Indice
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18
24
Questo non è un manifesto (2015)
Modelli (2015)
L’Archivio di figure (2014)
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35
41
Immagini come costruzione simbolica (2020)
Roma come Modello (2006)
Riabitare il centro storico (2010)
con Carmelo Baglivo
versione preliminare dell’autore ad un testo Ian+
46
60
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Un modello per la città sostenibile, Roma (2011)
Emptiness (2005)
Microutopie (2004)
versione preliminare dell’autore ad un testo Ian+
con Alberto Iacovoni
versione preliminare dell’autore ad un testo Ian+
versione preliminare dell’autore ad un testo Ian+
71
80
87
Architettura come sistema ecologico (2007)
1968_L’inevitabile dissoluzione dell’architettura (2018)
Le mostre di architettura come spazi di raccolta dei saperi. Allestire_ Curare (2020)
con Carmelo Baglivo
96 Per l’ultima volta (2019)
125 Un’immagine
101 104 Educare all’architettura (2019)
The Booklist (2013-2019)
Questo non è un manifesto (2015)
L
a scrittura è la premessa necessaria di un lavoro costante sul progetto. La narrazione parte sempre dalla storia, la trasfigura, portando il discorso su campi diversi. In questo racconto sul progettare appaiono e scompaiono rapidamente luoghi, si attraversano discipline, libri, città e film mai raccontati completamente, immagini assenti eppure presenti perché parti essenziali della memoria collettiva: un labirinto di parole in cui sono raccolti testi scritti negli anni, seguendo un nuovo montaggio di senso. Alcuni descrivono il lavoro di ricerca svolto con lo studio IaN+ (1997-2015), in particolare sono riflessioni condivise negli anni con Carmelo Baglivo, altri si soffermano sulla costruzione mentale del progetto attraverso modelli di diverso tipo. È un viaggio nella memoria che vuole riscoprire tracce utili a definire le radici di un’idea di architettura non per forza legata alla sua costruzione fisica. Il racconto dei progetti costruiti non a caso è omesso. Come il protagonista del film La Jetée1(1962) di Chris Marker, ho provato a viaggiare tra tempi diversi della mia ricerca per ricostruire un processo immaginativo. La Jetée è una pellicola fatta di immagini statiche accompagnate da una voce narrante, un’unica sequenza al centro del film è animata. Inizia con il volto di una donna sulla terrazza dell’aeroporto di Orly e la contemporanea uccisione di un uomo, unica immagine sopravvissuta a una misteriosa guerra. Parigi è distrutta. Il mondo è inabitabile, perché invaso da radiazioni letali. Chi è scampato al conflitto vive sottoterra tentando in tutti modi di trovare una soluzione ai problemi di sopravvivenza. C’è bisogno di cibo, medicine e risorse di energia per continuare a vivere. Sotto la supervisione di inquietanti scienziati, alcuni prigionieri vengono usati come cavie per esperimenti di viaggi nel
1. Marker Chris, La jetée: ciné-roman, Zone Books, Princeton, 2008.
tempo per sapere dalle generazioni future come sono riuscite a sopravvivere. La memoria del protagonista funzionerà da carburante per l’esperimento degli scienziati. Esiste una relazione tra questo film e il fare architettura che va oltre il titolo. La Jetée è la grande terrazza panoramica dell’aeroporto di Orly dal quale si guardavano gli aerei decollare e atterrare al tempo della sua apertura. L’architetto, attraverso l’accumulazione, il montaggio e la selezione delle informazioni custodite nella memoria, crea delle strutture logiche che lo aiutano a comprendere il mondo, esattamente come avviene per il protagonista del film. Diverse poetiche si combinano tra loro e cercano attraverso il dialogo nuove forme d’espressione, che cambiano di continuo perché, cercando di definire un’unica forma, si corre il rischio di creare un linguaggio che toglie significato al progetto. Il linguaggio, infatti, definisce un punto di vista alternativo che impedisce all’architettura di crescere. La teoria è forse il limite tra queste forme in continuo divenire. In questo libro ho cercato di ricomporre una lunga riflessione, ripercorrendo le tracce di un’idea di architettura che non sempre ha trovato una sintesi tra le diverse forme del progettare.
