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STEFANO PUJATTI
Michela Falcone
INDICE
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ANTONINO SAGGIO SU STEFANO PUJATTI
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PREMESSA
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GOING WEST Da oriente a occidente Il ruolo dell’acqua Lavorare con il paesaggio Mentalscapes
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MANIFESTO “I don’t know” Tensione e compressione: elastico Architettura coraggiosa
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METODI Nella FARM I plastici
64 66 74 82
ESPERIMENTI Il clima Crisi, imprevisti, idee Il cantiere
90 92 106 113 120
COSTRUZIONE Peso specifico Trasformazioni fisiche Architettura di dettaglio Materia e tempo
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PER APPROFONDIRE CREDITI
IMPRINTING Da anni i miei colleghi all’estero mi dicono: «Ma che succede all’architettura italiana? È dai tempi di Rossi e della Tendenza che non sappiamo più nulla di voi!». Rimango sempre interdetto. Ma da un poco di tempo ho cominciato a pensare a questa crisi. «Ma non è vero – mi dicevo – noi abbiamo almeno una dozzina di architetti di grande valore. Ma com’è che anche questo amico così colto e importante non ne sa nulla?» Non so come, ma una volta ebbi l’illuminazione. Non la conoscono la nuova architettura italiana perché la “narratività” è sbagliata. Loro pensano a un nuovo stile unitario perciò non capiscono il valore di questi nostri architetti. Bisogna sostituire alla narrazione antica (lo stile metafisico condito di “architettura cittadina” della buonanima di Marcello insieme alla passione pure ideologica per la Stalinallee) una diversa chiave interpretativa. Il primo elemento di una nuova narrazione deve far comprendere che il valore non passa affatto per un nuovo stile. Un linguaggio comune semplicemente non c’è in Italia. Tutto è cambiato e anche l’antica categoria dello stile è defunta insieme all’ideologia. Il fatto che non ci sia uno stile omogeneo è, invece che una debolezza, una forza di questa nuova condizione. Ma come faccio a dare forza al concetto? A un certo punto ho avuto la seconda idea. Mi dissi: «Ma certo! Bisogna far capire l’Imprinting». Da tre decenni ci penso. Deriva da una miscela. Da una parte c’è Konrad Lorenz. Ricordate quando il grande etologo coniò il termine? Illustrava il fatto che gli essere viventi nei primi tempi della loro vita costruiscono dei luoghi mentali che costituiscono la loro presa di coscienza del mondo. Compì l’esperimento con le ochette orfane che si fecero convinte che lui, Konrad, fosse la loro madre e per tutta la loro vita si rapportarono con lui come la mamma. Questa scienza è. Ma pensai, secondo me noi animali umani facciamo di più. Creiamo questo Imprinting non solo con le persone ma anche con i luoghi.
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I luoghi della nostra infanzia vengono a costituire un “paesaggio nativo” o meglio: «Dietro a tutte le nostre attività intenzionali, dietro al nostro mondo domestico, c’è questo paesaggio ideale creato durante l’infanzia. Esso attraversa la nostra memoria selettiva e autocensurata, come un mito ed un idillio di come le cose dovrebbero essere, il paradiso perduto da riconquistare», scrisse Colin Ward. Ora mi domandai, ma vero è? E cominciai a fare delle verifiche. Comunicai a lavorare sull’Italia e mi chiesi: «Qual è il paesaggio perduto di Terragni?». Beh non è difficile, una volta così impastata la questione. È il cardo decumano del castrum romano. È l’astrazione razionale, il dominio delle regole umane sulla natura. E d’improvviso capii la Casa del Fascio. Questo prisma astratto che domina la vetta di Brunate che lo sovrasta. Vince il cardo decumano che vediamo dappertutto nella Casa del Fascio sul paesaggio. In Padania insomma permane l’Imprinting di quell’infanzia mitica del segno astratto di fondazione per riemergere, anche secoli dopo, nelle menti più sensibili. Aldo Rossi che dipingeva la Milano della periferia da ragazzo non poteva che essere lombardo. Poi mi chiesi: «E al Sud che succede, la stessa cosa è? Lo stesso Imprinting c’è?» No è diverso. Lì il mondo come deve essere è quello dell’infanzia mitica greca. È l‘ara che si erge come inno al cielo e agli dei. È una architettura mono-materica dal chiaroscuro abbagliante che appunto ricorda la nascita della stele, dell’altare, del tempio in cima al monte. Il mio primo test fu con Pasquale Culotta. Non v’erano dubbi, era un’idea che con Pasquale funzionava a meraviglia, lo rivelava, lo interpretava, forniva le giuste chiavi di lettura della sua architetture a Cefalù e dintorni. E poi mi dissi: «E al centro di questo nostro paese, che succede? È romano?». No, non è romano questo è il bello: non è affatto romano, ma etrusco. L’infanzia perduta e sempre ricercata in questa regione d’Italia è quella dove l’architettura si dà come matrimonio con l’ambiente. Una terra vulcanica in cui si scava il tufo per fare i percorsi sacri nelle vie cave. È lì dove emerge una relazione sezionale tra architettura e natura.
