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Esperienze SDS
Mitografie d’architettura Percorsi figurativi e progettuali di Giuseppe Arcidiacono a cura di Fabio Guarrera
ISBN 978-88-6242-356-4 Prima edizione Gennaio 2019 © LetteraVentidue Edizioni © per i testi: i rispettivi autori © tutte le illustrazioni sono di Giuseppe Arcidiacono È vietata la riproduzione, anche parziale, effettuata con qualsiasi mezzo, compresa la fotocopia, anche ad uso interno o didattico. Per la legge italiana la fotocopia è lecita solo per uso personale purché non danneggi l’autore. Quindi ogni fotocopia che eviti l’acquisto di un libro è illecita e minaccia la sopravvivenza di un modo di trasmettere la conoscenza. Chi fotocopia un libro, chi mette a disposizione i mezzi per fotocopiare, chi comunque favorisce questa pratica commette un furto e opera ai danni della cultura. Nel caso in cui fosse stato commesso qualche errore o omissione riguardo ai copyrights delle illustrazioni saremo lieti di correggerlo nella prossima ristampa. LetteraVentidue Edizioni Srl Via Luigi Spagna 50 P 96100 Siracusa www.letteraventidue.com
Indice
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Presentazione Bruno Messina
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Elogio dell’eclettico e del provinciale Fabio Guarrera
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Il mito e il collage Riccardo Emmolo
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Un itinerario romano Michele Beccu
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Prolifiche ossessioni Fabrizio Foti
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Nella mia Sicilia, “in greco ho pensato, in greco ho vissuto” Marco Mannino
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L’origine e la meta Conversazione con Giuseppe Arcidiacono. a cura di Fabio Guarrera
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Presentazione Bruno Messina
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on questo volume, dedicato ai progetti e ai disegni di Giuseppe Arcidiacono, prosegue l’attività editoriale - iniziata nel 2016 con Conversazione in Sicilia con Antonio Monestiroli - che documenta le mostre monografiche che la nostra scuola dedica ad alcuni progettisti contemporanei. Questa idea nasce dall’esigenza di approfondire la conoscenza del lavoro di architetti, le cui ricerche appaiono significative per il loro carattere paradigmatico nel panorama della cultura architettonica del nostro tempo. Nel caso specifico del lavoro di Giuseppe Arcidiacono, architetto e docente della facoltà di Architettura dell’Università “Mediterranea” di Reggio Calabria, l’interesse si concentra sul singolare legame che il progetto instaura, nelle sue tecniche di rappresentazione, con il mondo delle arti figurative. La mostra espone oltre settanta quadri e disegni, in cui risulta evidente il senso della ricerca dell’autore che trova fondamento nel legame tra luogo e mito, un legame che va oltre la singolare, quanto originale, poetica progettuale dell’architetto catanese e diviene dispositivo di anamnesi che consente di riflettere sui caratteri e sulla forma delle geografie del Mediterraneo. Attraverso le Mitografie d’architettura Arcidiacono rivela come la disciplina del progetto debba riferirsi, prima ancora che alla scienza, a una dimensione mitopoietica; le sue opere testimoniano infatti la profonda convinzione che l’uomo possa realmente abitare i luoghi solo se è capace di comprenderne quel carattere unico e segreto che i latini definivano genius loci. Il mito, inteso come raffigurazione delle origini del mondo, consente quindi ad Arcidiacono di osservare con sguardo introspettivo il senso profondo della natura dei luoghi, un processo di conoscenza che sembra aderire al pensiero critico di Karl Popper secondo cui «la scienza deve iniziare con i miti e con la critica dei miti». Come chiarisce Riccardo Emmolo (nel suo contributo qui pubblicato) in «Arcidiacono il mito non è semplice citazione, ma adesione ad un paesaggio», evidenziando il profondo rapporto che la sua ricerca architettonica assume nei confronti della realtà. Realtà di terre arcaiche – quali la Sicilia e la Calabria – trasfigurate attraverso le mitografie dell’autore. 9
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Elogio dell’eclettico e del provinciale Fabio Guarrera
