Il mestiere cólto tra ratiocinatio et fabrica di Marco Petreschi
Nilda Valentin
In un libro che illustra i suoi lavori Marco Petreschi viene definito da critici autorevoli come Joseph Rykwert, Giorgio Muratore, Renato De Fusco, e altri, un «architetto romano»1. Una definizione che non coglie a fondo la complessiva italianità insita nei suoi progetti che cercano ripetutamente un equilibrio compositivo tra razionalità e organicismo. Un’architettura dove risulta evidente una sua personale creatività e libertà espressiva consapevole di progettare per costruire attraverso l’uso di forme geometriche ben studiate e controllate intese sia come componenti teoriche che pratiche. In altri termini, in equilibrio tra ratiocinatio et fabrica.
Un percorso progettuale che non si ferma alla semplice indagine volumetrica, ma scende alla scala degli interni e dei dettagli. Il suo metodo consiste, una volta definita l’idea, nell’indagare e curare la scelta dei materiali e il loro accostamento come pure i particolari costruttivi, questi ultimi intesi come parti fondamentali di un’architettura che in ogni caso non si allontana dai principi vitruviani dell’utilitas, venustas e firmitas. Tra i suoi obiettivi quello di creare un progetto caratterizzato da spazialità esterne ed interne uniche, unitarie e armoniose, studiate nella loro totalità al fine di superare i limiti dell’uniformità e della convenzionalità.
La suddetta pubblicazione racconta, pertanto, il modus operandi di un architetto e come le sue opere si realizzino consapevolmente con la storia, il luogo, le preesistenze, parallelamente all’uso di nuove tecnologie e tecniche costruttive. La finalità di Petreschi è quasi sempre quella di realizzare un’architettura integrale, in quanto prodotto della contemporaneità, che può essere essenzialmente definibile, parafrasando Christopher Alexander, come «timeless way of building», ovvero senza tempo, creata intenzionalmente o forse inconsapevolmente per attraversare il tempo senza limiti di continuità.
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1 AA.VV., Marco Petreschi, un architetto romano. Opere e progetti 1970-2006, Skira Editore, Milano 2007.
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Scuola media statale Pietro Metastasio, Cave, Roma (1986)
Fortuny, al Borghetto Flaminio, alle spalle dell’attuale sede della Facoltà di Architettura in via Flaminia, concorso vinto nel 1985, non sarà mai realizzata, ma qui spicca un altro tipo di atteggiamento: struttura e ornamento si uniscono per creare un’insolita immagine compositiva. Qui il progetto si allontana dal razionalismo per abbracciare per la prima volta la sperimentazione di un sofisticato eclettismo composto in parte da pilastri esterni binati che, pur essendo strutturali, scandiscono le facciate come se fossero partiture ornamentali e decorative. Un progetto per certi versi simile a quello per la Ca’ Venier dei Leoni a Venezia, elaborato nell’ambito della III Mostra internazionale di Architettura del 1985 dove l’immagine finale del volume, l’effetto facciata, lungo il Canal Grande, vuole essere volutamente scenografico.
Un gesto che si riproporrà nella progettazione del grande palco papale per il Grande Giubileo del 2000 tenutosi a Tor Vergata, che fece da sfondo ad una platea di circa due milioni di giovani pellegrini provenienti da tutte le parti del mondo, un allestimento definito “Instant city”, in una lettura critica di Marcello Fagiolo10, e addirittura una nave che attraversa i secoli, come la descrive in un saggio Franco Purini11, mentre Michele Costanzo ne parla come «un grande simbolo della dimensione spirituale e sociale d’incontro delle genti»12.
Un progetto che recupera, attraverso l’edificazione di una struttura provvisionale, l’elemento simbolico accantonato dall’architettura moderna e ne fa una narrazione astratta di alcuni stilemi e iconografie del Cristianesimo, dalla tenda intesa come tempio, al grande muro a strati che rappresenta il succedersi delle civiltà, nel quale penetra la grande croce quale salvezza dell’umanità. Un evento voluto da Papa Giovanni Paolo II inteso come opportunità per coinvolgere attivamente i giovani alle soglie del nuovo millennio.
Con la scuola media statale Pietro Metastasio a Cave, iniziata nel 1986 e mai completata, si ritorna ai volumi puri senza tuttavia abbandonare il
10 M. Fagiolo, La scena della Instant City a Tor Vergata, Roma, in «L’Architettura. Cronache e storia», n. 548, giugno 2001, pp. 338-341.
