22 Collana Alleli / Research Comitato scientifico Edoardo Dotto (ICAR 17, Siracusa) Nicola Flora (ICAR 16, Napoli) Antonella Greco (ICAR 18, Roma) Bruno Messina (ICAR 14, Siracusa) Stefano Munarin (ICAR 21, Venezia) Giorgio Peghin (ICAR 14, Cagliari) I volumi pubblicati in questa collana vengono sottoposti a procedura di peer-review
ISBN 978-88-6242-300-7 Prima edizione Marzo 2018 © LetteraVentidue Edizioni © Barbara Angi È vietata la riproduzione, anche parziale, effettuata con qualsiasi mezzo, compresa la fotocopia, anche ad uso interno o didattico. Per la legge italiana la fotocopia è lecita solo per uso personale purché non danneggi l’autore. Quindi ogni fotocopia che eviti l’acquisto di un libro è illecita e minaccia la sopravvivenza di un modo di trasmettere la conoscenza. Chi fotocopia un libro, chi mette a disposizione i mezzi per fotocopiare, chi comunque favorisce questa pratica commette un furto e opera ai danni della cultura. Le immagini in questo libro rispondono alla pratica del «fair use» (Copyright Act 17 U.S.C. 107) essendo finalizzate al commento storico critico e all'insegnamento. Nel caso in cui fosse stato commesso qualche errore o omissione riguardo ai copyrights delle illustrazioni saremo lieti di correggerlo nella prossima ristampa. Book design: Barbara Angi, Francesco Trovato LetteraVentidue Edizioni Srl Corso Umberto I, 106 96100 Siracusa, Italy Web: www.letteraventidue.com Facebook: LetteraVentidue Edizioni Twitter: @letteraventidue Instagram: letteraventidue_edizioni
INDICE
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Ricomposizioni
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Cortocircuiti disciplinari
39
Parallelismi e analogie
49
Il Cuore della cittĂ : interni urbani adattabili e responsivi
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Verso la Carte de l’Habitat. Griglie evolutive
93
Chiarezza labirintica
115
Utopia del possibile
143
UtilitĂ prospettiche
160
Crediti fotografici
Lynda Lowe & Joseph Heithaus, Kintsugi, 2014
Ricomposizioni L’ho ripetuto tante volte, ma lo ripeterò sempre, sino alla morte, non dimenticherò mai quelle macerie. Esse, nel cuore della città, procuravano ai fiorentini una reazione tanto dolorosa e violenta che pareva dovesse distruggere anche le loro ossa. Una reazione quasi assurda. Le donne urlavano. Non perché sotto le macerie avesse perso la vita qualche loro parente o qualche amico, urlavano contro le macerie stesse. [...] il futuro incuteva loro paura; la paura di dover essere diversi da quel che erano stati fino allo scoppio delle mine. [...] Questo stato d’animo non consentì loro di valutare i suggerimenti che venivano dalle macerie; suggerimenti per una città rinnovata nel fisico e nello spirito. Era questa l’occasione che la guerra, come unica consolazione, avrebbe offerto in cambio di tante distruzioni [...]. La vera architettura andava per me ricercata in quelle macerie. Nulla poteva essere ricostruito come prima, ma le macerie stesse suggerivano infinite possibilità, nuovi modi di vivere e vedere gli spazi, la storia come momento drammatico e irripetibile e come presenza, nello stesso luogo di tante epoche diverse.*
* Giovanni Michelucci, Felicità dell’architetto, Firenze, 1949
A
lla cultura dell’espansione edilizia e delle demolizioni di comparti obsoleti della città contemporanea, si contrappone oggi un ripensamento sul grado di resilienza dell’ambiente costruito, in cui i protocolli rigenerativi multi-scalari e multi-disciplinari occupano un posto di primo piano per l’innesco di processi circolari di sviluppo. L’innovazione tecnologica in campo edilizio è attualmente orientata prevalentemente, ma non solo, all’efficienza energetica e alla domotica dei manufatti e di ampie porzioni urbane attraverso un rinnovato rapporto tra Architettura e Tecnica. La riscoperta degli imprescindibili valori della Costruzione (la lingua madre dell’Architettura per Auguste Perret) con accezioni e conoscenze ampliate rispetto al passato può (e deve) sperabilmente aumentare il grado di resilienza dell’ambiente costruito attraverso comportamenti adattivi e responsivi degli edifici, delle reti infrastrutturali e degli spazi aperti1. Molteplici sono le discipline oggi coinvolte nelle operazioni di “ricomposizione urbana” e non solo quelle ancillari o vicine all’architettura – ché di architettura si intende parlare – come l’urbanistica, l’ingegneria, la tecnologia, la fisica tecnica, il disegno industriale, ecc. Le forze in gioco aprono