02
Esperienze SDS
Livio Vacchini La struttura come testo costruttivo a cura di Fabio Guarrera
ISBN 978-88-6242-362-5 Prima edizione Aprile 2019 © LetteraVentidue Edizioni © per i testi: i rispettivi autori È vietata la riproduzione, anche parziale, effettuata con qualsiasi mezzo, compresa la fotocopia, anche ad uso interno o didattico. Per la legge italiana la fotocopia è lecita solo per uso personale purché non danneggi l’autore. Quindi ogni fotocopia che eviti l’acquisto di un libro è illecita e minaccia la sopravvivenza di un modo di trasmettere la conoscenza. Chi fotocopia un libro, chi mette a disposizione i mezzi per fotocopiare, chi comunque favorisce questa pratica commette un furto e opera ai danni della cultura. Nel caso in cui fosse stato commesso qualche errore o omissione riguardo ai copyrights delle illustrazioni saremo lieti di correggerlo nella prossima ristampa. LetteraVentidue Edizioni Srl Via Luigi Spagna 50 P 96100 Siracusa www.letteraventidue.com
Indice
9
Presentazione Bruno Messina
11
La struttura come testo costruttivo Fabio Guarrera
23
Contro l’idolatria del bello
39
Costruire concetti in forma di edifici
45
I disegni “radicali” di Livio Vacchini
53
Tradimenti dal disegno all’edificio
65
Il dispositivo Masiero
77
Abitare il sublime. Un binomio possibile?
89
Dall’uno al due: il pieno in asse
95
La casa a Paros di Livio Vacchini e Silvia Gmür: Il tredicesimo capolavoro
Roberto Masiero
Carlo Moccia
Edoardo Dotto
Agostino De Rosa
Ernesto L. Francalanci
Zaira Dato Toscano
Luigi Pellegrino
Fabrizio Foti
6
7
Presentazione Bruno Messina
IL
secondo volume di “Esperienze SDS” - la nuova collana editoriale che documenta le mostre monografiche organizzate dalla nostra scuola – è dedicato all’opera di Livio Vacchini, una delle figure più significative della cultura architettonica del nostro tempo. La radicale poetica dell’architetto ticinese indaga, attraverso una personalissima e astratta tecnica di rappresentazione, la complessa relazione tra forma e struttura. Dello spazio Vacchini disvela il senso profondo, cogliendone la dimensione temporale e ricercando, al tempo stesso, quel carattere atemporale che egli evoca nel suo unico saggio teorico dal titolo emblematico Capolavori. Dodici architetture fondamentali di tutti i tempi. Nella sua opera la tensione verso l’assoluto si rivela nell’immagine stessa dell’architettura, «il lavoro – egli scrive – consiste nel perseguire accanitamente un’immagine perfetta». Una ricerca che si manifesta attraverso precisi dispositivi sensoriali e che raggiunge il livello più elevato di lirismo nelle case che l’architetto ha costruito per sé. Nella bianca casa di Paros, la fissa assialità dell’ingresso, parallela alla linea di costa, prende forma nella fascia longitudinale in marmo pario che attraversa e connette l’alternanza tra pieni e vuoti della casa. Una sequenza che trova la sua condizione complementare nello sguardo obliquo verso l’orizzonte marino, ingenerando campi percettivi mutevoli nel corso delle ore dei giorni e delle stagioni. In modo analogo la struttura tettonica nella sua residenza a Costa, in Svizzera, fissa una condizione di continuità tra lo spazio interno e il paesaggio circostante, amplificata dalla luce calda, riverberata dal morbido pavimento color giallo cromo, che crea una densa atmosfera e trasmette un senso di stupore nel ritrovarsi in un luogo magico, sospeso nella natura. I contributi di questo volume, nella varietà dei punti di vista offerti, restituiscono in modo articolato la molteplicità del pensiero e dell’opera di Livio Vacchini. Per questa ragione sono grato a Roberto Masiero e Fabio Guarrera che hanno voluto organizzare la mostra e il convegno nella nostra scuola, proponendo a tutti noi - docenti e studenti - la possibilità di uno sguardo diverso sulla condizione contemporanea, attraverso la figura di un architetto che con la sua rigorosa ricerca sul senso dello spazio dell’uomo ci induce a “sospendere il giudizio” sull’assordante caos del nostro tempo. 9
