Riabi(li)tare una fabbrica

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Indice


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Presentazione Maria Argenti

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Vivere in una fabbrica. Dai loft alle ultime sperimentazioni 13 Il loft. Un nuovo tipo abitativo 22 L’essenza del loft 25 Guardare oltre. Strategie di riconversione

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Introversione 29 Uno, grande, vuoto 34 Scavo e sottrazione 40 Giustapposizioni interne 42 Spazi compressi e complessi

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Estroversione 49 Sopraelevazioni e coronamenti 55 Giustapposizioni esterne 60 Nuovi volumi 64 Trame della città

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Colonizzazione 70 Antecedenti e richiami 72 Modulo abitativo parassita 76 Abitare in un “mobile” (per un po’) 81 Modulo servente

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Sovversione 86 Antecedenti e richiami 86 Cannibalismo architettonico 93 Sovraccaricare, sovradimensionare 94 Abitare in un silos

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Punti in comune. Il progetto di riconversione ad uso abitativo 99 Correzioni tipologiche: programma versus forma 102 Intervenire sull’esistente: conservazione versus riscrittura 103 Rispondere ai bisogni: normativa versus sperimentazione

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Schede

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Bibliografia

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Ringraziamenti


Presentazione Maria Argenti

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Ci interroghiamo a volte sul senso della ricerca, sul valore che essa costruisce riguardo al nostro futuro; soprattutto quando questo non è immediatamente misurabile in termini economici. Come se valore e valuta fossero due sinonimi. Quando invece ciò che dovremmo ricercare è la qualità del futuro. Questo lavoro di Emilia Rosmini, frutto di uno studio svolto durante gli anni del dottorato che ho avuto modo di seguire come tutor mentre l’indagine si andava sviluppando, rappresenta un esempio di come l’originalità dell’approccio scientifico, il rigore nell’analisi storico-sociologica, la capacità di critica progettuale, e la sapienza nella lettura delle cose possano portare a risultati di grande interesse, non solo nell’interpretazione di ciò che è stato, ma anche in un diverso modo di pensare le nostre città e i manufatti non più in uso. Ciò che con una parola sola chiamiamo visione, in questo caso dello sviluppo e del destino delle città contemporanee. Qui è dunque il valore di questo studio: nell’aver saputo cogliere e commentare con originalità gli snodi che determinano le scelte progettuali architettoniche e urbanistiche, e osservare con acutezza le faglie dove la contemporaneità rischia di divorare se stessa e di precipitare indietro vittima della propria incapacità di riconvertire i fallimenti in occasioni di futuro. L’indagine unisce così all’analisi di numerosi casi di studio una non usuale capacità di leggere i legami fra storie diverse, alla ricerca di un insegnamento comune riguardo al rapporto fra architettura, costruzione e sistema urbano. Ogni caso singolo viene osservato con uno sguardo nuovo, in una prospettiva personale che sfida studiosi e progettisti ad una assunzione comune di responsabilità rispetto al tema della riconversione di edifici, in particolare di quelli industriali. Ciò conferisce concretezza alla riflessione generale, collocando la ricerca nel filone consolidato di quegli studi che indagano il recente passato come un dato non statico, ma dinamico, per contribuire a una migliore presa di coscienza del presente. La trasformazione di edifici produttivi non più in uso sta diventando infatti, e sempre più frequentemente, uno degli strumenti di riqualificazione della città contemporanea. Ma ad oggi la maggior parte di queste operazioni tende alla musealizzazione degli spazi; finendo il più delle volte per annichilirli cancellando i valori (come quelli legati al lavoro e alla vita comunitaria della classe operaia) che li avevano generati per piegarsi a restyling improntati o all’esibizione del lusso o all’omaggio alla moda contemporanea di un forzato gusto vintage. Di conseguenza, le operazioni di rigenerazione architettonica portate avanti negli ultimi anni finiscono con il mutare completamente la realtà socioeconomica di interi quartieri, innestando forti Presentazione

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Vivere in una fabbrica Dai loft alle ultime sperimentazioni

Trisha Brown “Roof Piece”, SoHo, 1971.

