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Giovanni Corbellini

exlibris 16 parole chiave dell’architettura contemporanea



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Alessandro Rocca 2015

Questo è un libro utilissimo e chiaro, con una bella superficie di scrittura elegante, ma è anche un libro ermetico, percorso da una trama densa di messaggi impliciti, di teorie non dichiarate, di critiche sottaciute. Ogni lettore rintraccerà gli indizi più segreti secondo le sue conoscenze e i suoi interessi, io mi limito a indicare quelli che mi sembrano assolutamente evidenti. Il primo di questi messaggi, a mio parere, è che le parole sono importanti. Lo aveva già detto Nanni Moretti, posseduto da un’ossessione purista, ma Giovanni Corbellini lo sostiene invece, anzi, lo lascia intendere, con un intento eversivo, con l’ambizione di erodere noiose abitudini e altre pigrizie intellettuali. E bisogna ammettere che, per intraprendere e portare a compimento questa azione meritoria e liberatoria, ci vuole il coraggio di prendersi qualche rischio come quando, esterofilo e spregiudicato, ignora argomenti – parole – che per tanti dei nostri maestri, e per molti dei loro discepoli, sono riferimenti irrinunciabili. Contano molto, nel suo stringato dizionario a sedici voci, le parole escluse, quelle che ogni architetto sente e legge in continuazione, all’università, nelle conferenze, sulle riviste, e che sono le pietre miliari di un gergo per addetti, l’architettese, che si nutre di luoghi comuni e frasi fatte, che esclude gli altri e che per noi è tanto noioso quanto rassicurante. Le parole di Corbellini sono invece di tutti e di nessuno, appartengono solo al dizionario, esulano dal gergo semplificato e locale e servono per aprire e non per chiudere, per muoversi e non per fermarsi. Il secondo messaggio è che i libri sono importanti. È un’affermazione avanzata in maniera implicita, con leggerezza e nonchalance che però tocca un punto nevralgico della comunicazione culturale. D’altronde è ovvio, questo è un libro sui libri, ma c’è di più. Nell’epoca in cui è affiancato e circondato da strumenti che lo privano della centralità che ha sempre avuto, il libro deve reinventarsi e sperimentare nuovi formati e nuovi linguaggi. E in effetti Ex libris lo fa, con un percorso sperimentale che incrocia e sovrappone generi diversi: il dizionario, la bibliografia ragionata, la raccolta di saggi indipendenti. Del resto è un libro che nasce in rete, dall’altra parte della barricata, e che ha utilizzato uno spazio digitale, “arch’it”, come laboratorio e come interfaccia con i lettori. Tuttavia, resta indubbio che i libri sono importanti perché sono loro che guidano il pensiero e il progetto. Questo sostiene, seppure in modo indiretto, l’autore, ma secondo me anche lui sa molto bene che questo – se purtroppo o per fortuna, dipende dal vostro modo di pensare – non è completamente vero. E allora, a che cosa servono lo studio, le letture e la scrittura che hanno prodotto questo libro? A costruire un’opera, uno scenario, un progetto che ha come primo


