L’ARCHITETTURA PARLATA
CONTRO LA DITTATURA
DELLA SPETTACOLARIZZAZIONE
Presentazione di Paolo Berdini
Avvertenza
Presentazione
Paolo Berdini
Introduzione
Alfredo Passeri
L’architettura parlata è tra noi
L’inizio della barbarie
Contro la dittatura della spettacolarizzazione
L’annuncio, un vizio irrefrenabile
Il nuovo Stadio della Roma
Lo Stadio Flaminio: il futuro a rischio
Le Vele di Calatrava palazzine romane
Un mondo di chiacchiere e la professione bassa
Dieci anni (e più) di cattivi pensieri (2013-2024)
Cosa fare? Correttivi e proposte
Il rifiuto delle archistar
La città dei 15 minuti
Città pubblica, città privata
Basta case e gli inganni del Superbonus
La committenza e l’arte del costruire
Demolizione e ricostruzione
Grandi opere
Empatia
Quattro temi del momento: ipotesi di progetto
Il nuovo Stadio della Roma
Lo Stadio Flaminio
Le Vele di Calatrava
palazzine romane
Spariti dai radar, temi a intermittenza o fuori moda
Mercati Generali
Mattatoio
Le Torri di Ligini all’EUR
Piazza Augusto Imperatore
L’ex Fiera di Roma
Termovalorizzatore
Metro C (et similia)
I Fori Imperiali
Foro Italico
Porte aperte (in forma di epilogo)
Finale con indicazioni
Programma per il futuro
Alcuni immediati spunti di riflessione
Colmare subito i ritardi
Repertorio della fattibilità Bibliografia Indice dei nomi
AVVERTENZA
Lo stato di salute dell’architettura non è buono, nonostante sembri il contrario. L’immagine ha preso il sopravvento sui contenuti che sono ridotti ai minimi termini. Anzi, essi servono solo alla spettacolarizzazione. L’architettura parlata è nemica giurata della vera fattibilità dei progetti. Non a caso, scherzando, un mio allievo Ottavio Cialone disse che: «L’architettura parlata è come la ginnastica scritta». Sono messi in dubbio perfino i grandi maestri, il cui lascito dovrebbe, viceversa, costituire la costruzione storica della vicenda architettonica contemporanea. Sono stato vicinissimo a Manfredo Tafuri e a Paolo Portoghesi con i quali ho lavorato per anni. Due maestri, ai quali debbo tutte le scelte che ho fatto come architetto. Ho avuto la fortuna di frequentare Bruno Zevi il quale mi chiese, dopo il mio esame con lui, di restare nel suo Corso come volontario (12 ottobre 1972). Aldo Rossi l’ho incontrato più volte a Milano e a Roma (in occasione del dibattito sul centro storico organizzato da Carlo Aymonino, Assessore al Comune di Roma) e poi ancora a Belgrado (1984) per il convegno “Brod od Kamena” dove era relatore. Senza di loro, nulla sarebbe stato possibile per me. Grazie a Tafuri ho imparato il metodo1, la contraddittorietà della storia (ovvero il convivere di una molteplicità di tensioni), l’inquietudine e l’ironia ed anche a dubitare delle troppe certezze somministrate a profusione. Mi insegnò che «... ricerca e inquietudine si rivelano tutt’uno per chi sappia far proprio l’arrischio ch’è insito in una storia che sia davvero costruzione, progetto e non invece semplice ‘ri-costruzione’ degli avvenimenti “esattamente come si svolsero”…»2. Un metodo indagatore eccezionale dal quale non mi sono mai distaccato. Risibili le critiche (Manfredo diceva che la critica non esiste: c’è solo la storia) a questo insuperato maestro da alcuni immodesti perfino relegato e confinato all’oblio: ennesima deriva contemporanea. Portoghesi mi svelò che fu lui a convincere Tafuri a lasciare l’urbanistica e la progettazione per dedicarsi completamente alla storia. Mi raccontava di quanto stimasse Manfredo e quanto fosse rammaricato delle loro incomprensioni, come magnificamente raccontò all’Accademia di San