Utopia S.r.l.

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23 Collana Alleli / Research Comitato scientifico Edoardo Dotto Nicola Flora Antonella Greco Bruno Messina Stefano Munarin Giorgio Peghin I volumi pubblicati in questa collana vengono sottoposti a procedura di peer-review

ISBN 978-88-6242-201-7 Prima edizione Ottobre 2018 © LetteraVentidue Edizioni © 2018 Testi: Cristina F. Colombo, Viviana Saitto © 2018 Fotografie: Elio Di Pace È vietata la riproduzione, anche parziale, effettuata con qualsiasi mezzo, compresa la fotocopia, anche ad uso interno o didattico. Per la legge italiana la fotocopia è lecita solo per uso personale purché non danneggi l’autore. Quindi ogni fotocopia che eviti l’acquisto di un libro è illecita e minaccia la sopravvivenza di un modo di trasmettere la conoscenza. Chi fotocopia un libro, chi mette a disposizione i mezzi per fotocopiare, chi comunque favorisce questa pratica commette un furto e opera ai danni della cultura. Nel caso in cui fosse stato commesso qualche errore o omissione riguardo ai copyrights delle illustrazioni saremo lieti di correggerlo nella prossima ristampa. Progetto grafico: Stefano Perrotta, Francesco Trovato LetteraVentidue Edizioni Srl Via Luigi Spagna 50 P 96100 Siracusa, Italy www.letteraventidue.com


Cristina F. Colombo, Viviana Saitto

ICONE SCONFITTE DELL’HOUSING SOCIALE Fotografie di Elio Di Pace


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Premessa Astronavi alla deriva Luca Basso Peressut Incipit «Sorry! The lifestyle you ordered is currently out of stock» Modello «Mentire riguardo il futuro produce la storia» Fallimenti «È più importante fallire magnificamente che raggiungere la mediocrità» Istantanee «Foto dal finestrino» Conclusioni «L’operazione è riuscita, l’ammalato è morto» Bibliografia Indice dei nomi


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* Luca Basso Peressut è Professore Ordinario di Architettura degli Interni e Allestimento presso il Politecnico di Milano


Astronavi alla deriva Luca Basso Peressut*

Dal Falansterio di Charles Fourier in poi il mito della residenza collettiva quale edificio separato e autosufficiente, sorta di «città in miniatura», ha germinato progetti che hanno cercato rispondere all’ideale di una comunità egualitaria, armoniosa e felice, da contrapporre alle miserie e al degrado che hanno segnato lo sviluppo urbano a partire dalla fine del Settecento. L’«unità sociale di base» per più di 1600 abitanti, definita dal suo creatore Palais sociétaire dédié à l’humanité, ha in effetti avuto molti epigoni, soprattutto nel secolo scorso. Tra i primi il Narkomfin di Moisei Ginzburg a Mosca (1930) che dava forma, nella collettivizzazione dei servizi e nell’enfasi sulla vita comunitaria degli abitanti, all’«esperimento sociale in vitro» della creazione della nuova società sovietica. In tempi più recenti tale modello, ricondotto alla più ampia sfera dell’housing sociale, riformista e non più rivoluzionario, non ha perso una certa tendenza all’eterotopia – cioè ad essere luogo altro – che ha contraddistinto, per esempio, l’Unitè d’Habitation di Le Corbusier, con il suo riferimento metaforico alla nave e alle sue forme e stili di vita (infatti, dove più che nella nave in mezzo all’oceano si può provare il senso di isolamento di una comunità lontana dal resto del mondo?). Un altro aspetto che riguarda l’insieme di progetti che, sul filo dell’ideale di Fourier, hanno prodotto tipologie abitative alternative alle strutture tradizionali delle città, vede nella smisuratezza un carattere fondativo che si è consolidato negli esempi di mega-edifici del Moderno. Lo stesso Falansterio, con il suo impianto ispirato alla reggia di Versailles, era pensato come un complesso grandioso il cui fronte si sarebbe sviluppato per più di 800 metri. Ben altre misure raggiungeranno, nel XX secolo, Prora, un edificio lungo quattro chilometri e mezzo costruito a partire dal 1936 sull’isola di Rügen, nel nord della Germania, per ospitare in 10.000 stanze più di ventimila lavoratori in vacanza, oppure il viadotto residenziale del Plan Obus per Algeri di Le Corbusier (1932), città-edificio lineare per 180 mila abitanti, lunga quindici chilometri e alta quattordici piani con un’autostrada sul tetto. Pur non realizzato, il progetto ha informato, con la sua forma sinuosa, quartieri quali il Conjunto Residencial Prefeito Mendes de Moraes

