Decoloniare l’urbanistica

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DESCAMINO Direzione Scientifica Antonio di Campli Camillo Boano Comitato Scientifico Francesco Chiodelli, Università di Torino Ana Maria Durán Calisto, Yale University Samia Henni, Cornell University Catalina Mejía Moreno, Central Saint Martins, University of the Arts London

ISBN 978-88-6242-726-5 Prima edizione maggio 2022 © LetteraVentidue Edizioni © Antonio di Campli © Camillo Boano © testi e immagini: i rispettivi autori È vietata la riproduzione, anche parziale, effettuata con qualsiasi mezzo, compresa la fotocopia, anche ad uso interno o didattico. Per la legge italiana la fotocopia è lecita solo per uso personale purché non danneggi l’autore. Quindi ogni fotocopia che eviti l’acquisto di un libro è illecita e minaccia la sopravvivenza di un modo di trasmettere la conoscenza. Chi fotocopia un libro, chi mette a disposizione i mezzi per fotocopiare, chi comunque favorisce questa pratica commette un furto e opera ai danni della cultura. Nel caso in cui fosse stato commesso qualche errore o omissione riguardo ai copyrights delle illustrazioni saremo lieti di correggerlo nella prossima ristampa. Progetto grafico e copertina Gaetano Salemi Finito di stampare nel mese di maggio 2022 presso Priulla Print, Palermo LetteraVentidue Edizioni Srl via Luigi Spagna, 50P 96100 Siracusa, Italy www.letteraventidue.com


A CURA DI ANTONIO DI CAMPLI E CAMILLO BOANO

DECOLONIARE L’URBANISTICA


INDICE


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OPACITÀ, CREOLITÀ, QUEERNESS, BROKENNESS ANTONIO DI CAMPLI, CAMILLO BOANO

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DESCAMINO ANTONIO DI CAMPLI, CAMILLO BOANO

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TERAPIA PARADOSSALE: SPAZI NUOVI DAL MOMENTO CHE LA POLITICA NON PUÒ NULLA SAGGIO VISUALE

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ESERCIZI SITUATI DI DECOLONIALITÀ DEL SAPERE A PARTIRE DA UN CORPO FEMMINISTA BIANCO RACHELE BORGHI

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SENTIPENSANTE: IL CENTRO DI UN’URBANISTICA DECOLONIALE? CATALINA ORTIZ ARCINIEGAS

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CON IL CORPO A TERRA. UNO SGUARDO DAL FEMMINISMO DECOLONIALE CATALINA MEJÍA MORENO

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DECOLONIARE IL SYLLABUS ANTONIO DI CAMPLI, CAMILLO BOANO


OPACITÀ, CREOLITÀ, QUEERNESS, BROKENNESS INTRODUZIONE

ANTONIO DI CAMPLI CAMILLO BOANO


OPACITÀ, CREOLITÀ, QUEERNESS, BROKENNESS

Contra o mundo reversivel e as idéas objectivadas. Cadaverizadas. O stop do pensarnento que è dynamico. O individuo victima do systema. Fonte das injusticias classicas. Das injusticias romanticas. E o esquecimento das conquistas interiores. Oswaldo de Andrade, Manifesto Antropófago, Revista de Antropofagia, Anno, I, n° 1, maggio 1928

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Questo è un libro che non voleva essere un libro. Bizzarro, se non controproducente come inizio. Più vicino forse a quelle che Mogel e Bhagat chiamano “topografia di procedure”. Oppure più consono al “pensiero della traccia” di Glissant che permette fughe, allontanamenti, nascondimenti “dagli strangolamenti del sistema”. Un insieme di evoluzioni, dialoghi senza interlocutore, scritture scomposte, lettere senza mittente, che apre sui tempi diffratti di quelle narrative che costituiscono il discorso progettuale occidentale. Vuole sfuggire alla definizione ma compie, allo stesso tempo, una promessa, una affermazione forte verso un altrimenti. Ci piacerebbe che fosse quello che Glissant chiama “l’erranza violenta del pensiero condiviso”.

