Chiunque abbia provato la sensazione di riconoscere un luogo in un altro luogo sa che le città si riproducono tramite reiterazioni e incroci. Questo effetto di dejà vu che provocano in chi le percorre ha una sua ragion d’essere nel modo in cui si sviluppano; mentre, infatti, la loro nascita si deve per lo più a ragioni economiche o geografiche, il successivo definirsi di una forma specifica segue meccanismi più complessi, da un lato di ordine funzionale – disponibilità di materiali, attività esercitate, climi presenti – e dall’altro immateriale. Fanno parte di questi ultimi la nostalgia di popoli in movimento per i luoghi lasciati, e ne sono un esempio, tra i tanti, Cirene, i cui abitanti abbandonata l’isola di Santorini ne riproducono in terra africana la capitale Thera incrociata con Delfi al cui oracolo avevano chiesto consiglio, oppure Marrakech che non ha mai smesso di pensare a Granada a cui ha prestato il modello del suo minareto e di cui ha accolto i profughi. Frequente è anche la voglia di emulare il mito di luoghi lontani come accade a San Pietroburgo il cui fondatore, Pietro il Grande, impone ai suoi architetti di riprodurre le città che aveva conosciuto e ammirato – Amsterdam, Venezia – ma anche la ben più lontana Palmira la cui riproduzione pittorica l’aveva affascinato. E se la nostalgia dei popoli e le ambizioni dei potenti hanno svolto un ruolo importante nel continuo scambio di forme che le città mettono in atto l’opera degli architetti itineranti non è da meno nel creare incroci attraverso la declinazione di modelli e la costruzione
di repliche; il loro lavoro ha dato luogo a singolari spiazzamenti – dalla “romana” Bath, alla “tedesca” Atene, alla “greca” Monaco – in cui piani e architetture disegnando piccole capitali riflettono contemporaneamente aspirazioni e affinità. Allo stesso modo i libri e le stampe nel loro spostarsi dai luoghi d’origine, alle biblioteche di corte, al bagaglio degli architetti, divulgano non solo la conoscenza delle città del mondo ma contribuiscono anche concretamente alle loro trasformazioni. Le forme migrano, come gli architetti, i popoli o le nostalgie e disegnano rotte invisibili attraverso oceani o deserti lasciando strascichi tangibili lungo i loro percorsi. L’influenza che esercitano viene messa in evidenza dai soprannomi evocativi attribuiti ad alcuni luoghi per sottolinearne la fortuna: la nuova Venezia, la nuova Amsterdam, la nuova Atene, o, al contrario dai nomi altisonanti attribuiti, a mo’ di buon auspicio, a insediamenti sperduti come le tante Paris, Venice o Neaples del continente americano. Nomi e luoghi si confondono anche all’interno di città con identità ben definite dove sono alcune parti a portare il nome di altre città. Possiamo così ritrovare Palermo a Buenos Aires, Venezia a Livorno, Little Havana a Miami o, ancora, sono più città che si confondono tra loro, tra caricatura, nostalgia e prodotti regionali, nelle enclave di Little Italy o China Town. Nella pittura, e soprattutto in quella italiana, questa particolare attitudine al rimescolamento delle immagini urbane appare evidente sin da quando i secondi piani delle vicende sacre o guerresche non sono più costituiti da sfondi dorati ma da città inesistenti e verosimili, città desiderate o mitiche, rappresentate da un miscuglio di luoghi noti all’artista e di altri conosciuti attraverso libri o racconti. Con un salto di secoli si può dire che sia stato il cinema a raccogliere il testimone dell’analogia urbana sfruttando l’effetto straniante dei luoghi che trapelano da altri luoghi; da Paris Texas (1984) di Wim Wenders, ai raffinati mixage di Alain Resnais che in Providence (1977) sceglie di rappresentare la capitale reale del
LA LUCE DI GIUGNO, L’ORIENTE E L’ARCHITETTURA
Qui le strade, ad eccezione della Tiburtina, sono intitolate a popoli antichi sconfitti dai Romani. Strade che, come romanzi, brulicano ancora dei dolori del secolo scorso. Al Parco dei Caduti è lunga la lista dei nomi: operai, artigiani, donne e bambini; si calcola quasi uno per ogni famiglia. Per che cosa sono morte tutte queste persone? Certo, per accelerare la caduta del Fascismo e costringere l’Italia alla resa. Per paradosso nel quartiere più antifascista di Roma.