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Questo non è un manifesto (2015)
Questo non è un manifesto (2015)
versione preliminare dell'autore ad un testo di Ian+
Oggi si parla molto della necessità di essere radicali, di fare un’architettura all’avanguardia, di inseguire la tecnica delle immagini che invadono lo spazio reale e virtuale. Tutto questo provoca in chi come me continua a occuparsi del progetto nello stesso modo di sempre, una difficoltà a trovare la propria posizione. Mi sento confuso e la confusione è necessaria per capire e per capirsi. Ho così cominciato a fare una lista delle cose che ritengo importanti nel mio lavoro di progettista e a riflettere sull’esigenza di usare il progetto come strumento di ricerca. Volevo scrivere un manifesto che mi rappresentasse senza bisogno di pubblicarlo. Ma scrivendo, mi sono accorto che questo non è un manifesto, ma una lista di tutto quello che non vorrei fare attraverso il progetto, «Le definizioni limitate e tradizionali di architettura e dei suoi mezzi hanno oggi perduto in buona parte validità. Il nostro impegno è rivolto all’ambiente come totalità, e a tutti i mezzi che lo determinano. Alla televisione come al mondo dell’arte, ai mezzi di trasporto come all’abbigliamento, al telefono come all’alloggio. L’ampliamento dell’ambito umano e dei mezzi di determinazione dell’ambiente supera di gran lunga quello del costruito. Oggi praticamente tutto può essere architettura»2. Oggi l’architettura è totalmente autoreferenziale, auto-genera una conoscenza. L’architetto non ha più bisogno della città come luogo della rappresentazione, ma ha bisogno dei media. Questo ha allargato il campo di azione e rappresentazione avvicinando l’architettura a quel mondo liquido teorizzato a Bauman, indebolendola e allontanandola dall’essere disciplina autonoma3, o regolata da leggi interne. Il valore
2. Hollein Hans, Tutto è architettura Alles ist ArchiteKtur, in "Bau Magazine", n. 1/2, 1968. 3. Usare questo termine è un rischio non tanto per il suo vero significato ma per quelli che gli vengono attribuiti. Io lo sto usando senza attribuirgli significati politici, senza riferimenti alla tradizione dell’architettura italiana, senza considerare l’architettura come disciplina isolata dalla realtà. L’architettura deve essere considerata una disciplina autonoma da tutto ciò che ne deforma i significati più profondi, legati al dare forma allo spazio. Architettura nel suo senso più ampio, come cognizione di tutte le arti e scienze che hanno rapporto con il costruire.
sociale dell’architettura si basava appunto su queste prerogative, mentre ora si basa sul consumo dei luoghi e degli spazi. Hans Hollein negli anni Sessanta rompe con l’immagine idilliaca dell’architettura, sostituendola con la produzione di oggetti d’uso comune dichiarando che «tutto è architettura»; non pensa più in termini di stile, di convenzionali opere architettoniche, ma considera l’architettura come l’arte, espressione dello spirito umano. Architettura e territorio si fondono quando una portaerei diventa una struttura che crea un paesaggio antropizzato, nessun elemento prevale sull’altro. Le parole di Hollein assumono oggi un significato ancora più profondo, nel momento esatto in cui tutto è diventato realmente architettura. Ma se tutto è architettura, è sempre più difficile comprendere il tipo di spazi che la caratterizzano e quale pratica sia giusto seguire. Sono fermamente convinto che sia opportuno praticare l’architettura come disciplina di pensiero e progetto, andando oltre la semplice produzione, sia essa di forme o di oggetti. Una dichiarazione questa, che prende forma in Microutopie, un progetto che partiva proprio dall’assunto di Hollein, ribaltandone però i termini: quattro portaerei venivano rifunzionalizzate e rese disponibili alle comunità locali. Così trasformate, queste grandi navi da guerra diventano qualcosa di completamente nuovo: non sono più armi ma neanche edifici tradizionali, diventano piuttosto strategie operative, modelli di lavoro che restituiscono autonomia alla disciplina architettonica. L’architettura assume potenzialmente un significato diverso. Si tratta di un’operazione inversa rispetto a quella effettuata da Hans Hollein, che riporta una portaerei isolata nel deserto all’interno del suo contesto naturale, il mare. In questo modo, si dà valore all’architettura, che ritorna a essere una forma di progetto. La portaerei non è più un oggetto che si trasforma in architettura, ma una realtà oggettiva, un fatto architettonico, che attraverso il programma struttura il suo territorio. Con un progetto di architettura è fondamentale seguire le richieste del mercato e costruire “buoni” edifici, ma è altrettanto fondamentale fare in modo che il progetto continui a essere uno strumento di pensiero interpretativo della realtà. L’architettura non deve solo prefigurare il futuro ma deve crearne le condizioni, dando forma alla realtà del presente. Per farlo è necessario un atteggiamento culturale che si