Luca3. Desidero dare una puntuale spiegazione del perché gli architetti dovrebbero essere contro la spettacolarizzazione e tenere a bada il loro narcisismo. Umberto Galimberti4 nel merito è preciso: «Chi sono i narcisisti? Sono degli handicappati psichici, ai quali manca la struttura della relazione. Però siccome sono brillanti, sono simpatici, sono allegri, sono affascinanti, le donne si innamorano. Senza sapere che a costoro manca l’organo della relazione che non è cosa da poco. Infatti, Freud dice che tutte le nevrosi si possono curare al di fuori di quelle del narcisista, perché lui non riesce a trasferire niente del suo vissuto sull’analista. I narcisisti non investono sull’altro: investono solo su sé stessi. E gli altri chi sono? Solo un applausometro». Superficialità, vanità e un esibizionismo che nasce dalle apparenze5. Non avere nessuna ambizione di diventare archistar, schierarsi contro la spettacolarizzazione, anzi contrastare con energia questa tendenza che impedisce una seria riflessione sui compiti attuali che ci dobbiamo prefiggere: per essere fi-
L’Architettura parlata. Contro la dittatura della spettacolarizzazione
nalmente ascoltati, evitando che si nomini un architetto esclusivamente per la sua (pseudo) notorietà. O, peggio ancora, perché conviene chiamarlo, ben sapendo che quell’architetto personaggio si trascina dietro un codazzo di figure utili (sic!), apparentemente funzionali al grande gesto, al risultato vittorioso, alla vanagloria a cui sono votati, al clamore che suscita l’archistar che li comanda. Come per i concerti di musica che hanno successo se s’impone la popstar di turno. Quando, invece, c’è tanta buona musica prodotta ed eseguita da ottimi musicisti, magari un po’ di nicchia.
Trattando di stretta attualità, il libro L’architettura parlata è come raccontare di un cantiere con i lavori in corso. Un certo numero di interventi si stanno portando avanti, alcuni molto lentamente, altri sono fermi, altri ancora non vedranno mai la luce. Ce ne sono di nuovi che subiscono accelerazioni, come nel caso del sottopasso di Piazza Pia pronto per il Giubileo del 2025, ed alcuni che saranno finiti grazie alla finanza privata. Si vuole qui dichiarare che – come sarà ripetuto – sarebbe auspicabile registrare che il maggior numero di progetti vada in porto: è nelle corde di chi scrive pensare positivo. Ma una buona dose di realismo non guasta e aiuta a non farsi troppe illusioni.
Note
1. Sono stato a fianco di Manfredo Tafuri dal 1975 al 1982 per la ricerca e la Mostra su Vienna Rossa e ho conosciuto, studiato e sperimentato con lui tutto ciò che nessuno mi aveva insegnato. Lo dico da architetto militante.
2. Marco Biraghi, Progetto di crisi. Manfredo Tafuri e l’architettura contemporanea, Christian Marinotti Editore, 2005, pp. 287, 288, 317; (a cura di) Orlando Di Martino, Manfredo Tafuri, oltre la storia, CLEAN Edizioni 2009; (a cura di) Orazio Carpenzano con Marco Pietrosanto e Donatella Scatena, Lo storico scellerato. Scritti su Manfredo Tafuri, Quodlibet Teorie 18, 2019.
3. Presentazione del volume Lo storico scellerato. Scritti su Manfredo Tafuri, cit. presso l’Accademia di San Luca, 3 dicembre 2019. Saluti di Francesco Cellini e Francesco Moschini, coordinati da Carmen Andriani; interventi di Paolo Portoghesi, Lucio Valerio Barbera, Sergio Bracco, Giorgio Piccinato, Vieri Quilici, Orazio Carpenzano. Presenti i curatori e Giusi Maria Letizia Rapisarda.
4. https://www.youtube.com/watch?v=X8jvxcwXcI4&ab_channel=RinascimentoCulturale - Galimberti spiega i narcisisti, 1 febbraio 2023.
