Piero Ostilio Rossi

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Tutte le fotografie e i disegni a corredo dei testi provengono dall’archivio privato di Piero Ostilio Rossi

ISBN 978-88-6242-946-7

Prima edizione giugno 2024

© LetteraVentidue Edizioni © per i testi: i rispettivi autori

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Una ricerca collettiva di Alessandra Capuano

Maestri Romani

Presentazione della collana di Orazio Carpenzano

Autoritratto di una generazione (1920-1950)

Introduzione alla collana di Lucio Valerio Barbera

Piero Ostilio Rossi, il metodo e la scoperta di Andrea Bruschi

Tre testi di Piero Ostilio Rossi

Presentazioni di Andrea Bruschi

Due progetti di Piero Ostilio Rossi

Presentazioni di Andrea Bruschi

Regesto delle opere

Una

Una ricerca collettiva

del Dipartimento di Architettura e Progetto della Sapienza

Intraprendere una collana che restituisca il “ritratto di una generazione” è certamente obiettivo ambizioso, ma anche necessario se si vuole consegnare al presente non solo una “storia”, ma uno spessore.

Un intento che è ancora più significativo collocandosi all’interno dell’ambiente accademico dove la missione educativa è parte del codice genetico. L’università di cui parliamo, poi, è a Roma, città da sempre abituata a prendere, con disincantato cinismo e spesso con sarcasmo, le distanze dai tentativi di ridare dignità, rispetto e stima alle imprese umane. Un atteggiamento questo che porta troppo spesso a sminuire sforzi apprezzabili e risultati raggiunti che non sono affatto tutti da sottovalutare. In questa collana è inoltre molto significativa l’idea di legare tra loro i diversi referenti di una comunità scientifica. Le riletture dei maestri del passato sono e saranno infatti condotte da docenti attualmente operanti, permettendo così di tracciare interessanti genealogie.

Per queste ragioni ho accolto con grande entusiasmo l’idea di supportare una collana dipartimentale che ricostruisce i percorsi di ricerca teorico-operativa e di insegnamento intrapresi dal dopoguerra da alcuni esponenti della Sapienza. Con orgoglio, dunque, eredito l’impegno istituzionale del Dipartimento di Architettura e Progetto, di cui ho assunto la direzione nel 2020, di pubblicare questi volumi e di far parte del comitato scientifico della collana. Una promessa editoriale assunta nel 2020 dal mio predecessore, Orazio Carpenzano, in coincidenza del centenario della fondazione della Facoltà di Architettura, la prima d’Italia.

La collana è concepita a partire da una serie di interviste fatte da Lucio Valerio Barbera alla fine degli anni Novanta, quando era direttore del Dipartimento di Progettazione Architettonica Urbana del Paesaggio e degli Interni (DPAUPI), che in seguito nel 2003 confluì nell’odierno DiAP (risultato dalla fusione nel 2010 degli allora dipartimenti DiAR, ArCos e CAVEA). L’intento della ricerca avviata allora era quello di raccogliere, direttamente dalla voce dei docenti di progettazione architettonica nati

negli anni Venti, gli elementi autobiografici necessari a ricostruire storicamente e ad analizzare criticamente l’apporto che ciascuno di essi aveva dato alla scuola, alla professione, all’architettura romana ed italiana. Questo piccolo “patrimonio” di dodici interviste, realizzate con la collaborazione di Marta Calzolaretti e con le riprese video di Alessandro Santamaria Ferraro, è stato ampliato dieci anni dopo con una seconda serie di conversazioni, sempre tenute da Lucio Valerio Barbera, che si sono svolte con l’ausilio dei programmi informatici di conferenza in remoto, questa volta orientate a coinvolgere gli esponenti più giovani di quella generazione, con particolare attenzione al gruppo che aveva ricoperto ruoli centrali nell’insegnamento e nella gestione della Facoltà.

