Alfredo Lambertucci

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Tutte le fotografie e i disegni a corredo dei testi provengono dall’archivio privato di Alfredo Lambertucci, gentilmente messo a disposizione dalle figlie Sabina e Silvia.

ISBN 978-88-6242-724-1 Prima edizione maggio 2022 © LetteraVentidue Edizioni © per i testi: i rispettivi autori È vietata la riproduzione, anche parziale, effettuata con qualsiasi mezzo, compresa la fotocopia, anche ad uso interno o didattico. Per la legge italiana la fotocopia è lecita solo per uso personale purché non danneggi l’autore. Quindi ogni fotocopia che eviti l’acquisto di un libro è illecita e minaccia la sopravvivenza di un modo di trasmettere la conoscenza. Chi fotocopia un libro, chi mette a disposizione i mezzi per fotocopiare, chi comunque favorisce questa pratica commette un furto e opera ai danni della cultura. Nel caso in cui fosse stato commesso qualche errore o omissione riguardo ai copyrights delle illustrazioni saremo lieti di correggerlo nella prossima ristampa. Progetto grafico: Francesco Trovato LetteraVentidue Edizioni Srl via Luigi Spagna, 50P 96100 Siracusa www.letteraventidue.com


Indice 6

Una ricerca collettiva di Alessandra Capuano

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Maestri Romani Presentazione della collana di Orazio Carpenzano

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Autoritratto di una generazione (1920-1950) Introduzione alla collana di Lucio Valerio Barbera

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Alfredo Lambertucci, la religione del lavoro di Andrea Bruschi

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La dimensione collettiva nelle architetture di Alfredo Lambertucci di Pisana Posocco

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Tre testi di Alfredo Lambertucci Presentazioni di Andrea Bruschi e Pisana Posocco

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Due progetti di Alfredo Lambertucci Chiesa parrocchiale, Consalvi di Pisana Posocco Casa Lambertucci di Andrea Bruschi

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Regesto delle opere

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Intervista di Andrea Bruschi a Giancarlo Rosa

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Intervista di Pisana Posocco a Marta Calzolaretti

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Alcune note su Alfredo Lambertucci di Carlo Melograni

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Intervista di Pisana Posocco a Laura Thermes


Alfredo Lambertucci, la religione del lavoro Andrea Bruschi


Un bilancio della figura di Lambertucci a venticinque anni dalla sua scomparsa è per me particolarmente problematico perché mi trovo nel duplice ruolo di studioso e testimone, l’uno inscindibile dall’altro. Non vorrei però che questo contributo avesse solo l’inevitabile valore di una testimonianza, per me che frequentavo il suo studio già da bambino, prima il piccolo appartamento di lungotevere dei Mellini, poi a via Tiepolo, dove con mio padre aveva affittato uno spazio più grande con una camera anche per Luigi Gazzola. Anche se non continuativamente, ho collaborato con lui per oltre dieci anni e non posso dimenticare le emozioni, gli insegnamenti, le storie, le persone, i progetti. Ma, oltre all’inevitabile coinvolgimento personale, mi chiedo cosa ancora si possa aggiungere all’ormai cospicuo volume di studi e testi che da più parti ne hanno analizzato i progetti e l’attività di docente1. Quanto la distanza temporale può aiutarci a esaminare la sua opera con il distacco che ne autorizzi una riflessione a freddo, quanto del suo lavoro possa ancora emergere come persistente e confermarne i presupposti teorici e metodologici, la sua eredità per i posteri. Sebbene non sia stato propriamente un architetto teorizzatore, la sua attività era infatti sostenuta da un contenuto programmatico forte che non è mai stato del tutto evidenziato. Alcuni anzi hanno negato che tale programma esistesse, sottolineandone l’attitudine meramente professionale, tesi anche sostenuta sulla base del chiaro indirizzo dato come presidente di uno dei tre corsi di laurea in cui era articolata la Facoltà, il quale tendeva a formare “bravi architetti”, capaci di fare il mestiere, piuttosto che “architetti teorici”2. Se in vita Alfredo Lambertucci (Montecassiano, 19 marzo 1928-Roma, 10 aprile 1996) ha avuto poca fortuna critica, ampia è ormai la bibliografia sulla sua opera. Il primo testo è di G. Rosa (a cura di), Realtà, disegno, forma, Kappa, Roma 1983; l’ultimo in ordine cronologico è il lavoro collettaneo a cura di Pisana Posocco, Alfredo Lambertucci 1928-1996. Costruire lo spazio, Quodlibet, Macerata 2019, nel quale è presente un mio contributo dal titolo L’architettura come costruzione e le sue evoluzioni. 2 Cfr. infra, l’Intervista a Marta Calzolaretti a cura di P. Posocco, p. 152. 1

