Raffaele Castagna, Il Giornale del Mezzogiorno - Gennaio 1964.
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in un’isola quale è stata reclamizzata Ischia. In alcuni Comuni ancora restano al nostro sguardo le cosiddette “zone baraccali” - ultimi dolorosi ricordi del terremoto del lontano 1883 -; ancora oggi molte famiglie attendono che venga loro assegnata una casa decente, pulita, decorosa; in alcuni rioni e quartieri di determinati paesi è impossibile notare un sia pur minimo segno di quel “boom” economico che si dice abbia investito l’isola in questi ultimi tempi; non di rado accanto ad un lussuoso albergo, villa o pensione, fa contrasto la misera catapecchia del contadino o del pescatore. Si parla sempre dello sviluppo e del progresso di Ischia in campo turistico e termale; si riportano cifre e statistiche a testimonianza del crescente afflusso di turisti; si intensifica e si incoraggia l’opera tendente ad aumentare la ricettività per tutte le categorie sociali di turisti; giammai di converso si volge l’attenzione a problemi e bisogni urgenti della popolazione isolana». Qui si può dire che ebbe inizio quello che oggi è detto “abusivismo edilizio”: chi incominciava ad avere qualche soldo, lo investiva nel miglioramento della propria abitazione, nella trasformazione di quella che era stata la sua baracca. Pochi i controlli all’epoca, poche le limitazioni e dall’edilizia abusiva si passò purtroppo alla speculazione e neppure in questo secondo caso lo stato e i comuni riuscirono a contrastare il fenomeno, sino a giungere ai noti vari condoni. «Erano gli anni della “febbre del mattone”. L’Isola veniva investita da uno sviluppo talmente rapido da non consentire un serio e responsabile coordinamento delle iniziative. La visione dei tecnici, informata all’applicazione di criteri di estremo contenimento degli interventi e rivolta a fare un “piano di cose” piuttosto che un “piano di case”, si scontrava con l’ansia degli amministratori di dare una risposta immediata alle esigenze di sviluppo, per cui non fu possibile trovare un 4
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punto d’incontro. (…) Intervenne poi la legge 6 agosto 1967, la cosiddetta legge Ponte, che ha contribuito, con l’anno di moratoria intercorso tra la sua emanazione e la relativa entrata in vigore, alla devastazione legittimata del territorio delle più belle zone d’Italia e quindi di Ischia6». Sul piano realistico veniva a mancare anche qualsiasi intervento statale per certe categorie abbienti e, come un fiume in piena, poi il fenomeno ha continuato ad investire i territori, ma non solo dell’isola d’Ischia; nessuno peraltro come attore attivo ha saputo contenersi e fermarsi, anche per la mancanza di saper e poter contrapporre ad una completa negazione una adeguata e legittima normativa positiva. *** Anche questa è Ischia, l’isola di gente (poca, ci si augura) che non ha ritegno di depositare su strada, a qualsiasi ora ed in qualsiasi giorno, i suoi rifiuti normali e straordinari come quello che presentiamo in fotografia (Lacco Ameno) e che resta lì da alcuni giorni a fare mostra di 6 Vincenzo Mennella, Lacco Ameno, gli anni ’40-’80 nel contesto politicoamministrativo dell’isola d’Ischia, 1998.
sé, in bella vista, per il piacere (lasciamo stare noi isolani) dei turisti che frequentano le nostre località nel mese di marzo 2012. Si analizzano spesso i motivi per cui si vede oggi un declino turistico in un’isola che riusciva a ripopolarsi già con l’arrivo della primavera. Anche la Pasqua e le sue festività diventano un brevissimo periodo momentaneo in una stagione, il cui inizio si è spostato molto in avanti. Ed allora è proprio il caso di valutare tra i fattori negativi anche lo scarso senso di civiltà, il disinteresse nella ricerca di offrire un volto ed un aspetto confacenti con quelli che sono i fattori originari e naturali. Ed allora non è possibile sottovalutare le cause per cui molti hanno cominciato a disamorarsi dell’isola, quando trovano un mare tutt’altro che accogliente, quando il decoro cittadino passa in secondo piano, quando carenti diventano i trasporti marittimi e terrestri ed in più, pur tenendo presenti queste ultime circostanze, si vieta in alcuni casi di arrivare in macchina, pensando di risolvere soltanto in tal modo le difficoltà del traffico sia estivo che invernale, considerato che si accresce semprel’esigenza di movimento.
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Celebrata, l’8 marzo, al Centro di Ricerche Storiche d’Ambra di Forio
La Giornata Internazionale della Donna Nel Centro di Ricerche Storiche d’Ambra, a Forio, si è celebrato in una sala con un pubblico folto e attento, l’8 marzo, giornata internazionale della donna, trattando il tema: La donna durante il Ventennio, con una mostra «Ischia in camicia nera» e l’ausilio di filmati d’epoca dell’Istituto Luce. Rita Di Meglio, già presidente della Fidapa, ha dato l’avvio, con parole puntuali e sincere, agli onori della donna e in particolare della casalinga, “timone della casa” che, con sacrifici e rinunce, da sempre sorregge la famiglia nel contesto sociale. Poi la maestra Rosa Genovino ha letto con viva partecipazione emotiva la poesia “La casalinga regina delle isole” di Nino d’Ambra, in cui sono emersi accenti di riconoscenza e di gratitudine verso questo vero angelo del focolare. Occorre essere grati all’avvocato Nino d’Ambra per aver celebrato l’8 marzo, perché questa è una data fondamentale per il riconoscimento del ruolo della donna nella famiglia e nella società, purtroppo ancora oggi troppo spesso vessata e disconosciuta. Basti pensare che dall’inizio dell’anno nuovo sono state uccise ben trenta donne da gretti maschilisti in nome di una presunta superiorità dell’uomo sulla donna e chissà quante migliaia di donne vengono maltrattate nel chiuso delle pareti domestiche. Certamente la donna moderna ha visto riconosciuto pochi diritti rispetto a quelli che effettivamente le competono. Se pensiamo al mondo arabo e alla sua cultura teocratica e maschilista, in nome della quale all’uomo è consentito di maltrattare e ripudiare la donna senza alcun timore della giustizia e di avere anche quattro mogli che gli devono obbedienza cieca ed assoluta, ci rendiamo conto quanto sia ancora lontana l’effettiva parità dell’uomo e della donna. D’altronde anche nel nostro Paese i diritti delle donne sono stati riconosciuti appena di recente e solo nel 1979 una donna, la comunista Nilde Iotti, è stata eletta Presidente della Camera, carica che ha rivestito con una competenza spesso superiore a quella di alcuni suoi
colleghi uomini. Le stesse donne hanno ottenuto il diritto di voto solo dopo la seconda guerra mondiale, nel 1946. Nella sua brillante allocuzione, l’avvocato d’Ambra ha ricordato la massima ciceroniana Historia magistra vitae da non piegare a nessuna ideologia, ma da considerare come esclusiva risultanza dei documenti scritti. In nome di questa convinzione, l’avvocato ha rievocato, con accenti autenticamente commossi fino a versare qualche lacrima nel ricordo di certi momenti particolarmente tristi della sua vita, il periodo del Ventennio nella sua Forio, quando egli si salvò per miracolo, la chiesa di San Vito semidistrutta, in seguito al bombardamento dell’8 settembre 1943 che uccise 13 persone che ne rimasero vittime tra le tante che festeggiavano la presunta fine della guerra, delle quali sono visibili nella sala ancora oggi le foto. L’avvocato ha spiegato il suo antifascismo facendo riferimento, tra l’altro, al mitragliamento della sorella della madre da parte dei tedeschi. Le immagini dell’Istituto Luce proiettate sullo schermo, accompagnate da una voce roboante tipica di quei tempi, hanno mostrato le opere del Fascismo eseguite nel Ventennio. Sono stati mostrati il Foro Mussolini, dove si esibivano in esercizi ginnici i giovani fascisti, secondo l’ideale di un perfetto contemperamento di forza fisica e spirituale, e l’Accademia di Orvieto per spronare i giovani all’attività fisica che rispecchiasse il comandamento «Credere, Obbedire, Combattere». Certamente, come è risultato anche dal filmato, nel Ventennio furono eseguite opere importanti, come appunto le due strutture suddette, e inoltre la bonifica delle Paludi Pontine, la fondazione delle città di Latina e Sabaudia nel Lazio, l’ammodernamento delle reti di trasporto, la legislazione del lavoro e assistenziale. Ma non bisogna dimenticare i danni enormi arrecati nel tessuto sociale, controllati da spie e traditori di ogni risma che culminarono nella famigerata istituzione dell’OVRA e nel Manifesto della razza del 1938 che limitarono
gravemente la libertà dei 50000 Ebrei italiani, alleandosi così alla politica antisemita della Germania divenuta molto potente sotto la dittatura di Hitler. Inoltre, oggi fanno sorridere affermazioni apodittiche e perentorie come: «Il Duce ha sempre ragione» che comparivano sulle cantonate delle nostre strade, come se Mussolini si potesse identificare con l’Ente Supremo. Ogni voce dissenziente veniva spenta con misure violente. Il deputato socialista Giacomo Matteotti fu assassinato nel 1944. Una legge speciale rese obbligatoria la tessera del partito per chi partecipava ai concorsi pubblici per diventare dipendente dello Stato (insegnanti, impiegati, magistrati, ecc.). Divenne necessario essere iscritti anche per esercitare le libere professioni, come medico o avvocato. Inoltre, per incrementare le nascite, il duce usò diversi mezzi, come la tassa per i celibi, l’esonero dal pagamento delle imposte per famiglie con almeno 10 figli, un premio in denaro alle madri più prolifiche. Tutti i ragazzi erano inquadrati militarmente: dai 6 agli 8 anni erano chiamati “figli della lupa”. Soprattutto le ragazze di oggi devono sapere che le fanciulle dagli 8 ai 14 anni erano chiamate “Piccole Italiane”, dai 14 ai 18 “Giovani Italiane”. Quindi tutti erano irreggimentati e questo farsesco spirito militare che si voleva conculcare ad ogni costo culminava nel fantozziano sabato fascista in cui gli uomini di ogni età dovevano partecipare a corse o gare ginniche, pena gravi sanzioni. Per fortuna gli esiliati e i fuoriusciti facevano sentire la loro voce d’incoraggiamento ai compagni rimasti in Italia, ai quali la censura impediva di avere notizie su ciò che avveniva nel resto d’Europa. I giornali stampati all’estero venivano diffusi in Italia da coraggiosi emissari che rischiavano di essere arrestati e condannati. In conclusione, la serata ci ha ricordato un periodo buio della nostra storia recente. È auspicabile che simili regimi totalitari non si presentino mai più sugli schermi della storia.
Nicola Luongo
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Ad opera dei restauratori di Dresda
Nuovi lavori alla Torre Guevara
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Foto (momenti dei lavori) di Giuseppe Silvestri
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Ex libris
Napoli
La città di Partenope e suoi dintorni di Clara Erskine Clement, Boston 1894 L’isola d’Ischia (Enaria e Inarima
nell’antichità) è l’isola più grande del golfo di Napoli, anche se non così meravigliosa nella sua formazione naturale né storicamente tanto interessante come Capri. Nei primi tempi di cui abbiamo qualche conoscenza di Ischia, i suoi coloni greci fuggirono da essa a causa di frequenti terremoti ed eruzioni vulcaniche. I poeti antichi fecero delle profondità del Monte Epomeo la prigione di Tifeo, come l’Etna fu quella di Encelado. Ma dal 1302 le lotte del gigante sono cessate e non si sono verificate più eruzioni. Alla sua sommità ci sono un piccolo eremo e una cappella scavati nella roccia, dedicati a S. Nicola, dal cui nome la montagna è ora spesso chiamata. L’imperatore Augusto ebbe a scambiare Ischia per Capri con i Napoletani; essa subì gli attacchi dei Saraceni
e nel 1135 fu saccheggiata dai Pisani. Da quel momento, per quattro secoli, è stata teatro di insurrezioni e invasioni, ed è diventata spesso un asilo per i sovrani di Napoli durante la fuga dai loro nemici. I nomi di tre donne famose sono intimamente associati con Ischia: Costanza d’Avalos, Vittoria Colonna, e la vedova di un altro D’Avalos, la marchesa del Vasto. Costanza d’Avalos, nel 1501, difese Ischia contro i Francesi, con grande abilità e coraggio. I suoi servizi furono premiati da un patto del governo civile e militare dell’isola con la famiglia D’Avalos, il cui potere durò fino al 1734, quando il comando militare fu trasferito a Napoli. Ischia fu la casa di Vittoria Colonna nella sua giovinezza. Qui si sposò e qui passò la sua luna di miele. È stata anche la città natale del marito, Ferdi-
Naples
The city of Parthenope and its environ by Clara Erskine Clement, Boston 1894
The island of Ischia - the Aenaria and Inarima of the ancients
- is the largest island near Naples, though not so wonderful in its natural formation nor historically of so much interest as Capri. In the earliest days of which we have any knowledge of Ischia, its Greek colonists fled from it by reason of its frequent earthquakes and volcanic eruptions. The ancient poets made the depths of Monte Epomeo the prison of Typhoeus as Aetna was that of Enceladus; but since 1302 the struggles of the giant have ceased, and no eruptions have occurred. At its summit are a small hermitage and chapel hewn in the rock, dedicated to S. Nicolas, by whose name the mountain is now frequently called. The Emperor Augustus exchanged Ischia for Capri with the Neapolitans; it suffered the attacks of the Saracens, and in 1135 was sacked by the Pisans. From that time, during four centuries, it was the scene of insurrections and invasions, and was frequently an asylum for the sovereigns of Naples when fleeing from their enemies. The names of three famous women are intimately associated with Ischia, - Costanza d’Avalos, Vittoria Colonna, and the widow of still another D’Avalos, the Marchioness del Vasto. Costanza d’Avalos, in 1501, defended Ischia against the French, with great skill and bravery. Her services were rewarded by the
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nando d’Avalos, marchese di Pescara, e dopo la sua morte Vittoria tornò a vivere nel Castello e s’abbandonò al dolore che espresse non solo nella sua vita, ma anche nei molti sonetti che ricordano la sua afflizione, la sua alta stima del carattere del Pescara e il suo immortale amore per lui. Qui la sua vita non era così solitaria come potrebbe sembrare; perché Costanza, Marchesa di Francavilla, vi tenne una corte celebrata in tutta Europa, particolarmente favorita da Apollo e dalle Muse. Senza dubbio la presenza di Vittoria era l’attrazione dei tanti poeti che amarono qui soffermarsi, e Bernardo Tasso così festeggiò questo paradiso ischitano: Superbo scoglio, altero e bel ricetto Di tanti chiari eroi, d’imperadori: Onde raggi di gloria escono fuori; Ch’ogni altro lume fan scuro e negletto: Se per vera virtute al ben perfetto Salir si pote, ed agli eterni onori; Queste più d’altre degne alme, e migliori, V’andran, che chiudi nel petroso petto;
settlement of the civil and military government of the island on the D’Avalos family, which power it retained until 1734, when its military command was transferred to Naples. Ischia was the home of Vittoria Colonna in her girlhood; here she was married, and here passed her honeymoon. It was also the birthplace of her husband, Ferdinand d’Avalos, Marquis of Pescara; and after his death Vittoria returned to live in the castle, and give herself up to the grief which she expressed not only in her life, but in the many sonnets which commemorate her affliction, her lofty estimate of Pescara’s character, and her undying love for him. Here her life was not so lonely as would at first appear; for Costanza, Marchesa di Francavilla, maintained a court which was celebrated throughout Europe, as especially favored by Apollo and the Muses. Doubtless the presence of Vittoria was the attraction to many of the poets who loved to linger here ; and Tasso has thus celebrated this Ischian Paradise: Proud rock! the loved retreat of such a band Of earth’s best, noblest, greatest, that their light Pales other glories to the dazzled sight, And like a beacon shines throughout the land. If truest worth can reach the perfect state, And man may hope to merit heavenly rest. Those whom thou harborest in thy rocky breast, First in the race will reach the heavenly gate.
Il lume è in te de l’armi; in te s’asconde Casta beltà, valore e cortesia; Quanta mai vide il tempo, o diede il cielo: Ti sian secondi i fati, il vento e l’onde Rendanti onore, e l’aria tua natia Abbia sempre temprato il caldo e ‘l gelo.
T. Adolfo Trollope assicura i suoi lettori che peggiori sonetti di questo si possono trovare tra gli imitatori del Petrarca e aggiunge che in seguito Vittoria Colonna raggiunse un’altezza molto maggiore. Lei affermò: Scrivo sol per sfogar l’interna doglia, ch’al cor mandar le luci al mondo sole, e non per giunger lume al mio bel Sole.
Aggiunge ancora il Trollope: «Grande fu l’entusiasmo creato da questi lamenti armoniosi di una giovane vedova, bella, inconsolabile, irreprensibile e nobile, colta abbastanza per corrispondere con i più dotti uomini del tempo sui loro argomenti, e con tutti questi una Colonna, che divenne presto la donna più famosa del suo tempo, fu chiamata unanimemente “la divina”, e visse per vedere tre
edizioni del grido di dolore, che da lei si espresse ‘senza la sua volontà’». La terza di queste donne degne di nota fu la vedova di un altro D’Avalos, il Marchese del Vasto, che venne a vivere ad Ischia nel 1548. Come Vittoria Colonna, era famosa per virtù e bellezza. Si disse che, a un certo periodo della sua vita, Vittoria era considerata la donna vivente più bella; e la bellezza della Marchesa del Vasto, già oltre il tempo medio della sua vita, eccelleva rispetto ad altre donne ancora in giovane età, e al dà dei sessanta anni infiammò di vera passione d’amore il Gran Priore di Francia, così irresistibile era il suo fascino. Nel 1717 il vescovo Berkeley descrisse Ischia in termini non troppo entusiasti come avviene ora, se la si vede in estate. Infatti, non conosce le bellissime orchidee e felci, olivi e banani, né le siepi di aloe e fichi d’India. Egli dice, scrivendo al Pope: «L’isola di Inarime è una epitome di tutta la terra, contenente in una estensione di diciotto miglia una meravi-
Glory of martial deeds is thine. In thee, Brightest the world e’er saw or heaven gave. Dwell chastest beauty, worth, and courtesy! Well be it with thee! May both wind and sea Respect thee : and thy native air and wave Be temper’d ever by a genial sky! T. Adolphus Trollope assures his readers that worse sonnets than the above can be found by the ream among the imitators of Petrarch, and adds that Vittoria Colonna later reached a much greater height. She has told us I only write to vent that inward pain, On which my heart doth feed itself, nor wills Aught other nourishment. Trollope says: «The enthusiasm created by these tuneful wailings of a young widow as lovely as inconsolable, as irreproachable as noble, learned enough to correspond with the most learned men of the day on their own subjects, and with all this a Colonna, was intense. Vittoria became speedily the most famous woman of her time, was termed by universal consent ‘the divine,’ and lived to see three editions of the grief-cries which escaped from her ‘ without her will’». The third of these notable women was the widow of another D’Avalos, the Marquis of Vasto, who went to live at Ischia in 1548. Like Vittoria Colonna, she was famed for virtue and beauty. It is said that at one period of her life Vittoria was called the most beautiful living woman; and the beauty of the Marchesa del Vasto when beyond middle life was declared to
gliosa varietà di colline, valli, rocce frastagliate, pianure fertili e sterili montagne, il tutto in una confusione molto romantica. L’aria è, nella stagione più calda, costantemente rinfrescata dalle brezze del mare; le valli producono eccellente mais, ma sono in gran parte coperte di vigneti intervallati da alberi da frutto. Oltre alle specie comuni, come ciliegie, albicocche, pesche, ecc, si producono arance, limoni, mandorle, melograni, fichi, cocomeri, e molti altri frutti sconosciuti ai nostri climi, che si trovano ovunque alla portata di tutti. Le colline sono maggiormente coperte nella parte superiore con viti, alcune con castagneti, ed altre con cespugli di mirto e lentisco. Corona la scena il monte Epomeo: le sue falde sono piantate con viti e altri frutti; al centro vi sono pascoli per greggi di capre e pecore; e la parte superiore è una roccia sabbiosa a picco da cui si ha la più bella veduta del mondo, in quanto si abbracciano con un solo sguardo, oltre le diverse isole, un tratto d’Italia lungo circa 300 miglia, dal promontorio di Anzio al Capo di Palinuro».
excel that of other women in their springtime ; and when more than sixty years old, she inspired the Grand Prior of France with a veritable passion of love, so irresistible were her charms. In 1717 Bishop Berkeley described Ischia in terms not too enthusiastic now, if one sees it in summer. Indeed, he did not name the beautiful orchids and ferns, the olives and bananas, nor the hedges of aloe and prickly pear. He says, in writing to Pope : «The island of Inarime is an epitome of the whole earth, containing within a compass of eighteen miles a wonderful variety of hills, vales, rugged rocks, fruitful plains, and barren mountains, all thrown together in a most romantic confusion. The air is, in the hottest season, constantly refreshed by cool breezes from the sea ; the vales produce excellent Indian corn, but are mostly covered with vineyards interspersed with fruittrees. Besides the common kinds, as cherries, apricots, peaches, etc., they produce oranges, limes, almonds, pomegranates, figs, water-melons, and many other fruits unknown to our climates, which lie everywhere open to the passenger. The hills are the greater part covered to the top with vines, some with chestnut groves, and others with thickets of myrtle and lentiscus. But that which crowns the scene is Mons Epomeus. Its lower parts are adorned with vines and other fruits ; the middle afford pasture to flocks of goats and sheep; and the top is a sandy pointed rock from which you have the finest prospect in tlie world, surveying at one view, besides several pleasant islands lying at your feet, a tfact of Italy about 300 miles in length, from the promontory of Antium to the Cape of Palinurus».
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Le acque minerali di Ischia sono molto apprezzate, e prima del 1883 l’isola era diventata un sanatorio popolare. Porto d‘Ischia disponeva di un ampio stabilimento termale e di un parco reale, ma Casamicciola era la meta preferita. Il terremoto del 28 luglio 1883 lasciò poche case in piedi; molti i morti, e molti i feriti e mutilati. Un inglese, che da tempo risiedeva a Napoli, diede un resoconto toccante della generosità e gentilezza dei più poveri a Napoli nella loro simpatia per i sofferenti del loro ceto in Ca-
samicciola. Molti napoletani, che a stento alimentavano se stessi e le loro famiglie, andarono con le loro barche e portarono gli ischitani nelle loro povere case, dando loro i letti e le comodità. La ricostruzione ha progredito, ma lentamente, e le tettoie di legno, frettolosamente costruite al momento della catastrofe, sono ancora case di molte persone. Bei lavori di paglia si fanno a Lacco, dove è stata istituita una scuola per detto settore. In questo villaggio è la Cattedrale di S. Restituta, patrona
The mineral waters of Ischia are greatly esteemed, and before 1883 the island had become a popular sanitarium. Porto d’ Ischia has a large bathing-establishment and a royal park, but Casamicciola was the favorite resort. The earthquake of July 28, 1883, left but a few houses standing; 7.500 lives were lost, and many who escaped with life were wounded and maimed. An Englishman who has long resided in Naples gives a touching account of the generosity and kindness of the very poor in Naples in their sympathy for the sufferers of their own class in Casamicciola. Many Neapolitans who could scarcely feed themselves and their families, went with their boats and brought the Ischians to their poor homes, where they gave them their beds and the few comforts they had. The rebuilding has progressed but slowly ; and the wooden sheds, hastily erected
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nouvelle édition, tome troisième (G-L), Paris 1768 la d’Ischia. Quest’isola aveva diversi nomi ed era situata nel golfo di fronte a Cuma. Plinio (l. 3 c. 6) dice che essa è chiamata Aenaria, perché qui approdò la flotta di Enea; Omero la chiama Inarime e i Greci Pitecusa. Ma Mela (c. 7) distingue Aenaria da Pithecusa. Tito Livio (l. 8 c. 22) le considera due isole distinte; ma Ap-
piano (Civil. l. 5 p. 1130, edit. Toll.) è dello stesso parere di Plinio. Libone, egli dice, approdò all’isola di Pithecusa, ora Aenaria. Strabone (l. 5 p. 248) riporta Pithecusa, isola che Augusto donò ai Napoletani, in cambio di quella di Capri; e Svetonio (c. 92, in August.) dice che si trattò di Aenaria. Si aggiunga a ciò, secondo l’annotazione di Cellarius (Geogr. ant. L.
INARIME – Nom latin de l’isle d’Ischia. Cette isle avoit plusieurs noms, & étoit située vis-à-vis de Cume, dans le golfe. Pline (l. 3 c. 6) dit: elle est nommée Aenaria, parce que les vaisseaux d’Enée y furent à l’ancre; Homere l’appelle Inarime, & les Grecs Pithecusa. Mais Méla (c. 7) distingue Aenaria de Pithecusa. Tite Live (l. 8 c. 22) les regarde aussi pour deux isles différentes; mais Appien (Civil. L. 5 p. 1130, edit. Toll.) parle comme Pline. Libon, dit-il, aborda à l’isle de Pithecuses, qui est présentement Aenaria. Strabon (l. 5 p. 248) nomme Pithecuses, isle qu’Auguste donna aux Napolitains, en échange de celle de Caprée; & Suetone (c. 92 in August.), dit que ce fut Aenaria. Joignet à cela, selon la remarque de
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at the time of the catastrophe, are still the homes of many of the people. Beautiful straw plaiting is done at Lacco, where a school for this industry has been established. In this village is the Cathedral of S. Restituta, the patroness of the island, whose fête is celebrated on May 17 by the illumination of Monte Vico. The costumes of the Ischiajole are frequently striking and attractive. The excursions about the island are charming, and the ascent of Epomeo through pine woods and vineyards to the home of the hermit, cut in the volcanic rock, is full of interest. Many of the old towers which fortified the island in the days of Costanza d’Avalos, are still picturesque and attractive, rising amid gardens and vineyards as they now do.
Le Grand Dictionnaire géographique, historique et critique par M. Buzen de la Martinière, INARIME - Nome latino dell’iso-
dell’isola, la cui festa si celebra il 17 maggio con l’illuminazione di Monte Vico. I costumi delle Ischiajole sono spesso sorprendenti e attraenti. Affascinanti sono le escursioni per l’isola, e l’ascesa dell’Epomeo attraverso boschi di pini e vigneti porta alla dimora dell’eremita, scavata nella roccia vulcanica. Molte delle vecchie torri, che fortificarono l’isola ai tempi di Costanza d’Avalos, sono ancora pittoresche e attraenti, visibili oggi tra giardini e vigneti.
2, c. 10, p. 951) che Strabone e Tolomeo, che riportano Pithecusae, non fanno menzione né di Aenaria, né di Inarime. Al contrario l’Itinéraire d’Antonino mette Aenaria tra l’Italia e la Sicilia, a 45 stadi da Cuma, e non conosce affatto Pithecusa. Non è vero, sebbene lo dica Plinio, che Omero abbia chiamato quest’isola Inarim. Egli dice soltanto nel secondo libro dell’Iliade (v. 290): ein Arίmoiς I Larini portarono la favola di Tifeo, che i Greci avevano posto in
Cellarius (Geogr. ant. L. 2, c. 10, p. 951) que Strabon & Ptolomée qui nomment Pithecusae, ne font mention ni d’Aenaria, ni d’Inarime. Au contraire l’Itinéraire d’Antonin, qui met Aenaria entre l’Italie & la Sicile, à 45 stades de Cumes, ne connoit point Pithecuses. Il n’est pas vrai, quoique Pline le dise, qu’Homère ait nommé cette isle Inarim. Il dit seulement au second livre de l’Iliade (v. 290): ein Arίmoiς Les Latins on transporté la fable de Tiphoée, que les Grecs avoient placé en Asie, & en ont gratifié cette isle, à laquelle ils
Asia, sotto il segno di quest’isola, alla quale diedero un nome che somiglia un po’ a quello delle montagne di Siria. Oltre i versi di Virgilio, riferiti al nome Arima, si ha questo stesso nome d’Inarime in Ovidio nelle Metamorfosi (XIV, v. 88): ... Orbataque praeside pinus, // Inarimen Prochytenque legit, sterilique locatas // Colle Pythecusas, habitantium nomine dictas. (… priva del pilota, la nave s’accosta a Inarime, Procida e le Pitecuse, poste su colli sterili e così chiamate dai suoi abitanti)
Silio Italico (l. 8 v. 541) dice: Non Prochyte, non ardentem sortita Tiphoea, // Inarime..... (… Non Pocida, non Inarime cui toccò in sorte Tifeo che vapori esala)
I versi citari di Ovidio sembrano dire che l’isola di Pitecusa era così chiamata, perché popolata di scimmie; pitecos vuol dire scimmia nella lingua greca. Secondo Plinio il nome non deriva da questo animale, ma dalle botteghe in cui si facevano dei vasi di terra per la conservazione del vino, opinione rigettata da Salmasio: vi sono, questi dice, alcuni che scrivono enaria derivato da
enarii, parola che, secondo lui, riporta alle scimmie; enaris vuol dire senza narici e la scimmia è detta in latino simius proprio perché è simus (dal naso schiacciato). Si dice enaris come si potrebbe dire ecaudis (senza coda) o elinguis (senza lingua). Il nome Aenaria se derivasse da Enea sarebbe Aenearia; e se quello di Pitecusa venisse da pitos=vasi di terra, si dovrebbe dire Pitiusa piuttosto che Pitecusa. Bochart la pensa come Salmasio e si serve delle medesime prove per sostenerlo e fa notare le stesse difficoltà, al che aggiunge delle etimologie derivate dall’ebreo e dal fenicio. Rinvio al suo libro quelli che saranno curiosi di leggerle, Plini Exercit. In Solin. p. 68. ISCHIA - Isola del regno di Napoli, sulla costa di Terra di Lavoro, a cui appartiene, e dalla quale è separata solo da un tratto di mare di due miglia, fino a Capo Miseno. Ha l’isola di Vento-Tiene o Bentitienne ad ovest, Capri a sud-est, Procida e Vivaro ad est, la terra dove sono le rovine di Cuma a nord e a sud l’Africa. Una ventina di miglia la separano
ont fait un nom qui ressemble un peu à celui des montagnes de Syrie. Outre les vers de Virgile, rapportés au nom Arima, on a ce même nom d’Inarime dans Ovide, qui dit au quatorziéme livre des Métamorphoses, v. 88:
…….. Orbataque praeside pinus, Inarimen Prochytenque legit, sterilique locatas Colle Pythecusas, habitantium nomine dictas.
Non Prochyte, non ardentem sortita Tiphoea, Inarime….
Silio Italico (l. 8 v. 541) dit:
Les vers cités d’Ovide semblent dire que l’isle de Pythecuses étoit ainsi nommée parce qu’elle étoit peuplée de singes. Piéjekov veut dire un singe dans la langue grécque. Pline dit qu’elle ne tire point son nom de cet animal, mais des boutiques où l’on faisoit des pots de terre à garder le vin. Pline a été savamment réfuté par Saumaise. Il y en a, dit-il, qui écrivent enaria, qu’ils dérivent d’enarii; mot qui, selon lui, signifie des singes; car enaris veut dire sans narines, & le singe n’est appellé en latin simius, qu’à cause qu’il est simus. Enaris se peut dire comme ecaudis, elinguis, qui n’a point de queue, qui est sans langue. Le nom d’Aenaria seroit Aenearia s’il étoit dérivé d’Enée; & si celui de Pithecusa venoit de piéjov, de ces pots de terre, on diroit Pitiusa plutôt que Pijekusa.. Bochart, qui est du même sentiment que Saumaise, se sert des mêmes preuves pour le soutenir & allègue les mêmes difficultès, à quoi il ajoûte des étymologies tirées de l’hébreu & du
dall’isola di Partenope o Vento-Tiene, Santo Stefano, Alla-Botte e San Martino; diciotto miglia da quella di Capri, tre da Capo Socciario di Procida, poco meno di due miglia da Vivaro, sei da Torre del fumo, che si trova in terraferma, e dieci da Cuma. Gli antichi l’hanno conosciuta sotto il nome di Aenaria e Inarime. Il suo circuito è diciottomila settecento cinquanta passi, con i golfi e le baie, perché facendo il giro dell’isola, senza entrare nelle baie o nei golfi, si avrebbero sedicimila cinquecento passi. In questa piccola distesa si trovano capi, piacevoli valli, montagne deliziose, belle fonti, corsi d’acqua e splendidi giardini. C’è abbondanza di delicati frutti, vini squisiti come il greco, il latino e il codacavallo, o altri di cui si ha gran vanto. Ha miniere d’oro, già note ai tempi di Strabone (Coronelli Isolar. t. I, p. 117). L’isola è divisa in quattro parti: la prima inizia dalla città, ad est dell’isola, e si estende sino al villaggio di Barano e Campagnano: un luogo piacevole, ornato di giardini, vigneti e castagneti. Il mare è delimitato da rocce altissime; montagne inaccessi-
phénicien. Je renvoie à son livre ceux qui seront curieux de les lire, Plini Exercit. in Solin. p. 68. ISCHIA, isle du royaume de Naples, sur la côte de la terre de Labour, dont elle fait partie, & de laquelle elle n’est éloignée que par un trajet de mer de deux milles, vers le Cap de Misène. Elle a l’isle de Vento-tiene ou Bentitienne, au couchant; celle di Capri au sud-est; celles de Procida & Vivaro au levant; la terre ferme où sont les ruines de Cumes au nord, & l’Afrique au midi. Elle est à vingt milles de distance de l’isle de Parthenope ou Vento-tiene, de Santo Stephano, d’Alla-Botte & de San-Martino; à dix-huit de celle de Capri; à trois du Cap de Socciario de Procida, à un peu moins de deux milles de Vivaro; à six de Torre del fumo, qui est en terre ferme, & à dix de Cumes. Les anciens l’ont connue sous les noms d’Aenaria ou d’Inarime. Son circuit est dix-huit mille sept cents cinquante pas, en prenant au-dehors des golfes ou des baies; car en faisant le tour de l’isle, sans entrer dans les baies ou dans les golfes, on ne trouveroit guères plus de seize mille cinq cents pas. Dans cette petite étendue on ne laisse pas de trouver beaucoup de caps, d’agréables vallées, de montagnes délicieuses, de belles fontames, des rivieres & de jolis jardins. Elle abonde en fruits délicats, et produits des vins exquis, tels que le vin grec, le vin latin & le Coda-Cavallo, ou autres que l’on vante extrémement. Elle a des mines d’or, déja connues du tems de Strabon (Coronelli, Isolar. t. l, p. 117). L’ifle se divise en quatre parties; la première commence à la ville, au levant de l’isle, et s’étend jusqu’au bourg Barano
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bili difendono l’isola come una trincea naturale. Verso il nord e il nordest dell’isola, le campagne sono della stessa bellezza della costa orientale, sino alla chiesa di Santa Restituta, dove sono conservate le reliquie di questa santa; accanto alla Villa di Pontano vediamo le orribili caverne, chiamate le Cremate o bruciate, da cui, nel 1301, uscì un torrente di fuoco sulfureo, che nello spazio di tre miglia rovinò il paese senza rimedio. Frequenti terremoti, che agitano il territorio, hanno dato modo ai poeti di dire che il Titano Tifeo, folgorato da Giove, giacque sotto questo luogo, ed è appunto causa di questi movimenti della terra. Vi è un luogo dell’isola cui è stato dato il nome di Negro-Ponte, forse a causa di qualche colonia greca venuta da lì. L’aria è così temperata, che sembra sempre primavera; il mormorio dei ruscelli, che irrigano questo luogo, aumenta le delizie. Tutto ciò che trovasi da S. Restituta a San PietroPantanello è abbondantemente alimentato con acque eccellenti per i bagni e la guarigione di varie malat-
tie. Questa bellissima parte dell’isola termina a Monte Vico. C’è qui una grossa pietra da dove esce in modo continuo, attraverso una fessura, una fresca brezza. Poi c’è il promontorio della Cornacchia, donde si vedono gli scogli delle Formichelle, chiamati anche Foranicole, poi arriviamo a Capo Caroso, che funge da guida ai naviganti. Al lato opposto c’è Monte Falconaria, così chiamato a causa della moltitudine di falchi che vi nidificano, così come in un’altra montagna, chiamata Maronti. Tra questo e quello della Guardia si protende il promontorio dell’Imperatore. Sulla montagna della Guardia stazionano giorno e notte delle sentinelle addette ad osservare il mare, per non esser sorpresi dai pirati. Al centro dell ‘isola v’è una montagna molto alta, a pan di zucchero, di nome Epomeo. Nell’isola sono presenti miniere d’oro, di ferro e della sabbia di calamita: si vedono vari conventi, dei Francescani, dei Domenicani e degli Agostiniani. Le famiglie più illustri sono Albani Assanti, Boneni, Cossa, Gallicano, Melussi, Monti, ecc.