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«SORRY! THE LIFESTYLE YOU ORDERED IS CURRENTLY OUT OF STOCK»


«Sorry! The lifestyle you ordered is currently out of stock». Così recitava un’opera dello street artist Banksy apparsa nel dicembre 2011 sulla parete di un edificio disabitato al margine del distretto finanziario di Canary Wharf, a Londra. Ora al suo posto campeggia un annuncio pubblicitario. Sono diversi i significati che si possono attribuire a un motto simile, ma ciò che appare evidente nelle sue parole è la difformità tra una domanda e un’offerta, pur senza dare alcun indizio su quale possa essere la natura della richiesta, né su chi siano gli interlocutori. Le uniche cose chiare sono un messaggio di scuse, tracciato a grossi caratteri e con malcelato sarcasmo, e un netto diniego, che tuttavia non suona ineluttabile e lascia intravvedere la possibilità, forse più presunta che reale, di una diversa prospettiva. La provocazione lanciata da Banksy è allarmante e per certi aspetti profetica, alla luce del cambiamento urbanistico e sociale che ha investito l’area in cui è stata realizzata. Appare ancora più acuta se si pensa che soddisfare le richieste di cittadini e utenti esige da un lato la volontà – politica, economica e sociale – di farlo, dall’altro una precisa capacità di interpretare i bisogni o i desideri delle persone e saperli prevedere per tempo e nel tempo. La questione diviene particolarmente delicata quando 1. Cfr. M. Heidegger, «Bauen, Wohnen, Denken», in Id. Vorträge si entra nel campo dell’abitazione. Oltre a essere il luogo und Aufsätze, Neske, Pfullingen in cui si svolge la dimensione più intima dell’esistenza 1954, trad. it. «Costruire, abitare, pensare», in Saggi e discorsi, a umana, la casa incarna le aspirazioni degli abitanti, cura di G. Vattimo, Mursia, Milano ne rispecchia, e al tempo stesso condiziona, valori e 1976, pp. 96-108. 2. I. Ábalos, La Buena vida: idee. Il dibattito teorico si è concentrato a lungo sulla Visita guiada a las casas de la definizione delle nozioni di «abitare»1 e di «casa», a modernidad, Editorial Gustavo Gili, Barcellona 2000, trad. it. Il partire dall’accezione del termine proposta da Martin buon abitare, Christian Marinotti Edizioni, Milano 2009. Heidegger, che in lingua tedesca ha associato il concetto di abitare alla parola Wohnen. Molta letteratura architettonica ha, poi, studiato il rapporto tra forma e funzione degli edifici, liquidando spesso con eccessiva leggerezza l’interrogativo con cui si chiude lo scritto Il buon abitare di Iñaki Ábalos: chi sia e con quali strumenti si possa individuare il destinatario privilegiato della casa2. La definizione di architettura come costruzione armoniosa di un invaso atmosferico circoscritto da un margine e aperto all’accoglienza della vita umana, accenna esplicitamente all’aspetto

