Luce artificiale e paesaggio urbano

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ISBN 978-88-6242-091-4

Prima edizione italiana, Novembre 2013 Seconda edizione italiana aggiornata, Settembre 2022

© LetteraVentidue Edizioni © Vittorio Fiore, Luca Ruzza

Tutti i diritti riservati

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Vittorio Fiore Luca Ruzza

Luce artificiale e paesaggio urbano

Raccontare il territorio con nuove tecnologie, 10 anni dopo

Seconda edizione aggiornata

Prefazione di Fabrizio Crisafulli

Scritti di Paolo Bonfiglio Fernanda Cantone Francesca Castagneto Fabrizio Crisafulli Agostino De Rosa Daniela Dispoto Dorita Hannah Anna Maria Monteverdi Vincenzo Sansone Lucrezia Valeria Scardigno

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Indice

Prefazione Fabrizio Crisafulli

Città e territorio: tecnologie per una nuova narrazione Vittorio Fiore, Luca Ruzza

As above, so below Agostino De Rosa

I guardiani notturni Dorita Hannah LUCE/SUONO/ARCHITETTURA: TECNOLOGIA TRA SPAZIO SCENICO E PAESAGGIO URBANO

La narrazione fra linguaggi espressivi e tecnologie Francesca Castagneto

Spazio alle donne, le donne per lo spazio (scenico): le scenografe tecnologiche Anna Maria Monteverdi

Arte e teatralità in luce per la rigenerazione degli spazi urbani Vittorio Fiore

Prospettive di rigenerazione urbana attraverso il video-mapping Fernanda Cantone

Una luce organica, nel teatro, nella città. Intervista a Fabrizio Crisafulli Lucrezia Valeria Scardigno

Architectural mapping: quando lo spazio urbano diventa spazio drammaturgico Vincenzo Sansone

Unreal City Daniela Dispoto

Architettura sonora. Lo spazio e la spazializzazione del suono Paolo Bonfiglio

TECNOLOGIE DELLA COMUNICAZIONE PER PATRIMONI MATERIALI E IMMATERIALI

Tecnologie che “raccontano” luoghi tra permanenza e temporaneità Vittorio Fiore

> Bruce Munro

> Fabrizio Crisafulli

> Carlo Bernardini

Intangible Cultural Heritage. Un progetto polimediale sull’“assenza” durante la pandemia Luca Ruzza

> Anish Kapoor e Arata Isozaki

> Studio Roosergaarde

> Edoardo Tresoldi

Note biografiche

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Introduzione alla Seconda edizione aggiornata

In concomitanza dell’uscita della prima edizione del nostro libro Google (2013) annunciava che il suo veicolo, completamente autonomo, aveva percorso 300 mila miglia su strade cittadine senza alcun incidente. Oggi (a dieci anni di distanza) sono entrate nella produzione di massa, vetture a guida autonoma. Ed una nuova mobilità ha modificato la nostra percezione del territorio. Sempre un decennio fa l’azienda israeliana Waze Mobile immetteva nel mercato mondiale una app gratuita che di fatto smaterializzava i costosissimi navigatori istallati nelle vetture. Gratuitamente qualsiasi possessore di smartphone può trasformare con un click il suo device in un potentissimo strumento di orientamento nel territorio. La percezione del territorio stesso, in un decennio, muta radicalmente. Questa mutazione percettiva ed esperienziale, ci ha spinto a trasformare il volume “Luce artificiale e paesaggio urbano” in un osservatorio sul tema della narrazione del territorio con l’utilizzo delle nuove tecnologie nel campo dell’arte. Temi come la nuova illuminotecnica in relazione a nuove narrazioni e reinterpretazioni attraverso il “materiale” luce o piuttosto la rilevanza della attività creativa delle donne e della gender fluidity per gli spazi performativi, emergono come necessità di studio e di racconto trovando spazio nel nuovo palinsesto.

