Le segnature pedagogiche del visual design

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INDICE


7 Prefazione Emanuela Bonini Lessing 11 Introduzione 25 Capitolo 1. Segnature pedagogiche per il visual design 57 Capitolo 2. Studio 103 Capitolo 3. Formulazione 147 Capitolo 4. Materialità 193 Conclusioni 199 Riferimenti bibliografici



Capitolo 1

Segnature pedagogiche per il visual design

Nello spettro delle pratiche disciplinari riconducibili all’universo del design sono riscontrabili alcune «modalità condivise di acquisire e generare conoscenza»1, orientate alla formazione di un profilo professionale in grado di gestire, dal punto di vista sia cognitivo che attuativo, il percorso che connette l’ideazione di un prodotto, di un servizio o di un processo alla sua effettiva realizzazione. L’iter educativo associato allo sviluppo di questo particolare sistema di competenze presuppone un’esperienza caratterizzata da un elevato grado di specificità, che trova espressione nella messa in atto di approcci all’insegnamento e all’apprendimento che risultano spesso molto distanti dal modello dell’“educazione formale”2 comunemente adottato nel contesto di numerose altre discipline. Richiamando una connotazione che è possibile riscontrare anche in relazione ad ambiti limitrofi a quello del design (quali l’arte, l’architettura e, in generale, i settori identificabili sotto l’egida delle cosiddette “discipline creative”), l’attività formativa orientata alla preparazione professionale e intellettuale del designer appare fortemente connotata in termini di socialità, inclusività, permeabilità e flessibilità3. 25


Giulia Ciliberto

Le figure di “designer educatori” prese in considerazione all’interno della ricerca. Da sinistra a destra, e dall’alto verso il basso: William Dyce (1806-1864), Christopher Dresser (1834-1904), Lewis Foreman Day (1845-1910), Johannes Itten (1888-1967), Josef Albers (1888-1976), László Moholy-Nagy (1895-1946), Anthony Froshaug (1920-1984), Dan Friedman (1945-1995), John Maeda (1966). 44


Segnature pedagogiche per il visual design

Particolarmente rilevante, in questo senso, risulta l’ineludibile confronto con una “cultura del design”53 che appare costantemente alla ricerca di un equilibrio fra una spinta fortemente identitaria e un’innata propensione all’interazione con altre discipline. In una prospettiva di affermazione disciplinare, l’assunzione di un punto di vista centrato sulla messa a fuoco dei principi fondamentali che organizzano l’insegnamento e l’apprendimento può favorire una maggiore autoconsapevolezza critica da parte della comunità accademica e professionale del visual design, portando a emergere le specificità identitarie che caratterizzano intrinsecamente il settore. In una prospettiva di orientamento più marcatamente interdisciplinare, l’approccio messo in campo all’interno di questo lavoro può risultare funzionale anche in previsione dell’implementazione di modelli di alfabetizzazione visuale e progettuale anche nell’ambito di settori estranei a quello del design, ed eventualmente anche in riferimento a livelli accademici differenti rispetto a quello post-secondario. Tale attitudine può favorire la messa a punto di strategie di “alfabetizzazione al design” capaci di trasmettere agli allievi l’attitudine a relazionarsi creativamente e criticamente con situazioni caratterizzate da un elevato grado di complessità, ambiguità e ineffabilità54, avvalorando una considerazione del design quale possibile substrato culturale comune ai molteplici ambiti del sapere, non necessariamente finalizzato allo sviluppo di una professionalità quanto, piuttosto, all’acquisizione di una mentalità55.

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Giulia Ciliberto

Spazi interni del Department of Science and Art. Londra (1870 circa). 70


Studio

Soggettività Il design come unità fra arte e tecnica Nell’ambito della cultura occidentale, i primi decenni del Ventesimo secolo individuano una fase di notevole crescita e sviluppo, in cui all’affermazione del mercato globale si affiancano i progressi nel campo dell’industria e della ricerca scientifica, determinando un diffuso incremento della prosperità economica e dell’accessibilità ai beni materiali e immateriali da parte dei singoli individui. Al tempo stesso, l’epoca appare segnata dall’affiorare di un insieme di complesse problematiche, quali l’acuirsi del degrado ambientale e delle disparità sociali, oltre che dal più catastrofico scenario di conflitto e devastazione cui il mondo abbia mai assistito quando, nel 1914, le rivalità fra le potenze europee esplodono dopo quasi un secolo di relativa tregua dando inizio alla Grande Guerra. Un’epoca, dunque, di profonde e difficili contraddizioni, che in ambito artistico si ripercuotono nella scissione fra un’arte di tendenza “espressionista”, che «pone il problema del concreto rapporto con la società, e dunque della “comunicazione”»33, e un’arte, invece, di orientamento “simbolista”, che «si pone come “ermetica”, subordinando la comunicazione alla conoscenza di un “codice”»34. Questa polarità, sulla base della quale prendono avvio i diversi filoni delle avanguardie novecentesche, trova nel campo del design un’analoga corrispondenza in quella che, negli stessi anni, vede contrapposte, da un lato, la spinta all’adeguamento della progettualità ai criteri di razionalizzazione dettati dalle recenti innovazioni tecnologiche, dall’altro, l’esaltazione della creatività individuale. Osservata in retrospettiva, l’opposizione fra queste due correnti precorre alcune delle principali esperienze di pensiero e di progetto che di lì a breve avrebbero trovato espressione in seno al modernismo, animate dall’aspirazione di 71