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costruttivo diviene in se stesso aggettivale. Il racconto architettonico si snoda attraverso spazi in accostamento, definiti da volumi semplici ma non elementari, diversamente caratterizzati dalla misura di una struttura che si assume il compito di configurarne le parti e le proporzioni, rinunciando al contributo della geometria. Il mattone è il principale materiale dell’architettura. Qui è inciso da lunghe bucature a nastro arretrate, che separano la parete dalla copertura rendendo meno perentorio l’assetto tettonico della volumetria. Sono caratteri ricorsivi. Oltre alla chiesa di Consalvi, sono di mattoni il quartiere INA-Casa di via Dario Campana a Rimini (1956), l’ufficio postale di Comacchio (1956) e l’aaltiano Istituto di Farmacologia alla Città Universitaria di Roma (1955), quasi un umile esercizio di stile, progettato nel momento più felice della collaborazione con Claudio Dall’Olio. Con l’Istituto di Farmacologia, completato nel 1959, sembra chiudersi un periodo di studi e inaugurarsi una nuova fase di ricerca su una costruzione più industrializzata ma non più rigida. Questa verte sul sistema di prefabbricazione che troviamo nell’edificio Laterza a Bari (1958), il pannello di cemento rifinito a graniglia di marmo, impiegato anche in seguito con molte varianti. L’impaginato delle facciate dell’edificio Laterza, a fasce orizzontali di calcestruzzo a vista che inquadrano campiture di pannelli verticali, ha forti analogie con quello della sede dell’Unione delle Banche Svizzere a Lugano, concorso del 1959, e soprattutto con quello del complesso edilizio realizzato nel rione Giardino (1960) e in seguito a viale Krasnodar (1969) a Ferrara. Mentre Mario Fiorentino utilizza lo stesso pannello nel secondo progetto per le torri di viale Etiopia (1960) e nelle case a Pietralata (1963), non c’è un riferimento diretto a esempi internazionali coevi, piuttosto una interpretazione. Denys Lasdun nella Keeling House (1954) e Lubetkin nel Dorset Estate (1951) a Bethnal Green, Londra, utilizzano una tecnologia di prefabbricazione molto simile che non sfugge al gruppo romano. Nel suo intervento al convegno I limiti della città: il borgo e la metropoli (1994), Lambertucci ricorda come in quel periodo «l’Inghilterra esporta con i suoi modelli insediativi una innovazione tecnico-costruttiva, praticabile anche da noi, basata su una razionalizzazione del cantiere che inizia con la modulazione dimensionale ed una prefabbricazione semipesante delle strutture orizzontali e soprattutto dei tamponamenti esterni in pannelli generalmente in cemento e 34

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Uso del mattone. Dall’alto: chiesa di Consalvi (1953), quartiere INA-Casa di via Dario Campana a Rimini (1956), ufficio postale di Comacchio (1956), Istituto di Farmacologia alla Città Universitaria di Roma (1955)

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Dall’alto: prospettiva e veduta della corte interna degli alloggi GESCAL di viale Krasnodar a Ferrara (1969)

