Cristián Undurraga. Architetture concrete

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Ringraziamenti Lo sguardo critico attorno al lavoro di Cristián Undurraga è stato reso possibile grazie alla sua presenza dal 2015 a Mantova nell’ambito di MantovArchitettura e in particolare dal 2019 come Visiting Professor all’interno del Final Workshop Antico e Nuovo del MSc in Architectural Design and History del Polo Territoriale di Mantova del Politecnico di Milano. Per questa ragione si ringraziano i docenti (Massimo Ferrari, Nora Lombardini, Elena Montanari) e gli studenti del Final Workshop sezione B che hanno costruito l’occasione didattica e di ricerca per condividere un pensiero critico sull’architettura e sull’insegnamento a partire dall’esperienza cilena. Ringrazio Federica Pugliese, che da anni condivide il lavoro professionale con lo studio Undurraga Devés Arquitectos, e che generosamente ha supportato fin da subito il legame via via sempre più solido tra Mantova e Santiago del Chile. Un grazie ad Annalucia D’Erchia con Nicola Cimarosti, Pedro Escoriza Torralbo, Francesco Coroni e Chiara Zanacchi che negli anni hanno condiviso con passione l’esperienza didattica e umana con Cristián favorendo una sincera corrispondenza. Ringrazio Massimo Ferrari, che da primo mi ha avvicinato al lavoro di Cristián Undurraga e che da sempre alimenta nel confronto il mio pensiero critico sull’architettura e sulla contemporaneità che viviamo. Infine, ringrazio Cristián, per la passione e l’entusiasmo con cui ha accettato di insegnare a Mantova, per aver creduto senza riserve in questa prima pubblicazione in Italia sul suo lavoro mettendo a disposizione con generosità disegni, immagini e scritti e soprattutto la sua acuta e garbata intelligenza.


Indice

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Costruire coerenze di Claudia Tinazzi

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Architettura e geografia Le case dell’orizzonte Cappella del ritiro

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Architettura e progetto urbano Barrio Cívico de Santiago Barrio civico dell’Universidad de Los andes

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Architettura e impegno sociale Abitazioni sociali Mapuche Padiglione Expo Milano 2015

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Architettura e Pensiero Lezioni dal Contador: l’arte di costruire l’ospitalità di Cristián Undurraga

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Costruire corrispondenze di Massimo Ferrari


Costruire coerenze

«La noción de tiempo en línea recta, de un tiempo unidimensional, usado en historia de la arquitectura y prácticamente generalizada hasta el cerebro de los arquitectos actuantes, ha falseado y falsea todo. Cuando se ha seguido el curso de las cosas en trechos de tiempo suficientemente vastos se comienza a percibir la palingenesis cada vez más claramente que el de la construcción paleontológica en uso: la filogénesis, que introduce la ley de causalidad en la arquitectura, de lo que ya dije otras veces para no volver ahora.» J. Borchers, Institución Arquitectónica [The Architectural Institution], Editorial Andrés Bello, Santiago del Chile 1968, p. 203

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Claudia Tinazzi


a ormai oltre due decenni, a partire dalla metà degli anni Novanta del secolo scorso, la critica italiana guarda con concreta ammirazione all’architettura contemporanea cilena ed in particolare ad un gruppo di giovani architetti nati tra il 1965 e il 1970 che dopo essersi formati alla Pontificia Università Cattolica del Cile hanno varcato le porte del mondo portando, con il loro talento e la loro intraprendenza, un proprio carattere latino-americano capace di confrontarsi, a volte scontrarsi, con il panorama dell’architettura internazionale. Nessuna affinità formale o di pensiero teorico si riconosce a questo gruppo di professionisti, eppure la complessa eterogeneità mai superficiale, sottende e comprende – senza necessità di alcuna etichetta – un’unità di temi, istanze, necessità la cui radice è impossibile non ricondurre alla storia complessa del loro paese di origine. Un regionalismo internazionale che in Cile è stato capace di costruire e, per molto tempo, mantenere in costante equilibrio tra tradizione locale e necessità globali, l’ambizione internazionale e le interpretazioni personali. Ma se ancora troppo poco sono state indagate le ragioni più profonde di questo fenomeno che ha visto organizzare mostre in tutto il mondo, dedicare numeri monografici di riviste internazionali fino al riconoscimento, nel 2016, ad Alejandro Aravena del più importante premio per l’architettura1 ancora meno è stato fatto, soprattutto in Italia, per studiare e comprendere il passato prossimo dell’architettura cilena che nel corso di tutto il Novecento ha trovato fertili punti di contatto con l’Europa e con il nostro paese.2 Cristián Undurraga, nato a Santiago del Chile nel 1954, appartiene alla generazione appena precedente a quella di Alejandro Aravena, Smiljan Radic, Sebastián Irarrázaval, Cecilia Puga, Mathias Klotz; fa parte di quel gruppo di architetti cileni che ha vissuto da vicino, dal di dentro si potrebbe dire e in ogni sua fase, quel governo militare che per il mondo intero è stata una delle più feroci dittature. Impossibile allora, per chi scrive, guardare all’architettura 1. Ci si riferiscie al Pritzker Architecture Prize che viene assegnato ogni anno ad un architetto vivente le cui opere realizzate dimostrano una combinazione di talento, visione e impegno sociale. 2. Per approfondire si veda tra gli altri H. Torrent, G. Barcelos de Souza, Letture di L’architettura della città in America Latina: uno scambio tra argentini e cileni alla fine degli anni Settanta in F. De Maio, A. Ferlenga, P. Montini Zimolo (a cura di), Aldo Rossi, la Storia di un libro. L’architettura della città, dal 1966 ad oggi, Il Poligrafo, Padova 2014.