necessariamente nuovi orizzonti disciplinari coinvolgendo le scienze sociali, l’economia, l’antropologia – e finanche la filosofia e l’arte – utili per comprendere la città contemporanea e le nuove domande di spazi da abitare. I gradi di complessità sono legati ai fenomeni di gentrificazione e glocalizzazione estremamente più articolati rispetto al passato. Le cosiddette “scienze morbide” forniscono agli architetti gli strumenti sia per meglio comprendere i bisogni, i desideri, le paure e gli ideali di vita dei destinatari dei progetti, sia per ancorare meglio questi ultimi alla realtà contingente e alle sue problematiche2. Il rapporto tra l’architettura e i saperi sopraccitati è peraltro sempre esistito, poiché ogni progetto e ogni teoria che si riferiscono a essa, non si formano in seno solo 8
Ricomposizioni architettoniche
allo specifico ambito disciplinare, ma si depositano nel solco tracciato dalla visione del mondo che una determinata società, o parte di essa, ha in un preciso momento storico3. Uno spunto di riflessione atto a alimentare l’attuale dibattito sul ruolo dell’architettura per la costruzione di habitat resilienti giunge dall’economista e filosofo francese Serge Latouche attraverso la “teoria della decrescita”. Una sorta di filosofia, di critica all’ideologia del produttivismo e del consumismo che si pone l’obiettivo di evidenziare gli errori e le falsità del sistema economico vigente e propone un’alternativa concreta di sviluppo. Secondo Latouche, il neoliberismo e la globalizzazione sono i fenomeni che caratterizzano la società attuale, una società della crescita che ha fondato i suoi presupposti nel ciclo produzione-consumo. Se il primo ha consentito di pensare le risorse umane e naturali come merci di scambio, valori d’uso quantificabili, estendendo la dimensione economica a ogni ambito del vivere umano, favorito dal costante utilizzo di tecniche sempre più sofisticate, la seconda ha unito l’intero cosmo mutandolo in un grande mercato globale4. Crescere per continuare a crescere, progredire economicamente e tecnicamente affinché aumenti la ricchezza, ecco lo scopo finale del paradigma economico oggi: la crescita fine a se stessa5. Questa prospettiva è tuttavia messa in discussione nel momento in cui la società della crescita smette di crescere. Latouche afferma inoltre che la contrazione finanziaria è solamente un aspetto della situazione critica in cui versa la collettività contemporanea. Strettamente legata alla sfera economica, anche la dimensione politica si è trasformata, uniformando gli obiettivi comuni globali, cancellando le eterogeneità e il “pluriversalismo”. Ne consegue un livellamento culturale che prevede la dominazione dello stereotipo occidentale e l’annientamento delle culture altre: la crisi culturale corrisponde alla perdita di senso, non riconoscendo più il diverso, dato che non si è Ricomposizioni
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Francesco Camillo Giorgino [Millo], Dream, Pescara, 2017
Cortocircuiti disciplinari Le cittĂ sono per la gente, non per il profitto.*
* Nuova Agenda Urbana, Habitat III, Quito, 2016
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I
l termine habitat 1, in biologia, indica il luogo le cui caratteristiche fisiche e abiotiche possono permettere a una data specie di vivere, svilupparsi, riprodursi, garantendo una qualità di vita che può diminuire o aumentare in funzione dei cambiamenti climatici e/o demografici. È essenzialmente l’ambiente che circonda la popolazione di una determinata specie. Inoltre habitat e habitus hanno la stessa radice etimologica riscontrabile anche in abitare, avere abitudini, indossare certi abiti. Abito infatti significa aspetto, forma del corpo, atteggiamento, disposizione, carattere, maniera di vestire. Ne consegue che abitare vuol dire assumere consuetudini e abitare un certo luogo (un habitat appunto) comporta la produzione di beni peculiari o l’adozione di comportamenti specifici. Le abitudini si generano dalle interazioni dell’uomo con l’ambiente che lo circonda, grazie alle quali è possibile abitare il mondo. Si innesca così uno stretto legame tra luoghi, corpi e costumi la cui intersezione dà vita all’identità stessa. Le metropoli contemporanee, secondo le stime più aggiornate, rappresentano il luogo prescelto dall’uomo per abitare. Le città infatti ospitano oltre metà dell’umanità, producono il 70% del PIL globale e sono responsabili del 70% delle emissioni di gas serra