Immagini, fotografie e disegni a corredo di questo volume provengono dall’archivio privato di Franco Zagari.
ISBN 978-88-6242-584-1 Prima edizione novembre 2021 © LetteraVentidue Edizioni © Fabio Di Carlo © Franco Zagari © testi e immagini: i rispettivi autori È vietata la riproduzione, anche parziale, effettuata con qualsiasi mezzo, compresa la fotocopia, anche ad uso interno o didattico. Per la legge italiana la fotocopia è lecita solo per uso personale purché non danneggi l’autore. Quindi ogni fotocopia che eviti l’acquisto di un libro è illecita e minaccia la sopravvivenza di un modo di trasmettere la conoscenza. Chi fotocopia un libro, chi mette a disposizione i mezzi per fotocopiare, chi comunque favorisce questa pratica commette un furto e opera ai danni della cultura. Nel caso in cui fosse stato commesso qualche errore o omissione riguardo ai copyrights delle illustrazioni saremo lieti di correggerlo nella prossima ristampa. Progetto grafico: Francesco Trovato LetteraVentidue Edizioni Srl via Luigi Spagna, 50P 96100 Siracusa www.letteraventidue.com
Indice 6
Una ricerca collettiva del Dipartimento di Architettura e Progetto della Sapienza di Alessandra Capuano
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Maestri Romani Presentazione della collana di Orazio Carpenzano
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Autoritratto di una generazione (1920-1950) Introduzione alla collana di Lucio Valerio Barbera
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Franco Zagari: il progetto come prototipo e sperimentazione di Fabio Di Carlo
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Tre testi di Franco Zagari Presentazioni di Fabio Di Carlo
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Due progetti di Franco Zagari Presentazioni di Fabio Di Carlo
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Regesto delle opere a cura di Fabio Di Carlo
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Intervista di Lucio Valerio Barbera a Franco Zagari a cura di Fabio Di Carlo
Franco Zagari Il progetto come prototipo e sperimentazione Fabio Di Carlo
Franco Zagari nasce nel 1945 a Roma, nella città appena liberata dalle truppe di occupazione naziste, da Elena Da Venezia (Torino, 1915-Roma, 2003) e Mario Zagari (Milano, 1913-Roma, 1996). La madre è stata attrice, attiva per circa quarant’anni in importanti produzioni teatrali, radiofoniche e televisive, con alcuni dei maggiori registi del periodo, tra i quali Anton Giulio Majano e Luchino Visconti. Il padre è stato partigiano, poi membro dell’Assemblea Costituente, lungamente attivo in politica nell’area socialista, deputato della Repubblica, parlamentare europeo e membro del Governo italiano in diverse legislature. Dopo aver seguito per due anni gli studi di Giurisprudenza, Zagari si iscrive alla Facoltà di Architettura della Sapienza di Roma, dove si laurea con Ludovico Quaroni e Antonio Quistelli nel 1971. Vive da studente nel pieno gli accadimenti del Sessantotto, di cui parlerà ampiamente nell’intervista di Lucio Valerio Barbera, tra coinvolgimento diretto, drammaticità degli eventi e distacco intellettuale. Inizia la sua carriera accademica nel 1975, come assistente ordinario in Composizione architettonica e poi come professore incaricato a Reggio Calabria, fino al 1981. Diviene poi professore associato alla Sapienza nel 1981, dove nel 1983 rileva la cattedra di Arte dei giardini, che terrà fino al 1994. Nel 1995 è nominato professore ordinario di Architettura del paesaggio all’Università Mediterranea di Reggio Calabria, dove ha fondato ed è stato direttore per sei anni del Dipartimento Oasi e coordinatore per 12 anni del Dottorato in Parchi, giardini e assetto del paesaggio. Attualmente è docente a contratto presso Sapienza. Dall’inizio degli anni Ottanta a oggi Zagari si è prevalentemente dedicato all’architettura del paesaggio, come progettista, didatta, studioso e divulgatore a tutto tondo. Ha elaborato fino a oggi oltre 100 progetti, ha scritto 25 monografie e numerosissimi saggi e contributi. Ha prodotto diversi documentari e ha avuto un’attività molto vasta di organizzazione di eventi nazionali e internazionali. FRANCO ZAGARI
