INDICE 11
Prefazione Dialoghi di Architettura
Libro aperto per la ricerca teorica e applicata del progettare contemporaneo
DIALOGHI 27
Aurelio Cortesi L’Architettura delle connessioni. Franco Albini
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Lodovico B. di Belgiojoso L’Architettura della pluralità. Il BBPR
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Ignazio Gardella L’Architettura della coralità
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Roberto Gabetti e Aimaro Isola L’Architettura del colloquio
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Paolo Portoghesi L’Architettura della materia
129
Aldo Rossi L’Architettura dell’idea
141
Guido Canella L’Architettura del dissenso
157
Vittoriano Viganò L’Architettura dell’esperienza
171
Vico Magistretti L’Architettura della realtà
185
Vittorio Gregotti L’Architettura della gradualità
201
Enrico Mantero L’Architettura dell’essenzialità. Giuseppe Terragni
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TAVOLE Selezione di schizzi, disegni, immagini
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COMMENTARI Progettare nelle differenze
311 313 315 317 319 321 323 325 327 329 331
RITRATTI Lo studio di Via Panizza Il tavolo dei BBPR Ignazio Gardella. Autoscatto Lettera aperta a Roberto Gabetti e Aimaro Isola Roma. Studio di Architettura Il “museo” Aldo Rossi Ritratto di Guido Canella Studio Viganò. Una casa per l’Architettura Vico Magistretti e lo studio “inesistente” La Bottega di Via Bandello La vita quotidiana e di studio di Giuseppe Terragni
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APPARATI Bibliografia ragionata Fonti iconografiche / Referenze fotografiche Indice dei nomi
“Quanti miliardi di colpi di scalpello è mai costata dall’inizio del mondo l’Architettura? Fatiche immani per la gioia di pochi. Case, palazzi, fortezze e cattedrali. E la mirabolante storia dell’arte e del progresso umano annegata nel mare dei sudori di miriadi di artefici ignoranti che a braccia, con picconi e con martelli hanno svuotato colline e montagne per tradurre la pietra in geometria e la natura in armonie silenti. Ne valeva la pena? Forse soltanto per il Partenone”. Lodovico B. di Belgiojoso Milano, gennaio 1989
Dialoghi di Architettura Libro aperto per la ricerca teorica e applicata del progettare contemporaneo
La logica del “libro aperto” veicola le riflessioni inerenti il progettare contemporaneo, l’aggiornamento dei suoi paradigmi, la trasformazione del suo statuto. Nell’era della comunicazione e dell’immagine, la disciplina architettonica contemporanea sta incentivando l’individualismo e l’isolamento delle proprie manifestazioni: un paradosso che si traduce nel rifiuto della teoria riconosciuta a favore di una pratica caratterizzata da un’esplicita libertà espressiva e dalla rivendicazione di autonomie individuali. In questo progressivo passaggio dall’unità all’isolamento, segno distintivo della modernità, le differenze, da momento di dialogo e confronto, divengono elementi di divisione e limite alla comunicazione. La personalizzazione si contrappone all’omologazione, la differenziazione viene acriticamente esaltata a discapito dell’uniformità, i personalismi persistono a fronte di uno scenario tecnico e culturale che esprime, specularmente, l’esigenza di complementarietà e confronto su contenuti di matrice qualitativa e non su variabili di natura meramente quantitativa. Tali logiche sembrano apparentemente comprimere in modo decisivo qualsiasi forma di riflessione e sedimentazione propria dell’attività progettuale, della sua natura, dei principi che la contraddistinguono, a favore di azioni storicamente non afferenti alle capacità e alla formazione dell’architetto. Anche il concetto di scuola, intesa non come segnale di omogeneità linguistica bensì come condivisione di una linea etica e culturale, sembra in via di esaurimento, a fronte di una riforma delle strutture e dei metodi pedagogici preposti a un apprendimento nozionistico confermato da un’organizzazione sempre più parcellizzata dei mestieri. La frammentazione del sapere, la complessità degli strumenti operativi e la criticità d’individuazione di metodi progettuali attendibili, sollecitano un’interpretazione al contempo complessiva e sintetica della materia architettonica e della relativa grammatica, chiamata a manifestarsi come disciplina di carattere generale, come scienza interdisciplinare in grado di coniugare in forma trasversale i saperi settoriali. Il contributo fornito da ambiti culturali e formativi Prefazione
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DIALOGHI
L’individuazione di figure rappresentative del fare e del raccontare l’architettura comporta inevitabili selezioni e perimetrazioni del campo di indagine. Lo spessore scientifico della loro ricerca, sia teorica sia progettuale, ne giustifica la scelta: gli architetti coinvolti, pur nella loro specificità, costituiscono in questa sede un campione paradigmatico per un’operazione mirata a riannodare i fili di una vicenda da custodire e divulgare. L’ordine dei dialoghi proposto rappresenta una sottile chiave di lettura che delinea, senza alcuna pretesa di classificazione, una possibile sequenza delle posizioni di metodo emerse.