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non è una giusta premessa per fare di questi nuclei residenziali di nuova edificazione dei veri centri di vita urbana. I destinatari dei grandi complessi di edilizia pubblica rivendicavano normalità, forse desideravano una condizione residenziale che mimasse quella della piccola borghesia, costituita da persone che, provenienti da condizioni analoghe alle loro, erano riusciti in un qualche modo a trovare autonomamente un proprio posto nella società e quindi nella città. È importante considerare lo iato che si era involontariamente creato tra domanda e offerta. Alcuni architetti erano molto impegnati nel pensare che i brani di città che si andavano costruendo potessero essere strumenti per un nuovo modo di vita. Questa riflessione è utile per guardare nuovamente al progetto di Vigne Nuove al quale Lambertucci collaborerà su invito di Lucio Passarelli. Nel 1972, solo pochi anni dopo il lavoro per il complesso GESCAL di Ferrara, inizia la progettazione del grande piano di zona nella periferia nord di Roma. Il tessuto edilizio dell’area non permetteva, come era successo a Ferrara, una integrazione e si scelse la strada del progetto unitario, dal segno forte; si voleva farne un nucleo di riferimento urbano per l’area. Anche in questo caso furono elaborate delle strategie per definire degli spazi comuni, degli ambiti in cui immaginare una vita comunitaria, aperta anche alla città circostante. Ancora una volta è individuata un’area aperta verde attrezzata con sedute e servizi sportivi. Questo spazio è tuttora molto ben conservato ed apprezzato dagli abitanti. Il piano prevedeva più di 550 alloggi (per un totale di 3333 vani), l’equivalente di un piccolo paese. Se i grandi fabbricati sono stati destinati alle residenze, a piano terra viene organizzata una sorta di strada urbana, un percorso che attraversa tutto il complesso collegando servizi e locali commerciali. Questa parte del progetto aveva dato forma ad una centralità locale usando misure e strategie desunte probabilmente dagli studi di morfologia urbana ma utilizzando figure che non provenivano dal repertorio storico. In tal modo si proponevano spazi ed architetture dall’aspetto non scontato, né immediatamente riconducibili ad un brano di città esistente; questo sistema di luoghi, che avrebbe dovuto a sua volta innescare un sistema di relazioni, non è stato riconosciuto e quindi non gli è stato attribuito un valore; conseguentemente non è stato utilizzato dai cittadini, soprattutto non è stato usato per le attività che erano state previste. Gli abitanti lo hanno occupato abusivamente, lo hanno trasformato, ALFREDO LAMBERTUCCI

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Tendenze evolutive del concetto di spazio nell’architettura contemporanea (1966) Il tema dello spazio architettonico e della sua modellazione ha rivestito per Lambertucci un’importanza fondamentale. Per lui l’evoluzione dell’architettura moderna passa attraverso lo sviluppo della sua identità spaziale. Nel testo il principio della “spazialità tridimensionale” e poi della “concezione spaziale dinamica e continua, aperta” sono al centro di un confronto fra l’eredità del Movimento Moderno, l’opera di Wright e quella di Mies van der Rohe, osservata nel suo mutare al passaggio tra Europa e Stati Uniti. Sono questi i capisaldi di una linea di ricerca sullo spazio architettonico ancora feconda e ricca di spunti. A partire da queste premesse, Lambertucci sembra interessato alla conquista di una metodologia per ottenere una “continuità spaziale” e quindi addivenire ad architetture che, superata la tradizione prospettica, si inverino in uno “spazio percettivo”. Il saggio sembra nascere dalla lettura del volume di Vincent Scully, L’architettura moderna ( 1961), che Renato Pedio, collaboratore storico di Zevi per la rivista «L’architettura. Cronache e storia», aveva tradotto nel 1963 per i tipi di Rizzoli. Non tanto il libro ma il suo autore è richiamato più volte e alcuni passaggi, anche se non citati, fanno direttamente riferimento al primo capitolo, Frammentarismo e continuità. Le osservazioni di Lambertucci sulla spazialità moderna si erano nutrite dello studio delle arti figurative, suo primo obiettivo di vita. Se le riflessioni qui esposte nascono dalla lettura di Scully, egli ne prende anche le distanze e, nello sviluppare il ragionamento, fa riferimento alle posizioni dello storico e critico d’arte Giulio Carlo Argan per sostenere le sue affermazioni circa il valore delle sperimentazioni spaziali. Per Lambertucci il ragionamento architettonico si muove all’interno della ambito formale figurativo e, se supera il confine disciplinare strettamente detto, è per far suoi sguardi e riflessioni proprie di arti affini. Dal testo si evince infatti come per Lambertucci la riflessione teorica e metodologica sull’architettura fosse un esercizio che prediligeva praticare all’interno del campo disciplinare: infatti dice esplicitamente che preferiva spostarsi “al di là dei confini del dibattito ideologico”. Le riflessioni contenute in questo testo anticipano alcune ricerche sullo spazio urbano dello stesso Scully: nel ragionare sulla spazialità architettonica del Movimento Moderno Lambertucci si spinge a pensare come potrebbe essere applicata al contesto urbano, come il passaggio tra modernità razionale e spazio continuo potrebbe modificare il disegno di nuovi pezzi di città; temi che configurano una sorta di critica al Movimento Moderno. (di Pisana Posocco)