10
La struttura come testo costruttivo Note sull’organizzazione della mostra e della giornata studio
Fabio Guarrera
LA
preparazione della mostra e della giornata studio sui disegni di Livio Vacchini, organizzata con Roberto Masiero presso la Struttura Didattica Speciale di Architettura di Siracusa, nasce quasi casualmente dopo un incontro avuto con il professore veneziano nel novembre del 2017. In quell’occasione Masiero (mio correlatore di tesi e di Master) mi fece dono di un piccolo libro intitolato Livio Vacchini. Disegni, curato dallo stesso in collaborazione con Claudia Maion e Giacomo Ortalli per l’editore Cosa Mentale di Marsiglia. Conoscevo già i disegni di Vacchini, di cui avevo visto di persona alcune tavole “originali” nello studio di Locarno, ma l’interessante pubblicazione che mi veniva donata mi dava la possibilità di riosservarli tutti insieme, sinteticamente, nella loro straordinaria potenza iconografica. In quell’occasione proposi al professor Masiero di organizzare un’esposizione a Siracusa, all’interno della sala “Salvatore Di Pasquale”, sfruttando il grande pannello espositivo – di ben 45 metri di lunghezza per 2,85 metri di altezza – come campo topologico per l’allestimento. Un breve sopralluogo e alcune considerazioni di carattere generale ci hanno permesso di comprendere con chiarezza quali sarebbero state le potenzialità della mostra; a questa si è aggiunta l’idea, su suggerimento di Bruno Messina, preside della scuola di Siracusa, di una giornata studio dedicata a Vacchini, con particolare riferimento al rapporto tra la “rappresentazione” e la “composizione” nel progetto d’architettura. L’organizzazione dei due eventi ha imposto sin da subito la necessità di risolvere alcune questioni operative; in particolare, in riferimento alla mostra, è stato necessario capire quali problemi sarebbero emersi dall’idea, avuta in comune accordo con il professor Masiero, di esporre i disegni di Vacchini ad una scala di stampa mai sperimentata prima, sfruttando al massimo le misure e le possibilità espositive del pannello della sala. 11
Contro l’idolatria del bello Roberto Masiero
P
er lungo tempo ho dialogato con Livio Vacchini parlando un po’ di tutto. Ciò che ci univa era, ovviamente, la passione per l’architettura, ma si parlava proprio di tutto: di musica, di cibo, e, come si dice, di donne e motori. Era semplicemente amicizia e questa, dopo dieci anni dalla sua morte, ancora oggi, mi appartiene perché fatta di ricordi, ragionamenti mai risolti, emozioni che ritornano. Quando guardo con attenzione una qualche architettura penso sempre cosa ne avrebbe detto Livio Vacchini. Un giorno, mentre si stava lavorando sul libro che abbiamo poi intitolato Capolavori, mi disse: «Sai Roberto, la cosa fondamentale sarebbe capire bene che cosa è il kitsch». Era come se avesse trovato all’improvviso il bandolo di una matassa, molto molto complicata. Guarda caso, in quel periodo, stavo lavorando per un corso sul kitsch alla Facoltà di Arti e Design dello IUAV. Non dissi nulla. Anche io ero alla ricerca di qualcosa che mi facesse capire sino in fondo la questione non tanto del kitsch, ma del perché ne siamo per molti aspetti invasi. Quel «Sai Roberto...» diventò