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e il pavimento assume la forma di una bandiera ondulata sulla quale le persone vedono la propria linea di orizzonte modificarsi continuamente. Nella Piazza del Duomo di Ravello la spinta ascensionale verso l’ingresso alla chiesa viene accresciuta da un disegno bicromo, ispirato a una partitura musicale di Paul Klee. Nel Parco di Monte Mario al contrario viene assunta una unica curva di livello per creare l’ossatura del parco, lavorando evidentemente in contraddizione con la natura fortemente acclive del luogo. In questi e in altri interventi a seguire, l’alterazione della percezione spaziale attraverso il lavoro sul suolo – in forma reale o solo illusoria con la modificazione delle matrici matematiche degli elementi di pavimentazione e la variabilità dimensionale delle serie – Zagari modifica i tempi e i modi di lettura dello spazio quasi in forma manierista, con una movenza simile a quella dei maestri del paesaggismo inglese, che sostituirono l’idea neoclassica del parterre orizzontale con quella del piano ondulato. Progetti in linea Con il Parco di Monte Mario (1988) individua anche il tema del ‘parco lineare’ o ‘del progetto in linea’, sul quale tornerà in diversi periodi, sia nei progetti, che nella sperimentazione progettuale di ricerca, che nell’espressione teorica. Qui, anziché lavorare sul tema della connessione di quote diverse, decide di adottare come riferimento un’unica curva di livello, una linea appunto su una quota costante, per trovare forme d’uso più semplici del parco e per privilegiare i caratteri panoramici di Monte Mario. Tra i ‘progetti in linea’ possiamo annoverare le successive sistemazioni dell’isola pedonale di Montegrotto Terme (2002), il Lungomare di
Pettinissa, la lunga linea verde, Reggia Calabria (2008-10) Pagina a fianco Passeggiata panoramica per il Parco di Monte Mario, Roma (1988)
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AUTORITRATTO DI UNA GENERAZIONE
FRANCO ZAGARI
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AUTORITRATTO DI UNA GENERAZIONE
L’abaco delle specie riflette la scelta del tema generale dell’esposizione, la nutrizione, e al contempo rappresenta un avvicinamento alla scala di prossimità rispetto dei grandi impianti vegetali utilizzati nell’Expo. Scrivere di paesaggio Franco Zagari ha comunicato molto anche attraverso un’ampia pubblicistica, che è parte non separabile dalla sua produzione progettuale, né dall’impegno accademico. Ha prodotto 25 monografie, ha scritto e curato un manuale di architettura del paesaggio (2009) ma anche libri di natura più teorica (2006, 2013 e 2017) e recentemente un libro di racconti (2020). È stato lungamente nella redazione di Spazio e Società, ha tenuto una rubrica per la rivista Paysage-Topscape, ed è autore inoltre di numerosissimi saggi (l’elenco delle monografie è riportato in Regesto). Tra le monografie, L’architettura del giardino contemporaneo (1988) è stata la prima antologia italiana sulle evoluzioni del progetto di paesaggio, con uno sguardo a livello internazionale rivolto alla contemporaneità. Prima gli studiosi potevano solo leggere L’architettura dei giardini di Francesco Fariello (1967 e 1982), o The Landscape of Man, di Goeffrey e Susan Jellicoe, del 1975, due volumi importanti, ma che si fermavano alle soglie dell’attualità. Ciò rappresentò una novità assoluta in un panorama pubblicistico che vedeva esclusivamente testi tradotti da originali anglosassoni e francesi, fatta eccezione della collana di giardinaggio “L’Ornitorinco” di Ippolito Pizzetti, per i tipi