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Alessandro Anselmi fu il mio primo test. E naturalmente ancora altri con Piranesi, e il frammento, e la scena urbana. Funzionava. Almeno tre macro Imprinting esistono in Italia, al Nord vince la pianta e l’astrazione romana, al Sud vince il prospetto della Magna Grecia e al centro vince la sezione, potevo anche aggiungere ricordando un pezzo di Franco Purini su “Casabella” del gennaio del 1991. Fermiamoci qui. Avevo l’idea della narrazione nuova per disegnare una collana. Mi dissi voglio solo architetti italiani, affermati, maturi. Niente promesse. E voglio autori-critici di prim’ordine. O giovani che mi conoscono bene e che vogliono “imparare” ancora da me, oppure vecchi amici con cui ho lavorato alla Universale di architettura. Ricordate “gli architetti” con la Testo&immagine e Marsilio? O la Rivoluzione Informatica in Architettura con Birkhäuser, Edilstampa e Testo & Immagine? All’estero devono capire che l’Italia è paese dei mille paesaggi, e che questi paesaggi nativi operano dentro le personalità sensibili come enzimi del processo creativo. E che questo è tesoro unico, ed è la nostra particolarità, altro che linguaggio. Un continuo ripensamento, un rovello creativo, un perenne tradimento dello scontato e del facile. Nessuno ha all’estero i nostri paesaggi, nessuno ha questa ricchezza e nessuno come i migliori architetti nostri può far sentire come ciò si trasformi in architettura di oggi con mille rimbalzi, mille negoziazioni, senza nessuna memoria nostalgica, senza nessun genius loci dato una volta per tutte. Ma ricreando e reinventando ogni volta. Nei sentieri antichi non si torna uguali a prima. “Altre ali fuggiranno dalle paglie della cova | perché lungo il perire dei tempi | l’alba è nuova, è nuova” scrisse il poeta materano Rocco Scotellaro. Capiremo così insieme perché Franciosini è umbro, Pujatti non può che essere friuliano, Peluffo genovese, Vaccarini marchigiano, Luciano Pia torinese, Zucchi, per la miseria, milanese e Gambardella, Song’e Napule è. Ora, parlai del mio progetto con l’editore nella figura dell’architetto Francesco Trovato. Credo che ci mise 24 ore a dirmi di sì. Dopo dissi e come la chiamiamo «Architettura
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e architetti contemporanei italiani?». «Ma quando mai! Imprinting la dobbiamo chiamare!», mi rispose. E adesso avevo nome e editore. Dopo dissi ma basta questo concetto ad inanellare le perle della collana? No una triade si deve fare mi dissi. Ed ecco il secondo elemento, “Il maestro“. Vuol dire che volenti o nolenti di architetti l’Italia di maestri ne ha tanti. E ognuno di questi maestri, per gli architetti che sopra abbiamo nominato ad esempio, è punto di studio, di riferimento, di dialogo. Un dialogo da pari a pari, ma maestro è maestro e tale rimane. Possiamo capire mai Zucchi senza Caccia Dominioni, Pujatti senza Gino Valle, Peluffo senza De Carlo? Dobbiamo di nuovo far capire ai nostri amici d’oltralpe con chi ci hanno a che fare. Che ci abbiamo anche questa cosa, che hanno pure loro, certo, ma non la stessa proprio. Infine è mezza vita che lavoro non solo sui libri miei, ma soprattutto su quelli degli altri. E la mia fissazione è avere una scrittura “pertinente”, che parli della spazialità, della costruzione, dell’invenzione, dell’uso e delle difficoltà del fare – in Italia folli e al Sud pure di più. C’è bisogno di una scrittura che sia vicina “al come”, questo è il terzo elemento della triade. Perché chi legge capisca – ed emuli se vuole – chi ha nel disegno a mano, nel Bim, nel plastico in creta o nel modellino in cartone riciclato, la chiave della sua casa-architettura. Una chiave che apre il processo che poi ciascuno sviluppa con consulenti e collaboratori e a suo modo. Una triade Imprinting-Maestro-Processo. Ecco i tre fili che intrecciati tra loro tengono insieme i libri di questa collana.