per me una sorta di tormento, anche se mi aiutava, visto che mi dava immediatamente una chiave di lettura del suo lavoro: mai cadere nel kitsch, nel pittoresco, nell’emotivo o espressivo, nel nuovo per il nuovo, nelle logiche del gusto, buono o cattivo che sia, o nell’avere una qualche idea. Non una “cifra” interpretativa di poco conto rispetto al suo lavoro. Ricordo che allora usavo dire ai miei studenti che avere una idea non significa pensare, e che per il progetto (non solo di architettura) non è fondamentale avere una qualche idea, anzi! è persino pericoloso, è invece fondamentale pensare. Volevo far capire che non dovevano fidarsi di ciò che tradizionalmente viene chiamata creatività e che l’intuizione è utile solo se unita con la ragione. Indubbiamente anche questa era una sintonia con Livio Vacchini. Quello che per me risultò in quel momento chiaro era che in gioco non c’era solo la questione del kitsch, cioè del cattivo gusto, ma soprattutto 23
Costruire concetti in forma di edifici Carlo Moccia
N
ell’architettura del secondo Novecento poche esperienze si presentano con la radicalità che contraddistingue il lavoro di Livio Vacchini. In modo naturale le forme delle sue architetture ci invitano a pensare in profondità. Ci fanno riflettere sui fondamenti della nostra disciplina, sul senso delle forme architettoniche e sul processo della loro ideazione. Per affrontare questioni così impegnative proverò a ragionare sul significato che le parole “rappresentazione” e “costruzione”, scelte da Roberto Masiero e da Fabio Guarrera come titoli delle sessioni in cui si articola questo convegno, hanno per la nostra disciplina. Queste parole aprono a domande sul metodo: quale è il valore della costruzione per il progetto di architettura? Oppure a domande, più profonde, sul senso della nostra disciplina: che cosa rappresentano le forme architettoniche? Questa domanda può condurci in un campo della speculazione poco appropriato all’architettura: il campo delle interpretazioni dei segni. Dirò subito, per fugare questo rischio, che la caratteristica delle forme architettoniche è, per me, la loro “astanza”. Le forme architettoniche non rimandano ad altro che a sé stesse. Le forme architettoniche “sono”. Nello stesso tempo il valore delle forme è, per me, oltre la forma stessa. È nella loro corrispondenza alla ragione della forma. Possiamo dire che le forme felici sono quelle che mettono in rappresentazione i propri temi. Che mettono in rappresentazione la natura di un edificio. Che mettono in rappresentazione «ciò che l’edificio vuole essere». Comprendere la ragione di un edificio è un lavoro che impegna il pensiero almeno quanto la definizione delle sue forme. È un lavoro che si svolge meditando, come diceva Vacchini «stando sdraiati su un divano». È un lavoro di scavo in noi stessi e nella nostra cultura dell’abitare per approssimarsi al senso delle cose. Nel caso di Vacchini per approssimarsi al senso della casa o al senso dell’aula. Per chi intenda in questo modo il fine della forma, il primo obiettivo 39
I disegni “radicali” di Livio Vacchini Edoardo Dotto
In