di Franco Muzzio. Il libro accompagnava la mostra Oltre il giardino, e i sei film con lo stesso titolo del libro prodotti con Enzo De Amicis per l’allora DSE, Dipartimento Scuola Educazione della RAI. L’organizzazione in sezioni geografiche accomunava il libro, la mostra e i film. Era sostanzialmente una grande ricerca che raccontava lo stato di avanzamento della cultura del progetto di paesaggio nel pianeta, evidenziando quale fosse stato l’humus culturale e fisico nel quale erano maturate tali esperienze, e sottolineando alcuni fenomeni nuovi, che erano in parte tralasciati dalla cultura architettonica italiana di quegli anni. In particolare qui declinò il termine “spazio pubblico”, che lungamente lo accompagnerà nelle riflessioni scientifiche e culturali. Comprenderà l’intensità e il futuro di alcune esperienze nazionali in corso, come le evoluzioni della scuola di paesaggio francese, dei suoi maestri e dei loro FRANCO ZAGARI
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Franzo Zagari
L’architettura del giardino contemporaneo (1988)
L’architettura del giardino contemporaneo nasce assieme a un ciclo di documentari per la RAI e come catalogo della mostra Oltre il giardino. Insieme erano l’esito di un lavoro di viaggio, ricerca e documentazione che occupò oltre tre anni. Il volume uscì in un periodo nel quale la pubblicistica – italiana ma non solo – nel settore del progetto contemporaneo di paesaggio era assai limitata. Tra i testi a disposizione per gli studiosi la maggior parte erano in lingua straniera, o erano traduzioni di volumi. Molti erano quelli orientati ai temi del giardino storico, mentre altri erano invece più specifici su alcuni ambiti, anche tecnici. Tutti erano quindi inevitabilmente privi del respiro antologico, internazionale e aggiornato di questo volume. Ciò pose Zagari in assoluto rilievo nella scena nazionale nell’ambito dell’architettura del paesaggio. Pur se non è il primissimo prodotto dell’autore in materia di paesaggio, di certo è quello dove la costruzione teorica acquista rilievo e profondità. È anche la prima costruzione di una sorta di atlante antologico critico della contemporaneità, dichiaratamente parziale ed espressamente tendenzioso. Sostanzialmente il termine ‘giardino’ viene usato anche come metafora per evidenziare le capacità innovative di alcune esperienze di trasformazione urbana e di invenzione di diverse modalità nell’affrontare i temi della rigenerazione urbana, a partire dalla consapevolezza dei problemi evidenti della città contemporanea. Nel merito dei contenuti, L’architettura del giardino contemporaneo fissa alcuni concetti e parole chiave che accompagneranno a lungo l’autore e larga parte del dibattito italiano. Anzitutto il tema della ‘costruibilità del giardino’, che si estende dai fattori tecnicoattuativi al complesso degli elementi sociali, figurativi e simbolici dell’opera. Quello del giardino come luogo privilegiato per sperimentazione e innovazione in continuità e aggiornamento di una tradizione forte. Quello dello spazio pubblico, che acquisisce il giardino come eredità di partenza per divenire luogo privilegiato di riflessione progettuale nelle trasformazioni delle città, capace di registrare in maniera più sottile le complessità e contraddizioni dei cambiamenti delle società. (di Fabio Di Carlo)
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AUTORITRATTO DI UNA GENERAZIONE
In Franco Zagari, L’architettura del giardino contemporaneo, Arnoldo Mondadori Editore – De Luca Edizioni d’arte, Milano – Roma, 1988, pp. 9-24.
Introduzione “Le concezioni della natura possono essere così estranee le une alle altre che i tratti distintivi del paesaggio di un giardino non possono essere riconosciuti che dai membri de! gruppo sociale che ha prodotto l’estetica corrispondente”. Michel Conan, “Le jardin de l’anterieur”, in Traverses n. 5/6, Parigi, 1976, 1983.