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di questo paese, agli architetti di questo territorio così lontano, o ancora al fascino condiviso per i loro progetti, senza il costante confronto con la storia che è in questo caso più storia politica e sociale che delle sue città e dei suoi monumenti. La fermezza raffinata di Cristián Undurraga nei confronti della città e dell’architettura, del ruolo dello spazio pubblico, della preminenza egemonica del paesaggio, del valore della tradizione – una fermezza che abbiamo cominciato ad apprezzare maggiormente da quando nel 2019 è diventato Visiting Professor nella Laurea Magistrale in Architectural Design and History – è senza dubbio frutto della sua esperienza dentro questo frammento di storia del suo Paese a cui gli architetti hanno cominciato a dare risposta concreta a partire dalle Biennali di Architettura (1977) organizzate dal Collegio di Architetti del Cile fino alla fondazione del gruppo CEDLA.3 Un’esperienza costante e formante quella di Cristián vissuta con serietà, senza sconti, dentro l’esercizio professionale, tra teoria e pratica, tra vocazione e sacrificio, tra valori e tecnica; un lavoro quotidiano tra la bottega e il confronto interdisciplinare che oggi ci sembra così vicino a quel fenomeno chiamato «professionismo colto» riconosciuto in Italia negli anni della ricostruzione.4 Per questa ragione l’architettura dello studio Undurraga Devés Arquitectos, che Cristián ha fondato nel 1978 insieme alla moglie Ana Luisa Devés, appartiene prima di tutto a quella sfera pubblica e sociale che è segno di una sensibilità e responsabilità nei confronti della collettività. Una sensibilità che trova declinazioni appropriate tanto negli edifici pubblici – le piazze, gli edifici culturali, le scuole come i numerosi musei progettati – quanto nell’edilizia residenziale votata al sociale che lo ha portato ad una seria ed intelligente consapevolezza nei confronti del paesaggio e della storia. Per Undurraga lavorare con la storia significa dialogare attraverso il progetto con il paesaggio, con la geografia, conservando la memoria dei luoghi o della vita dei luoghi. Per lui, la geografia, questa “sua” geografia è un’ispirazione costante ma è diventata anche una lezione 3. Il CEDLA (Centro de Estudios de la Arquitectura), creato nel 1977 ebbe nel contesto della cultura architettonica cilena un ruolo simile a quello che “La Escuelita” ebbe in Argentina (H. Torrent, G. Barcelos de Souza 2014). 4. A. Samonà, Ignazio Gardella e il professionismo italiano, Officina edizioni, Roma 1981.

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Geografia


Concreto e leggero è il pensiero e la forma che sostiene i progetti scelti come esempi emblematici di questa sfumatura ideale ed espressiva – infinito compreso in altrettanti infiniti – all’interno del lavoro complesso di Cristián Undurraga. Concreti come il calcestruzzo che ne costruisce l’armatura e, nella sua espressività, ne mostra la sintetica figurazione; leggeri per le modalità statiche, i sofisticati equilibri e le minime misure che affidano alle sezioni sottili tutta la capacità umana nell’ingegneria tecnica, setti incrociati e travi parallele, che rappresentano da primi il vero senso astratto di queste estreme architetture nel rappresentare prima di tutto la capacità razionale del calcolo nel pensiero dell’uomo in dialogo con la geografia. Lavorare con l’equilibrio, con qualsiasi materiale da costruzione, significa ancora oggi sfidare quella gravità che ci lega da sempre alla nostra terra che calpestiamo, significa avere le capacità tecniche di un calcolo istintivo che diventa fondamentale ancora prima dell’uso del calcolo digitalizzato, significa infine sfidare ogni volta e in ogni progetto tutte le tradizioni stratificate che dai tempi antichi hanno avuto un progresso costante fino ad ora. Il significato espressivo esula comunque dal mero calcolo e rappresenta nelle ragioni elementari il senso del sospendere come il valore dell’appoggiare, blocchi complessi compressi in forme espressive che si staccano dalla complessità del progetto per assecondarne una singola parte, una parte che racconta il tutto senza scomodare la sintetica parola greca. Sineddoche appunto come astrazione di significati complessi. I temi accompagnano i due progetti senza troppo influire sul risultato che deve alle travi, in questo caso, le maggiori responsabilità. Domestici come l’abitare o sacri come gli spazi per la collettività religiosa, vivono al di sotto di queste sospese architetture che, come una copertura a cappello proteggono lo spazio come primo gesto definendo contemporaneamente il significato primo di un luogo. Rocce sulle rocce o appoggiate al terreno con dispositivi di scarico dei pesi a terra distinguono senza troppa definizione un dentro ed un fuori ma prima di tutto un passaggio sfumato tra queste due situazioni della vita dell’uomo.