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in «L’architettura. Cronache e storia», n.132, ottobre 1966, pp. 400-401.

La maggior parte della produzione architettonica di questi ultimi anni – è una osservazione del tutto immediata – si invera in una spazialità di chiara concezione tridimensionale e prospettica; e fa spesso riferimento a figurazioni che si risolvono nell’uso emblematico di forme geometriche elementari. Non si vuole, con questo, affermare che il panorama invero vario e sfumato che ci si offre può riassumersi nei suoi diversi aspetti entro un’unica, impossibile classificazione: semplicemente notiamo uno schematico carattere comune e ci apprestiamo a formulare, da questo punto di partenza, le osservazioni che ne scaturiscono. Potremmo leggere il fenomeno come esasperazione di una corrente di pensiero di vecchia data; potremmo, cioè, fare riferimento alla piuttosto diffusa definizione della critica d’arte, che fa derivare dalla crisi della sintesi barocca due diverse componenti, dalle quali avrebbero preso avvio due movimenti paralleli e antitetici che potremmo definire classicistico e naturalistico rispettivamente: il primo tendente alla creazione di un chiaro ordine geometrico, inverato in una spazialità raggelata in rigide volumetrie, in forme intellettualisticamente precise nella loro mitica astrazione fuori del tempo; il secondo completamente opposto, che rifugge dal rigorismo intellettuale e si pone alla ricerca di intuizioni e valori “naturali”, esprimendosi attraverso forme coloristiche e pittoriche, secondo quanto osserva lo Scully. Ma non insisteremo su un discorso riguardante i presupposti ideologici, anzi ci sforzeremo di superarlo per tentare verifiche sulla validità delle proposte di fronte ai problemi che l’architettura del nostro tempo è chiamata ad affrontare. Inoltre, in questa sede il nostro discorso non è interessato a valutare il grado di artisticità dei prodotti esaminati; piuttosto intende constatare indicazioni di carattere metodologico, che si riverberano dalle opere stesse. Al centro del dibattito sta l’affascinante e contraddittoria figura di Louis Kahn; egli polarizza l’attenzione di molti e tutto sembra procedere ALFREDO LAMBERTUCCI

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La qualità dello spazio abitativo. Una linea di ricerca nell’esperienza italiana (1994)

