Tradizione e modernità

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John McAndrew, Elizabeth Mock, What is Modern Architecture?, MoMA, New York, 1942.


Tradizione e modernità. Verso molte architetture Ugo Rossi

Questo volume approfondisce i temi discussi nella giornata di studio Tradizione e modernità. L’influenza dell’architettura ordinaria nel moderno, che si è svolta a Venezia il 21 maggio 2014 nella sede della Scuola di dottorato dell’Università Iuav di Venezia, scuola che ha promosso l’iniziativa e sostenuto questa pubblicazione. L’idea di raccogliere i saggi in un unico volume è nata dalla volontà di strutturare una riflessione sul rapporto controverso tra architettura ordinaria e modernità, tema centrale della giornata di studi, indagando la complessità delle relazioni che lo caratterizzano, non solo in riferimento al debito che gli architetti moderni hanno con l’architettura ordinaria ma soprattutto alle modalità con cui l’architettura ordinaria partecipa alla modernità. La ricostruzione storiografica dello sviluppo del moderno ha fatto emergere la ripetuta contestazione dei suoi principi fondativi. L’apologetica fiducia nell’illimitatezza del progresso industriale, nel definitivo annullamento degli stili del passato, superati dalla macchina, dalle nuove tecniche costruttive e dall’anonimato delle opere d’ingegneria, ha rivelato le posizioni controverse all’interno degli organi istituzionali e delle strutture organizzative che promuovono il moderno. Fin dal primo CIAM del 1928 le posizioni contraddittorie ne hanno evidenziato la natura pluralista e un primo cedimento della posizione di egemonia intellettuale affermata dalle dichiarazioni ufficiali dei gruppi di ricerca. La definizione degli standard promossa dai funzionalisti è messa in crisi fin dal suo apparire, mentre nuovi indirizzi vanno simultaneamente delineandosi in Spagna, Italia e Austria. In Italia, come in Spagna e Grecia e nella maggior parte dei paesi del bacino del Mediterraneo, gli architetti sono meno ansiosi di abbandonare il fare artigiano e le modalità operative della tradizione. In queste regioni, dove l’industrializzazione non


Giuseppe Pagano e Guarniero Daniel, Architettura rurale italiana, 1936.


Architetti senza architettura. Architettura popolare e rifondazione culturale* Alberto Ferlenga

I libri sull’architettura insolita, pubblicati da Bernard Rudofsky (1905-1988), hanno costituito, prima di ogni altra considerazione sui contenuti, un materiale di progetto per generazioni di architetti, un tesoro di riferimenti che ha nutrito progettisti di diverso orientamento1. Oltre a questo, sono stati una guida per la ricerca di luoghi straordinari e una denuncia rivolta al mondo su di un patrimonio che stava scomparendo. Dopo aver avuto un effetto deflagrante al tempo della mostra al MoMA (1964), il contributo dell’architetto austriaco, nel periodo di formazione della mia generazione, attorno agli anni Ottanta, si era inabissato, per uno di quei fenomeni di rimozione che hanno attraversato la storia del Novecento e che ha portato alla cancellazione di molte vie considerate anomale rispetto al panorama di presunte certezze che andava consolidandosi. Rudofsky, divulgatore di paesaggi reali, era difficilmente collocabile nei paesaggi artificiali delle tendenze architettoniche. Non poteva entrarci geneticamente, per la varietà dei suoi interessi, per il suo sguardo sostanzialmente a-storico, per la libertà un po’ anarchica che le sue raccolte esprimevano. La mostra di New York aveva portato una ventata di novità nel paesaggio stanco del post-razionalismo mondiale dimostrando l’esistenza di un mondo di differenze e incroci in cui le necessità funzionali e simboliche non producevano normalizzazione ma ricchezza formale, favorita, e non ostacolata, da regole, abitudini, tradizioni. D’altra parte, il suo sguardo aveva saputo guardare dentro l’architettura, cogliere l’incessante movimento che tiene in vita gli edifici e ne diffonde il modello nello spazio, le evoluzioni fertili e la decadenza delle convenzioni abitative, le eccezioni e, soprattutto, l’intreccio tra architettura e territori, climi, produzioni, simboli, che assicura ai luoghi una vitalità ben distante sia dal grigiore funzionalista che dalle maschere post-moderne. Insomma, pur dentro a contesti culturali e temporali diversi Rudofsky aveva fatto irrompere in acque che ricercavano la presenza consolatoria di uno stile, ancorché