Nell’insieme, dunque, il Dipartimento ha raccolto un ricchissimo materiale documentario di cui si può cominciare ad apprezzare l’importanza attraverso i volumi pubblicati. Ogni intervista ha avuto la durata minima di circa quattro ore e, a volte, ha occupato più di un’intera giornata. Concreti riferimenti documentari, forniti dagli stessi maestri intervistati, accompagnano spesso le trascrizioni, che Lucio Valerio Barbera ha restituito con l’aiuto di Anna Irene Del Monaco. Su questa documentazione si misura, ora, una non piccola schiera di docenti romani quasi tutti del DiAP che, singolarmente o in piccoli gruppi di collaborazione scientifica, hanno analizzato il materiale e ne traggono ragionamenti critici da offrire alla più ampia comunità della cultura architettonica. Completano la monografia una piccola antologia di tre testi dell’autore analizzato e l’approfondimento di due architetture.

La collana “Maestri Romani. Autoritratto di una generazione (19201950)” ha in programma di produrre, dunque, circa trenta monografie sui “maestri” architetti e docenti romani e coinvolgerà più di quaranta docenti romani come “autori” di saggi biografici, studi critici e lavoro redazionale sulle interviste, con il fine comune di ricomporre un quadro d’insieme. Si tratta quindi di una nutrita serie di “autoritratti”, così denominati da Barbera perché, nonostante siano profili scritti da una terza persona, l’intervista resta il punto di partenza di questo ragionamento ed è quindi la lettura che dà di se stesso l’architetto-docente a fare da timone alla pubblicazione.

L’idea di Lucio Valerio Barbera, di registrare ed archiviare memorie e racconti col metodo della storia orale che intreccia vita e opere della generazione accademica precedente alla propria, è probabilmente stata stimo-

lata dall’inquietudine intellettuale che lo anima e dalla determinazione ad agire “perché non tutto si perda”.

Occorre ricordare che gli anni in cui Barbera ha effettuato le interviste furono molto critici per la nostra comunità accademica, che attraversava lo sdoppiamento della Facoltà (2000-2010) introdotto dalle riforme nazionali e accompagnato da un difficile, e a volte doloroso, dibattito interno in cui non sempre erano chiari gli obiettivi sperimentali magnificati. Le interviste di Barbera sembrano voler ricomporre un quadro che si andava sgretolando, ma che per fortuna credo, dopo quel difficile e un po’ insensato periodo, sembra avere ritrovato un proprio percorso.

Nella presentazione della collana si è già ricordato come questa storia attraverso le interviste o la narrazione delle vite degli artisti conti su autorevoli precedenti da Vasari a Obrist, ma si potrebbe citare anche il volume pubblicato dal giornalista John Peter nel 1994, The Oral History of Modern Architecture, una raccolta di circa 60 interviste in quaranta anni ai grandi maestri del Novecento, corredata da un CD con le voci registrate. Una solida tradizione metodologica e strumentale supporta quindi la ricerca collettiva del DiAP che, con la collana “Maestri Romani. Autoritratto di una generazione (1920-1950)”, ripercorre fatti e vicende dell’architettura romana, una realtà che è parte essenziale di quella italiana.

Questa “ricerca collettiva” costituirà non soltanto una ben ordinata memoria storica del Dipartimento e della Facoltà, ma anche una fonte preziosa per tutti coloro che, nel nostro mondo scientifico, hanno a cuore le sorti e lo sviluppo dell’architettura italiana, le sue qualità o aporie. Gli anni a cui si riferiscono queste interviste sono quelli che vanno dal dopoguerra alla fine del millennio, attraversati da grandi travolgimenti culturali e tecnologici che hanno profondamente marcato ogni forma di produzione intellettuale e pratica.