11 F. Purini, Palco per il Giubileo dei giovani a Tor Vergata, Roma: tre archetipi e una figura, in «L’industria delle costruzioni», n. 353, marzo 2001, pp. 52-59.
12 M. Costanzo, Il palco di Tor Vergata per il Giubileo dei Giovani, in «Parametro», n. 238, marzo-aprile 2002, pp. 90-93.
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Il linguaggio architettonico nell’opera di Marco Petreschi
Massimo Zammerini
Quando frequentavo la Facoltà di Architettura di Roma, negli anni Ottanta, noi studenti sceglievamo i docenti con i quali seguire i corsi. A differenza di oggi, dove l’ordinamento prevede un’assegnazione “per lettera” in base al cognome dell’allievo, noi potevamo articolare il percorso didattico in relazione alle diverse figure presenti nella facoltà, portatrici di visioni culturali tra loro diverse, secondo un’idea che univa la libertà di insegnamento dei docenti con la possibilità da parte degli studenti di sceglierne gli orientamenti. La scelta del docente di un corso di Composizione, oggi Progettazione, si basava inoltre sul complesso rapporto che ha sempre legato la figura del docente con quella del progettista che, a varie scale, opera trasferendo lo spessore dell’approfondimento scientifico accademico nel mondo del lavoro. Una prassi, questa, consueta per i “maestri” italiani, una tradizione consolidata e di lunga durata, che ha garantito il reciproco travaso tra la dimensione teorico/culturale della disciplina e la dimensione applicativa nella realizzazione delle opere di architettura. Il binomio teoria/pratica ha sempre connotato tutte le discipline poiché la relazione tra sapere e saper fare permea ogni attività umana di tipo speculativo, a partire da quelle che sembrerebbero, erroneamente, le più distanti come la letteratura nel passaggio dallo studio alla scrittura o la musica nel processo che lega l’esecuzione alla composizione. L’opera realizzata, così come nel caso di un testo scritto, un brano musicale, un artefatto dunque, e certamente un edificio, sintetizza il processo complesso che trova nella “soluzione” il suo fine principale. La storia e la critica dell’architettura concentrano l’attenzione sull’analisi degli esiti di tali processi, le opere, così come l’ampia letteratura sull’argomento ci racconta.
Sceglievamo, dicevo, i professori, certamente per i programmi, ma nel caso della disciplina della Composizione architettonica, cercavamo di conoscere la loro produzione di architetti. Intorno alla facoltà c’erano ben tre librerie di architettura, oggi chiuse con enorme danno per studenti e professori. In una delle tante visite alla libreria, dove era consuetudine
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che appaiono invece relazionarsi con una tradizione centro italica, si senta l’eco di quell’atteggiamento inclusivo che Carlo Scarpa mette in atto nell’intessere le sue fitte trame geometriche che si estendono idealmente al di fuori del nuovo, legandolo al contesto preesistente. Un altro punto di contatto con il maestro veneto lo ritroviamo nella volontà di porre la scelta e l’uso del materiale da costruzione come fatto integrato fin dal principio nell’atto compositivo, ed è innegabile che i materiali ricorrenti come il travertino, il tufo, la pietra, il mattone e il legno dichiarino in modo naturale, senza forzature, sia un’appartenenza “regionale”, sia un’assonanza, soprattutto nei progetti più recenti, con i caratteri dell’architettura italiana del Novecento. Difatti, le diverse esperienze straniere di Petreschi, sia in ambito accademico che nelle occasioni di lavoro professionale, e il suo essere calato nello spirito del suo tempo nelle varie fasi di un lungo percorso che attraversa mezzo secolo, non gli ha impedito di perseguire un’idea di architettura basata su uno schema compositivo storicamente collaudato: basamento – elevazione – coronamento, dove gli attacchi a terra appaiono saldamente innestati nel terreno. Un’architettura massiva nelle sue parti di ancoraggio che poi nelle elevazioni si articola nelle alternanze dei pieni e delle bucature cercando costantemente soluzioni chiaroscurali, affidate ad incassi anche profondi, come testimoniano i disegni di prospetto a matita segnati da un’espressiva ricerca del gioco tra ombre e superfici in luce. Ad eccezione della casa dell’Ottico, uno dei pochi edifici a tetto piano, rielaborazione di un’assonanza modernista anche nell’uso dell’intonaco e del suo colore bianco, ma già affrancato da una piatta aderenza al modello proprio in virtù degli scavi in profondità sulla facciata e dagli aggetti di alcuni volumi, molti progetti ripercorrono il montaggio tripartito di ispirazione classica. Questo fatto si ritrova anche nella casa del Notaio ad Avellino del 1990, nel palco per il Grande Giubileo del 2000 a Tor Vergata, nelle case a Porto San Paolo del 2002, talvolta con la fusione del basamento con l’elevazione, come nella Scuola Pietro Metastasio di Cave del 1986, nella chiesa di San Tommaso Apostolo a Roma del 2014, nel Centro direzionale del Ministero della Difesa sempre a Roma del 2006 e nella più recente sede della Banca Centrale di Albania.