5. Vittorino Andreoli, seduzione e narcisismo, RCS MediaGroup, 2023, p. 59.
L’Architettura parlata. Contro la dittatura della spettacolarizzazione
Presentazione
Paolo BerdiniUn atto d’amore verso il mestiere dell’architetto. È questa la chiave de L’architettura parlata di Alfredo Passeri, architetto e docente presso la facoltà di Architettura dell’Università Ostiense. Il libro riserva in ogni pagina la sorpresa di una citazione, di un esempio, in cui i maestri dell’architettura italiana, alcuni dei quali Passeri ha frequentato assiduamente (Manfredo Tafuri, Aldo Rossi e Paolo Portoghesi), disegnano il tracciato di un percorso educativo in grado di formare la figura dell’architetto. «L’architetto colto ha raffinata educazione dello spirito, reso agile ad ogni lavoro, ricco di molteplici e sempre deste curiosità, in quella capacità d’imparar cose nuove, che abbiamo acquistata studiando le antiche», fa dire l’autore a Gaetano Salvemini, ed è questo il tema centrale del ragionamento contenuto nel suo volume.
Un’impostazione culturale antitetica alla moda della spettacolarizzazione dell’architettura che per l’autore ha una data d’inizio ben precisa: «Un evento a mio parere ne suggella il fischio di partenza: è l’11 maggio del 1984 e a Verona inizia il 43° Congresso nazionale del Partito Socialista». Come non essere d’accordo? Se il mestiere dell’architetto si basa sulla conoscenza critica e sul metodo storico, inizia la fase dell’estemporaneità, dei gesti magniloquenti fuori contesto, costruiti soltanto per stupire senza lasciare spazio all’approfondimento. Gli anni ’80 si confermano come uno spartiacque culturale in cui si afferma un individualismo approssimativo e spesso privo degli indispensabili strumenti conoscitivi.
L’analisi dell’autore si interroga poi sul fenomeno de “l’architettura parlata”, e cioè sui caratteri di una nuova fase della vita delle città in cui al posto delle concrete realizzazioni prevalgono annunci in cui i progetti vengono evocati sulla base di idee preliminari spesso mai ve-
L’architettura parlata è tra noi
Quando mi iscrissi alla Facoltà di Architettura (1968), Zevi insegnava al primo anno e ci parlava di Bruno Munari che sapeva dare forma alle idee senza disegnare ma componendo, con collage e con i materiali più strani e non tradizionali, incredibili soluzioni. Ne fui colpito e riconosco oggi l’attualità di quelle lezioni. Mi definirei una persona rigorosa ma anche un fuori pista perché non ho mai dimenticato che essere troppo ossequienti alla disciplina rende un po’ tutti uguali, omologati, assai formali. Debbo a Manfredo Tafuri avermi convinto a non sognare troppo, rimproverandomi di legarmi oltremisura alla moda. Quando, incuriosito dai disegni che lasciavo ad arte sui tavoli dello Studio del Pantheon, scopiazzando qua e là Aldo Rossi dalle riviste, con severità Tafuri mi apostrofava dicendo: «Come si fa a disegnare i sogni di un altro!». Aveva ragione. Poi, dopo diverse sconfitte (l’architettura è costellata di fallimenti), ho decisamente intrapreso un’altra strada e capito che la curiosità è la più grande virtù. Ho tanto lavorato, immaginato, disegnato, consegnato ad altri le mie idee, per la professione e per l’Università. Spesso sono ri-caduto ma poi, rialzandomi, ho ricominciato anche a sbagliare di nuovo: l’architettura è costellata di progetti irrealizzabili o irrealizzati, di ricerche naufragate ma una sola vittoria ripaga di tutte le amarezze.