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Questo libro che non voleva essere un libro nasce da un incontro. O meglio da incontri, quelle relazioni appiccicose che Lola Olufemi esige nella sua opera. Appiccicose perché imbrigliate nelle biografie e nelle storie, che non si staccano dalla pelle, che toccano le vite, gli spazi, e le prospettive altre di chi scrive. Ma anche quelle tra libri, scritture che si “annidano” l’une nelle altre, che coesistono: tra Progetto Minore (Boano, 2020) e La Differenza Amazzonica (di Campli, 2021): scritture che svelano e problematizzano, suggeriscono il contrario, riducono la forza dell’urgenza del pragmatismo, rallentano i pensieri chiari, le figure, i gesti, allontanano i pensieri, oltre e al di fuori delle certezze. Confondono perché senza appigli se non quelli della pluralità, di riferimenti nuovi, della minorità e di linee di fuga, appunto. Svelano miti, disuguaglianze nel pensiero della produzione e della matrice storica dei poteri, dei dispositivi spaziali che li innervano. ANTONIO DI CAMPLI, CAMILLO BOANO

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DESCAMINO

ANTONIO DI CAMPLI CAMILLO BOANO


DESCAMINO

La

svolta decoloniale, il giro decoloniale, la proposta decoloniale è già una realtà in diverse discipline e istituzioni. Non è una dichiarazione di intenti ma una necessità, una urgenza, un richiamo potente1 che chiama in causa le discipline ed i Dipartimenti di Pianificazione Urbana e di Architettura particolarmente restii a spogliarsi delle strutture patriarcali, dell’arroganza disciplinare e delle violenze epistemiche che costituiscono il silenzio imposto dalla matrice modernità/colonialità2. Spesso mascherate e depotenziate attraverso processi di buonismo sociale, di impegno, di esternalizzazioni, di “architettura sociale”, della filantropia e dell’umanitarismo, queste energie, pratiche e teoriche, richiedono una più profonda riflessione sul privilegio e sulle responsabilità del sapere architettonico in quanto strumentale in frames moderno-coloniali definiti secondo categorie razziali e di classe. Si tratta di criteri e presupposti che implicitamente “oggettivano” le comunità subalterne come territori di studio e di intervento, siano esse in “via di sviluppo”, esotiche, altre o distanti. L’approccio decoloniale è da intendersi come profonda “riparazione” in grado di aprire nuove visioni per le spatial practices al di fuori della cornice manageriale, disciplinare e positivista che ancora infesta l’architettura, un campo del sapere storicamente fondato sull’ideologia di una pratica intrinsecamente ‘buona’, che lavora per il miglioramento, la civilizzazione, il progresso, lo sviluppo. Intesa come riparazione, la decolonializzazione del sapere e della pratica architettonica permette di concepire le pratiche spaziali come rimedio e ridisegno dei propri limiti sociali, storici e politici. Il pensiero architettonico ed urbanistico è formato e reso complice da un milieu intellettuale imperiale e scientifico che ha configurato il moderno ridefinendo, come minori, irrilevanti, periferici, altri pensieri a tal punto che «il processo di razzializzazione ha definito la vera essenza di cosa significhi moderno»3, operando come un principio di

1. Arday Jason, Dismantling power and privilege through reflexivity: Negotiating normative whiteness, the Eurocentric curriculum and racial micro-aggressions within the Academy, in “Whiteness and Education”, n. 3(2), 2018, pp. 141-161; Bhambra Gurminder K., Gebrial Dalia, Nisancioglu Kerem, Decolonising the University, Pluto Press, London, 2018. 2. Mignolo Walter, The dark Side of Western Modernity. Global futures, decolonial options, Duke University Press, Durham, 2011. 3. Cheng Irene, Davis II Charles L., Wilson Mabel O., Race and Modern Architecture. A critical History from the Enlightenment to the Present, Pittsburgh University Press, Pittsburgh, 2020, p. 11. ANTONIO DI CAMPLI, CAMILLO BOANO

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TERAPIA PARADOSSALE: SPAZI NUOVI DAL MOMENTO CHE LA POLITICA NON PUÒ NULLA

SAGGIO VISUALE


Chakra Amazzonica, Cantone di Tena, Ecuador. photo di Campli, 2019.


Chakra Amazzonica, Cantone di Tena, Ecuador. photo di Campli, 2019.


