Prefazione
Questo libro nasce da un’intervista avvenuta in un assolato pomeriggio di giugno 2021 nella casa-studio-biblioteca di Andrea Branzi, a Milano. Quel giorno, mentre noi discutevamo di design e di ricordi, il grande terrazzo della casa stracolmo di piante e di fiori ospitava un set fotografico di studenti di fashion design. Un ragazzo alto, androgino, posava seminudo e disinvolto tra i vasi fioriti. Noi li vedevamo attraverso la vetrata, il modello, gli stilisti e i fotografi, ma loro ci ignoravano totalmente; la loro concentrazione e convinzione in quello che stavano facendo, assolute ed impenetrabili, nonché prive di pudore, rappresentavano uno sfondo lievemente surreale ma al tempo stesso perfettamente coerente con gli argomenti di cui stavamo dialogando all’interno della casa: il design, il senso di fare design, la trasmissione di questo senso alle generazioni future. La conversazione si è svolta quasi completamente lungo una traccia biografica. Il racconto di Andrea Branzi è un viaggio nel cuore del fenomeno del design italiano contemporaneo, attraverso lo sguardo e il racconto di chi stava effettivamente alla guida del movimento, essendone uno dei principali protagonisti. Nel racconto c’è il fermento premonitore degli ambienti fiorentini della 7
Luca Poncellini intervista Andrea Branzi
FIRENZE ___ Luca Poncellini: Pronti, via. Partiamo dall’inizio… il titolo che ho proposto per questo libro è un omaggio ad un’espressione che avevo letto qualche tempo fa in un libro scritto da te. Andrea Branzi: Ti riferisci al pensiero progettante? Sì. Trovo che “pensiero progettante” sia una formulazione davvero splendida e illuminante di ciò che penso debba essere la forza motrice di ogni designer o architetto, anzi la sua stessa anima, nonché il componente fondamentale del processo di trasmissione che avviene all’interno e attorno alle scuole di design e architettura. È molto meglio del suo equivalente inglese! Di quel “design thinking” di cui oggi parliamo tutti, che però quasi sempre viene usato solo per indicare una forma di approccio non analitico alla risoluzione di problemi complessi, più o meno in qualsiasi campo. Per me il pensiero progettante, invece, è operativo, è attivo, è sempre acceso, è inequivocabilmente in azione, in funzione, in movimento, in un presente continuo, ora, adesso, sempre… è costantemente 19
piuttosto chiaro ed evidente, tra il modernismo e lo strutturalismo. Lo perseguivano anche all’interno della scuola di architettura, cercando di formare gli studenti a quel tipo di progetto, o lasciavano libertà di espressione e ricerca? No, ognuno di loro faceva una cosa diversa, sicuramente con una certa dose di creatività, però non avevano le stesse nostre energie… È come se ciascuno di essi avesse una sua piccola scuola di pensiero e di maniera, mentre la sinergia tra gli studenti aveva creato subito una differenza di velocità significativa tra noi e loro. Contava molto anche la differente formazione politica, che in quegli anni era molto importante. Noi abbiamo avuto la possibilità di conoscere le avanguardie politiche, i nuovi filosofi della politica, Mario Tronti5 prima, e poi tutti gli altri. Questo tipo di formazione, autodidatta ma consapevole, ci ha permesso in qualche maniera di non essere trascinati nel vortice del ’68, in quelle occupazioni e in quelle proteste politiche che poi, da un certo punto di vista, hanno disperso molte energie e non hanno prodotto granché… Invece, arrivando ad un certo tipo di riflessioni già nel ’66, abbiamo sostanzialmente scavalcato il fossato in anticipo… Ma non è questo il punto. La cosa importante, ai fini della discussione 25
In effetti, nella logica delle band musicali, quando la formazione è al completo non c’è posto per altri membri… Ecco, appunto. Domus Academy aveva un rapporto stretto con la rivista Domus? Stesso nome, stessa famiglia… o questo è un mito? No, non c’era una vera omogeneità di vedute. Davvero? I progetti che venivano fatti in Domus Academy non venivano poi pubblicati su Domus? Si, qualche volta, ma non c’era una vera e propria connessione. Molto interessante. Sono sempre stato convinto invece che la fortuna internazionale di Domus Academy fosse dovuta soprattutto al fatto che la rivista funzionasse da cassa di risonanza. No, no! Procedevano su strade completamente diverse! 47
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Nei sistemi formativi di altri paesi è una cosa impensabile, quasi scandalosa, che gli studenti arrivino alla tesi dopo aver sostenuto tutti gli esami solo ed esclusivamente con lavori di gruppo. Da noi invece succede spesso. Non so se è bene o è male, ma la tesi è praticamente l’unica possibile rifinitura individuale che gli studenti hanno a disposizione. Sì, può essere. Mi sembra che gli studenti si sentano più liberi di elaborare proposte innovative o idee coraggiose nell’ambito delle loro tesi, piuttosto che nei corsi curriculari. Valeva anche per te? In generale era così. Anzi, è ancora così. Ma questo dipende un po’ anche dagli studenti, cioè dalla qualità degli studenti. C’è poi un’altra riflessione che trovo importante. Se i corsi sono l’ambito in cui la scuola trasmette conoscenza agli studenti, le tesi sono il momento in cui, al contrario, sono gli studenti a restituire alla scuola il panorama dei loro interessi, dei loro gusti, dei loro approcci culturali, dei risultati che sono in grado di raggiungere. Quando gli studenti sono totalmente liberi di scegliersi 59