obiettivo la realizzazione di un mondo che non c’è. In Flatlandia, romanzo epico dedicato alla geometria, una sfera spiega a un quadrato che esiste anche un mondo a tre dimensioni. La sfera insiste a lungo, per persuadere il quadrato incredulo, e una delle dimostrazioni più convincenti è un sopralluogo didattico nel mondo a una dimensione, un nulla abitato da un unico punto strafelice di essere se stesso. Quando, finalmente, il quadrato capisce e si convince che esistono mondi diversi con un maggior numero di dimensioni, ne ricava una condanna all’esclusione perpetua dalla società bidimensionale. Ex libris, come Flatlandia, ci convince passo a passo, parola per parola, che esiste un mondo architettonico diverso, altro, che ha una sua propria dimensione, quella del libro, dove Corbellini / Alice nel paese delle meraviglie ci conduce a scoprire spazi incongrui, tempi paralleli, parentele nascoste, accostamenti giudiziosi e relazioni più o meno pericolose. E anche noi, se crediamo fino in fondo al mondo corbelliniano, possiamo rischiare di non essere più riconosciuti dai nostri simili; Le pillole del dott. Corbellini, per citare un altro suo bel libro, vanno assunte con imprudenza, senza curarsi degli effetti collaterali. Perché il mondo di Ex libris è come Solaris, un pianeta dove i sogni diventano realtà ma dove, purtroppo, si avverano anche gli incubi… Perciò bisogna prendere ad esempio l’autore che è molto bravo a non entusiasmarsi mai, almeno in apparenza, e a non deprimersi, lasciando che siano le parole, e non i sentimenti, a raccontare le loro verità. Il titolo, di cui sono colpevole, ha una corrispondenza evidente con il contenuto del libro ma ha anche un’origine più personale, una memoria persistente del motto contenuto nell’ex libris di Gabriele D’Annunzio: “Io ho quel che ho donato”. Associare questa generosità al libro mi è sembrato che si attagliasse in modo perfetto alla scrittura di Corbellini che è sempre e principalmente un atto di donazione, una cessione di conoscenza che l’autore esercita, con grande consapevolezza e con consumata perizia, nei confronti del lettore. Questa attitudine è molto meno didattica che relazionale, per usare un’idea fortunata di Nicolas Bourriau, ed è da qui che scaturisce la linfa che ispira e arricchisce questi testi, che li rende aperti, concepiti per generare altri discorsi, idee, progetti. È in base a queste considerazioni che qualche anno fa convinsi Giovanni Corbellini a raccogliere le voci che aveva preparato per “arch’it” in un libro della collana che allora dirigevo per 22Publishing, e oggi sono felice che Ex libris sia ripubblicato perché si merita altri e nuovi lettori e perché è un contributo importante, e originale, allo sviluppo dell’intelligenza dell’architettura italiana.


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Calvino Italo, Lezioni americane, Garzanti, 1988. veloce

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Chiamato a Harvard a tenere le prestigiose Norton Lectures, Italo Calvino scelse di occuparsi della contemporaneità attraverso alcune parole chiave. Le Lezioni americane devono gran parte della loro efficacia a un metodo in grado di produrre sezioni significative di situazioni complesse e, soprattutto, alla particolare compatibilità con le questioni trattate: da un lato la contemporaneità stessa (i termini proposti – Leggerezza, Rapidità, Molteplicità... – sembrano riferirsi direttamente alla sintesi del suo approccio) e dall’altro la letteratura, che appunto di parole è fatta. Nel parlare di architettura si produce viceversa una inevitabile distanza e, quando il discorso si estende dalle realizzazioni alle analisi critiche che le riguardano, si rischia un effetto simile a quello che si ottiene mettendo due specchi uno di fronte all’altro: la realtà si moltiplica all’infinito, ma sempre più ridotta e lontana. Un’attività che potrebbe sembrare vagamente onanista, certamente piacevole per chi la conduce ma con la concreta possibilità di staccarsi dall’oggetto della propria riflessione (come ammonisce Kester Rattenbury). D’altronde, che tra le cose e le parole (gli oggetti e le loro rappresentazioni) vi sia uno scarto spesso incolmabile era stato molto chiaramente esposto da René Magritte. Uno scarto che, tuttavia, consente alle parole di influire sulla realtà, al di là delle loro capacità o incapacità descrittive. “Siamo parlati dal linguaggio”, diceva Heidegger (insieme a Benjamin Lee Whorf e ai teorici del determinismo linguistico), e questa transitività riemerge nell’antropologia di Michel Foucault, così come nella paradossale inversione causa-effetto tra mezzi e messaggi indagata da Marshall McLuhan nei sistemi di comunicazione di massa. Una disciplina intrinsecamente progettuale come l’architettura non ha quindi potuto evitare di servirsi sempre e largamente delle parole, dando alla scrittura un ruolo insostituibile, complementare a quello di altri linguaggi rappresentativi, e paragonabile a quello della stessa costruzione, soprattutto nel determinare specifiche direzioni di ricerca. Di Leon Battista