Sono gli anni raccontati dal punto di vista storiografico da Manfredo Tafuri nella sua famosa Storia dell’architettura italiana 1944-1985 che si occupa del periodo che va dal dopoguerra fino a metà degli anni Ottanta, come recita il titolo, e poi narrati per l’arco temporale 1985-2015 da Marco Biraghi e Silvia Micheli in un volume dedicato alla storia dell’architettura italiana, sempre per i tipi Einaudi. Decenni gloriosi, pieni di speranze e sperimentazioni quelli del boom economico, più difficili e problematici quelli della cultura dell’eccesso degli anni Ottanta che vanno dalle vicende

Piero Ostilio Rossi, il metodo e la scoperta

Secondo l’accezione comune, un maestro è un conoscitore di una disciplina abbastanza profondo da poterla insegnare ad altri. In architettura però tale significato è riduttivo. Parliamo di maestri quando si è oltre questa definizione perché, per essere un maestro, non basta essere un buon conoscitore. Un maestro di architettura è un modificatore e un arricchitore di metodi, un innovatore riconosciuto a larga maggioranza. La questione è meno oziosa di quanto sembri – il titolo stesso di questa collana, Maestri Romani, stimola una riflessione – e nel caso di Piero Ostilio Rossi è opportuno affrontarla perché, se pensiamo a più di un tratto della sua attività di studioso, egli, pur indirizzandosi verso una fisionomia non avanguardistica, ha indubbiamente impersonato un portato innovativo molto importante, non solo in ambito accademico ma sul piano del contributo alla sua città. Nella ricerca sull’architettura di Roma moderna, e nei suoi addentellati, Rossi è stato un innovatore in quanto a originalità del tema ma lo è stato anche nella metodologia e negli approcci di studioso. Prima di lui la Roma del Novecento non era considerata neanche degna di essere studiata, con lui si è aperto un percorso di ricerca che lo ha portato a divenire una figura di riferimento per la comunità scientifica e per le istituzioni. Di un maestro è stata anche la sua capacità di dialogare e porsi sullo stesso piano dei più giovani, sollevando i problemi e discutendoli insieme. Chi vi ha partecipato ricorda i lunghi dibattiti sulle opere da inserire nella Carta per la Qualità del Piano Regolatore; confronti anche molto accesi che rispettavano il principio comune della condivisione dei problemi all’interno del gruppo di lavoro. Con il proprio esempio Rossi ha indicato un percorso lasciando i suoi assistenti, studenti e studiosi, liberi di interpretarlo, comunicando più un metodo che una maniera o un contenuto.

Piero Ostilio Rossi è nato nel novembre del 1948. Ci siamo conosciuti nel 1994 quando sono entrato nell’ottavo ciclo del Dottorato di ricerca in

Architettura Teorie e Progetto, dove è stato mio tutor, per poi cominciare un sodalizio che dura ancora. Trent’anni di lavoro più o meno intenso, quella che si dice "una vita".

Proprio perciò, questo scritto non vuole e non può essere un racconto biografico. Sebbene ne siano inevitabili alcuni passaggi, cercherò di non raccontare quella cronistoria già molto ben descritta nella lunga conversazione con Lucio Barbera a fondo testo, ma di far emergere temi, ricerche e metodi su cui Rossi ha lavorato seguendo un filo continuo che si è dipanato fin dalla formazione, a partire da alcune intuizioni giovanili.

La sua produzione progettuale, e soprattutto di saggi e testi critici, è stata densissima. Inevitabili quindi le sintesi e le approssimazioni in un testo che, come questo, non può avere l’ambizione di ritrarne la figura con la completezza che meriterebbe, ma che solo la lettura diretta delle sue opere può dare. Mi perdoni il lettore se, nonostante le intenzioni, in qualche tratto anche io sia stato sopraffatto dai ricordi e mi sia dilungato oltre il necessario.

Avere vent’anni nel Sessantotto

Per uno studente di Architettura la formazione universitaria negli anni a cavallo del Sessantotto, in una Facoltà già provata da almeno sei anni di agitazioni e divisioni culturali, era una esperienza complessa. Difficile individuare un percorso personale in un contesto nel quale gli stessi docenti erano disorientati o intorpiditi dalle vicende della contestazione studentesca e gli studenti, per quanto accomunati dall’aspirazione al rinnovamento, non rappresentavano un fronte compatto ma un mosaico di tendenze eterogenee. Come ricorda acutamente Lucio Barbera, «a Valle Giulia, spezzata quasi accidentalmente la prima resistenza del sistema, fu facile scoprire che negli stessi canali dove istituzionalmente dovrebbe scorrere la cultura dagli anziani ai giovani, potevano passare senza ostacoli, per moto inverso, le pulsioni, le rivendicazioni e le contestazioni giovanili verso le generazioni precedenti e verso la società o meglio verso l’universo culturale e politico che esse rappresentavano»1.