e, ciononostante, continuano a espandersi. Alla fine del 2016, 70 milioni di persone si sono spostate in aree urbanizzate. Entro il 2030, sono stimate 41 megalopoli da 10 milioni di abitanti o più, contro le attuali 28. Entro il 2050, l’homo civicus – sperabilmente2 – avrà superato i 6 miliardi di persone, due terzi dell’umanità, e genererà oltre 2 miliardi di tonnellate di rifiuti l’anno3. Come dimostrano le indagini e le ricerche nazionali e internazionali ora in atto, è indispensabile incentivare politiche di sviluppo volte ad accrescere il benessere e la sopravvivenza del complesso habitat urbano di cui sono evidenti i limiti e i deficit strutturali, operando con strategie volte a rendere le città più 28
Ricomposizioni architettoniche
dense, compatte, energeticamente ed eticamente responsabili. È doveroso, sostanzialmente, considerare l’ambiente costruito, data l’impossibilità di operare con operazioni edilizie a tabula rasa, come materiale del progetto pronto a essere modificato e aggiornato secondo innovativi modelli di trasformazione volti alla sua adattabilità e responsività4, aumentandone così i gradi di resilienza. Di fatto quest’ultima non è di per sé né un bene né un male per lo sviluppo urbano. Nella prospettiva resilience thinking5 la resilienza è definibile come il grado di conservazione delle città durante i processi evolutivi; ossia è la misura delle potenzialità trasformative che possono scaturire attraverso l’interazione tra il sistema sociale e quello ecologico, componenti essenziali di ogni habitat urbano. Questo porta a concettualizzare la resilienza come una modalità di comportamento di insiemi complessi in cui la stabilità e l’equilibrio sono dati dalle relazioni di azione, e reazione, fra gli elementi che li compongono6. In quest’ottica il progetto di rigenerazione architettonica e urbana può rappresentare una trasformazione intenzionale che porta la città, e il suo edificato, verso un diverso dominio di stabilità, evitandone il collasso grazie alla costruzione di uno stato di equilibrio qualitativamente diverso. Agisce, sostanzialmente, quando la capacità adattiva del sistema è esaurita, e/o collassata, e può costruire un nuovo insieme bilanciato. Il progetto (e in particolare il progetto architettonico e urbano) interviene nelle fasi critiche del ciclo di trasformazione/ adattamento dell’habitat urbano e, alla luce del resilience thinking, ha l’obiettivo di costruire un nuovo stato di equilibrio capace di scongiurare una nuova necessità di mutazione. Il concetto di resilienza così descritto supera la volontà di mantenere le tracce del passato e recuperare gli aspetti andati perduti, e proietta l’ambiente costruito verso un’innovativa concezione di metamorfosi, grazie a meccanismi progettuali adattivi e responsivi, capaci di generare inediti equilibri sociali, ecologici, economici, funzionali. Cortocircuiti disciplinari
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Accademia di Belle Arti, Rambla Papireto, Quartiere Danisinni, Palermo, 2017
Il Cuore della città: interni urbani adattabili e responsivi Ogni giorno scopriamo che le uniche cose che esistono sono le relazioni, e forse si può anche dire che lo scopo della vita è quello di diventare consapevoli dei principii fondamentali di una vita completa di relazioni. Mi sembra che sia questa la ragione per cui, quando ci occupiamo di concetti spaziali in architettura e in urbanistica, così spesso parliamo di continuità dello spazio. Per noi dei CIAM le relazioni tra le cose e l’interno di esse sono più importanti delle cose stesse. Possiamo esprimere questa nostra consapevolezza delle relazioni e possiamo anche predire come esse si svilupperanno. […] Dal punto di vista artistico abbiamo cercato di immaginare e sviluppare la possibilità di un rapporto tra le persone dando al Cuore una chiara continuità spaziale in senso tridimensionale.*
* Jacob Berend Bakema, Rapporti tra uomini e cose, 1954
I