Nei formidabili anni 1967-1968 ho vissuto le contraddizioni più acute. Al liceo Castelnuovo che oggi, per capirci, definiremmo antesignano, avevamo professori del calibro di Enzo Siciliano (Storia e Filosofia), di Benito Recchilongo (Lettere), di Franco Petruzzi (Storia dell’Arte e Disegno). Arrivare a Valle Giulia rappresentò un salto di proporzioni smisurate. I docenti del primo anno venivano puntualmente
parlata. Contro la dittatura della spettacolarizzazione
disapprovati. I più agguerriti leader della contestazione erano del quinto anno: Claudio D’Amato, Sergio Petruccioli, Renato Nicolini, Domenico Cecchini: li ricordo sulle barricate, in prima fila. La protesta era contro tutti i professori, il primo dei quali era Bruno Zevi. Ricordo le interruzioni delle lezioni, noi matricole attonite, coinvolte nostro malgrado e non abituate agli intoppi; ovviamente non capivamo. Ricordo una frase gridata con tutto il fiato da Sergio Petruccioli e rivolta a Zevi che tentava, quasi imperterrito con un microfono ad altissimo volume, di andare avanti in un frastuono pazzesco. È d’obbligo immedesimarsi in quel momento, nelle passioni e nelle tensioni del periodo per comprenderla fino in fondo quella frase. Una diapositiva di Zevi illuminava la proposta dell’Asse Attrezzato di Roma (1967-1970) tentando di spiegare le ipotesi straordinarie di tale soluzione; poi, in basso, apparvero i nomi dello Studio Asse (Mario Fiorentino, Riccardo Morandi, Lucio e Vincenzo Passarelli, Ludovico Quaroni, Bruno Zevi e Vinicio Delleani). Al centro del corsello della cordonata dell’aula, alla lettura di questi nomi, Sergio Petruccioli (senza microfono) gridò: «Zevi, l’Asse Attrezzato è una greppia dove mangerai fino al 1980!». Scoppiò il finimondo. Fu un battesimo con la realtà, con l’architettura, con il clima di quella Scuola che – come è notissimo – si dibatteva tra passato e futuro. Col tempo, ineluttabilmente, le cose si sono attenuate.
Ho studiato la posizione di Zevi, a lungo non l’ho condivisa, quasi combattuta. Ma oggi comprendo e giustifico molto del suo lavoro. Come la battaglia (persa) in favore della cosiddetta e sfortunata proposta di riforma urbanistica su iniziativa del ministro democristiano Fiorentino Sullo, nei primi anni Sessanta. Il disegno di legge trovò un blocco di opposizione senza precedenti fuori e dentro il Parlamento, risolvendosi in un nulla di fatto. Ancora oggi rappresenta l’unico tentativo dello Stato repubblicano di fornire una risposta decisa e credibile al problema dell’acquisizione privata del plusvalore derivante dalla trasformazione d’uso dei terreni da agricolo a edificabile: si tratta della rendita legata alla valorizzazione dei terreni dovuta alle trasformazioni edilizie1. Addirittura, Albino Luciani, Papa Giovanni Paolo I, in occasione dell’Angelus del 27 settembre 1978 disse: «La proprietà privata per nessuno è un diritto inalienabile ed assoluto: nessuno ha la prerogativa di poter usare esclusivamente dei beni in suo vantaggio, oltre il bisogno, quando ci sono quelli che muoiono per non avere niente. Son parole gravi, insieme ad altre. Alla luce di queste parole non solo le Nazioni, ma anche [da parte] dei privati, specialmente noi di Chiesa, dobbiamo chiederci: “Abbiamo veramente compiuto il precetto di Gesù?” che ha detto: “Ama il prossimo tuo come te stesso?”». Sono
Contro la dittatura della spettacolarizzazione
Sono due le parole che tengono insieme un fenomeno aberrante: la spettacolarizzazione e la personalizzazione. Tipiche dei tempi attuali, esse sono figlie dei continui annunci, con accenti parossistici. I grillini, per esempio, quelli del Movimento 5 Stelle, hanno fatto della caratterizzazione individuale, della esibizione esagerata, della retorica dell’insulto le loro bandiere, anche se più recentemente Giuseppe Conte sta tentando d’incanalare queste irrisioni ed ingiurie su canali moderati e convenzionali. Le politiche del territorio e delle città, le proposte architettoniche recenti non sfuggono ad accenti spettacolari e personalizzanti, al punto da far sembrare banale la normalità. È di sabato 20 maggio 2023 la notizia che Massimiliano e Doriana Fuksas svelano la loro partecipazione a The Line, un’utopia nel deserto, metropoli che nascerà in Arabia Saudita1. Un grande spettacolo con punte di caratterizzazione da fare impallidire la nuvola, opera realizzata quest’ultima, e quintessenza della individualizzazione: essa infatti comunemente viene chiamata la nuvola di Fuksas.