Rattenbury Kester (a cura di), This is Not Architecture. Media Constructions, Routledge, 2001. assenza

Magritte René, Les mots et les images, in “La revolution Surrealiste”, n. 12, 15 dicembre 1929. Whorf Benjamin Lee, Language, Thought, and Reality, The Mit Press, 1956, ed. it. Linguaggio pensiero e realtà, Boringheri, 1970. Foucault Michel, Le mots et les choses. Une archèologie des sciences humaines, Gallimard, 1966, ed. it. Le parole e le cose, Bur,1998. McLuhan Marshall, Understanding Media. The Extensions of Man, McGraw-Hill, 1964, ed. it. Gli strumenti del comunicare, Il Saggiatore, 2015.

Cardini Roberto (a cura di), Leon Battista Alberti. La biblioteca di un umanista, Mandragora, 2005.


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POST SCRIPTUM Oltre al crescente numero di dizionari, l’approccio alla complessità attraverso parole chiave presenta diversi esempi, tra questi si segnala “Diario”, la rubrica periodica di “Repubblica” che affronta temi caldi dell’attualità giornalistica, raccolta in volume per il 2005: • Gnoli Antonio (a cura di), Diario. Le parole del 2005, La biblioteca di Repubblica, 2006. “Verb-boogazine” è un ibrido libro-rivista che ha affrontato a ogni uscita una questione specifica: • Verb. Crisis, Actar, 2008. densità • Verb. Natures, Actar, 2007. diagramma • Verb. Conditioning, Actar, 2005. grande • Verb. Connection, Actar, 2004. • Verb. Matters, Actar, 2004. • Verb. Processing, Actar, 2001. veloce Dai trattati antichi fino a oggi, la letteratura architettonica si è nutrita di una serie vastissima di libri puramente teorici e di storie che ne hanno tracciato i percorsi, soprattutto parallelamente alle avanguardie: • Colomina Beatriz, Manifesto Architecture. The Ghost of Mies, Sternberg Press, 2014. • Sykes A. Krista, Constructing a New Agenda. Architectural Theory 1993-2009, Princeton Architectural Press, 2010. • Vidler Anthony, Histories of the Immediate Present. Inventing Architectural Modernism, The Mit Press, 2008. • Jencks Charles, Kropf Karl, Theories and Manifestoes of Contemporary Architecture, Academy, 2006. • Hale Jonathan A., Building Ideas. An Introduction to Architectural Theory, John Wiley & Sons, 2000. • Hays K. Michael, Architecture Theory since 1968, The Mit Press, 1998. • Leach Neil, Rethinking Architecture. A Reader in Cultural Theory, Routledge, 1997. assenza • Nesbitt Kate, Theorizing a New Agenda for Architecture. An Anthology of Architectural Theory 1965-1995, Princeton Architectural Press, 1996. • De Fusco Renato, Lenza Cettina, Le nuove idee di architettura. Storia della critica da Rogers a Jencks, Etaslibri, 1991. • De Fusco, Renato, L’idea di architettura. Storia della critica da Viollet-le-Duc a Persico, Etaslibri, 1968. Per una involontaria coincidenza, negli stessi giorni nei quali si teneva la mostra sui libri dell’Alberti, Firenze ha ospitato il festival internazionale di architettura “Beyond Media 05” (1-11 dicembre 2005, a cura di Marco Brizzi) il cui tema, “Script”, affrontava lo scrivere nell’architettura contemporanea sia nei termini analogici della narrazione che in quelli digitali del comporre linee di codice: • Brizzi Marco, Giaconia Paola (a cura di), Script, Compositori, 2006. • Giaconia Paola (a cura di), Spot on Schools. Script, Compositori, 2005. Sull’interazione tra progetto, testo e ideologie: • Wingårdh Gert, Rasmus Waern (a cura di), Crucial Words: Conditions for Contemporary Architecture, Birkhäuser, 2008. • Markus Thomas, The Words Between the Spaces. Buildings and Language, Routledge, 2001.