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pratico e operativo insito nel suo significato: accoglienza equivale innanzitutto a capacità di ricevere il corpo e il gesto dell’uomo – sia esso singolo, un piccolo gruppo o la collettività – e di corrispondere alle sue necessità materiali3. Il compito che un interno domestico deve assolvere è, dunque, quello di soddisfare i bisogni di chi ospita, dare risposta all’insorgere di nuove esigenze, essere accogliente e confortevole, riconoscere l’individualità e rispettare la dignità delle persone. Per non tradire questi assunti è fondamentale che il suo assetto preveda un margine di flessibilità nello spazio e nel tempo, ovvero la possibilità di personalizzarlo a seconda di necessità specifiche e contingenti, per renderlo un’estensione 3. G. Ottolini, Forma e significato rivelatrice del carattere, del gusto e della cultura – si in architettura, Maggioli Editore, Sant’Arcangelo di Romagna (RM) potrebbe dire in una parola dell’individualità – dei suoi 2007, p. 87. 4. M. Heidegger, op.cit., p. 100. occupanti. 5. Ivi, p. 105. 4 «Il tratto fondamentale dell’abitare è avere cura» . Avere cura (Schonen), alla base della radice etimologica della parola «arredare», è quella relazione originaria che l’uomo ha con gli oggetti che utilizza nel suo ambiente vitale, mezzi di sopravvivenza che permettono all’individuo di orientarsi nel mondo e ordinare la propria esistenza. Il corredo di tali elementi può essere fornito a priori, ma questo rischia di innescare una dipendenza che porta a una sottomissione nei confronti di ciò che si ha intorno. Abitare, invece, è un atto di libertà, di scelta. Gli uomini «abitando abbracciano spazi e si mantengono in essi (wohnend durchstehen sie Räume) sulla base del loro soggiornare presso cose e luoghi»5, considerano lo spazio domestico un rifugio, un ambito privilegiato caratterizzato da fenomeni complessi: un luogo in cui ritrovare se stessi, aperto alla condivisione, a valori comuni e ai cambiamenti. Aprire un interno al divenire, tuttavia, non implica la rinuncia all’ordine e alla pianificazione o l’accettazione di precarietà e instabilità, piuttosto un approccio progettuale che non consideri gli utenti come «fruitori» ma come «abitanti», e assuma la temporaneità come una componente del programma progettuale. Il cambiamento del tipo di abitanti rispetto alle aspettative dei progettisti e al periodo in cui sono stati realizzati alcuni grandi complessi residenziali, ha pregiudicato in maniera sensibile l’adeguatezza di tali strutture e la loro capacità di far fronte a esigenze che non sono più quelle dei nuclei familiari per le quali sono state pensate. Oggi, inoltre, il sommarsi alle famiglie tradizionali di un numero crescente di situazioni di convivenza atipiche, un profondo mutamento dei codici sociali e la minor omogeneità culturale della


popolazione, hanno reso la questione ancora più evidente e scottante. È quando le ipotesi di comportamento risultano palesemente errate o la specializzazione delle parti risponde a un programma funzionale eccessivamente dettagliato e preordinato, che non lascia possibilità al libero arbitrio, che progetti grandiosi si rivelano fragili chimere, utopie. L’utopia è il luogo di incontro tra architettura e società6 ed è concretizzabile attraverso il progetto, come affermato da Ernst Bloch nel 1928, purché legata a motivazioni complesse dell’agire sociale. L’aspetto progettuale può inerire all’utopia, ma non può esaurirsi in essa, poiché deve essere necessariamente legato a forme di intesa e conseguenti azioni comuni. Il carattere di possibilità che sottende, infine, lascia sempre aperto l’esito finale e ammette che entrino in gioco processi di mutamento in cui quanto è ormai stato accettato possa subire delle variazioni. Sebbene la parola utopia significhi «luogo che non esiste» (dal greco οὐ «non» e τόπος «luogo»), la sua natura sperimentale 6. L’utopia ha interessato va distinta da quella statica e ripetitiva delle importanti sperimentazioni sull’abitare, in particolare negli scienze, riferendosi a qualcosa di veramente anni Sessanta del Novecento. Tra nuovo, che non è detto debba o possa essere le tante si ricordano le ricerche dei Metabolisti in Giappone, ripetuto nello spazio e nel tempo7. del gruppo Archigram in Gran I prototipi di housing sociale analizzati a seguire, Bretagna e del collettivo HausRucker-Co in Germania. fondati su ipotetici modelli di convivenza, hanno 7. Cfr. E. Bloch, Geist der Utopie, portato nel corso del Novecento alla costruzione di Duncker & Humblot, Monaco 1918, trad. it. Lo spirito dell’utopia, immense architetture rivelatesi disastrose in termini a cura di F. Coppellotti, Rizzoli, Milano 2009. di ghettizzazione e sviluppo di criminalità. Enormi 8. Si pensi, a titolo di esempio, a complessi standardizzati, basati su una visione complessi balzati alle cronache come il Pruitt-Igoe a Saint Louis, idealizzata della comunità e concentrati ad assolvere le «Vele» a Secondigliano (Napoli) bisogni di massa, a discapito di esigenze più individuali8. o al quartiere Cabrini-Green a