Gli architetti comuni sembrano non esistere. D’altronde gli annunci delle cosiddette archistar si nutrono di spettacolarizzazione, basta – come doveroso – andare alle fonti per avere conferme. «I committenti in cerca della grande opera per la propria città, commissionano progetti urbanistici e architettonici ad architetti che hanno raggiunto una fama, prima di tutto mediatica, sperando che la “firma famosa” e l’originalità del progetto (quando c’è, e non sempre è così) dia lustro al proprio quinquennio (o decennio) amministrativo, cioè lasci un segno visibile ai posteri. Vengono così a crearsi nuove figure, le “archistar”. Si tratta di artisti al servizio dei potenti di oggi, grandi, abilissimi pro-
parlata. Contro la dittatura della spettacolarizzazione
fessionisti addetti a stabilire trend, a stupire e richiamare il grande pubblico con trovate che hanno pochissimo di solido come un edificio e moltissimo invece di una messa in scena. [Costoro] costruiscono enormi cartelloni pubblicitari “sedotti da un foglio accartocciato”. Ovunque possibile lasciano il marchio, una firma flessuosa e svolazzante. Hanno perso contatto con la realtà del proprio tempo, progettano in una specie di trance tecnologica e negano con il loro stesso lavoro quella che lo storico dell’architettura Carlo Olmo definisce la “natura dell’architettura”. La moda di assoldare architetti famosi (a prezzo molto caro) è una “non-urbanistica”, una “non-scelta”: si delega ad altri la costruzione di un edificio strategico, o l’assetto urbanistico di un centro, più o meno storico, nella speranza che “venga qualcosa di buono”. Bene, niente di male che questo accada; forse così è sempre stato. Ma lascia perplessi il fatto che il committente (forse a differenza delle epoche precedenti) si affidi a un qualcosa di altamente soggettivo, a qualcuno che ha fatto dell’individualizzazione lo scopo stesso della sua vita: l’archistar decide lui il futuro urbanistico o architettonico di quel luogo o di quell’edificio. Metropoli come Pechino e Amsterdam si conformano perfettamente, città come Salerno e Verona un po’ meno. Ovunque si trasforma il volto del tessuto urbano. Perché il messaggio forte e chiaro è poter sfoggiare l’opera di un grande architetto: il nuovo status symbol»2.
Un libro mi ha colpito, anni or sono, già per il titolo: Contro l’architettura dell’antropologo Franco La Cecla (2008). Tale intestazione mi apparve irrispettosa e fuori luogo. Ma leggendolo ho modificato il giudizio perché dall’annuncio-provocazione-denuncia l’autore voleva rafforzare concetti che, oggi, sono la consuetudine: «Mai come adesso l’architettura è di moda. Nelle riviste, nei quotidiani, in televisione le opere delle superstar dell’architettura sono oggetto della curiosità di lettori che prima erano completamente digiuni in materia. Eppure, mai come adesso l’architettura è lontana dall’interesse pubblico, incide poco e male sul miglioramento della vita della gente. A volte ne peggiora le condizioni dell’abitare. Questo accade perché l’architettura è diventata un gioco autoreferenziale, tutta incentrata sulla “firma”, sulla genialità del singolo architetto, genialità che è quotata nella borsa della moda al pari di un qualunque brand. In realtà l’architettura ha molta più influenza, nel bene e nel male, sulle condizioni dell’abitare in una città più di quanto s’immagini. Gli architetti però si rifugiano in una artisticità che li esclude da qualunque responsabilità. Purtroppo, ad essi spesso viene affidata la trasformazione di interi pezzi di città, modificazioni che spesso compiono con incompetenza, superficialità e
Un mondo di chiacchiere e la professione bassa
Intensamente ho vissuto architettando1. Cercando di mettere d’accordo la professione e l’insegnamento universitario, poste sullo stesso identico piano. Ho sempre pensato al sistema dei vasi comunicanti, riversando nell’una e nell’altra attività, ciò che di meglio mi capitava di studiare, di apprendere magari solo da modesti artigiani, di sentire e poter riferire con metodo e competenza, di ascoltare per imparare giorno per giorno, di pubblicare per avere il polso della situazione. Mi insegnò questo orientamento mio padre ingegnere. Anche alcuni docenti di architettura che, con modestia estrema, hanno inciso sulla mia formazione2. Nel 1979 viene pubblicato un piccolo libro dedicato ad uno dei maestri del Razionalismo italiano: Lodovico Barbiano di Belgiojoso (Milano, 1 dicembre 1909 - Milano, 10 aprile 2004). Si tratta di una Intervista sul mestiere di architetto a cura di Cesare De Seta. Mi riconobbi subito nelle inquietudini che De Seta evocava a Belgiojoso a proposito delle vocazioni, quella professionale e quella didattica3.