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«New ideas need old buildings». Jane Jacobs Ripensare il quotidiano. Se c’è qualcosa di positivo nella catastrofe pandemica che ci ha travolto nel 2020, è il fatto di aver accelerato alcune questioni sociali, ecologiche, ed economiche della città che stentavano ad essere prese in considerazione; le conoscevamo, ma rimanevano sempre troppo distanti dalla nostra realtà. L’isolamento, con lo smart working, ha di colpo messo in atto su scala mondiale un’imposizione che in architettura era stata prospettata da molti anni come possibile risoluzione alla congestione e insalubrità dei centri urbani. Esperti del settore o meno, tutti ci siamo trovati a riflettere attorno a nuovi modelli di vita. D’improvviso ci siamo accorti quanto fosse necessario avere nelle nostre case un balcone per dialogare con gli altri, uno spazio da riconvertire in ufficio, una terrazza comune per fare sport, un giardino condominiale per passeggiare all’aria aperta. I nostri condomini sono diventate le nostre città, i vicini la nostra comunità. I quartieri dormitori si sono popolati anche di giorno e la teoria della “Città dei 15 minuti”1 è apparsa quanto mai corretta e necessaria. Questo inaspettato cambio di marcia pone inevitabilmente delle domande. Stiamo assistendo ad una svolta nel modo di pensare la “casa”, si sta consolidando un nuovo modo di abitare o si tratta solo di esigenze del momento? Ciò che appare interessante è pensare che, se lo smart working passerà, come si prospetta, da emergenza a normalità2, indubbiamente qualcosa cambierà. Non è difficile pensare che chi lavorerà da casa modificherà le proprie abitudini e passando più tempo in solitaria forse sarà spinto a cercare un contesto abitativo inclusivo di prossimità, riscoprendo l’interesse in modelli di residenze che comprendano mix funzionali o spazi per attività collettive. Questa nuova realtà, rafforza e rende sempre più evidente la necessità di continuare a promuovere diverse ricerche che già da qualche decennio indagano attorno al tema di una domesticità condivisa, degli alternative 1. La “ville du quart d’heure” è un progetto del 2020 proposto della sindaca di Parigi Anne Hidalgo, fatto proprio anche da molte città europee. Ogni cittadino potrà raggiungere in un quarto d’ora, a piedi o in bicicletta, i servizi necessari per mangiare, divertirsi e lavorare. 2. I risultati della ricerca 2020 dell’Osservatorio Smart Working mostrano che durante il lockdown, il 94% delle PA, il 97% delle grandi imprese e il 58% delle PMI ha esteso la possibilità di lavorare da remoto e il numero di lavoratori da remoto è salito a 6,58 milioni. Per il new normal, al termine dell’emergenza, le iniziative di Smart Working evolveranno e la riprogettazione degli spazi di lavoro interesserà il 51% delle grandi imprese. Fonte: https://www.osservatori.net/it/prodotti/formato/video/smart-working-impatti-covidvideo (dicembre 2020).

Vivere in una fabbrica. Dai loft alle ultime sperimentazioni

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Vivere in una fabbrica. Dai loft alle ultime sperimentazioni