ESERCIZI SITUATI DI DECOLONIALITÀ DEL SAPERE A PARTIRE DA UN CORPO FEMMINISTA BIANCO

RACHELE BORGHI


ESERCIZI SITUATI DI DECOLONIALITÀ DEL SAPERE

Da dove parlo Sono una trans-femminista, donna cis-genere, europea, del sud dell’Europa, emigrata in Francia, bianca italiana (quindi piuttosto trash), queer con un posto fisso e anni di precariato accademico alle spalle, geografa, di lingua genitoriale italiana, no english speaker. Lavoro come professora all’università Sorbona a Parigi, quindi il mio impegno femminista per la creazione di un mondo decoloniale si concentra principalmente nel contesto accademico. È questo il mio spazio di riferimento, lo spazio del mio quotidiano, quindi quello privilegiato da dove cominciare a cercare di cambiare il mondo. Mi avvicino al femminismo tramite le teorie queer che leggo con grande difficoltà. Capendo poco, decido di autorizzarmi a capire quello che mi va e sviluppo una passione per il lato euforico del femminismo queer. Mi ritrovo ad essere (per ora) una geografa porno-attivista accademica trans-femminista. Come ci sono arrivata, non l’ho ancora ben chiaro. Di sicuro, l’incontro col post-porno e le relazioni che ne sono nate hanno segnato per me una tappa di cambiamento importante. La mia ambizione: rompere e superare il binomio teoria/pratica, ricerca/ attivismo, pubblico/privato, sapere intellettuale/sperimentazione corporea. Il mio lavoro s’incentra sulla decostruzione delle norme dominanti che si materializzano nei luoghi e sulle possibili contaminazioni tra persone e spazi. Per questa ragione le mie attività e pratiche fluttuano da un contesto all’altro. Le ricerche che porto avanti si basano sull’epistemologia femminista e decoloniale attraverso cui cerco di far esplodere i muri dell’università e far circolare persone, saperi, riflessioni, pratiche. Al centro del mio interesse c’è il corpo come spazio, come strumento di resistenza, laboratorio e veicolo delle relazioni. L’interesse per la decolonialità e per l’approccio decoloniale si traduce nel quotidiano in pratiche di insegnamento antioppressivo in ambito istituzionale e di ricerca. Utilizzo il privilegio di persona-con-posto-fisso-in-istituzioneaccademica per sperimentare pratiche di decolonizzazione della conoscenza, di trasmissione del sapere all’università, di rottura delle gerarchie tra sapere legittimato e non. Grande fan di Monique Wittig e di bell hooks, credo che Guerrigliera si possa nascere oppure diventare. Sono una studiosa militante bianca, il mio corpo non deve essere un luogo di enunciazione del pensiero e della teoria decoloniale ma un luogo di produzione di risposta, di tentativi di traduzione in pratiche di risposta alle suggestioni che il pensiero decoloniale afferma. RACHELE BORGHI

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SENTIPENSANTE: IL CENTRO DI UN’URBANISTICA DECOLONIALE?

CATALINA ORTIZ ARCINIEGAS

TRADOTTO DALL’INGLESE DA CAMILLO BOANO


SENTIPENSANTE: IL CENTRO DI UN’URBANISTICA DECOLONIALE?

The Latin-American reality in transformation deserves its own ideas to be explained … we seek to declare intellectual independence, to stimulate our talents and our own dignity, fighting colonialism. Obviously, this does not mean rejecting what other groups from different latitudes do just because they are from strange nations; such a thing would be myopic ethnocentrism, a real symptom of inferiority Fals Borda, 1978: p. 2351

