Giancarlo Rosa

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Tutte le fotografie e i disegni a corredo dei testi provengono dall’archivio Rosa e da precedenti pubblicazioni redatte e promosse da Giancarlo Rosa.

ISBN 978-88-6242-572-8 Prima edizione settembre 2021 © LetteraVentidue Edizioni © Andrea Grimaldi © testi e immagini: i rispettivi autori È vietata la riproduzione, anche parziale, effettuata con qualsiasi mezzo, compresa la fotocopia, anche ad uso interno o didattico. Per la legge italiana la fotocopia è lecita solo per uso personale purché non danneggi l’autore. Quindi ogni fotocopia che eviti l’acquisto di un libro è illecita e minaccia la sopravvivenza di un modo di trasmettere la conoscenza. Chi fotocopia un libro, chi mette a disposizione i mezzi per fotocopiare, chi comunque favorisce questa pratica commette un furto e opera ai danni della cultura. Nel caso in cui fosse stato commesso qualche errore o omissione riguardo ai copyrights delle illustrazioni saremo lieti di correggerlo nella prossima ristampa. Progetto grafico: Francesco Trovato LetteraVentidue Edizioni Srl via Luigi Spagna, 50P 96100 Siracusa, Italy www.letteraventidue.com


Indice 6

Una ricerca collettiva di Alessandra Capuano

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Maestri Romani Presentazione della collana di Orazio Carpenzano

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Autoritratto di una generazione (1920-1950) Introduzione alla collana di Lucio Valerio Barbera

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Giancarlo Rosa. Il cólto saper fare di un architetto artigiano di Andrea Grimaldi

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Tre testi di Giancarlo Rosa presentazioni di Andrea Grimaldi

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Due progetti di Giancarlo Rosa presentazioni di Andrea Grimaldi

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Regesto delle opere

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Intervista di Lucio Valerio Barbera a Giancarlo Rosa a cura di Andrea Grimaldi


Giancarlo Rosa. Il cólto saper fare di un architetto artigiano Andrea Grimaldi


Premessa Ognuno di noi incontra nel proprio percorso formativo tanti docenti; a volte, se si è fortunati, è possibile riconoscere tra questi chi, per il ruolo che assume nella nostra crescita, eleggiamo a maestro. Giancarlo Rosa è stato il mio maestro, la persona dalla quale sento di aver appreso di più per le esperienze di ricerca, teorica e applicata e naturalmente di didattica che ho condotto con lui. È anche in qualche modo il responsabile del mio innamoramento per lo specifico disciplinare dell’Architettura degli Interni che ho compreso nella sua ricchezza quando, in qualità di collaboratore, l’ho seguito nella decisione di passare al settore scientifico dell’ICAR 16 (allora H10C) qualche anno dopo il riordino dei settori disciplinari del 1991. In molti dentro la Facoltà di Architettura di Roma si stupirono di quella sua scelta che egli ha sempre fortemente difeso ritenendola quasi un dovere morale nei confronti della scuola e di quegli insegnamenti che in quel momento sembravano essere stati dimenticati dagli ordinamenti didattici1. Prima però di arrivare al racconto del Giancarlo Rosa con il quale ho lungamente collaborato è utile narrare un po’ della sua storia umana perché è in questo tipo di informazioni che si trovano spesso le ragioni che spiegano un certo modo di essere e guardare alle cose del mondo e all’architettura2. Sino alla fine degli anni Sessanta del Novecento, le discipline legate al mondo dell’Architettura degli Interni avevano un posto di rilievo nella formazione dell’architetto. Il corso di Architettura degli Interni e Arredamento era un corso biennale, svolto nell’ambito del quarto e quinto anno di studi, cui si affiancavano le materie opzionali di Scenografia e Decorazione. Con il passare degli anni e il susseguirsi dei nuovi ordinamenti, queste discipline sono state sempre più declassate finendo tutte tra gli esami opzionali, quando non completamente assenti dagli ordinamenti didattici, com’era per la Facoltà di Architettura della Sapienza agli inizi degli anni Novanta. 2 Le informazioni che seguono sono il frutto delle tante conversazioni che nel corso degli anni ho avuto modo di tenere con Giancarlo Rosa, man mano che con il passare del tempo il nostro rapporto si faceva più amichevole e aumentava in me la curiosità di conoscerlo meglio come uomo, oltre che come docente, ricercatore e progettista. 1

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In alto a sinistra: Casa per anziani di Livorno (1967); a destra e al centro: prospetto e piante dell’edificio per uffici in via Padre Semeria a Roma (1968). In basso: Colonia montana e albergo di Prunetta a Pistoia (1968).

