INDICE
PRESENTAZIONE
SOVRASCRITTURE NECESSARIE: RICERCA, PROGETTO E FORMAZIONE
Alfonso Giancotti
ATTRAVERSARE IL TEMPO
INNESTO
COLLAGE
ROVINA
MATRICE
LA LEZIONE DEL MAUSOLEO DI AUGUSTO
LA LEZIONE DEL PORTICO D’OTTAVIA
LA LEZIONE DELL'ANFITEATRO FLAVIO
LA LEZIONE DEL TEATRO DI MARCELLO
LA LEZIONE DEL CAMPIDOGLIO
INTORNO A REGOLE E TRASGRESSIONE
Maria Clara Ghia
LA TETTONICA COME METODO. IL
PROGETTO DELLA SOVRASCRITTURA
NELLA TEORIA DELLA RICERCA
ARCHITETTONICA CONTEMPORANEA
Alberto Bologna
SOVRASCRITTURA COME DILATAZIONE DEL TEMPO. SCENARI PER UN INTERVENTO DI TRASFORMAZIONE
Isabella Zaccagnini
PRESENTAZIONE
SOVRASCRITTURE
ALFONSO GIANCOTTI
1. A. Giancotti, Ricerca - Formazione - Progetto: un rapporto non lineare 2, in AA.VV., De Rerum Design, Prospettive, Roma 2012, pp. 37-39.
2. A. Giancotti, (non)finito. Disegni di architetture incompiute, LetteraVentidue, Siracusa 2019, pp. 55-56 e A. Giancotti, Punti di vista, in L. Caravaggi, A. Giancotti, C. Imbroglini, M. C. Libreri (a cura di), Paesaggio Inclusione, LetteraVentidue, Siracusa 2023, pp. 86-95.
3. D. Harvey, La crisi della modernità, NET, Milano 2002 (ed. orig. 1989).
Il rapporto tra ricerca, progetto e formazione è questione assai complessa, un rapporto tutt’altro che lineare1. Sono tre ambiti – intimamente connessi tra loro – rispetto ai quali sono personalmente passato dalla ricerca ossessiva di un’impossibile coerenza alla consapevolezza della necessità di quella stessa impossibile coerenza. Un’apparente ambiguità resa manifesta dall’eccezione che investe il mestiere dell’architetto più di altri, quella di posizionarsi lungo una sottile quanto impercettibile linea di demarcazione tra le discipline scientifiche e quelle umanistiche che possiamo ascrivere, rispettivamente, ai territori della ragione e dell’invenzione. Quello tra ragione e invenzione è solo uno dei binomi di una vasta teoria di opposti che alimenta quel sano sistema di contraddizioni che condizionano la crescita di ogni progetto di architettura. Alla luce di queste premesse, insegnare architettura può essere visto come la condivisione di un percorso di selezione e scelta degli strumenti essenziali per la lettura e la trasformazione della realtà della città contemporanea.
Nuovi palinsesti
In più circostanze2 mi è recentemente capitato di sostenere come, per
leggere le trasformazioni che investono le città contemporanee, possa essere utile tornare alle riflessioni che David Harvey propone ne La crisi della modernità3. Le modalità di crescita dell’ultimo scorcio di secolo, prescindendo da una reale pianificazione, hanno prodotto un impianto della città definibile come “enciclopedia” o “emporio di stili”, a testimoniare la graduale perdita di ogni gerarchia nel disegno della città stessa. Le nozioni di “città teatro” o di “serie di palcoscenici” – coniate da Jonathan Raban e riproposte da Harvey – sono quelle che possono consentire una revisione del concetto di palinsesto al quale risponde la città odierna. Un palinsesto composto da un notevole numero di architetture prevalentemente di natura ordinaria, in attesa di una seconda vita perché obsolete, abbandonate o incompiute; un paesaggio che percorriamo ripetutamente perché parte integrante del nostro quotidiano, esito dei recenti fallimentari processi globali di modernizzazione, composto da un rilevante sistema di frammenti prodotti da strategie carenti di una reale prospettiva del futuro. In questo contesto è possibile affermare come il passaggio –sottolineato da Harvey – dalla dimensione etica a quella estetica, da quella collettiva a quella leaderistica, dal predominio del ragionamento
a quello esercitato dalla futilità delle immagini, abbia decretato l’impossibilità di adottare, nella società postmoderna, qualsiasi tipo di narrazione per grandi tematiche. In forza di questo scenario si offre quale unica strada percorribile quella di un’elaborazione e di una comunicazione fondata su una sorta di “micrologia” narrativa. All’interno di questa cornice si inseriscono gli esercizi di sovrascrittura degli scheletri delle torri dell’ex-Ministero delle Finanze all’Eur. Lavori che potremmo definire (prendendo a prestito le parole di Giulio Carlo Argan nel testo introduttivo al catalogo della mostra Roma interrotta) come delle “ricerche nel grembo di Roma per saggiare se sia ancora fecondo”4. Un’opportunità per dare delle risposte, seppur all’interno di un’esperienza didattica, ai bisogni effettivi di chi abita lo spazio, in particolare quello pubblico o, più propriamente, quello della collettività. Un teorema politico, se si vuole considerare l’architettura – in particolare l’architettura della città –come la più politica delle arti.