In questi giorni così prossimi al solstizio d’estate il sole non ti lascia dormire. Sono appena le sei ed è già alto a segnare l’Est con un taglio preciso, netto e inequivocabile. Me lo lascio alle spalle e mi accingo a fare il periplo del quartiere come un pescatore, a bordo di un gozzo, farebbe quello della sua isola. Percorro via dei Reti seguendo le rotaie del tram. Continuo lungo il viale dello Scalo per poi uscire dal sottopassaggio della ferrovia e costeggiare Porta Maggiore. Da lì mi allungo fino a via Casilina per rivedere il punto esatto in cui la tangenziale incrocia l’Acquedotto Felice. Infine, torno indietro e prendo via Giolitti. Come al solito l’attenzione è per la quinta di case basse, palazzetti di massimo due piani, tutti inondati dalla luce del sole. Ti procurano un piacere analogo a quello della lettura.
Ora mi trovo davanti al Tempio di Minerva e la sensazione che ho in questa passeggiata di luce, rovine, profumo di tigli, buganvillee e canto degli uccelli, rimane quella della città come di un testo di cui c’è da apprezzare principalmente il ritmo tra i pieni e i vuoti.
È in questi termini che il poeta libanese, Adonis, parla della città partendo dalle ferite subite da Beirut nel corso della lunga guerra civile. E tuttavia, per Adonis, più che alla guerra è al successivo sviluppo urbanistico che si deve la distruzione dello spazio della città, continuamente occupato da torri in vetro e alluminio sempre più alte. Come documentano bene le fotografie che Gabriele Basilico ha realizzato nel corso dei suoi continui ritorni nella capitale libanese.
Noi soffriamo per questo fitto sviluppo in altezza che non lascia intravedere nessuna lontananza. Mentre in passato si era ben consapevoli dell’esigenza di preservare questa prospettiva. Penso al viaggio in Oriente di Le Corbusier. Che piacere immenso deve essere stato per lui trovarsi di fronte a slarghi come questi che si aprono come radure nella foresta.
Ora ho raggiunto l’estrema punta di questo lungo tratto di costa che è la Stazione Termini. Tutto il complesso della stazione è stato progettato da un architetto futurista-razionalista che si chiama Angiolo Mazzoni. Si tratta per certi versi di un architetto geniale che ha progettato molte altre stazioni ferroviarie ma anche uffici postali, piccoli depositi, modeste dimesse… A Latina, a Sabaudia, a Ostia ci sono sue costruzioni e la cosa interessante è questa capacità che aveva di smussare gli angoli e di armonizzare il tutto con torri o serbatoi cilindrici dotate di scalette esterne, attorcigliate come viti al palo. Volute, volte, parti aggettanti e rientranze.
Per questo insieme di cose, degrado compreso, mi viene spesso da pensare a Napoli e ad Atene dove, esattamente come accade qui, l’antico si disperde, si sgretola, finendo per convivere inevitabilmente con le macerie moderne, in un’ampia e vasta area di cose divelte, guaste, ma ancora belle. Sì, conosco l’obiezione. La subdola passione per l’esotico così ben analizzata da Edward Said soprattutto a partire dai testi di Chateaubriand e Flaubert. Ma io rivendico il mio diritto all’Oriente come lui, palestinese costretto all’esilio, rivendicava il suo diritto al ritorno.
FOTOGENIA DELLA CITTÀ
Sono i primi giorni di gennaio e continua a piovere. Esco senza un motivo apparente per rifare la stessa strada: via Tiburtina, sottopassaggio di Santa Bibiana, via Giolitti, Porta Maggiore, fino ai giardini di viale Carlo Felice. Intorno a questo percorso sarebbe bello ambientarci un film. Potrebbe essere l’itinerario che ogni mattina il protagonista fa in bicicletta per recarsi da casa alla Biblioteca Nazionale, dove lavora. La storia di un bibliotecario solitario che ama trascorrere le giornate nel silenzio di una delle sale di lettura più luminose, l’emeroteca. La pioggia che di continuo si interrompe per poi riprendere di nuovo mi costringe ad entrare nella Basilica di Santa Croce in Gerusalemme. Entro nel momento esatto in cui il sacerdote è impegnato nelle letture. Mi colpisce una frase tratta dal Vangelo di Giovanni: «Egli venne come testimone, per dare testimonianza alla luce». Anche l’interno di questa basilica, i pochi fedeli nei banchi e l’affresco di Antoniazzo Romano che domina l’abside dovrebbero trovare posto nel film. Prevedo già le obiezioni: «Bello lo spunto ma manca di tensione narrativa. Come va avanti, per esempio, la storia?».