& à Campagnano; c’est un terrein tout riant, orné de jardins, de vignes & de chàtaigniers. La mer est bordée de roches très-hautes, de montagnes inaccessibles qui défendent l’isle comme un retranchement naturel. Vers le nord ou le nord-est de l’isle, les campagnes sont de la même beauté que la côte orientale, jusqu’à l’église de Sainte Restitute, où l’on conserve les reliques de cetre sainte: à côté de Villa di Pontano on voit les horribies cavernes, nommées le Cremate ou les brûlées, desquelles, en 1301, il sortit des torrens de flamme sulfureuse, qui, dans l’espace de trois milles, ruinerent le pays sans remede. Les fréquens tremblemens de terre, dont ce territoire est agité, ont donné lieu aux poëtes de dire que Typhoee le Titan, foudroyé par Jupiter, est renversé sous cet endroit, & que ses secousses causent celles de la terre. Il y a un canton de l’isle auquel on a donné le nom de Negro-Ponte, peut-étre à cause de quelque colonie Grecque venue de-là. L’air y est si tempéré, que le printems y semble continuel; le murmure des ruisseaux, dont ce lieu est arrosé, en augmente les délices. Tout ce qui est depuis Sainte-Restitute jusqu’à San Pietro-Pantanello, est abondamment pourvu d’eaux excellentes, pour les bains et la guérison de diverses maladies. Cette belle partie de l’isle se termine à Monte-Vico. Il y a là une grosse pierre d’où il sort continuellement, par une fente, un petit vent frais. On trouve ensuite le promontoire della Cornacchia, d’où l’on voit, les écueils des Formichelle, que l’on appelle par corruption Foranicole; on arrive ensuite au cap Caroso, qui sert de guide aux mariniers. A l’opposite est Monte-Falconaria, ainsi nommé à cause de la multitude
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ISCIA, città italiana, capoluogo dell’isola omonima, sede episcopale. La fortezza è su una roccia isolata da tutti i lati, tranne che da un ponte che comunica con l’isola, ed è difesa da soldati italiani, che sono quasi tutti qui acquartierati. Alfonso, figlio di Ferdinando, re di Napoli, essendo stato privato della corona, si rifugiò in questo luogo, nell’anno 1493; egli mise in atto tutti i suoi sforzi per rendere questa fortezza inespugnabile, con fossati, muri, arterie e altri lavori. Il vescovo di Ischia è suffraganeo dell’arcivescovato di Napoli, secondo Aubert le Mire, ed è detto Isolano, o Isclano, o Aenario, nelle Notizie episcopali, lib. 4 c. 2, p. 163. Lo stesso autore chiama l’isola Iscla o Ischia. Oltre Aenaria e Inarima, gli antichi davano all’isola anche il nome di Arima Pythecusae, come se si dicesse l’isola delle scimmie. Strabone vi pone il monte Epomeo. Vi sono i bagni caldi e le stufe che attirano un gran numero di pazienti durante l’estate.
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de faucons qui y nichent, de même que dans une autre montagne, appellée Maronti. Entre celle-ci & celle della Guardia s’avance le promontoire dell’Imperatore. C’est sur la montagne della Guardia, qu’il y à jour et nuit des sentinelles postés pour découvrir sur la mer, & n’être point surpris par les corsaires. Au milieu de l’isle est une très-haute montagne, en pain de sucre, nommée Epomeo. Il y a dans l’isle des mines d’or & de fer, & du sable de calamite: on y voit divers couvens, comme des Franciscains, des Dominicains & des Augustins. Les familles les plus illustres sont les Albani, Assanti, Boneni, Cossa, Gallicano, Mellusi, Monti, ecc. ISCIA, ville d’Italie, capitale de l’isle de même nom. C’est un siége épiscopal. La forteresse est sur un rocher isolé de tous côtés, excepté par un pont qui communique à l’isle, & est défendue par des soldats Italiens, qui presque tous y sont établis. Alphonse, fils de Ferdinand, roi de Naples, étant privé de la couronne, se refugia en ce lieu, l’an 1493; il mit tous ses soins à rendre cette forteresse imprenable, par les fossés, les murailles, les boulevards & autres ouvrages qu’il y fit faire. L’évêque d’Ischia est suffragant de l’archevêché de Naples, selon Aubert le Mire, & est nommé Isolanus, ou Isclanus, ou Aenarius, dans les Notices épiscopales, lib. 4 c.X p. 163. Le même auteur nomme l’isle Isca ou Ischia. Outre Aenaria & Inarima les anciens donnoient encore à cette isle le nom d’Arima Pythecusae, comme qui diroit l’isle des singes. Strabon y place le mont Epomeus. Outre les bains chauds, il y a des étuves qui attirent dans cette ville un grand nombre de malades pendant l’été.
Ottilia duchessa di Acquaviva e la Torre di San Montano
Nel numero 3/2011 de La Rassegna d’Ischia si sono riportate alcune notizie circa la duchessa Ottilia Heyroth e la Torre di San Montano, partendo da un breve articolo già apparso nell’anno 1930 su un periodico di Procida dal titolo La Conciliazione (numero doppio 2/3) dal titolo “Villa e Castello di Mezzatorre (presso Lacco Ameno, propr. L. Patalano)”. Nel 1870 o giù di lì la signora Ottilia Heyrott, vedova di un grande banchiere tedesco e maritata in seconde nozze al Conte Carlo Aiasse di Rombello, comprò dal Comune di Forio e da vari proprietari diversi appezzamenti di terreno, confluiti nel vasto parco che, ancora oggi, circonda la Torre detta con uno dei suoi tanti nomi di Santo Montano. In ulteriori ricerche effettuate dall’ing. Vincenzo Belli, curatore della sezione sul dispositivo difensivo (torri ed altro) dell’isola d’Ischia, nella raccolta degli Atti della deputazione provinciale di Napoli (1876, secondo semestre) sono venuti fuori alcuni riferimenti alla vendita fra la Confraternita di S. Maria di Loreto di Forio e la duchessa Ottilia: atti esaminati nelle tornate del 22 settembre 1876 e 30 dicembre 1876 e riportati sotto l’etichetta “Opere pie”.
Una vendita sospetta
Si riporta integralmente dai citati Atti della Deputazione Provinciale quanto riguarda la vendita fra la Confraternita di S. Maria di Loreto di Forio e la duchessa Ottilia. Tornata del 22 settembre 1876 Mayr com. Carlo Prefetto –Presidente - Deputali titolari: Castellano comm. Enrico, Della Rocca avv. Giovanni, D’Ambrosio cav. Luigi, Lazzaro comm. Giuseppe, Billi Pasquale, D’Errico cav. Emiddio, Fusco avv. Salvatore, Tagliamonte cav. Antonio, Sorrenti-
no cav. Tommaso - Deputati supplenti: Dell’Aquila barone Mariano, Toscano prof. Felice, Ciliberti comm. Giuseppe, Allocca cav. Agostino - Segretario: Serra Caracciolo cav. Francesco. IX - Il superiore della Confraternita di S. Maria di Loreto, sotto il titolo dell’Assunta, nel Comune di Forio, proponeva la vendita di un fondo, denominato Zalo, a favore della Duchessa di Rancidello. Richiesto il detto superiore a trasmettere la deliberazione di quel sodalizio, per la proposta di alienazione: egli vi adempiva; ma poiché tale deliberazione era sottoscritta soltanto da due confratelli, oltre al nominato superiore, furono trasmessi gli atti al signor sotto Prefetto di Pozzuoli, unitamente alla deliberazione medesima, perché avesse indagato e riferito sull’utilità della vendita e sul numero degli ascritti. Il detto funzionario ha in risposta manifestato il risaltamento delle raccolte informazioni, cioè che il fondo, di cui è parola, è un predio quasi abbandonato; di natura selvoso, e scarsamente piantato, dal quale l’ente morale non percepisce rendita alcuna. Che il valore di esso, giusta perizia, si fa ascendere a lire 160, ma non conoscendosi il prezzo offerto dalla Duchessa, non si può affermare il vantaggio che ritrarrebbe il pio luogo da quella vendita: Che il numero de‘ confratelli è forse di un centinajo o poco più, e nessuno di essi è stato mai interpellato sul riguardo, neanche i più assidui; e che i sottoscrittori della deliberazione sono l’organista della Confraternita, ed un farinajo i quali hanno asserito di aver firmato perché il Superiore così ha voluto; E finalmente che il Sindaco, ligio al detto Superiore, ha tutto vistato, andando sempre d’accordo fra loro. Visti gli atti Considerati che da’ medesimi risulta non essere stata adottata la deliberazione della vendita del fondo dalla maggioranza de‘ confratelli di detto sodalizio. Inteso il Consigliere signor della Rocca
La deputazione Non trova allo stato luogo a deliberare (pp. 284-285). Tornata del 30 dicembre 1876 Passano poco più di tre mesi ed in questa tornata si trova l’epilogo della vicenda. Rendina cav. Luigi, Consigliere di Prefettura, Presidente - Deputati titolari: Castellano comm. Enrico, Della Rocca avv. Giovanni, D’Ambrosio cav. Luigi, Billi Pasquale, D Errico cav. Emidio, Fusco avv. Salvatore - Deputati supplenti : Dell ‘Aquila baroneMariano, Ciliberti comm. Giuseppe, Allocca cav. Agostino - Segretario: Serra Caracciolo cav. Francesco.
XVIII. La Confraternita di S. Maria di Loreto, in Forio, in seguito della deliberazione presa dalla deputazione provinciale nella tornata del settembre ultimo, che non trovò luogo a deliberare sulla proposta alienazione del fondo Zalo, si fa per ora a trasmettere gli atti di vendita rettificati a norma di legge. Visti i precedenti e la deliberazione di quel sodalizio del 12 passato novembre. Inteso il Consigliere signor della Rocca. La Deputazione Approva Conclusioni A commento si potrebbe dire che
appare una notevole fretta del Superiore della Confraternita di concludere la vendita, omettendo le corrette procedure, alle quali la Deputazione lo richiama, costringendolo ad osservarle; dell’urgenza di non perdere l’occasione pare essere compreso anche l’allora sindaco del paese, che vista un atto palesemente irregolare. Chi fossero gli attori, oltre alla Duchessa, non so: ricerche compiute dal prof. Agostino di Lustro non hanno consentito di trovare traccia della vendita nell’Archivio di S. Maria di Loreto di Forio e pertanto non si è proceduto ad approfondire nella direzione dell’individuazione dei protagonisti della Confraternita.
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Itinerari storici ischitani
La Torre di S. Restituta
Una fortezza cinquecentesca costruita per disposizione pontificia in Lacco Ameno Sulle coste del Basso Tirreno si rilevano, ancora oggi, delle torri merlate, alcune di forma cilindrica, altre quadrangolari. Molte di esse, erose dal tempo, ma conservate integre nella loro salda struttura, vengono ora adibite ad uso ben diverso da quello ideato dai Viceré di Napoli che, dal IX a quasi fino a tutto il secolo XVIII, ne ordinavano le costruzioni a scopo precipuo di incoraggiare e sostenere le popolazioni rivierasche nella strenua lotta contro le piraterie dei Saraceni che infestavano il mare. Verso la fine del XV sec. ed all’inizio del XVI si riscontra un programma di costruzioni ben chiaramente definito e su più vasta scala, perché esteso a tutte le coste del Vicereame. La recrudescenza degli sbarchi pirateschi, le tragiche conseguenze di essi: devastazioni, stragi, incendi e talvolta anche schiere di giovani donne deportate in misera schiavitù ad incrementare i vari mercati saraceni come merce di ottimi affari, avevano indotto i Viceré a potenziare alacremente il programma costruttivo! Così anche il «Casale de lo Lacco» ebbe la sua torre aragonese costruita sul piccolo promontorio di Monte Vico, e ritengo che essa sia una delle più grandi costruite nella Campania. Ma se la torre di Monte Vico deve la sua origine ad una disposizione vicereale, quella costruita presso la chiesa di S. Restituta si onora, unica in tutta la nostra bella isola, di aver origine pontificia, perché dispostane la costruzione da un Papa! In un mattino di quel lontano settembre 1589, nei pressi del cortile antistante la chiesetta di S. Restituta, giungeva, in groppa ad un asino, un frate dell’ordine della B.V. del Carmelo: Padre Simone De Bernardis. Egli, amico di Mons. Fabio Polverino, Vescovo della diocesi isclana, presso il quale aveva trascorso vari giorni ospite, prima di lasciare l’isola incantevole, e ritornarsene al suo conven to del Carmine Maggiore di Napoli, era venuto a rendere pio e devoto omaggio alla Santa Patrona di tutta la Diocesi. Smontato dall’asino, entrava nella chiesetta a quell’ora deserta e silenziosa, dove, inginocchiatosi presso l’altare della Santa, rimaneva assorto in fervida preghiera. Alcuni pescatori intenti a risarcire rattoppi alle reti distese lungo la spiaggia, avevano notato l’insolito ospite e, attratti dalla novità, sospeso il lavoro, si erano condotti presso 14
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la chiesetta, sostandovi in rispettosa attesa, mentre l’asino pascolava liberamente per il verde cortile erboso. Padre Simone, terminate le sue preghiere, si attardava ad ammirare la bella statua in legno dorato della Santa, e ne osservava, sconcertato, le ginocchia deturpate. Quale mano sacrilega aveva osato tanto?! Passava poi in rivista i voti che coprivano interamente i muri del tempietto. Erano stampelle, braccia, mani, gambe, piedi e, sopratutto, molti quadri raffiguranti velieri in lotta impari contro i mari tempestosi, con vele ridotte in brandelli dalla furia impetuosa del vento, equipaggi terrorizzati che invocavano protezione e salvezza dalla loro Santa Patrona del mare! In un angolo superiore di ogni quadro, appariva, ben visibile, l’immagine di S. Restituta, e, sotto, la data ed il luogo dello scampato pericolo! Lungo i due piccoli archi si notavano fissati alcuni tronconi di gomene, consunte e sfilacciate dal logorio degli sforzi sostenuti nelle tempeste, prima di ritrovarsi in quel pio e devoto luogo! Si avviava il padre all’uscita, quando s’accorse del gruppetto in sosta ed affrettò il passo verso di esso. Cinque uomini, sani, robusti, dai visi abbronzati dal sole e dalla salsedine marina, dalle mani callose, lo salutavano con devota deferenza e gli baciavano la mano che egli porgeva loro, dopo aver cortesemente reso il saluto. Subito, come per intesa data, s’avviò la conversazione, perché la bonarietà del «Gnore Pate» incoraggiava a parlare. Abramo, il più anziano di essi, prese così a narrare la deturpazione della statua. Una brutta notte, giunsero quei diavoli dall’inferno! Sbarcati, si diresse-
ro subito in questa chiesa, ad essi già nota dalle precedenti incursioni. Avevano forse il programma già stabilito! Entrati, non so in quanti, si sforzarono di sollevare la statua per portarsela, perché la ritenevano di metallo ma, per quanto poderosi fossero gli sforzi compiuti, non riuscirono a smuoverla di un dito dal suo posto! Santa Restituta è nostra! Esclamò nell’impeto della sua fede e, scopertosi il capo, con gli occhi inumiditi di lagrime, rivolto verso la Santa, proseguì: Tu sei nostra; ci sei arrivata dall’Africa e resterai sempre con noi, nostra Protettrice! E poi «zì Bramo» interloquì uno, fa sentire a «Gnore Pate». Ed Abramo, passatosi il dorso della mano destra su gli occni, riprendeva : Fallito il tentativo di sollevarla, uno di quei satanassi colpì, per uen due volte, la statua con la scimitarra per fracassarla sul posto, e portarsela via in pezzi! Infuriati più che mai, quando s’accorsero che essa era di legno, non avendo altro di meglio da rubare, smontarono dal campanile le due campane e... via col diavolo! Ma... interruppero in coro... Ma... proseguiva Abramo, le loro barche non riuscivano a rimontare la punta di Monte Vico, perché una grossa marea le respingeva verso terra, e soltanto dopo aver gittate in mare le due campanine, potevano riprendere il largo! Padre Simone, vivamente commosso, ammirava, in quel gruppetto di poveri pescatori, il fervore di fede pura di tutto il «Casale» verso la Santa Patrona! Ringraziatili poi delle notizie, li incoraggiava a serbare intatta la fede e, aiutato da essi a rimontare in groppa all’asino, dopo aver ricambiato i saluti e gli auguri di ogni bene, stretta ad ognuno la mano, riprendeva il ritorno ad Ischia. Oltre i margini della strada, angusta e pietrosa, si estendeva vasta la campagna ubertosa e lussureggiante: ricchi vigneti dai tralci verdi e ricurvi dal peso di grossi grappoli dorati; peschi, susini, fichi carichi di ottima frutta matura; folti aranceti dal profumo inebriante! Il frate passava
indifferente in mezzo a tanta bellezza e ricchezza di vita! Una idea gli era sorta mentre quel povero pescatore, presso quella chiesetta, in quel luogo solitario ed ameno, ricordava la triste vicenda della statua e delle campanine; una idea che, nan mano, maturandosi nella sua mente, assumeva così vaste proporzioni da assorbirlo completamente e da estraniarlo del tutto! E si lasciava portare dall’asino a passo lento senza stimolarlo, nemmeno quando esso, di tanto in tanto, si soffermava ed allungava il collo ed il muso per stroncare un ciuffo d’erba! I sonori rintocchi di una campana lo riscossero, richiamandolo alla realtà della vita. Era mezzogiorno, e l’amico Fabio certo l’attendeva per il pranzo! Tirò le briglie, stimolò la bestia, come mai aveva fatto, al trottarello e, giunto all’angolo della strada, guardò verso l’episcopio. Nel vano di una finestra gli apparve l’amico Monsignor Fabio, quale, sollevando e allungando le braccia, lo sollecitava. A tavola, quando lo stomaco era già soddisfatto, e l’animo ben disposto ad assecondare le confidenze amichevoli, padre Simone manifestava all’amico l’idea elaborata durante il tragitto, e per dimostrargli come era già riuscito a portarla quasi a compimento, ne tracciava, su un foglietto, un abbozzo rudimentale, mentre a voce destinava l’uso delle aree circoscritte. Monsignor Fabio Polverino, uomo dotto e dotato d’ingegno perspicace, si rallegrava, in cuor suo, dell’idea tanto genialmente concepita e così felicemente illustrata, e, quando il frate gli volse in viso lo sguardo interrogante, vivamente commosso, suggellava con abbraccio fraterno l’anticipata approvazione del progetto. Nei giorni successivi poi ne discussero insieme; ne studiarono i particolari, ne formularono tutte le clausole, in modo che il frate poté recare ai suoi superiori in Napoli, l’atto già pronto per la firma, con il quale il Vescovo della Diocesi Isclana donava ai Padri Carmelitani la chiesa di Santa Restituta con il cam-
panile, il cortile e luoghi circostanti (attuali terme Regina Isabella, allora giardino), per costruirvi una casa. Ma tale donazione, per aver atto, doveva esser convalidata dal regnante Pontefice. Sua Santità, Papa Sisto V, nella Sua Bolla di convalida diretta ai Padri Carmelitani (e per essi al Padre Simone De Bernardis), ed al Fratello Fabio Vescovo d’Ischia, anch’Egli bene a conoscenza delle continue incursioni dei Saraceni nel territorio «Casale de lo Lacco», e delle terribili conseguenze di esse, ordina: «Voi cominciate subito ad elevare una torre, acciocché i Fratelli e i beni della casa da edificare siano salvi dalle incursioni degli infedeli, dei Turchi e di altri pirati, e la si termini - infra annum – nell’anno!... La Bolla Pontifica porta la data del 13 gennaio 1590, ed una copia di essa è visibile presso la chiesa di Santa Restituta. La torre ed il convento vennero puntualmente costruiti, ed i Padri Carmelitani ne tennero il possesso sino all’ottobre 1809, quando Gioacchino Murat soppresse le case degli Ordini possidenti! In grazia poi del Concordato (21 marzo 1818) tra la Santa Sede e Ferdinando I di Borbone, il convento fu riaperto dai Padri Agostiniani, i quali vi rimasero sino al 7 luglio 1866. I Lacchesi non tollerarono la seconda soppressione dei frati, e protestarono tanto decisamente che, e dopo pochi mesi, giunsero nuovi ospiti del convento i Servi di Maria; ma nel 1875, vennero anch’essi sloggiati! Attualmente una parte del convento è adibita ad asilo infantile, l’altra a sede della Casa Comunale. Il primo piano della torre, aperto un balcone prospiciente la piazza, venne modificato in salone nel quale si svolgono le sedute consiliari. Nel terraneo, ora in nuovo riattamento, vi si alloga l’ufficio postale. Domenico Patalano Gazzettino dell’Isola d’Ischia anno I, n. 28 del 2.12.1956 La Rassegna d’Ischia n. 3/2012
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Rassegna Libri Casamicciola milleottocentottantré. Il sisma tra interpretazione scientifica e scelte politiche di G. Luongo, S. Carlino, E. Cubellis, I. Delizia, F. Obrizzo
Bibliopolis, edizioni di filosofia e scienze. In copertina: Isola d’Ischia, sezione dell’isola e sorgente sismica (da Johnston-Lavis, 1885). Pagine 282 più Tavole fuori testo, Napoli, gennaio 2012. Euro 35,00.
La forte impressione suscitata a livello europeo dal disastroso terremoto che sconvolse l’isola d’Ischia nel 1883, che seguì a quello del 1881, continua ad essere presente e viva a livello mediatico e dialettico, considerata la pubblicazione di questa ultima opera a cura di vari autorevoli autori: il terremoto raccontato soprattutto attraverso le biografie di alcuni protagonisti che si occuparono, a vario titolo, dell’evento sia sul piano scientifico che nell’analisi delle scelte per la ricostruzione. Si tratta di Francesco Genala, all’epoca ministro dei Lavori Pubblici; Henry James Johnston-Lavis, impegnato professionalmente come medico e studioso dei fenomeni sismici e vulcanici; Luigi Palmieri, direttore dell’Osservatorio Vesuviano; Michele Stefano de Rossi, il primo a introdurre una moderna scala di intensità per i terremoti e a promuovere una rete sismica in Italia; Giuseppe Mercalli, che propose una nuova scala delle intensità universalmente riconosciuta e fu direttore dell’Osservatorio Vesuviano; Giulio Grablovitz, fondatore e direttore dell’Osservatorio Geodinamico di Casamicciola. L’interesse degli scienziati in Italia, nell’Ottocento, per le Scienze della Terra, fu molto intenso per le caratteristiche geologiche della penisola, specialmente per l’elevata sismicità e la presenza di vulcani attivi. Questi elementi saranno determinanti 16
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per la realizzazione dell’Osservatorio Vesuviano, primo osservatorio vulcanologico al mondo, inaugurato ufficialmente in occasione del Congresso degli Scienziati Italiani a Napoli nel 1845. Nel volume sono affrontate le questioni relative all’interpretazione dei fenomeni sismici e vulcanici e all’analisi delle scelte urbanistico-edilizie relative al disastroso fenomeno e alle scelte del governo mirate alla sicurezza del territorio. Un’occasione per riparlare di Ischia, per proporre ancora una volta il problema della riduzione del rischio sismico e vulcanico nell’Isola e con essi l’Osservatorio di Casamicciola con la sua funzione di controllore della dinamica endogena. Di questo ultimo è significativo seguire le vicende legate prima alla sua istituzione e alla sua attività tra notevoli difficoltà, che sono andate crescendo a mano a mano che ci si è allontanati dalla fatidica data catastrofica. Tutto ciò emerge specialmente dalle note che si riferiscono alla figura di Giulio Glabrovitz e ai tentativi successivi di Cristofaro Mennella perché si ripristinasse su nuove basi l’Osservatorio, per un complesso di ragioni sccientifiche e pratiche «in un territorio che, come quello dell’isola d’Ischia, presenta tanto alto interesse scientifico ed economico per le sue particolari caratteristiche geomorfo-idrologiche». Aspirazioni e speranze mai concretizzatesi.
Il volume è stato presentato il 21 marzo 2012 nella Sala Conferenze dell’Osservatorio Vesuviano - Sezione di Napoli dell’Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia, e il 28 marzo successivo alla libreria Feltrinelli di Via San Tommaso d’Aquino Napoli. Esso consente di ricordare cose dimenticate o di venire a conoscenza di un’isola diversa, di scoprire, come dice in un nota Vincenzo Petrini, «notizie e situazioni che non conoscevo. Le figure del politico Genala e degli uomini di scienza Johnston-Lavis, De Rossi, Mercalli e Grablovitz con le loro differenze e le loro affinità e con le polemiche tra loro intercorse, invece di mascherare le caratteristiche di questo terremoto, paradossalmente, le mettono in particolare risalto; in filigrana, poi, si legge la gente dell’Isola». A Francesco Genala il suo paese natale, Soresina, ha dedicato un museo, dove si conservano alcune testimonianze fotografiche di Casamicciola 1883, da noi forse molti non sanno nemmeno chi sia il personaggio e perché il suo nome figuri nella denominazione di strade e rioni (una volta baraccati). Né forse si conoscono o si ricordano, al di là dei personaggi più specificamente operosi sul piano scientifico, la figura e l’attività di Giulio Grablovitz che tanto s’impegnò nel periodo successivo al terremoto, specialmente per istituire a Casamicciola e a Porto d’Ischia un osservatorio in grado di studiare gli eventi e i fenomeni locali. Egli ideò e costruì un apparato unico nel campo sismometrico, adatto alla registrazione di terremoti lontani, e che chiamò vasca sismica: «Così appellai una vasca scavata in un sotterraneo dell’Osservatorio della Grande Sentinella e destinata a registrare i movimenti del suolo». Di lui la bibliografia cita libri e articoli che Casamicciola non conserva affatto e d’altra parte non ne ha memoria a testimonianza. Il libro affronta le questioni relati-
Appunti di un chirurgo per vocazione di Mario M. Giordani
Stampa Grafica, Roma 2011 (seconda edizione)
ve all’interpretazione dei fenomeni sismici e vulcanici e all’analisi delle scelte urbanistico-edilizie relativi al disastroso fenomeno e alle scelte del governo mirate alla sicurezza del territorio. Un’occasione per riparlare di Ischia, per proporre anora una volta il problema della riduzione del rischio sismico e vulcanico nell’Isola e con essi l’Osservatorio di Casamicciola con la sua funzione di controllore della dinamica endogena. Raffaele Castagna
Un libro «da leggere con l’interesse e la piacevolezza di un romanzo anche da chi non sa nulla di medicina… i ricordi sono racconti, i maestri, gli amici, le persone care, veri personaggi; le vicende di lavoro e pensiero stampate come storie con in più la verità e sincerità del reale…» (Giovanna Canelli). «… Scopriamo fin dal titolo del libro un’opera corrispondente ai fatti (ne siamo stati attenti testimoni per la parte professionale), orgogliosa anche se velata un po’ maliziosamente dal modesto titolo di “appunti”, nella descrizione degli stati d’animo e sulla guida del modello d’ispirazione (“chirurgo per vocazione”)» (Giorgio Di Matteo). Il dott. Giordani, assiduo frequemtatore dell’isola, non manca di offrire un omaggio ad Ischia «l’isola verde, che ha attorno un mare turchino, nutre le terme salvifiche per le mie membra ed accende una luna che sa farsi rossa, e dove ormai da poco meno di quaranta anni recupero i miei spazi liberi, desti-
L’isola sequestrata: pirati, marinai e non solo di Gianni Ambrosino Massa Editore
“Un diario” di bordo dove l’autore
ripercorre le tappe quasi giornaliere dei fatti ed accadimenti che hanno caratterizzato il rapimento delle due navi napoletane, la Savina Caylin e la Rosalia D’Amato con a bordo ben quattro Procidani: Giuseppe Lubrano Lavadera, Crescenzo Guardascione, Vincenzo Ambrosino, Gennaro Odoaldo. Il racconto di un’odissea che ha coinvolto non solo le quattro famiglie dei rapiti ma: «Un dramma vissuto lungo la linea di due orizzonti, sul ponte di quelle navi e nelle case di tutti i procidani, nelle case di un’intera isola» come spiega acutamente la caporedattrice del “Il Mattino” Marilicia Salvi che ne ha curato la prefazione.
nati spero aa farsi sempre più ampi, fino a concedermi di vivere tante volte la fascinosa ora del tramonto. Il sole scompare nel mare che da Punta Imperatore osservo lungo l’ampio spazio di costa che mi concede l’altezza di 500 metri, sul dorso del monte Epomeo, dove sta la mia casa, proprio sopra quel vulcano del quale talora mi sembra di avvertire i brontolii e osservo gli improvvisi soffioni caldi. Quando il sole se ne va, si accendono bagliori lontani e spesso si attiva un venticello che fa raggomitolare in me gli anni che sono passati e unisce il mondo di ieri a quello di oggi».
Il lavoro racchiude in sé i fotogrammi giornalistici di un’ esperienza dolorosa, per fortuna terminata a lieto fine, che vuole essere un contributo a rafforzare l’impegno delle istituzioni, dei cittadini e di quanti non possono che rendere omaggio alla piccola isola che insegna al mondo il coraggio, le capacità di sacrificio e l’abilità professionale dei suoi figli. Il libro, dopo la presentazione alla libreria Mondadori di Napoli con successo di pubblico e di critica, ha avuto anche a Procida un’occasione per approfondire, insieme a rappresentanti ed esperti dello shipping marittimo, una tematica che ha gravi implicazioni politiche, economiche, sociali, in tutto il mondo (da tgprocida.it).