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Introversione

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Il concetto di “introversione” trasposto nell’ambito specifico del riuso abitativo, descrive una particolare strategia di riconversione che, lasciando inalterata la preesistenza, inserisce al suo interno un nuovo sistema abitativo. L’edificio viene inteso come un contenitore, un recinto, ma questo è il punto, senza modificarne apparentemente l’aspetto esteriore. Si riconosce la necessità di preservare le volumetrie, le facciate, lo spirito delle antiche strutture, nella maggior parte dei casi sottoposte a vincoli, dove la salvaguardia degli attributi architettonici appare indispensabile. Ad ogni modo non si tratta di un’attitudine rigorosamente conservativa, di un incombente rischio di mummificazione generalizzata, della creazione di un feticcio. Il progetto contemporaneo, seppur nascosto, esiste e non si limita ad occupare le antiche preesistenze, ma anzi fra di esse si muove, si contorce, si incastra. Progetti in cui non è tanto interessante analizzare i prospetti o le assonometrie, quanto le sezioni che indagano nuove riformulazioni, mostrando interessanti analogie con il tipo della casa patio o dell’edificio a corte. Sono approcci ogni volta differenti che fanno dell’esaltazione del “vuoto”, della “sottrazione” e dell’“accumulo” convincenti risposte al tema del vivere in una fabbrica. Uno, grande, vuoto Prima declinazione di questa strategia è sicuramente l’azione di lasciare inalterata la presenza di un’assenza. Per conservare il carattere costruttivo e spaziale della fabbrica si rinuncia ad un nuovo linguaggio architettonico, inteso come affermazione di un sistema di forme, affidando al vuoto il protagonismo assoluto. La preesistenza, è prioritaria sul sistema abitativo che si adatta senza forzarla, conservando la sua intrinseca singolarità. Il potenziale offerto dalla struttura può trasformarsi così in un elemento di surplus: il vuoto influenza la scala del progetto, dell’unità abitativa, circoscrive i percorsi e la distribuzione attorno ad esso, ordina le relazioni fra le nuove superfici, determina la qualità e la quantità della luce che filtra attraverso le sue coperture, permette agli appartamenti la possibilità di un doppio affaccio e, quando aperto verso il cielo, di ventilazione circolare. Una prima verifica di questi attributi e della loro influenza in relazione all’ambito domestico può essere condotta analizzando il progetto di riconversione della Cooperative d’habitation Station n.1 a Montreal all’interno di una ex centrale elettrica [scheda 1]. L’antica Station n. 1 della Shawinigan Water and Power Company, costruita nel 1903 [8], si presenta originariamente con tre navate di cui la principale Introversione

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Sfruttando l’accentuata profondità del fabbricato che in questo punto arriva a toccare i 19 metri, la demolizione di una porzione del 5° piano permette la creazione di un boulevard che si affaccia sul verde della sottostante Rue Buffon e si integra ai giardini d’accesso agli ateliers [15]. Un tema, quello dello scavo, che con altrettanta maestria è al centro del progetto dei Lofts Rodenbroek a Rons, una piccola cittadina belga [scheda 7]. In questo caso la preesistenza, un’industria tessile dei primi anni del ’900, presentava dimensioni vastissime: un’area diafana di 2000 mq coperta da un sistema di shed, sorretto da una scacchiera regolare di colonne e travi in ghisa, chiusa da un solido recinto in muratura. L’altezza libera di sette metri sotto gli shed incoraggia a puntare su soluzioni che prevedano la sovrapposizione di più livelli; ma al tempo stesso la presenza di una trave reticolare, che a cinque metri d’altezza fascia perimetralmente ogni modulo strutturale, impedisce di fatto la possibilità di contare sulla continuità di un piano intermedio. L’unica possibilità di “abitare gli shed” prevede dunque l’introduzione di un solaio all’interno di una singola cella (all’incirca 15 metri per 7), raggiungibile ogni volta grazie ad una apposita scala. Una soluzione che approfitta dell’insolita circostanza per proporre un dettaglio singolare: nel caso in cui due solai siano accostati fra di loro, la separazione viene delegata alla presenza della sola trave reticolare a cui viene affidato il compito di dettare tempi e spazi della nuova domesticità [16]. I sei loft inseriti basano la propria configurazione sulla dicotomia pieno-vuoto; delle corti vengono abilmente collocate per creare ambienti ogni volta differenti: «un’abitazione ha un patio interno, un’altra si sviluppa attorno ad un nucleo centrale circondato dalla distribuzione, un’altra ha un garage con accanto una doppia altezza, e un’altra ancora ha una loggia che crea viste verso la corte interna» (Volt Architects 2014, p. 24). Anche il baricentro dell’intervento trova la sua proposizione formale in un ampio spazio esterno, questa volta comune, che opponendosi alla punteggiatura urbana della casa singola, propone un modello abitativo che valorizza la scala dell’individuo, proprio in quanto abitante di un apparato collettivo [17]. Una superficie conquistata dai progettisti eliminando un’intera campata di shed, “svestendo” la struttura che si palesa allo spettatore in una maglia di travi e pilastri che continuano a ritmare la corte. L’idea di aprire l’edificio seguendo il lato più lungo, acquista valore non solo per le ampie dimensioni disponibili (all’incirca 50 metri di profondità), ma anche per la possibilità di sezionare la copertura secondo il suo sviluppo più interessante, quello ipnotico e ripetitivo degli shed. 38