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lavoro di Giuseppe Arcidiacono mi sollecita a riflettere sul valore positivo di due termini: “eclettico” e “provinciale”. Due aggettivi che dalla seconda metà del Novecento hanno assunto, nella cultura architettonica occidentale così fortemente condizionata dalla ricerca di un linguaggio moderno, globalizzante e omologante, un’accezione generalmente negativa e denigratoria. Eppure, nonostante le difficoltà e un certo anacronismo, riferirsi a questi due termini può rivelarsi significativo soprattutto se si vogliono apprezzare, oggi, e con senso critico, gli esiti di alcune ricerche progettuali contemporanee che riescono a coniugare i valori dei caratteri e delle identità locali con le esigenze dell’avanguardia e del rinnovamento figurativo. Dal dizionario etimologico si apprende che eclèttico, dal greco εκλεκτικός, significa letteralmente “che trasceglie”. Eclettico è, quindi, chiunque “sceglie tra varie cose”, evitando di fermarsi davanti a un indirizzo consolidato e sperimentando strade alternative per trovare quella più utile e appropriata. Posta in questi termini la condizione eclettica può essere riconosciuta come base ineludibile del progetto stesso dell’architettura. Cosa altro è, del resto, il progetto se non il campo di sperimentazione tra varie possibilità di scelta? Arcidiacono trova la risposta a questo interrogativo in quell’indifferenza agli stili che è propria dell’eclettismo moderno: «l’Eclettismo – scrive il catanese – sta alla base della condizione moderna perché porta dentro di sé i suoi stessi anticorpi di una sostanziale indifferenza agli stili», e questo perché «sposta l’attenzione sulla costruzione logica e sulla esecuzione tecnica dell’architettura»; per cui: «una bella architettura è semplicemente una architettura ben costruita»1. Volendo usare strumentalmente le parole di un altro artista abituato, come Arcidiacono, a ricevere dalla critica l’appellativo di eclettico, po1. Arcidiacono Giuseppe, Partire per ritornare, in: I.D., Di segni d’architettura, Monforte, Catania, 2012, p.15.
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tremmo chiamare in causa quanto espresso da Ernest Hemingway durante un’intervista rilasciata al Times nel 1954: «la giusta maniera di fare le cose – sostiene lo scrittore statunitense – è semplicemente il modo di fare ciò che deve essere fatto […] Che poi il modo giusto, a cosa compiuta, risulti anche bello, è un fatto assolutamente accidentale»2. Adeguare il progetto alle contingenze del caso è, dunque, l’habitus consapevole del compositore eclettico, qualunque sia il suo obiettivo e la sua arte. Ciò che conta, nel progetto, è che l’artista trovi lo stile senza cercarlo3, nonostante la realtà, i contesti e il milieu culturale in cui lavora glielo impongano inesorabilmente. In riferimento a quest’ultima condizione, analizzando il lavoro di Arcidiacono è possibile riconoscere tre fasi stilistiche che dipendono, sostanzialmente, da alcuni fattori determinanti, quali l’ambiente culturale romano in cui è avvenuta la sua formazione d’architetto e i luoghi mediterranei in cui esercita il proprio lavoro di progettista e docente. Il primo di questi momenti si colloca tra la fine degli anni Settanta e la metà degli anni Novanta, ed è caratterizzato da una attenzione per gli esiti figurativi della “Tendenza”, intesa come architettura “razionale” declinata a filtrare il monumentale linguaggio di Roma nel segno dell’antigrazioso e del moderno. Arcidiacono si è dichiarato4, in tal senso, intento a guardare con «occhi strabici»5 il mondo di Aldo Rossi: appunto attraverso una distorsione visiva che permettesse di umanizzare la “crudele” astrazione e la dimensione metafisica rossiana. Una distorsione che, a giudizio di chi scrive, è funzionalmente praticata come denuncia alla condizione di degrado estetico dei luoghi oggetto di analisi nelle ricerche universitarie condotte (specie i luoghi periferici dell’hinterland metropolitano reggino); ma anche come ricerca espressiva. Dalla seconda metà degli anni Novanta fino al Duemila l’interesse di Arcidiacono si sposta verso la geometria frattale: che – come sostiene lo stesso progettista – col suo ordine/disordine impone di osservare il Moderno da nuovi punti di vista, e promuove la ricerca di paesaggi inediti, configurati da libere geometrie6 in grado di stabilire una nuova alleanza 2. Da una intervista al Times, 13 dicembre 1954, p.15. 3. Afferma in tal senso Arcidiacono: «Quanto allo stile – secondo me – è una cosa che non si cerca, ma si trova; e così me ne vado come un qualsiasi Saulo per la via di Damasco, aspettando che la signora Architettura si decida a disarcionarmi». Cfr. Arcidiacono G., Partire per…, cit., p.15. 4. Ibidem. 5. Ibidem. 6. cfr. Arcidiacono Giuseppe, Le geometriche concordanze tra arte e architettura, in I.D., Di segni..., cit., p.11.