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Alphonse De Lamartine a Casamicciola di Domenico Di Spigna Alphonse de Lamartine fu un poeta lirico tra i più grandi della Francia. Venne alla luce a Mâcon nella Borgogna il 21 ottobre 1790 e battezzato l’indomani col nome di Alfonso Maria Luigi, unico maschio tra cinque femmine. A Milly, dove si trasferisce la famiglia nel 1794, compie i primi studi, poi proseguiti presso il collegio di Belley, con predilizione per quelli classici. Fin dalla giovinezza, Alfonso evidenziava contraddizioni nella sua personalità, abitudine ad alterare le date, una latente “megalomania”, grande sensibilità, gusto per la bellezza, non esclusa quella femminile. Già a diciannove anni, quando fu chiamato alla visita militare, aveva avuto una simpatia amorosa per la piccola Caroline Pascal; altro interesse in amore lo provò una sera a casa della signora de La Vernette, quando, sentendo cantare la figlia di un giudice di pace, Enriquette Pommier, ne venne attratto. In seguito si scriveranno e si frequenteranno amandosi, maggiormente la ragazza che lo ammirerà tantissimo. Per distoglierlo dall’amore, i genitori ne favoriscono ed incoraggiano il viaggiare e un itinerario culturale per arrcchire la sua educazione. Giunge il fantasioso giovane sul suolo italiano nell’autunno del 1811, dichiarando di avere diciannove anni, mentre in realtà ne ha due in più. Da quel momento amerà incessantemente l’Italia, di cui aveva acquisito la cultura classicheggiante fin dai suoi primi studi, ammirandone la storia e i suoi protagonisti letterati (Virgilio, Dante, Tasso, Alfieri, ecc.). Dopo varie città, ottiene di poter recarsi a Roma e Napoli. A Roma prenderà alloggio in una buona stanza di Via Condotti, ma il 18
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primo impatto con la città eterna non sarà da mozzafiato! L’Urbe apparirà alquanto decadente, senza il Papa con i suoi cardinali e il suo nutrito clero. Napoleone aveva esiliato il Pontefice a Savona, la città contava soltanto cinquantamila anime. Il giovane compagno di viaggio era una giovane donna, di nome Camilla, travestita da uomo per non dare adito a pettegolezzi, e insieme con lei Alfonso fa delle gite conoscitive per Roma e dintorni fino ai Colli Albani ed alla tomba di Cecilia Metello. Prende inoltre delle lezioni di italiano pressso il professore Giunto Tardi, che aveva un fratello pittore e tramite questi conoscerà la pittrice Bianca Boni, dalla quale si fa ritrarre per destinare il suo ritratto alla mamma Alice. Dopo aver visitato la chiesa di S. Onofrio (che gli dà l’impresione d’una chiesetta di campagna) ed effettuato delle passeggiate nella campagna romana, alla maniera di Wolfgang Goethe, pensa di completarsi con la città del Vesuvio, che già era stata di Virgilio, lì sepolto, e del Tasso. Vedrà questa capitale adagiata sulle acque del golfo, la sera del trenta novembe, e vi rimarrà per quattro mesi, rinunciando all’ospitalità del cugino di sua madre Dareste de la Chevanne, per stabilirsi in una locanda di Via dei Fiorentini all’estremità della Via Toledo. Il Vesuvio, il mare, le isole del golfo destano in lui un fascino stupendo. Nel mentre si sente in affinità con la gente napoletana, che degli antichi greci hanno il genio dell’espressione ed una certa forma di meditazione, familiarizza con la loro lingua accentuata e sonora in cui lo sguardo e la parola sono più importanti della parola stessa. La natura stessa vissuta in simbiosi dagli uomini del luogo contribuisce ad allietare il suo soggiorno. Compie due “pellegrinaggi” alla tomba di Virgilio; viaggi alla Solfatara di
A. De Lamartine
Pozzuoli, a Pompei, alle falde del Vesuvio, e si gratifica nell’ammirare le ragazze napoletane dall’alto della sua statura, a loro volta attratte dalla sua biondezza e dall’accento linguistico non del luogo. Visiterà poi Cuma e Baia, per la quale ultima località, un tempo luogo di delizie dei grandi dell’antica Roma, comporrà l’elegia “Il Golfo di Baia”. Rimasto a corto di denaro, è costretto ad accettare l’ospitalità del cugino Antonio Dareste de La Chevanne, direttore della manifattura dei tabacchi. Racconterà poi nelle sue “memorie”: mi trasferii presso la manifattura del magnifico monastero, di cinque o sei piani; il primo, con le arcate sottostanti era adibito alla fabbricazione del tabacco. Vidi qui per la prima volta una ragazza tra le tante, che doveva divenire la “Graziella” ed avere su di me un’influenza imperitura per l’intera mia vita. Tra i due non mancano le premure e gli sguardi languidi, che s’intensificano quando il giovane viene a trovarsi ammalato e, dal momento che lei gli fa da assistente, i due entrano in confidenza. Lui parla dei vigneti che possiede in Francia e dei castelli di famiglia; lei giovane donna di Resina s’innammo-
ra e appende una sua medaglia d’argento (quasi un talismano) al letto di Alfonso in segno di dedizione e racconta il suo passato di povera operaia, ma nel contempo si agghinda da ragazza di buona società e, nel caso lui dovesse partire, lei sarebbe disposta a mettersi nella sua valigia. Il bell’Alfonso resta a Napoli quattro mesi, poi, richiamato in patria dalla madre, lascia in lagrime Antoniella, la ragazza che presagisce che quello è un addio definitivo; le loro strade non s’incroceranno più, i loro occhi non si fisseranno vicendevolmente. Lui parte per Roma il sei aprile, lei morirà di tisi qualche anno dopo. Soltanto nel 1816 il futuro poeta, per lettera di Dareste, apprenderà del trapasso della giovane. Ella sarà in seguito l’ispiratrice di tante sue composizioni poetiche, ma soprattutto la “grâce” cioè la Graziella” dell’omonimo romanzo scritto a Casamicciola nel 1844, uno dei più bei poemi lamartiniani. In questo patetico romanzo Antoniella sarà la figlia di un pescatore di Procida, la corallaia, la fanciulla ideale che porterà in mente quale eterno raggio di mera luce, ispiratrice delle proprie opere ancor più di quanto avrebbero potuto essere Caroline Pascal o Henriette Pommier, per la quale ultima in una lettera del quattro maggio 1812 indirizzata all’amico Aimon ( “la mia coscienza”, come lo definiva, alla cui morte dirà d’aver perso tutto quanto gli rimaneva d’affetto e di giovinezza nella sua vita) fa capire di provare mal d’amore. La “padrona servente” del signor Dareste, vale a dire Antonietta Jacomino, di umili origini ma dall’amore romanticissimo idealizzato come Saffo, faranno esclamare ad Alfonso: Elvira e tu, vivrete in eterno! Stando in Francia negli anni successivi, avrà ancora modo di ricordare la giovane lasciata in Napoli, quando a Parigi, assistendo ad funerale di una ragazza piangerà amaramente. Nella sua Borgogna dov’era nato si sente un poco straniero. Com’era lontana Napoli, con i suoi contrasti,
Per essere felici bisogna vivere a Napoli Non vi sono due giorni nell’estate di Francia che valgono tutti i giorni del mese di novembre! Si respirano la vita, il sole, l’amore, il genio, i sogni, i profumi dell’anima e dei sensi! Io t’invoco ogni giorno quando, aprendo il mio balcone, vedo questo bel mare scintillante srotolarsi silenziosamente tra gli aranci di Posillipo, percorso in lungo e in largo dalle numerose barche le cui piccole vele latine assomigliano alle bianche ali delle rondini del mare. Ai miei piedi il prato della Villa Reale, seminato di rose già verdeggianti come nei nostri più bei giorni premiverili, a sinistra i monti di Castellammare e di Sorrento in un vapore così leggero che sembrano dileguarsi essi stessi al minmo soffio di vento, più da presso il Vesuvio, con una lava che cola sempre presso Portici e con i suoi torrenti di fumo che il sole al suo sorgere tinge di rosa e che un leggero vento del nord fa inclinare come una colonna infiammata sul mare (Lamartine, Lettera a Virieu, 29 novembre 1820).
Pour être heureux il faut vivre à Naples Il n’y a pas deux jours dans un été de France qui vaillent les jours que nous avons tous les jours au mois de novembre! On respire la vie, le soleil, l’amour, le génie, le repos, la rêverie, les parfums de l’âme et des sens! Je t’invoque tous les jours quand en ouvrant mon balcon je vois cette belle mer étincelante se dérouler sans bruit sous les orangers du Pausilippe, sillonnée par des barques sans nombre dont les deux petites voiles latines ressemblent aux ailes blanches des hirondelles de mer. A mes pieds les gazons de la Villa Reale, semés de roses, verdissant déjà comme dans nos plus beaux printemps; à ma gauche les montagnes de Castellamare et de Sorrente nagent dans une vapeur si légère qu’elles ont l’air prêtes à se dissiper elles-mêmes au moindre souffle; plus près, le Vésuve, sillonné du côté de Portici par une lave qui coule toujours, élève ses torrents de fumée que le soleil levant teint de rose et qu’un léger vent du nord fait pencher comme une colonne embrasée sur la mer (Lettre à Virieu, 29 novembre 1820).
le sue melodie, i suoi misteri, l’aria, il sole, il mare! L’amore per la segretaria e manufatturiera di tabacchi si risveglia nel suo intimo; il pensiero torna a quella zona portuale della città del sole, in quel convento di S. Pietro Martire. Nelle sue Elegie, farà ancora riferimento ad Antoniella – Graziella, della quale ignora il decesso, e nella sesta elegia diventerà “Elvira”. Dopo altri amori (avrà anche un figlio cui viene dato il nome di Leon) sposa Anne Mary Birch, figlia di un colonnello inglese. Per poter contrarre questo matrimonio (Chambery 6-6-1820), in regola con la fede cattolica dei Lamartine, la signorina Mary Birch, che ha gli stessi anni del francese, abiura la sua religione protestante. Si erano, i due trentenni, conosciuti a Pugnet, non lontano da Chambery (Savoia), presso la marchesa de La Pierre. Questa bruna ragazza albionica, dal naso pronunciato sotto due occhi vivi rivolti all’arte pittorica e musicale, sarà tra l’altro molto amica di Cesarina, sorella del poeta, definita tra l’altro una bellezza italiana! La madre del poeta parlava con molta ammirazione di questa futura nuora. Era una donna sensibile e colta. Nello stesso mese di giugno, il giorno quindici, inizia il viaggio di nozze, partendo da Chambery, con destinazione Napoli, dove Alfonso sarà secondo addetto all’Ambasciata di Sua Maestà il re di Francia presso il re di Napoli e delle Due Sicilie (con nomina del ministro degli esteri Pasquier), passando per Torino, laddove s’incontra con Aimon de Virieu che è segretario d’ambasciata in quella città. Trascorrono una settimana a Firenze. Arrivati nello Stato Pontificio si viene a sapere che il re di Napoli Ferdinando I deve sedare una ribellione, per cui il giovane sposo lascia a Roma la propria moglie, suocera e scudiero per recarsi nella capitale del regno borbonico per vagliarne la situazione. Per fortuna qui non c’è nulla di preoccupante, in quanto il re ha accordato la Costituzione liberale e La Rassegna d’Ischia n. 3/2012
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quindi il desiderato soggiorno napoletano può compiersi. In una lettera scritta da Roma il 13 luglio di quel 1820 alla signora Raigecourt dice: «Andiamo nel paese della brutale voluttà, Napoli assomiglia più all’Asia che all’Italia, non ha che le delizie del
corpo, genti e cose non sono cambiate!, mentre il 29 luglio aveva scritto a Monsieur de Genoude dicendo che Napoli aveva un’aria rivoluzionaria e non più il luogo di riposo e di canti; perfino nei templi di Baia e Pozzuoli s’incontrano i “carbonari”».
Primo soggiorno a Casamicciola Una volta giunto a Napoli, il gruppetto venuto dalla Francia alloggia in un appartamento ammobiliato di fronte al Real Passeggio alla Riviera di Chiaia al n° 143. Quivi, senza rischio per la pace del suo ménage, mostra alla giovane sposa il prestigioso diorama napoletano, teatro dei suoi slanci giovanili. Nel rivedere il golfo di Napoli è nuovamente preso dal desiderio di assaporare da vicino Mergellina, Posillipo e le isole che lo delimitano dal golfo di Gaeta, per arrivare sotto le coste frastagliate di Ischia che avrebbe poi abitato e amato tanto, descrivendola come una «sola montagna a picco, la cui cima bianca e folgorante immerge i suoi denti scheggiati nel cielo. I suoi fianchi scoscesi, solcati da piccole valli, burroni, letti di rigagnoli d’acqua (termominerali), sono rivestiti dall’alto in basso da castagneti di colore verde scuro». Questa terra lo affascina, lo appaga e l’innamora tanto che l’immortalerà in versi in una lunga poesia dal titolo Ischia, isola che fa provare la vaporosa dolcezza di una notte mediterranea. Sul promontorio della Sentinella affitta una casetta circondata da colonne rustiche ed una “terrazza asiatica per tetto”. La moglie Marianna è incinta di alcuni mesi e per tale motivo l’ambasciata francese a Napoli gli consente una certa elasticità negli spostamenti settimanali, dall’ufficio napoletano all’isola maggiore del golfo. Era alle dipendenze del cavaliere Gabriel Fontenay, uomo di buon cuore e tollerante col “fantasioso” giovane, al quale aveva cercato di dare lustro, consigliandolo di celebrare la nascita del duca di Bordeaux con un’ode. Questa però, più che una mera opera poetica, era a tratti un’esortazione al liberalismo e per tale motivo non fu ben accetta presso la Corte Francese. In data 30 settembre 1820, scrivendo a Louis de Vignet, suo amico di collegio definito “uomo di genio”, così inizia: «Nel mezzo del mare di Napoli, non lontano da Capo Miseno dove questi lasciò le sue armi e il suo nome, di fronte alla grotta di Cuma e alle rive classiche dell’Eneide, si staglia un’isola di due o tre leghe di circonferenza coronata da una montagna a picco. È come una delle vostre vigne serpeggianti tra i gelsi, i vostri ruscelli, le vostre ville e dolci e pure usanze dei vostri contadini. Sui fianchi ondulanti di questa montagna sono sparse le più incantevoli casette, circondate da vigne, orti e boschetti. Ne ho affittata una e ci abito da un mese». «Là passo il mio tempo a sognare, nei campi o in riva al mare, con Marianna. Rientriamo la sera, ceniamo, dormiamo. Ci perdiamo nei boschi, cadiamo nei fossi. Scende la notte e ritorniamo stanchi morti, incantati dalle scoperte veramente meravigliose. Ho il più bel rifugio del paese. Un promontorio si eleva di sette o ottocento piedi, si protende in mare, come Châtillon nel lago, i suoi piedi sono ricoperti di boschi quasi fino all’acqua; la cima delle vigne che ombreggiano di limoni, di lauri, di melograni, di mirti ecc…. È abitata da una vera famiglia di patriarchi. Là noi viviamo, là noi contempliamo da lontano la cima strepitosa del Vesuvio. Se un destino, come non se ne vedono, mi desse più denaro di quanto posso averne e mi concedesse più di dodici mesi all’anno, verrei qui regolarmente a passarne sette o otto». In questa casetta “asiatica”, nido di felicità dei novelli sposi, che in quell’epoca sorgeva non distante dall’attuale Osservatorio Geofisico, Alfonso tra20
La Rassegna d’Ischia n. 3/2012
Mary Anne Birch De Lamartine
scorre tre giorni per settimana, il resto nel suo ufficio napoletano per il suo lavoro all’Ambasciata e, quando rientra sull’isola, Marianna viene ad aspettarlo alla spiaggia della marina, vedendolo da lontano arrivare dalla costa di Capo Miseno. Poi a dorso d’asino si risale per i pendii verso la Sentinella. Lassù si vive al ritmo napoletano con sveglia mattutina, fantasticherie, riposo con la faccia rivolta al mare, qualche bagno alle terme, passeggiate, lettere a parenti, agli amici di Francia, un poco di musica, il tutto in un’atmosfera di abbandono dalle problematiche della vita. Alfonso e Marianna vivono per essi stessi e l’aria del luogo giova alla loro salute. Scrivendo alla marchesa di Raigecourt in data 16.9.1820, dirà: «Ho una bella casa a Napoli con un’incantevole vista, ma la città mi rende insofferente, mentre sto a meraviglia quando mi trovo nelle campagne dell’isola». In un’altra sua missiva datata nove ottobre e diretta all’amico Aimon, si esprime in tali termini: «Ischia è il capolavoro della Baia di Napoli, dell’Italia, del mondo; è il soggiorno completo che abbiamo sognato così spesso… Ischia merita il viaggio a lei solo, dunque vienci…. qui l’aria è elastica, fortificante e secca come sul Moncenisio; l’acqua ghiacciata scende dalle cime
dell’Epomeo e sessanta sorgenti naturali ci portano la vita e salute. Gli occhi sono fissi nel Vesuvio che tutte le sere ci serve da fiaccola, siamo seduti sotto le colonne del nostro verde portico nell’attesa delle tranquille ore del sonno dopo il pasto». Dirà ancora: «Sono felice del mio piccolo ménage, gioioso all’ombra delle figure del sole e di mia moglie, passiamo mollemente i giorni a fare niente, a leggere, a errare sotto i boschi, sul mare! Noi ci amiamo, noi non conosciamo la noia». È questo un periodo felice, di grande ispirazione poetica come ricorderà all’amico Aimon, con lettera da Napoli l’otto dicembre. Sulla salubre e ridente collina della Sentinella compone per la sua amata sposa la lunga poesia Ischia, il Canto d’amore e Addio al mare. Legge i versi del suo Canto che sono arpeggi modulati in musica! «… Sotto il cielo dove la vita o la felicità abbonda sopra queste rive che l’occhio si compiace di percorrere, noi abbiamo respirato quest’aria di un altro mondo!» In effetti queste rime evocano con sensuale tenerezza la felicità dei giovani sposi. Restano sull’isola fino a novembre, quando in uno dei quei tiepidi meriggi autunnali, tanto desiderati dai cercatori di sole e di tranquillità, col proposito coltivato nella mente e nel cuore di potervi fare ritorno (e lui lo farà molti anni dopo), ripartono verso la terraferma. Il ricordo per la vaga isola d’Ischia, per l’amena Sentinella e l’amore che vi portò, saranno ancora presenti nelle Memorie Politiche (1863) e Corso familiare di Letteratura, dove riparla con malcelata melanconia di quei graditissimi giorni trascorsi a Casamicciola. Scrive infatti….: «Avevo preso in affitto una graziosa abitazione chiamata la Sentinella, che si vede ancora elevare a piramide in vetta alla punta più avanzata dell’isola. Io m’imbarcavo a Pozzuoli…. trovavo mia moglie alla marina di Casamicciola e insieme risalivamo alla Sentinella». Per coloro i quali abbiano conosciuto questo luogo, alto 126 m. sul
livello del mare, aggiungiamo per una chiara conoscenza del sito, che prima del terremoto del 1883, ivi erano ubicati i migliori alberghi e ville della famosa cittadina termale; a mezza costa v’era il complesso alberghiero di cura e soggiorno Sauvè de Rivaz, sull’arce sorgeva l’albergo Grande Sentinella che nel 1815, per tragiche vicende, aveva ospitato il fuggitivo re di Napoli Joachim Murat. Sul versante orientale che declina verso Lacco sorgeva l’Hotel Bellevue che nella seconda metà dell’Ottocento avrebbe ospitato l’eroe dei due mondi Giuseppe Garibaldi e per ben tre volte lo scrittore e filosofo Ernest Renan; ai piedi v’era la Piccola Sentinella con l’attiguo Albergo Europa, conosciuto pure come Villa Pisani dal cognome del suo proprietario Don Crescenzo ed oggi Villa Ibsen in ricordo del drammaturgo svedese Enrik Ibsen, che ivi nel 1867 blandì il suo animo, mentre componeva il Peer Gynt, suo capolavoro. Poco distante ancora un altro ostello, l’Albergo Centrale, che ospitò lo scrittore danese Wilhelm Bergsoe. La comitiva francese il venti gennaio 1821 s’allontana da Napoli e prosegue per Roma, fissando l’alloggio in Via Ruberina ed in questa città sua moglie darà alla luce un bambino al quale sarà imposto il nome di Alfonso junior che verrà battezzato nella chiesa di San Pietro, avendo per padrino il marchese napoletano Gagliati e per madrina la principessa polacca Oginsky. Durante questo periodo in Roma, come di consuetudine, è in giro per la città per discettare poi di sera in casa della duchessa di Devonshire. Nel risalire a Firenze, prende dimora alla Villa Albizzi presso Porta Romana. Il ventotto aprile ripartono e dopo uno scalo a Torino ai primi giorni di giugno il gruppetto s’installa a Tresserve sul lago di Bourget, con la signora Anne Birch un po’ sofferente e monsieur Lamartine, come sempre, vagamente malandato ma piuttosto felice nella quiete di questo luogo. Con l’arrivo dell’autunno si fa ritorno a Mâcon e, pur essendo a corto di denaro, fa re-
staurare il castello di Saint Point, che dal 1823 sarà la sua residenza familiare. S’intrattiene cordialmente con i suoi vignaiuoli, si gode le sue terre con i cani e gli uccelli, nelle delizie dell’ambiente agreste. Non rinuncia, il nostro, a diverse riprese, di recarsi a Parigi per sollecitare una segreteria d’ambasciata, esprimendo il desiderio di essere nominato a Firenze nel Granducato di Toscana. Passeranno quattro anni prima che ottenga l’incarico a cui anela. Il 14 magio 1822 , gli nasce a Mâcon un altro erede, stavolta una femminuccia alla quale si dà il nome di Giulia, quello della signora Charles, ch’era stato un suo amore. Pare che l’idea sia venuta alla stessa moglie per onorare un “ricordo d’amore” (quanta sensibilità!). In questo periodo il poeta diventa “filo inglese”, affermando che essi hanno esaltato la persona abbellendola con l’eleganza e, dopo la parentesi in Inghilterra, torna a Parigi dove il quattro di novembre muore a Parigi di tubercolosi il piccolo Alfonso. Il cambio di luogo e di clima non avevano arrecato beneficio al pargoletto e la sua dipartita addolora non poco il poeta e ne risente anche la produzione letteraria. Ma eccolo di nuovo in Italia, a Firenze, dove trascorrerà circa tre anni per il suo lavoro diplomatico e vi acquisterà anche casa, ossia la Villa Viviani in Via Faenza, non lontano dalla stazione, per 100.000 franchi, e che venderà successivamente alla marchesa Strozzi di Mantova, dopo averla prima fittata alla principessa Galitzine. Dirà il poeta, di questa residenza: «È una casina o un convento con una cappella, che il pittore Sylvestris mi ridipinge in gotico, circondata da giardini al sole, da limoni e olivi» Al suo arrivo, nel 1826, aveva abitato nella Casa Buchini in Via dei Serragli. Nel capoluogo del granducato avverrà tra l’altro l’incidente denigratorio verso l’Italia, da lui definita terra abitata da “uomini nati stanchi” e per tale motivo viene sfidato a duello dal colonnello Gabriele Pepe. Protesteranno pure lo scrittore Pietro Giordano ed il poeta Giuseppe La Rassegna d’Ischia n. 3/2012
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Giusti. Volendo noi, tra l’altro, spezzare una lancia a sua difesa diremo che tale frase non avesse più di tanto d’offesa, dal momento che aveva pur detto della sua terra: “La Francia è una Nazione che si annoia”. Le parole probabilmente erano scaturite dal suo carattere romantico proiettato ad un futuro di elevazione della società. Lo scontro avviene il diciannove febbraio 1826 di fronte alle cascine di porta San Frediano; è un combattimento cavalleresco, non alla morte, ma solo un duello d’onore! All’impeto del Pepe, il francese oppone la calma della sua difesa, ma ne è anche disarmato e ferito ad una mano. Dopo qualche anno appena, forte dell’esperienza diplomatica, non disgiunta dalla sua ambizione, si dà alla politica. Nel 1833 sarà eletto deputato nelle Fiandre a Bérgues, propugnando idee liberali con assistenza ai disoccupati, abolizione della pena di morte e, per quanto riguarda il rapporto “sociale” tra Stato e popolo, affermava che la carità di Stato avrebbe impedito alla ricchezza di essere offensiva alla miseria, di essere rivoluzionaria. Si auspicava inoltre uno Stato scaturito dal suffragio universale ed un’istruzione gratuita per tutti. Queste idee alquanto idealiste non trovarono riscontro alle elezioni presidenziali del 1848, che furono vinte da Luigi Napoleone Bonaparte, arrivando ultimo tra i quattro candidati con soli 17.000 voti. L’estrosità del nostro poeta, la voglia di conoscere nuovi luoghi, nuove culture fanno sì che si organizzasse un altro viaggio, stavolta di lunga durata, per il Medio Oriente, desiderio già espresso a sua madre, in una lettera spedita da Firenze in data 27.12.1827 comunicandole che, per arricchire la sua carriera politica, avrebbe avuto bisogno di viaggiare tre anni in oriente (e che avrebbe preferito essere segretario d’Ambasciata a Napoli e non a Firenze). A riguardo del suo intenso amore per Napoli e il suo golfo scriveva intorno all’anno 1830: «Fate che io riveda quella riva felice dove Napoli specchia in mare d’azzurro le sue case e i suoi colli, 22
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quegli astri senza nubi, e fiorisce l’arancio sotto il cielo più puro». Non ha torto lo scrittore Marius Guyard quando dice che la vita del Lamartine è troppo ricca di sentimenti e di fatti per essere riassunta in qualche pagina. Il viaggio prende inizio il ventotto maggio da Marsiglia con una nave a sei alberi, di 250 tonnellate di stazza e sedici uomini di equipaggio, chiamata Alceste (di proprietà Bruno Rostand); a bordo con loro i signori Capmas, Delaroyèr, vecchio sindaco di Hondshoot, medico, il suo amico Amedeo de Parsèval, sei domestici, alcuni passeggeri, una capra, un passero, il cane Fido e altri due ancora per sua compagnia. Navigando sotto le coste della Sardegna, il 21 luglio si giunge a Malta. Bisognerebbe attendere dieci giorni di quarantena, per poter porre piede a terra, ma questa viene ridotta a tre per intercessione del console francese a favore dell’illustre ospite, che sarà poi pure ricevuto. Il governatore inglese dell’isola fa scortare nel prosieguo del viaggio la nave Alceste dalla fregata Madagascar. In Grecia fanno scalo a Nauplie (definita miserabile borgata), laddove la figlia Giulia si ammala, come altre volte spesso le accade. Il 19 agosto è al Pireo, quindi Atene e Rodi per arrivare il 6 settembre a Beyrouth, dove la signora Marianna resta a fianco della figlioletta che si è ristabilita, ma solo apparentemente. Lui, Alfonso, a capo di una carovana con diciotto cavalli si mette in viaggio per Nazareth e Gerusalemme. Di poi il giorno venti ottobre, giunge ad Haifa. Ha così visitato molti luoghi sacri percorsi da Gesù Cristo secoli addietro. Queste conoscenze rievocano nella sua memoria gli stessi nomi e luoghi ascoltati nella prima infanzia dalla mamma Alice. Il cinque novembre potrà abbracciare la figlioletta alla quale regala una giumenta e potranno così cavalcare (passione a loro comune) entrambi felici; due settimane dopo (7 dicembre) la ragazzina morirà di “mal di petto” (tisi). I Lamartine restano senza figli! Si pensa allora di dare sepoltura a
Giulia nel convento dei Cappuccini, non potendo tornare in Francia in quanto la nave Alceste sarebbe salpata nella successiva primavera. Nel marzo seguente come da programma si riprende a viaggiare e si va verso Baalbek e Damasco; quest’ultima città gli riporta in mente la figura di San Paolo apostolo. Ritornati nell’attuale capitale del Libano, il poeta fa imbalsamare le spoglie mortali di sua figlia, che è imbarcata sulla nave Santa Sofia con destinazione Marsiglia. I viaggiatori francesi, ridotti ai Lamartine, a Ferdinando Capmas (vecchio viceprefetto) e signora più qualche domestico, riprendono il loro viaggio per Rodi, Smirne e Costantinopoli, mentre gli amici dottor Delaroière e Amedeo de Parseval preferiscono il ritorno con l’Alceste. Appresa la notizia della sua elezione a deputato di Bergues, il Lamartine si convince di darsi alla vita politica. Passeranno poi per la Bulgaria, la Jugoslavia, dove potrà osservare la cosidetta “torre dei crani”, con le mura recanti incastrati i teschi di 15 Serbi uccisi dal Pascià per essere stati fautori di una rivolta. Successivamente, via Vienna, Stoccarda, Strasburgo, si otterrà la meta finale del ritorno a Mâcon, sua terra natale; si saranno spesi più di quattromila franchi, per un viaggio, per certi aspetti da ritenersi disastroso. Si consola il poeta, nella sua nazione, per i buoni affari economci, perché vende per 100.000 franchi i suoi lavori Viaggio in Oriente e Jocelin ed ancora una riedizione delle sue opere complete per 24.000 franchi. Tiene inoltre per la prima volta alla Camera dei Deputati un forte discorso, che però non raccoglie molti applausi e qualcuno dirà: è un poeta, non un oratore! Siamo nel 1835, quando il fantasioso Alfonso forte della sua genialità creativa, nel pieno della sua formazione di uomo (e per certa inclinazione alla megalomania), s‘industria per un commercio di vino per gli Stati Uniti: l’affare si rivela un disastro! La sregolatezza nel gestire le proprie finanze, l’alto tenore
di vita che conduceva, l’inesperienza per gli affari, nel decennio successivo al viaggio in Oriente, lo porteranno a grossi debiti valutabili in più di un milione di franchi. Una volta scrivendo all’amico Dargaud esclamò: «Se non riesco a trovare denaro, debbo uscire dal territorio francese, rinunciare a tutto e vivere solo con i miei pensieri!» Nemmeno la sua attività editoriale, pubblicando il giornale “Il Bene Pubblico” (attraverso il quale si faceva pubblicità politica) riuscì ad aggiustare le proprie finanze. Sono in definitiva questi anni piuttosto bui, come non di rado capita nel cammino
della vita, ed il poeta è stanco nel fisico e nello spirito sia per la dolorosa e prematura scomparsa della figlia, sia per i postumi della malattia che l’ha colpito in Romania (creduto perfino morto). Ne risente in negativo anche la sua produzione letteraria, che palesa un notevole rallentamento. Non manca però, in questo lasso di tempo, la sua opera parlamentare, facendosi notare alla Camera durante la seduta straordinaria, per discutere la legge repressiva contro gli attentati, in conseguenza di quello avvenuto contro Luigi Filippo, da parte dell’anarchico genovese Fieschi, sostenendo da par-
te sua la libertà di stampa. Tra l’altro non gli fa difetto un calo di fede. Ma poiché, come si sostiene per tante esperienze, nelle vicende umane, a periodi “grigi” possono seguitare altri più felici, anche per il nostro, qualche tempo dopo, fugate tante amarezze, si schiuderanno anni sereni, cosparsi di soddisfazioni sociali, nonché di un piacevolissimo viaggio, ancora una volta nel Mezzogiorno d’Italia, sotto il cui bel cielo scrisse diverse opere. Domenico Di Spigna
I - continua
(Procida) - Quando il sole era al tramonto, facevamo lunghe camminate attraverso l’isola. La percorrevamo in tutti i sensi. Al centro compravamo il pane o i legumi che non si trovavano nel giardino di Andrea. Qualche volta portavamo anche un po’ di tabacco, questo oppio del marinaio, che lo rianima in mare e lo consola in terra. Rientravamo sul far della notte, con le tasche e le mani piene dei nostri modesti regali. La famiglia si riuniva, la sera, sul tetto che a Napoli si chiama astrico, per aspettare le ore del sonno. Nulla di così pittoresco, nelle belle notti di questo clima, che la scena dell’astrico al chiaro di luna. Nella campagna, la casa bassa e quadrata assomiglia a un piedistallo antico, che sostiene dei gruppi viventi e delle statue animate. Tutti gli abitanti della casa vi salgono, si muovono o si siedono in attitudini diverse; il chiarore della luna o i riflessi della lampada proiettano e disegnano questi profili sul fondo blu del firmamento. Si vede la vecchia madre che fila, il padre che fuma la sua pipa di terra cotta dal cannello di canna, i giovani appoggiare i gomiti sul parapetto e cantare con note lunghe e languide motivi marinareschi o campestri, il cui accento prolungato o vibrante ha qualcosa del lamento del legno torturato dalle onde o della vibrazione stridente della cicala al sole; le fanciulle infine, con vesti corte, i piedi nudi, le sopravvesti verdi e adornate di oro o di seta, i lunghi capelli neri ondeggianti, avvolti sulle spalle, in un fazzoletto annodato sulla nuca, a grossi nodi, per preservarli dalla polvere. Vi danzano spesso sole o con le loro sorelle: l’una tiene una chitarra, l’altra innalza sulla testa un tamburello con campanellini sonori. Questi due strumenti, l’uno querulo e leggero, l’altro monotono e pesante, si accordano meravigliosamente per rendere quasi senza arte le due note alternative del cuore dell’uomo: la tristezza e la gioia. Si sentono durante le notti d’estate su quasi tutti i tetti delle isole o della campagna di Napoli, anche sulle barche; quell’aereo concerto che insegue l’orecchio di sito in sito, dal mare fino alle montagne, somiglia al ronzio d’uno di quegli insetti che il caldo fa nascere e ronzare sotto questo bel cielo. Questo povero insetto, è l’uomo! Il quale canta alcuni giorni davanti a Dio la sua giovinezza e i suoi amori, e poi tace per l’eternità. Non ho mai potuto ascoltare queste note sparse nell’aria, dall’alto degli astrici, senza fermarmi e senza sentirmi il cuore perturbato, pronto a scoppiare per una gioia interiore o per una malinconia più forte di me (Lamartine - Graziella). (Procida) - Quand le soleil baissait, nous faisions de longues courses à travers l’île. Nous la traversions dans tous les sens. Nous allions à la ville acheter le pain ou les légumes qui manquaient au jardin d’Andréa. Quelquefois nous rapportions un peu de tabac, cet opium du marin, qui l’anime en mer et qui le console à terre. Nous rentrions à la nuit tombante, les poches et les mains pleines de nos modestes munificences. La famille se rassemblait, le soir, sur le toit qu’on appelle à Naples l’astrico, pour attendre les heures du sommeil. Rien de si pittoresque, dans les belles nuits de ce climat, que la scène de l’astrico au clair de la lune. A la campagne, la maison basse et carrée ressemble à un piédestal antique, qui porte des groupes vivants et des statues animées. Tous les habitants de la maison y montent, s’y meuvent ou s’y assoient dans des attitudes diverses; la clarté de la lune ou les lueurs de la lampe projettent et dessinent ces profils sur le fond bleu du firmament. On y voit la vieille mère filer, le père fumer sa pipe de terre cuite à la tige de roseau, les jeunes garçons s’accouder sur le rebord et chanter en longues notes traînantes ces airs marins ou champêtres dont l’accent prolongé ou vibrant a quelque chose de la plainte du bois torturé par les vagues ou de la vibration stridente de la cigale au soleil; les jeunes filles enfin, avec leurs robes courtes, les pieds nus, leurs soubrevestes vertes et galonnées d’or ou de soie, et leurs longs cheveux noirs flottants sur leurs épaules, enveloppés d’un mouchoir noué sur la nuque, à gros noeuds, pour préserver leur chevelure de la poussière. Elles y dansent souvent seules ou avec leurs soeurs; l’une tient une guitare, l’autre élève sur sa tête un tambour de basque entouré de sonnettes de cuivre. Ces deux instruments, l’un plaintif et léger, l’autre monotone et sourd, s’accordent merveilleusement pour rendre presque sans art les deux notes alternatives du coeur de l’homme: la tristesse et la joie. On les entend pendant les nuits d’été sur presque tous les toits des îles ou de la campagne de Naples, même sur les barques; ce concert aérien, qui poursuit l’oreille de site en site, depuis la mer jusqu’aux montagnes, ressemble aux bourdonnements d’un insecte de plus, que la chaleur fait naître et bourdonner sous ce beau ciel. Ce pauvre insecte, c’est l’homme! qui chante quelques jours devant Dieu sa jeunesse et ses amours, et puis qui se tait pour l’éternité. Je n’ai jamais pu entendre ces notes répandues dans l’air, du haut des astricos, sans m’arrêter et sans me sentir le coeur serré, prêt à éclater de joie intérieure ou de mélancolie plus forte que moi. (Lamartine - Les Confidences - Graziella)
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Ischia Ponte - Borgo di Celsa - Lo Scuopolo - Torri e altre ricerche... (II) *
Torre del Pontano e Torre dei Parlamentari di Vincenzo Belli
Il tentativo di localizzare la Torre dell’umanista, poco lontano e ad occidente del Borgo di mare, è stato condotto sulla base di quello dell’antica sorgente che si trovava in pomario Ioviani Pontani. Premettendo che l’intervento di restauro nella zona di Ischia dove sorse l’abitazione del Pontano, da parte di Costanza Caracciolo d’Aragona, sposa di Alfonso d’Avalos, dei signori di Ceppaloni, deve collocarsi a cavallo e nella seconda metà del 16° secolo, cioè il tempo che vide l’opera dello Iasolino con l’acclusa carta dell’ing. Mario Cartaro, quanto ai luoghi dove abitò l’umanista è certamente testimoniato da queste due opere, apparse congiuntamente nel 1586. Sulla scorta delle indagini compiute sui d’Avalos signori di Ceppaloni, nell’ancora infruttuosa ricerca di notizie soddisfacenti sul Muzio che fu secondo marito di Beatrice della Quadra, la genealogia di questo ramo dei d’Avalos è molto migliorata; non altrettanto completa è, specie sotto il profilo cronologico, quella dei Caracciolo, signori di Pisciotta, dalla quale proviene Costanza, sposa di Alfonso d’Avalos dei signori di Ceppaloni. Come noto, Costanza è legata alle proprietà del Pontano, a lei pervenute probabilmente tramite il marito.