1. New Baris. Mercato e municipio. Foto Viola Bertini.


Chiacchiere sul Nilo. Hassan Fathy e il linguaggio architettonico egiziano Viola Bertini

Chiacchiere sul Nilo1 è il titolo di un romanzo del premio Nobel per la letteratura Nagib Mahfuz. Si racconta di sei amici che, quotidianamente, si ritrovano lungo il fiume egiziano per discorrere delle loro vite. Vite fantastiche, inventate, mescolate alle gesta mitiche di re e sultani. È un’evasione dalla realtà. La storia narrata da Mahfuz ha un suo sviluppo, drammatico, ma il titolo diventa qui pretesto per raccontare di un altro gruppo di amici che, a partire dagli anni Quaranta, s’incontrano periodicamente ad El-Marg, un sobborgo del Cairo, per parlare di arte e di vita. È il circolo culturale Friends of Art and Life, fondato dal pittore e scultore Hamed Said insieme alla moglie, anch’essa artista, Eshan Khalil. Partecipano scrittori2, artigiani e, tra gli altri, gli architetti Hassan Fathy, Ramses Wissa Wassef e Moshen Barrada e gli artisti Rateb Sedik, Aida Abdel Karim e Mohy El Din Husseyn. Il pensiero del gruppo è raccolto in un libro3, la sola testimonianza rimasta del circolo. Una sorta di Manifesto postumo nel quale è esaltato il valore del lavoro artigianale, elevato al rango di opera d’arte, e nel quale si discute l’importanza, nella produzione artistica, del legame con il passato. Il libro si apre infatti con tre immagini: Antico Egitto, Egitto Cristiano, Egitto Musulmano, esemplificazione iconica di tre momenti fondanti della storia egiziana, coi quali il gruppo intende porsi in continuità. Sono poi illustrate le opere dei membri del circolo, ciascuno dei quali declina a proprio modo e nel proprio campo del sapere una filosofia sostanzialmente condivisa. Compaiono foto di architetture, dipinti che costituiscono un esplicito rimando alle pitture di età faraonica, ma anche moltissimi oggetti di uso quotidiano. Ciò che si ricerca è una possibile identità nazionale, epurata dall’egemonia del pensiero occidentale, preponderante nell’Egitto di inizio secolo. Sede del circolo è la casa-studio di Hamed Said, progettata dall’architetto egiziano


Bernard Rudofsky, Architecture Without Architects. Catalogo della mostra al MoMA di New York del 1964 e le edizioni Architettura senza architetti, SocietĂ Editoriale Napoletana, Napoli 1977; Arquitectura sin architectos, Eudeba, Buenos Aires 1977; Architecture Without Architects, New Mexico Press, Albuquerque 1987.


Bernard Rudofsky: panorami differenti. Cinquant’anni di Architettura senza architetti Ugo Rossi

La mostra Architecture Without Architects (AWA)1 è un riferimento esemplare per indagare le trasformazioni del rapporto tra modernità e vernacolo operate negli ultimi cinquanta anni. AWA ha segnato nella storia della cultura architettonica il passaggio a un diverso approccio e a un nuovo interesse da parte degli storici, dei critici e degli architetti verso un’architettura che Bernard Rudofsky ha definito non-pedigreed. Il conflitto ideologico tra modernità e tradizione origina nello scontro per l’individuazione delle radici della modernità stessa, nelle sue diverse e controverse manifestazioni. Il dibattito è tra meccanizzazione e suo rifiuto, tra architettura del ferro-vetro-cemento e tradizione, tra internazionale e regionale. AWA è un momento cruciale nel dibattito della modernità, tutt’altro che nostalgica o antimoderna, evidenzia le contraddizioni che emergono nel voler delineare una marcata separazione tra posizioni opposte. Operando una lettura trasversale e unitaria, Bernard Rudofsky esprime un punto di vista che individua nell’architettura di tutte le culture, e soprattutto in tutte le architetture, la sostanziale aspirazione dell’uomo all’abitare. Un caso emblematico, non tanto quindi dello scontro tra posizioni divergenti, che ancora oggi persiste, ma piuttosto nell’esprimere la necessità e affermare l’importanza di apprendere dalla molteplicità e dalle diversità, per evitare la stagnazione culturale. Nel 1969 John Maas, critico e storico dell’architettura, scrive l’articolo, Where Architectural Historians Fear to Tread2, in cui analizza gli interessi e gli studi contenuti nel Journal of the Society of Architectural Historians (JSAH). L’analisi si basa sugli scritti pubblicati nella rivista dal 1958 al 1967. Nei 40 numeri pubblicati Maas conta 461 contributi, di cui 450 riguardanti l’architettura occidentale e 11 l’architettura non