Il testo qui riportato è un saggio importante e significativo per differenti ragioni. È l’ultimo che Lambertucci scrive. È pensato per essere una riflessione sulla sua attività di progettista e in particolare si concentra sull’architettura residenziale, ripercorrendo i vari progetti cui ha lavorato, tenendo sullo sfondo le vicende italiane ed europee del periodo. Dimostra una rara capacità di analisi e un notevole esercizio di autocritica. È una sorta di testamento intellettuale. Non sono tanti gli scritti di Alfredo Lambertucci che hanno questo carattere storico critico, questo ha poi la particolarità di essere focalizzato su di sé e sul mondo in cui è vissuto. Il saggio mette in luce una grande capacità di lettura trasversale tra progetto e ricerca, tra teoria e pratica architettonica. La riflessione critica è una attività in cui Lambertucci si è cimentato con minor frequenza rispetto ad altri suoi colleghi, e forse non è un caso che questo testo sia la rielaborazione di una lezione tenuta a Camerino nel 1994 al Seminario di architettura e di cultura urbana, I limiti della città: il borgo e la metropoli, ovvero che nasca come una lezione e non come un testo saggistico. Il racconto si focalizza sulla produzione residenziale che ha caratterizzato lo sviluppo urbano nella seconda metà del Novecento, passando dal disegno di quartieri residenziali – inizialmente legati all’INA-Casa – per arrivare ai Piani di Zona, ai grandi progetti di scala urbana e infine prendere in rassegna i più recenti lavori che ritornano nel cuore della città, dove i progetti operano per sostituzione o vanno a costruirsi negli spazi lasciati liberi dalla grande crescita precedente. Il ragionamento è tutto focalizzato sul ruolo del progetto a grande scala, sulla sua capacità generativa di urbanità e di modi e modelli di vita. Non mancano osservazioni amare sui fallimenti di queste operazioni. Si può osservare una omissione: nel racconto non c’è traccia della produzione di case unifamiliari, case per la borghesia, a favore di una riflessione concentrata sull’edilizia residenziale economica e popolare che, agli occhi della sua generazione, è la forma fisica dell’impegno sociale e del valore politico che l’architetto ha maturato ed elaborato per la società. I grandi progetti urbani sono l’opera per eccellenza dell’architetto demiurgo. Lambertucci racconta questa grande epopea mettendo in luce alcuni punti deboli, alcune illusioni in cui la sua generazione è incappata. Il testo appare come il racconto si sé fatto con la maturità e la sincerità di chi vuole, anche attraverso i propri errori, insegnare qualcosa a giovani architetti, cui questa narrazione era dedicata. Sullo sfondo tesse un grande affresco della sua generazione. (di Pisana Posocco)

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in G. Marucci (a cura di), atti del convegno I limiti della città: il borgo e la metropoli, IV Seminario di architettura e cultura urbana, Camerino 28 luglio – 4 agosto 1994, Sapiens, Milano 1995, pp. 149-164.

In una ricognizione nel campo della questione residenziale, sia pure circoscritta al tema della qualità degli spazi, relativa alle esperienze italiane, si riscontra con evidenza la volubile connotazione con cui la cultura contemporanea, e specialmente quella nostra, ha disegnato il panorama dell’alloggio, della casa, della città. Un bilancio sull’oggi induce di conseguenza una riflessione sul passato per rintracciare le ragioni di un percorso complesso, riannodare i fili che legano esperienze apparentemente isolate, individuare l’intreccio fra questioni disciplinari e situazioni contestuali concernenti più dirette motivazioni politiche, amministrative, produttive, ecc. Uno sguardo all’indietro abbraccia almeno il periodo del dopoguerra e comprende quindi la generazione alla quale appartengo, laureatasi nella prima metà degli anni ’50. Ciò mi costringe ad un contributo che ha più il valore di una testimonianza che quello di un saggio critico, essendo il mio coinvolgimento più forte del distacco necessario al secondo tipo di approccio. Presentando alcuni miei lavori Arnaldo Bruschi ricordava come un posto rilevante della produzione di buona parte della nostra generazione fosse occupato dall’edilizia residenziale cosiddetta “economica e popolare”. “L’impegno in questo campo è stato, per noi, di straordinaria importanza: non tanto per i risultati ottenuti o non soltanto per le implicazioni ideologiche legate al tema, quanto per la sua determinante incidenza sui nostri orientamenti e strumenti metodologici e, in ultima analisi, linguistici. Non a caso la nostra formazione era avvenuta quando, negli anni ’50, l’incidenza dell’edilizia pubblica, in gran parte residenziale, era vicina ad un quarto della produzione edilizia nazionale; ed una prima crisi, anche umana oltre che linguistica, della nostra generazione era concomitante con la progressiva, drastica riduzione dell’intervento pubblico nell’edilizia abitativa. L’impegno (continua Bruschi) – non solo strettamente professionale ma anche di ricerca teorica e metodologica – in questo settore, ALFREDO LAMBERTUCCI

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Centro di servizi, Gannano (Taranto), 1953-56: planimetria, fronte, assonometria e veduta della cappella