La villa del Pontano
dove c’era anche un’acqua minerale citata da Iasolino nel De’ Rimedi naturali e chiamata Balneum in pomario Ioviani Pontani (il bagno che si trova nel giardino del Pontano): «tra la città d’Ischia e il famoso Giardino, con quel sì grande e bellissimo cenacolo del dottissimo e singolar Pontano, presso una casa antica, ora riedificata…». Il d’Aloisio nell’Infermo istruito (1757) colloca il bagno «nelle pertinenze del Borgo di Celsa», ed inoltre aggiunge in merito alla sua scaturigine che «essa non possa in tutto verificarsi con quella che io dovrei qui riferire di quell’acque, che a giorni nostri similmente da tutti vengono chiamate l’acque del Pontano. E siccome non mi viene fatto di rincontrare quelle più precise e rimarchevoli circostanze, colle quali il suddetto autore descrisse e determinò non meno la situazione del luogo, che le qualità di quella sua acqua, quindi è che non senza ragione appresso di me resta il dubbio, se veramente le acque, che al giorno d’oggi con un tal nome vengono chiamate, siano quelle stesse che dallo stesso Giasolini con un tal nome furono allora descritte ed indicate; conciosiacosacché scaturiscono queste in quella parte del nominato Borgo di Celsa, che vien detto Casalauro, ed appunto nel finire, che fa sotto alle Cremate un orto ad uso d’erbaggi per vivande, sopra cui dalla parte d’Occi-
Nonostante che sull’edificio si siano trovate pochissime notizie, indirette, è su di esso che convergono le presenti attenzioni, per una Torre ad esso connessa secondo le indicazioni grafiche del Cartaro, alla quale come distintiva si è qui dato il nome dell’umanista. Come noto, le scarne informazioni sono talmente intrecciate con quelle relative alla sorgente che è praticamente impossibile non dedurle da queste. Premesso dunque che si stima molto difficile riuscire ad avere puntuali riferimenti sull’edificio, si raccolgono tuttavia le poche indicazioni rinvenute, nella speranza che possano costituire il punto di partenza per più soddisfacenti acquisizioni. Leggiamo innanzitutto il seguente brano: «… Giovanni Pontano possedeva anche una casa presso l’attuale convento di Sant’Antonio in Ischia Ponte, * La prima parte sull’argomento è stata pubblicata nel n. 2 / Marzo-aprile 2012.
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Particolare della Carta del Cartaro con l’indicazione del bagno del celebre umanista Giovanni Pontano: Baln. in pomario...
dente, pochi passi discosto ancor s’osservano le reliquie del gran Cenacolo del celebre Pontano. Del resto cosa certa è che nel fine del secolo scorso, ivi a caso si rinvenne la presente sorgiva che del Pontano si chiama….1». Le perplessità del D’Aloisio se ciò che veniva ai suoi tempi (1757) chiamato acqua del Pontano fosse la stessa acqua così indicata dallo Iasolino sono da tenersi ben presenti, anche se allora dalla parte d’Occidente, pochi passi discosto si individuavano ancora i resti del cenacolo: è bene rilevare che la localizzazione che il D’Aloisio fornisce è quella che sin dal 1817-19 si ritrova nelle carte, cioè a Casalauro, immediatamente ad oriente della colata dell’Arso; interessante è anche la precisazione che i resti del cenacolo erano nella parte occidentale dell’orto ad uso d’erbaggi per vivande, e quindi ancor più vicine al lembo orientale della colata dell’Arso. Altra analoga indicazione e conferma, relativamente moderna, si ricava dalla lettura di un lavoro di Francesco De Siano (1789): «… le lave delle cremate… formano un grande spettacolo di massi grandi e piccoli in uno spazio di circa un miglio e mezzo di circuito fin sul littorale a ponente della città. Questa parte dell’isola fu vulcanizzata nel 1301…. siccome riferisce il Pontano, il quale avea una villa con un casino nel lembo di levante delle suddette lave…2» Come si vede, confrontando queste indicazioni con le antiche, è difficile farsi un’idea precisa di questa costruzione e della sua effettiva posizione: predomina l’indicazione di una villa, con cenacolo e/o casino, e, per la posizione, un generico a levante / lembo di levante della colata dell’Arso, e come sottolineato con il D’Aloisio in quella parte del nominato Borgo di Celsa, che vien detto Casalauro, ed appunto nel finire, che fa sotto alle Cremate… Sarà bene ricordare quanto sopra, nell’esame delle carte moderne, dal 1818-19 al 1997.
Le sorgenti
Oltre a quanto detto, per il bagno detto del Pontano non si va molto oltre a quanto ne dice lo Iasolino del bagno che è nel giardino del Pontano: «Tra la Città d’Ischia, e il famoso giardino, con quel sì grande e bellissimo cenacolo del dottissimo, e singolar Pontano, quasi un terzo di miglio, presso una casa antica, ora riedificata, e rinnovata dalla Signora Donna Costanza Caracciolo, Signora di singolar virtù, che fu moglie al Sig. Alfonso d’Avalo, che n’è padrona, dove copiosamente, a guisa di profonda lacuna, costruita, e ac1 Raffaele Castagna, Ischia nella tradizione greca e latina, Imagaenara Edizioni Ischia, 2003, pp. 104/105 - Il libro del D’Aloisio è del 1757, ed il rinvenimento della sorgente del 1695. 2 Francesco De Siano – Brevi e succinte notizie di storia naturale e civile dell’isola d’Ischia del dottor fisico Francesco De Siano per servir di guida, e comodo ai viaggiatori, ed a quelli che debbono far uso delle acque, e fumarole di detta isola, p. 17, Napoli, 1789. Ristampa a cura de La Rassegna d’Ischia, 1994.
comodata tra certi vecchi pareti, una certa acqua sorger si vede…». Si osservi che, non essendo individuabile l’inizio del segmento lungo quasi un terzo di miglio, questa misura non riesce di gran conforto; tralasciando la parte che tratta dell’acqua e delle sue applicazioni, si trovano indicazioni non risolutive sulla sorgente, poiché essa non appare essere nel Pomario come indicato dal Cartaro, ma situata tra la Città d’Ischia e il famoso giardino… presso una casa antica, ora riedificata e rinnovata dalla Signora Donna Costanza Caracciolo, anche se il presso lascia ampie possibilità di ubicazione; anche quel a guisa di profonda lacuna, costruita, non naturale cioè, pone qualche interrogativo, non per il profonda, ma per la voce lacuna, che dovrebbe indicare una certa sua estensione. Una risposta indiretta sembra provenire dal brano seguente che attribuisce l’acqua all’umanista per la sua fama, in luogo della indicazione popolare che la individuava come l’acqua del Capone: «Nel territorio del Comune di Ischia esistono anche le sorgenti del Pontano e di Cartaromana. La prima, già denominata acqua del Capone, assunse in seguito questa nuova denominazione in omaggio al letterato napoletano Giovanni Gioviano Pontano anche in considerazione del fatto che sgorgava quasi nel giardino annesso alla sua abitazione. Le sue acque, chiare, trasparenti, senza odore, offrono un leggero gusto salino e raggiungono la temperatura di 18° C. Le sostanze in esse contenute comunicano loro notevoli proprietà dissolventi, temperanti e risolutive. Nell’antichità erano utilizzate non solo per bagni e docce ma anche come bevanda, talora mescolata a vino3». Da non confondersi con quella del Cappone che il De Siano pone in territorio di Casamicciola, dicendo: «… si è da me scoverta mirabile l’acqua del Cappone, situata allato a Gurgitello …4», con la distinzione che sta tutta nella doppia p in luogo della semplice. Si noti che nel brano su riportato l’acqua è detta sgorgare quasi nel giardino del Pontano e non in esso, e combinando questa precisazione con la precedente Tra la Città d’Ischia, e il famoso giardino, si conclude che la sorgente si trovava ad oriente del pomario, e prossima ad esso. È da notare come questa deduzione sia l’opposta della precedente sulla costruzione: quella sulla costruzione la pone al lembo orientale della colata lavica; questa pone la sorgente ad oriente del pomario. È da notare che la Delizia indica in 18°C la temperatura di questa acqua, il che contrasta nettamente con quanto se ne disse fin dal 1586: « …L’acqua è alquanto tiepida, dolce e chiara, ma di colore di ferro, e viene mescolata con acqua dolce, che scaturisce quivi dentro…», precisando poco dopo perché l’acqua possa essere «chiara, ma di color di ferro»; 3 Ilia Delizia - Ischia l’identità negata, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 1987. 4 Francesco De Siano, op. cit., p.31.
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La Pineta Villari, anche Pineta Mirtina, in una satellitare da Google Earth, con poche didascalie
Un ulteriore contributo, che sembra migliorare la situazione, è dovuto al d’Ascia: «(L’acqua del Pontano) Sorgea in un giardino a sinistra della strada che da Ischia (comune) mena all’Arso. La moglie di D. Alfonso d’Avalos dei Marchesi del Vasto per nome D.a Costanza Caracciolo riedificò una casa antica ove l’acqua scaturiva, che chiuse in un recinto, ove la tradizione volea che anticamente stava la villa del famoso Pontano. Quest’acqua raccoglievasi nel 1835 da un pozzo quadrato di 14 palmi antichi e 22 profondo. Negli antichi tempi chiamavasi l’acqua di Capone, e credesi dacché la volta della sorgente era adornata in un grosso capo umano di creta….6». Su una aerofotogrammetria sono state evidenziate la Chiesa di S. Antonio e nel cerchio l’area in cui dovrebbe trovarsi la sorgente dell’acqua detta di Pontano.
«... Tiene questo bagno poco loto color di ferro inclinante al nero… alquanto odor di solfo….», cioè il sedimento che si raccoglie al fondo della vasca è nero, mentre l’acqua è chiara5. 5 Giulio Iasolino, De’ rimedi naturali che sono nell’isola di Pithecusa hoggi detta Ischia, ristampa Imagaenaria, 2000.
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Questo brano presenta alcuni elementi importanti che sono, sia il recinto, che appare nella carta del 1586, e che il d’Ascia attribuisce a Costanza, sia le dimensioni, grandi per un pozzo7, ma che è difficile accostare alla lacuna del medico calabrese; l’affermazione che le acque del 6 Giuseppe d’Ascia, Storia dell’isola d’Ischia (1861), ristampa Analisi Trend, 1998, p. 49. 7 Ricordando che 1 palmo antico, napoletano, è pari a 0,2646 m, le dimensioni del pozzo sono: bocca di 3,7x3,7 m, e profondità di 5,8 m.
Pontano si raccogliessero nel 1835 nel pozzo fa pensare, potendosi voler dire che prima le cose non stessero così. Prima di cercare di cercare di trarre delle conclusioni sul materiale raccolto sotto le etichette dell’uomo, della sua dimora, e dell’acqua della sorgente, riporto un ulteriore brano tratto dall’opera di De Rivaz8, per mostrare come al rigore delle etichette possa corrispondere un contenuto completamente insufficiente a validarle: «(Acqua di Pontano - Topografia della sorgente) L’acqua di questo nome sorge in un giardino, situato a sinistra della grande strada che conduce dalla Città d’Ischia all’Arso, e faceva parte un tempo della casa di campagna che il celebre Pontano possedeva in questa località. Essa si trova al fondo di un pozzo quadrato, largo 14 palmi e profondo 22….Mentre il geologo medita, visitando questi luoghi… il filosofo … non può impedirsi di provare una certa emozione alla vista dei resti dell’umile dimora del segretario di Ferdinando I….». Con buona pace del De Rivaz non si può non meditare sul fatto che, dopo aver riconosciuto che il d’Ascia9 ne tragga descrizione e misure del pozzo, qualsiasi punto sito alla sinistra della via potrebbe essere quello della Topografia…; sole aggiunte, anche se di una altrettanto deprimente genericità, porterebbero a ridurre la villa del Pontano col suo celebratissimo Cenacolo a livello di casa di campagna ed umile dimora. Data la consistenza dell’esposizione sono portato a dubitare che il medico abbia visto le rovine della casa del Pontano, anche se per la precisione delle misure del pozzo – coincidenti con quelle riportate dal posteriore d’Ascia - il dubbio riguarda solo l’esecutore del suo rilievo. Anche Venanzio Marone10, parla di una villa, accreditandola però di un deliziosa: «(Acqua del Pontano) Quest’acqua sorge in un pozzo nella parte meridionale della pubblica strada, poco lungi della piazza d’Ischia, un tempo esistente in una deliziosa villa del famoso medico Pontano, da cui ne deriva il nome…..». Si osservi che la parte meridionale della pubblica strada pone il pozzo alla sinistra di essa, concordemente agli altri autori, mentre il Cartaro pone pomario e balneum a settentrione di essa, cioè a destra della via. Un ulteriore e migliore contributo, per la situazione odierna, viene da una recente guida del TCI (Touring Club Italiano – Guida d’Italia Napoli e dintorni, Milano (2001)), nella quale si legge a pag. 439: «… L’antico percorso 8 De Rivaz Chevalley J. E. – Descrizione delle acque minerotermali e delle stufe dell’isola d’Ischia – traduzione di N. Luongo, Lacco Ameno, La Rassegna d’Ischia ed., 1999. 9 Il lavoro del medico De Eivaz vide la luce nel 1837, mentre quello dello storico foriano è del 1867. 10 Marone Venanzio, Memoria contenente un breve ragguaglio dell’isola d’Ischia e delle acque minerali, arene termali e stufe vaporose, che vi scaturiscono colle loro proprietà fisiche, chimiche e medicinali da servire di norma a coloro che ne debbono far uso, Napoli, Tipografia di Gennaro Agnelli, 1847. Ristampa a cura di Raffaele Castagna, prefazione di Giovanni Castagna. Edizione La Rassegna d’Ischia, giugno 1996.
prosegue affiancato da case ottocentesche, e raggiunto il piano, la strada prosegue col nome di via Pontano, cosiddetta dalla sorgente che si vuole sgorgasse nel giardino del grande umanista e ancora zampillante nella villa Villari. A sinistra si apre la bella Spiaggia dei Pescatori….». Il che produce i seguenti pensieri e verifiche: - Villa Villari si trova in Via Pontano, alla sinistra andando verso Porto; - nella zona vi è un ampio parco, chiamato spesso pineta Villari, cintato; - la sorgente è detta essere nella Villa.
Le tre acque della zona
A questo punto va sottolineato che abbiamo ipotizzato, per superare le difficoltà scaturite dalle numerose indicazioni, che siano emerse almeno tre acque nella zona: - la Pontano qui indicata come antica, che sarebbe quella dello Iasolino, cioè il balneum del Cartaro; questa acqua è tiepida, e raccolta a guisa di profonda lacuna, costruita, e accomodata tra certi vecchi pareti; - la Pontano detta moderna, che è quella che il D’Aloisio non riesce ad accettare, se non con riserva, come quella dell’umanista; nota come acqua del Capone, che è in un pozzo quadrato ed è calda; - quella della Villa Villari, che si trova nella vicina pineta omonima, ed è fresca, a 18°C, e che è nota come acqua Mirtina. È opportuno aggiungere che le sorgenti di queste tre acque si trovano ordinate procedendo da oriente verso occidente, cioè dai confini del Borgo nel 1614-7411, ossia dalla Sienia, fino a giungere alla Mandra. Si riesamini l’intera zona su descritta, facendo riferimento alla nota Guida del Cervera12. «… Via Pontano … con la Villa Villari (che ospitò nel 1896 Guglielmo Hohenzollern….). Nella villa Villari v’è l’acqua famosa del Pontano o del Capone». « Fra la città d’ Ischia, e il famoso giardino, con quel grande e bel palazzo del Fontano, presso la casa antica, riedificata e rinnovata da Donna Costanza Caracciolo. Ivi copiosamente, a guisa di profonda laguna, però costruita, si vede sorgere un’acqua di cui le donne del luogo, come di un pozzo comune, attingono per il bucato e talvolta per bere. Tiepida, dolce, chiara» (Jasolino). Di questa sorgente si perdette la memoria. Nel 1695 fu per caso scoperta una sorgente che i dotti di allora, al dir di D’Aloisio, stimarono per quella del Pontano, sebbene a suo avviso, non calzasse con quella descritta da Jasolino. De Rivaz la determina nel giardino del Pontano in un pozzo a 22 palmi di profondità e largo 14, dicendo che il volgo la chiamava l’acqua del Capone… Un pozzo con acqua detta pure del Pontano si trova nel 11 Date delle due carte del Di Bartolomeo e del Naucherio, già riportate nel n. 2 de La Rassegna d’Ischia. 12 Cervera G. G. - Guida completa dell’isola d’Ischia, Ischia, Edizioni Di Meglio, Arti Grafiche D. Amodio (Napoli), 1959, pp. 86/87 e 89.
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campo omonimo all’ inizio della Via A. Sogliuzzo dal lato del mare, oltre il muro della provinciale. A destra, dopo la Villa Villari si trova: Salita S. Antonio, che pure esce sulla provinciale e contiene la chiesa e Convento di S. Antonio o di S. M. delle Grazie…» «… Su Via Pontano, subito dopo la salita S. Antonio, v’è il Palazzo D’Avanzo, ex palazzo di Cristofaro Mazzella.13 Tra la salita e il palazzo, un ronco mette alla Sorgente di acqua Mirtina, un tempo contornata di mirti. Si noti che dei due palazzi citati dal Cervera, Villa Villari e il Palazzo D’Avanzo, il secondo si trova ad occidente rispetto alla chiesa di S. Antonio. Egli attribuisce, sulla scorta di quanto dice il De Rivaz, doppio nome a quella che si trova nella Villa Villari affermando che Nella villa Villari v’è l’acqua famosa del Pontano o del Capone, ma afferma anche che Un pozzo con acqua detta pure del Pontano si trova nel campo omonimo all’inizio della Via A. Sogliuzzo dal lato del mare, oltre il muro della provinciale. La temperatura di quest’acqua è secondo il De Rivaz di 27° Reamur ovvero di 33,75°C, senza odore, e offre un leggero gusto salino, mentre quella che ha descritto lo Iasolino è in luogo che odorava di zolfo. La solita precisione del Cervera impedisce di cercare di distinguere fra le due vie Sogliuzzo Antonio, e Francesco, e consente di posizionare l’acqua detta pur del Pontano, subito dopo la Sienia, ove lasciata via Seminario, la via prosegue con via Antonio Sogliuzzo, mentre al bivio sulla destra, cioè dal lato del mare, inizia la via Pontano. Ebbene, secondo la nostra lettura dei documenti, questa è l’acqua antica; quella di Villa Villari è la moderna, citata dal 1695, e causa di incertezze nel D’Aloisio; infine, nella Pineta Villari, vi è l’acqua mirtina. L’acqua indicata dal Visconti nella carta redatta su rilievi del 1817-19, potrebbe essere sia la seconda, sia la terza di questo elenco. Entrambe le acque dette del Pontano sono tiepide: la seconda delle due, quella scoperta nel 1695, e citata dal perplesso D’Aloisio e dal De Rivaz, ha temperature di 33° e 33,75 e 36°C, a seconda delle fonti; la mirtina è fresca, a 18°C.
Considerazioni finali
Raccogliendo le idee e dato dunque per confermato che lo spazio recintato della rappresentazione cartografica del Cartaro è quello nel quale, o assai prossimo ad esso, era il Balneum, occorre riverificarne l’effettiva posizione per confrontarla con quella delle descrizioni riportate, tenuto conto dell’ordine effettuato per le acque della zona che va dalla Sienia alla Mandra. A questo scopo occorre annotare che il Convento dei Francescani, noto come S. Antonio sarebbe una modifica 13 Cristoforo Mazzella fu sindaco d’Ischia nei primi anni dell’800; di lui parla Onofrio Buonocore in La diocesi d’Ischia dall’origine ad oggi, Napoli, Rispoli Editore, pp.165, 1948.
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o riedificazione, non necessariamente nello stesso preciso luogo, di un’antica cappella dedicata alla Madonna delle Grazie, è bene dunque tornare alle posizioni delle località e strutture indicate nella carta del 1586: disposte per parallelo, ed orientate da oriente verso occidente, ossia da sinistra a destra della carta¸ essendo il nord in basso in questa descrizione: - il tratto di muro di cinta, immediatamente dopo dell’attuale via G. Vico; - il Duo Balneum saxorum con la Torre di Don Orazio; - il Balneum in pomario Ioviani Pontani, nello spazio recintato; - il Templum Divae Mariae Gratiarum, ovvero la cappella di tal nome; - il Molino; - la colata dell’Arso; - il Promontorium Arenae; il che pone la casa del Pontano fra la Torre del Tuttavilla e la Cappella, e cioè, con riferimenti moderni più immediati, fra Palazzo Malcovati e S. Antonio, il che confrontando con una carta moderna porterebbe ad individuarne la zona come prossima a quella della Sienia che è quella che rispetta meglio i riferimenti posizionali annotati su questa base cartografica, mentre le descrizioni successive avvicinano la zona a S. Antonio. Per completezza e riflessioni conseguenti si considerino anche gli elementi cronologici seguenti: - Giovanni Pontano (Cerreto di Spoleto 7 maggio 1429 - Napoli 17 settembre 1503); - Costanza Caracciolo D’Avalos (Le notizie su questa nobildonna sono molte e frammentarie, ma non ho ancora trovato date certissime di nascita e morte; le date che la legano al marito si concentrano intorno al 154114, quando il Pontano era già morto da 38 anni: pertanto Costanza avrebbe operato nella zona in cui era la casa dell’umanista ed uomo politico dopo di lui, e le opere di recinzione comprenderebbero l’intera zona e non la sola sorgente, come diversi brani riportati potrebbero anche far intendere; del resto lo Iasolino parlando dell’opera della nobildonna la data con un ora riedificata il che colloca il fatto almeno nella seconda metà del 1500).
- documento del Cartaro (1586); - Torre di Don Orazio (< 1586); - Cappella di S. M. delle Grazie (imprecisato, ma prima dell’eruzione dell’Arso (1301)); - Chiesa dello Spirito Santo e campanile (la cappella …; il campanile è del 1613-14). Questo porterebbe ad ipotizzare che anche la Torre, o 14 Nel sito www.sardimpex.com (ultima consultazione 8/07/06) si trova una sorta di albero genealogico che presenta Costanza Caracciolo d’Aragona sposa di Alfonso d’Avalos signore di Ceppaloni. Anche il sito della Proloco di Ceppaloni, http://www. prolococeppaloni.it/feudatari.htm, nel link Feudatari presenta nel 1541 il matrimonio di Costanza con Alfonso figlio di Roderico e Feliciana De Gregorio; dal matrimonio nascono Roderico e poi Antonio (ultima consultazione 8/07/06). Notizie molto incerte, se è vero che Alfonso sarebbe morto nel 1570 e che Costanza lo sarebbe nel 1541.
ciò che come tale viene raffigurato, a partire dal Cartaro, sarebbe dovuta a questa rielaborazione edilizia dell’intera zona, che risulta vicina alla chiesa di S. Antonio, lungo ed alla sinistra della via Pontano, ma più ad occidente di quella indicata nella cartografia che parte dalla rappresentazione del Cartaro: con la prima che si dovrebbe chiamare Pontano antica e la seconda dovuta alla relativamente moderna tradizione, e che conseguentemente si potrebbe chiamare Pontano moderna, e che potrebbe giustificare il raccoglievasi nel 1835, cioè che prima non era così. Sulla base di questa distinzione, il complesso delle informazioni porta ad individuare la zona della sorgente antica vicino a quella che oggi si indica come la Sienia: come conseguenza, la vicinanza delle due torri, quella del governatore e quella di Donna Costanza, nome quest’ultimo proposto come distintiva, in attesa di conferme o smentite, risulterebbe confermata.
Costanza Caracciolo d’Aragona L’interesse per questa nobildonna è conseguenza dei suoi interventi su quella che fu la dimora ischitana del Pontano, per tentare di datare queste opere di edilizia. A tal fine si è ricostruita la genealogia dei Caracciolo d’Aragona, partendo da un Alfonso scomparso nel 1516:15 Alfonso (+1516) = Maria d’Avellaneda (di antichissima casa spagnola) loro figlio è Baldassarre Caracciolo, Signore di Pisciotta ( + 10/1529) = Eleonora d’Aragona figli: - Pietro Antonio Caracciolo d’Aragona, Signore di Plaisano (+ 09/1546, dsp)16 (Plaesano (RC)) = Vincenza Spinelli; - Carlo Caracciolo d’Aragona, Signore di Pisciotta (+ post 1589); - Margherita Caracciolo d’Aragona (+ post 1/09/1518) = Bernabò Caracciolo 1° Duca di Sicignano; - Bona Caracciolo d’Aragona = Giovanni Bernardino Pandone dei conti di Venafro; - Giulia Caracciolo d’Aragona = Marcello di Gennaro, Patrizio napoletano; - Isabella Caracciolo d’Aragona = Scipione Sambiase Sanseverino, 1° Barone di San Donato (+20/01/1580); - Beatrice Caracciolo d’Aragona, monaca di Donnaregina; - Zenobia Caracciolo d’Aragona = Francesca (sic) di Somma17; 15 V. anche in Fabris F. – La genealogia della famiglia Caracciolo (già pubblicata nella 2a serie delle famiglie celebri italiane del Litta) riveduta ed aggiornata da Ambrogino Caracciolo, Napoli, [s.n.],1966). Tav. XXII per i Signori di Pisciotta, dedicata ai Caracciolo di Napoli. 16 I simboli e le sigle usati sono i soliti: * per la nascita; + per la morte; = per matrimonio con; dsp (decessit sine prole), indica la mancanza di discendenti. 17 Così in Fabris F. – La genealogia op. it., onde o Zenobia è
- Costanza Caracciolo d’Aragona = Alfonso d’AvalosS (*? + 28/10/1570) signore di Ceppaluni figlio di Roderico e Feliciana de Gregorio. Costanza dunque è l’ultima dei nove figli (2 maschi e 7 femmine) della coppia; di lei è confermato il matrimonio, ma non la data, e, cosa del resto comune in Fabris18, per le consorti, mancano data di nascita e morte; come visto: Costanza Caracciolo d’Aragona sposa Alfonso d’Avalos (*? + 28/10/1570) signore di, da questo matrimonio nascono: Roderico, Pietro, Antonio, Daria, ed altri non noti. Come si vede la presenza dei d’Avalos del ramo di Ceppaloni nell’isola d’Ischia nel 6° secolo è confermata: oltre al Roderico castellano o vice castellano dell’isola, al Muzio secondo marito di Beatrice della Quadra, anche Costanza nuora di Roderico, e madre dell’ultimo di questo nome del ramo di Ceppaloni, è qui, ed interviene in prima persona in opere di riattamento di quella che fu la villa del Pontano.
Il miglio L’unica indicazione numerica sulla posizione della sorgente del Pontano è, come noto, quella che fornisce lo Iasolino che, a parte l’incertezza dell’inizio del percorso, induce anche a riflettere sull’unità di misura. Si tenga presente che un miglio italico [è] eguale alla 60a parte del grado, cioè al miglio geografico...: miglio italico = 5000 piedi = 1000 passi = 1|60 di grado. ... Questi criteri consistevano nell’ identificare il miglio italico… col miglio romano antico, il cui valore assoluto è metri 1480 circa…19 che corrisponde a 8/10 del miglio marino di 1852 m. Così in Fabris (p. XVI): … gli antichi misuravano miglia 75 a grado di latitudine, e per conseguenza una quinta parte di più della nostra odierna misura, ossia di miglia 60 a grado. Da questa teoria risulta, che il miglio antico era di un quinto più corto dell’ odierno italico, e perciò invece di mille passi odierni, doveva equivalere a’ nostri 800 passi, siccome i mille passi del miglio attuale equivalgono ad un miglio, e 200 passi dell’antico. Per ridurre questo calcolo a minimi termini si può dire, che il miglio antico è eguale a 4/5 dell’odierno, siccome l’odierno a miglia 1 ¼ dell’antico, sicché dieci miglia antiche formavano otto delle miglia moderne italiane, e viceversa otto moderne equivalgono a dieci miglia antiche20. Dunque 1/3 di miglio risulterebbe pari a 1478,5/3 = 492, 8 m. Occorre ora ricordare nuovamente che: «Tra la Città d’Ischia, e il famoso giardino, con quel Zenobio, o Francesca è Francesco. 18 Fabris F., La genealogia della famiglia Caracciolo, Napoli 1966. 19 Veramente il miglio romano è di 1000 passi, col passo di 1,4785 m. 20 Romanelli D. – Antica Topografia Istorica del Regno di Napoli – parte prima, napoli, Stamperia reale, 1815.
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sì grande e bellissimo cenacolo del dottissimo, e singolar Pontano, quasi un terzo di miglio, presso una casa antica, ora riedificata, e rinnovata dalla Signora Donna Costanza Caracciola, Signora di singolar virtù, che fu moglie al Sig. Alfonso d’Avalo, che n’è padrona, dove copiosamente, a guisa di profonda lacuna, costruita, e accomodata tra certi vecchi pareti, una certa acqua sorger si vede…21». Se dunque un terzo di miglio corrisponde a circa 493 m, grosso modo a questa distanza, misurata dalla Città d’Ischia, e partendo dunque dalla porta sul ponte, seguendo la via, i 493 m portano a Via Stradone; mentre se si parte dalla porta del Borgo, seguendo le odierne via Seminario e Antonio Sogliuzzo, si arriva a circa 170 m dalla Pineta Mirtina, all’intersezione fra via Sogliuzzo e Via Mirabella: più o meno dove Cervera pone: «…. Un pozzo con acqua detta pure del Pontano [che] si trova nel campo omonimo all’ inizio della via Sogliuzzo dal lato del mare, oltre il muro della provinciale….22». Resta dunque una certa incertezza, dovuta essenzialmente alla non sicura individuazione del punto dal quale misurare il terzo di miglio dello Iasolino, da posizionare fra lo Stradone e la suddetta intersezione23. Per quanto concerne l’intervento di Costanza, essendo il marito morto nel 1570, e supponendo che esso avvenga 21 Giulio Iasolino. De Rimedi naturali.. op, cit., p. 252. 22 G. G. Cervera, op. cit., pp. 86/87. 23 Notare che il miglio della carta del Cartaro misurato dalla porta del Borgo giunge al lembo orientale dell’Arso, ma se il cercino si pone al primo arco del ponte (v. Niola Dora Buchner), allora ci si trova appena fuori della porta.
dopo questa data, ma prima dell’incisione della carta del Cartaro, è nei 16 anni fra il 1570 ed il 1586 che si deve porre l’opera di Costanza.
La Torre Sulla Torre non si hanno notizie di sorta: salvo diversa indicazione, oltre a quella sulla ubicazione relativamente certa, si riterrà debba trattarsi di una costruzione adatta a qualche forma di difesa, altezza compresa, migliorata dalla recinzione della zona, il pomario, ad occidente del Borgo di Mare. Sulla scorta della carta dell’ingegnere Mario Cartaro, l’edificio sembra a pianta circolare, con scarpa, ad un solo piano, con cordolo e coronamento, pur potendo il tutto essere una rappresentazione di maniera. Comunque, nella seconda metà del 16° secolo, nei circa 700 m che vanno dalla radice del Ponte a Villa Villari, si trovavano allineate, procedendo da levante verso ponente: - l’ex Torre di MARE, come campanile della chiesa degli agostiniani; - la Torre di Don Orazio Tuttavilla e la torre ad essa congionta; - la Torre del Pontano; con l’ultima relativamente lontana dal Borgo, a testimoniare la tendenza di questo ad estendersi verso i Bagni.
*
Torre dei Parlamentari
Al gomito, dal lato di levante della via che attraversa quello che fu prima il Borgo di Mare e dopo il Borgo di Celsa, oggi via Luigi Mazzella, appena lasciato sulla propria sinistra la Cattedrale, si apre un bivio: a sinistra prosegue la stessa via Mazzella, a destra la via Giovanni da Procida; fra di esse si erge un palazzotto a tre piani, sormontato da un frontone ornamentale, con un orologio nel centro. Detto edificio è chiamato comunemente Torre dell’Orologio, ma anche da alcuni Torre dei Parlamentari. Poco si sa delle sue origini e della prima parte della sua vita; le notizie divengono più concrete e numerose a partire dalla seconda metà del 1700. Quanto si è potuto raccogliere, è presentato nei paragrafi seguenti.
Cenni storici e piante della zona
Più che di cenni storici, visto che poco si sa della storia di questo edificio, ci si soffermerà su alcune date della sua vita, traendole dalle poche fonti documentarie citate e da qualche indicazione proveniente dalla rete. 30
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- 1730 - «Questi Parlamenti Generali si tennero fino al 1730 nella Torre del Borgo; lesionatasi, si riunivano in un cortile di un palazzo magnatizio, sia di Linfreschi, sia di Siniscalchi in mezzo a quella piazza, poi si passò a tenersi in casa verso il 1750… 1». - 1759 - «L’attuale conformazione del palazzo, comunemente denominato “Palazzo dell’Orologio”, risale al 1759. In questi anni i Decurioni (Parlamentari delle “Università, gli attuali Comuni), ristrutturavano la “Torre”, con strutture quali la Sala Consiliare, i vari uffici, adibendo il piano terra a carcere». - 1759 - «Sempre nel 1759, presso la torre fu collocata dall’Amministrazione una vasca di [pietra]». - 1898 – Nella pianta dell’ing. Paolo Sorrentino per un progetto di riordino dell’intero borgo, la torre è indicata come Municipio.
