Rigenerare periferie fragili

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Indice

Nota introduttiva

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di Elena Fontanella

Periferie urbane come territori fragili: (verso) traiettorie di rigenerazione

8

di Elena Fontanella

Abitare l’intra-pandemia

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Gli interni come ritrovata frontiera (incerta) dell’abitabilità di Marco Borsotti

Il progetto per le periferie si gioca nella relazione tra spazio e comunità

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di Francesca Cognetti

Progettare per ricostruire le periferie pubbliche procedendo “passo dopo passo”

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di Anna Delera

Un progetto per luoghi orfani del progetto

64

di Andrea Di Franco

“La coscienza di ciò che si fa”: case e periferia nel contesto milanese di Marco Lucchini

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La metamorfosi delle periferie: lo spazio pubblico come paradigma

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Temi e categorie per una micro-grammatica generativa di Filippo Orsini

Periferie tra spazio e società: un problema “maligno”

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di Gabriele Pasqui

Esiste oggi un’idea di città che guidi il progetto per la rigenerazione delle periferie?

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di Orsina Simona Pierini

Rendita urbana e pianificazione anti-fragile

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di Laura Pogliani

Postfazione

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Le periferie sospese tra ritrovata centralità e (temporaneo) accantonamento? di Agostino Petrillo

Gli autori

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Periferie urbane come territori fragili: (verso) traiettorie di rigenerazione Elena Fontanella

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Periferie: sostantivo femminile plurale

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Rigenerare periferie fragili

S

ono molte le parole con cui nominiamo gli ambiti urbani periferici nei diversi contesti disciplinari e geografici, nelle diverse lingue, nel linguaggio corrente e in quello scientifico. «Ghetto negli Stati Uniti, banlieue in Francia, quartieri periferici (o degradati) in Italia, problemområde in Svezia, favela in Brasile e villa miseria in Argentina: le società del Nord America, dell’Europa occidentale e dell’America del Sud hanno tutte a disposizione nel loro lessico topografico un termine speciale per designare i quartieri stigmatizzati, situati nella parte inferiore del sistema gerarchico di luoghi che compone la metropoli» (Wacquant 2016, 29). Con il trascorrere del tempo, la specificità di questi termini, spesso molto radicati ai contesti geografici di riferimento, sembra aver lasciato posto a una crescente ambiguità e sfocatura dei significati racchiusi, e a una maggiore varietà dei luoghi nominati. Il termine “periferie” è pienamente investito da questo processo. Proprio per questo, guardare alla sua etimologia consente di assumere un riferimento rispetto al quale misurare le variazioni di senso attraversate. Dal greco peri- (intorno) e phérein (portare), “tracciare una circonferenza”, il termine rimanda ad origini lontane, che richiamano il significato legato alla distinzione di un interno da un esterno attraverso il tracciamento di un segno, cui è legata la proprietà di includere e di escludere. Alla stessa origine può essere ricondotto l’implicito rapporto


Abitare l’intra-pandemia Gli interni come ritrovata frontiera (incerta) dell’abitabilità

Marco Borsotti

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Introduzione

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Rigenerare periferie fragili

V

orrei concentrare le mie riflessioni sull’attualità più stretta, ovvero sul transitorio pandemico, che ormai ha sempre meno le caratteristiche di temporaneità e su quanto le nuove regole sociali, che con esso abbiamo dovuto forzatamente assumere, stiano modificando i nostri modelli di abitabilità degli spazi costruiti. Se, guardando all’espansione urbana degli anni Quaranta-Settanta ed alla prevalenza della scelta italiana di vivere in appartamento, nei nuovi agglomerati residenziali realizzati nelle cinture periferiche, De Pieri parla di casa come «luogo di ricodificazione dei ruoli di genere e dei comportamenti generazionali» (De Pieri 2013, XIV), oggi, in maniera ben più estensiva, sono proprio i principi stessi in base ai quali individuiamo e valutiamo la capacità degli ambienti di ospitarci e quindi di aderire o condizionare le nostre istanze di vita, che appaiono più che mai da rimettere in discussione, sia in termini di disponibilità di spazio (connotazione dimensionale), sia in termini di configurazione (connotazione formale). Aspetti che le spinte limitative del nuovo sistema interpersonale di relazioni conseguente alla pandemia, rendono oggetto di un urgente e complesso lavoro di rinegoziazione. Non si tratta di una visione utopica: le istanze di cambiamento sono molte e complesse ed hanno radici che precedono anche l’attualità pandemica: basti pensare alla visione “glocal” che l’economista Jeremy