Chiesa parrocchiale

Consalvi (Macerata) Progetto e costruzione: 1953-60 di Pisana Posocco

L’incarico per la chiesa è del 1953, lo stesso anno in cui Lambertucci si laurea; si tratta del complesso intitolato a San Gabriele dell’Addolorata da costruirsi a Consalvi, un’area rurale nei pressi di Macerata. Il progetto nasce già sui banchi dell’università: la prima ipotesi è frutto degli esami di Composizione Architettonica I e II, corsi che aveva sviluppato sotto la guida di Arnaldo Foschini1. La chiesa parrocchiale elaborata ha più di un punto in comune con il progetto realizzato e può quasi sicuramente dirsene l’origine. Fu don Renzo, il parroco della chiesa di Santa Croce a Macerata, che lo aiutò a proporre l’idea alla Diocesi. L’opera, eseguita per stralci successivi, si completò nel 1960. La chiesa che Lambertucci costruì deve essere stata una presenza strana che osava sfidare lo stereotipo dell’edificio sacro così come ereditato dai secoli precedenti e che portava con misura e appropriatezza il moderno nella campagna marchigiana. Deve essere stata oggetto di attenzioni, commenti e forse critiche, basti pensare che lì dentro, e per molti anni ancora, la messa sarà celebrata in latino e il sacerdote sarà rivolto verso l’altare, di spalle ai fedeli e non verso i partecipanti2. L. Vagnetti (a cura di), La Facoltà di architettura di Roma, nel suo trentacinquesimo anno di vita, Roma 1955, p. 120. 2 La prima messa in lingua italiana fu cele1

La Chiesa, proprio in quel periodo, avrebbe affidato la costruzione dei nuovi complessi parrocchiali ad architetti moderni3 e spesso il desiderio di rinnovamento sarebbe passato attraverso il recupero di stilemi e processi compositivi mutuati dal mondo rurale. Il lavoro di Lambertucci si colloca all’inizio di questa stagione in cui l’architettura moderna si mette alla prova sul tema dello spazio sacro. Il complesso parrocchiale di Consalvi è una architettura che «parla la lingua del popolo» prima ancora che lo faccia il sacerdote celebrante. Anche in questo si vede come Lambertucci operi con una idea di modernità al servizio delle persone: se la sua architettura sfida la tradizione è perché crede di poter offrire qualcosa in più alla comunità, crede di poter essere un posto al servizio delle persone che abitano quelle contrade, un posto che non sia lontano e sacro, ovvero separato, ma uno spazio sacro e domestico al contempo. Un monumento a misura di chi lo usa. Un luogo di qualità dove ritrovarsi e far crescere, sia da un punto

brata nel 1965 da papa Paolo VI, la Chiesa moderna iniziava così a rivolgersi alla gente con le parole della gente. Il cambiamento era maturato all’interno del Concilio Vaticano II (1962-1965). 3 I casi più rilevanti sono la diocesi di Milano nel periodo del Cardinal Montini, 1954-1963, e la Bologna del Cardinale Lercaro, 1952-1968. 123



Casa Lambertucci

Genzano di Roma Progetto e costruzione: 1973-77 di Andrea Bruschi

Nel 1969 Alfredo Lambertucci comincia a pensare alla costruzione di una casa in campagna per la propria famiglia. È quasi una fantasia architettonica, non un sogno o una visione, piuttosto un primo ragionamento su un tema che, a seguito di una riflessione lunga e meditata, lo porterà a ripensare molte delle proprie modalità espressive e a affinare un linguaggio più personale e maturo. Il processo non è breve. Si completerà solo nel 1976, sette anni dopo. Per la prima volta Lambertucci è committente di se stesso, libero da condizionamenti esterni, se non legati alle caratteristiche del sito e alla spesa sostenibile. Libero di pensare la propria casa come pura espressione architettonica, dichiarazione di una poetica e di una visione del mondo. Che non si tratti di un sogno è evidente fin dai primi disegni, piante, sezioni e prospetti già precisamente misurati nelle dimensioni che persisteranno in tutte le soluzioni successive. Pur rappresentando impianti che saranno abbandonati, questi disegni mostrano temi e fulcri concettuali che troviamo anche nella versione definitiva. Il principale elemento di interesse, forse legato alla mancanza di un sito ove realizzarla, è l’idea di casa in se stessa, pensata in astratto, l’abitazione ideale per la propria famiglia. Questa riflessione lo porta a individuare l’impianto centrico come tema persistente, l’idea di una casa a pianta centrale.