D. Aveste una vita accademica tribolata: spiegami le vostre vicissitudini che sono in qualche modo – assieme a quelle di altri colleghi come Albini, Gardella o Benevolo – un po’ il simbolo eloquente dell’arretratezza dei quadri dirigenti delle facoltà di architettura italiana.
R. Sia noi che gli amici architetti che tu citi, abbiamo sempre considerato l’attività professionale e quella didattica, come due vocazioni strettamente integrate. Anzitutto per l’apporto reciproco sul piano culturale delle due attività, poi per lo scambio di contributi dell’esperienza da travasare da una all’altra attività. In particolare, il fare architettura non può non comprendere l’esperienza vissuta nel
parlata. Contro la dittatura della spettacolarizzazione
mondo delle realizzazioni concrete, che vanno dai contatti con la committenza e a quel provare e riprovare che si esercita solo approfondendo un progetto esecutivo e verificandolo attraverso la pratica realizzazione delle opere. L’insegnamento della progettazione, che ritengo non debba andar perduto nelle nostre facoltà, si può, a mio avviso, esercitare soltanto con una buona dose di quella esperienza concreta, che significa anche scontro continuo con la realtà di tutti i tipi ed ordini. La storia dei nostri rapporti con la Scuola è conseguente al desiderio che avevamo di integrare le due attività sviluppando, anche nell’insegnamento, le tesi sostenute nella polemica per l’architettura moderna in cui sia noi che i colleghi di cui parli ci eravamo impegnati fin dall’inizio della nostra attività di architetti.
Un tratto distintivo assai preciso. In un’altra domanda/risposta l’essenza stessa del mestiere di architetto.
D. Mies in quegli anni era all’apice del suo successo professionale e forse in uno dei momenti più felici della sua vena creativa: mi dicono comunque che non fosse quel che si dice un «maestro» nel senso più romantico del termine, che fosse un uomo di poche parole.
R. La personalità di Mies era particolarmente accattivante. Mi illustrò una serie di progetti per l’università dell’Illinois, e, in un padiglione della Scuola, mi mostrò i disegni dei progetti dei suoi allievi ai quali assegnava temi molto vincolanti e dai quali esigeva dei grandi dettagli nelle scale 1:20 e 1:10 con il disegno di tutti i mattoni, con lo spessore preciso della malta e dei profilati metallici. L’«architetto» mi diceva «deve essere prima di tutto muratore». Forse il limite del suo insegnamento negli Stati Uniti era quello di formare dei manieristi di sé stesso, comunque con risultati di ottimo livello. Mi disse che era meglio creare dei buoni manieristi di Mies, piuttosto che dei presuntuosi.