«La coscienza di ciò che si fa»1: case e periferia nel contesto milanese Marco Lucchini


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1. “La coscienza di ciò che si fa” è un racconto di Giovanni Testori scritto nel 1958 e ripubblicato da Feltrinelli nel 2012 nella raccolta I segreti di Milano.

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Rigenerare periferie fragili

L

a profondità semantica del termine periferia rimanda a una “questione” complessa e variegata, denotata non solo dallo stare ai margini, non necessariamente geografici, di una realtà che si presume centrale, ma soprattutto da un persistente disagio sociale e da un generale senso di emarginazione e abbandono. La percezione della periferia milanese, nell’accezione più comune, corrisponde a una disordinata compagine di fabbriche, residenza operaia e piccolo borghese con pochi servizi. La situazione è oggi molto cambiata: la localizzazione di funzioni centrali e direzionali anche in periferia (Valtolina 2019) inclusi i poli universitari dei grandi Atenei (Bicocca, Bovisa Politecnico, IULM, San Raffaele), la costruzione di quartieri destinati alla fascia alta del mercato immobiliare e i diffusi grandi attrattori ludico-commerciali, hanno innescato un processo di ibridazione, tale da spingere alcuni ad affermare che la periferia non esista più (Ciorra 2011). L’uniformità del disordine delle periferie industriali ha lasciato spazio a più accentuati contrasti tra aree abitate, che erano e restano emarginate, luoghi investiti da un rapido rinnovamento e altri in abbandono. Questa condizione riflette il prevalere


La metamorfosi delle periferie: lo spazio pubblico come paradigma

Rigenerare attraverso l’architettura

Il tema della publicness dell’edificio o il ruolo collettivo dell’architettura civica

Il valore aggiunto di un oggetto architettonico è il suo spazio pubblico o l’integrazione di uno spazio pubblico nel suo spazio fisico. Interventi basati sulla revisione critica di alcune tipologie consolidate di edifici pubblici, da utilizzare come strumenti di comprensione di contesti che soffrono di una mancanza di socialità, urbanità e di ordine formale, possono dimostrare la capacità dell’architettura di migliorare quei luoghi in cui si manifesta e stratifica la memoria della vita sociale. La publicness definisce la capacità di un oggetto architettonico di influenzare il suo contesto fisico e sociale. Non è l’esito della semplice adesione ad un programma funzionale che preveda una certa percentuale di funzioni pubbliche ma un plug-in nel corpo architettonico. La publicness è il risultato di un processo che integra spazi per il pubblico che non suggeriscono necessariamente usi predeterminati, ma in grado di influire sul ciclo quotidiano di vita individuale di gruppi sociali. Alla fine, l’oggetto architettonico viene visitato, percepito e vissuto dalla società più per la sua publicness che per la sua destinazione d’uso primaria. La publicness è l’innesto del locus. Alcuni esempi di traduzioni al suolo del ruolo civico e collettivo dell’architettura, che si rende porosa ed aperta alla collettività, attraverso la conformazione del foot-print del suo pochè urbano, è possibile ritrovarli nelle soluzioni d’angolo predisposte per il Gorla Living Market – testimonianza della cultura materiale del cibo, all’inclusione sociale tramite il mercato alimentare sociale ed un food-lab – piuttosto che nel Campus scolastico di Adriano 60. Qui la funzione educativa principale diviene complementare rispetto al ruolo di landmark pubblico, snodo sociale tra il futuro parco lineare (ex-elettrodotti), l’aménagement della rinnovata sezione tramviaria di Adriano, i tessuti urbani vecchi e nuovi del quartiere, ed i centri di aggregazione ed associazioni già esistenti. Quest’indagine sulla spazialità in-between (Van Eyck 1959), come luogo dove cose differenti si possono incontrare e congiungersi, ma anche come un’apertura che permette all’uomo la conoscenza (Heidegger 1976) è possibile riscontrarlo nella Biblioteca di Lorenteggio, non solo un luogo per leggere, 94