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tra architettura e natura. Un interesse che determina l’innesco di una sperimentazione linguistica che risente certamente della lezione di Alessandro Anselmi, maestro romano presente in quegli stessi anni nella scuola di Reggio Calabria. A queste due fasi ne segue una terza che va dall’inizio del Duemila a oggi. Una fase segnata da una ricerca figurativa autorale che sembra volersi circoscrivere e radicare, intenzionalmente, nel territorio della Calabria e della Sicilia. Una ricerca tesa alla riscoperta di quelle radici mediterranee dell’architettura moderna che Arcidiacono intende come antidoto alle «amnesie di una globalizzazione che ci lascia senza storia e senza geografia»7. Un’attività progettuale che lascia trasparire un affrancamento dalle frequentazioni culturali e che – grazie a un ragionamento solitario che trova nella didattica la contropartita necessaria – si concentra nello studio di una figurazione architettonica e pittorica fortemente contestualizzata. Una figurazione che non rinnega tuttavia le esperienze precedenti e che non rinuncia a quella naturale inclinazione espressionista – intesa, appunto, come necessità di espressione autorale – manifestata attraverso un controllato ed efficace “eccesso di forma”. Particolarmente emblematici di queste tre fasi sono soprattutto due progetti e un disegno. Il primo è lo studio per la ridefinizione dell’assetto urbano di Corigliano Scalo del 1982: un progetto che si fa strumento programmatico di conoscenza della realtà territoriale della cittadina calabrese, attraverso una serie d’interventi puntuali che ne riconfigurano la forma urbana. Un lavoro che denuncia l’inerzia e l’inefficacia del Piano Regolatore moderno come strumento per la trasformazione urbana, troppo legato, secondo Arcidiacono, alle «quantizzazioni del funzionalismo spicciolo» e per nulla attento ai «temi di architettura»8. 7. Arcidiacono, G., Partire per…, cit., p.19. 8. Cfr. Arcidiacono Giuseppe, Studio per una ridefinizione dell’assetto urbano di Corigliano Scalo,
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Il secondo progetto è quello per la ridefinizione di Piazza Bagolino ad Alcamo, del 1997; un intervento che insiste su un’area urbana marginale, in cui è stato necessario «iniettare un virus del nostro tempo usando il progetto come un vaccino»9. Un’azione compositiva che mette in scena grandi “macchine da guerra” che dettano un ordine misuratore alla piazza, e permettono di ristabilire una continuità tra passato e presente, tra fronte urbano e orizzonte lontano10. Infine, il pastello intitolato La grande cava, del 2003, con l’Etna che erutta elementi della grammatica architettonica che vengono disposti, dall’azione ordinatrice del progetto, nella parte bassa del disegno. Un quadro che sembra voler rimarcare quella forte ascendenza – già intuita da Francesco Fichera – che il vulcano impone alle forme dell’architettura etnea. Un’ascendenza dovuta alla vicinanza al fuoco che ingiunge inesorabili IUSA, Reggio Calabria, 1982. 9. Arcidiacono, G., Partire per…, cit., p.18. 10. Cfr. Arcidiacono Giuseppe, Lo Curzio Massimo (a cura di), Il margine come progetto. Contributi di concorso per due piazze ad Alcamo, Edas, Messina, 1997.