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Chicago, eretto tra il 1942 e il 1962, diventato simbolo estremo di degrado e marginalità e la cui demolizione è stata completata nel 2011. 9. E. Sottsass, «Per un Bauhaus immaginista, contro un Bauhaus immaginario», in Id. Per qualcuno può essere lo spazio, Adelphi, Milano 2017, p. 174. 10. La Chimera è anche il titolo del documentario prodotto da Gianluca Arcopinto sulle «Vele» di Scampia, realizzato, tra gli altri, da Elio Di Pace, che si è occupato del reportage fotografico del presente volume. W. De Majo, G. Dota, E. Di Pace, M. Pedicini, La chimera: Appunti per un film sulle Vele di Scampia, Italia 2017.

L’utopia di una purezza intellettualistica, di una idealità superiore dello spazio matematico, di una realtà disinfettata fino ad uccidere ogni insetto, ogni germe, ogni muffa vitale, mostra la sua crisi e il suo fallimento proprio nel momento del suo massimo successo mondiale ed ufficiale, perché un successo ufficiale non può essere tributato altro che a forme di restrizione umana, né mai governi e ministeri e organizzatori statali o parastatali hanno accettato di servirsi di forme vitali e reali9.

Interessante è, a tal proposito, precisare anche il significato del termine chimera, più volte utilizzato per descrivere questo tipo di edifici10.


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La chimera non è solo un mostro mitologico vomitante fiamme, con il muso di leone, il corpo di capra e la coda di drago, ma un organismo – come spiega la biologia – i cui tessuti derivano da linee geneticamente differenti, originati in seguito a fenomeni spontanei o indotti sperimentalmente. Le architetture analizzate in questo scritto non sono, quindi, considerabili chimere per la loro «mostruosità», lo diventano semmai perché fondate su un’idea di condivisione e uguaglianza non verificata, in quanto abitabili solo in seguito ad interventi di «addomesticamento» spontanei, spesso anarchici e individuali. Sono monumenti inumani e alienanti, che non favoriscono la nascita di reti di relazioni interne all’abitazione e comunitarie e gettano un’ombra fatale sulla serenità dei loro abitanti, tradendo insieme le loro aspettative e quelle degli autori. Riprendendo il motto di Banksy, si potrebbe dire che «The lifestyle they expected is currently out of stock». La mancanza di un senso di protezione, in particolare, genera paura e favorisce l’illegalità. Ciò è lampante in alcuni dei grandi fabbricati studiati, dove i tragitti sono preordinati ed è negata la possibilità di esercitare un controllo visivo sugli spazi collettivi, che si riducono a lunghi percorsi lineari. L’entrare in possesso o l’occupare un’abitazione comporta l’accettazione di condizioni d’uso e regole di coesistenza collettiva in cui appare sempre chiaro quali siano i divieti, ma non cosa sia lecito fare, tanto da scoraggiare una vita comunitaria autentica e il reale sfruttamento degli spazi comuni. Compromessi da regolamenti di coabitazione, taciti o scritti, che ne limitano l’impiego, anziché favorire nuove possibilità di incontro e fraternizzazione, i collegamenti sono utilizzati come meri luoghi di transito, da percorrere nel più breve tempo possibile. Lo spazio della soglia degli appartamenti acquisisce, così, un valore chiave: pur rappresentando l’unico punto di contatto tra la vita privata e quella collettiva, non si qualifica come un territorio di condivisione, ma rappresenta il luogo dell’affermazione dell’individuo. La dislocazione delle finestrature principali sul lato opposto o l’oscuramento degli affacci rivolti verso i corridoi per esigenze di privacy, talvolta associate a una carenza di servizi interni o di quartiere, vanificano il paragone con le arterie cittadine, affollate di gente e pervase da un’atmosfera vitale. Gli incessanti e rapidi cambiamenti tecnologici e sociali che caratterizzano la modernità influiscono in modo radicale sugli stili di vita delle persone e richiedono un continuo ripensamento dei modi di abitare. Ai progettisti viene così richiesto di predisporre modelli