Si è forse troppo insistito nel ritenere che il giardino sia il “luogo” dell’architettura in cui il rapporto fra uomo e ambiente sia più pregnante ed evidente. Lo è certamente, ma come ogni altra architettura. La costruzione del giardino con materiali particolari – viventi – parla, evidentemente, della Natura: la storia del suo contenuto esorcistico, mitico, religioso, economico è anche per noi, come per ogni civiltà, la storia della simbolizzazione dell’idea di ambiente. Difficilmente le istituzioni e i poteri di una società si riflettono e prendono reale consistenza in una architettura come nel giardino. Qui più che altrove, proprio perché luogo ludico e festivo, libera espressione, opera d’arte. Ma è interessante osservare che grazie al suo apparire pura sovrastruttura, il giardino individua tradizionalmente una proiezione particolare dell’immaginario collettivo. Il giardino è una dimensione che sperimenta in ogni momento storico con forte anticipazione tecniche, conoscenze, rappresentazioni sociali. In ogni civiltà il giardino è un laboratorio di pensiero che previene e accelera la concezione insediativa stessa del proprio tempo. Fissare nella contemporaneità alcuni indizi dell’evoluzione di questo concetto è l’ambizione del libro, con il procedimento induttivo di chi ricerca per operare, in questo caso né uno storico, né un critico, ma un architetto progettista. È un itinerario lungo una delle tante “storie parallele” dell’architettura, come la scenografia, il disegno industriale, l’architettura degli interni – una fenomenologia non événementiel, direbbe Foucault FRANCO ZAGARI
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Franco Zagari
La crisi del paesaggio e l’angolo critico del progetto
Con Sul paesaggio. Lettera aperta, Zagari pone definitivamente al centro un discorso sul portato politico del progetto di paesaggio e sulla necessità di una nuova stagione di interventi, con un corpo di riflessioni che lo accompagna fino ad oggi. Se nel precedente Questo è paesaggio. 48 definizioni (2006) e in altri scritti coevi c’era uno sforzo di costruzione dei margini teorici e operativi della disciplina, questo libro segna un passaggio netto verso le riflessioni sulla dimensione politica e sociale del progetto di paesaggio. La scelta della forma di ‘lettera aperta’ pone le sue parole volutamente in posizione provocatoria e dialettica, quasi imponendo questi temi all’attenzione di una comunità scientifica molto allargata, fatta di progettisti, ma anche di sociologi, economisti, politici e studiosi di molte discipline. Andrea Di Salvo (2014) dirà sulle pagine de Il Manifesto che la Lettera Aperta è “Aperta […] in un’incrementale ansia definitoria, pone e ridispone criticamente temi e nodi problematici. […] Aperta, specialmente verso noi tutti destinatari di un ineludibile invito a considerare il paesaggio nel suo continuo evolversi, trasformarsi e quindi nella sua costitutiva contemporaneità […] Paesaggio da intendersi quindi come risorsa, opportunità generatrice di qualità, occupazione, ricchezza, da interpellare tanto più in una fase di crisi, interrogandoci su come un sempre rinnovato patto tra luogo e chi ne è partecipe concorra a ridefinire un diverso modello di sviluppo”. Zagari qui mette in chiaro alcuni concetti. Anzitutto l’evidenza delle differenze dei discorsi su paesaggio e ambiente che, pur interconnessi, sono riferiti ad approcci qualitativi e/o quantitativi spesso molto distanti. Pone alla ribalta la necessità di un superamento, che riguarda il progetto in tutte le sue accezioni, della dicotomia tra conservazione e tutela vs. innovazione. Pone l’accento su come il progetto ‘di’ e ‘sul’ paesaggio si ponga come necessità per i suoi portati sociali, politici ed economici, al servizio delle comunità, come espressione storicamente collocata. Ribalta il punto di vista corrente, evidenziando come la crisi dei paesaggi sia una concausa e non un effetto della crisi generale, ribadendo come l’inattività rispetto alla produzione di nuovi paesaggi sia essa stessa una generatrice di crisi. Evidenzia infine come la stessa ricerca di Bellezza non sia elemento accessorio dei processi di trasformazione, ma un dato ineludibile del progetto, che include un portato e un valore etico verso la formazione di una civitas. (di Fabio Di Carlo)
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AUTORITRATTO DI UNA GENERAZIONE
In Franco Zagari, Sul paesaggio. Lettera aperta, Libria, Melfi, 2013, pp. 10-24.