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16. Volt Architect, Lofts Rodenbroek, Rons, 2009. Dettaglio di una trave reticolare lasciata come elemento di separazione fra due ambienti di un loft. © Filip Dujardin

Introversione

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20. Pagina corrente e accanto. C+S Architetti, ex Conterie di Murano, Murano, 1999. Sezioni trasversali. In verde i volumi e le superfici inserite all’interno della struttura. © C+S Architetti

A una chiara disposizione planimetrica fa riscontro una sezione complessa, basata sulla compenetrazione spaziale di vari ambienti, percepibili come sovrapposizioni, doppie, triple altezze, arretramenti dei solai e distaccamenti perimetrali [20]. In questa logica assume particolare rilievo lo studio dei collegamenti verticali, delle scale, di passerelle e ascensori realizzati secondo una strategia di rarefazione dei materiali, prevalentemente vetro e metallo, che permettono alle residenze di potersi “sollevare” all’interno del volume invadendolo a differenti quote. La struttura centrale degli alloggi impiega gran pare della profondità del manufatto, facendo coincidere ogni modulo abitativo ad una campata strutturale, adattandosi ogni volta alle caratteristiche geometriche della volta. Questa disciplinata adattabilità non presuppone una mimesi, una sottomissione del nuovo dinanzi alla fabbrica anzi, gli alloggi si discostano dalla preesistenza arretrando i volumi residenziali rispetto ai muri perimetrali. Questo scarto permette lungo la facciata nord lo sviluppo di gallerie e passaggi che corrono radenti al setto murario, lasciato a facciavista, mentre sul fronte sud una superficie in clinker nero e brise-soleil, su cui si aprono le finestre delle abitazioni, viene indietreggiata rispetto alle antiche bucature che, ripulite da infissi e vetrate, permettono agli alloggi di godere di luce e ventilazione diretta. 44

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La profondità degli appartamenti è poi risolta attraverso piccoli pozzi di luce. Una serie ordinata e ripetuta di otto lanterne verticali, una ogni due unità abitative, scava il volume residenziale aprendosi sul piano terra dove sono ospitati gli spazi comuni di studio. L’utilizzo di questi elementi, volumi luminosi, rivestiti in policarbonato ondulato e coperti da lastre di vetro, non si limita al solo soddisfacimento del comfort abitativo, ma mette in atto una raffinata orchestrazione di ambienti dove la vivacità del collettivo, sia esso funzionalmente caratterizzato, sia esso di percorrenza e distribuzione, diventa un elemento necessario alla dimensione minima della residenza. Stessa maniera di lavorare lo spazio per sottrazione ritorna nel progetto di Roldán+Berengué arqts vincitore del concorso internazionale, indetto dal Patronat Municipal de l’Habitatge di Barcelona nel 2008, per la riconversione del padiglione G della fabbrica tessile Fabra i Coats in social housing [scheda 10]. Qui la sottrazione arriva ad avere un ruolo ancora più forte. Al sistema di celle abitative, inserite ordinatamente a saturare tutta la volumetria della struttura, si contrappone l’ampia superficie del sistema connettivo che lento, salendo lungo i piani, libera con determinazione lo spazio, identificando un nuovo ed areato ambito comune su più livelli [21]. In questo Introversione