Aurelio Cortesi
L’Architettura delle connessioni. Franco Albini
Franco Albini architetto controcorrente Osserviamo le strade dell’architettura albiniana, per indagare i riferimenti culturali degli inizi del suo lavoro e per raccontare della improvvisa, sofferta adesione al mondo dell’avanguardia europea alla luce delle dichiarazioni, tra il serio e il faceto, da lui più volte espresse. Si è trattato, a suo dire, di una illuminazione; una “catarsi-influenzale” provocata da una durissima reprimenda di Persico che aveva esorcizzato il virus déco che lo insidiava: filtro inoculato ad un giovane praticante dello studio Ponti e Lancia1. Fin qui il mito dell’esordio che lascia intravedere un influsso elitario, controcorrente, che si esprime nell’adesione al Movimento Moderno o perlomeno a quanto, di esso, poteva assimilare un giovane intellettuale milanese dei primi anni Trenta, congiuntamente ad una persistente osservazione di sé, del suo ruolo di intellettuale, pur nel rigido percorso impresso dalla tendenza più radicale dell’avanguardia architettonica. L’adesione ai moti dell’avanguardia europea non poteva manifestarsi se non attraverso atteggiamenti fideistici derivati dalla partecipazione minoritaria ad una lotta nel suo corso. La sua appartenenza al gruppo dei “funzionalisti” milanesi, nei primi anni Trenta, lo rendeva consapevole di aderire a questa minoranza destinata ben presto all’opposizione, ma che lottava per l’acquisizione di spazi operativi nella misura in cui offriva definizioni avanzate del progetto sociale della casa. Albini si muoveva all’interno di un razionalismo già edulcorato, sapendo di nutrirsi delle forti motivazioni politiche di uno stato corporativo, patteggiando proposte evolutive (il quartiere Fabio Filzi2, per esempio) con la facoltà di accesso ad un atteggiamento introflesso, che ubbidiva all’idea ancora tradizionale dell’artista che aveva di se stesso. È questo un tratto bivalente che permane nella sua azione culturale: da una parte l’adesione al programma politico che stava avanzando in Europa attraverso le avanguardie e, dall’altra, una riflessione che traduce nei fatti i riferimenti autobiografici dei quali gli elementi indotti dal Movimento Moderno altro non sono che una parte di un insieme.
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Lodovico Barbiano di Belgiojoso
L’Architettura della pluralità . Il BBPR
L’architettura, arte materiale e immateriale. L’esempio Torre Velasca L’architettura da una parte è disciplina quasi immateriale, unicamente pensata, dall’altra invece stringe un forte rapporto con la materia, con l’atto cioè realizzativo. Io stesso attraverso l’uso della memoria e della poesia, mi sono più volte soffermato, ripercorrendo mentalmente la storia dell’architettura, a riflettere in modo anche ironicamente provocatorio, sull’effettiva opportunità di realizzare quanto pensato. In una mia poesia pubblicata nel 19921 mi è capitato di evidenziare come forse solo per il Partenone valesse la pena affrontare lo sforzo realizzativo. Una suggestione letteraria, la mia, ironica e tesa a semplificare e sdrammatizzare alcune tematiche dell’architettura da sempre di grande importanza e complessità. Un’immagine poetica comunque che, a distanza di due, tre anni, ritengo ancor oggi valida nei contenuti e nell’essenza: l’esprimere tale concetto attraverso uno strumento quale la poesia, che possiede tecniche proprie e proprie ispirazioni, significa per me rafforzare l’asse ideale che collega due arti tra loro complementari. Formule e strumenti apparentemente di estrema semplicità, che spesso celano contenuti e valori di significato assoluto. A volte alcune arti meglio rappresentano ed esprimono valori e pensieri provenienti da altre discipline. Non voglio con ciò affermare che la cosiddetta “arte” sia una sola: è indubbio però che praticarla implica un modo di concepire la realtà che può essere comune, appunto, alla letteratura, alla musica, così come all’architettura. Non esiste mai una netta separazione tra le arti: esse costituiscono modi differenti di esprimere il medesimo concetto. Prendiamo il caso della Torre Velasca, ad esempio, per la quale penso di poter affermare che il risultato – ripercorrendo il quesito posto dalla mia stessa poesia – abbia ampiamente giustificato e ricompensato gli sforzi fatti per la sua esecuzione: penso sia valsa veramente la pena di realizzare la Torre Velasca2. In questo episodio architettonico il discorso di natura anche realizzativa – non solo perciò progettuale – è stato molto complesso: la progettazione si è infatti sviluppata nell’arco di otto anni3. L’importanza della localizzazione
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Ignazio Gardella
L’Architettura della coralitĂ