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L’Archivio di figure (2014)
L’Archivio di figure (2014) Il mio Archivio è composto da frammenti integri e modificati, estratti da immagini raccolte per motivi diversi. In ogni caso la loro origine è importante, perché custodisce tempi e luoghi che interagiscono con la memoria. Cartoline, fotografie d’architettura, paesaggi e foto personali si sovrappongono di continuo e i frammenti che ne derivano acquistano un carattere seriale. Heinrich Wolfflin18 più volte sottolinea nel suo lavoro l’importanza di leggere i dipinti come elementi di una serie piuttosto che come opere singole. La serialità contiene e definisce l’origine dell’opera, in relazione con la natura che l’ha ispirata. Ogni serie è una riflessione su un argomento specifico. Le cartoline definiscono con precisione luoghi e architetture che di per sé hanno un’iconografia ben definita, così come le fotografie di architettura raccontano edifici canonici la cui importanza formale li rende perfetti ed efficaci nella loro adattabilità e riconoscibilità. Questi edifici, anche se stravolti e reinventati, mantengono intatta la loro origine e possono essere letti come elementi seriali. Le foto personali definiscono una serie di per sé, essendo pensate direttamente per essere utilizzate in un determinato montaggio piuttosto che un altro. Il problema è legato a come rileggere le immagini alla luce del fatto che le immagini stesse assommano quelle che Georges Didi-Huberman chiama «memorie spettrali». Per Didi-Huberman le immagini sono «uno straordinario insieme di tempi eterogenei» e di conseguenza la storia dell’arte necessita di configurarsi come disciplina fondata su una temporalità che tenga conto del fatto che passato, presente e futuro non sono tre entità distaccate, ma convivono unite da forti vincoli. Le immagini assumono forza attraverso l’anacronismo, ovvero la simultanea presenza di due epoche; lo scontro percettivo tra tempi diversi produce sempre nuovi significati.
18. Wolfflin Heinrich, Principles of art history: the problem of the development of style in later art, Dover, New York, 1950.
Cartoline Nelle cartoline per molto tempo, e ancora oggi, sono raffigurati luoghi speciali, monumenti, centri storici, paesaggi, frammenti di una realtà frenetica, ma c’è stato un tempo in Italia che questa forma di fotografia ha preso strade inesplorate, raccontando un’altra Italia popolare, periferica, reale. Era il momento in cui anche uno spazio privato poteva essere condiviso con amici e parenti, un luogo reale sostituito oggi dal voyerismo ostentato dei social. Custodi della memoria dei luoghi, le cartoline ci permettono di riflettere sui luoghi prima della loro contaminazione. Raccontano i cambiamenti delle città attraverso il confronto tra tempi diversi, quello dell’immagine e quello del loro utilizzo. I luoghi rappresentati assumono un ruolo chiave nella definizione dei montaggi. Josef Albers acquistava cartoline dei posti in cui viaggiava per prepararsi al viaggio, ma allo stesso tempo per usare le stesse immagini come traccia della sua osservazione reale19. Nei suoi montaggi di fotografie le cartoline occupavano un posto centrale, poi lo stesso Albers smontava l’immagine commerciale in un’infinità di dettagli dell’opera che lui stesso fotografava. Walker Evans collezionava cartoline. All’inizio della sua carriera rappresentavano per lui un riferimento preciso al tipo di inquadrature da realizzare. L’iconografia della cartolina, tipicamente riconosciuta da un vasto pubblico, era il riferimento ideale per un fotografo alla ricerca di un modo di osservare il mondo20. Fotografie I fotografi da sempre osservano il mondo. Questo guardare si fonda sul rapporto tra il tempo dello sguardo e il tempo narrato, due momenti che non sempre coincidono. Le prime fotografie d’architettura, riconosciute come tali, sono
19. Albers Josef, One and one is four: the Bauhaus photocollages of Josef Albers, The Museum of Modern Art, New York, 2016. 20. Cheroux Clément, Walker Evans, San Francisco Museum of Modern Art, San Francisco, 2017.