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deformazioni plastiche ai partiti e alle membrature; le stesse deformazioni che hanno determinato quel carattere locale barocco che è identificativo della città di Catania. Il concentrare la propria ricerca su un ambito territoriale circoscritto, permette a questa argomentazione di continuare a tessere l’elogio del secondo termine preposto in apertura del saggio: “provinciale”. Come per la parola “eclettico”, anche per l’aggettivo “provinciale” la contemporaneità ha riservato un’accezione pressoché denigratoria. Provinciale, infatti, è generalmente chi rimane chiuso in una condizione isolata, manifestando mentalità ristretta e abitudini piccolo-borghesi. Eppure, anche in questo caso, il significato può essere completamente ribaltato facendone, in funzione del discorso che si sta cercando di elaborare, un termine qualificante. Durante il convegno di apertura della mostra Fabrizio Foti ha sottolineato come il lavoro Arcidiacono sia condizionato dalla presenza di alcune “ossessioni” riferibili a delle costanti, direttamente legate al carattere dei luoghi in cui il progettista vive e opera. Il mondo di Arcidiacono è, infatti, metaforicamente e fisicamente confinato dallo Stretto di Messina e dal vulcano Etna, due entità altamente rappresentative che lo inducono, in virtù della loro potenza, a trascurare ogni altro aspetto contingente. Posto in questi termini il confinamento “provinciale” della ricerca di Arcidiacono non può che assumere significati positivi, dal momento che il progettista-studioso, grazie ad una prospettiva di osservazione ravvicinata, ri-conosce i caratteri locali riuscendo a progettare architetture che a questi caratteri appropriatamente si legano. Architetture che segnano una distanza critica da molte opere realizzate dal professionismo locale etneo, il quale troppo spesso non sa rendersi “necessario” al processo conoscitivo della città e della sua storia. È proprio grazie alla storia – altro elemento “eclettico” della condizione moderna11 – che Arcidiacono riesce a dare concretezza alla «presa esistenziale dei luoghi»12, e cioè a quella capacità che, secondo Norberg Schulz, un progettista deve avere per riconoscere il carattere distintivo dell’ambiente e per creare spazi significativi in cui l’uomo si identifica e abita. Arcidiacono sa bene che tale carattere distintivo è rappresentato, al mas11. Scrive, in riferimento alla storia, Arcidiacono: «la coscienza della storia è una delle conquiste culturali del nostro tempo (anche se ci crea qualche problema, come il problema dei filologismi che imperversano in tutte le discipline, e che – com’è ovvio – amiamo e detestiamo al tempo stesso)»; cfr. Arcidiacono, G., Partire per…, cit., p.15. 12. Norberg Schultz Christian, Genius Loci. Paesaggio Ambiente Architettura, Electa, Milano, 1979, p.5;
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simo grado, dalle mitologie: categorie conoscitive vitali che permettono di spiegare la natura e le sue forme. Attraverso i miti Arcidiacono mette dunque in scena i fenomeni che spiegano l’essenza identitaria dei luoghi con cui l’architetto si confronta. Le sue mitografie sembrano volere affermare che il mondo – e soprattutto il Mediterraneo, e ancor di più l’ambito geografico della Sicilia – va esperito in prima battuta sotto il profilo animistico, e solo successivamente attraverso la valutazione obiettiva degli eventi e delle contingenze. Così facendo, il progetto si dispone «vigile all’ascolto dei luoghi e a ciò che essi richiedono»13, permettendo il riconoscimento di quel sostanziale «crogiuolo di eclettismi»14 quale è, appunto, la Sicilia. Il convinto radicamento ai contesti fisici e mitologici, raggiunto dopo un percorso formativo e conoscitivo che si rivolge alla cultura nazionale e internazionale, per poi ritornare al contesto di partenza – Partire per ritornare, afferma Arcidiacono – sembra essere un destino che accomuna, storicamente, i migliori architetti catanesi. In tal senso, la biografia artistica di Arcidiacono è per certi versi sovrapponibile a quella di Giovan Battista Vaccarini e di Francesco Fichera: architetti formati a Roma e rientrati in Sicilia col preciso intento di concentrare la propria ricerca sul territorio. A riprova di questo comune interesse, che fa dei progettisti etnei tre autori squisitamente provinciali, vale la pena usare, strumentalmente e in chiusura di questo contributo, le parole scritte da Francesco Fichera per elogiare la capacità di radicamento del suo predecessore Vaccarini; parole che assumono un certo valore se circostanziate anche al lavoro di Giuseppe Arcidiacono: «[...] la sua non rinomanza è un altro segno dei peculiari caratteri del suo ente spirituale: egli, nato in Sicilia, educato a Roma, tornò a trent’anni in Sicilia e vi rimase operoso [...] Pianta indigena, agave nostrale [...] con una personalità rimasta provinciale per eventi di vita e per spazio d’azione, non per quota di altezza e di profondità [...] nella natia Sicilia, tra queste macerie, profonda le radici il romanizzato e vi cerca l’humus generoso e fertile; lo trova, se ne nutre, fiorisce tra l’Etna e il mare, lontano dalle fastose e splendidi Corti in cui raggiava l’arte dei suoi fratelli [...] portò nel suo spirito una larga grandiosa visione romana che si arricchì della vaga vena decorativa locale, dei riflessi delle locali tradizioni, e si tradusse in opera attraverso i caratteristici materiali da costruzione». 13. Arcidiacono, G., Partire per…, cit., p.18. 14. Ibidem.