Sempre eminentemente testuale è stata la rivista “Any” (28 fascicoli, usciti tra il 1993 e il 2000) a partire da: • “Any”, n. 0, 1993, Writing in Architecture. E lo è anche la nuova creatura di Cynthia Davidson: • “Log” (2003-). Tra le più longeve e radicali, nella sua rinuncia alle immagini, è la rivista di Renato De Fusco: • “Op. cit.” (1964-). I due “big books” prodotti dal laboratorio koolhaasiano a Harvard: • Inaba Jeffrey, Koolhaas Rem, Leong Sze Tsung, Great Leap Forward. The Harvard Design School Project on the City, a cura di Chung Chuihua Judy, Taschen 2002. grande veloce • Inaba Jeffrey, Koolhaas Rem, Leong Sze Tsung, The Harvard Design School Guide to Shopping. Harvard Design School Project on the City 2, a cura di Chung Chuihua Judy, Taschen, 2002. Sull’attività di Koolhaas scrittore: • The architecture of Publication [Rem Koolhaas in Conversation with Beatriz Colomina], in “El Croquis”, n. 134-135/II, 2007. Flussi di informazioni nello spazio urbano: • Mitchell William J., Placing Words. Symbols, Space, and the City, The Mit Press, 2005. contesto Il progetto delle parole: • Apeloig Philippe, Au coeur du mot / Inside the word, Lars Müller, 2005. • Busch Akiko, Design Is... Words, Things, People, Buildings, and Places at Metropolis, Princeton Architectural Press, 2002. • Jones Wes, Instrumental Form. Design for Words, Buildings, Machines, Princeton Architectural Press, 1998. mobile Le parole nell’arte: • Kruger Barbara, Remote Control. Power, Cultures, and the World of Appearances, The Mit Press, 1993. • Linker Kate, Love for Sale. The Words and Pictures of Barbara Kruger, Harry N Abrams, 1990. • Holzer Jenny, Dinkla Söke, Block Friedrich W., Jenny Holzer. Xenon for Duisburg. The Power of Words, Hatje Cantz, 2006. • Holzer Jenny, Jenny Holzer. Truth Before Power, a cura di Schneider Eckhard, Kunsthaus Bregenz, 2004. Sull’organizzazione della conoscenza, sul come mettere questioni e concetti uno dopo l’altro, uno vicino all’altro, un romanzo: • Pirsig Robert, Lila. An inquiry into morals, Bantam, 1991, ed. it. Lila, Adelphi, 1995. L’intersezione di percorsi critici attraverso le diverse posizioni rappresentate dai libri trova un modello nella distribuzione aleatoria dei tarocchi che guida i racconti di: • Calvino Italo, Il castello dei destini incrociati, Einaudi, 1973.

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Molte riviste di architettura privilegiano il testo e l’argomentazione teorica rispetto al commento su progetti e realizzazioni. Nata dall’incontro tra “Archis”, Amo e il C-lab della Columbia University, “Volume” affronta temi monografici, spesso legati alla comunicazione e alla migrazione del sapere architettonico nell’immateriale: • “Volume” (2005-). extremo


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Tschumi Bernard, Architecture and Disjunction, The Mit Press, 1994, ed. it. Architettura e disgiunzione, Pendragon, 2005. mobile collisione assenza veloce

