INDICE
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Nota
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Introduzione
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L’immagine è un’entità perfetta
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(Vizi pubblici e virtù private dell’immagine)
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Le immagini e lo spazio
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Superluoghi
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Immagini e paesaggi
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L’immagine, la spoglia, l’immaginario
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Imago mortis
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Immagini e figure (un inciso)
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Epilogo
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Bibliografia essenziale
È […] importante tenere a mente un altro aspetto del funzionamento delle immagini che invece è rimasto immutato nel regime digitale: esse sono ancora immagini per noi, per esseri umani in carne e ossa con un equipaggiamento sensoriale e percettivo standard. Non importa che siano figurative o astratte, artistiche o popolari, rappresentazioni tecnico-scientifiche o disegni infantili. In fin dei conti, esse restano segni densi e iconici che acquistano il loro significato nel contesto di un codice analogico, non digitale. […] Non importa quante trasformazioni computazionali attraversi all’interno di un computer: l’immagine digitale, dall’inizio alla fine, è un’immagine, una presentazione analogica. W.J.T. Mitchell
NOTA
Q
uesto libro tratta delle immagini cercando, più in particolare, di indagarne il rapporto con l’architettura, l’arte e i linguaggi della contemporaneità. Un tema per chi scrive antico, iniziato nel 1990 con la redazione di un fascicolo dal titolo Note sull’immaterialismo architettonico o l’eleganza mistica dell’immagine preparato per gli studenti di un corso di Disegno e rilievo della Facoltà di Architettura di Valle Giulia a Roma. Un testo che soltanto con alcune piccole integrazioni è diventato due anni dopo un vero e proprio libro, L’architettura dell’immateriale, scritto insieme a Paolo Zoffoli. Ci si chiedeva, allora con un certo anticipo in questo campo, quale sarebbe stato il futuro dell’architettura e del progetto alla luce del loro coinvolgimento nella sfera dei media e delle immagini. Probabilmente, con una consapevolezza al tempo non così diffusa, si era tuttavia già all’interno di un più ampio fenomeno che stava trasformando radicalmente, insieme ai processi di innovazione tecnologica e dell’organizzazione economica e produttiva dell’Occidente, l’intero assetto della società. Nasceva una nuova “società dell’informazione”, sostenuta dall’esplosione dell’uso dei computer e delle 7
Non vi è comportamento di fronte all’immaginario, perché di una immagine non possiamo fare nulla, perché essa capovolge proprio il rapporto che possiamo avere con l’oggetto, perché, lungi dall’esserne in possesso, […] ne siamo, al contrario, posseduti. Jean Pfeiffer
INTRODUZIONE
A
ffrontare uno studio sulle immagini significa in via preliminare trovarsi di fronte a una messe vastissima di volumi, testi, punti di vista, riflessioni di portata più o meno ampia e più o meno capaci di suscitare interesse. Ma, la cosa che sorprende di più in questa moltitudine, non è tanto la frequentissima sottolineatura da parte degli autori che ci si trovi al cospetto di un sempre più difficile e intricato groviglio, quanto all’altrettanto difficile ma frequentissima possibilità di trovare posizioni (spesso anche soltanto in parte) condivise. Ovviamente, non vi è nulla di opinabile in ciò. Ma è certo singolare constatare che quanto vi è di attualmente più presente, diffuso e in grado di condizionare la vita quotidiana di miliardi di individui – con implicazioni che invadono totalmente le sfere del pensiero e dell’agire contemporaneo – sia un’entità talmente ampia e metamorfica, variabile e sfuggente da non consentire un campo di comprensione e di operabilità al di fuori di studi settoriali e specialistici, ognuno dei quali, a sua volta, sembra infine ricreare il groviglio da cui è partito. Le immagini sembrano aver conquistato, con la loro capacità 13
di vita di miliardi di persone. In sostanza, questa fase segnerà di fatto, una vera e propria transizione verso la maturazione dell’idea che l’aspetto comunicativo del costruire (dell’architettura) fosse di gran lunga più importante che non il risolvere una necessità (una “funzione”). L’architettura ha ovviamente sempre trasmesso valori simbolici potenti, e i segni della storia hanno da sempre costituito il tramite per l’affermazione e la manifestazione di potenza dei committenti. Ma non è tanto di ciò che si parla, quanto piuttosto del fatto che questa transizione nell’universo della comunicazione e dei media sottopone l’architettura stessa alle leggi di funzionamento di tale mondo. Per dirla un po’ provocatoriamente (ma neanche tanto): l’architettura, da rappresentativa, si fa pubblicitaria. In ciò si attua una singolare torsione nell’interpretazione dell’architettura che da arte dello spazio va a intercettare il presente della comunicazione; volgendosi a ciò che è nuovo, in sostanza, e in quanto tale superiore. Régis Debray chiarisce esemplarmente la meccanica dell’informazione di questo processo che è certamente anche rappresentativo per l’architettura: Quel che costituisce il valore, ivi compreso quello di mercato, di un’informazione è la sua novità [e] il mercato dell’arte è informazione tradotta in quotazione. […] L’informazione si misura sul grado di scarto dalla media. […] È per questo che le forme più valorizzate sono oggi le più inattese, perché, facendo più evento di altre, riescono meglio a far parlare di sé. […] Paga solamente lo scarto dal codice; il dovere di originalità personale è diventato una necessità economica materiale, e l’angelo del bizzarro è diventato l’uomo della strada. […] La ricerca dell’optimum informativo, chiamata anche scoop, si rivela essere il solo arbitro che opera nell’arbitrario generalizzato del ‘turbine innovativo perpetuo’.2
2. Régis Debray, Vie et mort de l’image, Gallimard, Parigi 1992; trad. it. di A. Pinotti, Vita e morte dell’immagine, Il Castoro, Milano 1999, pp. 132, 269.