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Stefano Pujatti fa parte di una genìa di dotatissimi architetti friulani che si sono formati all’istituto Universitario di Architettura di Venezia. Alcuni furono miei genitori per questo lavoro di architetto come Francesco Tentori, Marco Majoli e il mio zio materno, a metà friuliano di Jais, Giancarlo Guarda. Tutti loro avevano avuto un fratello maggiore sia per età che per indiscusso talento: Gino Valle, la cui sorella Nani sposò un altro architetto friuliano di talento Giorgio Bellavitis. Ma ve ne sono molti altri di cui sentivo parlare e con cui spesso gli architetti citati lavoravano come nello stupendo progetto del cimitero di Lavarone che insieme a Tentori vide all’opera Gianni Avon. Il Friuli arido e petroso, ma luogo mitico per tutti quelli che vi provengono, è terra d’emigrazione. Di grandi muratori per esempio, e non mi dilungo su dettagli familiari. Tutti conoscono la tradizione dei maestri comacini, ma anche i maestri friuliani sono una risorsa inesauribile. A riprova non ho ancora citato il grande Marcello D’Olivo, friulano di Udine. Pujatti si trova in questo libro, perché il suo talento e la sua bravura lo fa appartenere da una parte a questa tradizione rafforzata nel suo caso da una solida formazione con Gino Valle proprio allo Iuav, dall’altra presenta un secondo aspetto caratterizzante di questa terra. L’andare con coraggio alla scoperta del nuovo: emigrare per imparare e insegnare a un tempo. Pujatti ha studiato, lavorato e collaborato con altri studi a Los Angeles e ha coltivato solide relazioni oltreoceano, non solo in California, ma anche in Canada. Da queste esperienze, da una parte radicate in un contesto autoctono dall’altra aperte alla contaminazione nasce una personalità di architetto straordinaria non solo per il naturale talento, ma anche per l’accumularsi di esperienze e contesti operativi diversi. L’architetto e docente alla Architectural Association di Londra Michela Falcone ha le corde per interpretare con misura e empatia Pujatti. Lei stessa infatti è emigrata dall’Italia già da
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dieci anni e ha lavorato a lungo a Parigi con Shigeru Ban e soprattutto per cinque anni con Zaha Hadid. Ha lo spessore per capire la complessità della ricerca di ElasticoFarm e la capacità di confrontarsi con un carattere a tratti duro (ricordo spesso Tentori e anche Majoli con simili tratti ruvidi) che lei ha la capacità di dirottare in una costruzione densa del testo. Falcone ha saputo capire e poi trasmettere al lettore questa personalità di architetto in una scrittura serena e profonda. Disegna di Pujatti un indimenticabile ritratto tanto nel merito dei progetti, che vengono svelati e porti al lettore sino ai dettagli più nascosti, che nelle scelta della vita e nel metodo collettivo di progettazione. Alcuni lettori di certo conoscevano alcuni di questi lavori, ma difficilmente li riconnettevano l’uno all’altro come opera del medesimo studio. Come il testo spiega – anche negli inserti in cui l’architetto prende direttamente la parola – questa non immediata riconoscibilità è un dato caratteristico di ElasticoFarm. Un poco come Eero Saarinen, ElasticoFarm pensa che ogni progetto abbia la propria storia, il proprio contesto, il proprio cliente e che l’architetto si debba infilare in questa rete per deformarla. Niente marchio linguistico preconfezionato quindi, ma sempre aderenza al tema del progetto e risposta spesso