«L’intreccio è la città. Al protagonista potrebbero rubargli la bicicletta così che lui è costretto ad andare in giro di quartiere in quartiere nel tentativo di recuperarla» immagino di replicare, ironicamente, alludendo al film di De Sica. Alte a dismisura ed esili e sottili, fuori dalla basilica mi attendono le solite due palme impegnate a sfidare le leggi della fisica. Proseguo provando a non voltarmi sulla sinistra per non guardare neppure per un istante il cancello dell’orto monastico e quindi pensare a Jannis Kounellis che lo progettò come un’installazione ma
è più forte di me il ricordo, evidentemente, e così l’immagine dell’artista greco intabarrato nel suo cappottone nero, si manifesta comunque. Anche questa lunga infilata delle Mura Aureliane sotto la pioggia ci starebbe bene in una scena del film. Provo a immaginare come verrebbe impressionata sulla pellicola. Piano sequenza o montaggio a stacchi ha poca importanza. È difficile da spiegare che cosa renda queste strade così fotogeniche. Sarebbe stato un buon argomento di conversazione con Gabriele Basilico. Lui si è sempre tenuto alla larga da Roma forse per la paura di cadere nel luogo comune delle rovine poi, a distanza di anni, guardando le incisioni del Piranesi, ebbe un’illuminazione. Fu solo così che si convinse. Anche se riprodurre quelle vedute in molti casi si rivelò impossibile. Presto scoprì che molti dei punti di vista adottati dal grande architetto, infatti, erano immaginari. Frutto della sua fantasia. Ora la luce sta letteralmente aprendo squarci nel cielo mentre il vento spazza via le foglie e tormenta tutto quello che di leggero trova davanti: una busta di plastica, una carta o un foglio di un giornale. Per chiudere il quadro, manca solo qualche cane randagio che si allontana da solo oppure in branco, come li ho visti solo negli scavi di Pompei. Un tempo i cani quando venivano abbandonati, pur di rimanere fedeli ancora a qualcuno o qualcosa, preferivano prendere dimora tra le rovine. A nessuno saltava in mente di scacciarli. C’era come un patto non scritto tra le pietre, l’erba che tenacemente continuava a crescere e i cani tornati nuovamente selvatici. Sia che abbaiavano o procedevano obliqui, dal marciapiede alla strada, si avvertiva la necessità della loro presenza. Sono appena rientrato ma ho già voglia di riuscire. Le mattine nelle case del Sud, eternamente impreparate ad affrontare l’inverno, sono simili. Analoghe, appunto. Il freddo sembra accentuarne il vuoto e si finisce per ciondolare da una stanza all’altra per poi rimanere immobili davanti alla finestra. Stanotte, dice qualcuno alla radio, ad Atene è nevicato. È bastata questa notizia per immaginare l’Acropoli imbiancata dalla terrazza di uno dei tanti hotel sulla strada che da piazza Omonoia scende verso Monastiraki.
ROMA – Distributore di benzina di Via Casilina
LA CITTÀ ANALOGA
Nel corso di una celebre inchiesta televisiva sulla diffusione del libro in Italia del 1960, lo scrittore Mario Soldati incontra un tecnico che gli mostra come si svolge il lavoro all’interno di un cantiere navale: «In questa sala si disegna la nave in vera grandezza. Cioè dai disegni che sono in scala 1:100 si passa a disegnare tutte le parti della nave, in scala 1:1 cioè a grandezza naturale».
«E come le tracciate, con il compasso queste linee?» gli domanda Soldati.
«No, no le navi non hanno forme geometriche definite da curve elementari, semplici».
«E non sono calcolabili con delle equazioni?» insiste Soldati.