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IMMAGINI FIGURE SIMULACRI
Ma è soltanto una trasfigurazione mistica di quel nuovo che nella prima parte del Novecento l’architettura aveva legato a quella visione progressiva di una collettività liberata dalle macchine. L’immagine cristallina, purissima, e un po’ dura dei suoi edifici si ingentilisce nel filtro della storia, del già veduto e perciò rassicurante, quindi, portando a un’immagine che per affermarsi non ha bisogno della violenza avanguardistica del suo venire al mondo, originale e tale da sconcertare. Non c’è niente da inventare, ma da ritrovare e aggiornare, da ripulire e riproporre, individuando così la fase vintage del Postmoderno: forme antiche e materiali d’avanguardia, tecnologicamente raffinatissime e performanti che rovesciano concettualmente e praticamente l’assunto di Jurij Lotman secondo il quale: Le più grandi idee scientifiche sono in un certo senso affini all’arte: la loro origine è simile a un’esplosione. In complesso, è proprio del progresso tecnico essere poderosamente stimolato dalle necessità pratiche. Perciò il nuovo nella tecnica è realizzazione di ciò che è atteso, mentre il nuovo nella scienza e nell’arte è attuazione dell’inatteso.3
Ora l’inatteso è il perturbante, il politicamente scorretto, lo sconveniente, è ciò che praticamente è da evitarsi. L’architettura-immagine e la tecnica o, meglio, la tecnologia, sua sublimazione pragmatica, sono finalmente ai piedi dell’“atteso” – carezza al gusto del pubblico –, anche se dissimulato nel capriccio o nel (finto) trasgressivo o nell’irriverenza. Le arti visive, la musica, la fotografia, il cinema, l’arte non si può dire che siano rimaste immuni da questa impressionante ondata di cambiamento, di radicale mutamento di paradigma, come si direbbe oggi.
3. Jurij M. Lotman, La cultura e l’esplosione. Prevedibilità e imprevedibilità, Feltrinelli, Milano 1993, pp. 17-18.
INTRODUZIONE
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Non esiste un dizionario del visibile. “L’occhio ascolta”, ma non capisce l’occhio dell’altro Régis Debray
L’IMMAGINE È UN’ENTITÀ PERFETTA
L’
immagine è un’entità così perfetta da apparire come uno dei prodotti più evoluti, sofisticati e recenti del nostro tempo, al punto da essere ritenuta una sua quasi naturale emanazione. Tale è l’ampiezza di propagazione, la pervasività e la consuetudine che ci legano ad essa, al punto di darsi in assoluta continuità col nostro pensiero – di esserne anzi l’emanazione stessa – e di riempire di sé la realtà sino a coincidervi. Tuttavia, se è certo che le odierne, straordinarie tecnologie preposte alla produzione, diffusione e consumo dell’immagine hanno dilatato a dismisura il suo campo d’azione, le sue doti performative – la sua potenza, in effetti – non le impediscono di rinunciare alle prerogative che precedentemente le appartenevano, anzi. L’eleganza mistica dell’immagine (dilatando qui un sentire che, secondo McLuhan, Leibniz intravedeva nel sistema binario) o, prima ancora, la sua straordinaria capacità di mediare tra il visibile e l’invisibile (di essere in qualche modo la dimostrazione dell’esistenza di un altrove e al tempo stesso il veicolo per raggiungerlo), la sua sublime ambiguità (non essere la cosa bensì la sua rappresentazione, ma al tempo stesso 25
Ohimè, il mondo non ha genio, è troppo grande per questo. Ci sono soltanto “geni del luogo”, e il mondo non è un luogo. Neanche un ambiente. Tutt’al più un orizzonte. La genialità, come il vivente, è locale. Minuscola. Macroeconomia, ma microcultura. Solo la morte è immensa. E l’inerte. Régis Debray
SUPERLUOGHI
D
i incerto statuto, ambiguamente sospesi tra ipnotiche ritualità collettive e prosaiche e appaganti bouffes consumistiche; tra conformismo e individualità; tra icasticità e anonimato; tra massificazione e solitudine; tra concretezza e sublimazioni metafisiche; tra riverberazioni immateriali e sopraffazioni oggettuali; tra superficialità e rassicuranti avvolgenze, i “Su1 perluoghi” – il luogo di tutti i luoghi – esigono letture lente e decifrazioni multiple pena l’essere sopraffatti dalla loro fascinazione. Un vero e proprio potere di fascinazione che hanno ereditato da ciò che li ha generati, ovvero l’immagine. Essi sembrano apparentemente “luoghi” e, al contempo, una loro abnorme dilatazione fantastica, che ne altera radicalmente i caratteri rovesciandone il senso (spaziale, dimensionale, percettivo, temporale).