Inquietudini teoriche
È possibile anche affermare come la difficoltà di trasformare questi paesaggi dello scarto sia intimamente
legata allo stato di crisi del pensiero teorico nel panorama architettonico nazionale e internazionale. Lo scenario attuale è sostanzialmente sotto il controllo di quelle figure identificate negli ultimi anni dal neologismo “archistar” per sottolineare come l’architettura sia mutata in fenomeno di spettacolo non rendendosi più capace di intercettare, facendosene interprete, le contraddizioni sociali, culturali, linguistiche e concettuali che ne disegnano, oggi, la dimensione plurale.
Molte delle archistar sono gli stessi esponenti di quel movimento che, all’inizio degli anni Novanta – con il favore di Mark Wigley e Philip Johnson – si era costituito intorno al pensiero di Jacques Derrida. Un gruppo che aveva minato, permeando le scuole di architettura internazionali, il primato che l’architettura postmoderna aveva raggiunto nel mercato incappando poi, tranne qualche rara eccezione, nella stessa deriva manierista di coloro che erano riusciti a spodestare. All’atteggiamento di molti di essi e di coloro che ne hanno seguito le orme adottandone strategie e tattiche, dobbiamo la realizzazione di un elevato numero di architetture divenute oggi simbolo ed espressione del neocapitalismo post-reaganiano proponibile, di fatto, solo in singolari contesti geografici.
4. G. C. Argan, Prefazione, in AA.VV. (a cura di G. C. Argan, C. Norberg-Schulz), Roma interrotta, Incontri Internazionali d’Arte - Officina, Roma 1979, p. 12.
ATTRAVERSARE
IL TEMPO
1. V. Lupo (a cura di), Cesare Ligini architetto, Prospettive, Roma 2014, p. 151.
2. Ibid
3. Il complesso liginiano si compone di 5 differenti volumi: tre torri a pianta rettangolare di cui una scavata centralmente da uno stretto pozzo di luce, una stecca orizzontale verso viale Boston e una piastra a pianta quadrata sull’angolo più esposto verso la Colombo. Per una attenta descrizione del progetto, delle sue varianti e delle vicende costruttive si veda: S. Mornati, La nuova sede del Ministero delle Finanze a Roma (1957-1961), in Benedetto Colajanni: opere, progetti e scritti in suo onore, Edizioni fotografiche, Palermo 2010, pp. 659-668.
4. In Renzo e Luciana, episodio diretto da Mario Monicelli all’interno del film Boccaccio ’70 del 1962, le torri sono gli uffici milanesi da cui esce la protagonista nelle prime scene. La stretta ripresa sullo spazio pubblico tra i volumi restituisce bene il pullulare degli impiegati alla fine del turno. Nello stesso film le torri fanno da sfondo anche in alcune scene dell’episodio Le tentazioni del dottor Antonio, diretto da Federico Fellini.
Le torri del Ministero delle Finanze all’Eur sono protagoniste di una vicenda tanto singolare quanto comune. Una storia locale –tipicamente romana, si potrebbe affermare – ma emblematica dello stato di salute generale dell’architettura. In essa ritroviamo molti dei temi con cui la disciplina si confronta ormai da tempo: la crisi del progetto, l’eredità del moderno, l’inefficacia dei processi decisionali, la mancanza strutturale di visione nelle trasformazioni urbane, il confronto con la fine di un modello capitalista esausto ma ancora difficile da superare.