«Sarebbero calcolabili anche con delle equazioni, però non si usa quasi mai. Sono avviate a sentimento» gli risponde ancora il tecnico, ricorrendo a un’espressione che potrebbe essere usata anche per spiegare il motivo per cui, quando si arriva in una città che non si conosce, si decide di avviarsi lungo una strada piuttosto che un’altra.
Subito dopo aver interrotto gli studi di architettura e per il breve periodo in cui mi sono trasferito a Milano per frequentare la scuola di cinema, spesso andavo in giro per la città con la macchina fotografica. Ricordo bene il piacere di camminare liberamente e di tanto in tanto fermarmi a scattare. A quel tempo, sto parlando del 1984, credo che mi fossi già imbattuto in Gabriele Basilico. Anzi, è assai probabile che mi
ispirassi proprio a lui. Ma ora che ho appena finito di leggere il suo libro, Architetture, città, visioni. Riflessioni sulla fotografia, più che il rammarico per non aver combinato niente di buono con le foto di allora, trovo la conferma che solo diventandone amico è possibile fotografare la città nel modo migliore.
«Lavoro da molti anni a un itinerario della mia città, a una curiosissima pianta che i fatti della mia vita vanno lentamente incidendo e colorando dentro di me. Non è pianta di città esterna, si badi bene, ma un doppio metafisico di essa: è la città in sé, quale si è venuta a poco a poco decantando sul fondo dei miei sentimenti, acquistandovi il valore di una topografia sentimentale». Così il poeta, Giorgio Vigolo, spiegava il suo rapporto con Roma in un articolo dal titolo, La città in sé, apparso sul Corriere della Sera nel 1972. D’istinto ho scritto “topografia sentimentale” là dove invece Vigolo parla di “topografia immateriale”.
Il motivo è presto spiegato. Da tempo sono sulle tracce di Dimitris Pikionis, l’architetto greco, coevo di Le Corbusier, conosciuto soprattutto per la progettazione del percorso pedonale che porta all’Acropoli e a cui più precisamente si fa risalire l’idea di una “topografia sentimentale”.
Pikionis è stato un architetto molto particolare. Dopo una prima adesione al Razionalismo, se ne distaccò per intraprendere una strada più personale e nei suoi successivi lavori si sforzò sempre di trovare un punto di equilibrio tra le forme dell’architettura e la natura dei luoghi.
«Ecco, quello che vorrei dire è questo: io ho fatto un’inquadratura che prima faceva vedere soltanto la città di Orte nella sua perfezione stilistica, cioè come forma perfetta, assoluta. Basta che io muova quest’affare qui nella macchina da presa ed ecco che la forma della città, il profilo della città, la massa architettonica della città è incrinata e rovinata e deturpata da qualcosa di estraneo, la casa che si vede là a sinistra, la vedi? Questo qui è un problema di cui io parlo con te perché
ENTRANDO IN CITTÀ
Si è colti sempre da un certo stupore quando il treno prima di entrare nella stazione di Roma Termini, passando molto vicino agli ultimi palazzi, tra il sole e la polvere nell’aria, sembra che irrompa fin dentro le case. Un’intera galleria di film e romanzi neorealisti ti scorre velocemente davanti ma poi la mente va ad Edward Hopper. Il pittore americano amava i treni, specialmente quelli sopraelevati. Ai tempi in cui andava in giro cercando spunti per i suoi futuri lavori, a New York c’erano ancora quattro linee che attraversavano la città da Nord a Sud. Molti dei suoi quadri più celebri ritraggono interni di camere o di uffici così come potevano essere visti dall’alto del finestrino del treno. Un punto di vista abbastanza inusuale oggi che a New York queste linee non esistono più.
Siamo agli inizi del Novecento, New York è una città frenetica dove nelle strade regna il caos ed Hopper intuisce la particolarità di quel punto di vista. Seduto accanto al finestrino, osserva e velocemente disegna a matita sul foglio quegli squarci di vita solitaria, rubati in un misto di curiosità ed eccitazione. Un’impressione che ha bene in mente quando successivamente, nel silenzio del suo studio, dà vita ai suoi quadri. Tutto il suo lavoro, sembra di capire, è stato una lotta per far sì che la scena non perdesse l’intimità di quella prima visione decadendo a pura ricerca formale. Pur rimanendo la sua attenzione principalmente rivolta al modo in cui la luce cade sugli edifici, all’interno delle camere e sui corpi delle persone.