Immaginata in aperta campagna, la casa di famiglia è un oggetto fondativo, un padiglione nel paesaggio, lontana memoria dei casini nobiliari di caccia, un impianto rivolto verso se stesso, definito dalla propria geometria, poco interferente con l’esterno, metafora di un nucleo perimetrato, un nido protettivo. Il problema è fare anche una architettura moderna. Il problema è cosa sia moderno, come essere del proprio tempo in quel momento storico. Una indagine che sembra addirittura più importante dell’edificio in se stesso, in fondo la costruzione può aspettare, quello che conta è il progetto. E infatti Lambertucci vi ritorna più volte, ne conserva il tema, l’interpretazione del centro, ma lo declina in impianti e linguaggi via via decantati e depurati di ogni sovrastruttura, alla ricerca di un telaio espressivo essenziale e metodologicamente incardinato in un percorso verso un sottile equilibrio fra concettualità e costruzione. Come una casa palladiana, astratta e dialetticamente radicata nel luogo. Ma andiamo per gradi. Le ipotesi progettuali vedono sostanzialmente tre fasi, lo dimostra perfettamente Amanzio Farris e non è il caso di ripercorrere la sua analisi1. Ciò che invece interessa Cfr. A. Farris, La casa per sé come laboratorio sperimentale. Casa Lambertucci a Genzano, 1973-1976, in P. Posocco (a cura di), Alfredo Lambertucci 1928-1996. Costruire lo spazio, 1

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Intervista di Andrea Bruschi a Giancarlo Rosa

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CINQUE DOMANDE A GIANCARLO ROSA

Andrea Bruschi: Sono passati ventiquattro anni dalla scomparsa di Alfredo e quasi quaranta da quando curasti il primo volume, Realtà, disegno, forma, sulla sua opera. Un arco temporale non lunghissimo, ma che ha cambiato completamente il panorama della nostra società e il contesto del fare architettura. Visti da questa distanza quali contenuti del suo lavoro ritieni ancora persistenti e quali legati al suo momento storico? Giancarlo Rosa: Su Alfredo Lambertucci ho scritto almeno dieci testi, altre volte sono intervenuto in convegni sul suo essere architetto di sicuro valore. Di lui sono stato amico sincero e convinto estimatore del suo lavoro progettuale. Le domande che tu mi poni trovano risposta credo, già in quegli scritti. Ho iniziato, posso affermare, quando nessun’altro gli mostrava un interesse tale da dedicargli una monografia; l’ho fatto perché ritenevo fosse giusto e utile illustrarne il lavoro nel suo sviluppo temporale, contro le tante chiacchiere teoriche e le esibizioni di compiaciuti disegni “artistici” allora in voga, al punto di doversi vergognare di fare progetti per essere costruiti; anch’io per quello che avevo fatto venivo classificato un “professionista”, capisco perciò il sentimento di chi con onestà si interessava a far vivere bene la gente nelle case, sembrando non avere altri ideali. Chi poi pubblicava, come Alfredo, le proprie costruzioni su «L’architettura. Cronache e storia», aveva detto Renato Nicolini al Roxy: “i professionisti romani che fanno giustizia di sé pubblicando sulla

rivista di Bruno Zevi”, quale vergogna! Per tutto questo decisi di proporgli, con intenzioni manualistiche, una monografia nella collana Kappa “Architettura costruita”, ideata con Fabio Mariano in contrapposizione all’architettura solo disegnata, per cui contava il disegno, non il progetto. Voglio quindi dire quella che è stata la mia esperienza diretta, senza andare nel profondo, senza addentrarmi in interpretazioni critiche, posso solo brevemente testimoniare quello che mi diceva, quello di cui discorrevamo. Non voglio celebrarlo, voglio raccontarlo vivo, come se lo avessi visto l’altro ieri. Non voglio perciò dire quello che rimane di lui: ha fatto quello che si doveva fare, ieri come oggi, per avere la giusta architettura per l’uomo. Lo studio e la soluzione esatta della distribuzione degli spazi e dell’impianto strutturale per ogni singola funzione, controllato nella pianta, “deve funzionare come un orologetto” diceva; mentre il linguaggio delle forme, senza remore, poteva poi allinearsi a quelli del tempo. Credevamo al progetto come processo razionalmente riproponibile; ci intendevamo bene persino su cose, su usi della condivisa tradizione contadina, quale il rispetto per il pane, che se cade in terra, si deve prima raccogliere e quindi baciare. AB Della figura di Alfredo progettista si è parlato molto. Molto delle sue opere, meno del Lambertucci professionista. A partire dal tuo rapporto di collaborazione ai progetti, quali ritieni che fossero i principi che seguiva nell’approccio con la committenza? Che relazione stabiliva fra il prodotto progettuale, le esigenze del committente, il contesto sociale e politico nel quale ci si muoveva? 145