Uscito sostanzialmente indenne dalle derive postmoderniste che hanno afflitto, per non dire avvilito, anche la scuola di architettura di Roma per quasi un ventennio (dalla fine degli anni Settanta alla metà degli anni
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In alto: Scuola media statale Pietro Metastasio, Cave, Roma (1986)
In basso: Centro parrocchiale di San Tommaso Apostolo, Roma (2006-14)
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Marco Petreschi
Dialogo con Vittorio Ballio Morpurgo (2018)
Settant’anni dopo che Vittorio Ballio Morpurgo costruisce la sede principale della prima Banca Nazionale di Albania a Tirana, situata proprio nella piazza centrale della capitale, Petreschi nel 2008 ne affronta il restauro e l’ampliamento della Banca. Il progetto doveva migliorare la funzionalità dell’edificio esistente così come creare nuovi spazi per il personale e i visitatori.
Il confronto con un edificio che nel frattempo era diventato patrimonio storico del paese porta Petreschi a seguire un iter progettuale di studio e indagine approfondita della preesistenza dal punto funzionale, strutturale, dell’uso di materiali, arredi e dettagli.
La scelta di entrare in sintonia con la preesistenza storica, rendendola compatibile con l’innovazione, è tuttora uno dei principali argomenti progettuali riconoscibili delle opere architettoniche di Petreschi.
Per tale ragione è stato scelto questo saggio in quanto a distanza di anni rappresenta un incontro tra due architetti che non si sono mai conosciuti ma che la vita ha casualmente fatto incontrare. Infatti, Morpurgo, nato a Roma nel 1890, insegnerà nel 1930 Architettura degli Interni presso la Scuola Superiore di Architettura di Valle Giulia a Roma e nel 1960 diverrà anche preside della Facoltà di Architettura della Sapienza Università di Roma. Nel 2002 Petreschi è presidente e fondatore del corso di laurea in Architettura degli Interni e Arredamento della stessa Facoltà.
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(di Nilda Valentin)
Prima di entrare nell’impossibile e quantomeno surreale dialogo con Morpurgo, che mi ha aiutato non poco a progettare l’intervento di restauro e addizione della Banca di Albania, desidero soffermarmi per un attimo sul tema del restauro dei manufatti moderni e persino contemporanei che recentemente sono stati riconosciuti di grande valore culturale. Appena un cenno utile a introdurre il mio progetto.
È noto che solo da pochi decenni si è rivolta l’attenzione a tali edifici. Si pensi al quartiere Weissenhof di Stoccarda, alla replica discussa del padiglione di Mies van der Rohe, alla Casa del Fascio di Terragni o alla palazzina della scherma del Foro Italico di Moretti, a Villa Savoye di Le Corbusier. Questo per dire che esistono varie metodologie che sono state spesso oggetto di dibattiti, discussioni e convegni. Fin dall’antichità si discutevano tali problemi. C’era perfino chi stilava dei veri e propri regolamenti sulle modalità d’intervento e trasformazioni sulle antiche costruzioni come ad esempio il metodo esposto da Sebastiano Serlio nel suo trattato o chi di questi problemi non se ne è mai curato. Per quanto mi riguarda, ho scelto il metodo della continuità, ovvero, del dialogo con la preesistenza in sintonia con Charles Gwathmey, uno dei Five, che più volte mi espose il modo in cui restaurò e ampliò il museo Guggenheim emulando, non so quanto consapevolmente, la tradizione della scuola italiana. Valga per tutti la sede dell’ENPAS a Bologna di Saverio Muratori.