Cosa significa allora “valorizzare un territorio”? La parola “valorizzare” significa “aumentare di valore” (economico, culturale, sociale, etico, ...), mettere in risalto ed evidenziare le caratteristiche che l’“oggetto” in questione possiede già, ma che risultano poco visibili o stentano ad emergere autonomamente. E quando si parla più specificatamente di “valorizzare un territorio” si intende l’insieme di tutte quelle azioni volte a riqualificare ed evidenziare le caratteristiche materiali e immateriali di quel luogo, ma anche “identificarne e rafforzarne

l’immagine”, trasmettendo e diffondendo la cultura locale che lo caratterizza. La nuova edizione del libro nasce da un decennio di osservazioni, appunti e riflessioni suscitate dalla pratica quotidiana dell’arte, dell’architettura e dell’insegnamento nei luoghi di formazione artistica. Racconta esperienze, raccoglie considerazioni e propone antidoti e orizzonti per un nuovo orientamento, per restituire all’arte la sua centralità sociale. La pratica artistica deve divenire consapevole, per conquistare un nuovo ruolo nella ridefinizione dell’etica e dell’estetica. In questa dimensione nasce l’artista plurale, colui che non crea semplicemente opere ma relazioni, che lavora in una rete, senza tuttavia perdere la sua autorialità. Nel nuovo millennio, la ricerca artistica deve appropriarsi dell’interattività e farne uno strumento di espressione collettiva e di dialogo tra autore e spettatore, creando un’estetica non più basata sulle forme e sulle cose ma sui comportamenti. In una società dello spettacolo sempre più sofisticata, è necessario creare un osservatorio antropologico permanente, che produca consapevolezza e creatività partecipata. La rigenerazione urbana, lo spazio urbano che si trasforma in spazio drammaturgico, le unreal cityes, i patrimoni immateriali, la land art, prendono posto nel nuovo indice.

Un focus su casi emblematici: le partiture luminose di Crisafulli in Danimarca, le installazioni di Munro che esaltano le qualità naturali del paesaggio, le geometrie illusorie misuratrici di spazi di Bernardini, le urban theatre experiences di Roosengarde, le architetture di luce di Tresoldi o quelle sonore di Kapoor e Isozaki, narrano il decennio appena passato misurandosi con la mutazione del territorio e della percezione che abbiamo dello stesso, trasformata dal tessuto esperienziale che ci ha coinvolto. Non una seconda edizione, ma un libro “ridisegnato” e collettore di quella mutazione del patrimonio collettivo che chiamiamo cultura del territorio.

V.F. e L.R.

Invisible dimensions, 2018; optic fibers installation, 3,5 (h) x 4 x 4 metri, Alte Munze, Berlino. © Carlo Bernardini

Città e territorio: tecnologie per una nuova narrazione

L’artista è colui che ci vaccina di fronte ai grandi mutamenti, soprattutto ai cambiamenti dei modi di vivere che a volte viviamo anche come di sastro, nei termini di un mutamento repentino che ci coglie impreparati. L’artista ci mette in condizioni di capire chi stiamo diventando. Angela Vettese da Marshall McLuhan (1964-2010)1

L’idea che supporta questo volume ed i suoi contenuti scientifici parte dal concetto di installazione come strumento di lettura e riap propriazione dei luoghi. L’installazione, definibile come “assemblag gio artistico di vaste proporzioni”2, è un’opera che coinvolge l’intero ambiente determinandone un mutamento, un’opera spesso pratica bile dallo spettatore, concepita come superamento della tradizionale suddivisione delle opere d’arte3: si tratta in genere di un’opera tem poranea, che può contenere in sé molte delle discipline artistiche, comprese teatro e danza, e che prevede la partecipazione attiva – fisica e concettuale – e il coinvolgimento dell’osservatore-attore. L’installazione, come sostiene Massimiliano Gioni «[...] è figlia di quel bombardamento di dati che dà forma alla fase matura della nostra società iperinformata. È un sintomo dell’estasi della comunicazione: l’arte dell’installazione parte dalla constatazione sublime di essere un tassello nel flusso incessante di connessioni globali. È una forma di scultura esplosa, ciclopica nelle dimensioni: vastissima e frattale. È ancora un monumento, anche se eretto a celebrare un tempo fon dato sull’immediatezza, sull’accumulo dell’istante. [...] In generale, le

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J. Turrell, Roden Crater project, Painted Desert (AZ, USA). L’Alpha Tunnel Elaborazione digitale: Isabella Friso/Iuav.