1 Giuseppe d’Ascia, Storia dell’isola d’Ischia, 1867; ristampa Forni Editore, Bologna, 1990, p.100.
- 1920 c. - «Verso gli anni ‘20, la sede municipale traslava nel Palazzo Mazzella». - 1959 - «Di fronte alla Cattedrale, il Centralino Telefonico. La strada ha di fronte l’antico palazzo comunale con l’orologio in cima. Oggi gli antichi uffici del Comune sono adibiti a Scuole Elementari. Al pianterreno l’Ufficio delle Poste e Telecomunicazioni2». - ?...1959-1967 - I locali della Torre finirono per essere adibiti ad aule di scuola elementare e lo sono stati fino al 1967. - dal 15 dicembre 1996 nei locali della torre ha sede il Museo del Mare. - Dal 2011 nei locali al pianterreno ha sede la Libreria Imagaenaria.
Le Piante
Per quanto concerne la zona, si dispone di una serie di 10 piante, di seguito richiamate, e distribuite nell’arco di ben 423 anni, di cui alcune sono state già riportate nel precedente n. 2 de La Rassegna d’Ischia: - 1586 - pianta dell’Isola del Cartaro; - 1616 - pianta di Dionisio di Bartolomeo; - 1674 - pianta di Loise Naucherio; - 1817-19 - pianta dell’Isola al 25000, del ROT; - 1890 - pianta dell’Isola al 10000, dell’IGM; - 1898 - mappa della zona dell’ing. Paolo Sorrentino, al 1000 n° 226; a queste si aggiungono: - 1958 - carta dell’Isola al 25000 dell’I.G.M. ; - 1997 - carta dell’Isola al 25000 dell’I.G.M. ; aerofotogrammetria attuale della zona, al 2000, foglio f_14.dwg; - mappa catastale al 2 000, F.12.
Vari aspetti della Torre dei Parlamentari in una vecchia cartolina e in una visione più moderna - Nel pianterreno, prima adibito ad Ufficio postale, è ora ubicata la Libreria Imagaenaria.
La rappresentazione del Cartaro non può, ovviamente, fornire alcuna indicazione, restringendo a 282 anni l’arco di tempo in cui si hanno informazioni grafiche utili. Nella pianta del 1616, alla destra della cattedrale, mentre si distingue il percorso della via che oggi si chiama Giovanni da Procida, un onnicomprensivo Case de’ particolari si trova dopo il largo a lato della chiesa, con didascalia distinta per quello prospiciente l’ingresso che è largo avanti la chiesa. Nella pianta del Naucherio (1674), invece, la situazione appare decisamente confrontabile con quella attuale, distinguendovi, - senza che si riesca a leggere la didascalia, corrispondente ad uno dei tanti 15 che vi figurano -, un edificio ove oggi è la torre. Si dovrebbe ipotizzare che la costruzione dell’edificio si collochi nei 58 anni fra il 1616 ed il 1674. Mentre non mi è nota la pianta scala 1: 2000 dell’ar2 G. G. Cervera, Guida completa dell’iola d’Ischia, Ed. Di Meglio, Ischia, 1959, pp. 118/19.
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chitetto Pasquale Granasoni (1867)3, la successiva, del 1898, non offre particolari motivi di interesse, salvo il trovarvi la Torre indicata come Municipio.
La scheda Sulla scorta degli analoghi documenti redatti un tempo per la Sovrintendenza, si è stesa la seguente scheda, largamente incompleta: Provincia e Comune: Napoli, Ischia. Luogo: Ischia, Via Giovanni da Procida, 3 - 80077 Oggetto: Torre dei Parlamentari Catasto: F 11 P.12 Cronologia: indicata al XVI secolo, ma più probabilmente con costruzione da collocarsi fra il 1616 ed il 1674 Autore: probabilmente l’Università Dest. originaria: Edificio pubblico Uso attuale: dal 1996, Museo del mare. Proprietà: comunale. Vincoli: Leggi di tutela P.R.G. e altri: s.n.n. 3 Ilia Delizia, L’antico borgo marinaro di Ischia Ponte in una pianta inedita del 1616, Napoli, Napoli nobilissima, vol. XIX, fasc. I-II, 1980. Nota 8 a pagina 61.
Tipologia edilizia – Caratteri costruttivi Pianta: rettangolare Coperture: piana a terrazzo Volte e solai: volte a padiglione, solaio piano Scale: scala a tre rampanti Tecniche murarie: muratura di pietrame di tufo e pietra lavica con intonaco dipinto Pavimenti: pavimentazione di cotto Decorazioni esterne: orologio, lapidi marmoree, finte pietre d’angolo in bugnato di muratura. Strutture sotterranee: s.n.n. Compilatore della Scheda: [A]
Conclusioni Poco si sa di questo edificio, la cui costruzione deve
porsi nel XVII secolo, e non nel XVI come comunemente viene scritto. Nonostante che le due piante del 1616 e 1674 avessero come obbiettivo principale le due chiese, sembra dal confronto fra di esse che la torre sorgesse nel mezzo di una teoria di abitazioni, che chiudeva il largo avanti la chiesa dal lato di levante e che una parte di queste fosse stata demolita per collocarvi l’edificio. Si stima che l’aspetto attuale differisca poco da quello che la torre prese dopo il restauro del 1759. Vincenzo Belli
Le lapidi Sul frontespizio del palazzo si possono leggere una lapide del XIX secolo che commemora la morte del Re Vittorio Emanuele II e quella più antica dettata dal barone Antonini per la fontana di pietra tiburtina che portava al Borgo l’acqua della fonte di Buceto. Per la morte immatura di Vittorio Emanuele II Restauratore dell’unità nazionale Fondatore della gran patria italiana Il consiglio municipale d’Ischia Addì 19 gennaio 1878 Decimo del giorno nefasto Delibera Concorrere ai monumenti di Roma e di Napoli Ritenere nel posto d’onore nella sala consiliare L’effige del primo re d’Italia Soccorrere gl’indigenti e porre una pietra La quale è troppo angusta a tanto uomo Ricordo più ampio e duraturo Che non qualunque marmo o bronzo Sarà L’Italia una libera indipendente Umberto I Erede e successore del re galantuomo Lo ha detto Le istituzioni non muoiono
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D .O. M. Aquam ex fonte Buceti Ad IV M.P. pubblico aere derivatam Labroque ex tiburtino lapide ornatam Et turri in qua concilia fierent adpositam Addito Horario Decuriones pithecusani Utendam fruendam civibus dederunt A. MDCCLVIIII (A Dio Ottimo Massimo - I decurioni ischitani diedero ai cittadini, perché ne usassero e godessero l’acqua derivata a pubbliche spese dalla sorgente di Buceto, al quarto miglio, ed ornata di una vasca di travertino e attaccata alla torre, ove si tenessero le adunanze - Ed aggiuntovi l’orologio- - L’anno 1759)
Colligite fragmenta, ne pereant
Fonti archivistiche per la storia dell’isola d’Ischia A cura di Agostino Di Lustro La Ecclesia seu Confrateria de Santa Maria de Loreto de Forio tra XVI e XVII secolo e altri fatti coevi
I luoghi sacri del territorio dell’Università di Fontana
Già conosciamo l’estensione territoriale da attribuire al toponimo Fontana fino al secolo XVII1; ora volgiamo la nostra attenzione agli edifici sacri ivi esistenti tra XVI e XVII secolo, dando un’occhiata, molto fugace, anche un poco oltre questo limite cronologico. Nel territorio dell’attuale comune di Serrara Fontana al tempo della Platea del vescovo Innico d’Avalos nel 1598, vi era una sola parrocchia: quella di «Santa Maria La Sacra, si possiede per Don Giovanni Domenico Mattra, contribuisce all’oglio del Santissimo Sacramento, vi è la messa letta et pesi della visita, rende tra grano et dinari ducati 60»2. Inoltre egli cita «la cappella di Santo Andrea, si possede per D. Bartolomeo Scotto, vi è peso di messe lette, rende l’anno ducati 13»3. Più avanti il vescovo ricorda «il beneficio di Santo Nicola jus patronato delli Millesi, si possede per Don Giovanni Antonio Zabatta, il dì ci si dice vespera, et messa cantata, rende ducati 10»4. Cita inoltre i seguenti benefici: «li benefici di Scignano, Santo Damiano, Noia, Lavigna, campagata, la Martofa et pezza piana, si possedono per Don Andrea Malfitano rende ducati 40; nel detto casale vi è il beneficio di Rofano, si possede per Don Giovanni Francesco Polverino rende ducati 21». Subito dopo questo beneficio, il vescovo scrive ancora: «Nel detto casale vi è il beneficio seu cappella di santo Rocco, la governano mastri laici, ci è la messa letta la festa, et il dì suo vespera et messa cantata, rende ducati 30»5. Abbiamo già osservato però che su S. Rocco è probabile che il vescovo d’Avalos sia incorso in un errore collocando a Fontana la chiesa di S. Rocco di Barano. «Infatti, oltre questo passo, non abbiamo altri riscontri sull’esistenza a Fontana di una chiesa dedicata a S. Rocco»6. Partiamo da S. Maria la Sacra di Fontana ed esaminiamone più da vicino le vicende alla luce della documentazione che fino a oggi sono riuscito a reperire e che non ancora conoscevo quando, negli anni 1972-73 pubblicai su Ischia oggi in diverse puntate un piccolo studio dal titolo: «Una lapide 1) Vedi in questa ricerca: A. Di Lustro, Consistenza numerica del clero a Serrara, Barano e Testaccio tra XVI e XVII secolo, in La Rassegna d’Ischia, anno XXXII n.6 novembre-dicembre 2011, pp. 42-47. 2) «Platea d’Avalos» del 1598 pubblicata da P. Lopez, Ischia e Pozzuoli due diocesi nell’età della controriforma, Adriano Gallina Editore, Napoli p. 213. 3) Ibidem, p. 217. 4) Ibidem, p. 219. 5) Ibidem, p. 218. 6) A. Di Lustro, op. cit. p. 42.
bugiarda e le origini della parrocchia di Fontana»7. Introduciamo il discorso, riportando la pagina dell’Onorato per poi distinguere le varie fasi della vicenda. Infatti il canonico arcidiacono della cattedrale d’Ischia dedica a questa chiesa ben tre pagine della sua opera manoscritta: f. 170 v. - Il comune di Fontana tiene una chiesa parrocchiale: essa è la più antica di tutta l’Isola, all’infuori dell’antica chiesa parrocchiale, ed indi cattedrale sistente nel Castello; e dell’antica chiesa parrocchiale sita nella falda di Campagnano sotto il titolo di San Vito: la detta chiesa parrocchiale essendo diventata diruta, e sotto il titolo dell’Assunta, il parroco è stato costretto ricercare un asilo dentro una chiesa di padronato della famiglia Mattera sotto il titolo di Sant’Antonio, ma senza dritto. L’antichissima parrocchia sotto il titolo di Santo Andrea, che si rese diruta, e profanata ne’ rimoti tempi ha perduta notizia del proprio sito, mentre li vicini si usurpavano tutto lo spazio, e lo fecero divenire territorio; se no che facendovi de scavi, sempre s’incontrano pezzi di fabrica, e ruderi. Cotale parrocchia è stata sempre riputata per una cattedrale, essendo sicura notizia, che la casa, ed abitazione vescovile era congrua, ed attaccata alla stessa, siccome la tradizione è stata sempre fedele e costante. I vescovi pro tempore o perché tenevano in Serano una Baronia, e un tale luogo era sicurissimo ed al coverto di ogni aggressione, o perché si trovavano a volte inviluppati nelle fazzioni delle quali il Castello era solito soffrire, spesso erano soliti condursi in Fontana, ed ivi dimorare, che solennizzare le funzioni vescovili in essa chiesa di Sant’Andrea. 171 r. - Il possesso in cui si trova costantemente, e pacificamente la chiesa parrocchiale di Fontana, che nel canto della Gloria il Sabato Santo sonando le campane, all’ora possono sonare, e sonano le campane delle parrocchie di Serano, di Testaccio, di Barano, e di Monopano; altrimenti non possono sonarsi, se quella non suona; ha fatto in ogni tempo rilevare che un tale possessorio, e giurisdizione è derivata dal dominio de’ Vescovi, e dal rispetto che si portava a vescovi, li quali funzionando nel mentovato giorno nella chiesa di Santo Andrea, quando nella gloria sonavano le campane della stessa, all’ora potevano sonare le campane delle divisate parrocchie. Lo stesso lodevole uso si osservava, e si osserva in ordine alla Cattedrale vescovile, che all’ora possono sonare le 7) Cfr. A. Di Lustro, Una lapide bugiarda e le origini della parrocchia di Fontana, in Ischia oggi, anno III numeri da aprile a dicembre 1972 e anno IV numeri da gennaio a luglio 1973.
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campane delle chiese del castello, e di tutte le chiese dall’attuale città, e ville, quando nella gloria di Sabato Santo si sono sonate nella cattedrale. La prefata chiesa di Sant’Andrea ne’ tempi antichi veniva chiamata col sopranome di Sacra, perché il Vescovo dimorando in Fontana, e trovandosi presso di lui altri vescovi rifuggiati, si determinò a consacrarla. Quando la medesima divenne diruta, o profanata tutti li pezzi, e li ruderi della consacrazione passarono nella nuova chiesa parrocchiale dell’Assunta, causa per cui venne benvero denominata, e chiamata La Sacra. f. 171 v. Colli ruderi della dimessa chiesa di Sant’Andrea si trasformò ancora una tavola marmorea, in dove stava incisa una iscrizione, e stava sita su la porta maggiore, siccome poi si situò su la porta della parrocchia dell’Assunta, in dove al presente esiste. Questo desiderabile documento e per la cancellatura, e per la lingua quelli preti non furono mai capaci intendere, e copiare; anziché si sono scusati, dicendo che taluni viaggiatori, passando per Fontana, impegnati ad esaminare, leggere, e capire l’iscrizione non poterono divenire nell’intento, ed effetto. Tutta volta però si è osservata da buon’occhio la sopramentovata lapide, e si è rilavato che le arma, e le insegni siano vescovili: donde sempre viene confermata la notizia di aver tenuti li vescovi antichi speciale assistenza spirituale e giurisdizione in Fontana, e nella chiesa di Sant’Andrea. Ciò invero fa distinguere, fa risplendere e fa rilevare l’antichità della predetta chiesa, e quella colonna trovata tra li ruderi di Sant’Andrea: colonna di marmo apprezzabile, della quale ci è stata occasione farne replicata menzione; e fa meraviglia come ne’ tempi antichi, e remoti si potè trasportare sopra Fontana tale colonna, quando né per mare, né per terra all’ora ci era via per potersi trasportare. Essa è di colore , che batte al verde, lunga palmi sei, e mezzo, e del diametro di un palmo, e mezzo, e più»8. Anche se l’epigrafe della lapide alla quale fa cenno l’Onorato è conosciuta e pubblicata9, vale la pena riportarla ancora una volta anche in questa ricerca documentaria perché, purtroppo, il marmo originale in caratteri gotici oggi risulta disperso in seguito ai lavori di ristrutturazione eseguiti nell’ex villa del Dottor Carlo Mennella, nel cui atrio era stata murata dall’antico proprietario J. E. Chevalley de Rivaz, che l’aveva portata a Casamicciola da Fontana10. Per l’Onorato l’espressione «Has fabricas» comprende anche la chiesa di S. Andrea che, certamente, era ubicata nell’attuale zona di Noia, nel «fundus» detto appunto 8) Cfr. Ragguaglio istorico-topografico dell’isola d’Ischia, di Vinenzo Onorato in Biblioteca Nazionale di Napoli (B.N.N.), fondo S. Martino manoscritto n. 439 ff. 170 v - 174 r. 9) Tra coloro che hanno pubblicato il testo di questa lapide, la lettura più completa è quella di A. Lauro in: La chiesa e il convento di Santa Restituta a Lacco Ameno, in Ricerche contributi e memorie, Atti del Centro di Studi su l’Isola d’Ischia vol. I Napoli, Tipografia Amodio 1971, p. 652. 10) Description des eaux minéro-thermales et des étuves de l’île d’Ischia, par J. E. Chevalley de Rivaz, Naples 1859, p. 59. Egli dice di averla ricevuta dal Dott. Francesco Trofa di Fontana e di averla portata a Casamicciola nella sua villa.
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«Sant’Andrea» 11, come ci attestano anche alcuni documenti ancora in nostro possesso. Il «territorio rurale detto a S. Andrea a Noia nelle pertinenze del casale di Fontana» rendeva al beneficio di S. Cristoforo sul Castello circa sette tomoli di grano all’anno12. Inoltre da un atto del notar Gaetano Sorrentino13 del 25 luglio 1708 sappiamo che Orsola Iacono, moglie di Giovanni Tommaso Trofa, dona allo stesso beneficio di S. Cristoforo un moggio e mezzo di terreno «sito in ditto Casale di Fontana nel loco detto Santo Andrea di Noia»14. In questo stesso territorio c’erano anche beni di diversi enti ecclesiastici. Una prova ci viene dalla Platea Corrente di Santa Maria della Scala nella quale troviamo questa annotazione. «1538 adi 21 novembre Francesco Migliaccio di Fontana in enfiteusi perpetua si censua dal Venerabile Convento di Santa Maria della Scala tre pezzi di terra siti nelle pertinenze del Casale di Fontana uno d’un tomolo e mezzo nominato Fondina giusta li beni della Congregazione del Reverendo Capitolo d’Ischia, di S. Maria di Fontana da due parti, della menza vescovale, la Cava; altro di due tomola detto Paraviglia, giusta li beni di Nicola Migliaccio, e via pubblica; altro d’una quadra detto S. Andrea, giusta li beni di detto S. Andrea, da tre parti e la cava con obbligo d’annovo censo enfiteutico di tomola tre di grano come questo ed altro si legge nell’istromento rogato per il notar Polidoro Albano d’Ischia 11) P. Monti, Ischia archeologia e storia, Napoli, Linotipografia Fratelli Porzio, 1980, pp. 694 e ss. 12) Cfr. in Archivio Storico Diocesano d’Ischia ( A.D.I. ) «Processus pro Reverendo D. Francisco Ferrigno Monticelli Beneficiato contra nonnullos eius censuarios et debitores 1708 », f. 26. 13) Il notar Gaetano Sorrentino di Forio ha rogato tra gli anni 1686 e 1724. La sua scheda notarile è la numero 1314 e si conserva nell’Archivio di Stato di Napoli (A.S.N.) nel fondo Notai secolo XVII. Si compone di 38 protocolli. Il figlio Michelangelo, anch’egli notaio, rogò dal 1725 al 1732 e la sua scheda notarile n. 267 del fondo Notai secolo XVIII si compone di sette protocolli. Del secolo XVIII conosco almeno il nome di altri due notai Sorrentino: Giuseppe Maria, che incontriamo in un atto del 1741 in Corporazioni Religiose Soppresse (C.R.S.) fascio 281 f. 118, che risulta ancora in attività nel 1775 (Dipendenze della Sommaria, serie I fascio 413: Nota del prodotto della visita dei protocolli de Notari); Giovanni, attivo nel 1787( ibidem, Notai di Forio). Purtroppo non ho potuto fare una ricerca sistematica nei protocolli dei notai del sec. XVIII perché gli atti dei notai che hanno rogato a partire dal 1745 circa sono conservati nell’Archivio Notarile Distrettuale che dipende dal Ministero di Grazia e Giustizia, nel quale risulta difficile effettuare una ricerca storica sistematica. 14) Cfr. Processus….1708 cit. f. 30 r.
che in carta pergamena si conserva in nostro Archivio»15. Da questo documento si evince chiaramente che S. Andrea e S. Maria di Fontana sono due chiese diverse. Anche se in origine la parrocchia di Fontana era stata la chiesa di S. Andrea, come sostiene l’Onorato, certamente nel secolo XVI aveva cambiato chiesa e titolo diventando «S. Maria» . Tuttavia nel «Volume secondo di nuovi obblighi intorno alli Benefici di Santa Maria della Carità de domo Turris, di S. Agheta e S. Cristofaro dell’Isola d’Ischia odierno Beneficiato Abbate Francesco Ferrigno Monticelli 1712», in una annotazione non datata si legge ancora: «Fo fede io notaro Salvatore Milone della terra di Forio16qualmente per istrumento fatto per mano del quondam notaro Nicola Ferraro17della detta Terra il di venti del mese di dicembre mille seicento e sei, in detto Forio Giovan Angelo e Giovan Carlo Iacono figli del quondam Sebastiano fanno vendita a Michele Iacono del Casal di Fontana d’una parte di terra di ducati quaranta d’uno loro pezzo di terra di capacità di tomola tre di moio incirca sito in detto Casale loco detto S. Andrea, confina con li beni di Pietro Mattera, beni di Battista Veda, beni della cura di S. Andrea»18. Ma c’è da osservare ancora su S. Andrea di Fontana che se le cose fossero andate come ce le descrive l’Onorato e ce le vorrebbero presentare alcune testimonianze, non è questa certamente la situazione che doveva presentarsi al vescovo Innico d’Avalos quando stilò la sua prima relazione ad limina nel 1598. Il «Notamento degli atti beneficiali della città e diocesi d’Ischia» dell’Archivio Diocesano d’Ischia non cita alcun documento che riguardi la chiesa e il beneficio di S. Andrea di Fontana, bensì solo il seguente documento senza data alcuna di riferimento: «Ischie= Beneficium Sancti Andree cum suis redditibus annexum Penitentiarie Cathedralis Ecclesie Isclane» 19. Già sappiamo che la Penitenziaria nel Capitolo d’Ischia fu istituita dal sinodo di Innico d’Avalos, assegnandole come prebenda le rendite del primo beneficio semplice che si fosse reso vacante20. Questo avvenne nel 1601, come ci informa lo stesso vescovo d’Avalos nella relazione ad limina del 160121 dove però non dice di quale beneficio si tratti22. Tale notizia viene ribadita dal vescovo anche nelle 15) A.D.I, Platea Corrente di S. Maria della Scala (P.C.) f. 355 r. 16) Il notaio Salvatore Milone ha rogato tra il 1667 e il 1716. La sua scheda notarile, del fondo Notai sec. XVII, è la n.522 con venticinque protocolli dal 1667 al 1716. 17) Di notai dal cognome Ferraro ne conosco tre: Fabio di Ischia, la cui scheda n. 220 e 436 del fondo Notai sec. XVII si compone di ventisette protocolli (1626-1655); Nicola, di cui conosco solo l’atto qui citato e un altro del 23 agosto 1611 ( C.R.S. fascio 5226 f. 152 v.); Tommaso di Forio del quale la P.C. ci fa sapere che i protocolli erano conservati dal notar Luc’Antonio Milone ( P.C. f. 98 ). 18) Cfr. il citato quinterno su S. Maria della Carità in A.D.I. f. 97 r. 19) Cfr. in A.D.I. , Notamento…. cit. f. 2 v. 20) Cfr. Decreta et Constitutiones Synodales Dioecesanae Isclanae per Admodum Illustrem et Reverendissimum D. Innicum de Avalos Episcopum Isclanum in maiori Ecclesia celebratae Idibus Aprilis 1599, Romae apud Impressores Camerales MDXCIX , p. 43 e ss. Sui sinodi della Chiesa di Ischia, cfr. A. Di Lustro, I Sinodi della Chiesa di Ischia, in Bollettino Flegreo, Nuova Serie, anno VIII n. 2 maggio-agosto 1986, pp. 112-119. 21) Cfr. A. Di Lustro, Ecclesia Maior Insulana, la Cattedrale d’Ischia dalle origini ai nostri giorni, Forio Tip. Puntostampa 2010.
relazioni degli anni successivi. Questo va integrato però con quello che apprendiamo da alcuni atti notarili dell’inizio del secolo XVIII. Infatti da un atto del 1714 del not. Gaetano Sorrentino siamo informati che il canonico penitenziere Francesco Migliaccio, economo e rettore della chiesa parrocchiale di S. Nicola di Bari e S. Barbara sul castello, gode anche del beneficio di S. Andrea del Casale di Fontana, unito alla sacra penitenziaria23. Quando sia avvenuta questa unione, non lo rileviamo da alcun documento . Certo è che anche in altri documenti anteriori al 1714 la sacra penitenziaria compare unita al beneficio di S. Andrea di Fontana24. E’ probabile che la chiesa di S. Andrea, in seguito all’unione del beneficio con la prebenda del canonico penitenziere, abbia cominciato la sua decadenza fino a scomparire del tutto. Se poi la chiesa di S. Andrea sia stata la prima sede della parrocchia di Fontana, alla luce delle fonti documentarie a noi note, è difficile stabilirlo. Al tempo del vescovo d’Avalos, comunque, la chiesa parrocchiale di Fontana era ubicata nella contrada «Santo», tra Noia e Fontana, e doveva essere in condizioni statiche piuttosto precarie fino a diventare profanata per cui fu necessario trasferire l’amministrazione dei sacramenti in altra chiesa. Già il 29 maggio 1666 è documentato un battesimo nella chiesa di S. Sebastiano25 amministrato dal parroco Antonio Vado (1659-1697). Negli anni successivi questa situazione crea qualche piccola confusione per cui in qualche atto di battesimo il parroco attribuisce alla parrocchia il titolo di S. Sebastiano; altre volte vi aggiunge «S. Maria » oppure «S. Maria La Sacra», attestando, comunque, che la parrocchia si trova nella chiesa di S. Sebastiano ancora nel 169926. Della chiesa di S. Sebastiano di Fontana ignoriamo l’anno di fondazione, né conosciamo la sua esatta ubicazione. Possiamo immaginare che si trovasse nell’area dell’attuale chiesa parrocchiale. Certo è che verso la metà del secolo XVII quella di S. Sebastiano doveva presentarsi come l’unica chiesa di Fontana adeguata all’amministrazione dei sacramenti. Il vescovo d’Avalos però la ignora nella sua «Platea», segno che dovrebbe essere stata fondata all’inizio del secolo XVII. Sulle vicende della parrocchia nel secolo XVII siamo sufficientemente informati da un atto del notar Gaetano Sorrentino di Forio del 24 luglio 1708 e da qualche altro documento ad esso allegato che qui vengono trascritti.
Archivio di Stato di Napoli notai secolo XVII scheda n. 1314 del notar G. Sorrentino, prot. n. 23 f. 84 v - Die vigesima quarta mensis Julij millesimo sep22) P. Lopez, op. cit. pp. 220-222 (relazione è pubblicata per intero. 23) Notai sec. XVII, scheda n. 1314 del not. Gaetano Sorrentino, prot. n. 29, atto del 3 luglio 1714 f. 49. 24) Ibidem, prot. 26 f. 130 anno 1711. 25) Archivio Parrocchiale di Fontana (A.P.F.) Libro I dei battezzati periodo 1659-1690 f. 76. E’ probabile che la parrocchia già da qualche decennio si trovasse nella chiesa di S. Sebastiano perché conosciamo un atto del not. Antonio di Nacera del 30 agosto 1635 di uno dei governatori «della chiesa parrocchiale di S. Sebastiano di Fontana» (Notai sec. XVII, scheda n. 162 prot. 13 f. 137 e ss.). 26) Cfr. in A.P.F., Libro II dei battezzati per. 1698-1756 f. 1.
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tingentesimo octavo in Casali Fontane Insule Ischie constitutus in nostri presentia Admodum Reverendus D. Antonius Vado Parochus Parochialis Ecclesie sub titulo Sancte Marie dicti Casalis Fontane consentiens prius in Nos agens, et interveniens ad omnia, et singula infracripta tam dicto, quam eius proprio privato, et principali nomine, et insolidum et pro eius heredibus, et successoribus et sponte asseruit coram nobis, et Onophrio Iacono Superiore Venerabilis Oratorii noviter erecto sub titulo et invocatione Assumptionis Beate Marie Virginis de Casali Fontane presente infrascripta omnia recipiente, et stipulante nomine et pro parte dicti Oratorij eiusque fratrum presentium, et successive futurorum in hunc vulgarem sermonem loquendo pro clariori facti narratione videlicet Come essendosi diruta la Parocchia di Santa Maria constructa nel territorio nominato Santo in detto Casale, e quella profanata, esso D. Antonio a sue proprie spese fece et edificò una cappella attaccata alla chiesa di Santo Sebastiano di detto Casale dove con consenso autorità e beneplacito della buona memoria di Monsignore Rocca all’hora Vescovo transferì l’ancona che stava in detta Parocchiale, e dentro la detta chiesa di Santo Sebastiano si trasferì il Venerabile, il battistero, e tutti gli altri utensili di detta Parocchiale profanata, et dall’hora sino al presente sono stati ivi, et per accrescere il culto divino, et la Divozione ai fedeli i secolari f. 85 r. di detto Casale hanno con consenso di Monsignor Illustrissimo Trapani hodierno Vescovo d’Ischia, disposto radunarsi, congregarsi, et Crear un Oratorio sotto il detto titolo di Nostra Signora dell’Assunta dentro detta Cappella eretta, e fabricata a spese da esso, ed esso D. Antonio et volendo esso D. Antonio procedere benignamente con detti fratlli di detto Oratorio, et con fraterna carità, et per alcune giuste cause in sua mente moventi sponte …in presenza nostra si, et quatenus ad esso D. Antonio spetta jus et attioni alcuna sopra et in detta Cappella eretta a sue spese, sempre però salvo l’assenzo, e beneplacito di Sua Signoria Illustrissima, et non altrimenti spontaneamente in presenza nostra non per forza, o dolo, ma per ogni miglior modo, et via liberamente cede assegna, et renuncia, come ha ceduto, assegnato et tenunciato anzi graziosamente ha donato con titolo di donazione irrevocabile tra vivi a detti fratelli di detto Oratorio presenti, e pro tempore, e per essi a detto Onofrio Superiore, et a me predetto Notario per raggioni del mio officio come persona publica presenti, stipulanti, et accettanti per la sudetta cappella ut supra a sue spese eretta con tutte le sue ragioni, attioni, et intiero fatto. Della quale da hora et ogni futuro tempo se possano servire in fare dett’Oratorio siccome cosa loro propria cedendo esso D. Antonio ogni sua raggione et attione costituendoli procuratori irrevocabili, et in rem propriam salvo sempre l’assenso e beneplacito di Monsignore Illustrissimo di modo che non volendo Sua Signoria Illustrissima prestare detto assenso la presente sia, come fatta non fusse, e di niuno valore et vana. Pro quibus omnibus attendentes prefatus D. Antonius sponte obligavit se eiusque eredes, successores, et bona omnia pro dicto Oratorio, eiusque fratribus absentibus, et pro eis decto Onophrio Superiori et mihi presenti bus sub pena dupli medietate potestate capiendi constitutione precarij renuntiave36
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runt et juraverunt tacto pectore Presentibus Judice Augustino Polito Regio ad Contractus Reverendo Canonico Domino Ferdinando Bergazzano Reverendo D. Antonio Mattera, Reverendo D. Nicolao Vado, Luca Scuotto, Sebastiano Vado et Dominico Mattera de Cerillo.