Filippo Orsini

studiare e promuovere la cultura in aree densamente popolate, ma in grado di favorire la coesione sociale e l’inclusione tra i vari gruppi di utenti (anziani, giovani, famiglie di etnie diverse) e migliorare la sensazione di sicurezza grazie alla sistemazione degli spazi verdi pubblici adiacenti. O come nell’ipotesi per la Stazione di Bovisa, non più mero luogo di scambio e passaggio, ma un nuovo common-ground pubblico identitario a scala di quartiere, che basandosi su logiche di attraversamento e collegamento configuri nuovi rapporti di continuità spaziale ed ecologica, tra i due nodi del Polo Universitario Polimi ed il quartiere storico di Bovisa, fissando così una nuova centralità urbana nella topografia del nord di Milano.

Trasformare attraverso i vuoti

Il tema dei vuoti significanti o il ruolo produttivo degli spazi aperti residenziali

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Rigenerare periferie fragili

L’uso pubblico del sistema degli spazi aperti legati ai grandi insediamenti residenziali collettivi si è rivelato essere un importante tema di riflessione critica e operativa, nato quasi in presa diretta rispetto alla costruzione degli stessi quartieri in tutta Europa. Sin da subito erano emerse evidenti criticità, legate a concezioni di società idealizzate portatrici di altrettanto ipotetici valori comuni. Nei quartieri ERP, il vuoto politico delle istituzioni, il vuoto sociale delle nuove forme di povertà, il vuoto intellettuale, incapace di proporre soluzioni adeguate, ha comportato una progressiva mutazione della sequenza tipo tra insediamenti umani per l’abitare ed il relativo sistema degli spazi aperti. Per ristabilire queste qualità di relazione, bisogna che il vuoto venga nuovamente interpretato come dispositivo spaziale in grado di essere produttivo sia sotto il profilo sociale che economico. La necessità di riuso/riattivazione di quest’enorme eredità dell’edilizia sociale è ormai fuori d’ogni dubbio. Soprattutto nello scenario post-pandemico, una tra le possibili visioni di riattivazione strategica, potrebbe consistere in sistemi di produzione agricola, a sviluppo prevalentemente verticale, collocati nella corona dei vuoti residuali e di margine lungo i bordi dell’area metropolitana, oppure nei sistemi di spazi aperti dell’edilizia sociale e popolare (ERP).


Periferie tra spazio e società: un problema “maligno”

Gabriele Pasqui


Il Professore – Quello delle periferie è certamente un problema “maligno”. Un wicked problem, proprio nel senso che Charles Rittel e Melvin Webber davano a questa espressione (Rittel e Webber 1973). È maligno perché la sua stessa definizione è problematica, incompleta, contraddittoria. Perché a oggi, non solo in Italia e nonostante sperimentazioni molto interessanti, non è ancora chiaro quali siano le leve da utilizzare, quali le risorse da impegnare se vogliamo ripensare 103

Rigenerare periferie fragili

L

e note seguenti assumono la forma di un dialogo. La ragione è che su un tema come quello del progetto per le periferie io stesso ho poche certezze, e credo sia necessario un pensiero libero da pregiudizi. I tre personaggi sono naturalmente di fantasia, anche se ispirati al dialogo aperto con amiche/i e colleghe/i. Se qualcuno di loro si riconoscerà in parte nei tre personaggi, spero non se ne abbia a male. Le tre voci (e le tante altre che in questo dialogo restano silenziose, a partire da quelle degli abitanti, degli attivisti, dei funzionari pubblici) rappresentano dunque delle prospettive che a mio avviso dovrebbero trovare un terreno comune di dialogo e di sperimentazione, anche per dare forza a progetti insieme pragmatici, possibilisti e visionari, capaci di attivare competenze e risorse diverse senza dimenticare chi, nelle periferie, vive nelle condizioni di maggiore disagio e difficoltà.



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