Realizzate dall’architetto Cesare Ligini con Vittorio Cafiero, Guido Marinucci e Renato Venturi tra la fine degli anni Cinquanta e i primi Sessanta per ospitare i nuovi uffici dell’allora Ministero delle Finanze, le torri fanno parte del “processo più ampio di riscattodemocratizzazione dell’Eur”1 che vede molti architetti confrontarsi con
il tema del moderno [...] affrontato in direzione della realizzazione, alla grande scala, dei luoghi del terziario, centri direzionali e edifici per uffici, ragione di essere e di trasformarsi della città-metropoli contemporanea che a Roma si costruisce sulle rovine della Città di Pietra di Marcello Piacentini2
In particolare il complesso di Ligini definisce volumetricamente – in coppia con il grattacielo delle Poste dall’altro lato di via Cristoforo
Colombo, e specularmente alle due lame di Luigi Moretti a piazzale dell’Agricoltura – una delle due nuove porte del quartiere, in sostituzione, e anzi adombrando, quelle del fu E423 Lo spiccato carattere funzionalista, e nello specifico il preciso riferimento agli 860-880 Lake Shore Drive
Apartments di Ludwig Mies van der Rohe, rendono questo complesso un coraggioso, e per certi versi isolato, esempio di fertile apertura nei confronti del dibattito internazionale del tempo4.
Le torri hanno mantenuto la loro funzione per oltre un trentennio, fino a quando negli anni Novanta sono lentamente cadute in disuso, non senza aver subito alterazioni e superfetazioni che ne hanno pesantemente compromesso l’uso e l’aspetto. Dopo diversi, fallimentari, tentativi di rifunzionalizzazione, nel 2002 vengono alienate al patrimonio dello Stato e riacquistate, con un profilo giuridico differente, da Fintecna, società controllata da Cassa Depositi e Prestiti, a sua volta controllata dallo stesso Ministero, nel frattempo divenuto “dell’Economia e delle Finanze”. Nel 2008 la nuova proprietà, che intanto ha visto l’ingresso di alcuni finanziatori privati, ha proposto la demolizione integrale delle torri e la loro sostituzione con un nuovo edificio progettato dal Renzo Piano Building Workshop:
una “scatola di cristallo” a funzione alberghiera, rimasta a lungo sulle pagine delle cronache cittadine sia per la sua promessa di recupero di un’area divenuta degradata, sia per i coloriti aneddoti che l’hanno accompagnata5. Questa proposta tuttavia non sarà mai realizzata, anche se nel frattempo sono stati compiuti importanti lavori preparatori tra cui la rimozione del curtain wall originale e la demolizione dei tramezzi interni, operazioni che hanno portato a nudo le strutture rimaste poi a vista per oltre dieci anni6. La penosa vicenda sembra ora giungere a conclusione con il nuovo intervento di recupero, promosso dalla proprietà e affidato a un raggruppamento guidato dallo studio milanese UNO-A Architetti Associati7 Il cantiere è partito nel 2021 e il completamento è previsto per il 2025. La circostanza delle Torri Ligini è particolarmente significativa perché si colloca nel momento esatto in cui la trasformazione dell’esistente si afferma un po’ ovunque come l’opzione più sensata e fattibile rispetto a quella sempre meno percorribile di demolizione e successiva ricostruzione8. A questa decisione hanno sicuramente contribuito fattori esterni, tra cui un riconoscimento tardivo del valore paesaggistico della volumetria delle torri nel contesto dell’Eur e la prossimità con il nuovo Centro
Congressi di Massimiliano e Doriana Fuksas. Ma è indubbio che il processo di riqualificazione dell’area sia riuscito finalmente a partire solo quando l’opzione del recupero delle torri è apparsa come l’unica possibile, l’unica fattibile.
Nonostante in questo caso l’aspetto economico sia stato dirimente, non bisogna però pensare che il tema del recupero delle architetture esistenti sia una questione di semplice opportunità: prolungare la vita degli edifici è infatti prima di tutto una postura etica e politica, e questo è vero tanto più in un paese, l’Italia, dove tra il 2020 e il 2021 le nuove coperture artificiali del suolo si sono attestate sui 69,1 kmq9. Ne deriva che la questione della trasformazione del patrimonio costruito non sia legata soltanto alla scala architettonica dell’oggetto da recuperare ma è anzi pienamente dentro al dibattito sulle forme del territorio. L’intervento sull’esistente è ormai un campo di sperimentazione globale che ingaggia i progettisti nella ricerca di modalità tanto tecniche quanto compositive, in grado di aggiornare e ricondurre all’uso quotidiano strutture altrimenti destinate alla demolizione o all’incuria. Ciò non può non avere delle implicazioni profonde sul ruolo stesso dell’architetto nella società contemporanea: abbandonata ogni aspirazione demiurgica, egli
5. Molti ricorderanno le voci secondo cui l’allora sindaco di Roma avrebbe richiesto l’impiego di più travertino nel progetto per conferirgli un aspetto più “romano” e quindi un presunto migliore inserimento nel contesto.