Inserito tra foglio 84 e foglio 85 Illustrissimo e Reverendissimo Signore Don Antonio Vado Parocho della Parocchiale Chiesa di Santa Maria nominata La Sacra del Casale di fontana in Santa Visitatione supplica Vostra Signoria Illustrissima intende che detta Chiesa sta cadente, et in luogo deserto e disabitato di tal modo, che l’olim Parochi hanno ottenuto lo trasferimento delli Santi Sacramenti in un’altra Chiesa nominata S. Sebastiano in detto Casale, da a da molti anni detti olim Parochi, et esso supplicante officia, et amministra li Santi sacramenti in detta Chiesa di S. Sebastiano, e perche detta chiesa di Santa Maria non è habile più per celebrarci Messa pertanto la supplica ordinare, che l’entrate, che sono in detta Chiesa siano trasferite nella Chiesa di S. Sebastiano, cioè ad un altare particolare di quelli, acciò pro tempore si possa ampliare, et il tutto haverà a gratia Ut Deus Die 23 februarii 1684 Per Illustrissimum et Reverendissimum Dominum in Sancta Visitatione fuit ….et decretum quod dicta ecclesia Aancte Marie nuncupate La Sacra profanatus prout presenti…». Da questi due documenti ricaviamo, dunque, che la chiesa parrocchiale di Fontana, quella di cui parla il vescovo d’Avalos, era certamente ubicata alla contrada «Santo», che ancora oggi indica una zona all’ingresso di Fontana, tra Noia e l’attuale chiesa parrocchiale, prima dell’edificio scolastico. Con il secolo XVII questa chiesa diviene diruta e scompare e diviene sede della parrocchia la chiesa di S. Sebastiano. Accanto ad essa il parroco Antonio Vado costruisce un oratorio dedicato all’Assunta nel quale ci sarebbe anche una confraternita di cui non abbiamo altri riscontri documentari. In questa chiesetta, secondo l’Onorato, che però non cita alcun documento, sarebbe passata successivamente la sede parrocchiale. Non sappiamo se questa possa considerarsi la stessa costruzione nella quale per conto dell’Università di Fontana nel 1762 il fabbricatore Domenico Antonio di Meglio realizzò alcuni lavori di stucco che furono pagati trenta ducati27. Nel 1777 Domenico Palumbo ricostruì il tetto della chiesa con una spesa di cinquanta ducati28. Per essa nel 1776 27) Archivio Storico del Banco di Napoli (ASBN), Banco del Salvatore giornale di cassa matricola 1477, f. 173 partita estinta il 10 marzo 1762:«3466 All’Università di Fontana, a disposizione del Capo Ruota D. Giuseppe Romani Ducati trenta, e per essa al sudetto in virtù di mandato firmato dal regio Consigliere D. Giuseppe Romano, soprintendente spedito a 8 corrente appresso gli atti di Donato Cito nel quale è stato ordinato che del denaro sistente in credito di detta Università a disposizione ut supra ne pagassimo a detto Domenico Antonio de Meglio mastro fabbricatore Ducati 30, in conto de’ lavori fatti nella chiesa parrocchiale di jus Patronato di detta Università a tenore della relazione firmata dal tavolario ut supra». Faccio notare che la parrocchia di Fontana è stata sempre di libera collazione e che l’Università non ha mai esercitato su di essa alcun diritto di patronato. 28) ASBN, Banco di S. Giacomo giornale di cassa 2054 f.221 partita di 60 ducati estinta il 13 settembre 1777: 3179 All’Università
il pittore Carlo Borrelli detto Ponticelli realizzò quattro tele per il prezzo di ducati centoventi29. La polizza di pagamento non cita i soggetti di questi quattro quadri , dei quali penso che ne sia superstite solo uno: l’Incoronazione della Vergine che si trova sull’altare del transetto dell’attuale chiesa parrocchiale di Fontana. Negli anni successivi fu riedificata anche la sacrestia, come ci attestano gli atti della visita pastorale del vescovo Pasquale Sansone30. Dieci anni dopo, però, nel corso della visita pastorale del pro-vicario capitolare Canonico Bartolomeo Mennella, la chiesa parrocchiale di Fontana «reperta fuit scissa per medium ab altari Majori usque ad valvas cum imminenti periculo ruine; ideoque instante etiam Promotore Fiscali, fuit ordinatum, quod infra tres menses reparetur a fundamentis ab exteriore parte Ecclesiae praedictae, et interim Sanctissimi, et Baptisterium, cum Sacramentalibus trasferentur in laterali Congregatione edificata a proximo defuncto Parocho pro sacristiae praedictae ubi commode administrari possunt sacramenta»31. Tali lavori però non erano ancora terminati nel 1820 quando negli atti della prima visita pastorale del vescovo Giuseppe d’Amante leggiamo che il vescovo fece il suo ingresso solenne nella chiesa «sub titulo Immaculatae Conceptionis de jure patronatus Familiae Mattera in qua precario exercetur Parochialis cura Sanctae Mariae la Sacra de libera collatione»32. Gli atti della seconda visita pastorale del vescovo d’Amante non solo ci dicono che la cura parrocchiale viene esercitata ancora nella chiesa dell’Immacolata, ma ricorda che il vescovo «mandavit tadi Fontana a disposizione del Marchese Vargas Macciucca Ducati sessanta notata a 24 luglio 1777= Banco pagate a Domenico Palumbo in conto del prezzo di tutto che si ata costruendo nella chiesa parrocchiale nel Casale di detta Università di Fontana in conformità della relazione de’ Magnifici Ingegneri incumbenzati delle opere pubbliche dell’Isola d’Ischia in data de 19 del mese di luglio stante con appuntamento del sottoscritto indicato giorno così sta ordinato. Napoli 21 luglio 1777 Vargas Macciucca= Boffa= Domenico Palumbo Ducati 60 ». 29) ASBN, Banco di S. Giacomo, matricola 1998 f. 437 partita estinta il 5 marzo 1778:« 3647= A Carlo Borrelli Praticelli a compimento di ducati 120 per prezzo di quattro quadri dal medesimo fatti per la chiesa parrocchiale dell’Università di Fontana jus patronato della medesima servata la forma della relazione fatta nel di primo corrente mese da ingegneri dell’opere pubbliche dell’Isola d’Ischia atteso altri ducati 90 sono stati al detto Borrelli con altre polize pagati stante con appuntamento del detto giorno così sta ordinato Napoli, 13 gennaio 1776 Vargas Macciucca al detto Todisco Carlo Borrelli Ponticelli ».Gli altri 90 ducati il Borrelli li riscosse con polizza dello stesso Banco di S. Giacomo estinta il 14 febbraio successivo ( ASBN, Banco di S. Giacomo, giornale di banco matricola 1999 , f.60 ). 30) cfr. in A.D.I.:« 1792 Acta Sanctae Visitationis localis peracta ab Illustrissimo et Reverendissimo Domino Pascali Sansone Episcopo Isclano » f. 9:« et visitata fuit sacristia noviter facta ubi adest altare ». 31) Cfr. in A.D.I.: 1802 Acta Sanctae Vistitationis peracta a Reverendissimo Domino Bartholomeo Mennella Canonico Cathedralis Isclanae, et pro Vicario Capitulari in Dioecesi Isclana », f. 15. 32) Cfr. in A.D.I. : 1820 Acta Sanctae Visitationis Generalis nempe Realis, Localis, et Personalis hujus Civitatis, ac totius Dioecesis Isclanae habitae anno 1820 ad Illustrissimo, et Reverendissimo Domino Ioseph d’Amante nostro Episcopo Isclano, f. 19.
men Reverendo Parocho, ut infra menses faciat bene reficere Imaginem dictae Sanctae Mariae La Sagra, titularis illius Paraeciae, iniuriae consumptam, alias dicta Imago seu vulgo Quadro, remanebit suspensa»33. Gli altri quadri ormai sono dispersi e la chiesa ancora non completata. Lo fu solo negli anni successivi e l’altare maggiore fu consacrato nel corso della visita pastorale del vescovo Felice Romano il 25 settembre 185534. Certo è che le vicende della sede parrocchiale di Fontana non finiscono ancora, ma già ci siamo allontanati di molto dal periodo storico che stiamo esaminando e, d’altra parte , già ci siamo interessati dell’argomento …….quarant’anni fa sulle colonne del «glorioso » quindicinale del compianto Giuseppe Valentino «Ischia Oggi »35. Oggi, naturalmente, le chiese di S. Sebastiano e dell’Assunta non esistono più. Oltre alla chiesa parrocchiale, oggi nella piazza di Fontana troviamo quella dedicata a S. Antonio di Padova, fondata nel 1703 da Onofrio Agostino Iacono che ne deteneva anche il diritto di patronato 36. All’inizio del secolo XIX è stata anch’essa sede provvisoria della parrocchia negli anni in cui la chiesa parrocchiale fu completamente restaurata a causa della grave situazione di dissesto in cui si trovava. La chiesa dell’Immacolata, che oggi non viene più officiata ma che esiste ancora sulla piazza di Fontana, venne fondata nel 1740, come ci attesta il Notamento degli atti beneficiali, anche se la presenza sul pavimento di una lastra tombale con l’epigrafe «Anno Domini 1655» potrebbe far pensare ad una fondazione molto più antica38. Accanto all’attuale chiesa parrocchiale di Fontana vi è ancora la struttura, anche se modificata un poco per renderla più idonea alle attività pastorali odierne, di quello che fu l’oratorio della confraternita di Santa Maria delle Grazie, fondata nel secolo XVIII e confermata nel 1794 dopo il restauro della chiesa39. 33) Cfr. in A.D.I.: 1825-1826 Acta Sanctae Visitationis Generalis nempe Localis, Realis et Personalis huius Civitatis, totiusque huius Isclanae Dioecesis, habitae ab Illustrissimo, et Reverendissimo Domino Joseph d’Amante Episcopo nostro Isclano, f. 25 r. 34)Cfr. in A.D.I.: Acta Sanctae Visitationis Generalis habitae ab Illustrissimo, et Reverendissimo Domino Felice Romano Episcopo Nostro Isclano in hac Civitate totaque Dioecesi A die XIII mensis Maij anni 1855 usque ad diem XIX Decembris eiusdem anni 1855, f. 38 v. 35) Cfr. A. Di Lustro, il citato articolo: Una lapide bugiarda le origini della parrocchia di Fontana. Vedi soprattutto il n. 10 dell’anno III, 1-15 ottobre 1972. 36) Cfr. Notamento…..cit. f. 90 r. :« Fontane= 1703 Bulla fundationis, et primeve Istitutionis Capellanie S. Antonij de Padua fundate ad Honophrio, et Augustino Jacono dicti Casalis cum reservatione Juris patronatus in favorem clerici Francisci Iacono= folia scripta n. 25. ». 37) Cfr. Notamento… f. 91 r. : Fontane 1740= Acta fundationis et erectionis cappellanie sub titulo Immaculate Conceptionis Beate Marie Virginis ab Agnello Mattera facta cum primeve institutionis in personam D. Cajetani Mattera filij Fundatoris= folia scripta n. 15 ». La Nota di tutti i luoghi pii laicali, misti ed ecclesistici…. del 1777, conservata nell’A.D.I., scrive che questa chiesa era« di patronato laicale della famiglia Mattera di Carmosino ». 38) Cfr. A. Di Lustro, Una lapide bugiarda….cit. 39) Cfr. A. Di Lustro, Le Capitolazioni delle Confraternite dell’U-
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L’eremo di San Nicola
Dell’eremo di San Nicola sulla vetta dell’Epomeo, il vescovo d’Avalos scrive: «Nel casale di Fontana vi è il beneficio di Santo Nicola Jus patronato delli Millesi40, si possede per D. Giovanni Antonio Zabatta, il suo dì si ci dice vespera, et messa cantata rende ducati 10»41. Sebbene manchino i documenti più antichi, la sua fondazione è certamente anteriore al secolo XVI. Infatti nel 1512 il «nobilis vir Ioannes Battista de Valle de nostra Isclana civitate exposuit quod devotione habuerit beato Nicola episcopo confessori constructo et concurato in summitate montis fortis pertinentiarum seu districtum casalis Fontane de insula Iscle et cupiens in eius honorem aliquid facere obtulit donum donationis titulo…. donavit et assignavit eidem cappelle Sancti Nicolai, que ad meram nostram collationem existit quandam eius terram campestrem partem (vitatam) et partem arbustatam sitam et positam in dicta Insula Iscle in districtu Casalis Barani in loco ubi dicitur ad Cufa aliis finibus limitatum iuxta terram….ab uno latere in alio latere iuxta terram nobilis Martii de medio42 et ab alio latere iuxta terram Ioannis Sarraceni in dicta insula Iscle iuxta viam vicinalem et alios confines si quos habet veriore: Nec non se velle qualibet.. facere suos suorumque heredum sumptibus et expensis celebrare missam unam in eadem cappella in perpetuum et donet jus patronatus huiusmodi in suorum heredum.. et suis heredibus predictis jus presentandi cappellanum et cappellanos in dicta cappella….». Tale diritto di patronato fu confermato dal vescovo Agostino Pastineo con altro documento del 1537 nel quale viene transuntato quello del 1512 del vescovo Donato Strineo43. Non sappiamo quando e perché il diritto di patronato sul beneficio sia passato alla famiglia Mellusi come dice il d’Avalos, e poi a quella Mele che lo deteneva ancora nel secolo XVIII44 fino a quando non fu fondato un nuovo beneficio da fra Giuseppe d’Argout e Natale Iacono45. Infatti intorno alla chiesa di S. Nicola presto venne a formarsi un eremo nel quale, nel corso del tempo, abitarono personaggi famosi. Su questo eremo l’Onorato scrive: f. 172 r. - «Ne’ tenimenti del comune di Fontana, e Serano esiste il monte Epomeo, nella di cui cima sta costruita una cappella sotto il titolo di San Nicola di Mira, e Bari. Nella stessa cima ci stanno incavate delle celle, e delle niversità di Fontana conservate nell’Archivio di Stato di Napoli, in La Rassegna d’Ischia, anno XXVIII n. 5, settembre-ottobre 2007 p. 41 e ss. 40) Forse Mellusi ? 41) P. Lopez, op. cit. p.219. 42) Martio de Medio, o de Madio, è un notaio del quale abbiamo notizie di atti rogati tra il 9 gennaio 1506 ( A.S.N., C.R.S. vol. 87 f. 1) e il 28 agosto 1520 (A.D.I., P.C. f. 197). 43) A.D.S. pergamena originale in scrittura umanistica di mm. 540 x 410. Cfr. anche A. Di Lustro, L’Archivio vescovile di Ischia attraverso i secoli, in ASPN, 4° serie vol. XIV, pp.293-316. 44) Il Notamento… dell’A.D.I. cita la bolla sopra ricordata in questo modo:«Fontane pro Ischia= Bulla Fundationis, et Concessionis juris patronatgus Capelle S. Nicolai dicte de Monteforte favore familia Mele sub datum in cartha pergamena in anno 1537= Necnon acta institutionis in personam D. Nicolai Mele anno 1701 folia scripta n. 10». 45) Gli atti relativi si conservano nell’A.D.I.
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officine. Negli troppo antichi tempi, come al presente veniva tale luogo servito da un Romito, che solea nelle feste far celebrare la messa da un sacerdote; e pure l’have abbandonato. f. 172 v. - Costì appunto Donna Beatrice de la Quadra colle di lei compagne voleva fondare un monastero di perfetta clausura, ma fu costretta a levarsi da tale dimora verso la fine del 15 secolo per l’intemperie dell’aria, e ritirarsi nel castello, dove eresse un monastero di gentildonne sotto la regola di San Francesco d’Assisi con titolo della Madonna della Consolazione. In esso romitaggio alcun’anno prima del secolo 18 si ritirò il Capitan tedesco Monsieur D’Argout, essendo al comando del Castello in qualità di castellano. Egli aiutato da Dio si determinò ad abbandonare il mondo all’insaputa di ognuno; Rannicchiato in una di quelle celle, esercitato da malori di podacra, e chiragra, confinato in un letto, appena due, o tre volte uscì dal suo ritiro per vantaggi del suo romitaggio. Sempre ilare, sempre costante, sempre uniforme al divino volere, ed in alto grado sereno nell’anno 1748 passò all’altra vita. Ridusse il romitaggio ad un reale, e sacro santuario, lo pose sotto la regola, e si recitavano nella cappella l’ore canoniche, e si celebrava giornalmente la santa messa al suo tempo, e nella forma rigorosa, che lo più stretto ritiro camaldolese celebrare poteva, e doveva. Tirando il mezzo, lo erogava per il bene de’ romiti, e per la decorosa, e splendida tenuta, e comparenza del romitaggio, e della Cappella. f. 173 v. - La stessa adornò di tante diverse reliquie, e sacre ceneri, che si fece venire da Roma: e tale cappella la portò a tale lodevole condizione, che avrebbe potuta fare la sua luminosa figura in mezzo di città religiosa, e civilizzata. Colla morte del sudetto fra Giuseppe Monsieur D’Argout finirono lo splendore, l’ordine, e la buona tenuta, e le sacre funzioni nell’annunciato romitaggio, e cappella, dove attualmente esiste un solo romito, ed un sacerdote ivi ritiratosi. Nell’intelligenza di essere stato impossibile a poter stare uniti, e dimorare due romiti nello istesso luogo; siccome l’accennato sacerdote ancora se n’è dimesso ed è passato altrove. San Nicola comparisce in una statuetta di marmo, che dà a divisare un’antichità. Nello stesso eremo nel principio del secolo 18 morì con fama di santa vita un tale fra Giorgio di Baviera»46. La presenza di qualche eremita si è protratta fino al 1949 quando fra Luigi Luongo, lasciò definitivamente l’eremo47. Certamente interessante sarebbe dare uno sguardo sugli eremiti che vi hanno soggiornato, ma saremmo costretti ad una digressione molto ampia, lontana dalla scaletta di questa ricerca.
Agostino Di Lustro
46) Sulla morte e le esequie di fra Giorgio, cfr. Notai sec. XVIII scheda n. 28 del notar Giovan Carlo Milone di Forio prot. n. 37 relativo agli atti rogati nel 1737 fogli iniziali aggiunti e non numerati. Cfr, anche P. Monti; Ischia Archelogia e storia cit, pp. 714 e ss.; E. Iacono, L’Epomeo nella leggenda nella storia nel diritto nella poesia nell’avvenire, Firenze Edizioni R. Niccoli 1952 p. 32 e ss. 47) P. Monti, op. cit., p. 730.
Arte
Fausto Melotti la poetica della forma di Carmine Negro
Oltre 200 opere tra terrecotte, maioliche, gessi, sculture in ferro e ottone, ceramiche, disegni e sculture in acciaio ordinate in una grande mostra al MADRE di Napoli dal 16 dicembre 2011 al 9 aprile del 2012 per una lettura approfondita e analitica della complessa figura di Melotti tra i più significativi protagonisti del rinnovamento e dello sviluppo del linguaggio plastico e materico. La grande mostra antologica dedicata a Fausto Me-
Fausto Melotti - Senza titolo 1955
Fausto Melotti - Ifigenia 1978
lotti, nato a Rovereto nel 1901 e morto a Milano nel 1986, curata da Germano Celant e organizzata in collaborazione con l’Archivio Fausto Melotti, si sviluppa attraverso le sale chiare e suggestive del museo MADRE, ridisegnate da Alvaro Siza, in maniera cronologica e pone in evidenza attraverso una selezione di oltre 200 opere tra terrecotte, maioliche e gessi, sculture a tecnica mista e in ferro, ceramiche e lavori in inox, disegni e bozzetti, il percorso scultoreo di Melotti strettamente legato al mondo delle arti visive. Insieme ai suoi contemporanei Alexander Calder, Alberto Giacometti, Louise Bourgeois e Lucio Fontana, è riconosciuto, sia a livello nazionale che internazionale, nell’ambito della scultura moderna e contemporanea, tra i più significativi protagonisti del rinnovamento e dello sviluppo del linguaggio plastico e materico. Melotti, sin dagli inizi degli anni trenta, si è affermato come uno dei talenti artistici più rilevanti del XXI secolo perché è riuscito a coniugare la tradizione classica con gli interessi per le avanguardie europee, la conoscenza scientifica con una speciale sensibilità musicale, il talento scultoreo con quello di ceramista, la raffinata abilità letteraria e creatività poetica con la ricercatezza del disegnatore. Nel 1901 Rovereto fa parte dell’Impero austro-ungarico. Nella città natale Fausto Melotti frequenta la Scuola Reale Elisabettina, una sorta di istituto superiore ad indirizzo di arti applicate. Quando scoppia la prima guerra mondiale si trasferisce a Firenze, dove porta a termine gli studi liceali e può osservare da vicino le opere degli artisti del rinascimento fiorentino quali Giotto, Simone Martini, Botticelli, Donatello e Michelangelo ed entra in contatto con numerosi artisti e letterati d’avanguardia. Il cugino Carlo Belli, pittore italiano, aderente all’Astrattismo, ma anche teorico e critico d’arte, giornalista, scrittore e musicologo che lo raggiunse tempo dopo, La Rassegna d’Ischia n. 3/2012
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Fausto Melotti - Senza titolo 1958
Fausto Melotti - Senza titolo 1958
Fausto Melotti - Castello 1947
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ricorda che lo trovò molto maturato dall’esperienza fiorentina trasmettendogli lo spirito di quella città. Un giorno al Museo del Bargello egli riuscì a fargli comprendere il San Giorgio di Donatello: «Vedi che silenzio circola intorno ad essa’. Rimasi folgorato. Accepivo il concetto di silenzio come potenza nella scultura». E successivamente quando ricorda quel periodo, Carlo ritiene che per loro adolescenti quello fu «un soggiorno formativo ... asse fondamentale attorno al quale si metteranno in rotazione le nostre prime acquisizioni umanistiche». Il biennio trascorso a Pisa, un’altra città toscana, permette al giovane Melotti di assimilare lo spirito delle notevoli opere architettoniche, delle sculture romaniche e gotiche di Nicola e Giovanni Pisano e i corredi preziosi del Medioevo (capitelli e rilievi, mosaici e smalti, tessuti e avori). Il mondo iconografico e stilistico acqui-
sito in questo periodo affiorerà qua e là nelle sue ceramiche smaltate e nei suoi teatrini. Importanti per la sua formazione erano stati senza dubbio i contatti con la vivace vita culturale della sua città natale Rovereto “ricca di luci vive”. Belli racconta orgogliosamente che i giovani roveretani spinti da una voglia di rinnovamento, volevano “rifare il mondo” a modo loro, evitando la solita protesta e sfruttando la “fantasia” andavano alla ricerca di trovate geniali che potessero generare scalpore nell’opinione pubblica. Melotti stesso in qualche intervista ricorda con entusiasmo le numerose personalità che vivevano nella sua città e ne facevano un centro all’avanguardia nelle arti figurative, nell’archeologia, nella musica e nella letteratura; primo fra tutti il futurista Fortunato Depero (1892-1960). La prima esperienza significativa del giovane Melotti è comunque la frequentazione di Fortunato Depero, che a quel tempo era entrato nella storia della pittura moderna, avendo come padrini Balla e Boccioni. Il manifesto Ricostruzione futurista dell’universo (1915) rivela con quanto entusiasmo i firmatari, Balla e Depero, si proponessero di creare una nuova realtà, introducendo nel quotidiano degli oggetti in grado di “ricostruire l’universo rallegrandolo, cioè ricreandolo integralmente”, trovando “degli equivalenti astratti di tutte le forme e di tutti gli elementi dell’universo stesso, poi li combineremo insieme, secondo i capricci della nostra aspirazione, per formare dei complessi plastici che metteremo in moto”. Per fare questo dichiararono di servirsi di tutti i generi di materie e materiali (fili metallici e di cotone, stoffe, cartoni e vetri colorati, reti metalliche, specchi ecc.) per costruire i complessi plastici, purché essi mantengano un carattere appariscente. Con la manualità e per mezzo di materiali umili considerati allora ‘antiartistici’ - come è spiegato nel manifesto del 1915 - egli riusciva a esprimere tutto il suo linguaggio: uno
stile sintetico e lineare fatto di colori forti campiti a zone, di forme geometrizzate a incastro, cariche di senso della dinamicità. Questo in sintesi l’ambiente artistico roveretano in cui si incoraggiavano i giovani a intraprendere la strada delle arti applicate affinché esse potessero divenire degne compagne delle arti figurative. Partire da un periodo così remoto è estremamente importante, in quanto ci permette di inquadrare l’ambiente culturale roveretano, e di capire quali pensieri il giovane Melotti avesse potuto maturare sull’arte. Successivamente si laureò al Politecnico di Milano in ingegneria elettrotecnica. Dopo vari studi musicali decise di dedicarsi alla scultura: studiò prima a Torino nello studio di Pietro Canonica, poi dal 1928 all’Accademia di Brera di Milano, sotto la guida del grande scultore milanese Adolfo Wildt. Lavorò alla Richard Ginori con l’amico Giò Ponti. Il suo stile muta negli anni seguendo però sempre una sua personalissima ricerca, tesa ad articolare lo spazio secondo ritmi dal sapore musicale; così anche le sue sculture più tradizionali sono piene di quel suo particolare amore per la poesia dei materiali. Evidenti quindi i suoi legami con l’arte metafisica, ma soprattutto con il razionalismo e con artisti come Lucio Fontana fondatore del movimento spazialista. Il carattere mentale della sua scultura subirà una sintesi, nei modi e nei materiali: ceramica o gesso, teatrini polimaterici, ma soprattutto le sue leggerissime sculture in acciaio, saranno intrisi di una vena surreale e ironica. Fausto Melotti che le sintetizza nel suo breviario segreto “Linee”: “L’arte non rappresenta, ma trasfigura in simboli la realtà … si rivolge all’intelletto, non ai sensi ” rappresenta un mondo in cui armonia e leggerezza, sintesi ed eleganza, rivelano un animo votato alla poesia e all’aforisma. Come evidenzia il curatore Germano Celant, lo scultore trentino privilegia l’accadimento alla rigidità, la
relazione all’assolutezza costruttiva, il rituale naturale e organico alla rappresentazione bloccata e calcolata: «La scultura per Melotti è magica e rituale, un’incarnazione nel rito della fisicità sorprendente, non è astratta ma corporea. Più che alla condizione scientifico-matematica, essa va associata al movimento e alla danza, là dove la musica è indiretta». Ecco allora nelle opere presenti al Madre le costruzioni di piccoli spazi abitabili con sagome di minuti oggetti, con veli e tessuti, piccole figurine in terracotta. Ci sono teatrini surreali, assottigliate figure femminili e piccoli personaggi filiformi. Le esili architetture di ferro, ottone, sfere e lamine metalliche, raccontano di città invisibili e spazi metafisici. Mezze lune sospese, catene dondolanti, reti intrecciate, esili scale, garze sospese, definiscono stanze immateriali e silenziose dove può abitare solo la poesia o la musica. Tutti i lavori sono incentrati sulla manualità, sulla manipolazione dei materiali semplici e soprattutto sulla trasfigurazione in base ad un emergente bisogno espressivo e comunicativo. Per tale motivo i materiali non vengono mai presentati per quello che sono ma trasformati in funzione di una sintesi, per la carica di suggestione che possono trasferire. Scrive ancora Fausto Melotti: «La rinuncia alla rappresentazione del mondo naturalistico è meno difficile della rinuncia all’amore della materia in cui si lavora. (…) l’arte è un viaggio. La solitudine e l’inquietudine delle memorie. (…) Anche chiusa in un programma, spinta in un rigido contrappunto, composta in una camicia di forza, l’arte esce in un’ineffabile danza. L’artista non conosce ancora la seconda parola della sua poesia, non sa se al do segue il re fra le righe o il fa sopracuto, né se l’azzurro muore o si esalta. L’arte sorride a chi ride delle cose ingiustificate.” E ancora “Solo nel silenzio è la purezza». Carmine Negro La Rassegna d’Ischia n. 3/2012
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Un documento inedito e segreto sulle attività politiche di
Don Luigi de’ Medici Principe di Ottajano di Carmine Mocerino
Durante una ricerca su alcuni documenti riguardanti la Collezione Farnese, il sottoscritto ha scoperto una testimonianza d’archivio inedita e non catalogata, che potrebbe sembrare non importante per uno studio approfondito sulla storia del Regno delle Due Sicilie1. Invece, secondo il parere dello scrivente, il documento, il cui contenuto reca un breve messaggio, ha ugualmente la sua importanza storica, al fine di avere una maggiore delucidazione critica, su di un ambiguo personaggio politico vissuto alla corte borbonica, sotto il travagliato regno del Re Ferdinando I di Borbone, sovrano del Regno delle Due Sicilie, dopo il Congresso di Vienna2. Il documento è stato scoperto dal sottoscritto in maniera del tutto casuale, in una busta conservata nell’Archivio di Stato di Napoli (1047/III, Archivio Farnesiano), tra le importantissime testimonianze diplomatiche e amministrative, utili per la ricostruzione storica del Regno di Carlo III di Borbone3. È un biglietto in carta semplice, non datato, anche se in verità, presumo che la sua cronologia sia plausibilmente ascritta tra il 1822 e il 1825, anno di morte di Ferdinando I. La fonte principale di riferimento, per un’attenta analisi storica e critica sulla vita politica di Luigi de’ Medici, è l’anonima opera edita a Parigi, nel 1832, attribuita forse al Principe di Canosa, Vita politica del cavaliere D. Luigi de’ Medici già ministro consigliere di Stato del Regno delle Due Sicilie. L’opera non è firmata dall’anonimo autore, essa è certamente piena di notizie storiche e di avvenimenti di rilievo 1 Spagnoletti 1997, pp. 84-85; Rausa 2009, pp. 13-28; Sulla ricerca portata a termine dallo scrivente in corso di pubblicazione: Carmine Mocerino, Restaurare nel Secolo dei Lumi. Due statue antiche dal Palazzo Reale di Caserta della collezione Farnese, in “Colloqui di Archeologia”, Napoli, 24 marzo 2010. 2 Viola 2000, pp. 7-13. 3 ASNa, AF, 1047/III; Del Giudice 1871, pp. 101-108; cfr. Barone 1898, pp. 6-19;
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per la storia del Mezzogiorno d’Italia, anche se lo scrittore non è sempre obiettivo sull’esposizione critica del personaggio politico. Nel capitolo V del libro, in una nota, l’anonimo autore in modo perplesso, si pone la domanda sui possibili motivi della sopravvivenza politica del Principe di Ottajano, reduce di complotti segretamente orditi verso la corona, durante il periodo della “Repubblica napoletana”; un uomo d’indegna fede e di spregiudicato opportunismo probabilmente, seguendo il contenuto del testo, che descrive il nobile napoletano come un personaggio quasi “gattopardesco”4. Infatti, in quest’osservazione suddetta, l’autore si esprime con amarezza, senza dare al lettore esplicite spiegazioni, in mancanza forse di dati certi sulla riammissione nel governo di Ferdinando I, dopo la Restaurazione e in seguito ai moti del 1820, del potente Principe di Ottajano nella carica di primo ministro: «Non solamente il Re Ferdinando IV e la Regina Carolina di lui consorte riguardavano in Medici un giacobino e miscredente, ma ancora come tale veniva reputato dal Re Francesco I, che successe al trono. Dopo ciò è naturale la domanda, perché mai cioè fosse rimasto in carica sotto il Regno di Re Ferdinando, anzi come dopo essersene disfatto, dopo la ribellione del luglio 1820 (nella quale certamente concorse almeno indirettamente), fosse stato dal Re Ferdinando richiamato dal ministero nel maggio del 1822. Similmente sarà ben curioso il leggitore sapere per qual mai strana ragione il de’ Medici, venisse conservato sotto il Re Francesco I. Sono questi i miracoli della politica, non è però che con tali fenomeni avere non potessero una spiegazione chiarissima e facile a darsi. Siccome però le circostanze de’ tempi tutte le verità non permettono di palesarsi, così non lasceremo per ora in curiosità i nostri lettori. Sia nondimeno come si voglia, la storia riempirà una tal laguna, e l’ispezione dallo stato dell’esito delle finanze del regno di Napoli dall’anno 1820, al 4 Colletta 1856, pp. 185-190.
1830 darà lumi sufficienti ad ogni curioso per approssimarsi e spiegare il paradosso»5. Pertanto questo documento inedito rinvenuto fortunosamente, anche se composto di poche righe, ha in ogni modo il suo valore storico, anche per comprendere il ruolo rilevante che rivestiva Don Luigi de’ Medici sotto Re Ferdinando I di Borbone6. Il Principe di Ottaviano fu nominato reggente della Gran Corte della Vicaria, il giorno 7 maggio 1783, incarico ripreso dal 1791 al 1795 e successivamente riassegnato al de’ Medici, dal 1803 fino alla sua morte7. La Gran Corte della Vicaria era un importante organo di giustizia del regno e inoltre il nobile napoletano era molto esperto sui problemi giudiziari e sulla repressione criminale8. Infatti, l’incarico comprendeva anche la tutela dell’ordine pubblico, prevedendo l’investitura di capo della Polizia Urbana, assegnato al Principe Luigi de’ Medici il 3 novembre del 17919. Il documento scritto mediante una penna a punta sottile non è datato e non è protocollato, probabilmente a causa della sua segretezza. È una missiva riservata del Re Ferdinando I, indirizzata a Don Luigi de’ Medici su una “particolare” commissione affidatagli dal sovrano, scritta forse da un cancelliere di corte, che ha per oggetto appunto delle “istruzioni segrete”: Sacra Reale Maestà Signore Istruzioni segrete da dargli al Cavalier D. Luigi de’ Medici nella commissione affidatagli da V. M. Si degnasi V. M. di firmare Ferdinando Il Principe Luigi de’ Medici, nono5 Vita politica del Cavaliere D. Luigi de’ Medici, p. 23 (nota, n. 1); C. Grimaldi 1855, p.12; Colletta 1856, p.; Nicolini 1935, pp. 135-136; Galasso 2007, pp. 14-35. 6 Vanga 2009, pp. 405-406 7 Gatti 1830, p. 17; cfr. Ceva Grimaldi 1855, p. 5 8 Giannone, pp. 276-286. 9 Del Pozzo 1857, pp. 146.
stante le critiche dei suoi contemporanei, godeva di un’ampia fiducia presso la corte del Re Ferdinando I, ed inoltre, egli era un avversario politico di John Acton10. Il Re delle Due Sicilie Ferdinando I di Borbone intuì l’esperienza diplomatica e politica di questo intelligente personaggio, il quale ottenne molti consensi per suoi programmi e per i suoi metodi di governo da parte del sovrano11. Dopo il Congresso di Vienna, il Principe di Ottajano Luigi de’ Medici, non adoperò i metodi repressivi del Principe di Canosa, suo predecessore, incaricato in precedenza di occuparsi del dicastero degli affari interni12. Il nobile primo ministro di casa reale scelse una linea di controllo moderata ma vigile a possibili congiure di palazzo, anche dopo gli avvenimenti turbolenti del 1820, causati dai carbonari presenti nei pubblici uffici e in precedenza integrati nel Reale Esercito Duosiciliano13. 10 Acton 1997, pp. 221-226. 11 Nisco 1894, pp. 103-104. 12 Maturi 1944, p. 379. 13 Pepe 1840, pp. 46-77; Montanelli 1994, pp. 27-41; Cagliotti-Macry 1995, pp. 27-
Bibliografia
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Probabilmente l’obiettivo politico era anche quello di individuare tutti i promotori della creazione di una monarchia costituzionale nel regno dei Borbone14. Devo supporre dall’analisi testuale del documento inedito, che i Borbone adottarono probabilmente una sorta di servizio segreto, interno all’amministrazione del Regno delle Due Sicilie, in questo caso coordinato dal Re Ferdinando I15. Il dispaccio potrebbe anche ugualmente riguardare un rapporto diplomatico, al fine di migliorare e mitigare anche i rapporti che Don Luigi de’ Medici doveva spesso intrattenere con le corti europee e in particolar modo con quella 72; Galasso 2007, pp. 172-173; Viola 2000, pp. 28-31. 14 Teresi 2007, pp. 68-69. 15 Galletti-Trompeo 1861, pp. 408-416; Atti parlamentari della Camera dei Deputati, tornata del 4 aprile 1861, Discussione sull’amministrazione delle provincie napoletane e siciliane del deputato Scialoia. Secondo quest’interrogazione parlamentare la polizia borbonica era tra le più dure dei Regni preunitari, perché chi tradiva, era passato per le armi, un servizio segreto interno spietato, ma molto efficiente nel contrastare chi voleva abbattere la monarchia dei Borbone. S. Gatti, Elogio Funebre del Cavaliere D. Luigi De Medici, scritto dall’Abate Serafino Gatti, Napoli 1830. G. G. Gervinus, La restaurazione e il trattato di Vienna, in C. Cantù (a cura di), “Collana di storie e memorie contemporanee, vol. VII, Milano 1864. P. Giannone, Istoria civile del Regno di Napoli, Tomo IV, Milano 1821. W. Maturi, Il Principe di Canosa, Firenze 1944. M. Mazziotti, Il preteso tranello della polizia borbonica contro G. Murat, in “Nuova Antologia”, Roma 1921, pp. 37-43. I. Montanelli, Storia d’Italia. L’Italia carbonara, vol. 26, Milano. N. Nicolini, Luigi de Medici e il giacobinismo napoletano, Firenze 1935. N. Nisco, Gli ultimi trentasei anni del Reame di Napoli (1824-1860), Napoli 1894. G. Pepe, Sull’Esercito delle Due Sicilie e sulla guerra italica di sollevazione, Parigi 1840. F. Rausa, Quattro secoli di storia di una collezione tra Roma e Napoli, in C. Gasparri (a cura di), “La collezione Farnese”, Milano 2009, pp. 13-27. A. Spagnoletti, Storia del Regno delle Due Sicilie, Bologna 1997. G. Teresi, Sui moti carbonari del 1820-‘21 in Italia. Eventi ed adepti poco noti del periodo, Foggia 2007. M. Vanga, Medici, Luigi de’, in “Dizionario Bibliografico degli Italiani”, vol. 73, Enciclopedia Treccani, Roma 2009, pp. 405-406. P. Viola, Storia moderna e contemporanea. L’Ottocento, vol. III, Torino 2000.
di Vienna16. Ritornando alle domande poste dall’autore sconosciuto della Vita del Cavaliere D. Luigi de’ Medici e ai suoi quesiti irrisolti, e per di più senza spiegazioni esaurienti, espresse dall’anonimo scrittore, si potrebbe ipotizzare il ruolo di controspionaggio, che forse dal documento appena esaminato dallo scrivente,avrebbe avuto il Principe di Ottaviano nell’opera delicata di controllo dei movimenti carbonari e massonici, che imperversavano da tempo il Regno delle Due Sicilie17. Infiltrarsi in strutture contrapposte, destando continui sospetti di “tradimento”, il de’ Medici, nello stesso tempo ed in modo scaltro, riusciva probabilmente ad essere a conoscenza di preziose informazioni riservate da riferire direttamente al Re, studiandone le opportune contromisure. Infatti, questo servizio di spionaggio della polizia borbonica, pianificato dal Principe di Ottaviano già nell’ultimo decennio del XVIII secolo, fu molto attivo ed efficace anche nel contrastare Gioacchino Murat, quando aveva inutilmente tentato, dopo la sua caduta, di riconquistare il regno perduto18. È stato anche per questo fattore probabilmente, oltre alla volontà espressa dal Principe di Metternich, che determinò da parte del sovrano, la saggia scelta di riconfermare i precedenti incarichi al principe, per l’ottimo servizio svolto per la difesa della Casa Reale Duosiciliana, durante gli anni più turbinosi del regno di Ferdinando IV di Borbone, dove le trame e i complotti erano frequentissimi presso la sua corte19. 16 Gervinus 1864, pp. 211-215. 17 Ajello 1821, pp. 3-18 18 Bianco 1880, pp. 222-230; Mazziotti 1921, pp. 37-43; Cfr. Valente 1965, pp. 383-384; Rapporto del Ministro delle Finanze Cavaliere de’ Medici incaricato del Portafoglio della Polizia del 16 ottobre 1815: “V. M. non ignora come in tutti questi suoi andamenti (del re Gioacchino), la polizia gli è stata sempre dietro”. 19 Dopo il Congresso di Vienna e la conseguente restaurazione, il Re Ferdinando IV di Borbone, assunse il titolo di Ferdinando I, Re delle Due Sicilie (1816-1825), unendo politicamente i due precedenti Regni di Napoli e di Sicilia. Coppi 1829, vol. VI, pp. 245-248.