Intervista di Pisana Posocco a Laura Thermes

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Pisana Posocco: Per qualche anno ha collaborato con Alfredo Lambertucci aiutandolo nella didattica. Laura Thermes: Ho conosciuto Alfredo Lambertucci quando frequentavo al terzo anno il corso di Roberto Marino, di cui lui e Sergio Lenci, mio assistente, erano collaboratori. Tra gli studenti Lambertucci era ritenuto un buon docente, attento e interessato a discutere, indipendentemente dai temi del programma del corso, su letture anche extradisciplinari relative alle problematiche ritenute essenziali per il ruolo che gli architetti sarebbero stati chiamati ad assolvere nei decenni a venire. Appena laureata, nel 1971, accettai con piacere il suo invito a svolgere l’attività didattica nel corso del terzo anno, di cui era nel frattempo divenuto titolare. Avendo però vinto nello stesso anno una borsa di studio assegnata al corso di Disegno e rilievo di Igino Pineschi, collaborai nel 1971-72 con entrambi i docenti, redigendo una serie di dispense che conservo ancora. Successivamente scelsi di concentrare il mio contributo al solo corso di Progettazione architettonica di Alfredo Lambertucci, dove lavorai fino all’anno accademico 1973-74. Ero infatti interessata più ai processi di formalizzazione delle idee sull’architettura che a una riflessione sul disegno, così come veniva inteso in quegli anni nei programmi universitari. Inoltre i temi oggetto delle esercitazioni progettuali (“Attrezzature collettive nell’area di Ponte Milvio” e “Casa collettiva nell’area del Carcere di Regina Coeli”) erano stati affrontati da me nei precedenti anni di studio. La casa collettiva era stata uno degli edifici che avevo inserito nella proposta di ristrutturazione del quartiere San Lorenzo, tema della mia tesi di laurea.

PP Come ricorda la didattica di Lambertucci? Come si può inquadrare la sua attenzione al dettaglio? Si può dire che la sua didattica mirava a formare dei professionisti? C’era una dimensione di ricerca? O forse allora era così prepotente la volontà di lavorare sull’architettura, sulla sua concretezza, che lui vedeva l’impegno nell’adeguatezza dell’architettura al risultato? LT L’insegnamento si articolava in alcune lezioni ex cattedra, tenute, per quel che ricordo, esclusivamente da Lambertucci (fra le mie carte ho ritrovato il ciclostile soltanto di una mia lezione sul tema della casa collettiva), principalmente finalizzate a far capire allo studente la complessità funzionale, la logica tettonica e la forma del manufatto, attraverso la lettura di progetti e opere sul tema dell’esercitazione. Tali lezioni riguardavano anche questioni teoriche e linguistiche che egli però non affrontava con continuità, spostandole soprattutto sul piano delle soluzioni tipologiche e costruttive. La teoria e il lessico tettonico e architettonico erano da lui considerati aspetti di una pratica orientata, tratta da architetture di riferimento dalle quali ricavare indicazioni considerate come la formulazione logica delle scelte progettuali. Nell’esercitazione richiesta per l’esame si dovevano approfondire le relazioni tra lo spazio pubblico e le residenze, controllare la configurazione dell’edificio e curare la sua articolazione tipologica-distributiva. Non ricordo che si riuscisse ad arrivare al disegno di dettagli architettonici. La continuità della didattica era assicurata da revisioni settimanali delle proposte degli studenti nei seminari guidati dai collaboratori alla didattica. Pur essendoci non poche differenze fra noi 165



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