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Il mito e il collage Riccardo Emmolo
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evo la conoscenza di Giuseppe Arcidiacono al comune amico Marco Vitale, al quale avevo chiesto di indicarmi un lettore che potesse apprezzare Immersioni, libro nel quale ho riversato la mia passione per il mélange tra i generi letterari e il pastiche lessicale, che quasi nessun apprezzamento aveva – né ha – conosciuto tra letterati e poeti. È così che ho avuto la possibilità di conoscere un artista il cui lavoro considero molto vicino al mio di scrittore e poeta. Quello che mi colpì subito, nelle opere di Arcidiacono, fu il riferimento al mito e l’uso del collage. Il collage è stata un’arte per troppo tempo considerata minore. In realtà essa presuppone grande conoscenza di immagini e di stili e capacità di manipolare il materiale selezionato con senso di un equilibrio, una sorta di disciplina in bilico tra ordine e disordine. Il collage è un’arte che sta al confine tra modernità e tradizione. Della modernità possiede la passione per il frammento che mantiene la sua singolarità rifiutando di farsi inquadrare in una sintesi; della tradizione la ricerca di un equilibrio nuovo. Come sappiamo l’arte – insieme alla letteratura e alla musica – è stata segnata all’inizio del secolo scorso da una frattura insanabile con la tradizione, che non solo ha perso un’autorità millenaria, ma quasi la stessa trasmissibilità. Dal Futurismo in poi artisti e poeti si sono divisi in due schiere: da una parte quelli che ritengono che la tradizione non serva più a niente, perché appartenente a un passato che non ha niente a che vedere ormai con la nostra cultura; dall’altra coloro che sentono in questa frattura un invito a cercare nuove forme di confronto con il passato. Arcidiacono appartiene a questa seconda schiera. L’altro aspetto del suo lavoro che mi ha colpito è stato il mito, che ritorna anche nel titolo di questa mostra: Mitografie d’Architettura. Credo che “mitografia”, in questo caso, non può essere intesa nell’uso tradizionale, cioè come raccolta ed esposizione di miti riguardanti l’architettura, ma in senso etimologico, cioè come rinvenimento di segni grafici del mito nell’Architettura. Quali sono i segni del mito nell’architettura sulle cui 19
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Università degli Studi di Catania
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SDS Architettura Siracusa
L’origine e la meta
Conversazione con Giuseppe Arcidiacono. a cura di Fabio Guarrera
F.G. Professore, Mitografie d’architettura è il titolo della mostra inaugurata a Siracusa, della quale ho avuto il privilegio di essere stato il curatore. Questo titolo è stato scelto per sottolineare il forte rapporto che il suo lavoro di architetto stabilisce con il mito. Le chiedo perché sente il bisogno di istaurare questo rapporto, e per quale motivo in questo rapporto dovremmo ritrovare le ragioni di una necessaria attualità? G.A. Caro Fabio, rispondo subito a questa ultima parte della domanda, per poi affrontare la prima. Quali le ragioni d’attualità del mito? Semplicemente perché accade ora. Pirandello fa dire ad uno dei personaggi in cerca d’autore: «Accade ora, accade sempre»; e il fatto prende luogo, non si rappresenta ma si presenta. Ora, letteralmente mythos è “il fatto che viene pronunciato”: è dunque l’accadere nella parola, che – appunto – non distingue tra la narrazione e l’accadere, tra parola ed essere. Per questo è un accadimento che rinasce ogni volta, in luoghi e versioni differenti che come onde si accavallano. La sua è una natura che si trans-forma: fluttuante come un flusso – questo