residenziali aggiornati, in grado di infondere agli abitanti un senso di sicurezza e favorire, per riprendere le parole di Le Corbusier, uno «sviluppo organico dell’esistenza»11. Il Movimento Moderno ha tentato di riscattare l’essere contemporaneo dall’alienazione del momento e, per farlo, ha prodotto per lungo tempo opere progettate sui concetti di «libertà» e «identità»: «“libertà” quale affrancamento dai sistemi assolutistici dell’età barocca e dei suoi derivati, ossia come nuovo diritto alla scelta e alla partecipazione, e “identità” come un ritorno all’umano, all’originale, all’essenziale»12. L’edilizia pubblica, espressione sociale, culturale e politica della modernità, ha contribuito, nel tentativo di rendere gli uomini liberi e uguali, a un processo simmeliano di «differenziazione sociale»13. In Über Sociale Differenzierung (1890) George Simmel individua le condizioni moderne in grado di generare differenze tra singoli individui. Il singolo, sempre più inserito in cerchie sociali sovrapposte, acquista una sua individualità tanto più è grande il gruppo a cui appartiene. La ricerca dell’uguaglianza, tipica della modernità, ha acuito la necessità di distinzione e isolamento. Se da un lato l’esigenza di appoggiarsi ad un gruppo diviene sempre più pressante, dall’altro prende piede l’etica individualistica, l’importanza di poter esprimere e affermare la propria singolarità. La costante spinta alla crescita che caratterizza l’economia capitalista e la progressiva concentrazione di potere e risorse nelle mani di ceti sempre meno interessati a vivere una socialità aperta, non hanno fatto che acuire questo fenomeno, aumentando disuguaglianze ed emarginazione. La società moderna, quindi, propende per forme di differenziazione attraverso le quali il singolo può riscattare la sua autonomia, così come descritto in maniera esemplare e apocalittica nel romanzo di James G. Ballard High Rise. Lontano dalla City londinese, un elegante condominio di circa quaranta piani, dotato di mille appartamenti e numerose aree collettive – piscine, scuola materna, supermercati, banca, parrucchiere – ospita circa duemila abitanti.

11. Le Corbusier, Vers une architecture, Éditions Crès, Parigi 1923, trad. it. Verso una architettura, Longanesi, Milano 1998, p. 6. 12. C. Norberg-Schultz, Genius Loci: Towards a Phenomenology of Architecture, Rizzoli, New York 1980, trad. it. Genius Loci: Paesaggio ambiente architettura, Electa, Milano 2003, p. 192. 13. Cfr. G. Simmel, Über Sociale Differenzierung, Duncker & Humblot, Leipzig 1890, trad. it. La differenziazione sociale, a cura di B. Accarino, Laterza, Roma-Bari 2008.

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Grazie alla sua efficienza, il condominio si assumeva il compito di mantenere la struttura sociale su cui si basava la vita dei suoi abitanti: per la prima volta, annullava in ognuno il bisogno di reprimere qualunque espressione di comportamento antisociale e li lasciava liberi di manifestare tutti gli impulsi devianti o ribelli, che stavano già


Istan «FOTO DAL FINESTRINO»

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E. Sottsass, Foto dal finestrino, Adelphi, Milano 2009.