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Casa delle studentesse nel convitto «Vittorio Locchi» a Roma (1968-69).

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Cimitero di Voltabarozzo, Padova (1982-93). In alto: vista interna della cappella. In basso: vista esterna della cappella e relazione con lo specchio d’acqua antistante.

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avente per oggetto il Museo civico di Rieti. Sarà questa una esperienza che durerà per oltre un decennio, dando modo a Rosa di tornare ad operare concretamente come costruttore di spazi, dopo un periodo caratterizzato da ricerche teoriche e impegni universitari. Rieti I progetti per i musei di Rieti sono tutti progetti tipicamente d’interni. Sono interventi che nascono dai vincoli delle condizioni all’intorno, dalle criticità delle preesistenze con le quali ci si doveva confrontare e che si traducono in stimoli e chiavi d’interpretazione per lo svolgimento dei temi spaziali. È qui che in una fortunata coincidenza tra teoria e prassi, Rosa con un piccolo gruppo di giovani allievi, tra cui il sottoscritto, avvia una ricca sperimentazione delle categorie operative del mondo dell’Architettura degli Interni a partire da una delle questioni fondamentali che la connota come disciplina autonoma: la gestione dell’invaso spaziale e delle sue superfici interne. Operare con il costruito, sul costruito o per il costruito sono declinazioni differenti di questioni relative ad uno spazio già dato che qualunque progetto d’Interni deve in qualche modo assumere come guida per lo sviluppo coerente delle sue azioni e procedure. Le due sezioni, la storico-artistica e l’archeologica, sono divenute luoghi di verifica dal vero di scenari architettonici attenti a coniugare forma e funzione nello specifico contesto spaziale di alcune preesistenze, costituendo per me una delle esperienze formative più importanti di quegli anni, palestra di teoria applicata fondamentale per comprendere pienamente il valore del fare architettura attraverso il processo che dall’idea porta alla costruzione fisica dello spazio. A Rieti il Museo civico era chiuso da più di un decennio. Le opere, ammassate in modo disordinato, giacevano tutte all’interno di una grande sala voltata con lucernario, esposte dunque all’irraggiamento solare diretto. Tutti i restanti ambienti del museo erano un cantiere. Lungo il grande scalone monumentale di Cesare Bazzani che partiva dal portico per raggiungere al secondo piano gli ambienti del museo, dopo aver lambito il primo piano con la sala del consiglio comunale riccamente affrescata da Antonino Calcagnadoro, vi erano una ricca serie di epigrafi e materiali archeologici disposti lungo le pareti più per decorare lo spazio che per essere osservati e compresi. Anche il sottoscala a vista era pieno di reperti GIANCARLO ROSA

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Strumenti e metodi per la didattica del progetto (1995)

La didattica del progetto è sempre stato argomento di riflessioni da parte di Rosa sin dai primi anni di insegnamento; ricordiamo qui la pubblicazione sul numero 21 di «Lotus» (1978) dedicato alla didattica nelle scuole europee in cui egli presentava lo strumento dell’abaco con il quale mirava a rendere lo studente consapevole dei passaggi logici sottesi alla progettazione, che possono essere descritti all’interno di una “maniera”. Nel testo che qui presentiamo, di quasi venti anni successivo al primo, la questione dell’insegnamento assume una maggiore problematicità e ricchezza di temi senza perdere di vista la ricerca di un metodo aperto, l’individuazione di una serie di passaggi logici attraverso i quali acquisire consapevolezza progettuale e costruire un approccio razionalmente cólto alla progettazione. Una consapevolezza che non può essere racchiusa in semplici formule banalmente trasmissibili perché non si può “insegnare tutto” e come affermava Aldo Rossi, il ruolo della componente soggettiva dell’io progettante svolgerà sempre e comunque un ruolo decisivo. Tuttavia è possibile aiutare e sostenere il compito oneroso del singolo attraverso un approccio alla conoscenza di tipo teorico-metodologico. Il testo è tutto giocato sul confronto dialettico tra una serie di argomentazioni e posizioni riguardanti l’educazione al progettare ed è il frutto di una attenta analisi degli scritti di alcuni autori che hanno fatto parte del personale pantheon di Rosa e che si sono interrogati sull’argomento; da Adolf Loos ad Aldo Rossi, da Gropius a Le Corbusier, da Quaroni a Tessenow in un eterogeneo ma al tempo stesso coerente rimando a questioni tutte incentrate sull’approccio al progetto. Il quadro d’insieme che viene a definirsi compone una sorta di vademecum all’insegnamento della progettazione nella scuola di massa. Scrive Rosa che «pur avendo molte perplessità sulla possibilità che possa realizzarsi una buona scuola di massa riferita all’architettura, penso si debba cercare una sintesi tra lo studio della storia (…) e la libera attività sperimentale esercitata nella manipolazione delle forme in astratto (…) L’una cosa e l’altra contemporaneamente, perché il solo studio della storia rischia di condurre ad una sterile rivisitazione del passato, rinunciando ad ogni spinta innovativa, ma allo stesso tempo la manipolazione delle forme in astratto, volta al conseguimento di una libera creatività, può sconfinare in un campo più vicino al design che all’architettura» e per evitare questo la chiarezza del programma è passaggio essenziale per l’ideazione di una buona architettura. (di Andrea Grimaldi)