dice qualcosa a noi contemporanei che dei flussi abbiamo fatto retorica? – proteiforme. «Proteo» – scrive il filosofo Michel Serres, in Genèse (1985) – «è il dio dal nome primo», dio dell’origine, che abita l’isola di Faro alla foce del Nilo, sulla quale sorgerà il primo faros, luce alle vele dei marinai erranti, «e il cui nome, tuttavia significa tela e velo»: tela di Penelope, velo da sposa e telo funebre, velo che ri-vela. Proteo – scrive Serres – «ha il dono della profezia, ma rifiuta di rispondere alle domande»; come il mito. Questa ambiguità enigmatica è inscritta nella stessa etimologia del termine mythos che deriva da múo, l’atto di chiudere gli occhi per vedere meglio, e indica poi in senso traslato lo starsene con la bocca chiusa in un consapevole tacere: in entrambi i casi un tipo di conoscenza paradossale che mette in relazione “il fatto che viene pronunciato” con ciò che non si vede, con ciò che è muto, con ciò che muta. 55
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Ora proprio questo tipo di conoscenza paradossale costituisce una risposta alla prima parte della domanda, cioè al bisogno che abbiamo di re-instaurare il rapporto fra la nostra contemporaneità e il mito: ci serve a operare un confronto per “opposizione” con il pensiero scientifico e così ampliare i domini tradizionali della logica (che è anche il compito dell’arte). Infatti, con le sue differenti narrazioni di un medesimo accadere, il mito scompone – come in un quadro cubista – l’ordine del quotidiano, scardina i facili razionalismi “di garanzia” e lascia trasparire un ordine “differente”: se logos-linguaggio è la nostra necessità di orientarci nel mondo, logos-mythos è la nostra capacità di abitare la terra insieme a piante, animali, pietre, fiumi, montagne, e a tutti gli altri segni-presenze nella natura. «Il mito» – scrive Serres – «è in anticipo così bene sulle scienze umane che può essere più scientifico delle nostre stesse scienze». Il mito è in anticipo perché precede le scienze nel tempo, ma soprattutto nello spazio: perché il mito è inscritto nei luoghi, è una topologia; mentre «la scienza è una cartografia che finisce per ricoprire gli spazi reali appropriandosene»: per questo, in architettura qualsiasi discorso scientifico sui luoghi non può prescindere dal mito. Il mito inscritto nei luoghi dà voce ai luoghi, li nomina, li estrae dal rumore di fondo – dal Caos – per identificarli; e poi li mette in circolo, nell’eco del linguaggio, per farli parlare. Purtroppo nel linguaggio corrente il mito è ridotto a sinonimo di un fantasticare a-scientifico; con buona pace di Freud e di Jung che per primi ne hanno riconosciuto e rifondato l’importanza all’interno della condizione moderna, mettendoci in guardia sul fatto che il mito quando viene rimosso può diventare rimorso, ossessione, malattia. James Hillman, in una conferenza del 2001 tenuta proprio qui a Siracusa, ha giustamente sottolineato come «ci avviamo sempre più verso un’intossicazione da Hermes», dio dei commerci e messaggero alato che ci sollecita al frenetico scambio di informazioni e di merci; quando al contrario abbiamo «sempre più un disperato bisogno della forza accentrante circolare di Hestia per non svanire nello spazio»: Hestia che è fuoco interno, che custodisce l’anima dei luoghi, le radici, l’identità. F.G. Ha senso, dunque, parlare d’identità e di radici in architettura? G.A. Bella domanda da fare a uno che è stato definito “eclettico”; così potrò apparire tortuoso, e me ne scuso. Se per identità s’intende il principio aristotelico per cui A è sempre uguale ad A, allora la nostra carta d’identità, che periodicamente deve essere rinnovata, sembra mostrarcene 57