Il progetto tra analisi e sintesi Ho sempre diviso la mia attività di architetto a metà tra ambito professionale, attraverso una ricca attività progettuale, e ambito accademico, attraverso una parallela attività di insegnamento svolta in Università: ho così avuto modo di confrontarmi direttamente con aspetti sia teorici che pratici dell’architettura, questi ultimi strettamente legati all’esecuzione materiale dell’oggetto architettonico. A tal proposito ritengo sia interessante sviluppare alcune riflessioni sul mio modo di progettare e di approcciare la tematica progettuale in senso lato. Io penso che un progetto di architettura, relativo ad un argomento specifico, non possa mai essere considerato come unico e irremovibile: non credo che, dato un determinato tema e richiesto un determinato progetto da svolgere su di esso, esista un progetto ottimale, nascosto in un angolo, da ricercarsi attraverso una serie, magari lunghissima, di indagini conoscitive. Indagini utili e necessarie che, però, non risolvono il problema complessivo della progettazione. Credo che il progetto non esista a priori. Non penso che nel momento in cui si affronta un’esperienza progettuale relativa ad un particolare ambito esista un esempio compiuto o un progetto al quale riferirsi o ispirarsi: esiste piuttosto un progetto che si costruisce nel suo farsi. Coerentemente al metodo da me adottato nell’insegnamento universitario, io credo che convenga sempre partire da una prima idea, ancora generica, non totalizzante: generica in quanto non deve manifestarsi come un’idea esclusivamente cervellotica, ma deve basarsi su un bagaglio di informazioni tecniche e architettoniche provenienti da quella base culturale che ciascuno di noi possiede e che aumenta con l’aumentare degli anni di pratica. Una prima idea perciò di progetto completo: non esaustivamente definito, comunque già pensato in tutti i suoi elementi di carattere distributivo, formale e strutturale. Su questa idea si può così lavorare, sviluppandola e conseguentemente trasformandola, giungendo a volte anche a soluzioni completamente diverse e distanti dalla prima idea. Questo accade in particolare nei primi anni di esercizio professionale, o quando ancora si frequenta la scuola, momenti durante i quali non si ha
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COMMENTARI
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Progettare nelle differenze
La lettura incrociata dei Dialoghi permette di cogliere modi di vivere il momento progettuale che, nelle loro differenze, rappresentano l’adesione a logiche non disgiunte dall’esito finale della costruzione dell’architettura. Più volte è stato evidenziato il legame tra mondo immaginario e mondo reale, tra conoscere e costruire, tema che ritroviamo come filo conduttore nelle elucubrazioni di Socrate e dell’allievo Fedro in Eupalino o l’architetto1. La posizione dell’architetto nei confronti del metodo, e di tutto ciò che è individuabile come momento razionale nell’azione progettuale, scartando cioè i valori non riconducibili a norma, si connette alla tradizione, all’interno della quale le varie componenti, e dunque la tecnica, divengono a seconda dei casi, fenomeni più o meno intenzionali del progetto: in tal senso gli aspetti tecnologico-strutturali, al pari di quelli figurativi, possono essere accettati passivamente o costituire, al contrario, una scelta consapevole. La divaricazione tra progetto come forma e progetto come tecnica ha portato a un progressivo abbassamento della qualità del prodotto edilizio, imputabile anche alla forte segmentazione delle diverse fasi di elaborazione progettuale e di produzione del manufatto. Il panorama attuale presenta una palese ambiguità tra l’approccio alla forma, determinato prevalentemente da scelte di tipo intuitivo, e quello alla tecnologia, basato principalmente su procedimenti sistematici codificati. Se il progetto è sintesi di molteplici fattori coinvolti al fine di risolvere aspetti quantitativi, spaziali e morfologici, e se le scelte più che essere dettate dall’arbitrarietà devono essere fondate sulla conoscenza dell’identità e della natura dei luoghi, possiamo allora affermare che le testimonianze riportate e le tematiche in esse trattate fanno capo a precise filosofie progettuali, a veri e propri atteggiamenti lucidi e consapevoli. L’architetto vive la propria identità in rapporto al reale e alle idee sull’architettura, al modo cioè di porsi di fronte ai problemi dell’uno e dell’altro ambito. La maggiore predisposizione verso uno dei due mondi rispecchia una diversità di interpretazione, da parte dei progettisti, della figura intellettuale preposta alla modificazione materiale della realtà2. Commentari
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RITRATTI
I profili biografici dei protagonisti emergono, per brevissimi cenni, dall’ambiente sia fisico sia culturale in cui la loro attività si svolge nella quotidianità: lo studio professionale inteso come luogo dei rapporti tra idee e prima materializzazione del progetto di architettura, indicatore della Weltanschauung architettonica di ciascuno. I ritratti traggono spunto da dettagli o episodi emersi durante questo lavoro e, in alcuni casi, si sono concretizzati grazie all’aiuto di chi, vivendo a diretto contatto con i protagonisti, si è fatto portavoce dall’interno del loro modo d’essere.