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L’Archivio di figure (2014) - Immagini come costruzione simbolica (2020)
datate alla fine dell’Ottocento. Nel corso del tempo sono cambiate molte cose, la tecnica digitale ha sostituito in parte il lavoro su pellicola, le modalità di lavoro dei fotografi e quindi anche l’accesso agli archivi. Ma il grande cambiamento lo misuriamo dal tempo del consumo dell’immagine stessa. Alcune restano nella loro immortalità, altre, pur segnando la storia dell’arte, forse le dimenticheremo. Ma il problema di questa estetizzazione purtroppo non è nell’occhio del fotografo che documenta, ma nella perdita di ogni capacità di valutazione di chi oramai si è abituato a consumare immagini senza nessun limite. Isolare dei frammenti di queste immagini vuol dire amplificare l’eco del loro significato, in qualche modo salvarle pur distruggendole e sostituendole con qualche cosa d’altro. L’archivio custodisce anche le fotografie che scatto io stesso, utilizzate fin dall’inizio per cercare spazi da raccontare. Da queste fotografie estraggo frammenti precisi la cui ricerca deriva dal mio vagabondare per lo spazio urbano. Manipolarle significa rifiutare l’uso della fotografia come forma di rappresentazione di per sé e amplificare il valore della costruzione dell’immagine come forma di narrazione. Libri Raccolgo da anni attraverso il blog The-booklist appunti su libri che in un certo modo contribuiscono a costruire la mia idea di mondo. Di molti di questi libri ci sono tracce sparse lungo tutti i testi e la descrizione di quelli più importanti per il mio lavoro sono raccolti alla fine di questo volume.
L
e immagini sono segni che trasmettono delle scelte e dei giudizi sulla realtà, diventando esse stesse una nuova realtà. Ma è anche vero che le immagini partecipano di una realtà altra, e che in questa indistinta, più misteriosa funzione, sono accolte in forma di fotografie come dei minuscoli oggetti artigianali in un sistema di riferimenti che oltrepassano ogni dato naturalistico e acquistano significati simbolici. Sono uno spazio di riflessione, un luogo fantastico in cui esercitare l’immaginazione e farla dialogare con la memoria. L’immaginazione non è la fantasia, ma una facoltà che percepisce i rapporti intimi e segreti delle cose, le corrispondenze e le analogie. È lo strumento di montaggio per eccellenza. «Il montaggio appare un’operazione della conoscenza storica nella misura in cui caratterizza anche l’oggetto di tale conoscenza: lo storico rimonta i rifiuti perché hanno in sé la duplice capacità di smontare la storia e di montare insieme i tempi eterogenei, già stato e adesso, sopravvivenze e sintomi, latenza e crisi». (Georges Didi Huberman) «L’immagine culturale è sempre in trasformazione. La percezione è sempre in qualche modo un passo indietro, incatenata alla narrazione e in uno stato perpetuo di parziale consapevolezza e dominata da un insoddisfatto desiderio di completamento». (John Stezaker) «Un solo uomo non è in grado di creare una forma, così anche l’architetto. L’architetto prova e riprova a realizzare questo fatto impossibile e sempre senza risultato. La forma e l’ornamento sono il risultato di una inconsapevole collaborazione di individui che istituisce un intero ciclo culturale». (Adolf Loos) «È semplice fare un collage e può essere fatto rapidamente. È divertente fare un collage e allo stesso tempo suscita sospetti; è semplicemente troppo semplice, troppo veloce. Molte persone pensano che non sia abbastanza rispettabile
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Educare all’architettura (2019)
Ma è anche uno strumento per capire il valore dell’architettura che non solo è legata alla costruzione fisica dello spazio ma anche alla sua costruzione mentale. Cosa è necessario fare per migliorare l’architettura in Italia? Educare le persone a riconoscerla, questo si può fare attraverso gli edifici, ma anche attraverso il racconto dell’architettura stessa.