Non è certo facile in poco tempo trasmettere un complesso iter progettuale durato circa sette anni, come pure descrivere in che modo ci si è presa cura di un edificio d’importanza storica. È, com’è facile comprendere, questione assai complessa e, oserei dire, laboriosa. Sta di fatto che quando, con il mio studio, partecipai al concorso internazionale per il restauro e l’addizione della banca, ritenni subito che l’unico sistema più idoneo sarebbe stato quello di entrare in dialogo con l’autore che, seppure scomparso, manteneva ancora viva a Roma la sua presenza, essendo stato, tra le sue tante cariche e attività, preside della Facoltà di Architettura di
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in M. Petreschi, Architecture Between Historical Heritage and Innovation - L’esempio della Banca di Albania, Gangemi Editore, Roma 2018, pp. 28-39.
Marco Petreschi
Discorso minimale sulla costruzione di uno spazio sacro nella periferia romana
(2013)
I due saggi che seguono, per quanto trattino argomenti differenti, sono in effetti legati tra loro in quanto il primo non esisterebbe senza il secondo, che spiega come qualsiasi idea e la sua conseguente immagine di uno spazio laico o sacro che sia, prodotta dall’autore, non può nascere per esprimere il proprio segno linguistico senza l’uso costante del disegno architettonico a mano libera, strumento imprescindibile e inconfondibile per il compimento di qualsiasi progetto di Marco Petreschi. Un saggio il cui principale obiettivo è quello di tracciare alcune linee sugli eventi fondativi della costruzione di uno spazio sacro di rito cattolico. Da questo scritto emergono molteplici argomenti, derivati dall’esperienza diretta dell’autore, intesi ad anticipare l’idea e l’atto della costruzione. Di particolare interesse ad esempio l’articolato rapporto tra aspetto cultuale e architettonico come pure la riflessione sull’abbandono, come avveniva un tempo, dell’unitarietà dei ruoli tra il liturgista con le sue regole e l’architetto con le sue aspirazioni estetiche e in più con l’artista che aveva il compito di veicolare messaggi universali ai fedeli. Altra puntuale osservazione riguarda il rapporto tra le chiese e i loro contesti e la funzione sociale da queste svolta in particolare nelle periferie romane. Questioni come tante altre evidenziate con cura dall’autore che lascia aperto il dibattito attorno a interessanti e poco esplorate tematiche. Da questo saggio si rileva con evidenza che il disegno manuale sia la base indispensabile della formazione dell’architetto e che debba restare una pratica costante nell’intero arco della sua vita. Tale riflessione tra altre emerge dal testo di Petreschi a partire da alcune sue considerazioni sulle relazioni tra generazioni, introdotte dall’affermazione condivisibile che «un disegno di un architetto non è lo stesso di un disegno di un pittore o di uno scultore», come anche l’idea che il disegno di architettura sottintenda le conoscenze dell’arte di edificare. Più problematica invece l’idea che ritrae le nuove generazioni come “nuovi barbari”, che appaiono aperte alla conoscenza pur se omologate ad un “mito del nuovo” semplificato e di facile accesso. Si tratta dunque di raccogliere l’invito di Petreschi a scongiurare l’oblio di una disciplina che grazie ai suoi fondamenti scientifici ha rivoluzionato le arti tutte dal Rinascimento in avanti, ma che ha un futuro, a mio parere, affianco alle nuove modalità tecnico/creative del digitale.
(di Massimo Zammerini)
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La realtà non virtuale del disegno a mano libera (2011)
Lo spazio sacro può essere inteso sia in senso laico che religioso. Sono luoghi sacri ad esempio, un sacrario di vittime di guerra, un luogo eretto in memoria di olocausti o di calamità o per ricordare un evento colmo di gloria come un atto di eroismo o la nascita di una nazione o la ricorrenza di un evento fausto. Lo sono ancor più per un fedele un santuario, una chiesa, una sinagoga, una moschea o un’edicola votiva. Questi luoghi in genere possono essere compresi in una tipologia architettonica che definiamo cultuale, un ramo della quale è l’ecclesiale.