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In Architecture and Disjunction, Bernard Tschumi propone una nuova triade in sostituzione di quella vitruviana. Spazio, evento e movimento, secondo l’architetto franco-svizzero, costituirebbero oggi chiavi d’interpretazione molto più adatte di una firmitas ormai superata sia nel suo significato di solidità che in quello di aspirazione all’eternità, di una utilitas difficilmente discernibile nel continuo cambiamento di usi e obiettivi, di una venustas inafferrabile e ampiamente emarginata dallo stesso campo di riflessione artistica (vedi bello?). La componente temporale, dinamica della proposta di Tschumi non solo si distacca dalla concezione più tradizionale del progetto architettonico ma si differenzia sostanzialmente anche dall’approccio del movimento moderno o, almeno, dalla sua vulgata più diffusa. Certo, la riflessione scientifica, filosofica, artistica e architettonica nei primi vent’anni del secolo scorso presentava aspetti più che progressivi – come testimonia Sanford Kwinter in Architectures of Time. Toward a Theory of the Event in Modernist Culture, dedicato ai complessi rimandi rintracciabili tra le teorie di Einstein, le opere di Boccioni e Sant’Elia e gli scritti di Bergson e Kafka – ma la gran parte delle proposte moderniste, almeno in architettura e in urbanistica, tendeva a fondarsi sulla costruzione di nessi statici e deterministici tra funzione e forma e, in definitiva, alla produzione di oggetti tout court. La nozione di evento, con il suo carattere mutevole e aleatorio, mette in crisi ogni idea di forma espressa attraverso assetti definitivi spostando l’attenzione su quello che accade e, soprattutto, su quello che può accadere in un qualsiasi spazio, anche oltre le previsioni. È evidente, in questo sforzo di trasformazione della disciplina, non solo il tentativo di mantenersi in contatto con una realtà in costante e accelerata mutazione evolutiva (descritta da Paul Virilio in A Landscape of Events), ma anche di ampliare la capacità dell’architetto di rispondere a situazioni che sfuggono alle sue capacità di comprensione e d’intervento. Si tratta di un approccio che, rispetto al sistema di sicurezze che regge la pratica del progetto architettonico,

Kwinter Sanford, Architectures of Time. Toward a Theory of the Event in Modernist Culture, The Mit Press, 2001. veloce

Virilio Paul, A Landscape of Events, The Mit Press, 2000.


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Tschumi Bernard, Event Cities, The Mit Press, 1994. Tschumi Bernard, Event Cities 2, The Mit Press, 2000. Tschumi Bernard, Event Cities 3. Concept vs. Context vs. Content, The Mit Press, 2005. contesto

Tschumi Bernard, Event Cities 4. Concept-Form, The Mit Press, 2010.

Baudrillard Jean, Pataphysique, Sens & Tonka, 2002, ed. it. Patafisica e arte del vedere, Giunti Citylights, 2006. OuLiPo, La littérature potentielle, Gallimard, 1973, ed. it. La letteratura potenziale, Clueb, 1986.