1 Per chi voglia approfondire le vicende di quegli anni nella Facoltà di Architettura di Roma Lucio Barbera ha scritto pagine bellissime nel suo testo La città radicale di Ludovico Quaroni, Gangemi, Roma 2019. Cfr., p. 74.

Rossi si era iscritto alla Facoltà di Architettura di Roma nel pieno di questa crisi che coagulava il rifiuto di valori obsoleti e la complessità del generarne di nuovi. Il Sessantotto era l’epilogo di una lunga incubazione iniziata nei primi anni Sessanta in cui erano maturati contenuti politici e polarizzazioni poi esplose contemporaneamente.

Avere vent’anni nel Sessantotto non era quindi soltanto vivere un evento storico eccezionale che è stato come un fiume in piena, ma dover galleggiare nella sua corrente impetuosa, cercando una direzione che non poteva essere solo quella dei flutti travolgenti ma un progetto di vita. Sappiamo come quel progetto sia stato poi molto diverso per i tanti protagonisti del momento, utopistico quanto invece concreto, dalla creazione di comunità e stili di vita, all’impegno politico, fino alla lotta armata.

Anche Rossi inseguiva un proprio orientamento in quella tempesta alla ricerca di direzioni e maestri2 e nella Facoltà di Roma le stelle polari erano Zevi e Quaroni. Ludovico Quaroni era un riferimento teorico autorevole e complesso, ma umanamente poco accessibile. Aveva costruito intorno a sé una cortina culturale e un gruppo docente molto solido, sebbene piuttosto chiuso. Non a caso, dopo le vicende del Sessantotto, prese un anno sabbatico, il 1969-70, dimostrando un grande disagio personale a confrontarsi con le nuove istanze degli studenti. È invece divenuto in seguito un maestro di Rossi “alla distanza”, attraverso la teoria e gli scritti.

Anche Bruno Zevi si imponeva all’attenzione del giovane studioso per la sua straordinaria capacità di leggere e comunicare l’architettura. Ma Zevi si poteva solo ascoltare; pur avendo molti "seguaci", non ha mai formato una vera scuola ed è rimasto sempre a una quota troppo elevata per essere propriamente da guida a un giovane in formazione. Come spesso accadeva agli studenti di architettura più impegnati, la prima fase universitaria di Piero Ostilio Rossi è stata un periodo di ricerca di un percorso, con una maggiore importanza data al confronto critico e al dibattito fra pari – gli amici Vanni Mannucci, Giangiacomo Martines, Stefano Pedullà, con cui fondò MPRM, il suo primo studio di architettura – piuttosto che all’individuazione di una figura trainante di riferimento. In quegli anni Rossi ha frequentato due corsi di Composizione con Maurizio Sacripanti ma, pur riconoscendo la sua statura e la sua straordinaria

2 Le note che seguono fanno riferimento a Una conversazione con Lucio Barbera, infra, p. 148 e sgg.

Nuova piazza di San Basilio Nuovo, Roma, prospettiva e veduta
PIERO OSTILIO ROSSI
Concorso Menoèpiù4, Roma, planimetria e prospettive dell'asilo e del centro culturale

Decifrare la città contemporanea: Roma in forma di cometa (2013)

Nel caso di Roma, la percezione della dimensione e della consistenza urbana – dei confini, dei capisaldi, degli elementi di riferimento che ne costituiscono l'intelaiatura – è un tema assai complesso e ancora aperto. Se nell'immediato dopoguerra la città si poteva facilmente identificare nei suoi tradizionali sistemi strutturanti – il centro antico con i monumenti storici, e l'asse fluviale del Tevere – negli ultimi quaranta anni l'espansione della Capitale ne ha portato le frange esterne a confondersi con abitati solo pochi anni or sono nettamente isolati. La coscienza dei limiti della città, e addirittura dei suoi luoghi identitari, appare quindi sempre più sfumata e diviene un problema di relazioni di prossimità legate a sottoinsiemi urbani e relative localizzazioni.