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In Giancarlo Rosa, Progetto e forma urbana, Officina Edizioni, Roma 1995, pp. 8-17.

“Quando ho un’idea sono tanto felice: poi la realizzo, ci lavoro molto e alla fine nulla viene mai come avrei voluto” Woody Allen Louis Kahn racconta: “Un giovane architetto venne a sottopormi un problema. Sogno spazi pieni di meraviglia. Spazi che si sviluppano fluidamente, senza principio, senza fine, costituiti da un materiale bianco e oro, senza giunture. Come traccio sulla carta la prima linea per catturare il sogno, il sogno si disperde”1. L’idea non può essere compiutamente espressa, e non solo l’idea in architettura: ogni espressione artistica soffre di questo comune problema. Ricordo al riguardo un analogo sogno, rappresentato da Pasolini nella sua versione cinematografica del Decamerone. Nel film lo stesso Pasolini interpreta la parte di un pittore di scuola giottesca che arriva in un convento per dipingervi una Maestà. Il pensiero di questo lavoro insegue il pittore insistentemente fino ad apparirgli in sogno: la Maestà è magnifica con la sua moltitudine di personaggi viventi. Poi il sogno svanisce, il pittore si sveglia e corre a confrontare l’immagine sognata con l’opera che sta dipingendo, e prova una grande delusione. Il film termina con l’amara constatazione del pittore, che è allo stesso tempo quella di Pasolini regista, quanto cioè sia bella l’opera sognata, e quanto povera sia nella realtà. “L’uomo è sempre più grande della sua opera, perché egli non riesce mai ad esprimere pienamente le sue aspirazioni”2, osserva Kahn. Penso che tale disagio, vissuto drammaticamente dall’artista, generi la necessità di continuare attraverso la parola ciò che egli non riesce a manifestare con le proprie opere, per trasmettere agli altri le proprie fantasie L. I. Kahn, Forma e progettazione in C. Norberg-Schulz, Louis I. Kahn – idea e immagine, Roma, Officina edizioni, 1980, p. 69. 2 L. I. Kahn, “Osservazioni”, in C. Norberg-Schulz, op. cit., p. 100. 1

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In questa pagina: due immagini del plastico in gesso del progetto. Pagina a fianco: il prospetto est con l’ingresso principale al cimitero.

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Cimitero di Voltabarozzo

Padova Progetto e costruzione: 1982-92 (con la coll. di Stefano Rosa) di Andrea Grimaldi

«Il cimitero di Voltabarozzo è una costruzione ben fatta. Nonostante la modestia dei mezzi a disposizione ed i tempi lunghissimi della sua realizzazione l’opera compiuta è di qualità superiore rispetto ai disegni preparatori. Fatto questo di assoluto valore per l’apprezzamento dell’architettura, almeno per chi si ostina a considerare il nostro lavoro compiersi solo nell’impietosa verifica imposta dalla realtà quando, abbandonate le due dimensioni della rappresentazione grafica, troppe volte appaganti e consolatorie nella propria autoreferenzialità, il progetto si fa cosa

e diventa patrimonio dei luoghi e delle comunità che li abitano»1. Così scriveva Roberto Secchi nell’incipit al suo saggio su Giancarlo Rosa pubblicato quasi tre decenni fa su «Parametro». Secchi centra perfettamente alcune delle qualità più rilevanti di questa architettura, pensata e realizzata bene, che si fa luogo in cui si mette in scena l’ultimo saluto e si celebra il mistero della morte. È un’architettura in cui il senso del sacro si coniuga con R. Secchi, Una costruzione ben fatta, in «Parametro» n. 199, novembre-dicembre 1993, p. 18. 1