S

tiamo assistendo a un crescente interesse attorno alla decolonialità nel mondo accademico anglosassone. Fino a che punto si tratta solo una tendenza, una richiesta di cambiamento radicale o una risposta organica alla longue durée delle prospettive occidentali-centriche? Forse è il consueto gesto di innocenza bianca o una nuova moda che rivaluta l’ego di molti accademici. Qualunque sia la ragione, è necessario rimanere vigili sulla cooptazione da parte degli studiosi bianchi occidentali dei vocabolari della decolonialità e allo stesso tempo, riconoscere sempre presente la coesistenza di diverse genealogie regionali di indagine intellettuale fondate su una prassi politica di critica degli impatti della colonialità e centrate sulle lotte anticoloniali. Nel caso della nozione di decolonialità, essa stessa proviene dagli studi culturali ed è emersa dal lavoro di studiosi della diaspora Latinoamericana, principalmente negli Stati Uniti. Questi studiosi hanno creato negli anni ‘90 un programma di ricerca chiamato Modernità/Colonialità (al quale si è poi aggiunta Decolonialità) riunendo attorno a sé un variegato e plurale gruppo di intellettuali. Con questo sfondo in mente, elaborato anche in termini cronologici in altri capitoli, l’attenzione di questo saggio si concentra su un precursore della prassi decoloniale che non si ascrive alla ‘scuola decoloniale latinoamericana’ mainstream. Mi soffermerò sulla nozione di sentipensar, introdotta dal sociologo colombiano Orlando Fals Borda (1925-2008) e avanzo l’ipotesi che questo concetto possa essere il nucleo centrale di un’urbanistica decoloniale. 1. Fals Borda Orlando, Revoluciones inconclusas en América Latina: 1809-1968, Siglo Veintiuno Editores, México, 1978. CATALINA ORTIZ ARCINIEGAS

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DESCAMINO 01

[1] Huila’s Bleeding, 2015.

mettendo in discussione l’idea che la cura è solo umana; ma ciò che lei propone è pur sempre un discorso centrato su un punto di vista etico, e non “incarnato” o corporeo. Allora questo legame con la terra, che propongo, che può essere interpretato come un’ecologia decoloniale, contrapposta al progetto moderno in cui la natura è sfruttata dall’uomo, è centrato sul legame di parentela tra corpo e terra, su una relazione che richiede cure reciproche, rispetto, intimità e affetto. È un’interrelazione e una reciproca connessione fisica e spirituale di connessione alla terra (e anche ai corpi idrici), è corpo-territorio-terra, come la chiama la femminista guatemalteca Xinca Lorena Cabnal. Ra-presentando il corpo-territorio-terra Carolina Caycedo è una delle artiste colombiane che ha concentrato gran parte del suo lavoro sulla visualizzazione, la ra-presentazione e la resistenza a progetti infrastrutturali su larga scala. Voglio portare il suo lavoro in questa discussione, perché è importante vedere come, dall’arte, il corpo-territorio-terra è materializzato e spazializzato attraverso pratiche della cura e dalla riparazione. Queste due immagini [1-2], una del Desangre del Huila (Huila’s Bleeding, 2015) e Tierra de los amigos (Land of Friends, 2014) sono parte del progetto BE DAMMED, guidato dall’artista e attivista colombiana, DECOLONIARE L'URBANISTICA


CON IL CORPO A TERRA. UNO SGUARDO DAL FEMMINISMO DECOLONIALE

[2] Land of Friends, 2014.

operante a Los Angeles, Carolina Caycedo. BE DAMMED indaga sugli effetti che le dighe idroelettriche hanno sui paesaggi naturali e sociali in varie regioni del subcontinente americano, le conseguenze della trasformazione dei corpi idrici da beni comuni a risorse privatizzate22. Entrambe le immagini sono potenti e rivelatrici. Nella prima immagine, la struttura estranea e corporativa della diga idroelettrica in costruzione contrasta nettamente con il pescatore, il suo lavoro e la terra che lui e la sua famiglia hanno abitato e vissuto, e che hanno curato e protetto per generazioni. La leggerezza e la trasparenza della rete gettata (rete da pesca) si sovrappone alla centrale idroelettrica in cemento sullo sfondo, rappresentando le complesse interrelazioni tra la costruzione della diga, intesa come istanza di potere che interrompe il flusso delle organizzazioni sociali e comunitarie e la repressione sociale che essa ha portato con sè23. Anche il gesto di gettare una rete è expresión física de resistencia contra la amenaza de poder corporativo, político y militar, encarnando una forma de conocimiento indicativo de prácticas 22. Caycedo Carolina, BE DAMMED, disponibile http://carolinacaycedo.com/be-dammed-ongoing-project. 23. Gómez-Barris Macarena, The extractive Zone: Social Ecologies and Decolonial Perspectives, Duke University Press, Durham, 2017, p. 95. CATALINA MEJÍA MORENO

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