Il presente saggio porrà attenzione su quest’ultimo settore e in particolare sulle problematiche relative alla progettazione e alla costruzione di un luogo di culto di rito cattolico che, a differenza di altri, pur se deputati a funzioni celebrative, presenta diverse questioni altrettanto complesse. Si tratta, infatti, di ricercare, nella fase di concepimento progettuale, una sintesi tra idea formale, strutturale e regola liturgica, che sia in grado di tracciare linee fondative e, direi, addirittura invariabili per un edificio templare che comunichi atmosfere dense di valori religiosi e spirituali. Linee fondative e invariabili in quanto attorno a esse sicuramente si sovrapporranno nel tempo tante sovrastrutture decorative, di arredo o altro che non dovranno modificare la concezione dell’idea simbolico-spaziale originaria. È importante capire che per edifici di tal genere il lavoro dell’architetto non è altro che un lavoro iniziale.
Sarebbe ingenuo pensare di realizzare qualcosa di immutabile. La storia ci insegna, infatti, che in quanto edifici sorti per celebrare un culto, quest’ultimo, in relazione a molteplici esigenze sociali, culturali, perfino politiche, è destinato a modificarsi parimenti alle comunità che si sovrapporranno periodicamente col trascorrere del tempo, in quegli spazi e che inevitabilmente ne trasformeranno l’assetto e la ritualità con conseguenti alterazioni che arricchiranno, e in alcuni casi deterioreranno, le superfici e le membrature del manufatto originario. Dunque l’architetto che progetta uno spazio sacro deve partire dalla consapevolezza
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in M. Petreschi, Chiese della periferia romana, Dal Grande Giubileo all’anno costantiniano, Electa Editore, Milano 2013, pp. 25-36.
In alto: Veduta volumetrica e planimetrica della Banca Centrale di Albania
Al centro: Veduta del nuovo ingresso da Rruga Ibrahim Rugova
In basso: Sezione longitudinale lungo l’asse principale
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Banca Centrale di Albania
Tirana, Albania Restauro e ampliamento: 2008-2015 (con G. Amadei, M. Pascucci, N. Valentin, A. Archilletti)
di Nilda Valentin
L’aggiudicazione dell’incarico per il restauro e ampliamento della Banca Centrale di Albania a Tirana, nata dagli esiti di un concorso internazionale del 2008, sotto l’egida della Banca Centrale Europea e della Banca d’Italia, offre a Marco Petreschi l’occasione di affrontare un progetto integrale. L’intervento è stato sviluppato tenendo conto di tutte le scale, da quella urbana a quella dell’architettura e del restauro, con conseguente verifica delle qualità strutturali e antisismiche, correlate entrambe con particolari costruttivi e degli interni, fino a eseguire, progettandoli, i minimi dettagli e l’arredo. Il tutto eseguito con l’obiettivo di entrare in uno stretto dialogo con il palinsesto architettonico originario.
Settanta anni prima fu Vittorio Ballio Morpurgo a costruire la sede principale della prima banca nazionale del paese. Il luogo era strategico, al centro della capitale, cioè, a piazza Scanderberg. Il nuovo edificio doveva rappresentare non solo il potere istituzionale ma anche quello economico della nuova nazione. A tal fine fu adottato lo sviluppo di un’architettura razionalista seguendo una “via tutta italiana”, sobria e massiccia, ma allo stesso tempo attuale e semplice che era contemporanea e non convergente con il Movimento Moderno presente in Europa, allora rappresentata da
architetti come Le Corbusier, Mies e Gropius. Di fatto, nella sostanza, seguiva un filone piacentiniano classificato da alcuni storici come “stile littorio-monumentale” o “classicismo semplificato”.
Il progetto per il restauro e l’ampliamento della Banca di Albania a Tirana si è posto il compito di proporre sia una nuova organizzazione funzionale e distributiva propria di una moderna banca che una soluzione in continuità con la forte preesistenza storica. Tutto ciò nel rispetto delle normative europee e dei vincoli edilizi e storici imposti dal bando. Pertanto, il progetto è stato esaminato sia dal punto di vista operativo che dal punto di vista storico e strutturale in quanto era fondamentale conoscere non solo l’architettura e i suoi interni, ma anche lo stato di fatto e il livello di degrado dell’edificio.
Dopo numerosi sopralluoghi e un’attenta indagine presso diversi archivi, biblioteche, anche albanesi, si arriverà all’individuazione di tutti quegli elementi caratterizzanti del fabbricato esistente in termini di spazio, materiali e dettagli. L’obiettivo era lo sviluppo di una serie di soluzioni architettoniche in dialogo critico, ma allo stesso tempo innovativo con l’edificio storico. Nello specifico, l’idea compositiva per l’addizione della Banca di Albania ha preso spunto, tra l’altro, dall‘asse diagonale strutturante
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