Scrivendo dei soggetti preferiti dal suo amico pittore, Charles Burchfield, parla di cose che potrebbero benissimo riferirsi anche a se stesso: «Le nostre case americane con la loro segreta bellezza, i loro tetti fantastici, pseudogotici, a mansarda francese, coloniali, eclettici o altro ancora, con quel colore abbagliante o le delicate armonie di pittura, strette l’una all’altra lungo interminabili strade che finiscono in pantani o in cumuli di polvere, si ripetono nella sua pittura come dovrebbero ripetersi in ogni onesta rappresentazione della scena americana. I grandi realisti dell’arte europea non si sono mai stancati di dipingere l’architettura delle loro terre».
Insieme alla moglie per tutta la vita ha vissuto al Greenwich, in un appartamento in affitto al quarto piano di una delle ultime file di case di Washington Square che sono sopravvissute alle trasformazioni del quartiere. La sua stanza-studio si affacciava proprio sulla piazza. È da lì che ha dipinto molti quadri. Come, ad esempio, A city. Altri invece, dalla terrazza.
Una volta un giornalista che andò a fargli visita, tra le altre cose, gli chiese che cosa facesse per divertirsi in città. «Traggo la maggior parte dei miei piaceri dalla città stessa» così Hopper si limitò a rispondere.
NAPOLI – Calata Porta di Massa
UNA CROCIERA
NEL MEDITERRANEO
È la mattina del 29 luglio 1933 e il piroscafo Patris II si appresta a salpare dal porto di Marsiglia. Destinazione, Atene. A bordo ci sono un centinaio di persone tra architetti, musicisti e poeti che di lì a poco apriranno i lavori del CIAM, il IV Congresso Internazionale d’Architettura Moderna. Visti i tempi, non è così insolita la scelta del luogo. Dal gennaio dello stesso anno Hitler è cancelliere della Germania e ha avviato la sua rapida ascesa che lo porterà a conseguire i pieni poteri. Da tempo la Bauhaus è stata chiusa. A maggio il filosofo Martin Heidegger, in occasione dell’assunzione dell’incarico di rettore dell’Università di Friburgo, ha tenuto il suo celebre e controverso discorso sull’autoaffermazione dell’università tedesca.
Inizialmente si era pensato a Mosca, poi a Varsavia, infine a Milano ed Algeri ma nessuna di queste città evidentemente presentava le garanzie per la tranquilla esecuzione dei lavori. E poi c’era la nave, intesa come organismo perfetto, a entusiasmare Le Corbusier che fu uno dei principali artefici del Congresso. Tutta l’avanguardia europea si trovava a bordo. Molti degli architetti lì presenti saranno tra i protagonisti della ricostruzione a cominciare da Berlino che andrà completamente distrutta durante la guerra.
Il tema è “La città funzionale”. Come era prevedibile, le giornate di studio sono dominate dalla presenza di Le Corbusier che avrà modo di definire l’urbanistica una scienza a tre dimensioni. Le riunioni avvengono sui ponti, al riparo dal sole, sotto le tende. C’è vento naturalmente.
“Tuttavia il mare è calmo”, annota Gino Pollini, rappresentante per l’Italia insieme a Piero Bottoni e Giuseppe Terragni. Il clima è informale e rilassato. Una volta aperte le casse provenienti da tutta Europa, che contenevano le tavole relative a 34 città, il congresso comincia.
Il quarto giorno la nave giunge a Corinto. È qui che presumibilmente Dimitris Pikionis si unì alla comitiva insieme al resto della delegazione greca. Poi l’approdo al Pireo da cui l’intero gruppo si sposta per raggiungere l’Hotel Grande Bretagne che si trova nel centro di Atene.
I partecipanti visitano la città e le altre opere che testimoniano il suo glorioso passato ma appaiono particolarmente interessati – in questo condizionati forse da Le Corbusier che aveva già visitato Atene nel 1911 – dall’aspetto delle case meno appariscenti e dal loro essere dunque espressione di un linguaggio popolare. E così quando una parte della comitiva si imbarca su una nave per una crociera di quattro giorni nelle isole dell’arcipelago, matura sempre più la convinzione che esiste una profonda affinità tra le modeste case bianche di cui sono composti i centri abitati e i principi dell’architettura razionalista. Sarà proprio questo a incoraggiare gli architetti greci presenti a riconsiderare il paesaggio in cui avevano sempre vissuto e verso il quale avevano nutrito un sentimento ambivalente per lo più temendone il pittoresco e il conseguente rischio di essere considerati arretrati e quindi provinciali. Per la verità Pikionis aveva già da tempo avuto modo di esprimersi a riguardo, arrivando al punto di considerare gli abitanti del posto come i veri costruttori.