tanto concreta che geniale. Ne nascono opere fantastiche come l’Atelier del fiorista a Chieri, l’Hotel 1301 Inn a Piancavallo, l’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare a Torino, considerato ex aequo il miglior edificio realizzato in Italia in un recente premio della Triennale di Milano e ancora altre. Se c’è un filo spesso presente nelle opere è nella attenzione creativa e inventiva alle ragioni bioclimatiche del progetto che si traducono in scelte fenomenali di forma e di tecnologia. Straordinario il materiale grafico e fotografico offerto dallo studio e messo in pagina in questo libro non solo in maniera esteticamente pregnante ma anche mirata e intelligente. Qui si privilegia uno spaccato assonometrico, lì i prospetti, che sono del tutto assenti dove invece la planimetria è fondamentale. Quello che serve oggi è la chiave, poi il resto si potrà trovare in rete.
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Coraggioso, spericolato, “fastidioso”, non conformista: questi alcuni degli aggettivi che accompagnano il nome di Stefano Pujatti e si fondono con il suo modo di fare architettura. La sua formazione come architetto attraversa due continenti, muovendosi sempre verso ovest. Questo spostarsi ha arricchito le sue linee di ricerca che sono maturate durante gli anni: temi ricorrenti come l’acqua, il ruolo del paesaggio e il rapporto con i clienti nello sviluppo del progetto caratterizzano la produzione di ELASTICOFarm, lo studio di cui è fondatore e che attualmente dirige. Di tenacia inarrestabile, durante la sua carriera ha portato il lavoro dello studio a essere riconosciuto e premiato. Bravissimo a lavorare negli spazi interstiziali, Stefano Pujatti è un coltivatore di progetti sani, volti a dare valore al territorio e a trarre ricchezza dalle mutazioni sociali, economiche e antropiche.
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Tony’s House, vista esterna
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Grande MAXXI, prospettiva della proposta progettuale.
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Grande MAXXI, vista dei padiglioni da piazza Alighiero Boetti.
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annaffiare l’orto, così viene dirottata in cima al tetto e usata per creare il velo di protezione necessario a garantire una qualità termica soddisfacente all’interno dell’atelier di fiori. Invece di ricominciare daccapo per cercare una via sterilizzata da ogni possibile incidente, l’errore è stato coltivato: questa rettifica ha aggiunto molte qualità all’idea iniziale e lo ha reso un progetto multi sensoriale. Colpisce il rumore che si sente avvicinandosi dalla strada e la temperatura che cambia notevolmente in prossimità del fronte sulla strada. La facciata tridimensionale è formata da pannelli rettangolari che spezzano il flusso d’acqua, lo rallentano, evitando l’effetto cascata che avrebbe schizzato i passanti. Questo sistema geometrico di sottofondo con l’acqua che vi
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Atelier Fleuriste, diagramma del funzionamento dell’impianto di raffrescamento della facciata.
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Stoned, San Quirino
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PESO SPECIFICO ELASTICOFarm ha un modo molto peculiare di lavorare con la massa dei propri progetti e non dà mai per scontato come il progetto tocchi terra. Molti edifici non partono mai dal punto 0.00: qual è il punto di partenza giusto? Una domanda che Pujatti si è sempre posto rispondendo quasi sempre Stacchiamoci, spostiamo il vivere più in alto in modo da creare contemporaneamente più spazio pubblico, spazio di relazione, spazio verde.