risulta tanto destabilizzante quanto aperto a nuovi sviluppi: all’intenzione di suddividere e confinare si sostituisce la ricerca e l’amplificazione del possibile e dell’inaspettato (non è un caso quindi che ancora Tschumi abbia intitolato Event Cities le raccolte dei suoi progetti, ora arrivate al quarto volume). Luogo fondamentale, per la sperimentazione di questo approccio, è stato senz’altro il concorso per il parco della Villette (Parigi, 1982), dove la densità del programma funzionale provocava la risposta innovativa di almeno due proposte: quella, poi realizzata, dello stesso Tschumi e quella ancora più radicale di Rem Koolhaas/Oma. Le strategie di stratificazione di elementi generici (la griglia per Tschumi, le fasce e la distribuzione “matematica” delle funzioni puntuali per Koolhaas) esprimono l’intenzione di evitare che la specificità degli assetti morfologici impedisca il libero dispiegarsi delle situazioni, mentre le fasce di Oma, aumentando le linee di frizione tra parti funzionali differenti, si propongono come vere e proprie “macchine produttrici di eventi”. Questi ultimi, nella soluzione realizzata, trovano una loro rappresentazione architettonica nel casuale sovrapporsi e incontrarsi dei diversi layer programmatici (punti-folie, lineepercorsi, zone-superfici). La ricerca attorno alle potenzialità degli eventi aleatori presenta un’ampia casistica, dal principio d’indeterminazione di Heisenberg (1927: è impossibile stabilire contemporaneamente posizione e velocità di una particella con una precisione superiore a un valore dato) alla fisica dei quanti (la cui componente probabilistica fece esclamare a Einstein il famoso “Dio non gioca a dadi”), passando per il surrealismo, dada, la poesia automatica, l’improvvisazione jazzistica, l’espressionismo astratto, la teoria del caos, la patafisica di Jarry o l’Oulipo di Queneau, Perec e Calvino. Ma il movimento che, per evidenti aspetti generazionali e profonde implicazioni politiche e sociali, ha senz’altro avuto più influenza nel portare l’evento al centro della riflessione architettonica recente è stato senz’altro l’Internazionale situazionista. Fondata nel 1957 riunendo gruppi


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artistici e politico-filosofici (il Movimento per una Bauhaus immaginista, nato dal gruppo Cobra, e Lettrist International) e scioltasi nel ‘72, l’Internazionale situazionista ha svolto un ruolo di primo piano nella sinistra libertaria e, soprattutto, nei fatti rivoluzionari del 1968, estendendo la sua influenza anche su fenomeni più recenti, come il punk o alcune tesi del pensiero postmoderno. Città e architettura sono da subito teatro della riflessione e dell’azione situazionista. La pratica della deriva (vagare casuale attraverso i quartieri in cerca di situazioni, vedi Andreotti e Xavier Costa, 1996) è la base per la costruzione di mappe “psicogeografiche” dove all’oggettività della cartografia ufficiale si sostituisce un’analisi delle relazioni tra linguaggi, persone, narrazioni, eventi, potenzialità… L’opposizione radicale a un’urbanistica ossessionata dall’incremento della mobilità meccanica e dalla separazione funzionale dello zoning, dove lo spazio per qualsiasi attività non programmata viene progressivamente eliminato, conduce alla proposta dell’“urbanismo unitario” (oggetto dell’omonimo saggio di Leonardo Lippolis), utopia di una città priva di alienazione, animata giocosamente dai diversi desideri in competizione fra loro. Sull’ipotesi della fine del lavoro (tutte le mansioni ripetitive possono e devono essere svolte dalle macchine e ciò che resta è pensiero e azione creativa) si fonda il progetto di Constant per una città ideale, New Babylon (1958-74): enorme e ramificata infrastruttura sospesa sopra il territorio. A differenza di alcuni precedenti, come il Plan Obus di Le Corbusier, dove la libertà di costruire la propria casa su terreni artificialmente moltiplicati costituiva una sorta di intensificazione di meccanismi economici e sociali esistenti, New Babylon presuppone una totale liberazione dai vincoli residenziali della produzione e della famiglia. Il nomadismo che ne deriva, la disponibilità ad accogliere e stimolare il verificarsi di eventi imprevedibili e la libertà di ricreare, in ogni momento, l’ambiente adatto per le attività ludico-creative è alla base di una configurazione a

Andreotti Libero, Costa Xavier (a cura di), Theory of the Dérive and other Situationist Writings on the City, Actar, 1996.

Lippolis Leonardo, Urbanismo unitario. Antologia situazionista, Testo & Immagine, 2002.

Fortier Bruno, “Ariane en chômage”, in Id., L’amour des villes, Mardaga, 1995, ed. it. Amate città, Electa, 1995. Sadler Simon, The Situationist City, The Mit Press, 1998. Wigley Mark, Constant’s New Babylon, Phillip Galgiani, 1999. Careri Francesco, Constant. New Babylon, una città nomade, Testo & Immagine, 2001.