In questo testo Rossi mette a fuoco gli elementi attorno ai quali si costruisce il palinsesto delle percezioni urbane della Roma contemporanea e ne analizza i ruoli ai fini di una lettura della città alla scala metropolitana. Al telaio degli elementi lineari e di quelli nodali – il sistema delle vie consolari radiali sulle quali si sono innestate le espansioni della città, e delle strade anulari controradiali – si sovrappongono oggi i layer delle nebulose e degli arcipelaghi della campagna urbana. Ai sistemi pianificati fanno da contrappunto le aree a sviluppo spontaneo intorno alle grandi infrastrutture.

Su questi elementi risalta l'anello del Grande Raccordo Anulare, unica figura chiusa del sistema viario controradiale di Roma a costituirne una condivisa unità di senso. Sul GRA si addensa il tema dei labili confini della città – Rossi usa il termine latino limes per descriverne la tridimensionalità – ma anche dei suoi futuri, necessari chiarimenti di assetto, tanto da proporlo come sesto Ambito strategico di Piano Regolatore oltre a quelli del Tevere, del Parco Archeologico dei Fori-Appia Antica, delle Mura aureliane, dell'asse Flaminio-Fori-Eur e della Cintura ferroviaria.

Insieme al ruolo interrogativo del Raccordo Anulare emerge poi quello della città marginale attraversata dal suo tracciato, particolarmente il territorio ostiense espanso lungo il Tevere fra Roma e il mare, quella Coda della Cometa richiamata nel titolo del saggio. È dunque un testo che non si ferma all'analisi urbana ma contiene già in nuce una proposta progettuale. Questa non solo pone in primo piano le prospettive metropolitane di Roma ma individua nella dimensione paesaggisitica – primariamente la questione ecologica come problema non più isolabile dalla visione della città – il luogo ove innescarne le sperimentazioni.

in «Italianieuropei», n. 3-4, 2013, pp. 61-67.

Credo che ogni abitante di Roma tenda a costruire nella sua mente una doppia mappa: la prima riguarda la città nel suo insieme, l’altra, molto più limitata, interessa invece lo specifico settore urbano in cui vive e lavora perché Roma può essere interpretata come un grande insieme, ma anche, nello stesso tempo, come un sistema di insiemi. È infatti anche un arcipelago, una Città di città e il tema dell’individuazione delle diverse “Città di Roma” è stato posto alla base del nuovo Piano Regolatore – quello approvato nel 2008 – sin dagli studi preliminari avviati alla fine degli anni Novanta1. Per questo la seconda mappa è molto forte e molto radicata nel nostro immaginario, tende a sovrapporsi a quella generale e porta ad escludere da essa interi settori della città. Un esempio cinematografico: nel film Caro diario, Nanni Moretti – al tempo abitante di Roma nord, zona Prati-Delle Vittorie – arriva nei suoi giri in vespa alla Garbatella, compiendo una specie di gita fuori porta; quando giunge a Spinaceto, entra in un mondo a lui sconosciuto, in un altrove. Ricordate i suoi pensieri?

«Spinaceto, un quartiere costruito di recente… Viene sempre inserito nei discorsi per parlarne male… Poi mi ricordo che un giorno ho letto anche un soggetto che si chiamava “Fuga da Spinaceto”… e allora, andiamo a vedere Spinaceto…».

Vorrei qui provare a descrivere una possibile immagine sintetica di Roma, fatta di pochi elementi significativi che danno struttura alla città nel suo

1 Queste riflessioni sono state presentate al Convegno “Luoghi del consumo-consumo dei luoghi. Roma come caso studio”, organizzato nel giugno del 2009 dall’Unità di Ricerca della Sapienza nell’ambito del PRIN “La città come testo. Scritture e riscritture urbane”. Cfr. P.O. Rossi, Le città di Roma, in I. Pezzini (a cura di), Roma: Luoghi del consumo e consumo dei luoghi, Edizioni Nuova Cultura, Roma 2009, pp. 310-332.

