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Carlo Giuliano

Il regista che non c'era --------------------------------------------------------------------------------------------------------- Ovvero: come ho imparato a non preoccuparmi e ad amare il montaggio

Dove sono i binari? “Non ho proprio niente da dire ma voglio dirlo lo stesso”. Si sbugiardava così il personag gio di Guido Anselmi in 8½, interpretato da un Marcello Mastroianni al suo massimo e ormai consacrato ad alter ego definitivo del genio che l’aveva diretto: Fede rico Fellini. Un leitmotiv apparentemente insignifi cante, canticchiato sovrappensiero, che va a perdersi nel marasma di voci di cui era satura la pellicola del ’63, ma di vitale impor tanza per comprendere l’opinione che Fellini ave va di sé e del proprio percorso filmico. Talmente significativa da diventare – nonostante il re gista l’avesse coniata già da un po’ – la definizione più esatta della sua poetica, assumendo quasi un tono da curriculum vitae o da bio di LinkedIn: “Sono un artigiano che non ha niente da dire, ma sa come dirlo”. Parole perfette per de scrivere l’opera spartiacque di Federico Fellini, ma che in re altà possono essere inglobate in un discorso molto più am pio, riguardante diverse generazioni di registi coetanei (e non) dell’artigiano ri minese, sparpagliati lungo tutto il secondo ‘900: quello sull’autorialità. Un concetto dal significato solo in apparenza oscuro, causa d’imbarazzo per tut ti coloro che, alla richiesta di delimitare i confini del cinema d’autore, d’indivi duarne le regole d’ingaggio, v’inseriranno anche l’ultima arrivata fra le opere prime, a patto di essere un pro dotto riuscito. Spesso confuso come il contrario del blockbu ster, tacciato di non essere largamente fruibile e relega to a un pubblico di nicchia, il film d’autore assume invece dei connotati – a tratti meno inclusivi ma non per questo più elitari – che non hanno necessariamente a che fare con la sua qualità, ma piutto sto con la sua riconoscibilità. Per semplicità, vi basti un biz zarro quanto sagace esperimento mentale: immaginate di costringere dieci registi affer mati – per maestria o per denaro – a girare ciascuno un film sullo stesso tema, per non dire sulla stessa storia; poi tagliate via dalle bobine sia titoli di te sta che di coda, di modo che risulti impossibile risalire all’autore di ognuna; concludete il tutto mostrandoli a un pub blico ignaro, apparentemente incapace di intuire la mano dietro ciascuno dei dieci film. Quelli che faranno gridare al pubblico in sala il nome del corrispettivo regista, guada gneranno un posto fra le fila della filmografia d’autore. In questo è racchiuso il vero si gnificato della citazione di Fellini: nella capacità d’imprimere alle proprie opere un distintivo ta glio artigianale, una sequela di caratteri sempre riconoscibili ma mai replicabili o insegnabili – come ac caduto per quei personaggi cosiddetti ‘felliniani’, entrati a tal punto nell’immaginario comune da infettarne anche il lessico. Quella “aspirazione a diven tare un aggettivo” esplicitata dal loro creatore con una bat tuta, ma covata da qualunque regista che sogni di affermarsi nell’autorialità. Nel concreto poi, all’atto di coniare que sto personalissimo marchio di fabbrica, la vecchia scuola sceglieva di concentrare i pro pri sforzi su aspetti come il taglio narrativo o la caratterizzazione dei personaggi – dagli inconfondibi li thriller psicologici alla Roman Polanski alla comicità sfigata delle macchiette di Woody Allen – piut tosto che affidarsi esclusivamente a fattori tecnici come il montaggio o i movimenti di macchina. Una li nea di condotta che però non sembra più contare per una fetta non indifferente dei cinematografari contemporanei, e la cui inversione di rotta sembra esser stata portata negli ultimi anni alle estreme con seguenze. Il panorama si è saturato di esercizi di stile e ‘piaceri per gli occhi’ – come una certa critica cinematografica defini sce certe pellicole – mentre a scarseggiare più che mai sono i film di cuore, di contenuto, o (più banalmente) belli nella loro interezza. Ci si trova in somma di fronte a un vasto gruppo di registi/ferrovieri che, concentrandosi troppo sui comparti tecnici e ben poco su dei reali contenuti, “ha venduto i biglietti, messo in fila i viaggiatori, sistemato le valigie nel bagagliaio”, senza porsi la fatidica domanda con cui si chiudeva l’ennesima ci tazione di Fellini in riferimento a 8½: “Dove sono i binari?”. “La vecchia scuola concentrava i propri sforzi sul taglio narrativo e la caratterizzazione dei personaggi” “Di grandi registi apparentemente arrivati al capolinea, se ne accumulano ogni anno di più”