temi della collettività e della comunità sono i protagonisti dell’VIII Congresso CIAM organizzato dal MARS Group1 e tenuto a Hoddesdon nel 1951 dal titolo Il Cuore della Città. Come ricorda Vittorio Gregotti, presente al simposio tra i giovani architetti, il tema propone una delle questioni «che si dimostrerà centrale per i quarant’anni successivi: il problema dell’ascolto del contesto, del progetto come dialogo con esso in quanto forma depositata della storia del luogo specifico2». Il cuore della città, inoltre, tra gli altri significati e interpretazioni, diviene il momento germinale per una critica dall’interno del Movimento Moderno riguardante l’importanza della storia3 e la relazione con il contesto: dal relazionismo di Enzo Paci all’esistenzialismo di Jean Paul Sartre4. Come sottolinea il filosofo italiano5, se concepiamo il cuore della città come un momento focale della relazione tra individui, la sua problematica si lascia inserire in un mondo molto interessante in una prospettiva filosofica di tipo relazionistico, sia che la relazione venga intesa in senso sociale sia che si intenda come relazione tra civiltà e natura o tra uomo e cose. Certamente, da questo punto di vista, il contributo di Jacob Berend Bakema allo VIII CIAM è di decisiva importanza. L’architetto olandese insiste sul valore relazionale del cuore: un cuore può essere anche un cimitero, «un luogo in cui la separazione tra la vita e la morte si è trasformata in un meraviglioso legame6». «Vi sono momenti della vita – continua Bakema – in cui sparisce la separazione tra l’uomo e le cose: in questi momenti scopriamo il miracolo della relazione.» E aggiunge: «Lo sviluppo della scienza ha dimostrato che le cose che vediamo in natura e nell’arte non sono in realtà quelle che vediamo. Ogni giorno scopriamo che le uniche cose che esistono sono le relazioni, e forse si può anche dire che lo scopo della vita è quello di diventare consapevoli dei principi fondamentali di una vita completa di relazioni7». L’architetto olandese, all’interno del numero 7 della rivista 50
Ricomposizioni architettoniche
“Forum”8 (1959) dal titolo Il racconto di un altro pensiero9 affronta il tema del cuore, inteso come il quinto elemento mancante nella Carta d’Atene, da aggiungere a abitare, lavorare, curare il corpo e la mente, spostarsi. Il cuore è l’elemento che «fa di una comunità una comunità e non una mera aggregazione di individui10». L’immagine che accompagna il testo è una planimetria dell’agorà di Priene che rappresenta lo spazio pubblico per eccellenza, espressione tangibile della vita sociale: «l’agorà non è altro che uno spazio aperto – una piazza – costruita da elementi standardizzati, con colonne, portici e trabeazioni. Sociologicamente è interessante poiché non ci sono edifici [...] l’agorà è pura.»11 Il tema del cuore trova, inoltre, una declinazione nel concetto di unità minima complessa sviluppato da Bakena in collaborazione con Van den Broek, in particolare negli interni urbani: spazio aperto centrale in cui avviene la relazione tra individuale e collettivo. Il tema delle relazioni umane, dello scambio tra gli abitanti è infatti necessario a garantire la vita sociale: i quattro punti della Carta d’Atene corrispondono a delle azioni, mentre il concetto di cuore descrive già una condizione spaziale. I punti fanno inoltre riferimento alla singola persona mentre il cuore è l’elemento che le mette in relazione, vicino a una possibile idea di vicinato: «l’essenza del cuore è che è un punto d’incontro, dove darsi appuntamento12». In occasione dell’VIII CIAM gli architetti olandesi presentano la seconda versione del piano Pendrecht13dove nel concetto di “unità minima complessa” permane il movimento centrifugo, ma le unità sono più piccole e ravvicinate, generando un tessuto più compatto. L’unità minima complessa rappresenta per Bakema l’atto progettuale che risponde all’obiettivo primario del fare architettura: «siccome l’architettura si interessa della formazione dello spazio, il suo significato può essere solo quello di aiutare l’uomo a trovare una buona comprensione (relazione) con lo spazio infinito (totale) in cui vive.»14 Il Cuore della città
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Bakema & Van Den Broek, UnitĂ minima complessa per il quartiere Klein Driene, Hengelo, NL, 1956
La collaborazione di Jacob Berend Bakema con Johannes Hendrik Van den Broek dà vita a uno studio che si occupa di architettura-urbanistica, nome assegnato nel corso degli anni dallo stesso Bakema, superando così una mera distinzione disciplinare e interpretando il progetto come un processo totale. L’unità minima complessa diviene quindi la particella urbana con cui costruire − e ricostruire − città, la cui misura non si distanzia di molto rispetto a quella dell’isolato urbano sperimentato da Berlage nel piano di Amsterdam sud di 150 x 50 metri circa. L’unità è intesa inoltre come un “gruppo visivo”, un luogo dal quale è possibile entrare in contatto con diversi modi di abitare, con lo spazio aperto e con le