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Architettura

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Impegno Sociale


Il rapporto colto con la tradizione, con la conoscenza della più profonda tradizione tanto architettonica, quanto culturale e sociale del Cile, rappresenta forse il principale strumento dei progetti proposti come sentinelle esemplari di un atteggiamento che da sempre indirizza una parte del lavoro di Cristián Undurraga alla riflessione sull’architettura come concreto impegno nei confronti della Società. Un lavoro etico prima che politico che cerca di ordinare le scelte in un valore comunitario condiviso. Agli opposti i due progetti scelti raccontano quindi della responsabilità che l’architettura assume nei confronti dell’identità di un popolo, di un paese, di una collettività. La memoria, diversa dalla consuetudine o meglio dall’abitudine, si propone quindi come selezione critica della storia, sceglie e interpreta nella contemporaneità antichi usi, modi di vivere, tecniche e materiali, trainando fino ad oggi i legami più profondi che attraversano la storia dell’umanità. Povertà di mezzi o ricercatezza costruttiva non si escludono a vicenda ma al contrario racchiudono un complesso mondo delle possibilità che di volta in volta risponde con adeguatezza e onestà alle contingenze. Una sorta di lavoro artigianale che elegge il materiale della costruzione come principale ordinatore dei significati delle parti che in gesti elementari compongono con rigore l’interpretazione contemporanea di tradizioni riferite all’abitare o ai luoghi più conviviali. Architetture semplici ma complesse, che descrivono con misura forze e spinte; architetture capaci di riscrivere senza troppo rumore paesaggi dimenticati, ma anche modi e costumi del paese sudamericano nel profondo solco di una continuità critica che accomuna i maggiori interpreti di un’identità nazionale consolidata. Sono progetti che sfidano la concretezza di una committenza, controllando misure minime o massime nella comune ambizione di una sostenibilità economica, costruttiva e ambientale; progetti coraggiosi che non hanno escluso nemmeno l’impresa rara di un’architettura che possa essere smontata e ricostruita altrove.

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Padiglione Expo Milano 2015

Expo Milano (Italia) 2013-2015 Temuco (Cile) 2016-2017


Forse non esiste altro spazio in cui la società dello spettacolo si esprima con maggiore veemenza che nelle Esposizioni Universali. Lontani da quell’atmosfera spesso chiassosa, il progetto immaginato ha proposto, in mezzo alla saturazione degli effetti visivi, una sintesi sobria e contenuta che ci ha permesso di incarnare in modo onesto ciò che il Cile è come Paese e contemporaneamente ciò che cerchiamo come architetti. Fin dall’inizio, e per una responsabilità ambientale, è stato chiaro che questo padiglione doveva essere smontabile e trasportabile in una nuova posizione, estendendo così la sua vita utile oltre i sei mesi della durata dell’Expo. È stato scelto anche per questa ragione il legno lamellare come materiale per costruire e caratterizzare il Padiglione. Oltre al suo evidente valore sensoriale e tecnico, tale materiale fa appello a una risorsa rinnovabile e preziosa nella catena ambientale della nascita e della decomposizione. Inoltre, il legno lamellare, essendo un materiale industrializzato, offriva una qualità omogenea e un adeguato controllo tecnico, insieme alla possibilità di costruire un meccanismo che potesse essere smontato e ricostruito altrove. L’idea di trasportare la struttura del padiglione nel paese d’origine una volta terminata l’Expo Milano ha determinato la dimensione delle sue parti discrete. Queste hanno dovuto considerare le dimensioni di un container di 12 metri di lunghezza. Il padiglione cileno è stato concepito come uno scheletro reticolare che avvolge una scatola di legno all’interno della quale si svolgono diverse attività legate all’esposizione universale. Questa scatola si

appoggia, come un ponte, su sei trípodi di acciaio invertiti. In questo modo si libera il suolo, riducendo l’impatto sul terreno e incorporando l’attività urbana all’interno di un orizzonte temperato, tipico dell’architettura mediterranea che si è radicata nel Cile centrale grazie all’influenza della Spagna in America. La verosimiglianza della struttura diagonalizzata, a cui è stato affidato il carattere specifico di questo padiglione, ha permesso di riunire in una sintesi la forma fisica e la forma strutturale. Da lontano il padiglione appare come una totalità (scala monumentale), mentre nell’immediatezza diventa evidente la frammentarietà, la scomposizione articolata che ci collega al corpo (scala umana). La razionalità della scatola ha imposto un interno flessibile che ha favorito nuovi utilizzi. Nel 2016 il padiglione è stato costruito nuovamente nel sud del Cile, questa volta nella città di Temuco. Il nuovo contesto urbano e la presenza immediata del cerro Ñielol, luogo sacro per i popoli indigeni, hanno dato luogo a una nuova lettura dell’edificio.

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Sezione longitudinale

Pianta primo livello

Pianta secondo livello

Pianta terzo livello

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