Fondamenti della rappresentazione architettonica Vittorio Ugo scrive che «[…] ogni rappresentazione istituisce una forma di analogia con la realtà fisica rappresentata ed elabora una particolare tematica»1. In effetti nessun tipo di rappresentazione può ragionevolmente porsi l’obbiettivo di costruire un’identità con l’oggetto che descrive, ma deve piuttosto accontentarsi di dipanare con esso una relazione di tipo analogico, limitata a temi circostanziati. Peraltro – ammesso che sia possibile approssimarsi ad una qualche identità tra realtà rappresentata e rappresentazione – uno sforzo di questo genere difficilmente potrebbe in qualche modo rivelarsi utile o produttivo. Borges – che in Del rigore della scienza immagina il lavoro di cartografi impegnati nella realizzazione di una mappa talmente dettagliata da sovrapporsi fisicamente al territorio rappresentato, finendo – strappata ed in disuso – col gravare materialmente sugli abitanti2 – in Funes o della memoria3 descrive uno strano personaggio caratterizzato da quella che viene chiamata ipertimesia o memoria biografica superiore. Funes è capace di ricordare i minimi dettagli di ciascun giorno della propria vita, riportandone alla mente le immagini, i suoni, gli odori, le sensazioni tattili con evidenza tale da potere rivivere ogni giornata in modo così preciso da dovere impiegare, per il ricordo, un tempo lungo una giornata intera. In questo modo l’atto di rappresentare (letteralmente, di “ri-presentare a sé”) il proprio passato, finisce per rivelarsi un’azione invalidante, che nel pervadere il tempo presente finisce per impedire lo svolgersi della vita. I due paradossi di Borges – l’inutilità della mappa troppo dettagliata e l’immobilità derivante dall’esercizio di una memoria assoluta – ci chiariscono quanto nell’ambito della rappresentazione sia indispensabile il ricorso ad una sintesi, alla scelta delle informazioni da organizzare 1. Vittorio Ugo, Fondamenti della rappresentazione architettonica, Esculapio, Bologna 1994, p. 15. 2. Jorge Luis Borges, Del rigore della scienza, in L’artefice, Adelphi, Milano 1999, p. 181. 3. Jorge Luis Borges, Funes o della memoria, in Finzioni, Einaudi, Torino 1993, pp. 97-106.
45
Tradimenti dal disegno all’edifico Agostino De Rosa
«C’è qualcosa, sì, che non vediamo, ma sta ferma e respira come un animale che dorme. C’è qualcosa che sta immobile al di là del visibile, che non vediamo ma sentiamo». Claudio Damiani, Poesie, a cura di M. Lodoli, Fazi 2010.
Q
uando si debba intraprendere un discorso critico sui rapporti tra disegno e progetto di architettura, lo storico della rappresentazione (almeno quello di questo evo) individua la sua Stele di Rosetta in una serie di contributi che hanno sviluppato il tema nel corso del secolo appena trascorso. Fra tutti, svetta il saggio redatto nel 1986 da Robin Evans (1944 – 1993) dal titolo apodittico Translations from drawing to building1 nel quale lo studioso inglese esamina i complessi rapporti che si instaurano tra il momento dell’ideazione del progetto di architettura e la sua edificazione. Inserendo l’architettura nel novero delle arti, Evans sottolinea l’ampio divario esistente fra alcune di queste: segnatamente, per la pittura e la scultura la distanza che separa il momento dell’abbozzo grafico dell’idea dalla sua fisica realizzazione è spesso brevissimo, se non istantaneo in alcuni casi. Per l’architettura invece questo gap diventa abissale, oceanico e spesso incolmabile, tutti noi sapendo (per esperienza professionale, diretta o indiretta) quali e quanti siano gli ostacoli burocratici, logistici e iletici che si frappongono tra il momento dell’ideazione grafica e la sua concreta attuazione. Evans usa in particolare il verbo ‘tradurre’ per indicare questo moto che dal disegno conduce all’opera, analizzandone l’etimo che per l’autore è da ricondurre al latino translatio, “condurre da un posto 1. Cfr. “A A Files”, n. 12, Londra 1986. Il testo del saggio è stato poi incluso nel volume postumo Robin Evans, Translations from Drawing to Building and Other Essays, AA Documents, MIT press, Cambridge, MA 1997.