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Colonizzazione

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Considerare alternative radicalmente diverse, sviluppate a partire dal concetto di occupazione temporanea, anziché da quella convenzionale di riuso, è l’idea base su cui si fonda la macro-strategia definita della “colonizzazione”. Non più progetti che si adattano alla preesistenza, ma piuttosto architetture che invadono lo spazio innescando relazioni fra struttura ospitante e nuovo oggetto “parassita”. Possiamo in effetti affermare di non trovarci più davanti a interventi di “riconversione”. La sfida non riguarda l’aspetto esterno o interno dell’edificio, ma diviene quella dell’occupare, dell’invadere scheletri di un patrimonio industriale in abbandono, ma questo è il punto: senza trasformare l’esistente. In questo senso la colonizzazione è una strategia che si pone in una ideale continuità con le prime sperimentazioni del loft ed allo stesso tempo si proietta verso il futuro, consapevole delle nuove richieste che la società di oggi reclama. I progetti che affrontano la tematica del rapporto con l’esistente in questi termini, cercano di dare risposta soprattutto alla necessità urgente di case e di rispondere al sempre più nominato “diritto alla città”, tanto da assumere in certi casi i connotati ideologici di forme sovversive. Una strategia, la cui utilità è tanto più attuale in un periodo di crisi sociale e urbana come quello che stiamo attraversando; un atteggiamento critico nei confronti della regolamentazione dei suoli a favore del dialogo tra pratiche architettoniche e problematiche sociali1. L’idea è di riutilizzare, per abitare, strutture industriali dismesse, predisponendo e inserendo in esse cellule abitative e di laboratorio, come in un denso collage, capace di inglobare al proprio interno anche le future trasformazioni possibili: di cambiare quindi nel tempo. La colonizzazione avviene quasi sempre in modo reversibile, a volte temporaneo, tramite unità autonome, piccole e diverse, pensate a misura, adatte per la coppia, per lo studente, per gli anziani, per il gioco dei bambini. Le unità autoportanti, smontabili, leggere, “entrano” nell’edificio spesso “in punta di piedi”, identificando differenti ambiti pubblici e privati, senza rispondere ad uno schema prestabilito. Quella che inizialmente appare come una rigida condizione di partenza (la preesistenza) introduce così gli architetti all’interno di un processo dinamico di creazione, dove il vuoto diventa l’elemento dominante e dove la residenza assume una visione programmatica, multipla e variabile. 1. A tal proposito si consiglia la lettura di Marini S. (2009), Architettura parassita. Strategie di riciclaggio per la città nel quale si affronta nel primo capitolo il legame fra architettura parassita e pratiche sovversive all’interno della città contemporanea.

Colonizzazione

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di serie, e consenta la personalizzazione del prodotto che il mercato ormai richiede» (Matteo Robiglio in Bianchi 2013, p. 522). Un sistema a pannelli bidimensionali avrebbe infatti scongiurato la demolizione di porzioni di facciata per consentire l’installazione del prototipo. Un ulteriore aspetto da sottolineare, trattandosi di un caso italiano, è l’iter burocratico seguito per la realizzazione. Come tutte le innovazioni, «il progetto incontra nel sistema amministrativo inaspettate facilitazioni, ma anche locali difficoltà» (Matteo Robiglio in Bianchi 2013, p. 521). Una sorpresa è stata che per la licenza edilizia sia bastata una semplice SCIA; i problemi però sono arrivati successivamente con l’accatastamento «perché CasaZera ha spazi ibridi tra interno ed esterno che non ricadono nelle definizioni correnti» (ibidem). Abitare in un “mobile” (per un po’) Un ulteriore aspetto della colonizzazione è la propensione di alcuni progetti a formulare modelli di vita alternativi, un’architettura che si adatta alle necessità della società, all’emergenza abitativa, alle attuali condizioni temporanee dettate dal mondo moderno, rispondendo con progetti basati non più sul concetto di “proprietà privata” quanto su quello di “uso ed esigenza”. Il cardine di queste proposte sta in una nuova idea di “flessibilità”: chi cambia non sono più le unità abitative, ma gli utenti, che abitano quegli spazi per pochi mesi. Succede allora che l’uso alternato nel tempo possa diventare una strategia per rispondere all’attuale crisi socio-economica in cui versano molti Paesi, Italia compresa. Una maniera, quella del “in the meantime”3 (nel frattempo) che, in vista di un futuro progetto rigenerativo, riattiva uno spazio inabitato per rispondere ad una concreta emergenza. Progetti visionari che intendono fornire opportunità, piuttosto che soluzioni, suggerimenti e tensioni, piuttosto che decisioni. Proposte che non portano ad una configurazione finale, ma a possibili e differenti evoluzioni espresse da diagrammi, schemi, ipotesi alternative, lasciate alla casualità tipica dell’occupazione informale: «[…] Con questo non si afferma che gli edifici debbano essere lasciati ad un “romantico stato di abbandono”. Gli interventi presuppongono in ogni caso l’adeguamento normativo e prestazionale, compito dell’architetto, integrato 3. Quella del riuso temporaneo di spazi in abbandono è una tematica che negli ultimi anni è stata al centro di numero ricerche, nazionali ed internazionali. Fra queste appare interessante citare: Inti I., Cantaluppi G., Persichino M. (2014), TEMPORIUSO. Manuale per il riuso temporaneo di spazi in abbandono, in Italia, Altra Economia, Milano.