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Vecchi marinai nei porti sicuri Come a Oriente così in altre parti del mondo, si sta assi stendo all’ascesa vertiginosa di un Cinema che, appena al beggiato, sembra già gravido e prossimo allo zenit. Di con tro, tradizioni cinematografiche più mature, per non dire senili – dal Nuovo Mon do al Vecchio Continente – sempre più spinte ad autoisolarsi nella gabbia dorata del perfezionismo stilistico, stanno subendo una battuta d’arresto. Una crisi che sembra fare, al meno per ora, meno vittime che superstiti, ma che sta cambiando la natura stessa dei film, già dotati di uno scheletro dalla im peccabile ossatura tecnica prima ancora che di un’a nima originale. I film diventano contenitori vuoti dagli espedienti stilistici già decisi, nella sola atte sa di una discreta storia da raccontare. Il mezzo finisce per schiavizzare il fine. I passeggeri sono già in carrozza, con la valigia nel bagagliaio e il biglietto in mano. Ma perché non ci sono i bi nari? Il campo delle risposte è vastissimo, per larga parte forse ancora imperscrutabile perché riferito a un fenomeno in continua evoluzione. Ma di fronte a un pubblico che, di stagione in sta gione, ripone gran parte delle proprie aspettative nei titoli di grandi nomi attivi ormai da mezzo secolo, il problema della senilità – non per forza determinante – fini sce per ricadere non solo sulla tradizione cinematografica oc cidentale tout court, ma anche sui registi che hanno contribu ito a formarla. Immaginarli già con un piede nella fossa sarebbe un’esage razione, perché a un confronto con le nuove proposte filmiche continuerebbero ad apparire come mostri sacri; ma di grandi registi apparentemente arrivati al capolinea, o comunque non più all’altezza del loro passato, se ne accumulano ogni anno di più: dopo l’insuccesso di Quello che non so di lei, Po lanski si trova costretto ad abbandonare la familiare aura del thriller psicologico in favo re della più gestibile cronaca storica de L’ufficiale e la spia; preso dalla smania insaziabile di sfornare una commediola all’an no, Allen non mette a segno un buon colpo dai tempi di Irratio nal Man; e tutt’intorno si inventano panegirici sulla capacità di Eastwood e Scorsese di tradurre la loro età anagrafica in ritmi fil mici più placidi, per giustificare la lentezza di pellicole sempli cemente stanche come The Mule e The Irishman. Tutti prodotti indiscutibilmente interessanti, senz’altro ricchi di spunti, ma le cui carenze di sceneggiatura spingono gli autori a rifugiarsi nel porto sicuro del comparto tecnico, di cui ne conoscono trucchi e segreti come le proprie ta sche. Il tutto aggravato dalle pretese di un pubblico in clemente, che mal digerisce l’uscita dal seminato delle tematiche classiche dei re gisti, trasformando le loro cifre stilistiche in catene opprimenti, con gli effet ti più diversi: dalla caduta nel dimenticatoio di Silence perché lontano dal classico gangster movie alla Scorsese, alla nascita di un recentissi mo Eastwood anti-sistema con l’ottimo Richard Jewell. Ma il panico generato da un mancato ricambio, dalla pau ra cioè che una volta scomparsa, questa generazione di vecchi saggi della regia non venga sostituita da una nuo va altrettanto valida, sembra non essere l’unica ragione, visto che ad adagiarsi sugli allori troviamo anche registi più giovani o addirittura alle prime armi. Fra questi, il pre miatissimo Damien Chazelle di La La Land, un film elogiato per la sua eleganza visiva ma dalla sceneggiatura fondamentalmen te piatta, ma anche veterani come Tarantino e Fratelli Cohen, che rispettivamente in C’era una vol ta...a Hollywood e Ave, Cesare! “Il panorama si è sarurato di esercizi di stile e piaceri per gli occhi, mentre scarseggiano più che mai i film di cuore, di contenuto, o (più banalmente) belli nella loro interezza”