As above, so below

Agostino De Rosa

L’opera di alcuni artisti contemporanei, meno legati all’establish ment e ai vincoli professionali di quanto non lo siano gli architetti, hanno mostrato in questi ultimi decenni come sia possibile inter venire in contesti naturali incontaminati o urbani, con discrezione ma anche con piglio creativo, trasformando il paesaggio terrestre in uno specchio di quello celeste che ci circonda e ci sovrasta. L’effetto è quello di ampliare a dismisura il campo percettivo del fruitore ad un contesto inaspettato, tuttavia sempre presente nelle nostre vite. Senza che ce ne rendiamo conto, le nostre esistenze già si svolgono nello spazio siderale, in quello atmosferico per la precisione, condivi dendo con il mondo terrestre il solo contatto col piano di calpestio dei nostri piedi, dei basamenti degli edifici che abitiamo. Il resto di noi e dell’architettura è proiettato nell’atmosfera, in un paesaggio denso di luce di cui conosciamo a mala pena le coordinate, ma che merita di essere esplorato in tutta la sua iridescente bellezza e com plessità. Alcuni land formed works hanno saputo configurare spazi di risonanza tra il cielo e la terra, creando luoghi suggestivi in cui il fisi co e il metafisico agiscono in comunione – spesso inaspettatamente rispetto ai desiderata degli stessi artisti –, e il cui interesse risiede, oltre che nelle componenti filosofiche del loro immaginario, nel ca rattere composito e stratificato dei concetti di configurazione e per cezione spaziale e luministica che essi implicano; si tratta di opere in cui si fondono discipline tra le più diverse – architettura, scultura, in gegneria, astronomia e antropologia –, dimostrando come al giorno

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Parte I

Luce/suono/architettura: tecnologia tra spazio scenico e paesaggio urbano

Creare un habitat performativo è una “dimensione” dell’esperienza che non sta né nella natura né nell’uomo, ma è una condizione ibrida che intreccia elementi naturali, elementi artificiali e la performatività dell’uomo. L’habitat è un ambiente interattivo che parte dalle esigenze e dalle caratteristiche del mondo ma non coincide con il mondo reale, è lo spazio in cui si costruiscono esperienze utili a interpretare e ripensare il nostro divenire. Un habitat multimediale si progetta mediante una drammaturgia capace di creare opere-eventi, luoghi-eventi, e di connetterli fra loro, di metterli in rete, tessendo trame relazionali e cucendo costellazioni di pensieri e dinamiche espressive.

Andrea Balzola, Paolo Rosa, L’arte fuori di sé. Un manifesto per l’età post-tecnologica, Feltrinelli, Milano, 2011, p. 19.

Beacon 2013. © 2022 Bruce Munro. Foto: Mark Picktall

Antony McCall, famoso teorico ed esponente dell’Expanded Cine ma, negli anni ’70 indagherà gli elementi strutturali e costitutivi del cinema. Con l’opera Line describing a cone (1973), inaugurò la serie dei Solid Light Film, ovvero dei film di luce solida, diventando un im portante artista visuale-concettuale. Si tratta di un “film narrativo” re alizzato in pellicola 16 mm, proiettato da un singolo punto su parete nera, dove si compone dinamicamente una “forma volumetrica”, un cono di luce nello spazio.