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Intervista di Lucio Valerio Barbera a Giancarlo Rosa 14 ottobre 2020; da remoto su piattaforma Zoom

1. La formazione 2. L'università e l’Architettura degli Interni

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1. LA FORMAZIONE Lucio Valerio Barbera Vorrei cominciare partendo dall’appunto molto ricco che mi hai inviato qualche tempo fa e che ho letto e studiato un po’; ci sono tante cose che a me risultano sconosciute, dunque dovrai essere tu che piano piano ci riveli quali sono le più importanti. Comincerei proprio dalle cose che tu mi dici sull’emergere della tua vocazione; all’inizio avevi in mente di voler diventare una sorta di ingegnerearchitetto, ma, quando si è giovani non si sa esattamente di che cosa si tratta. Però affermi una cosa molto interessante e cioè che tuo padre era sarto. La tua famiglia da dove viene? Noi a Roma siamo tutti immigrati o figli di immigrati. Io, ad esempio, mi chiamo Barbera, la mia famiglia viene da Piazza Armerina, mia madre da Campobasso. Lo stesso Quaroni, così romano nel suo modo di esprimersi, in realtà è figlio di immigrati: suo padre veniva dal Piemonte e sua madre era tedesca, figlia di pittori venuti a Roma; salvo casi eccezionali, siamo tutti figli di immigrati. Quindi, la tua famiglia? Giancarlo Rosa La mia famiglia, dico sempre scherzando, viene dal Regno di Napoli perché mio padre è della Campania, della provincia di Avellino, nato vicino al confine con la Puglia, mentre mia madre è di Rieti, fuori le mura, oltre il confine tra Stato pontificio e Regno di Napoli; io appunto sono nato a Rieti. Sono venuto a Roma all’età di tre anni. I miei genitori erano tutti e due sarti. Mio padre, come Quaroni, era venuto a fare il militare alla Caserma Macao a Castro Pretorio, e fu mandato l’estate al campo militare nella campagna subito a nord di Rieti; lì abitavano i miei nonni e mia

madre. Mio padre era una persona molto precisa: ho preso da lui; aveva la divisa che a suo giudizio non era a posto e la voleva sistemare. Chiese se in zona ci fosse qualche sarto o sarta e gli segnalarono mia madre. Così si sono conosciuti, sono rimasti in corrispondenza e dopo che egli ebbe partecipato alla guerra d’Etiopia decisero di trasferirsi a Rieti, con grande disappunto di mio nonno, il quale voleva che mio padre sposasse una ragazza della Campania, perché Roma e il Lazio erano visti come il Nord. Sono rimasti a Rieti quattro anni e poi si sono trasferiti a Roma, nel quartiere di Monteverde, dove sono sempre vissuto fino al 1984, ad eccezione di un breve periodo in cui siamo stati ad Ostia, perché avevamo avuto una casa in cooperativa. Dopo il mio matrimonio sono andato ad abitare in affitto in una bella palazzina, stilisticamente di ascendenza nordica, progettata da Mario Fiorentino, perché ho sempre cercato l’architettura di qualità…l’avevo vista costruire in viale dei Colli Portuensi. Conoscevo bene la zona perché durante il periodo bellico vi andavo a giocare. Era campagna e sullo sfondo, oltre via del Casaletto, vedevo stagliarsi all’orizzonte il maestoso edificio del Buon Pastore di Armando Brasini, con le sue guglie, che a quel tempo mi appariva come un castello di fate. Poi ho saputo che tutti quei terreni appartenevano alla famiglia Fiorentino che, finita la guerra, aveva lottizzato e venduto tutto, ad eccezione di una zona tra viale dei Colli Portuensi e via del Casaletto dove Mario Fiorentino ha costruito varie palazzine. Ho scelto di abitare in quelle palazzine anche perché, proprio lì vicino, Gorio e Vittorini avevano acquistato un lotto per costruirci la loro cooperativa, dove aveva trasferito il suo studio l’ingegner 157