Cinquantasette scatti raccontano un viaggio cominciato idealmente un anno fa, ad agosto, con la conoscenza di Elio Di Pace, impegnato nelle riprese di La Chimera, film documentario sulle «Vele» di Scampia. Osservavamo le sue foto da tempo, perché capaci di catturare l’intimità del quotidiano, sempre, anche quando il senso di abbandono, la decadenza e la mancanza di domesticità risultavano evidenti. In quei giorni abbiamo appreso che i Robin Hood Gardens sarebbero stati demoliti di lì a poco. Abbiamo quindi pensato di coinvolgere Elio nel progetto, certe che i suoi scatti – «molecole di intimità» – potessero raccontare l’anima e il carattere di queste architetture e di chi le abita. Elio ha prestato a questo lavoro i suoi occhi, trasformando in immagini i pensieri, le emozioni e le riflessioni emerse durante le incursioni – talvolta non autorizzate – effettuate nei mesi successivi. 1. E. Sottsass, Foto dal finestrino, Il riferimento nel titolo al libro di Ettore Sottsass non è cit., p. 63. 2. Cfr. Ivi., p. 53. casuale. Come in Foto dal finestrino, abbiamo raccolto memorie di esperienze vissute, immagini e appunti in grado di cogliere la realtà di questi luoghi e amplificarla. Ombre, muri, stanze, ambienti disabitati, oggetti, arredi, persone, convivono in un racconto che parla dell’abitare, in risposta alla provocazione lanciata da Sottsass sulle pagine del suo libro: «non sarebbe bello se anche gli “architetti” avessero qualche sapienza profonda su quello che c’è di vago, nascosto, consolante, prezioso sul pianeta, su quello che si muove e vive per donarlo a noi che navighiamo sul mare lontano della vita?»1. In queste pagine la ricerca cambia registro e si trasforma in un breviario di pensieri e sguardi in cui montagne di ambienti tutti uguali, trasformati dalla cura di chi poi li ha addomesticati, parlano di identità e interiorità. Tre opere iconiche, i Robin Hood Gardens a Londra, il Nuovo Corviale a Roma e le «Vele» a Scampia, vengono «desacralizzate» e offerte a chi legge in una chiave inedita. Un progetto nel progetto, un luogo dove, parafrasando Sottsass, tre amici, seduti per terra, raccontano, adagio, le storie della loro vita e osservano quella degli altri2.

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Robin Hood Gardens Woolmore Street, Londra E14 0HG 01-02 dicembre 2018 - - - - - - - La demolizione ha avuto inizio. Un blocco giace come una carcassa in lento dissolvimento, l’altro osserva il suo stesso destino, pieno di dignità, ma stanco di mostrarsi al mondo. Impossibile essere accolti al suo interno, altrettanto impossibile rinunciare a fargli visita, sebbene si abbia la sensazione di violarlo e di mancare di rispetto alla comunità che, silenziosa, vi abita ancora. I Robin Hood Gardens sono un cantiere. Percorrendo lo spazio verde centrale si ha l’impressione di osservare due rovesci della stessa medaglia: un lato, spoglio di gran parte degli elementi di tamponamento, fantasma di sé stesso, esprime il fallimento; l’altro, caratterizzato da un’infinita sequenza di vetri opacizzati dalla calda temperatura interna, è il simbolo di ciò che resiste. «Merry Christmas» recita l’insegna sulla porta di un appartamento al piano terra e ci ricorda, complice il grande freddo, che siamo quasi a Natale. Una delle due porte di accesso ai piani superiori si apre. Un inquilino, di origine araba, non bada a noi e dimentica di assicurarsi che sia chiusa. Luisa, che ci accompagna, sorseggiando il suo caffè dice: «questo è l’unico modo per entrare». L’etica, questa volta, è rimasta ferma alla soglia di quell’ingresso e l’esplorazione ha assunto i tratti di un viaggio emotivo e intimista.