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È quasi un’ossessione quella di staccare i progetti da terra, ma ci sono anche molti progetti radicati nel sottosuolo, tutto dipende dalla percezione spaziale che si vuole creare dall’interno verso l’esterno. C’è una correlazione tra l’idea di sospendere la massa e il rapporto con la gravità che Pujatti trova molto stimolante e che dà vita a progetti che si elevano in aria, come nel caso di Le batiment descendant l’escalier a Jesolo, terminato nel 2020. «È stato come costruire un vigneto, un edificio dove tutti guardano a sud e verso il mare» mi spiega Pujatti mentre disegna lo schema strutturale. Il progetto consiste in un edificio multiuso nella località balneare di Jesolo: il programma deve comprendere 47 unità abitative, spazi comuni e servizi per i residenti e 1600 mq di spazio commerciale. Il parcheggio esistente si trova al livello interrato, lo spazio commerciale è immediatamente sopra, a livello stradale; una grande scalinata conduce alla piscina e al giardino comune che trovano posto sulla copertura del podio commerciale. A questo punto invece di seguire lo spartito lineare del lotto, che avrebbe dato vita a un parallelepipedo di appartamenti con esposizione est-ovest, ELASTICOFarm riflette su come garantire il maggior numero di ore di sole a ognuno: l’impronta dell’edificio si deforma e la stecca lineare si incurva; le unità abitative vengono suddivise in volumi autonomi che ruotano verso il sole: è l’esposizione che guida il progetto. Per questo motivo la cosa più simile a questo edificio è un vigneto: il modo in cui è progettato segue
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gli spostamenti del sole e tratta allo stesso modo ogni unità abitativa, come si farebbe per un vigna. Il blocco residenziale non poggia direttamente sul podio: uno strappo drammatico lo sospende in aria e crea uno spazio aperto parzialmente in ombra e rialzato rispetto al livello del traffico. La scalinata è un invito ad esplorare il piano superiore ed è stata aggiunta per rendere pubblica l’area multifunzione e lasciare permeabile l’ingresso dell’edificio. La struttura segue la distribuzione e opera per collegare i setti che scaricano il peso su punti strategici, collegati alla griglia razionale dei pilastri del parcheggio. Si evita così di costruire una piastra strutturale di quasi due metri su un terreno di fondazione sabbioso. La connessione dei due sistemi strutturali crea uno spazio popolato da una foresta di colonne inclinate che dinamizzano l’ingresso agli appartamenti. Come per le pietre sospese di Anselmo, i grandi volumi organizzati su otto piani sono lì, presenti ma staccati da terra. Gli appartamenti sono serviti da una circolazione esterna a ballatoio, aperta, vista la vocazione balneare del luogo e il clima mite che lo permette. Degli elementi colorati punteggiano i corridoi e forniscono un piccolo spazio di magazzino esterno a ciascun appartamento: il gioco di colori e trasparenze di questa facciata dell’edificio rimanda alle reti da pesca e ai galleggianti, un omaggio all’origine della città che era un villaggio di pescatori fino agli anni 30, prima di scoprire la predisposizione al turismo che oggi la caratterizza. È un progetto che ha molte valenze e lavora simultaneamente su tante dimensioni: la scala della città, la scala dell’uomo, la scala della struttura, la scala pubblico/privato, la scala della distribuzione.
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COSTRUZIONE
Le batiment descendant l’escalier, Iesolo.
Collana ideata e diretta da Antonino Saggio
Stefano Pujatti è un architetto attivo in un’epoca storica “di mezzo”, dove l’architettura spesso si nasconde o si spaccia per altro. L’architetto friulano invece si distingue per l’intelligenza e il coraggio con cui affronta i progetti, combinando scienza e concetto artistico, pragmaticità e pensiero libero, politica e ironia. Con la coerenza di una continua sperimentazione condotta nello studio ElasticoFarm, un vero laboratorio di idee, si è affermato come un autore originale nel panorama italiano e internazionale.
€ 18