Come si fa a non condividere? Se pensiamo ad oggi, bisogna ammettere che gli architetti sono fuori dalla realtà, patetici e tragici insieme4. Aiutati dalla curiosità morbosa di essere annunciati sui giornali, su FB o sugli altri mezzi di comunicazione social. Li spinge lì una irrefrenabile ambizione, dove domina incontrastata la figura di Massimiliano Fuksas. Il quale diceva nel 2001: «La città deve considerarsi teatro dei nostri sogni, belli o brutti che siano… essa rappresenta il malessere di una società in profonda trasformazione, in cui l’architettura, si direbbe, ha perso ogni sua direzione, come l’ago impazzito di una bussola…
Dieci anni (e più) di cattivi pensieri (2013-2024)
Gli annunci, che vengono resi quotidianamente, sono in numero astronomico. Impossibile elencarli tutti. Ho tentato di catalogarli, ho preparato anche uno schema. Ma fare solo una elementare enumerazione rischia di essere molto noiosa anche se ragionata ed esplicita1. Ho deciso, pertanto, di selezionare e scegliere i temi più eclatanti, quelli più clamorosi legati a necessità superiori, a grandi aspettative, a obblighi di legge e così di seguito. Richiamo qui i temi già affrontati nelle pagine precedenti e tentare per essi di dare alcuni consigli di correttivi, oltre a formulare proposte operative: lo Stadio della Roma, il Flaminio, le Vele di Calatrava, le palazzine romane; anche i Mercati Generali e qualche progetto per il quale si sono presi impegni importanti, come per il Mattatoio, per i Fori Imperiali, per Piazza Augusto Imperatore, per l’ex Fiera di Roma, per le Torri di Ligini all’EUR e altri ancora. Sono consapevole che la storia urbana di Roma e la sua crescita, in questi 154 anni che è Capitale (a pensarci bene un tempo piccolo), è stata costellata d’insuccessi impressionanti, ma anche da considerevoli realizzazioni, accompagnate da polemiche veementi. Eppure, Roma non riesce a scrollarsi di dosso questo orpello degli “affari”. Affari che si possono fare ogni oltre ogni limite. Dai tempi di De Merode è così: benevolenza e clientelismo. La Chiesa chiude un occhio (anche tutti e due) perché è connivente ed è in gioco nella partita. Aveva ragione Calvino quando affermava, in un’intervista del 1984: «Quello che penso di Roma l’ho scritto nel mio ultimo libro, Palomar». Ulteriore reticenza “romana”. Salvo poi ammettere, finalmente in modo esplicito: «Per il resto, Roma, come l’Italia e come gran parte del mondo, è dominata dalla nevrastenia generale, è il luogo delle complicazioni superflue e delle approssimazioni confuse, è un luogo nel quale tutti si fanno in
parlata. Contro la dittatura della spettacolarizzazione
quattro per proclamare opinioni o giudizi e nessuno conosce più l’arte del silenzio, che è più difficile dell’arte del dire»2.
Certo che ci vuole un grande coraggio a promettere, sapendo già che sarà difficilissimo mantenere. Come mai nessuno presenta il conto a costoro? Non basta mandare a casa il politico di turno che si è così tanto sbilanciato e si è (solo formalmente) accollato il compito di trovare soluzioni e, poi, nulla ha realizzato. No, non basta3. Occorrerebbe di più, come per esempio “poteri speciali” per Roma, città Capitale. Perché Roma non è una città qualsiasi. È opportuno, quindi, ragionare su alcuni rimedi e su determinate proposte concrete. Mi auguro che vengano realizzate le opere, non sono affatto un disfattista. Mi considero una persona pragmatica, voglio spazzare il campo dal pessimismo che non si possa realizzare qualcosa di buono. Insisto che auspicherei non essere equivocato. Primo: desidero che vengano portati a termine a Roma tutti, nessuno escluso (salvo i progetti brutti o sbagliati) che sono stati annunciati, soprattutto quelli d’ingegno architettonico. Secondo: non è vero che non ci sia o non si stia realizzando proprio niente. Questo è confermato dal breve (assai esiguo) elenco di opere compiute negli ultimi 10-5 anni a Roma, quasi tutte accompagnate da grandi polemiche:
- 2017 – Roma Convention Center | la nuvola (Studio Massimiliano Fuksas);
- 2017 – Nuova sede BNL-BNP Paribas (Studio di architettura 5 +1AA);
- 2018 – Metro C San Giovanni (Filippo Lambertucci e Andrea Grimaldi);
- 2021 – Nuovo studentato a Valco San Paolo (Lorenzo Dall’Olio);
- 2021 – Nuovo Rettorato Roma Tre (Mario Cucinella).