LVB Non avevi tutti i torti perché anch’io, che abitavo da quella parte di Roma e lo vedevo spesso, mi ricordo che quando cadde il fascismo e incominciarono a cancellare i richiami alla dittatura, ci fu un momento in cui girava la voce che avrebbero abbattuto l’obelisco di Mussolini; invece a me piaceva molto. Io ero ragazzino come te, avevo un anno di più; mi piaceva molto proprio per questa sorta di neoplasticismo che lo rendeva un’opera molto interessante e lo è ancora oggi. GR Io invece, che abitavo a Monteverde e perciò ero distante, l’ho visto la prima volta andando ad un concerto all’auditorium della Rai. Perché un’altra mia passione era la musica; alle medie ho scoperto che c’era l’Agimus e mi sono iscritto, unico di tutta la mia classe. LVB Il liceo artistico dove l’hai fatto? GR A via di Ripetta. Il primo anno che ero iscritto all’Agimus capitò un concerto all’auditorium della Rai; da Monteverde c’era il tram 28 che arrivava fino a piazza Bainsizza e da lì a piedi sino all’auditorium. Il giorno dopo, quando mio padre lo seppe, si arrabbiò molto perché sai, un ragazzino a piedi, da solo e con il buio, in quell’epoca!… Poi ci sono tornato perché i concerti erano eseguiti al teatro Argentina, nella sala per i concerti del conservatorio, a via dei Greci, e all’auditorium della Rai. Andavo lì ad ascoltare concerti di musica sinfonica e lirica. Il primo concerto che mi è rimasto impresso è Elisir d’amore; dal momento che veniva trasmesso per

radio, il direttore d’orchestra Gianandrea Gavazzeni era vestito con pantaloni e un semplice maglione, mentre io avevo questa idea del direttore in frac. Mi piaceva tanto. LVB E lì vedesti questo obelisco. GR Sì. Mi è rimasto impresso e mi è servito come spunto per la mia prima esercitazione progettuale. Era il progetto per una fontana nel quale avevo riproposto quell’incastro di volumi. Lo vide il professor Rambaldi, che rimase sorpreso e poi disse: “ma questo sembra un gioco per bambini!” Pensando probabilmente ai giochi fröbeliani che io effettivamente avevo avuto, perché mi sono sempre piaciuti i giochi di costruzione. Quando sentii questo suo giudizio ricordo mi venne da piangere e il professore mi riprese: “ma che fai piangi? Guarda che io ti sto facendo un complimento!” E da quel giorno, quando mia madre andava ai colloqui con i professori, le diceva sempre: “suo figlio deve frequentare la Facoltà di Architettura!” Un’altra cosa che facevo in questo mio percorso da autodidatta era andare la domenica alle conferenze della Galleria di Arte Moderna, con le quali ho avuto modo di conoscere Argan, Moretti, Nervi e tanti altri. Da Monteverde c’era la linea celere C che mi portava in viale Bruno Buozzi, dove scendevo per proseguire a piedi lungo via Gramsci sino alla Galleria. Lì guardavo dal basso la Facoltà di Architettura come se fosse l’Olimpo, pensando che non ci sarei mai potuto andare. In seguito ci fu un momento in famiglia, quando stavo per completare

Nella pagina a fianco. In alto: Giancarlo Rosa schizzo giovanile per il progetto di una fontana a parete, 1954. In basso: una immagine dell’obelisco del Foro Italico, Roma 1932. 160


le superiori, in cui mio padre, cercando di fare altre cose con notevoli sforzi, sembrava potesse permettermi di tentare l’avventura universitaria e così mi iscrissi, anche se molto presto ho dovuto cercarmi un lavoro per mantenermi agli studi; mi aiutò Enrico Fattinnanzi indicandomi l’ingegner Alberto Durante, che aveva casa e studio in una delle torri di Fiorentino in viale Etiopia, di fronte a quelle bellissime di Ridolfi; fu proprio poterle vedere dalla finestra che mi convinse. Ma non ho avuto mai dubbi, sin da bambino. Tant’è vero che il primo libro che ho comprato è stato l’autobiografia di Wright del 1955, nella prima edizione Mondadori in tre volumi. LVB Ma tu ti sei iscritto all’università nel 1956? GR No, nel 1958. LVB Quindi questo libro l’hai comprato che eri ancora al liceo! GR Sì, certo, ma non è stato l’unico! Un altro libro che ho comprato è stato Saper vedere l’architettura di Bruno Zevi, che ho letto dopo Saper vedere di Marangoni, per me l’iniziazione a comprendere cos’è l’arte. Conoscere Zevi è stato un bene, ma per certi versi anche un male, perché io sono arrivato alla maturità imbevuto di Zevi: “l’architettura non è architettura se non ha uno spazio interno”, per cui i romani erano superiori ai greci, non avendo la loro architettura spazio interno, e all’esame di maturità il professore di storia dell’arte a sentirmi affermare questa posizione si alterò dicendomi: “ma come! I romani erano come gli americani di oggi!” e mi diede un voto basso. Il voto più alto lo presi con il tema d’italiano svolto sul 161



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