La crisi del paesaggio e l’angolo critico del progetto Libertà. Un giorno di inverno un viaggiatore Così capita a chi si trovi in stato di grazia perché in viaggio, e quindi indifeso, di essere senza preavviso visitato da un’agnizione, una grande mostra di un artista cinese, bulimico quanto scomodo. Chi, trovandosi a Parigi, consigliato da un amico, decidadi andare al Jeu de Paume per la mostra di Ai Weiwei, anche se è l’ultimo giorno, deve affrontare una lunga coda all’aperto sugli spalti delle Tuileries. È il 29 aprile dell’anno di grazia 2012, una bella giornata invernale, un po’ rigida, sono le quattro del pomeriggio, ha tutto il tempo di rilassarsi e di riflettere, forse ispirato dalla folla che avanza silenziosa e ordinata e dagli scheletri eleganti dei tigli potati a cassetta che presentano già le prime gemme, fenomeni fra loro estranei che invece improvvisamente dal punto di vista estemporaneo del nostro osservatore interagiscono come la scrittura di una musica su un pentagramma, il tutto a un incredibile ritmo lento e uniforme. La coda scorre sulla balconata che si affaccia sul clamoroso fuori scala della Concorde, dove il traffico non si arresta un attimo ma appare come in un moto perpetuo, e chi si trova in questa condizione che muta man mano che la temperatura scende e l’attenzione si fa più acuta, chi si trova là sapendo che è proprio l’ultimo giorno, la fine di un evento di rilievo internazionale, sa di fare già in qualche modo parte del gioco a cui si appresta ad assistere, ecco perché è così importante la sua posizione precisa nel tempo e nello spazio, sa di essere una delle tessere di cui nella mostra si parla, un’attenzione che la pausa imposta e la canalizzazione dell’attesa producono, così come in milioni di persone che non hanno sufficiente libertà di espressione, che nel momento stesso che si muovono in forza di una provocazione ispirata mettono se stessi in campo come una rappresentazione corporea di questo dramma, la coda è una parte importante della mostra, non voluta, non pensata, ma prodotta dal suo successo, FRANCO ZAGARI
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Piazza Montecitorio a Roma
Riqualificazione di Piazza Montecitorio Camera dei Deputati, Comune di Roma 1998 di Fabio Di Carlo
Piazza Montecitorio è la seconda grande piazza realizzata da Zagari1. Se piazza Matteotti a Catanzaro (1992) aveva sollevato un acceso dibattito critico per la scelta di una composizione esplicitamente complessa e contraddittoria, al contrario il successo critico di piazza Montecitorio fu praticamente unanime, per l’eleganza della composizione degli elementi e per la capacità di risignificazione spaziale del rapporto tra piazza e palazzo. In questo senso il volume di Livio Sacchi riporta una serie di saggi che, pur da posizioni diverse, ben rappresentano tale successo2. Effettivamente colpì molto la capacità del progetto di sintetizzare in poche azioni un complesso di trasformazioni che va ben oltre l’esigua quantità di segni evidenti. La prima azione, di valore programmatico, fu di pulizia ed eliminazione delle auto in sosta e di tutta una serie di elementi lì stratificati in funzione di ragioni di sicurezza e di abitudine, o per presunti motivi di decoro urbano,
ma che in realtà rappresentavano più una forma di inquinamento semantico che un’aggettivazione positiva dello spazio. La vera azione innovativa è il movimento del piano pavimentale, ovvero la costruzione di una nuova geografia della piazza che si rifà a quella originaria, precedente all’intervento del Basile. Tale rimodellamento ha reso possibile la riattivazione del funzionamento della Meridiana, e ha quindi dato senso al disegno della linea del ‘mezzogiorno reale’ e della pavimentazione nella sua complessità. Infine l’introduzione di un sistema di arredi di grande raffinatezza, in sostituzione di quelli preesistenti. La grande novità della piazza fu appunto il disegno di un’orografia che reintroduce la salita a coda di pavone come accesso al palazzo: muovere un piano per restituire una spazialità del tutto nuova. Qui Zagari riesce per la prima volta a mettere in atto un’idea di percezione dinamica dello spazio a partire dalla modellazione del piano di calpestio,