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Le “due Italie” L’unificazione la questione meridionale * III
Sulla via delle riforme e delle rivoluzioni Dopo tante battaglie non è che fossero stati raggiunti notevoli traguardi sulla via delle riforme e del progresso, tranne forse una diminuzione dell’antica potenza e ingerenza della Chiesa. La feudalità limitata, ma non abolita - immutato il problema della terra - i commerci dominati ancora dall’antico vincolismo. E in quanti avevano portato alla luce la misera realtà del paese, anteriormente al 1789, nessun accenno troviamo a soluzioni di tipo rivoluzionario; «.... se i mali sono inveterati e profondi - scriveva il Galanti - non possiamo aspettarne ad un tratto la guarigione. Ad una scossa violenta crollerebbe la macchina, volendo mutarne, tutti in un punto, gli ordigni mal congegnati». Il ceto colto infatti costituiva una sparuta minoranza, mentre in altri settori si aveva da registrare la generale indifferenza delle masse popolari, il conservatorismo reazionario del ceto medio, che rimaneva ancorato al vecchio ordine di cose, e come «borghesia agraria erettasi sullo sfruttamento dei contadini nell’ambito dell’arretratezza produttiva dell’agricoltura meridionale, e come gruppi cittadini di appaltatori di imposte o speculatori, o di forensi cresciuti negli intrighi nascenti dalle vecchie e caotiche legislazioni» (Romeo), Sull’abbrivio dei moti di Francia, la dinastia borbonica cominciò ad essere sopraffatta dalla paura e dalla reazione contro tutto ciò che potesse sembrare alleato anche lontanamente dei rivoluzionari; e tra la monarchia e il ceto colto, per lungo tempo alleati, si determinò una rottura decisiva. E gli antichi riformatori, avvertendo la intima solidarietà che li legava agli autori del grande rivolgimento francese, volti alle novità di * Da una tesi di laurea dell’anno accademico 1965/66.
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Francia, si fecero perciò “giacobini” e furono essi i primi a parlare di una unità italiana, che non era più l’ideale letterario vagheggiato per secoli, ma una concreta finalità politica. «Da siffatto animo soprattutto ebbe origine la Repubblica napoletana del 1799, mentre in Sicilia non vi fu alcun movimento ed è perciò che in essa “si risentono tuttavia i danni di una istituzione, che ancora nelle consuetudini e nella coscienza, se non nella legge, qualche volta permane» (Nitti). La monarchia, rotti definitivamente i ponti con la classe colta, si aggrappò a disperati mezzi di resistenza e passò all’opposizione. E a propria difesa vedrà poi levarsi da ogni parte le plebi di campagna e di città (le “bande della Santa Fede”): furono queste che resero difficile la vita della Repubblica; furono esse che ebbero vittoria dei repubblicani di Napoli; furono esse che attorniarono il re,. lo acclamarono e lo applaudirono nella orrenda reazione cui egli si rivolse contro i giacobini. Quali furono gli uomini della Rivoluzione? curiali, componenti cioè la classe media, tormentata dal bisogno del potere; gli stessi nobili, scontenti del potere regale e dolenti della restrizione alla loro potenza; nelle province più larga eco si ebbe tra i fittuari e i censuatari desiderosi di affrancarsi; e il popolo? non vi partecipò affatto e, quando appunto dovette scegliere una via, fu piuttosto per il re, nella coscienza istintiva forse che i mutamenti non sarebbero stati certo a proprio favore. La Repubblica rimase così priva di «ogni effettivo addentellato con la situazione reale del paese, non compresa ed osteggiata dalle masse popolari, avversata dai moderati e eonservartori, incapace di trovare una via di uscita da una situazione resa disperata dalla debolezza delle forze, dalla brevità del tempo, dalla non rispondenza tra le finalità della Repubblica e i bisogni della grande maggioranza del paese» (Romeo). E in
ultimo, dopo aver oscillato per qualche tempo tra 1a commedia e la tragedia, “la tragedia prevalse”. Travolta dalle masse contadine e dai lazzari insorti, attaccata da russi e da inglesi, la Repubblica vide consacrati i suoi ultimi giorni dall’eroismo e dal martirio. Ma fu da questa repressione violenta che l’amore della libertà e la tradizione del martirio nacquero e prosperarono. Indifferenza della morte e disprezzo della vita ma anche quella tragica grandezza che si trova solo nelle grandi crisi dei popoli. Quei nobili, quei sacerdoti, quei curiali di Napoli che salirono al patibolo, determinarono e provocarono più che ogni altra cosa la rovina dei Borboni a Napoli. Ma essi portarono con sé la illusione e la delusione del distacco dalle proprie posizioni del popolo, a cui «apportavano il beneficio della umanità, della libertà e dell’eguaglianza»; gli illuministi napoletanti vedevano distrutta per sempre la speranza di rappresentare la causa della “felicità generale”. *** Il decennio francese(1805-15) costituì «uno di quei periodi felici in cui ciò che prima sembra aspro di difficoltà si fa piano e agevole, l’impossibile o lontanissimo diventa possibile e presente, cose che pare non possano ottenersi se non col poco sperabile accordo di molteplici e diverse volontà, si compiono con l’assenso di tutti, al cenno di un solo; e in questo rinnovamento di ogni parte della vita sociale si procede nondimeno con una sorta di temperanza, come non accade nei momenti di rivoluzioni e di reazioni» (Croce), dopo tante fatiche e contrastati desideri. Il 2 agosto 1806 Giuseppe Bonaparte fece presentare un progetto di legge che aboliva le prestazioni angariche ed insieme ad esse altri abusi mille volte banditi dai tempi di Federico II e sempre risorti. Innumerevoli erano infatti i balzelli sulle persone e sulle cose; le terre, le industrie, i boschi, i fiumi, le acque, ogni prodotto, ogni entrata erano gravate di taglie e prestazioni. «Allora finì veramente il medioevo; allora la classe borghese salì veramente al governo degli stati. Nuovo l’ordinamento della proprietà: quello feudale formalmente e totalmente abolito, tolte tutte le sue giurisdizioni, rese libere le terre, annullati i fedecommessi, sciolte
le promiscuità demaniali, i demani comunali cominciati a ripartire alle popolazioni, convertiti in pagamenti di denaro e riscattabili gli antichi diritti feudali dei quali i comuni non dimostrassero l’illegittimità...; censiti ai fittuari i pascoli del tavoliere di Puglia e iniziatane la coltura; soppressi i conventi e messi in vendita i beni ecclesiastici; fatto un nuowo catasto e posta a base delle imposte quella fondiaria; aperto il libro del debito pubblico» (Croce). «...Liberando (il Mezzogiorno) dagli anacronismi e dai viluppi di un medioevo ormai scaduto, lo avviò verso forme moderne, più civili, più democratiche di vita. Tra le tante riforme del decennio francese basta ricordare l’eversione della feudalità, che, abolendo tutte le antiche prestazioni feudali ed i diritti proibitivi, lasciò ai baroni le sole terre di loro effettiva proprietà, la divisione dei demani feudali ed ecclesiastici, la quale mirava, attraverso un’oculata distribuzione di terre, a creare una cospicua classe di piccoli proprietari; la soppressione degli ordini monastici possidenti, i cui beni incamerati dallo stato vennero rivenduti ai privati ad eccezionali condizioni; il Codice napoleonico che, malgrado qualche menda come il divorzio, inconcepibile a quei tempi, unificava in modo organico la legislazione; il sistema amministrativo, con organi provinciali e comunali, e quello giudiziario, con tribunali e corti con propria giurisdizione territoriale; la compilazione dei catasti; la revoca di una miriade di imposte, sostituite dalla sola tassa fondiaria; l’istruzione elementare obbligatoria; la creazione di scuole e di collegi anche in provincia; il riordinamento dell’assistenza sanitaria e sociale» (Caldora). L’opera del Bonaparte fu poi ripresa da Gioacchino Murat, che nel 1810 poté dire di avere atterrata la feudalità, almeno nell’aspetto giuridico: che le numerose divisioni di terre fra le comunità e i baroni e le alienazioni dei possedimenti fondiari di oltre duecento conventi, per le circostanze in cui vennero fatte, finirono con l’accrescere, assai più che con l’intaccare, il potere del ceto privilegiato. Un ferreo vincolo di subordinazione economica continuò a legare il contadino povero a chi gli dava un boccone di terra da coltivare. E nonostante tutte le riforme, altro desiderio, altra brama moveva l’animo dei sudditi, non tanto
dei ceti umili, che ben poco potevano apprezzare le importanti innovazioni, quanto della borghesia, che costituiva la spina dorsale delle strutture statali; «si auspicavano istituzioni rappresentative che permettessero una particolare partecipazione più diretta al governo, anche per salvaguardare le posizioni economiche e sociali raggiunte, e soprattutto si reclamava una Costituzione. E poiché il Murat da questo lato sembrava non aver orecchio e, poiché la Sicilia per opera degli inglesi aveva ottenuto nel 1812 una costituzione, la nuova setta che si diffuse nell’Italia meridionale, la Carboneria, prese ad avversare il Murat e a considerare la possibilità di un Ferdinando re costituzionale; e si ebbero moti costituzionali in Calabria e in Abruzzo. E venne restaurata la monarchia borbonica, senza dissensi e ostilità. Ma ciò che avevano compiuto i Napoleonidi rimase immutato. Sicché non c’è dubbio che il decennio francese in complesso fu per il Mezzogiorno continentale epoca di rottura e di progresso, mentre allo stesso punto restava sempre la Sicilia. E solo nel 1821 sarà estesa anche ad essa la legislazione antifeudale già sperimentata nelle province continentali. Ancora una volta con scarso risultato, come lamenta il Colletta, che riconosce quanto il Napoletano dovesse ai francesi:«quella feudalità, cessata molte volte nel nome, non mai nei possessi, era finalmente per le nuove leggi distrutta, le stesse che sotto i re Giuseppe e Gioacchino operarono tra noi la piena caduta del barbaro edificio. Mancò tempo alla seconda prova, perciocché, spento indi a poco il reggimento costituzionale, tornò qual era la feudalità in Sicilia. Io credo che i modi bastati per noi erano scarsi per quell’isola, il popolo meno persuaso dell’utile riforma, il governo senza le giovani forze della conquista, gli aiuti e la grandezza di straniera potenza». A rendersi ragione della profonda radicazione del sistema feudale è opportuno riportare quanto scritto da Domenico Winspeare: «Le cause che hanno renduto grave la feudalità ai popoli sono state nel regno di Napoli le stesse che altrove, e i periodi di questa malattia politica a cui tutti i governi e tutte le nazioni di Europa hanno soggiaciuto si somigliano così nel generale come nel particolare; ma ragioni particolari alle vicende di questo paese hanno prodotto una varietà
di avvenimenti e di conseguenze forse altrove non conosciute. La feudalità presso le altre nazioni ha agito come su di un grande teatro, e i suoi effetti hanno corrisposto alla grandezza delle cagioni di cui erano il prodotto. I mali vi sono stati violenti ma più brevi; le parti che si sono collise fra loro hanno spiegato ciascuna una resistenza eguale alla compressione che riceveva; le nazioni in questa lotta, avendo fatto il saggio delle proprie forze, hanno scosso più presto il giogo dell’anarchia. Ma nel regno di Napoli l’anarchia feudale ha suddiviso in piccolissime parti il territorio nel quale ha agito, vi ha esercitato un potere più diretto ed immediato: i movimenti interni, che altrove meritano il nome di convulsioni politiche, hanno qua preso il carattere di fazioni sediziose; la nazione ha perduto ogni forza e vigore sotto un peso troppo superiore alle forze della sua sofferenza. In secondo luogo le altre nazioni hanno avuto un corso di mali che può dirsi loro proprio. Dopo le prime invasioni dei barbari, autori o cagioni del sistema feudale, ogni nazione è stata abbandonata a se medesima, ed il fenomeno de’ mali e dei rimedi che ciascuno in se stessa contenea ha finalmente portato lo sviluppo della coltura e delle leggi. Ma il regno di Napoli, passando da una dinastia e da una conquista nell’altra, ha fatto l’esperimento dei mali di tutte le nazioni; donde è avvenuto che, mentre queste cominciavano a godere dell’indipendenza e dell’ordine interno, il regno cadeva in nuove calamità, e i tempi segnati altrove come l’epoca del decadimento della feudalità sono pel regno di Napoli il principio di nuovi disordini. In terzo luogo le cagioni che hanno altrove distrutto la feudalità sono state dirette da uno spirito più uniforme e più conseguente, mentre qui la debolezza e l’inconseguenza hanno ad ogni passo interrotto il corso dei rimedi, che il solo tempo e l’opinione avrebbero seco loro portato. La più perniciosa di tutte le calamità per il governo esterno ed interno delle nazioni è la debolezza della autorità, soprattutto nei tempi e nelle circostanze nelle quali l’operare il bene o il reprimere il male non possono esserese non l’effetto della forza e del vigore. Per un destino di cui è difficile spiegare le ragioni, questo male ha fatto il caratteLa Rassegna d’Ischia n. 3/2012
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re de’ governi e delle amministrazioni, alle quali le province del regno hanno successivamente ubbidito quasi dalla caduta dell’Impero sin oggi... Della debolezza è stata figlia l’inconseguenza, ed entrambe sono concorse ad aggravare i mali della feudalità nel loro nascere, a prolungarne la durata, e a farli agire con una forza lenta e continua che ne ha rendute poi sì profonde le radici, l’analisi di queste cause potrà spiegare il perchè i regni di Napoli e di Sicilia nel primo loro nascere mostrassero un aspetto di prosperità e di grandezza che in tutti i tempi posteriori non hanno più riconquistato; o il perché i fondatori della monarchia si mettessero nel rango de’ primi Sovrani di Europa e godessero d’un potere e d’un’influenza, a cui i loro successori non hanno più aspirato, ovvero il perché la coltura delle lettere e delle arti, onorata in tutta Italia dal nome di “siciliana” nel decimoterzo e decimoquarto secolo, fosse andata poi retrogradando nei secoli più favorevoli al suo sviluppo e alla sua perfezione? Sono questi altrettanti quesiti che il paragone dei tempi eccita nello spirito di chiunque percorra semplicemente i periodi della nostra storia. L’anarchia nella quale caddero le province del regno dopo le prime invasioni espose le città e i villaggi e i rustici alle depredazioni delle milizie che le infestavano e alle violenze de’ loro cittadini facinorosi. Appena sorsero chiese, monasteri, o signorie, l’unico asilo sotto il quale si trovò una specie di sicurezza fu il commendarsi a’ potenti, mettersi sotto la loro protezione e vestire volontariamente la divisa della servitù. Le cause di questi disordini andarono sempre crescendo, il perché nell’undecimo e duodecimo secolo una gran parte de’ rustici del regno di Napoli erano divenuti o commendati, o servi delle diverse classi che allora se ne conosceano» (Winspeare). Ritornando alla situazione in Sicilia, «se la costituzione del 1812 aveva sancito l’abolizione della feudalità - senza che vi facesse seguito un’adeguata legislazione esecutiva - aveva d’altro canto contribuito a rafforzare, nelle istituzioni e nelle coscienze, la volontà d’indipendenza dell’isola, stimolando passioni e sentimenti, richiamando in vita vecchie tradizioni, innestando sul vecchio tronco la nuova linfa del liberalismo di ispirazione britannica» (Romeo). 46
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*** E la rivoluzione del 1820? Ferdinando I, ritornato a Napoli dopo la caduta della Repubblica del 1799, aveva instaurato repressione e violenza; ma quando il regno rimase ai Francesi erano state introdotte molte delle leggi di Francia; disposizioni che furono mantenute quando i Borboni rientrarono in Napoli e riconquistarono il reame; «cadde Murat nel 1815 ; ma non seco leggi, usi, opinioni, speranze impresse nel popolo per dieci anni» (Colletta). La classe intermedia frattanto (curiali in città, affittuari della terra e negoziatori di denaro nelle province) era cresciuta in potenza, ma non era ancora soddisfatta; in tutti gli animi vi era febbre di cose nuove. Di converso la Monarchia di Ferdinando era debole e sospettosa; i commerci erano depressi da tante lotte, impoverite le banche; le guerre numerose avevano trascinato a Napoli stuoli di persone desiderose di occupazioni civili. «L’indole meridionale, la quale attribuisce la fortuna più al caso che alla persistenza, la naturale vivacità delle genti del sud, l’amore e la tradizione dello otium cum dignitate, il posto o l’uffizio poco penoso, facean sperare rivolgimenti che tanti bisogni appagassero, tante ambizioni accontentassero» (Nitti) S’era pure venuta allargando la setta dei carbonari (società vasta di possidenti, vaga di meglio e di quiete, secondo il Colletta), composta di benestanti delle classi medie, di militari desiderosi di avanzamenti, di provinciali e di curiali bisognosi di mpieghi. Fu così che scoppiò la rivoluzione del 1820 «la più strana, la più incruenta, la più inverosimile di tutte le rivoluzioni che abbia potuto aversi a Napoli e forse in Italia» (Nitti). Da essa, senza che si versasse stilla di sangue, seguì un profondo mutamento delle basi politiche di tutto il reame e Napoli divenne paese costituzionale. Mutato il regime, mutarono anche le opinioni; la carboneria, che prima era perseguitata come setta dannosa di gente ribalda, divenne oggetto d’ogni lode. Essa può essere considerata come la chiusura e uno strascico del periodo murattiano e fu acconpagnata dal consenso della classe dei possidenti e non fu contrastata dalle plebi; sicché la monarchia dovette capitolare subito, venendole meno ogni punto di appoggio all’inter-
no per la resistenza. Ma poche erano le speranze di vita, in quanto aveva contro tutta l’Europa conservatrice; e il regime costituzionale, introdotto il 6 luglio del 1820, durò fino al 23 marzo del l821. «Nacque perché l’esercito del re assoluto si sbandò, mandato a combattere contro i ribelli; morì, perché i soldati del governo costituzionale, mandati a combattere contro lo straniero, si sbandarono prima di combattere» (Nitti). E, ottenuta quasi senza lotta, la costituzione doveva anche perire senza resistenza. L’opposizione al movimento carbonaro, che fu minimo nell’Italia continentale del Mezzogiorno, dove l’aristocrazia era fiaccata, ebbe condizioni particolari in Sicilia, dove potente ancora era la feudalità, la classe intermedia non ancora sì forte da aspirare al governo. Gli avvenimenti di Napoli non potevano essere seguiti in Sicilia; l’isola volle sì una costituzione, ma una costituzione autonoma e di carattere feudale, per cui si agitava l’aristocrazia. La rivolta fu soffocata, le resistenze furono vinte, perché il Parlamento napoletano e la setta carbonara sentivano che era impossibile affermare la costituzione di luglio senza vincere le resistenze di Sicilia. Vittoria che però sciupò molte energie di cui disponeva il nuovo governo costituzionale; e peraltro gli abusi della Carboneria «quasi stato nello stato e governo nel governo» (Croce) provocarono un clima di insicurezza per tutti. La situazione precipitò; il popolo, depresso, seguiva tutti i mutamenti senza coscienza, sperando sempre in qualunque mutamento per il re o contro il re; l’aristocrazia avversa; 1’esercito demoralizzato; la carboneria preda delle concupiscenze di persone desiderose di lucrosi impieghi. E intanto il re chiudeva nel cuore sensi di timore e di odio; aveva per timidità, anzi per viltà, giurata la costituzione, sperava per tradimento di abolirla. E le truppe austriache entrarono in Napoli senza trovare alcuna resistenza, dopo il tradimento del re, che aveva colto di sorpresa; si iniziò un periodo di violenze, di persecuzioni, di crudeltà. La rivoluzione dovea cadere («non ebbe il sacro battesimo del sangue, non fu opera di popolo, ma di cospiratori e di forensi, battaglieri in pace, pacifici in guerra»): le fu colpa cadere vilmente. «Vivere liberi o morire, essi gridaro-
no: morire ripetea l’eco delle montagne! entusiasmo effimero e fallace! quale derisione sanguinosa cade ora sulle loro teste. Infelici! eccoli inevitabilmente in preda ai fiotti amari del ridicolo e della infamia. Morire! no,voi non morrete più; la severa e terribile libertà, di cui avete compromesso l’augusta causa, il tradimento dei popolo di cui la vostra risolutezza aveva usurpata la stima e di cui il vostro delitto ha tradito la speranza, vi rifiutano egualmente l’asilo della morte e dell’oblio» (Lord George Byron). Parole crudeli e dure! ed infatti ad onore delle genti meridionali bisogna dire che per 70 anni la causa della libertà trovò in essi i principali sostenitori. Mentre altre genti d’Italia, più tenaci forse nel pericolo, ma meno insofferenti, chinavano il capo alla servitù, dal lembo estremo della penisola venivano le voci e i tentativi della riscossa. E fu l’esercito napoletano che, nel 1814, tentò, forse per la prima volta, la unità d’Italia, che popolo più fortunato dovea compiere: unità che anche con i suoi svantaggi è la nostra fortuna e la nostra salvezza, e che noi dobbiamo mantenere oggi soprattutto che le vecchie e perfide tradizioni separatiste, causa di ogni sventura nostra, risorgono malefiche negli animi italici. E furono i Napoletani che diedero maggiore numero di morti e di esuli per causa di pubblica libertà e di amore di Italia. E se l’opera dei meridionali fu un po’, come la loro natura, vivace, tumultuosa, disordinata, fu anche negli anni della servitù, la scintilla che mai si spense, che determinò altrove più grande e più poderoso incendio» (Nitti). Il moto costituzionale del 1820 non ebbe lo spirito di una nuova generazione, opera di uomini già maturi, esauriti, che «ora procuravano di mantenere quanto si era acquistato, non solo dal proprio paese, ma dalle proprie persone» (diversamente che nell’alta Italia dove già si era avviato il movimento romantico) vecchia era la loro forma mentale, il razionalismo settecentesco, che aveva abbandonato una parte di se stesso, la più idilliaca, nelle esperienze dell’assolutismo illuminato, e un’altra parte, la più estrema e astratta, ma anche la più apocalittica, in quelle del giacobinismo, e ora si era ridotto ad arte di governo e di politica, a calcolo utilitario, diffidente di ideali, di ideologie,
di poesie. Il carbonarismo aveva bensì procurato di dare uno sfondo religioso alle aspirazioni politiche, ma sostanzialmente non era uscito fuori dalla frigida teologia massonica e dal frigido suo simbolismo, se anche veniva in qualche modo sostituendo alle tendenze umanitarie quelle nazionali, più determinate e concrete» (Croce). *** «La storia dei fatti di Napoli dal 27 gennaio al 15 maggio del 1848 non è che la storia di pochi mesi; pure a chi vi guardi dentro apparisce la spiegazione di non poche delle difficoltà presenti. Molte cose sono scomparse, permangono tuttavia alcune tristi eredità. E il desiderio di pronte mutazioni e l’insofferenza di disciplina e il credere che si possa in pochi chiedere e ottenere trasformazioni, sono mali derivati a noi dalle rivoluzioni liberali tra il ‘20 e il ‘60» (Nitti). Il 1820 aveva lasciato due dolorose eredità: innanzi tutto l’idea, comune alla monarchia e alle classi medie, che il regime politico potesse e dovesse essere mutato non per modificazioni progressive, ma quasi di assalto; in secondo luogo l’idea di poter ottenere tutto dallo stato in tempi di rivolgimenti. Sicché si ebbero dovunque tentativi di rivolta e si presero a domandare sempre nuove e più sostanziali riforme; si accarezzavano antichi ideali costituzionali. Si imponeva la necessità di una costituzione, perché nel paese dilagava la corruzione, «dietro la solenne impalcatura delle istituzioni e degli ordinamenti che Ferdinando aveva perfezionati ma che non trovavano rispondenza in una sana coscienza politica» (Cortese). Fama ebbe allora la “Protesta” contro il malgoverno borbonico che il Settentrione indirizzò al popolo napoletano. «Nel Regno di Napoli - riferiva al Metternich da Napoli l’ambasciatore austriaco - si vuol cambiare l’indirizzo e forse anche la forma di governo, del quale ci si lamenta e del quale, occorre convenirne, si ha il diritto di lamentarsi. L’Amministrazione del paese è veramente deplorevole. I ricordi del 1820 non sono ancora interamente estinti in molte localita. Le benefiche riforme promesse allora dal governo costituzionale sono ancora desiderate e le ambizioni di provincia le ravvivano e le eccitano
per loro conto... I ministeri sono la vera sede della corruzione e dell’arbitrio. La massa del popolo è nella miseria e per questa ragione facile alla seduzione; le classi più elevate sanno bene dove è il male, ma esse sono in una incresciosa illusione sul rimedio da apportarvi; esse credono fermamente che la libertà della stampa, la pubblicità della tribuna, la responsabilità dei ministri, eccetera, le garantirebbero dagli abusi senza numero di cui si lamentano ed avrebbero l’effetto di moralizzare l’amministrazione. Il re non è impopolare; si rende anche abbastanza universalmente giustizia alle sue buone intenzioni; ma siccome si vede che nei quindici anni di governo non è riuscito a migliorare lo stato delle cose, il paese si rafforza nell’ideale che è necessario un cambiamento del sistema». E il monarca (Ferdinando II), dibattuto tra una politica di arditissime concessioni e una politica di resistenza ad oltranza, non esitò nel prendere le sue decisioni, recisamente contrario, com’era, alla concessione di una costituzione; anche perché, dati gli ordinamenti già in vigore nella monarchia, difficoltà costituiva una opera riformatrice di larga risonanza che soddisfacesse le richieste e dei liberali e dei democratici; ed anche soprattutto a causa della natura e complessità della questione siciliana. In Sicilia infatti, oltre a riforme, si cominciò a chiedere una completa divisione da Napoli; il movimento infatti divenne separatista e si volle che con Napoli vi fosse non altra unione che una unione personale; il re comune e basta. Si parlava di indipendenza più che di libertà. Con l’andar del tempo le due parti in lotta si irrigidirono sulle loro opposte posizioni sempre di più. Anche a Napoli peraltro il movimento da trasformista divenne rivoluzionario; le dimostrazioni assunsero carattere oltremodo minaccioso. La crisi decisiva ebbe inizio il 27 gennaio 1848; la capitale era percorsa da dimostrazioni politiche e vana si rivelava la minaccia di una sanguinosa repressione; il re ricevette da parte di quasi tutti i suoi generali l’avvertimento che l’esercito non avrebbe potuto soffocare i disordini in Napoli e nelle province; per converso il ministro austriaco gli faceva avere una nota diplomatica con l’ultimatum di riprendere tra le mani la La Rassegna d’Ischia n. 3/2012
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direzione del governo con la sua antica energia e di assumere personalmente il comando delle truppe contro la rivoluzione. Invece il re abbandonò la sua antica intransigenza; e quando giunse notizia che le truppe napoletane avevano abbandonato Palermo (il che significava la perdita del controllo sulla Sicilia), la mattina del 29 concesse la Costituzione. Quale costituzione? Non quella siciliana del 1812: rammentava amare umiliazioni; ed essendo di tipo inglese, era inattuabile in un paese, come il Mezzogiorno, privo di una vera e propria aristocrazia e di corpi privilegiati. Non quelle del 1799, del 1808, del 1815 che pure erano testimonianza di tristi giorni, e la prima era repubblicana e democratica, e la seconda di antiquato tipo napoleonico e la terza un mal congegnato compromesso tra opposte concezioni e per di più non avevano avuto un principio di attuazione. Non la monarchia “consultativa”. Non la Costituzione ispano-napoletana del 1820/21, troppo democratica e decentratrice. Non una Costituzione che desse la maggiore libertà agli organi periferici, anche perchè il Mezzogiorno non aveva avuto nel medioevo libertà comunali. Il re peraltro era preoccupato per alcune tendenze autonomiste insorte nelle singole province e regioni. E gli stessi liberali desideravano una costituzione diversa da quelle citate, perché potesse adattarsi a quegli accentratori ordinamenti amministrativi che i Francesi avevano importati nel Mezzogiorno durante il decennio e che, male applicati dal Borbone e dalla corruzione ministeriale trasformati in strumenti di arbitrio, erano divenuti caratteristici del paese e tali da non potersene prescindere nella riforma costituzionale, a meno di non voler gettare lo stato nella anarchia e di non voler togliere alla costituzione ogni carattere nazionale ed ogni aderenza all’effettiva realtà. La Costituzione doveva rendere operante in senso liberale quanto di buono era nelle istituzioni esistenti. Si provvide a dare una Costituzione moderata, che potesse controllare e contenere il radicalismo e l’autonomismo provinciale; e la prescelta fu una costituzione modellata sulla francese del 1830, della quale per di più si accentuò il carattere moderato e accentratore. E per eliminare ogni equivoco si provvide a definire la forma di governo che si 48
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era prescelta come temperata monarchia ereditaria costituzionale sotto forme rappresentative ove l’accento cadeva sulla parola “temperata” implicitamente contrapposta a “democratica”. «Onde frenare le tendenze centrifughe delle province, si ridusse pressoché a nulla la competenza del potere municipale, nel momento stesso in cui lo si ammetteva. Di fronte all’autonomismo siciliano si impegnò il sovrano a difendere la integrità territoriale dello stato. Si affermò peraltro che la Costituzione poteva essere modificata unicamente nei suoi adattamenti alla Sicilia, dichiarandola quindi immutatile per la parte continentale della monarchia, e cioè non punto di partenza per altre concessioni, ma termine finale di ogni riforma» (Cortese). Dal 29 gennaio al 15 maggio, quando la costituzione fu uccisa dalle violenze della piazza, se pure nella forma fu ancora per qualche tempo mantenuta dal re, trascorsero poco più di cento giorni. Ma la storia di quei cento giorni è così piena di insegnamenti, più che di avvenimenti, che spiega non poca parte dei fatti posteriori. Proclamata la costituzione, in Sicilia continuò la ribellione, mentre a Napoli si ebbero varie manifestazioni di gioia. Napoli si trovò d’un tratto a passare da un regime di dispotismo quasi assoluto a un regime di libertà quasi illimitata; ma mancava “l’educazione per godere di tanta libertà”» (Nitti). La Sicilia, inorgoglita dei primi successi, non solo non accettava la liberalissima costituzione, ma si proclamava autonoma, dichiarava decaduto il re e i suoi discendenti; trovavano così sfogo quelle tradizioni separatiste che la Sicilia aveva sempre nutrito; l’aristocrazia feudale potentissima e più resistente che altrove odiava la monarchia da cui era stata diminuita; la classe media vedeva di mal’occhio i napoletani. Ma anche a Napoli «gravissime furono le conseguenze dell’atto compiuto dal monarca in un paese che aveva aspirazioni politiche complesse e tali da suscitare aspre critiche sul carattere e sulla portata del tipo di costituzione prescelta, perché a Napoli si desideravano ordinamenti che moralizzassero l’ambiente politico e quindi si era ineluttabilmente avviati verso la richiesta di ordinamenti democratici. Inoltre alla questione istituzionale, così sostanziata,
ed alla questione nazionale bisognava aggiungere quella siciliana, che, come già nel 1820/21, tornava a distrarre l’attenzione del liberalismo meridionale dai problemi che gli erano propri» (Storia Illustrata). Il popolo, nella capitale come nella campagna, rimaneva avverso al nuovo regime e odiava per istinto e per tradizione la classe media, non vedendo alcun miglioramento dal nuovo ordine di cose, credeva che un ritorno al re assoluto avrebbe dato, sia pure per nuovi rivolgimenti, la possibilità di qualche benefizio. Di fronte alle correnti democratiche che si diffondevano nel paese con maggiore impeto, di fronte alla rivoluzione siciliana che minacciava la perdita dell’isola, scoppiò la crisi del 15 maggio con agitazioni di piazza e barricate; ma la vittoria toccò alla monarchia. Finiva per Napoli l’esperienza costituzionale e il Regno delle due Sicilie era definitivamente perduto per la causa della libertà e dell’indipendenza italiana. Nello stesso tempo comunque, profondamente sconvolta, senza più solide basi nella tradizione e nella devozione della nazione per la dinastia, la monarchia napoletana si avviò verso la fine. Ma la rivoluzione del 1848 mostrò ancora un’altra realtà, quella della inerzia, dell’immaturità politica, della scarsa combattività, dell’egoismo di gran parte della borghesia, della indifferenza o inimicizia delle plebi e dei contadini. «Negli ultimi dodici anni del regno, la vita intellettuale e morale fu a Napoli squallida, non meno di quella politica. Era venuta meno la possibilità di attività autonoma, e nondimeno mancarono le forze per una rivoluzione. La spedizione di Pisacane si abbatté sanguinosamente, senza suscitare il più piccolo moto nel paese. Dopo la guerra del ‘59 e mentre i minori stati italiani rapidamente si fondevano e unificavano col Piemonte, si attese indarno che Napoli si sollevasse; e la nuova Italia dové essa dare l’avviata con la politica del Cavour e con la spedizione di Garibaldi, e gli esuli, tornati in patria, riuscirono a superare i dissensi, a rompere gli indugi e promuovere il plebiscito per la unità» (Croce).