Tutto ciò genera una certa giustificata confusione e non c’è da meravigliarsi se i lavori si chiuderanno senza arrivare a una posizione comune. L’ambiguità a distanza di tempo, sembra di capire, stia proprio nel modo in cui andasse inteso questo “ritorno” al passato e cioè se fosse sufficiente ispirarsi al paesaggio per ricavarne una sorta di “linea greca” – sempre presente, sia nella più pura e ascetica casa monofamiliare che nella mastodontica costruzione, brutale nel suo cemento
INQUILINO ALBERO
«Signor Hundertwasser come ha chiamato questa iniziativa?».
«Si chiama inquilino albero…».
«Perché inquilino albero?».
«Perché penso che adesso sia venuto il momento che gli alberi e la natura debbano prendere il posto nella città. Come la città si espande nella natura, la natura deve crescere adesso nel centro della città altrimenti noi non potremmo sopravvivere…».
Friedensreich Hundertwasser, austriaco di nascita, è stato un pittore, uno scultore e anche un architetto. Negli anni Settanta, in linea con altri artisti – penso a Joseph Beuys – introdusse il tema dell’ambiente nell’arte fino al punto di arrivare a concepire l’attività artistica come un intervento ecologista a favore della natura. Come lui stesso sostiene alla fine di questa intervista: «Fare arte non è più importante, adesso l’importante è sopravvivere».
L’intervista è tratta da un programma televisivo che documenta la XV Triennale di architettura che si tenne a Milano nel 1973 all’interno della quale, per l’appunto, è presente anche l’iniziativa di Hundertwasser. È sicuramente interessante, soprattutto immaginandone l’effetto negli spettatori di allora, ma non sufficiente a spiegarmi il motivo per cui continuo a guardarla.
Apparentemente non c’è niente di strano, rientra nei miei interessi professionali essendo abituato a fare ricerche negli archivi audiovisivi e tuttavia non mi spiego tanto accanimento. Tanta ossessività.
Per qualche giorno temo che il demone dell’architettura si sia impossessato definitivamente di me…
Sono gli ultimi giorni di luglio, le ferie sono ancora lontane e al lavoro, nel silenzio della mia stanza, trascorro ore al computer passando dall’intervista a Hundertwasser a quella di un uomo che nella periferia di Roma negli stessi anni è impegnato a costruirsi una casa da solo, ovviamente abusiva. Lo seguo mentre con grande partecipazione emotiva la descrive soffermandosi pure su una cisterna di cemento davanti alla casa che lui già immagina quando diventerà una vasca per i pesci con tutte le piante e i fiori intorno.
Inizialmente non mi spiego perché avverta l’esigenza di accostarle – di montarle insieme intendo – a un’altra sequenza che racconta l’impresa dell’architetto Paolo Soleri che in Arizona a partire dagli anni Cinquanta diede vita ai lavori di una città nuova, Arcosanti, pensata in equilibrio con la natura e per giunta da realizzarsi in gran parte con le proprie mani. Soleri, del resto, è stato allievo di Frank Lloyd Wright, il grande architetto americano che per primo ha immaginato una città diversa, concepita orizzontalmente, in stretto rapporto con la campagna.
È l’aspetto utopistico che mi affascina e che nella mia testa tiene insieme tutti e tre: Hundertwasser, il giovane operaio che si costruisce la casa da solo e Paolo Soleri. Quella utopia di cui oggi si è persa qualsiasi traccia.
I giorni passano, torno dalle ferie trascorse in gran parte al mare in Toscana in un campeggio immerso in una pineta ma l’interesse non accenna a scemare. Continuo ad alternare la visione di materiali sulla città, alla fotografia. Per lo più poco dopo l’alba quando la città è ancora un’unica massa che a fatica esce dal buio denso della notte. E del resto è proprio a quell’ora che tutte le città sono uguali, analoghe. Subito dopo