L’artista coniuga tre arti nelle sue installazioni: scultura, poiché lo spettatore in movimento può occupare ed attraversare le membrane di luce; cinema, per via del dinamismo dei fasci luminosi e disegno, importante step nella prima fase del suo lavoro. «Ogni opera di luce solida» afferma l’artista «è una variazione di queste forme disegnate, che spesso si nascondono, rivelano e viaggiano l’una nell’altra»30

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Anthony Mc Call, Line describing a cone, 1973.

Per realizzare le sue opere McCall utilizza la Hazer Machine, ge neratore di foschia usato per produzioni cinematografiche e teatrali, che restituisce consistenza materica alla luce, creando un artificiale effetto di nebulosa.

Le sue opere hanno una valenza “sociale”: nello spazio, mai del tutto buio anche fuori dalle “membrane” che emanano un bagliore argenteo, il pubblico ne “abita” la parte inferiore più ampia del solido immateriale, quella a contatto del pavimento: si può entrare e lasciar si avvolgere dalla luce. La natura di queste installazioni con sviluppo verticale impone la scelta di spazi espositivi molto estesi in altezza.

Eteree e fugaci sono anche le immagini che in teatro Muta Ima go ottenne come punto d’arrivo di una ricerca – un mix tra gesto, materia ed immagine proiettata – utilizzando schermi volatili, come nuvole di farina lanciata in aria, che restituiscono la leggerezza e la fugacità del ricordo in Lev, ex combattente russo ferito alla testa, che ha perduto il passato di cui tenta una labile ricostruzione visiva (opera teatrale del 2008)31. Questa piéce si basa sull’interazione del performer con una sovrapposizione di schermi solidi che, seguendo una parti tura rigorosa, si svolge in un succedersi di proiezioni e parola “non pronunciata”, ma scritta: frasi, slogan e immagini32. Nei lavori di Muta Imago il luogo è sempre a servizio del performer che può annullarlo o trasformarlo per creare racconto; l’uso di luce e buio consente que sta dinamica temporale che, “spazializzando il tempo”33, restituisce continui rimandi al passato.

Interessanti le sperimentazioni coreo-sonore in cui «immagini olografiche, suoni campionati in tempo reale, rendono il luogo della scena una lanterna magica di grandi dimensioni»34. In questo filone di ricerca hanno lavorato i Santasangre su grandi schermi trasparenti,

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Muta Imago, Lev, 2008.

Valerio Di Pasquale in Bandoni, installazioneperformance di Fabrizio Crisafulli nel contesto dello spettacolo La Passione. Pasolini al Mandrione, diretto da Marcello Sambati, Acquedotto Felice, Roma, 1995.

Una luce organica, nel teatro, nella città. Intervista a Fabrizio Crisafulli

Nella ricerca registica di Fabrizio Crisafulli convergono diverse esperienze. Gli studi in architettura, la vicinanza ad alcune personalità del teatro-immagine degli anni ’70, la passione per i luoghi e quel la per le arti visive: esperienze che si ritrovano nel suo lavoro come molteplici spunti ed interessi. Crisafulli mette in gioco criticamente i diversi linguaggi del teatro. Nelle sue produzioni i termini performan ce, spettacolo, installazione, laboratorio tendono a sconfinare l’uno nell’altro. Ogni progetto ha una sua genesi specifica, legata ad esi genze e motivazioni diverse e alla tipologia del lavoro, ma in generale l’approccio rispetto alla composizione è quello di porre sullo stesso piano gli elementi della creazione, affidando a ciascuno di essi un po tenziale generativo e poetico. Spazio, persone, testo, memoria, suono e luce sono i materiali attivi cui l’artista affida la capacità di creare rela zioni e instaurare reciproci rapporti dinamici. Questi materiali, nel suo teatro, mantengono un carattere essenziale e necessario. Volendoci soffermare sulle “questioni della luce”, non si può non accennare alle altre componenti del lavoro di Crisafulli, che l’autore tratta, insieme alla luce stessa, come parti complementari di un’unità. Crisafulli con sidera la luce elemento della composizione spaziale e drammaturgi ca, “suono” e forma in grado di garantire l’espressione. La luce non ha solo funzione di illuminare. Ha piuttosto un ruolo sostanziale e attivo come quello di un attore. Le avanguardie storiche sono state per l’ar tista il bacino di alcune intuizioni sulla luce (da riaffermare o processa re) con le quali, in particolare nei suoi laboratori, si è rapportato anche