III - continua
Rassegna Stampa Ischia, Castello Aragonese, Chiesa di Santa Maria della Libera Gina Carla Ascione
La Vergine Annunciata con San Nicola (Affresco), Ignoto inizi sec. XIV
La Madonna con Bambino e Santi (Affresco), Ignoto seconda metà sec. XIV
La chiesa della Madonna della Libera, risalente al XII secolo, e dedicata in un primo tempo a S. Nicola di Bari, si presenta oggi spoglio, ad eccezione di alcune tracce di affresco sulla parete a sinistra dell’ingresso e dei due dipinti murali sovrapposti, posti a metà della navata, sul lato destro rispetto all’ingresso. L’intervento di restauro, che è consistito nello stacco del dipinto più tardo, ha consentito la restituzione di entrambi, permettendo un’analisi stilistica dei due manufatti. Il dipinto sovrapposto si presentava come il più danneggiato, in quanto era stato esposto per un lungo periodo alle intemperie ed aveva costituito una protezione per quello più antico. L’opera raffigura una Madonna con Bambino, lacunosa nella parte centrale del corpo e nell’intera figura di Gesù, del quale sono visibili soltanto i piedini. La Vergine appare piuttosto leggibile, mentre delle due figure laterali, in piedi, rimangono soltanto lacerti. L’affresco, di alta qualità pittorica, presenta affinità con il ciclo della cripta della Cattedrale del Castello, conservati nella Cappella a destra dell’ingresso, raffiguranti una teoria di Santi e Martiri, databili intorno agli anni ‘50 del Trecento e riconducibili alle opere contemporanee eseguite da Roberto d’Odorisio e da Lello da Orvieto o miniate da Cristoforo Orimina. Il dipinto più antico raffigura, invece, una Vergine Annunciata in
trono, ai cui piedi si inginocchia un Angelo e dal lato opposto un San Nicola con il fanciullo coppiere. L’iconografia è legata al miracolo della liberazione di un ragazzo fatto prigioniero dai saraceni e detenuto a Babilonia, dove fungeva da coppiere del sultano, riportato in patria attraverso l’intervento miracoloso del Santo. La presenza di san Nicola, anche negli affreschi della cripta della Cattedrale del castello, e sull’eremo del monte Epomeo appare chiaramente legata al terrore suscitato sull’isola dalle continue incursioni turche. Il dipinto, degli inizi del XIV secolo, può essere ricondotto ad un ambito meridionale, puntato verso una cultura tardo bizantina, di tipo pugliese, alla maniera di Giovanni da Taranto, attivo a Napoli a partire dal 1304. Gli scorci architettonici del trono, raffigurato come un’architettura gotica, finemente intarsiata con mosaici cosmateschi, richiamano l’impianto delle storie di San Domenico della tavola, oggi conservata nel Museo di Capodimonte, proveniente da una chiesa domenicana del territorio. Nell’affresco ischitano, così come nella tavola di Capodimonte, si mescolano riferimenti ai miniatori attivi a Napoli alla fine del duecento, di matrice svevo-bolognese-maiorchina, con l’eco suscitata dalle novità giottesche nelle Storie francescane di Assisi. L’interpretazione del mo-
Opuscolo del Ministero per i Beni e le Attività culturali. Salone dell’Arte del Restauro e della Conservazione dei Beni Culturali e Ambientali (Ferrara 2-5 aprile 2008)
Direzione Regionale per i Beni Culturali e Paesaggistici della Campania. Soprintendenza per i Beni Architettonici, per il Paesaggio e per il Patrimonio Storico Artistico ed Etnoantropologico di Napoli e Provincia dello assisiate si limita, tuttavia, ad una rilettura superficiale esclusivamente delle partiture architettoniche, in un’opera che reinterpreta in versione gotica tardo-duecentesca le idee rivoluzionarie del fiorentino. Nel corso del restauro sono emersi interessanti dati tecnici sulla natura dei due dipinti. Il più antico è stato realizzato su di uno strato d’intonaco di malta di calce e sabbia di colore grigio chiaro, di circa un centimetro di spessore. Attraverso una lacuna sul lato sinistro sono visibili tracce di colore rosso, forse riferibili al disegno preparatorio (sinopia); lo stesso disegno è riportato con una quadrettatura leggibile in particolare intorno al viso della Vergine. Le aureole sono in rilievo, con scanalature e resti di doratura; le decorazione in opus sectile del trono e le tegole del tetto sono riprodotte con incisioni molto sottili e precise. In origine dovevano essere presenti lumeggiature in oro, delle quali rimangono leggere tracce soprattutto nei fiori sul manto della Vergine. Il dipinto più tardo è stato eseguito su di uno strato d’intonaco molto sottile, composto da materiali simili a quelli del primo e probabilmente reperibili nella zona intorno La Rassegna d’Ischia n. 3/2012
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alla chiesetta. La pittura è realizzata a fresco, con la tecnica del “verdaccio” per gli incarnati, dei quali purtroppo rimane soltanto lo strato preparatorio, mentre le successive velature sono andate perdute. L’intervento di restauro è consistito nel distacco del dipinto superiore e nella sua collocazione su pannello in nido d’ape e vetroresina. L’affresco staccato presentava
grandi lacune, che sono state riempite con una malta neutra di tonalità e composizione simile a quella originale ritrovata sulle pareti della chiesa. Una volta ricollocato sul muro alla stessa altezza del dipinto più antico, è stato completato il lavoro di pulitura cui è seguita l’integrazione delle lacune e la presentazione estetica. Il dipinto più antico, molto ben Castello d’Aragona Chiesa della Madonna della Libera Costruita nel XII secolo, apparteneva alla famiglia Calosirto d’Ischia, dalla quale nacque poi il Santo Patrono dell’isola, San Giovan Giuseppe della Croce. Era la parrocchia di San Nicola. Nel 1301 durante l’ultima eruzione dell’Epomeo (cratere del Monte Rotaro) il popolo d’Ischia fece voto alla Madonna e le dedicò la chiesa detta della Libera perché la Madonna lo aveva salvato dalla catastrofe. Infatti è effigiata con le mani protese in avanti nell’atto di fermare la lava vulcanica. L’immagine esposta nella chiesa è la copia fedele dell’origimale esistente nella cattedrale d’Ischia, dove fu trasferita agli inizi del 1800 da questa chiesa. La copia è stata eseguita dal maestro pittore Antonio Cutaneo d’Ischia. 50
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aderente al suo supporto e con ottime condizioni della pellicola pittorica, non ha subito danni durante le operazioni di stacco. Il restauro è consistito nella rimozione a bisturi dei residui della malta del dipinto superiore e in una leggera pulitura con spugna umida e impacchi di carbonato di ammonio. Sono state successivamente eseguite piccole stuccature per consolidare le fessurazioni e le lacune provocate dalla scalpellatura antica dell’intonaco. Si è proceduto infine ad un leggero ritocco attraverso il quale, con velature ad acquarello, è stato abbassato il tono delle lacune provocate dallo scalpello e le abrasioni della pellicola pittorica. E stata infine rimossa parte della cornice in stucco ed in alcuni punti si sono rinvenute tracce della antica cornice dipinta. Restauro: Ditta Martelli Castaldi s.a. s.
Pensieri, Parole, Musica e Comete nella poesia del poeta ischitano
Il sogno della luce di
Pasquale Balestriere Il periodico La Nuova Tribuna Letteraria di Padova ha dedicato un servizio con intervista al poeta di Barano d’Ischia Pasquale Balestriere, accompagnando la recensione del suo libro di poesie Il sogno della luce (Edizione del Calatino), pubblicato nel 2011. Ne ha curato i testi il poeta Pasquale Matrone, che ringraziamo per la diponibilità a permettercene la pubblicazione ne La Rassegna d’Ischia.
di Pasquale Matrone Nato nel 1945 a Barano d’Ischia, Pasquale Balestriere si è laureato in Lettere presso l’Università di Napoli. Docente in varie scuole, ha concluso la sua carriera presso l’Istituto Tecnico Commerciale e per Geometri “Enrico Mattei” di Casamicciola Terme, dove ha lavorato per molti anni. Oltre agli studi letterari e storici e ad approfondimenti psicopedagogici, si è dedicato a ricerche e osservazioni su cultura, tradizioni e dialetti dell’isola d’Ischia, raccogliendo materiale copioso destinato alla salvaguardia delle peculiarità isolane. Nel corso del tempo, Balestriere si è altresì dato alla produzione letteraria, scrivendo poesie, saggi critici e racconti e ottenendo prestigiosi riconoscimenti in premi letterari di respiro nazionale. Ha pubblicato le sillogi: E il dolore con noi, Effemeridi pitecusane, Prove d’amore e di poesia, Del padre del vino, Quando passaggi di comete e Il sogno della luce, tutte accolte favorevolmente dalla critica. Si sono, tra gli altri, interessati della sua poesia Marica Razza, Luigi Pumpo, Guido Massarelli, Claudia Turrà-Rizzuto, Alberto Mario Moriconi, Walter Ciapetti, Giorgio Bàrberi Squarotti, Raffaele Urraro, Nazario Pardini, Luigi Maino, Paolo Ruffilli, Pasquale Matrone, Umberto Vicaretti, Giuseppe Vetromile, Carla Baroni, Gian Paolo Marchi, Elio Andriuoli, Lorenza Rocco, Antonio V. Nazzaro, Luciano Nanni. Collabora con giornali e riviste letterarie ed è presente - come componente o presidente - in varie giurie di premi letterari. Nei suoi scritti, Balestriere racconta la condizione dell’uomo, la sua inquietante e misteriosa fatica di esistere... Siamo frammenti solitari d’universo, smarriti, oggi più di ieri. Lo ripete con virile e controllata lucidità: il presente si è svuotato di linfa e di attese; l’orizzonte è sparito; la nebbia ha cancellato futuro e speranza; il passato è stato sommerso da aride montagne di sabbia; puntigliosi e taciti beduini, procediamo curvi, schiacciati dal peso di una storia che troppo spesso divinizza immeritevoli parvenze; e non sappiamo dove la nostra anima andrà a fermarsi quando dovrà sciogliersi dal corpo; forse neppure oggi sappiamo dove stiamo. Fugit irreparabile tempus; labuntur anni. Dice questo, Balestriere. Come tanti altri. Ma riesce a farlo con un linguaggio che nulla affida all’improvvisazione o ai luoghi comuni e con un respiro nuovo e contagioso. Lettore attento ed estimatore de La Nuova Tribuna Letteraria, si è reso subito disponibile, quando, per telefono, gli ho proposto l’intervista. Il singolo, l’esistenza e la Storia. Quale rapporto? La vita del singolo è complessa; è sempre difficile per il singolo rapportarsi con gli altri e con la Storia. Calarsi nell’esistenza richiede energia, impegno. Siamo costretti, a volte, ad assistere e ad accettare cose che non condividiamo. Vediamo emergere i mediocri, il nulla. E non abbiamo mezzi adeguati a modificare il corso degli eventi; siamo incapaci, forse, di farci verità. Dentro di noi cresce di giorno in giorno l’amarezza e, con essa, la voglia di reagire, prendendo le distanze dalle brutture e condannando il trionfo dell’apparenza e della menzogna. La Rassegna d’Ischia n. 3/2012
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Che cosa significa, per te, la luce? Come ho scritto nel mio ultimo libro, ritengo preziosa quella fisica, quella che consente ai miei occhi di guardare il mondo, soprattutto da quando ho corso il rischio di non vedere più. Ma, come è facile comprendere, ben altra e assai più preziosa è la luce a cui alludo e di cui, a mano a mano che gli anni passano, avverto sempre più sete... Vado in cerca di verità, stento a cogliere il senso del vivere e del morire, mi riesce difficile accettare l’ingiustizia palese del dolore e del silenzio smisurato di Dio...
Linguaggio e linguaggi della poesia... La poesia si lascia rappresentare da una serie molteplice e variegata di linguaggi. Lo fa allorché il poeta risulta motivato a cantare da un’esigenza autentica. E, naturalmente, se possiede strumenti espressivi adeguati. Ogni poeta vero ha il suo linguaggio, quello che si colora della sua personalità, quello riconoscibile per l’altezza, l’intensità, il timbro, il tono... Ogni poeta autentico è unico, inimitabile nel modulare il suo canto. Intendo, dunque, il linguaggio come
la somma dei linguaggi inconfondibili dei singoli poeti. La scrittura serve a riempire vuoti, a pareggiare i conti che non tornano... Sei d’accordo? Quali vuoti intendi riempire e quali sono i conti che miri a pareggiare con i tuoi versi? La brevità della vita è uno stimolo alla riflessione per tutti. È questo il primo vuoto che, a gran voce, chiede di essere riempito. Durante l’arco della nostra esistenza, vediamo crescere a dismisura la lista dei vuoti. Essa coincide con le nostre inadempienze,
Il Sogno della Luce di Pasquale Balestriere - Ed. del Calatino, 2011 «Come la campagna devastata / è il mio spirito / pallido nel crepuscolo sgomento... Mi affido / al palpito fresco della verzura, / finalmente certo che / son fatti i giochi / e chiuso è il cerchio. / Posso dunque partire». «... Hai chiesto, madre, quanti sorsi d’acqua / per mandar giù la pillola occorressero. / Ha riso, Rosa. Io no, / perché quella domanda / mi ha spento ogni pur minima certezza». «Sottratto alla vita corrente / scivoli di lato, / cuoio consunto, scarto di ciabattino / abbandonato alla pozzanghera. / Ah, se potessi senza traumi scioglierti / da questo grumo càrneo detto corpo...». «In una bestemmia di cielo / l’acre momento della vita. / E fu tutto / senza scampo». Ho scelto, stralciandoli da luoghi diversi, quattro passi del poemetto Il sogno della luce di Pasquale Balestriere. L’ho fatto con l’intento di coinvolgere subito il lettore di questa mia riflessione, di farlo partecipe di un canto che ancora non ha avuto modo di leggere e che io, invece, già avverto il bisogno di riascoltare per meglio coglierne le intenzioni profonde, per riassaporarne l’impareggiabile armonia. Mi succede, con la poesia di Balestriere, di mettere da parte il distacco professionale del recensore imparziale e asettico. Capitò già con Quando passaggi di comete, il florilegio lirico pubblicato dal poeta ischitano nel 2010. Mi accade perché ritrovo nella poesia di Balestriere la rapidità, la misura, la compostezza e il lungo lavoro di bulino degli alessandrini, di Callimaco, di Catullo e dei poeti neoterici, avvezzi a procedere con perizia raffinata, con eleganza e, soprattutto, affidandosi a ritmi nuovi, meno ossequiosi della forma tradizionale e più fedeli all’autenticità dei contenuti, meno banali e pomposi, più adatti a farsi voce dell’esistenza e delle sue contraddizioni. Perché è proprio questo che sa fare, con un timbro di voce inconfondibile, Pasquale Balestriere: scandagliare i percorsi inquietanti e misteriosi dell’avventura della vita; scrutare l’orizzonte dell’inconoscibile; analizzare dettagli solo in apparenza insignificanti della quotidianità per cercarne le radici e il senso; confrontare la propria fragilità di individuo col dolore, la malattia, la morte, l’oblio e il silenzio assurdo di Dio. Un’operazione delicata agli occhi è il dettaglio accidentale da cui ha origine il poemetto. Il poeta teme di non essere più in grado di vedere; è ansioso; paventa futuri scenari dominati dal buio. Accade a lui ciò che accade a tutti. Si accorge della preziosità delle cose, come della salute, proprio quando avverte incombente la minaccia di perderle. Più che mai ora che rischia di venirne privato, Balestriere riscopre la luce, ne ha più sete di quanto mai ne abbia avuta, ne coglie con diversa coscienza la funzione insostituibile, la divina bellezza, la panacea per vincere ogni sorta di tenore. A dargli sostegno in questa prima tappa della sua Via Crucis, ritorna dal regno delle ombre la figura silenziosa, tenace e rassicurante di suo padre. Lo aiuterà ancora, come da vivo. Lo farà ora, come altre volte. La seconda parte del libro è una sorta di dialogo-soliloquio con la madre, lei pure ormai da qualche anno ha lasciato la vita. È lei a ritemprarne l’anima angosciata e dolente con la sua saggezza umile e antica, a fornirgli le risorse necessarie a riconciliarsi con la morte, a comprenderne l’ineluttabilità e le ragioni, a capire che la cosa che più conta per un essere umano va oltre gli orizzonti degli occhi e del corpo; che bisogna tendere verso ben altra luce, meno precaria, capace di rischiarare orizzonti impensabili. Come è abituato a fare, Balestriere va oltre, non si fenna alla presa d’atto lucida e amara dell’umana condizione; si sforza di individuare spiragli; cerca di dare senso alla bestemmia di cielo, generatrice di vita, solo in apparenza acre e senza scampo, finge di essere vicino a individuare la medicina capace di separare senza traumi l’anima leggera dal suo grumo carneo detto corpo; sogna, pregustando l’ebbrezza della luce promessa, di avere individuato la formula magica che gli consentirà finalmente di dare una risposta secca e convincente alla domanda di sua madre, di non avere più dubbi sul numero esatto di sorsi d’acqua necessari per mandare giù la pillola...
Pasquale Matrone
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i debiti di affetto seminati in giro; con le cadute, le sconfitte, le scelte rimandate per ignavia o per indifferenza. È proprio vero. Chi sceglie la poesia come viatico è motivato dall’esigenza di pareggiare i conti che non tornano. Che cosa leggevi da ragazzo? All’inizio, ho letteralmente divorato i romanzi di avventura. Affascinato da Salgari e da Verne, ho esplorato con avidità gli universi da loro descritti... Mi guidavano oltre i confini dell’isola, verso spazi smisurati e favolosi. E poi mi riportavano nella mia terra, con occhi più allenati a scoprire anche in essa cose che mai prima sarei stato in grado di vedere. Qualche anno
più tardi mi sono immerso nella grande narrativa italiana e straniera del Novecento. Poi ho incontrato Dante. E me ne sono innamorato. Un amore che dura ancora. Che rapporto c’è tra poesia e memoria?... Poesia e memoria risultano intimamente legate. Leopardi docet. Nello Zibaldone, il poeta di Recanati scrive che la poesia è ricordanza..., che la rimembranza è essenziale e principale nel sentimento poetico, non per altro, se non perché il presente, qual ch’egli sia, non può esser poetico; e il poetico, in uno o in altro modo, si trova sempre consistere nel lontano, nell’in-
definito, nel vago. Condivido in pieno. A che serve la critica letteraria? Quando il critico rivela di essere all’altezza del suo mestiere, quando è dotato di umiltà e di onestà intellettuale, il suo lavoro risulta importante per chi scrive e per chi legge. Aiuta, infatti, lo scrittore a capirsi, a crescere; e, nel contempo, lo gratifica e gli fornisce stimoli preziosi per utilizzare al meglio le sue potenzialità ancora inespresse. Aiuta altresì il lettore, fornendogli dettagli e strumenti utili alla comprensione del valore, della funzione e delle intenzioni del testo. Pasquale Matrone
Premio Ischia Internazionale di Giornalismo Piazzale del Soccorso (Forio) 30 giugno 2012
Martin Wolf, Maria Latella, Massimo Franco e Paolo Graldi sono in vincitori della 33ma edizione del “Premio Ischia Internazionale” di Giornalismo, in programma quest’anno il 29 e 30 giugno prossimo sull’isola verde. Lo ha deciso la giuria formata da Luigi Contu, direttore Ansa, Virman Cusenza, direttore “Il Mattino”, Marco Demarco, direttore “Corriere del Mezzogiorno”, Giuliano Giubilei v. direttore “Tg3”, Roberto Napoletano, direttore de “Il Sole 24 ore”, Antonio Martusciello, commissario “Agcom”, Giuseppe Marra, presidente dell’ “Adnkronos”, Clemente Mimun, “direttore Tg5”, Mario Orfeo, direttore “Il Messaggero”, Gennaro Sanguliano v. direttore “Tg1”, Mario Sechi, direttore “Il Tempo”, Alfonso Ruffo, direttore “Il Denaro”, Sara Varetto, direttore “SKY tg24”, Antonio Verro, consigliere Cda RAI, Giovanni Maria Vian direttore de “L’Osservatore Romano” e da Carlo Gambalonga, segretario generale del premio.
Martin Wolf, editorialista del ’’Financial Time’’ e docente all’Oxford Universitay, è stato scelto per l’autorevolezza delle sue analisi sull’attuale situazione economica e finanziaria mondiale; Maria Latella è stata premiata per il successo ottenuto con la sua trasmissione ’’L’intervista’’ in onda su Sky, Massimo Franco per i suoi puntuali commenti politici dalle colonne del ’’Corriere della Sera’’, mentre il “Premio Ischia alla carriera” è stato assegnato a Paolo Graldi, già direttore de “Il Mattino” e de ’’Il Messaggero’’. Una sezione del Premio Ischia 2012 sarà dedicata anche ai giovani: una borsa di studio, sponsorizzata dalla Coca Cola HBC Italia, intitolata a “Maria Grazia Di Donna”, giornalista prematuramente scomparsa, sarà assegnata ad un allievo dell’Università “Suor Orsola Benincasa” di Napoli. La cerimonia di consegna della XXXIII edizione del Premio Ischia, sotto l’Alto Patronato della Presidenza della Repubblica, con i patrocinii della Presidenza del Con-
siglio dei Ministri e del Ministero della Cooperazione internazionale e integrazione (Dipartimento della Gioventù), e con il sostegno della Regione Campania e della Camera di Commercio di Napoli, si terrà al Piazzale del Soccorso di Forio sabato 30 giugno 2012 e sarà interamente ripresa dalle telecamere di RAI UNO.
Programma 2012 Venerdi 29 giugno 2012 Sala Azzurra - Hotel della Regina Isabella, Lacco Ameno - Dibattito: “La comunicazione ai tempi di Twitter” - Diretta via Twitter e Facebook - Il vincitore della XXXIII edizione del Premio Internazionale incontra la stampa italiana. Sabato 30 giugno 2012 - Piazzale del Soccorso, Forio - Cerimonia di consegna della XXXIII edizione del Premio Ischia Internazionale di Giornalismo, ripresa da RAI UNO.
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Paese di tufo, silenzio e luce : il centro antico di Forio d’Ischia, un capolavoro urbanistico dimenticato. Nell’ambito della Settimana della Cultura (14/22 aprile 2012), grande festa collettiva con un ricco calendario di appuntamenti: mostre, convegni, aperture straordinarie, laboratori didattici, visite guidate e concerti, a Forio il 22 aprile 2012 è prevista una visita guidata al centro antico, un capolavoro urbanistico, con il seguente programma: Visita guidata alla scoperta del centro storico antico di Forio, caratterizzato da un tessuto urbano dove l’aspetto architettonico/antropico si integra in maniera unica con quello geologico. L’evento mira ad elevare - attivando la più ampia partecipazione turistica possibile - l’attenzione dei concittadini e delle istituzioni locali nei confronti di questa parte del paese, soggetta a degrado ed incuria nonostante la sua riconosciuta valenza di monumento dell’ urbanistica spontanea. Forio è paese di chiese e di torri : tappa presso la pregevole chiesa di S. Carlo, incastonata nel dedalo dei vicoli, presso il Torrione (Museo Civico), la Torre Quattrocchi e la Torre
Mostra
Vele al vento
Testimonianze della vocazione marinara di Napoli
In occasione dell’America’s Cup, il più prestigioso torneo di vela della storia che si svolgerà a Napoli nella seconda settimana di aprile, il Museo di Palazzo Reale partecipa al programma di valorizzazione della città partenopea presentando la Mostra “Vele al Vento. Testimonianze della vocazione marinara di Napoli”. L’esposizione, frutto della collaborazione tra la Soprintendenza per i Beni Architettonici, Paesaggistici, Storici, Artistici, ed Etnoantropologici di Napoli e Provincia e l’Archivio di Stato di Napoli, intende celebrare il legame millenario che collega la città di Napoli al mare. Nelle Sale XIV, XV, XVI e XVII del piano nobile, la cosiddetta Galleria di Mezzogiorno, sono esposti disegni, incisioni e dipinti, alcuni dei quali mostrati al pubblico per la prima volta. Le opere, insieme con il ricco patrimonio grafico inedito conservato nell’Archivio di Stato, costituiscono lo spunto per rievocare la profonda vocazione marinara della città e dei suoi abitanti. La mostra nasce infatti dall’esigenza di esporre al pubblico, in chiave diversa dal solito, una parte del ricco patrimonio delle raccolte d’arte, dei documenti e più in generale delle
Costantina. Si chiederà l’apertura straordinaria dell’Archivio Storico dell’Avv. Nino D’Ambra. I colori e le luci di Forio hanno ispirato molti artisti e pittori del ‘900 per cui si combinerà il racconto naturalistico, architettonico e storico con quello artistico; ma in maniera non accademica, recuperando la memoria viva di persone ed eventi. Cercheremo inoltre di ottenere l’apertura alla visita di alcuni ateliers di artisti tuttora in attività. Forio è anche il paese delle secolari tradizioni enologiche: visita ad un’antica cantina scavata nel tufo e assaggio di vino locale, con ingresso in orti e vigneti (di solito gelosamente nascosti dalle “parracine”, i tipici muretti a secco), ancora interclusi nella trama dei fabbricati, piccole oasi da difendere dalle aggressioni edilizie. Si parte dalla Basilica di Santa Maria di Loreto, si prosegue per il Cierco, ci si dirige poi verso la chiesa di S.Maria di Visitapoveri e il Soccorso. L’itinerario comprese le tappe durerà circa tre ore. L’organizzazione sarà a carico di Legambiente Ischia, alcuni Soci ben qualificati fungeranno da guide. L’evento è promosso dalla Direzione Regionale per i beni culturali e paesaggistici della Campania. (Fonte: Mibac) testimonianze della tradizione marinara di Napoli soffermandosi sul ruolo navale e mercantile della città a cavallo tra il Settecento e l’Ottocento. Le opere in mostra raffigurano paesaggi, vedute e soprattutto imbarcazioni dell’epoca, straordinaria testimonianza dell’alto livello della tecnica costruttiva navale raggiunta. Di quasi nessuno dei magnifici vascelli resta traccia diversa dal segno su carta del progettista o dal ritratto su tela del pittore, che ebbe modo di ammirarlo mentre solcava le onde del mare, con le vele spiegate al vento. Protagonista, quindi, oltre al mare, è l’imbarcazione, nel suo aspetto non solo estetico ma anche più propriamente “tecnologico”, che ci restituisce un’iconografia navale tanto ricca quanto affascinante, documento storico unico di manufatti ormai perduti. La mostra è aperta dal 5 Aprile al 4 giugno 2012, visitabile tutti i giorni, ad esclusione del mercoledì, dalle ore 9,00 alle 19,00, acquistando il solo biglietto d’ingresso al Museo dell’Appartamento Storico del Palazzo Reale di Napoli. Testi del catalogo di Eugenio Lo Sardo e Marcello Mosca. - Comitato scientifico: Stefano Gizzi, Imma Ascione, Gina Carla Ascione. - Il catalogo, Paparoedizioni, è stato pubblicato con il contributo della Grimaldi Lines. (Fonte: Palazzo Reale di Napoli)
Mirò poesia e luce Roma ospiterà, dal 16 marzo al 10 giugno 2012, una rassegna esaustiva dell’opera di Joan Miró. E non solo. Perché si potranno ammirare oltre 80 lavori del genio catalano, mai giunti prima nel nostro Paese, tra cui 50 olii di sorprendente bellezza e di grande formato, ma anche terrecotte, bronzi e acquerelli. E questo grazie alla Fundació Pilar i Joan Miró di Palma di Mallorca, che detiene gran parte del patrimonio dell’artista e che ha concesso in via del tutto straordinaria le sue opere per un’anteprima italiana. La mostra sarà ospitata a Roma al Chiostro del Bramante, ed è prodotta e organizzata da Arthemisia Group e 24 ORE Cultura - Gruppo 24 ORE, con DART Chiostro del Bramante. 54
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Edizioni La Rassegna d’Ischia Raffaele Castagna - Calcio Ischia - Storia, risultati, classifiche, protagonisti delle squadre isolane negli anni 1957/1980 - Supplemento al n. 1/aprile 1981 de La Rassegna d’Ischia. Giovanni Castagna - Guida grammaticale del dialetto foriano letterario – 1982. Giovanni e Raffaele Castagna - Ischia in bianco e nero - 1983. Giuseppe d’Ascia - Caterina d’Ambra (dramma storico del 1862) - Introduzione e note a cura di Giovanni Castagna - 1986. Giovanni Maltese - Poesie in dialetto foriano: Cerrenne I, II, III; Ncrocchie; Sonetti; Poesie inedite - Ristampa con introduzione, note, commento e versione in italiano a cura di Giovanni Castagna - 1988. Raffaele Castagna - Lacco Ameno e l’isola d’Ischia: gli anni ‘50 e ‘60, Angelo Rizzoli e lo sviluppo turistico (cronache e immagini) - 1990. Vincenzo Cuomo - La storia attraverso i suoi personaggi - Supplemento al n. 1-Febbraio 1991 de La Rassegna d’Ischia (edizione fuori commercio). Francesco De Siano - Brevi e succinte notizie di storia naturale e civile dell’isola d’Ischia (1801) - Ristampa Supplemento de La Rassegna d’Ischia / giugno 1994. Pietro Monti - Tradizioni omeriche nella navigazione mediterranea dei Pithecusani - Supplemento de La Rassegna d’Ischia n. 1/Gennaio 1996. Pietro Monti – Pithekoussai, segnalazione di siti archeologici - Parte I - La Rassegna d’Ischia n. 1/1997. Venanzio Marone - Memoria contenente un breve ragguaglio dell’isola d’Ischia e delle acque minerali (1847) - Ristampa con introduzione di Giovanni Castagna - Supplemento de La Rassegna d’Ischia/giugno 1996. Pasquale Balestriere - Effemeridi pithecusane (Poesie) - Giugno 1994 (edizione fuori commercio). Vincenzo Pascale - Descrizione storico-topografico-fisica delle Isole del regno di Napoli (1796) - Ristampa allegata a La Rassegna d’Ischia, aprile 1999. Vincenzo Mennella - Lacco Ameno, gli anni ‘40 - ‘80 nel contesto politico-amministrativo dell’isola d’Ischia, gennaio 1999 (edizione fuori commercio). Raffaele Castagna - Ischia e il suo poeta Camillo Eucherio de Quintiis, allegato a La Rassegna d’Ischia (edizione ridotta), settembre 1998. Chevalley De Rivaz J. E, - Déscription des eaux minéro-thermales et des étuves de l’île d’Ischia (1837) - Ristampa in versione italiana curata da Nicola Luongo, 1999. Philippe Champault - Phéniciens et Grecs en Italie d’après l’Odyssée (1906) - Ristampa in versione italiana curata da Raffaele Castagna con il titolo L’Odissea, Scheria, Ischia, 1999. AA.VV. - Il Castello d’Ischia: la rocca fulgente - scritti vari ed in particolare: Stanislao Erasmo Mariotti - Il Castello d’Ischia (1915). Raffaele Castagna (a cura di) - Ischia: un’isola nel Mar Tirreno... - Raccolta di articoli vari già pubblicati su La Rassegna d’Ischia (storia - archeologia - folclore....), settembre 2000. Antonio Moraldi - Ferdinando IV a Ischia (1783-1784) - Ristampa (allegato de La Rassegna d’Ischia n. 5 / Settembre 2001). Paolo Buchner - La Villa Reale presso il porto d’Ischia e il protomedico Francesco Buonocore (1689-1768) Ristampa (allegato de La Rassegna d’Ischia n. 5 /Settembre 2001). Assoc. Pro Casamicciola - Sotto il sole di Casamicciola - Raccolta di scritti vari sulla cittadina isolana, a cura dell’Associazione Pro Casamicciola Terme - (Edizione fuori commercio, distribuita ai partecipanti al Premio Ciro Coppola 2001). Camillo Eucherio de Quintiis - Inarime (poema in latino di oltre 8000 versi), pubblicato nel 1727. Versione integrale italiana curata da Raffaele Castagna, gennaio 2003. Rodrigo Iacono, Raffaele Castagna – La Flora dell’isola d’Ischia, la letteratura floristica (stampato in proprio ed edizione fuori commercio. Raffaele Castagna – Isola d’Ischia, tremila voci titoli immagini, gennaio 2006. Giovanni Castagna – La Parrocchia della SS. Annunziata alla Fundera di Lacco Ameno, supplemento allegato a La Rassegna d’Ischia n. 3 del 2007. Raffaele Castagna – Lacco Ameno e l’isola d’Ischia, gli anni ’50 e ’60, Angelo Rizzoli e lo sviluppo turistico (cronache e immagini). Ristampa dell’edizione 1990, dicembre 2010.
Fausto Melotti - Il nuoto (vedi allâ&#x20AC;&#x2122;interno p. 39
Ischia - Campagna di lavori alla Torre di Santâ&#x20AC;&#x2122;Anna