Educare all’architettura (2019) L’architettura è un processo in cui non si producono solo edifici ma anche conoscenza. Pensare a una proposta legislativa sull’architettura, oggi più che mai, significa spostare l’attenzione sul tema dell’educare alla qualità dello spazio, formare un pubblico e un’intera classe dirigente e far comprendere le problematiche inerenti l’architettura. È necessario produrre le condizioni culturali che rendano possibile la costruzione del progetto, perché la qualità architettonica è prima di tutto un bene comune, un valore da difendere. Il progetto si costruisce solo su una cultura condivisa. Non esiste un’unica strada per educare all’architettura, ma una sinergia di azioni che lo rendono possibile, dall’educazione scolastica all’informazione, dai musei alle istituzioni, ma soprattutto attraverso le amministrazioni. Alla fine degli anni ‘70 l’artista americano Paul Thek (1933-1988) distribuiva ai suoi studenti della Cooper Union di New York, una sorta di questionario, composto da domande di diverso tipo, non direttamente collegate all’opera d’arte o alle sue forme di costruzione. Semplicemente le domande di Thek servivano a creare le condizioni per intraprendere un viaggio all’interno del mondo, che poi l’arte doveva rappresentare. What does this school need? This room? You? This city? This country? La costruzione di senso era orientata in una direzione precisa, basata sull’esperienza personale dello spazio. L’architettura non è un mero oggetto di speculazione formale, ma prima di tutto una costruzione culturale, il suo insegnamento si deve integrare con l’osservazione delle attuali condizioni urbane. Cosa scriveremmo oggi su un questionario che pone domande sull’architettura, se non gli slogan che siamo abituati ad ascoltare? Più verde, sostenibilità, progresso tecnico. Ma non basta. Perché l’architettura è un’altra cosa, è la forma del mondo che abitiamo. Per capirla è necessario riuscire a superare una precisa idea di linguaggio e costruire invece un metodo attraverso il quale l’architettura stessa diventi uno strumento di lettura di ciò che ci circonda.
100-101
Un’immagine
ma nelle immagini dell’esplorazione spaziale. L’immaginario pop che già si affermava negli stessi anni, attraverso una prima ricerca artistica sui nuovi mezzi di comunicazione di massa, riceveva dalle fotografie della terra un modello di semplicità capace di unire lo straordinario con l’ovvio e l’inaudito con il consueto. Il passaggio a un’estetica postmoderna è avvenuto dunque in modo del tutto naturale nelle immagini provenienti dallo spazio e forse anche per questo la famiglia di fotografie che ritraggono la terra a figura intera ha finito per influenzare maggiormente la percezione pubblica dell’era spaziale»69. La terra, la luna, e il Pantheon trasfigurato sono anche l’inizio di un percorso di lavoro sul montaggio, hanno un’origine precisa. Paolo Soleri negli anni ‘70 immaginava una città nello spazio che ruotava sul suo asse per ricreare la gravità, l’immagine di questo progetto mi ha sempre riportato alla mente il Pantheon, per questo l’ho usato per dare forma alla mia prima architettura spaziale. Era un modo per ricordare Roma anche in un luogo altro, questa è la prima immagine del progetto di tesi, poi cambiato completamente. Il collage originale lo cerco da anni, non riesco a trovarlo, ma l’ho ricostruito e usato più volte nel corso del tempo.
69. Catucci Stefano, Imparare dalla Luna, Quodlibet, Macerata, 2010, p. 87.
Stazione Spaziale 1990-2020