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allestendo nuove versioni di spettacoli di luce storici, o assumendoli come spunti per altre creazioni, rimanendo sempre in ascolto rispetto al contesto (teatro, museo o territorio) e operando attraverso scelte e scarti pertinenti. Nei suoi interventi installativi urbani, in alcuni casi, la luce dinamizza in forme geometriche e colorate le architetture, come in Et molto meravigliosi da vedere (2003) o Magnetica City (2005), in cui le proiezioni di luce, le forme animate, erano strettamente motivate dall’oggetto reale (la torre Valadier di Ponte Milvio a Roma, nel primo caso; un edificio razionalista di Scandicci, nel secondo); in altri, resti tuisce e concretizza essenzialmente con tratti luminosi il sito, come in Pietraluce (1999), realizzato all’anfiteatro romano di Catania, dove la pietra lavica diventa la materia da condurre in “altra luce”.

Com’è nato il tuo interesse per un utilizzo “costitutivo” della luce nel teatro? Seguire la ricerca dei registi delle “cantine romane” negli anni ’70, Vasi licò, Perlini, Nanni, mi aveva avvicinato ad un tipo di lavoro con la luce assolutamente diverso rispetto a quanto avevo visto fino ad allora. In quelle esperienze, la luce era un materiale, o, meglio, una materia, messa in campo con la sua forza poetica. Non c’era la solita consi derazione della luce come elemento al servizio dell’attore o come strumento per ottenere “effetti”. La luce era parte sostanziale e costi tutiva, appunto, della scrittura scenica. Si trattava di situazioni povere, dove si usavano pochi, normalissimi mezzi. E, gioco forza, non vi era alcun atteggiamento tecnicistico. Vi era un esclusivo interesse per la luce come fatto artistico. A partire dalla metà degli anni Ottanta, ho condotto la mia ricerca sulla luce come linguaggio autonomo. Nei

Fabrizio Crisafulli, Pietraluce, installazione, anfiteatro romano di Catania, 1999. Foto: Massimo Siragusa

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Scena in scena, spettacolo di luce di Fabrizio Crisafulli e allievi dell'Accademia di Belle Arti di Urbino, 1994.

laboratori di quegli anni la consideravo il principale elemento gene rativo della performance. Ho realizzato per anni con i miei studenti spettacoli visivo-sonori, senza testo e senza attori1. Lo faccio anche adesso. Questo tipo di lavoro è molto importante per me. E alimenta anche la mia ricerca con la compagnia, con gli attori e i danzatori. Rispetto ai quali la luce è sempre importante elemento di relazione e di scambio.

Quali erano i principi ispiratori dei tuoi primi laboratori? Una delle principali motivazioni derivava dalla considerazione che la luce ha sempre stentato a trovare in teatro un ruolo consono al suo essere sostanza vitale ed energetica. Probabilmente perché non ha elaborato nel corso della storia una propria autonomia espressiva ed un proprio linguaggio, come ha fatto, ad esempio, il suono. Gli stru menti per farlo, o, perlomeno, per farlo in maniera complessa, sono arrivati tardi, con l’elettricità. Dell’elettricità il suono, per diventare “musica”, per farsi linguaggio, non ha avuto bisogno. La luce, sì. La mancanza di un linguaggio e quindi di indipendenza e autorità nel le relazioni con gli altri elementi del teatro, ha relegato la luce, sulla scena, in una condizione gregaria. Che è una condizione paradossale, se si pensa a come nella realtà la luce sia invece elemento primario e generativo.

Per te quindi la luce, anche in teatro, è energia vitale. Perché lo è nella realtà. E non solo in natura. È elemento innervante della vita metropolitana e delle nuove tecnologie. E ha una posizione

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