altre unità. L’interno e l’esterno sono concepiti insieme, originando uno spazio totale dove ogni parte influenza l’altra. Per Bakema è necessario costruire un’urbanità che, necessariamente, deve essere composta da un insieme di figure dell’abitare differenti, così come avviene nella città storica, che forniscano insieme alla rete degli spazi aperti, degli stimoli ogni volta differenti. Nell’unità la compresenza di abitazioni con giardini al piano terra e alloggi agli ultimi piani permette infatti ai futuri abitanti di scegliere dove e come vivere, favorendo così la relazione tra modi di vita e strati sociali differenti. Tale aspetto, definibile anche con il termine mixité, è oggi riconosciuto come condizione necessaria per favorire l’incontro tra classi sociali e modi di vita differenti, sia alla scala delle città a quella del singolo edificio. In questo senso i quartieri di Bakema e Van den Broek, come i sobborghi residenziali Klein Driene a Hengelo (1950 - 1956) e T’Hool a Eindhoven (1962 – 1972) forniscono esempi eccellenti. Nel primo caso l’unità è di forma quadrata, con un ampio interno urbano adibito a giardino collettivo. L’elemento base è ripetuto tre volte e in seguito specchiato, generando un asse alberato centrale che diviene il collegamento tra due parti di città. I volumi edilizi, suddivisi tra case a schiera ed edifici in linea, Il Cuore della città
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Bakema & Van Den Broek, UnitĂ minima complessa nel quartiere Klein Driene, Hengelo, NL, 1956
Bakema & Van Den Broek, Unità minima complessa per il quartiere T’Hool, Eindhoven, NL, 1962
hanno altezze tra i due e i quattro piani. Il tessuto urbano è coerente con quello esistente di Hengelo. Intervenendo su un’area un tempo agricola il progetto interpreta l’unità come una nuova misura, costituendo una traccia anche per la città a venire. Il progetto che raggiunge una grande complessità è il secondo, il quartiere residenziale di T’Hool, localizzato nella parte nord di Eindhoven. Riprendendo lo schema per un quartiere non realizzato, Wulfen, in cui tre unità minime composte di edifici bassi sono delimitate da un perimetro di edificato alto che raccoglie tutto l’intervento, in T’Hool lo schema è sviluppato e successivamente specchiato portando alla generazione di una spina centrale alberata connessa con una grande area commerciale a sud. Gli edifici alti sono collocati nella parte nord a ridosso di una strada a alto scorrimento, costituendo così un limite visibile da tutto il quartiere; come dei muri essi sono interrotti in più punti tramite dei portali, ma separati fisicamente solo in corrispondenza dell’asse centrale. I diversi tipi edilizi sono orientati secondo un movimento centrifugo e affacciati su uno spazio aperto centrale, un interno urbano alla scala di vicinato dove sono presenti gli ingressi alle abitazioni. Le tavole di progetto mostrano tutto il repertorio tipologico presente nel quartiere; anche uno stesso tipo – la casa a schiera – viene riproposta attraverso numerose varianti con l’obiettivo di fornire quanta più diversità possibile. La mixité tipologica è visibile nella sua ricchezza dalla grande spina centrale alberata dalla quale s’intravedono gli spazi aperti interni alle diverse unità, rappresentando quindi il luogo primario dal quale è possibile percepire la complessità dell’insieme. Oltre alla qualità del progetto, T’Hool è una delle realizzazioni più famose di Bakema e Van den Broek in quanto esito di un’iniziativa privata di un gruppo di persone che, riunite in una fondazione – Huis en Wijk (casa e città) – insieme a alcune cooperative, decidono di incaricare gli architetti di progettare Il Cuore della città
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Bakema & Van den Broek, Unità minima complessa nel quartiere T’Hool, Eindhoven, NL, 1962
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1
1
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2
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1. Palmboom & van den Bout Rigenerazione del quartiere Poptahof Delft, NL 2004-2017 2. Castro & Denissof AssociĂŠs Chemin Vert district Boulogne sur Mer, F 2007 - 2012
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3. Gautier Conquet & Associes Quartier Mistral Grenoble, F 2011-2015 4. LAN architecture Renouvellement Urbain Nantes, ES 2013 5. de Architekten Cie Odintsovo 2020 Eco-City Proposal, Odintsovo, RUS 2012 6. OMA Bijlmermeer Redevelopment Amsterdam, NL, 1986