1. Arthur Drexler, The Architecture of the Ecole Des Beaux-Arts, MoMA, NY, 1977.


De vulgari eloquentia Manuel Orazi

«Chi ha deciso di abbandonare il movimento moderno può scegliere tra Versailles e Las Vegas» Bruno Zevi Nel 1965, in un articolo pubblicato sul periodico Landscape, Reyner Banham si lamentava del fatto che dalla mostra che aveva appena aperto in quell’anno presso il Museum of Modern Art di New York, Modern Architecture in USA, avesse escluso completamente esempi di architettura vernacolare americana ormai invasivi che così elencava: «motels, supermarkets, bowling alleys, filling stations, hamburger stands1». Il direttore (oggi si chiamerebbe curator) del settore architettura e design del MoMA succeduto a Philip Johnson dal 1956, Arthur Drexler, aveva risposto a questa obiezione dicendo che certo, erano episodi culturalmente rilevanti ma che non li avrebbe comunque esposti perché il museo aveva sempre dato spazio all’alta qualità nella progettazione. Drexler tracciava dunque un solco enorme fra architettura alta e bassa cioè Kitsch e volgare, propria del volgo, dei ceti inferiori insomma – non a caso curò la prima mostra sulle Beaux Arts (Fig. 1), da sempre il luogo di formazione degli architetti americani d’élite. Contrapposizione più netta non si poteva immaginare con Banham, uno dei membri dell’Independent Group inglese che da circa un decennio aveva avviato la revisione e rivalutazione di tutti gli aspetti più popolari della cultura, dai rotocalchi, alle tecnologie quotidiane, agli oggetti e a tutte le manifestazioni della vita urbana di ogni giorno. Accanto a Banham com’è noto c’erano architetti come Alison e Peter Smithson che parallelamente erano alla testa dei giovani contestatori del Team X, fotografi che ritraevano per lo più scene di vita di strada come Nigel Henderson, scultori come Eduardo


1. Cartolina postale del Club Méditerranée di Cefalù, aperto nel 1951 e chiuso nel 2005.


I villaggi turistici. Tra Movimento Moderno e architettura vernacolare Pisana Posocco

Introduzione Il villaggio turistico è un posto da sogno, è l’invenzione di una favola in cui vivere, anche se per un tempo limitato. In tal senso la costruzione di un villaggio di vacanza è un’opera di scenografia. Il linguaggio architettonico che si sceglie per un villaggio turistico è legato al carattere che gli si vuole attribuire, allo stile di vita che si vuole mettere in scena. Sono luoghi dove immergersi per un po’ in una vita desiderata, o luoghi dove vivere un tempo diverso dal presente. Foucault, che scrisse un famoso saggio sulle eterotopie1, aggiunse all’elenco anche i luoghi della vacanza, che chiamerà eterocronie, ovvero luoghi che consentono un uso diverso ed eccezionale del tempo: «altro esempio sono i villaggi turistici che offrono ai loro ospiti solo poche settimane di nudità primitiva2». L’architettura turistica: luogo di sperimentazione del Moderno Le strutture turistiche sono state un campo di sperimentazione e verifica dell’architettura moderna, un’occasione molto importante la cui fortuna si deve a due fattori. Innanzitutto nel passaggio dalla dimensione teorica alla pratica professionale l’architettura moderna aveva registrato una certa resistenza. Per un normale committente era infatti più facile abbracciare un linguaggio e delle scelte convenzionali, soprattutto quando si trattava della realizzazione della casa in cui vivere ed in cui riconoscersi. Rispetto all’ambiente cittadino dove si svolge la seria vita di tutti i giorni, il mondo turistico appariva più disponibile ad incursioni del Moderno. Meno erano le resistenze dei committenti e maggiore la disponibilità, e la curiosità, verso nuove forme architettoniche da parte dei fruitori. In secondo luogo bisogna ricordare che l’architettura per la vacanza era da sempre



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