Marco Brizzi 2007

All’architettura non manchi la voce Sono sempre più le tracce che l’architettura del nostro tempo lascia in forma di testo. E la rivoluzione digitale, del resto, non ha fatto che incentivare un’attività editoriale già intensa, facendo circolare saperi, estendendo discorsi e contribuendo a inserire l’architettura tra gli oggetti di consumo della contemporaneità. Nell’attuale, spesso disorientante proliferazione di progetti, ipotesi e idee, Giovanni Corbellini ha cominciato ad articolare alcuni percorsi significativi, in grado di tenere insieme la maneggevolezza di una comunicazione diretta e sintetica con la vastità dei punti di riferimento: si può dire che le sue “parole chiave” aspirino a estendere lo sguardo critico sull’intero mondo dell’editoria internazionale di architettura. Una operazione resa possibile dalla rete – con le sue potenzialità di moltiplicare le relazioni tra cose, di effettuare ricerche e comparazioni – e che nella rete ha trovato il suo specifico terreno di crescita e diffusione, attraversando a sua volta diversi percorsi e modalità comunicative. Quando Giovanni mi ha segnalato, qualche anno fa, queste sue riflessioni gli ho subito proposto di farne una sezione autonoma di “arch’it”. La presenza su una rivista digitale avrebbe consentito loro di confrontarsi non soltanto con un pubblico ampio ma anche con un ambito di scrittura aperto e in grado di raccogliere nuove possibili interferenze, arricchendosi di collegamenti e inattese relazioni. Ben presto le “parole chiave” sono diventate argomento di una serie di conferenze tenute presso il Musarc di Ferrara e in molte altre città italiane, fornendo l’occasione di verificarne direttamente l’efficacia del metodo d’indagine e le attitudini divulgative. Da qui, una nuova migrazione ha riportato l’approccio tematico di Giovanni Corbellini alla dimensione cartacea, all’interno di prestigiose riviste specialistiche, come “Lotus”, e soprattutto in questo libro. Tra supporto digitale e carta stampata si è quindi instaurato un circolo di reciproca intensificazione, dove alla mobilità e accessibilità del primo si accompagnano la solidità e la sintesi della seconda. La forma-libro ha poi richiesto l’elaborazione di alcuni nuovi contributi e di un indice dei nomi che permette di navigare nelle parole attraverso un punto di vista alternativo e legare autori, progettisti, artisti, gruppi e movimenti ai loro temi più specifici, rimarcandone insieme le ricorrenze. Resta, naturalmente, la qualità dei testi, l’agilità di uno sguardo disincantato, che osserva il fluire delle parole e attraversa la letteratura architettonica alla ricerca delle relazioni e degli scambi che si producono intorno a temi nodali, tanto controversi quanto operativi. Un’attitudine che può aiutare il progettista, intenzionato


a estrarre dall’elaborazione concettuale temi e strumenti per il suo agire, lo studente disorientato, che può farsi prendere per mano e guidare nell’intricato mondo delle teorie architettoniche recenti, così come lo studioso, se non altro per la disponibilità di riferimenti bibliografici ragionati e rapidamente accessibili. Ma si tratta anche di un dispositivo in grado di aiutare a leggere il nostro tempo, a misurare i contorni e forse i limiti del dibattito culturale, quando questo esiste, interno alle professionalità che compongono oggi il mondo dell’architettura. La cultura della rete vi si rappresenta sempre più in termini di incompiutezza. Le idee, le informazioni e i progetti viaggiano su canali promiscui, alla costante ricerca di nuovi potenziali approdi. Raccogliere le voci, i rumori, seguire le parole su cui si accumulano le descrizioni del mondo progettato e costruito è un modo per favorire l’architettura nell’orientare provvisorie ma necessarie visioni.



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