Giulia Ciliberto

Sopra: Johannes Itten, Vorkurs, esercizi di rilassamento e respirazione, 1920 circa. 80

Sotto: Johannes Itten, Vorkurs, esercizi di scioglimento delle mani, 1920 circa.


Studio

Johannes Itten, Vorkurs, esercizi di contrasto nell’assemblaggio di differenti materiali e superfici, 1920 circa. 81



Capitolo 3

Formulazione

Il concetto di “formulazione”1 è inteso in riferimento a quella che, oggi così come in passato, rappresenta probabilmente la principale modalità impiegata nell’ambito della pedagogia del design per introdurre progressivamente gli allievi alla cognizione dei principi, metodi e processi inerenti alla progettualità, ossia tramite lo svolgimento di esercizi appositamente formulati. Il ruolo educativo della formulazione risiede nel codificare una sequenza prestabilita di istruzioni volte ad analizzare, affrontare e risolvere positivamente uno o più problemi di ordine progettuale, simulando in tal modo i processi che, nella dimensione professionale, conducono all’ideazione e all’effettiva realizzazione di un prodotto (sia esso di natura materiale o immateriale). Nel gettare un ponte fra il contenuto della didattica e il processo di apprendimento ad essa correlato, la formulazione offre agli allievi la possibilità di elaborare con un elevato grado di autonomia, all’interno di un percorso costituito da prove ed errori, la propria, personale proposta per la soluzione del problema presentato, favorendo lo sviluppo simultaneo di conoscenze sia concettuali che procedurali2. Questa impostazione, che risulta 103


Giulia Ciliberto

Josef Albers, Interaction of Color, 1963. 124


Formulazione

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Giulia Ciliberto

Manifesto di Messages and Means, il principale dei corsi tenuti da Muriel Cooper all’interno del Visible Language Workshop, 1985 circa. 178


Materialità

implichi necessariamente la predisposizione di «nuovi processi di comunicazione, nuovi linguaggi visivi e verbali e nuove dinamiche di conoscenza, apprendimento e produzione»56. Non a caso, uno dei principali nuclei operativi da cui il Media Lab prende vita è proprio il Visible Language Workshop (VLW), laboratorio sperimentale sull’applicazione delle tecnologie digitali al visual design che Cooper gestisce a partire dalla metà degli anni Settanta, e che John Maeda frequenta sul finire degli anni Ottanta57, accedendo al Media Lab da studente di ingegneria informatica presso il MIT. Guidato da questi riferimenti, Maeda inizia dunque a delineare un nuovo paradigma teorico, metodologico e applicativo per la disciplina, in cui il ruolo del computer non sia semplicemente quello di uno “strumento-salva-tempo” ma quello, piuttosto, di un “medium-arricchito-dal-tempo”, in grado di ampliare, se non propriamente ridefinire, i confini tradizionali del visual design orientato alla stampa58. Nel 1996 Maeda entra a sua volta a far parte del Media Lab nel ruolo di responsabile dell’Aesthetics + Computation Group (ACG), programma di ricerca volto a sondare le potenzialità espressive ed estetiche determinate dall’interazione fra le infrastrutture informatiche e le recenti tecniche di rappresentazione digitale. È questo il contesto all’interno del quale, negli anni che intercorrono fra il 1998 e il 2003, ha concretamente luogo l’esperienza di DBN, secondo un approccio alla pedagogia del visual design che, interpretando «l’arte della programmazione al computer, o della computazione»59 come la principale delle competenze del designer nell’era contemporanea, tenta di incorporare e restituire, nell’insieme delle sue diverse componenti, il carattere intrinsecamente digitale dei media in esso coinvolti60.

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