1. Il testo di questo capitolo è stato già pubblicato in Matteo Agnoletto, Alessandro Delpiano, Marco Guerzoni, a cura di, La civiltà dei Superluoghi, Damiani, Bologna 2007, p. 184.
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secoli lo ha alimentato: luogo di realizzazione di quella complessa tessitura di stati e strati della coscienza le cui modalità di funzionamento vennero acutamente delineate e interpretate da Kenneth Clark nel suo memorabile Landscape into Art.6 Opera di inventori di immagini, il paesaggio è il risultato di un lungo, paziente e durissimo lavoro di individui che di questo fanno lo scopo della loro esistenza. Come dirà Rainer Maria Rilke: Si può ben capire che questi ultimi sono gli artisti: poeti o pittori, compositori o architetti, uomini profondamente solitari che rivolgendosi alla natura, preferiscono l’eterno all’effimero, ciò che è governato da leggi profonde a ciò che capita casualmente, uomini che, dal momento che non possono convincere la natura a partecipare alla loro vita, riconoscono nel dovere di comprenderla il loro cómpito, così da poter trovare da qualche parte, nel suo ordine grandioso, una propria collocazione. E grazie a questi solitari individui, l’intera umanità si avvicina alla natura. Non è forse vero che il valore più grande e forse il più singolare dell’arte sta nel suo essere il mezzo nel quale si incontrano l’uomo e il paesaggio, il mondo e la forma? In realtà essi vivono fianco a fianco, quasi ignari uno dell’altro, e in un quadro, un edificio, una sinfonia – in una parola, nell’arte – sembrano unirsi per così dire in una più elevata, profetica verità, come rispondessero a un reciproco richiamo, ed è come se a vicenda si completassero in una perfetta unità che l’essenza dell’opera d’arte rivela.7
Quanto veri e quanto distanti appaiono oggi questi pensieri rispetto a un sentire il paesaggio per lo più limitato all’interno dei confini di una disciplina che lo ha progressivamente isolato, spesso in un inespressivo simulacro, digitalizzato, relegato a luogo di esercitazioni esornative e estenuati sentimentalismi che selezionano dalla natura la quintessenza del gradevole e del
6. Kennet Clark, Landscape into Art, John Murray, Londra 1949; trad. it., Il paesaggio nell’arte, Garzanti Editore, Milano 1985 (1962). 7. Rainer Maria Rilke, Worpswede. I postimpressionisti tedeschi e la pittura di paesaggio, Claudio Gallone Editore, Milano 1998, pp. 21-22.
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IMMAGINI FIGURE SIMULACRI
fuggevole, lasciando tutto il resto (si fa per dire) ai bollettini meteorologici, alle cronache dei disastri ambientali, ecc. Tuttavia, non è che la volontà d’arte e di paesaggio abbia capitolato. Al contrario, è più forte che mai, se si considerano le nostalgie. Ed è proprio lì il punto dolente: serve ormai una volontà meticolosa, per rianimare i contorni, restaurare i prestigi, perché essi hanno lasciato la prosa del quotidiano e l’istintivo delle pupille. Sono diventati affari di programmazione, celebrazione, direzione, ispezione, regolamentazione. Di paesaggisti e di animatori. Sistemazione del territorio nazionale, Direzione dei parchi naturali, Delegazioni delle arti plastiche, protezione dei siti, ministeri dell’Ambiente e della Cultura. Il paesaggio e l’arte prima erano vissuti, adesso sono costruiti. Come se amministrassero una sopravvivenza diligente e inquieta. Fine del godimento, ripresa di soluzioni tecniche. Assegnato alle riserve regolamentari e agli spazi verdi, scartato dai nostri centri di vita quotidiana, fotografato, teorizzato e quadrettato, il paesaggio postmoderno fa un’eco beffarda alla cultura del patrimonio.8
E per quanto innovativi sul piano operativo e carichi di attraenti suggestioni teoriche, temiamo che non potranno esserci di grande aiuto i terzi o quarti paesaggi a ricomporre i lembi di una frattura perpetrata dalla cultura contemporanea nei confronti della natura di cui è ormai persino impossibile percepirne la portata e l’ampiezza. All’origine di questa fantasmatica e depotenziata presenza della natura nell’attuale paesaggismo non è da escludere che vi sia, come per altre vie sostiene Roberto Calasso, la nascita di quella “singolare religione nuova” [che] anticipava il culto delle vacances [e] il tono deferente con cui la parola [natura] sarebbe stata pronunciata centocinquant’anni dopo, il bigottismo verso gli ortaggi santificati.9
8. Régis Debray, Vita e morte dell’immagine, op. cit., p. 165. 9. Roberto Calasso, La Folie Baudelaire, Adelphi, Milano 2008, p. 32.
IMMAGINI E PAESAGGI
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