53
Dall’uno al due: il pieno in asse Luigi Pellegrino
«Io non credo che si possa creare il bello deliberatamente. Il bello nasce da una volontà di essere che forse ha avuto la sua prima espressione nell’arcaico. Paragoniamo Paestum con il Partenone. L’arcaica Paestum è il punto di partenza. È il tempo in cui il muro si è aperto e sono apparse le colonne, quando nell’architettura è entrata la musica. Paestum ha ispirato il Partenone. Il Partenone è considerato più bello, ma per me Paestum è ancora più bello. È un inizio in cui sono contenute tutte le meraviglie che poi sarebbero seguite sulla sua scia. Le colonne, come un ritmo di chiuso e aperto, e il senso di entrare, valicandole, negli spazi che esse racchiudono, questo è uno spirito architettonico, una religione che ancora prevale nella nostra architettura odierna».1
In
architettura sussistono principi spaziali fondativi su cui gli artefici tornano a riflettere per costruire, un principio antico per una spazialità nuova; uno di questi è rappresentato dal pieno in asse, la struttura portante che occupa l’asse di uno spazio impedendone l’accesso e la fruizione centrale.2 Il pieno in asse, dall’uno al due, da uno spazio a due, uno spazio fatto di due parti, destra-sinistra; ma anche fronte-retro, il corpo dell’uomo, la sua simmetria; questioni su cui Vacchini più volte è tornato, ragionando e costruendo; una genealogia che dalla propria casa a Costa Tenero passa per le elaborazioni di casa Korfer a Ronco, casa Rossi a Pianezzo, casa “delle tre donne” a Beinwil am See, per giungere alla propria casa a Paros. Per non incorrere nel rischio di un’ermeneutica dell’assoluto che include qualsivoglia interpretazione3 proverò – come sempre più spesso mi 1. Louis I. Kahn, Premessa a Notebooks and Drawings of Louis Kahn, 1962; in: C. Norberg-Schulz, Louis Kahn. Idea e immagine, Officina, Roma 1980, p.88. 2. È l’idea che lega strettamente i disegni della Basilica di Paestum degli envoi di Labrouste al progetto della Biblioteca Saint Genevieve a Parigi; è la stessa su cui Francesco Venezia fonda il mirabile progetto per la Stadthalle di Regensburg. 3. «Questa architettura di Vacchini semplicemente appare e non ha bisogno di di-spiegarsi. Certo, tanto più un’opera dichiara la propria auto-nomia, tanto più la critica può liberare la propria etero-nomia, l’interpretazione. L’emeneutica acquista potenza là dove la cosa interpretata prova l’assoluto».
89
La casa a Paros di Livio Vacchini e Silvia Gmür: il tredicesimo capolavoro Fabrizio Foti
«I locali della casa sono disposti lungo uno spazio unico a pianta rettangolare che di volta in volta diventa entrata, giardino, terrazzo, soggiorno, portico, cortile, camera da letto ed infine di nuovo terrazzo. Longitudinalmente la casa è divisa in due spazi affiancati. Essi vengono percepiti e delimitati grazie a tre pareti diverse: a monte, una parete piena contiene il terreno; al centro due pilastri sostengono il tetto; a fronte del mare la parete è “frantumata” in quattro parti, di cui due inclinate per meglio catturare la luce riflessa dal mare e a unire fra loro i due volumi della camera da letto e del soggiorno, separati dal cortile interno».
C
on questa breve nota descrittiva viene presentata, sul sito web dello Studio Vacchini, la Casa a Paros. La descrizione introduce, con estrema chiarezza e sintesi, alcune delle molte questioni di cui si preoccupano Silvia Gmür e Livio Vacchini in quest’opera: la strategia insediativa e la sua rappresentazione; la scelta della posizione e il problema dell’asse della casa; come stare sopra la terra e sotto le stelle; come stare con le spalle rivolte al terreno e la fronte rivolta al mare; come risolvere l’azione di contrasto alla natura, che è propria dell’insediarsi nel pendio; come stabilire un rapporto con l’orizzonte; come risolvere, infine, il problema dell’unità del tutto attraverso la luce. Nella sintesi del tre in uno, nella casa a Paros, Vacchini e Gmür non si limitano solo a capire come questa «modifica la crosta terrestre, come si eleva e come si chiude verso il cielo»1. Nella casa a Paros, la sintesi del tre in uno riguarda soprattutto la soluzione unitaria di tre questioni che sottintendono la volontà di controllare il rapporto con il suolo, con l’orizzonte e con la luce, mediante la concezione della struttura:
1. Livio Vacchini, Capolavori. 12 architetture fondamentali di tutti tempi, a cura di Maura Manzelle, edizioni Libria, Melfi 2017, p.21.
95