Lo studio di via Panizza
Lo studio di via Panizza Lo studio di Albini in via Panizza al numero civico quattro, era negli anni Cinquanta un punto significativo, anche se appartato, nell'ambito della cultura milanese rappresentando un riferimento costante per lo studio BBPR di via dei Chiostri che costituiva il motore di un rassembramento più vasto. Uno studio, quello di via Panizza – era già subentrata Franca Helg – di modeste dimensioni, situato in una scura corte milanese fuori Porta Magenta, formato da una guardiola, da una sala comune, anche un po’ umida, dove ci si stava tutti, separati l’un l’altro da qualche mobile. Vi erano inoltre due stanze. Una di ricevimento, un po’ polverosa, dove non ho mai visto ricevere nessuno, piena dei suoi mobili: i suoi meravigliosi tavoli, uno rivestito di panno verde, e le poltrone Margherita e Fiorenza; un’altra dove lui e la Helg, faccia a faccia, lavoravano tenendo aperta la porta e osservando, vigili, il comportamento dei collaboratori (ricordo che per procurarsi un foglio di carta, si doveva passare davanti alla loro stanza, inginocchiarsi, tagliare la carta, e tornare al proprio tavolo: vale a dire c’era un piccolo, sottile controllo anche sul modo di lavorare in studio, e sulla gestione – della carta – dello studio stesso). Nei due anni in cui io ho frequentato assiduamente lo studio (ma anche dopo ho continuamente costituito, a vario titolo, una presenza costante) c’eravamo io, Giuseppe Gambirasio – neolaureati –, un geometra, una segretaria. Ero stato introdotto grazie all’intermediazione di Matilde Baffa che era lì per realizzare il plastico della villa di Roberto Olivetti ad Ivrea; in studio avevano bisogno di qualcuno di mano facile per affinare dei lavori di rappresentazione relativi al progetto per l’Habana. Albini era costantemente in viaggio, spesso all’estero, per incarichi prestigiosi legati non solamente alla sua attività professionale ma alla partecipazione a commissioni di studio o a cicli di conferenze. Se era a Milano non arrivava mai prima delle 9.00-9.30, quando lo studio era funzionante da più di un’ora. Fondamentale punto di riferimento, per noi collaboratori, era Franca Helg. Lei, essendo si molto più presente, coordinava, gestiva il lavoro di tutti. Lo controllava, passava tra i tavoli, interrogava i collaboratori: mansioni che svolgeva al pari di Albini, ma con maggiore frequenza. Albini non era certo un uomo ordinato e, come spesso accade quando ci si trova in presenza di personaggi caratterizzati da una elevata talentuosità, gli risultava difficile avere una gestione perfetta e razionale dello studio e della propria attività. Era comunque un personaggio di grande fascino, molto elegante: vestiva, ricordo, di lino blu, con impeccabili spacchi e passeggiando tra i disegnatori continuava a tirarsi i baffi, forse compiacendosi anche del linearismo gotico della sua figura, alta, ben ritagliata da vestiti di straordinaria fattura. La Helg ha dato un contributo fondamentale alla conduzione dello studio: prima del suo (e del mio) arrivo Albini si avvaleva di un importante collaboratore (che io non conobbi), il Colombini, bravissimo designer che, successivamente, andò a lavorare per la Kartell; una efficiente e mitica segretaria, poi “moglie del Colombini”, la Luisa, (che pure non ebbi modo di conoscere e a cui fu dedicata la famosa poltroncina). Era la Helg che ci raccontava della Luisa, del Colombini, dell’Adriana, dei costi impossibili di uno studio di architettura: il tutto fra mito e realtà. (Aurelio Cortesi)
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