si sono concentrati minuziosamente sull’impatto scenografico non accorgendosi della fram mentarietà delle trame. Un’intera, preoccupante sintomatologia che sembra colpire addirittura una certa fetta della critica inter nazionale, generando un pericoloso circolo vizioso. Un serpente che si morde la coda Da un po’ di tempo a questa parte, la critica cinematografica sembra mancare di autorevolez za, privata di quella voce preventiva che attraver so le proprie recensioni spingeva il pubblico ad andare in sala per guar dare un film piuttosto che un altro. Letta ormai rigorosamente a posterio ri, ricercata dallo spettatore non come fonte che debba interessarlo a un film, ma piuttosto istruirlo sugli aspetti specialistici e interpretativi a lui più osti ci, la recensione smette di parlare col cuore e si ab bandona ai più tecnici voli pindarici. Potrebbe trattar si di un sintomo causato dal panorama filmico, che scarno di contenuti co stringe la critica a parlare del solo comparto tecni co, non sortendo però lo stesso effetto sul pubblico. Stordito dall’impatto visi vo del film, in un mondo in cui si inneggia al capo lavoro con una facilità preoccupante, lo spettatore disimpara a valutare le ultime uscite in sala con la pacatezza dovu ta: affetto da memoria a breve, inserirà l’ultimo, abbagliante exploit tecnico nelle varie clas sifiche dei Migliori Film del Decennio, salvo poi rimpiaz zarlo, appena un anno dopo, con il successivo ritrovato. Perché un film che si fermi alla superficie può colpire a un pri mo impatto, ma senza regalare una sceneggiatura intrigante o un’interpretazione memorabi le, finirà per annoiare sempre più a ogni nuova riproduzione; mentre a superare la prova del tempo sono molto più spesso quei cult – da Strade perdute di Lynch a Fight Club di Fin cher – che inizialmente mal digeriti, vengono metaboliz zati con gli anni. Ma potrebbe anche valere il contrario: che la critica, lungi dal subire pas sivamente i sintomi di questa malattia e ancora in diritto di distruggere o glorificare un film, spinga i registi a ricercare il facile encomio stilistico di menticandosi di sceneggiatura e interpretazioni, diventando ne la causa. Oppure creando l’illusione che l’unica via per proporre contenuti va lidi sia parlare di discriminazione razziale o sessuale, facendo leva sul finto progressismo delle giurie che a ogni nuova rasse gna riempiono film come Green Book e La forma dell’acqua di candidature e premi. Un’infinità di punti che si ritrovano nell’ul tima, chiacchieratissima promessa tecnica della stagione, 1917, analizzabile (anche qui) solo al prezzo di una recensione smem brata, costretta a snocciolare il film nei suoi compartimenti stagni perché impossibilitata a reperir ne una generale coerenza. Niente di nuovo sul fron te occidentale Era dai tempi di Dunkirk che un film non fomenta va così tante speranze nel quadro bellico della cine matografia di genere. Una pellicola gustosamente cu rata dal punto di vista tecnico, ma diventata comunque caso nobile rispetto all’andazzo generale per ché in grado di rinnovare un’ambientazione storica già largamente sviscerata grazie a una struttura narrati va dalla temporalità originale, affidando ai continui giochi di analessi e prolessi tipici di Nolan la vera cifra stilistica del film. Cinque anni dopo, l’atte sissimo tour de force visivo di Sam Mendes – aggiudicato si tre statuette ‘tecniche’ agli Oscar – sposta l’attenzione “Una crisi che sta cambiando la natura stessa dei film, già dotati di uno scheletro dalla impeccabile ossatura tecnica prima ancora che di un'anima originale”

dalla Seconda alla Prima Guerra Mondiale, raccontan - do altresì di una dimensione più privata rispetto a quel di - sastro strategico collettivo che fu l’Esodo di Dunkirk: una maratona a due. A una cop - pia di soldati viene ordinato di coprire quindici chilometri di territorio nemico ormai ab - bandonato – o presunto tale – nell’arco di una sola giornata, per impedire a un contingente di milleseicento anime di at- taccare un fronte che non può sperare di spezzare. Nel docu- mentare il tutto, Mendes si la- scia affiancare da un gigante della Fotografia come Roger Deakins per creare un unico piano sequenza – fatto salvo un lungo stacco a mo’ di intervallo – che in termini di consequen- zialità degli eventi surclassa addirittura il precedente di Birdman, facendo combacia- re tempo della storia e tempo del racconto più di quanto fat- to da Iñárritu. Un complesso artificio registico pensato per seguire i soldati lungo la linea del fuoco, ad altezza di proiet- tile, focalizzandosi passo dopo passo su ogni pozza, maceria o cadavere calpestati lungo quei quindici chilometri di devastazione. Perché si possa toccare con mano la sporci- zia della guerra di trincea, ra- sentando frequenti sinestesie che ne facciano odorare persi- no il puzzo di fango e sangue.