Il documento3, riletto a più di sessant’anni di distanza, aiuta a comprendere i motivi per cui, nella seconda metà degli anni Cinquanta, un gruppo di giovani architetti decise di dar vita a una compagine che aveva l’obiettivo di innestare nella migliore tradizione del moderno la realtà e la complessità della vita urbana così come si andava riorganizzando dopo la sciagura e le distruzioni della Seconda Guerra Mondiale o, meglio, «desiderosi di ricatturare l’eroica spinta morale del primo moderno per poi incanalarla in modi pertinenti ad un mondo completamente trasformato», come scrive William Curtis4.

Questo breve saggio intende riflettere criticamente, a più di quarant’anni di distanza, sull’eredità dei componenti del Team 10 che, secondo l’arco temporale definito da Risselada e van den Heuvel5, operò in quanto tale per quasi un trentennio, tra il 1953 e il 1981; il gruppo – formato in origine da architetti tra i trenta e i quarant’anni – si presentò alla ribalta internazionale in occasione del IX CIAM di Aix-en-Provence (1953), fu incaricato di organizzare il X CIAM a Dubrovnik nel 1956 – di qui il nome Team 10 o Team X6 – e contribuì in maniera decisiva, tre anni dopo, allo scioglimento dei CIAM stessi a Otterlo.

In occasione della Biennale di Architettura di Venezia del 2014 curata da Rem Koolhaas, i Padiglioni nazionali furono invitati a sviluppare un unico tema: Absorbing Modernity 1914-2014; l’Olanda decise di dedicare il suo a Jaap Bakema che del Team 10 fu uno dei componenti. Tra i materiali in mostra, c’era – per la verità un po’ nascosto – un breve filmato intitolato La morte dei CIAM e girato proprio ad Otterlo: i componenti del Team 10 (si riconoscono, tra gli altri, gli Smithson, Aldo van Eyck e lo stesso Bakema) inscenarono in quell’occasione un vero e proprio funerale con trasporto funebre, lamenti, volti contriti e mani giunte. Celebravano tutti insieme la fine dei CIAM così come si erano organizzati e sviluppati nei trent’anni precedenti, a partire dal 1928.

3 Conservo nel mio archivio una copia del documento che mi è stato consegnato da Carlo Melograni nel 2021.

4 W. J. R. Curtis, L’architettura moderna del Novecento, Bruno Mondadori, Milano 1999, p. 443.

5 M. Risselada, D. van den Heuvel, TEAM 10. In Search of a Utopia of the Present, NAi Publisher, Rotterdam 2006.

6 Sia Risselada e van den Heuvel che Alison Smithson nei Team 10 Primer usano la notazione «Team 10» e quindi ritengo che sia la più corretta.

Il modello della villa Arpel del film Mon Oncle esposto nel Padiglione della Francia alla Biennale di Architettura di Venezia del 2014

Per cogliere lo spirito in cui nacque il gruppo e prima ancora il suo atteggiamento critico, può essere utile ricordare che nel 1958 era uscito nelle sale lo straordinario film di Jacques Tati Mon Oncle7, costruito su una critica all’architettura moderna attraverso il conflitto tra la parte vecchia e la parte nuova della città: tra la casa un po’ délabré del centro urbano dove vive monsieur Hulot e la modernissima villa Arpel (dove «tutto comunica…») nella quale abita sua sorella, la madre di Gérard, il piccolo protagonista. E proprio villa Arpel – che fu progettata per il film da Jacques Lagrange8 – è stata scelta da Iñaki Ábalos nel suo fortunato libro Il buon abitare. Pensare le case della modernità9 come esempio emblematico ed estremo di casa positivista, e quindi «dei modi di pensare, progettare e abitare la casa propugnati dall’ortodossia moderna». Il Team 10 era un gruppo aperto, a geometria variabile, continuamente in

7 Un’interessante analisi critica del film, pubblicata subito dopo la sua uscita, è in C. Melograni, Monsieur Hulot guarda l’architettura, «Il Contemporaneo», gennaio 1959, pp. 104-109.