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Nuovo Corviale Via Poggio Verde, 00148 Roma 20 gennaio 2018 - - - - - - - Il Nuovo Corviale è un muro infinito. Non si può misurare con lo sguardo, è tanto alto da non permettere di comprendere cosa ci possa essere oltre. Siamo arrivati in auto, in una giornata calda di gennaio, accompagnati da Giulia. Ha un contatto all’interno, Teresa, estetista di professione, da sempre residente qui. Reduci del sopralluogo ai Robin Hood Gardens, edificio di dimensioni contenute, percepiamo un forte senso di alienazione. Corviale è un blocco di cemento in cui le anonime bucature non lasciano intendere la presenza di residenti.


Varcata la soglia si ha la sensazione di essere in un film. La qualità della luce, la quantità di cemento, la mancanza di riferimenti visivi, la desolazione dei luoghi antistanti i sistemi di collegamento sono disarmanti. Raggiunti i ballatoi tutto cambia e la capacità dei residenti di personalizzare lo spazio provoca in noi stupore, meraviglia e allo stesso tempo un senso di profonda delusione nei confronti dell’architettura, inadeguata, in questo caso, alla vita delle persone. Ogni frammento dei lunghi corridoi, ogni portone, ogni parapetto, rappresenta, attraverso l’intervento spontaneo dei residenti, il fallimento di questo progetto. L’appropriazione degli spazi collettivi da parte di chi abita Corviale è la manifestazione concreta del bisogno di radicarsi che ogni individuo ha e sancisce l’importanza di identità e orientamento, caratteristiche psicologiche e cognitive necessarie. Dopo qualche ora incontriamo Teresa in corrispondenza di uno degli ingressi. Vive a Corviale dagli anni Ottanta, da quando era solo una bambina. Ci racconta delle sue paure, del senso di appartenenza che nutre oggi nei confronti di questo luogo, sebbene sia difficile da vivere. Ci racconta che le occorrono circa quindici minuti per raggiungere l’uscita da casa sua, che non esiste il buon vicinato e che è dura difendere i propri spazi. Ci racconta una storia fatta di odio e amore, in grado di trasformare l’immagine che avevamo di Corviale. Oggi, per noi, non è più un «serpentone» lungo un chilometro, ma è un luogo di resistenza. È la casa di Teresa.



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«Vele» Viale della Resistenza, 80145 Napoli 21 settembre 2017 - - - - - - - Per una napoletana le «Vele» di Scampia sono un ghetto, un luogo poco sicuro al quale è preferibile non avvicinarsi. Per una milanese sono un oggetto non identificato, decontestualizzato, troppo spesso assurto alla cronaca per episodi di criminalità. Per un regista salernitano sono tutto questo, sono il fascinoso set di Gomorra di Matteo Garrone e dell’omonima serie, ma soprattutto l’oggetto della lotta di Lorenzo e Omero, a cui è dedicato il film che sta girando. Grazie a Elio e ai suoi colleghi questo luogo ha preso il volto delle persone che lo abitano, ha l’odore del caffè o della pasta con le vongole cucinata durante una sera d’estate su un improvvisato tetto-giardino. Suona come le voci dei bambini che giocano al piano terra, ignari del degrado dell’intorno. Quello presso le «Vele» è stato un non-sopralluogo. Non essendo ancora riuscite a visitarne l’interno, ne abbiamo scoperto l’anima e gli abitanti grazie alle riprese e alle immagini. Abbiamo conosciuto Lorenzo e Omero un pomeriggio d’estate a piazza Municipio, mentre attendevano di essere ricevuti a Palazzo San Giacomo per prendere accordi in merito all’assegnazione delle abitazioni ai residenti, in vista della demolizione. Li abbiamo incontrati di nuovo a settembre nella sede del Comitato Vele. Loro non conoscono bene noi, ma noi sappiamo molto di loro e delle persone che abitano quel luogo.


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Arriviamo in motorino. L’inaugurazione di una mostra ci convince ad avvicinarci alla zona non accompagnate. Avevamo visto le Vele sempre da lontano, senza averne mai compreso realmente la misura. Percorrendo Viale della Resistenza percepiamo il degrado in cui versa questo angolo di città e siamo assalite da una forte sensazione di desolazione e timore.



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