L’incarico era assegnato congiuntamente dalla Camera dei Deputati e dal Comune di Roma per la Riqualificazione della piazza del Parlamento in occasione del Giubileo 2000. Con Claudia Clementini e la collaborazione di Lorenza Bartolazzi. Direzione lavori: Maurizio Cagnoni. Consulenze: Pietro Castiglioni (Illuminazione), Giuseppe Capponi (Topografia), Edmondo Marianeschi (Astronomia di posizione e orologi solari), Titania-Terni: Fabio Guglielmi, Roberto Clementini, Marco Costanzi (leghe speciali), Impresa: Donati. 2 Vedi Sacchi, Livio, Franco Zagari. L’interpretazione del paesaggio, Testo & Immagine, Torino, (2003), pp. 103-110. 1
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Vedute di Place Victor Hugo e di Place Jean-Jaurès A fianco: Planimetria generale delle tre piazze Pagina successiva: la pavimentazione della Place Victor Hugo, con lo studio della modificazione delle quote, e gli studi per la piazza-giardino. 133
Intervista di Lucio Valerio Barbera a Franco Zagari Intervista realizzata nell’agosto 2020 via Zoom
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PARTE PRIMA Lucio Valerio Barbera Carissimo Franco, di solito comincio chiedendo all’intervistato come e quando egli abbia deciso di fare l’architetto. Ma le pagine di appunti che mi hai inviato mi aiutano a costruire un percorso diverso. Mi piacerebbe iniziare, infatti, chiedendoti di parlare dei nomi dei tuoi genitori, due nomi ai quali dai molto peso perché affermi siano stati per te quasi profetici: Zagari e Da Venezia. Franco Zagari In principio non ci avevo pensato ma è vero che il nome fa il monaco. In particolare il mio destino, che ha così insistito a tenermi lungamente impegnato in Calabria, ha rafforzato ancora questo legame con il nome paterno. Di quello materno ça va sans dire, quindi mi sono inventato una predisposizione fatale. LVB Intendi dire che Zagari viene da “zagara” ovvero dai fiori d’arancio, quindi dai giardini; quelli arabi in particolare? Mentre il nome di tua madre – Da Venezia – viene dalla città che è la bellezza in se stessa? Ma tua madre non era piemontese? FZ Mia madre è nata a Torino e lì fece il Conservatorio. Invece mio nonno era veneziano. LVB Quindi da questo derivano la cortesia e la civiltà veneziana del tuo naturale modo di essere. Ti conosco da tanto tempo. Anzi sento parlare di te da quando eri piccolo. Ho conosciuto anche tuo padre, ma soprattutto molto bene tua zia Sandra; e tua madre, ma, naturalmente soprattutto a teatro, dove ho potuto ammirarla in alcune delle
sue grandi interpretazioni: Le Tre sorelle di Checov, La Regina e gli insorti. Tutte cose che tu non hai visto, immagino. Lei era straordinaria. FZ No. Ho visto lei in Ionesco, nel teatro del No giapponese, ho visto altre cose. Comunque il mio rapporto con il teatro è sempre stato di terrore. Andavo spesso a vedere diverse versioni della stessa piece. C’era sempre un momento dove una battuta cadeva in modo tale che poteva essere un successo oppure un vuoto. E io ero teso come una corda di violino. Sentivo moltissimo questa umidità dell’aria. Un po’ accadeva anche con i comizi di mio padre, durante i quali mi immedesimavo molto. Però poi mi sono difeso da queste due professioni. LVB Sai, è singolare. Tu per un periodo eri identico a tuo padre, mentre adesso mi pare che somigli più a tua madre. E c’è un’altra cosa nelle donne della tua famiglia: questa forza creativa che non si ferma davanti a nulla. Che era anche di tua zia, non soltanto di tua madre. Tua zia Sandra aveva – e mi pare che anche tu l’abbia – la capacità ridente di fare cose straordinarie. Durante il periodo della Resistenza lei era l’anima di una rete di resistenza all’occupazione tedesca assolutamente folle, quasi aperta, senza difese; ma efficientissima che lei aveva organizzato e gestiva con le amiche e le loro famiglie. Pensandoci oggi le iniziative di quella rete sembrano spericolate acrobazie che tuttavia, sotto la spinta di Sandra da Venezia, tutti affrontavano con disinvoltura. La sua casa era diventata il rifugio dei tedeschi disertori – pensa il rischio assoluto che correva. Lei aveva diffuso il suo indirizzo tra coloro, pochissimi, che nella truppa tedesca intendevano disertare. 151