“Era dai tempi di Dunkirk che un film non fomentava tante speranze nel quadro bellico della cinematografia”

Scomodo Febbraio 2020 “Sam Mendes si arrischia verso il baratro del virtuosismo barocco, ricadendo nella trappola della superbia”

Inoltre, concentrandosi su un lasso di tempo così breve, e potendolo quindi sviscerare in ogni suo istante, Mendes por - ta a casa un ulteriore risulta- to, imparando dalla lezione di 2001: Odissea nello spazio. Un film inattaccabile al quale il grande pubblico ha sempre e solo potuto imputare l’eccessi - va lentezza, frutto invece della scelta deliberata di Kubrick di abolire la più grande menzo - gna raccontata fino ad allora dalla fantascienza in merito ai viaggi interstellari: che fos - sero rapidi, frenetici e ricchi d’azione. Allo stesso modo, facendo sudare allo spettatore ogni centimetro guadagnato dai due soldati, Mendes ri - nuncia allo spasso visivo di un conflitto lampo in favore del lento arrancare della guerra di logoramento. Il verismo belli - co è in apparenza ai massimi storici, e raggiunge il suo picco quando il duetto si trasforma in canto solista, declassan - do l’intoccabile protagonista a milite pressoché ignoto, li - quidandolo con una frase che suona come epitaffio funebre: “Era un brav’uomo, raccontava storie divertenti, mi ha salvato la vita”. Niente di più, niente di meno. Ma questo realismo così tanto ricercato rischia, anco - ra una volta, di cadere sotto i colpi degli sfarzi della tecnica. Senz’altro in grado, con il suo rivoluzionario piano sequen - za, di spostare un po’ più in là il fronte dei comparti tecnici,

Mendes si arrischia però verso il baratro del virtuosismo barocco, ricadendo come i suoi protagonisti nella trap pola della superbia. I primi problemi si intravedono nel le interpretazioni: frugali, spicce, mai solcate da un’e spressione che sia specchio dello stato emotivo reale dei due soldati. Vincolati dalle esigenze del piano sequenza unico – il cui impercettibile montaggio ha comun que richiesto di sostenere lunghe scene senza stacchi di camera – i due interpreti, ancora alle prime armi, si trovano di fronte a una prova at toriale non facile, che infatti non sembrano ri uscire a sostenere. Tuttavia, se l’atmosfera ruvida e anaffettiva della guerra può giustificare delle in terpretazioni spigolose, lo stesso non vale per gli altri passi falsi compiu ti in 1917. Innanzitutto, quella smania insaziabi le di frapporre una serie interminabile di ostacoli – come di fortunosi impre visti – fra i due soldati e la loro meta, perde di credibili tà e si trasforma in mania di persecuzione. Ogni dettaglio sembra costruito ad hoc per far precipitare sulle loro teste tutti i tuoni, fulmini o persi no aerei di un’intera guerra mondiale. Ma anche le si tuazioni fortuite si accavallano in modo poco plausibile: quel secchio di latte appena munto – lasciato incustodi to a fianco dell’unica mucca salvatasi miracolosamente dal massacro del bestiame lungo la ritirata – di cui guar da caso un neonato avrà bisogno, dopo un’ora di bobina, nei luoghi più impensabili e disabitati. Alla conta dei feriti insomma, la tanto pubblicizzata inten zione di far sentire lo spettatore come il terzo commilitone, eliminando la finzione fil mica del montaggio grazie al piano sequenza ininterrotto, viene vanificata dalla mano pesante di una scenografia troppo invasiva, che letteral mente sparge petali lungo il cammino un attimo prima del passaggio della cinepresa.

“In un mondo in cui si inneggia al capolavoro con una facilità preoccupante, lo spettatore disimpara a valutare le ultime uscite con la pacatezza dovuta”

E la storia di guerra uguale a mille altre che il regista si era ripromesso di documentare si lenziosamente, senza fronzoli o artifizi, viene dirottata lungo una linea narrativa e spaziale fin troppo prestabilita. Il film incarna quindi l’emblema di una sceneggiatura completa mente asservita alla tirannia del comparto tecnico, che rag giunge il suo climax nella scena notturna della cittadella. Un’ambientazione visivamen te impressionante per quei suoi giochi di luce a raggera ottenuti grazie all’uso di flare e di un costosissimo impianto di duemila lampade al tungsteno alto cinque piani, il tutto per mostrare pochi fotogrammi di una chiesa data alle fiamme. Ma il conto salato di questo sfarzo visivo è presto servito nella scena successiva, quan do i rintocchi di un campanile eroso dal fuoco fino a un atti mo prima entrano in contraddizione con quanto appena visto, vanificando un espediente di notevole importanza ai fini della consecutio narrativa. L’ennesima disattenzione di un film dai contenuti disordi nati, che rischia di far dimenticare la reale statura registica di Mendes, nonché di farlo passare in modo ab bastanza impietoso – volendo rispolverare vecchie definizioni aristoteliche – per uno di quei “pugili inesperti che vanno scor razzando qua e là e vibrano sovente buoni colpi ma senza rendersene conto”.

di Carlo Giuliano

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