8 Jacques Lagrange lavorerà con Tati anche in Playtime (1967) per il quale progetterà uno dei brani di città moderna più noti della storia del cinema.

9 Cfr. I. Ábalos, Il buon abitare. Pensare le case della modernità, Christian Marinotti, Milano 2009, pp. 69-94. La prima edizione spagnola del libro, dal titolo La buena vida, è del 2000.

In alto: planimetria ottocentesca della fortezza di Piombino (progetto G.B. Camerini). I bastioni sono stati quasi completamente distrutti durante la Seconda Guerra Mondiale. In basso: planimetria del Piano d'assetto del 1996. A destra: pianta del piano terra in epoca napoleonica (1809) con la torre centrale adibita a polveriera

ra venne poi parzialmente demolita e inglobata in un ulteriore aumento di spessore delle pareti del Cassero, realizzato quando l'impianto difensivo fu trasformato in una fortezza con cinta muraria a quattro bastioni angolari per volere di Cosimo I de Medici (1550 circa). Il progetto, di Giovanni Camerini, comportò «il raddoppio dei muri perimetrali del Castello, il rialzamento della sua copertura e l'allestimento di nuovi solai e divisori interni»2.

Dalla seconda metà dell'Ottocento al 1960 il castello è stato adibito a carcere. Questa nuova destinazione d'uso ne ha profondamente modificato la struttura architettonica attraverso l'aggiunta

2 P.O. Rossi, “Per forza di levare“. Recupero e trasformazione del Castello di Piombino in Museo della città e del territorio, Atti del Convegno “Archeologia e architettura. Tutela e valorizzazione”, Genova, dicembre 2008, p. 4.

di solai intermedi e celle di detenzione. Durante la Seconda Guerra Mondiale la fortezza fu bombardata fino a renderne il perimetro quasi irriconoscibile. Si innescò un processo di degrado materiale e di emarginazione del manufatto dalla vita cittadina, sul quale il Comune, nel 1981, decise di intervenire bandendo un concorso di progettazione. Il percorso di recupero che ne è derivato ha portato alla definizione di un Piano di assetto dell'area (1996), del quale il restauro e il riuso del castello hanno costituito un primo momento attuativo3

3 Nell'ambito di P+R/Progetti e ricerche di architettura il progetto è stato studiato da C. Melograni, P.O. Rossi (responsabile di progetto), R. Valli, con G. Serrao. Consulenti per il restauro: P. Marconi, M. Zampilli; strutture: G. Cangi; impianti: CMP Studio Associato: F. Muccetti, S. Chesi; rilievi e indagini: M. Tallarico, M. Zampilli; indagini archeologiche e progetto scientifico del Museo: R. Francovich, G.

Castello di Piombino. Vedute degli spazi a tripla altezza ottenuti dalla demolizione dei solai interni realizzati durante la trasformazione dell'edificio in struttura carceraria

conservata, mentre dal lato opposto il vuoto è attraversato da una passerella in legno lamellare sospesa: un percorso progettuale "per via di levare" dove gli accorgimenti aggiunti, necessari a dare continuità allo spazio recuperato, appaiono come elementi di assoluta e chiara riconoscibilità nel palinsesto storico murario. La liberazione della torre duecentesca e della parte visibile di quella quattrocentesca a guardia del Cassero consente anche di suggerire nuovamente l'antico sistema di accesso alla città, con le porte che le torri contenevano e che sono state riaperte. Oltre a questi passaggi temporali, fondamentali per la comprensibilità del manufatto, sono stati conservati alcuni momenti della sua storia più recente come alcune celle e graffiti dei detenuti. Particolarmente rilevanti sono infine le parti dove il castello entra in relazione

con l'esterno: l'antico recinto dell'ora d'aria dei reclusi che diviene spazio di sosta e allestimento8 e la copertura, affacciata sul Canale di Piombino e sull'Isola d'Elba. Qui è stata effettuata la ricostruzione di una altana della quale sono stati rinvenute le basi dei pilastri originari. Sorprende in questo progetto che anche un restauro documentario e a tratti filologico abbia potuto dare luogo a una architettura di straordinaria modernità, viva, nelle reciproche tensioni dialettiche fra le parti cui si è restituito il ruolo architettonico originario e nelle vertiginose sequenze spaziali.