“Zagari, un vero carrarmatino leggero”. Ti devo dire: siccome è fatto di due termini, quando lui disse questa cosa cogliendo, come tu dici, la durezza che avvolge il tuo carattere ‘veneziano’, lo fece con una certa simpatia, perché a quei tempi la maggior parte degli studenti non erano ‘carrarmatini leggeri’, quanto piuttosto carrarmati pesanti, sferraglianti; Quaroni, invece, per descriverti calcò l’accento sull’aggettivo ‘leggero’, che esprime, forse, la parte del tuo carattere che tua nonna pensava dovesse portarti a una strepitosa carriera diplomatica. Sì, in quell’uscita di Quaroni c’era simpatia verso di te, se non altro per un confronto con gli altri: che erano veramente insopportabili, anche se molto intelligenti. Come il vecchio Ramundo, l’iniziatore del ‘68’ a Valle Giulia. Una persona di grande intelligenza, che io ho incontrato di nuovo molti anni dopo. Si può dire che egli fosse assolutamente il tuo contrario; aveva la corazza, ben visibile ma era scomposta; come quelli dei suoi compagni i suoi motti erano sempre apodittici, non avevano alcuna leggerezza. Quindi il nomignolo che ti affibbiò Quaroni – ne sono certo – da parte sua era un complimento; anche affettuoso. FZ Benissimo, infatti l’ho sempre conservato e non l’ho mai nascosto. LVB La tua tesi di laurea la ricordo poco ma mi pare fosse interessante. Era un grande intervento nella spina dei Borghi. FZ La tesi, di Piero Donin e mia, seguiva abbastanza la moda. Risentiva un po’ della ricerca di Aldo Rossi. Il tratto originale della tesi era la creazione di 154
uno spazio interno nel quartiere Borgo proponendo un negativo dello spazio di Castel Sant’Angelo. Era un fatto spaziale, plastico, tra positivo e negativo, che mi sembra avesse un valore. Claudio Dall’Olio fu l’unico professore della commissione a opporsi in modo assoluto alla lode. Penso che non abbia fatto male perché, come si dice, eravamo un po’ fighetti, à la page. Poi successe l’incredibile. Senza alcuna nostra iniziativa Aldo Rossi prese la tesi e la pubblicò alla Triennale, chiaramente come una punzecchiatura a Ludovico Quaroni; come dire: “ecco che i tuoi allievi sono nella mia Triennale”, cosa che non credo Ludovico gradisse per niente. E invece questa cosa portò a un bel successo. Fu poi molto pubblicata e ne venne fuori un caso, anche se di certo sopravvalutato. LVB In realtà i rapporti tra Quaroni e Rossi sono un po’ più complicati di quello che possano apparire. Secondo me Quaroni fu contento che la vostra tesi fosse pubblicata da Aldo Rossi. Ludovico si trovava nella commissione che promosse ordinario Aldo Rossi, ancora molto giovane, con il suo voto. Quaroni poteva essere anche in un forte contrasto ideologico con qualcuno, ma si inchinava sempre di fronte alla qualità.
E infatti poi, se non ricordo male, Rossi scrisse anche una bellissima prefazione a un libro di Ludovico, tanto che gli stessi ‘rossiani’ ne furono colpiti. La pubblicazione della tua tesi di laurea da parte di Rossi, dunque, secondo me fece parte di un reciproco omaggio all’intelligenza e al valore dell’altro. Effettivamente ambedue persone di grandissimo valore e intelligenza. Per proseguire cronologicamente sarei tentato, a questo punto, di chiederti subito qualcosa sul concorso con il quale entrasti formalmente nell’istituzione universitaria; il concorso da assistente ordinario da te vinto a Reggio Calabria. Ma preferisco riprendere seguendo i tuoi appunti, con la descrizione del tuo ingresso nella professione. E, dunque, con l’incontro con Sergio Lenci, personaggio certamente notevole nell’architettura romana e nella nostra scuola di allora.
FZ In effetti ci fu un anno, il 1973, che fu per me veramente rivoluzionario. Pier Paolo Balbo mi portò da Franco Briatico, presidente della GESCAL, che ci dette l’incarico delicatissimo della segreteria tecnica del Convegno sull’intervento pubblico nei centri storici per mezzo dell’edilizia economica e popolare. Un macro convegno – che fu tenuto a Venezia – che aveva una chiara impostazione attuativa riferita a dieci città. Si trattava, quindi, di un lavoro molto serio e impegnativo. Io e Balbo disegnammo i centri storici di venti città. Immediatamente dopo il convegno ci spedirono a vivere parecchio tempo a Bologna, per lavorare presso l’editore Il Mulino, con l’obiettivo di produrre il libro degli atti con Giovanni Evangelisti. È stata una scuola di vita dove imparai a scrivere un libro. Fu una situazione di incontri intellettuali incredibili. Si incontrava gente come Franco Andreatta come se si trattasse di persone qualsiasi. In quel momento intorno alla rivista il Mulino
Concorso per Piazza dei Mirti a Roma, prima fase (1989) 155