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49. AFFECT-T, Bamboo Micro Housing, Hong Kong, 2014. Il prototipo Bamboo Micro Housing esposto alla Biennale di Architettura di Hong Kong

da un complesso e misurato catalogo di azioni progressive e continue che non devono avere scopi predefiniti, ma piuttosto essere suggestioni capaci di produrre a loro volta altre azioni sul piano estetico e non solo» (Inti I., Cantaluppi G., Persichino M. 2014, p. 59). Su queste premesse si basa il progetto Bamboo Micro Housing [scheda 23], presentato dello studio AFFECT-T alla Biennale d’Architettura di Hong Kong del 2014. Alla base di queste tensioni vi è una ricerca che ha generato una soluzione tanto innovativa quanto razionale all’emergenza casa all’interno della città di Hong Kong, dove sono 280.000 i senza tetto. La proposta nasce dalla presa di coscienza che il programma governativo messo a punto per le case popolari sia inefficiente. La strategia programmatica propone di regolare, attraverso un’originale idea architettonica, le occupazioni illegali all’interno del patrimonio industriale. Questa possibilità viene esplorata per rispondere a capacità economiche limitate e guarda alle elaborazioni dell’architettura informale che adotta a volte questa modalità per iniettare nell’esistente rimandi al passato, attuando un inatteso e spaesante ribaltamento dei ruoli. Colonizzazione

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Schede

Housing

Social housing

Cooperativa

Student housing

Social housing sperimentale

Prototipo abitativo

Numero alloggi/posti letto

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Scheda 1

STATION N. 1 2008-2011 Ædifica architecture Montreal, Canada

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Schede

Centrale elettrica della Shawinigan Water and Power Company Anno di costruzione: 1903 Costi di realizzazione: 10.500.000 $ Superficie del progetto: 74.800 mq

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Scheda 12

VINZI RAST MITTENDRIN 2010-2013 gaupenraub+/Vienna, Austria

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Fabbrica di carrozine Anno di costruzione: inizio Ottocento Costi di realizzazione:Superficie del progetto: 1.500 mq

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Scheda 13

KANAAL 2007-2016 Cousseé & Goris Architecten Wijnegem, Belgio

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Schede

Distilleria di malto Anno di costruzione: 1857 Costi di realizzazione: Superficie del progetto: 19.000 mq

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Scheda 29

GASOMETER CITY 1995-2001 Gazometro della compagnia Gaswerk Simmering Anno di costruzione: 1896-1899 Costi di realizzazione: 300.000.000 $ (costo complessivo di tutta l’operazione) Superficie del progetto: 28.500 mq (di cui 7500 mq coommerciali e 8100 mq direzionali)

Jean Nouvel Vienna, Austria (Gazometro A)

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Scheda 30

GASOMETER CITY 1995-2001 Wilhelm Holzbauer Vienna, Austria (Gazometro D)

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Schede

Gazometro della compagnia Gaswerk Simmering Anno di costruzione: 1896-1899 Costi di realizzazione: 300.000.000 dollari (totale) Superficie del progetto: 32.000 mq

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