8 «Il recinto è stato attrezzato con tre piattaforme digradanti pavimentate con doghe di legno che connettono, attraverso brevi rampe di scale, i due livelli tra di loro; la più alta è a una quota tale da ridurre il muro di cinta a parapetto», in P.O. Rossi, “Per forza di levare“..., cit., p. 5.

Dall'alto: planimetria del progetto per il concorso Europan 1 e veduta del progetto per il Comparto De Gasperi ovest a San Donato Milanese

sia quella sull’architettura di Roma moderna, un filone che mi ha accompagnato per tutta la vita e per questo ne parlo come di un tema per me molto importante. Questo interesse nacque quando ero ancora studente, nel 1973, quando preparavo la tesi di laurea. Nella primavera andai alla Libreria Dedalo, da Fabrizia Morandi, allora fondamentale punto di riferimento per studenti, professori, giovani assistenti, architetti. Le chiesi se c'era una guida, un libro sull’architettura di Roma moderna, e la risposta fu un sorriso. Mi rispose che non esisteva assolutamente nulla. L'unica pubblicazione, del 1964, era un librino di formato oblungo, una brochure dell’ANIAI, l'Associazione Nazionale Ingegneri e Architetti Italiani, curata da Giorgio Boaga e Benito Boni. Riveste tuttora un certo interesse per coloro che studiano il rapporto tra la città e l’architettura del Novecento, perché è un’indagine sommaria che rifiuta di misurarsi con l'architettura tra le due guerre, con l’architettura del fascismo. Fabrizia mi spiegò che esisteva una guida di qualche anno prima, fatta da Zevi per «Architectural Design», che pubblicava inserti con guide all’architettura delle principali città europee, ma era in forma molto sintetica: opera, data, autore e indirizzo. Esisteva anche un libro, che tu forse ricorderai, il Sapori, un libro sull’architettura di Roma tra i primi del Novecento e il 19508. Oltre questo non c'era niente. Mi ricordo che qualche giorno dopo scattai la prima diapositiva della mia ampia documentazione sull’architettura di Roma moderna, la diapositiva più facile da scattare: la Casa del Gira-

sole di Moretti in viale Bruno Buozzi.

LVB Tu hai una data da cui definisci la modernità di Roma?

POR Io ho assunto sempre il Piano del Sanjust del 1909 come il momento in cui Roma progetta se stessa come una città moderna.

LVB Come mai trascuri quel periodo in cui invece è stata costruita? Perché il grosso di Roma Capitale sorge dopo il 1870. Quindi perché non questa data?

POR Mi trovai di fronte ad una scelta perché nel 1970 – quindi tre anni prima dell’episodio di cui ti ho parlato – era stata allestita una grande mostra su Roma Capitale ed era stato pubblicato il libro di Gianni Accasto, Vanna Fraticelli e Renato Nicolini9 che costituiva un punto di riferimento molto importante perché aveva introdotto una nuova lettura critica delle trasformazioni della città dopo il 1870. Io scelsi invece di studiare l’architettura di Roma moderna, cioè di analizzare come la città avesse intercettato e accolto la modernità e non, più in generale, come si fosse trasformata dopo essere divenuta la Capitale d’Italia. La scelta fu questa e così è rimasta per più di quarant’anni; l'ultima edizione del libro (la quarta) ha per titolo Roma. Guida all'architettura moderna. 1909-201110 Questo lavoro non sarebbe stato possibile senza l’aiuto prezioso di mia moglie Ilaria e il supporto della Biblioteca della Facoltà di Architettura, in particolare di

9 G. Accasto, V. Fraticelli, R. Nicolini, L’Architettura di Roma Capitale, 1870-1970, Golem, Roma 1971.

8 F. Sapori, Architettura in Roma 1901-1950, Belardetti, Roma 1953.

10 P.O. Rossi, Roma. Guida all'architettura moderna 1909-2011, Laterza, Roma-Bari 2012.

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