6. Nel periodo successivo, proprio per questa ragione, le torri si sarebbero guadagnate il soprannome, non certo lusinghiero, di “Beirut”, come si trattasse di un pezzo di città bombardata.
7. Online: https://ilgiornaledellarchitettura. com/2016/06/03/ri_visitati-lenta-rinascita-per-letorri-delleur/
8. 51N4E, l’AUC, How to not demolish a building, Ruby press, Berlin 2023. Anche un recente numero di Architectural Review sposa la medesima causa: “Architectural Review”, n. 1503, 2023, numero monografico Demolition
9. M. Munafò (a cura di), Consumo di suolo, dinamiche territoriali e servizi ecosistemici. Edizione 2022, Report SNPA 32/2022, p. 47.
A fianco: fig. 5 - Paolo Monti, le Torri Ligini in uno scatto parte di un servizio fotografico realizzato a Roma nel 1967, Archivio BEIC, Fondo Paolo Monti, Milano.
18. P. Deamer (a cura di), Architecture and Capitalism. 1845 to the present, Routledge, New York 2014. 19. M. Biraghi, L’architetto come intellettuale, Einaudi, Torino 2019, p. 184.
20. V. Gregotti, L’architettura moderna tutta mezzi senza scopi. Perché contenuti e valori sono passati in secondo piano, in “Corriere della Sera”, 15 maggio 2012. Online: https://www.corriere. it/cultura/12_febbraio_15/gregotti-architetturabusch-standards_442c4714-57c7-11e1-8cd8b2fbc2e45f9f.shtml.
Per queste ragioni possiamo fare nostra la differenza adottata da Marco Biraghi tra architetto “rifornitore” e architetto “produttore”: la dicotomia di cui parla Biraghi si inserisce in una più ampia riflessione circa il ruolo dell’architetto in relazione alla trasformazione della sua opera in un prodotto di consumo18. Laddove l’architetto “rifornitore” si limita a riprodurre modelli e modalità operative consolidate in termini prestazionali, e dunque in un’ottica professionale, senza un reale apporto intellettuale, l’architetto “produttore” si fa carico di un progetto che non è solo un elaborato tecnico, ma che va inteso prima di tutto “come idea, come finalità (e non come semplice presupposto) dell’architettura medesima”19. D’altro canto all’architetto contemporaneo è richiesto anche di saper controllare i processi realizzativi, di sapersi confrontare con le contingenze del proprio tempo, senza per questo rimanere ingabbiato nelle maglie di una normativa sempre più ingombrante e di tecnicismi che niente hanno a che fare con l’architettura e con le sue “prassi”, né tantomeno a cedere alla “spinta a fare del mito dei mezzi tecnologici e persino della loro incomprensibilità, l’essenza del linguaggio dell’architettura”20. Va ovviamente precisato che la presenza di una normativa di riferimento nell’ambito della trasformazione dell’esistente ha avuto il merito di imporre ex-lege un reale avanzamento in termini di sostenibilità ambientale, adeguamento strutturale e accessibilità di edifici non più in linea con i bisogni e le sensibilità della società contemporanea.
Un’applicazione sempre più pervasiva della norma in quanto ragione e fine del progettare può essere intesa come solo una delle cause che hanno trasformato l’architettura in un bene di consumo. L’eccessiva ingegnerizzazione delle componenti e delle procedure, nonché la loro intima dipendenza da un presunto avanzamento tecnologico, hanno portato a concepire le architetture come dispositivi deperibili, soggette non soltanto al naturale “consumo del tempo”, ma anche al “consumo delle norme”, al loro aggiornamento continuo, che spesso rende superato un edificio poco dopo la sua realizzazione o appena dopo il suo adeguamento. Rispondere passivamente alle oscillazioni normative rende l’edificio soggetto a forme sempre nuove di obsolescenza, non dettata da un deteriorarsi del suo rendimento ma da un ulteriore innalzamento dell’asticella dei requisiti, stabiliti astrattamente dal legislatore. Aver parametrizzando il “ciclo di vita utile” ha dunque comportato la trasformazione dell’architettura in un oggetto di consumo, un “edificio macchina” ereditato dal Movimento Moderno che, al pari di un elettrodomestico, ha valore fintanto che rispetta le aspettative che la società consumista proietta su di esso. Occorre dunque chiedersi cosa ci sia oltre la vita “utile” dell’edificio, quale scenario alternativo può essere esplorato per superare l’impasse e liberare l’architettura dalla progressione temporale lineare, organizzata per fasi, che comincia con l’ideazione, passa per la costruzione, l’uso, l’abbandono e termina irrimediabilmente con la demolizione.