Le vere preoccupazioni di cui nessuno parla sono, come lo sono sempre state nel passato, i tempi e i costi. Esistono difficoltà oggettive, per chi studia la città, di poter leggere, entrandone in possesso, i progetti in corso. Sia perché vengono, di norma, presentati con sole immagini proiettate (il più delle volte con slide), sia perché gli uffici fanno resistenza a mettere a disposizione gli elaborati. Ciò accade quando un progetto esiste: ho dubbi, a volte, che esso sia stato effettivamente approfondito. Forse esisteranno gli schizzi (pupazzing) che, a loro volta, non spiegano molto se non per grandi linee.
Sono davvero debitore alle letture e agli studi della “città per parti rossiana”4 molto diversa dalla città divisa in zone specializzate, come si cerca oggi di leggerla che non è certo, sulle facili ipotesi razionaliste,
Cosa fare? Correttivi e proposte
Il rifiuto delle archistar
Bisognerebbe proibire per legge la parola archistar. È deleteria e fuorviante. Spinge i giovani a imitare professionisti (senz’altro preda del loro brend, quindi per definizione schiavi dei loro padroni) che ricavano un loro (pseudo) successo. Soprattutto di ordine economico, non certo in ambito culturale o morale. Aspirare ad essere archistar è, come spesso accade alle mode, una mera convenzione giornalistica, una scorciatoia per apparire, ben sapendo che si è molto distanti dalla realtà. Non se ne sente il bisogno delle cosiddette archistar. Desolante, in tal senso, il ruolo della storiografia attuale. I più grandi Maestri (M maiuscola) del recente passato, Tafuri, Zevi, Portoghesi, mai e poi mai avrebbero citato loro stessi! Era d’obbligo il “noi” per permettere di rendere condivisibile (più o meno) una certa posizione, una determinata proposta. Obiettivo di questi pennivendoli è inseguire la cronaca più che la storia. Si cerca nel presente momento di fare giornalismo (prassi nobilissima) senza vera attenzione ai fenomeni urbani, alle vicende storiche, alle proposte del passato. Tutti oggi vogliono “inventare” qualcosa, senza riuscirci. Quando invece non ci sarebbe addirittura «bisogno di sviluppare una storia, perché essa c’è già. È lì da sempre, aspetta solo di essere sbrogliata, chiarita»1. Miserevoli le trasformazioni, in questo momento considerate assai appetibili, dei quartieri popolari delle città in zone residenziali di pregio. Con l’automatico cambiamento della composizione sociale dei nuovi abitanti e dei prezzi delle case. È la gentrificazione «che uccide il futuro, che innesca rimozioni dello “spirito della città”, che costringe i giovani ad andarsene e fanno perdere allo spazio urbano gli sguardi necessari a una narrazione futura.
parlata. Contro la dittatura della spettacolarizzazione
Per paradosso, la cosiddetta riqualificazione rischia di diventare una perdita della qualità della vita»2. Preoccupante il trattamento riservato alle architetture (martiri) compresenti in tali contesti, analizzate come banali oggetti o suppellettili di vecchio sapore. Una deriva. Penso che sia indispensabile tornare a riflettere sull’architetto colto di cui ho a lungo trattato in questi altrettanto lunghi anni. Egli mutatis mutandis si può considerare individuo capace di «raccogliere dall’ambiente le conoscenze utili ad assumere decisioni corrette per lui, che non danneggino gli altri, l’ambiente stesso, la società in cui vive; la libertà di ognuno è limitata dalla libertà di tutti gli altri» (Angiolina Bevilacqua). L’architetto colto ha «raffinata educazione dello spirito, reso agile ad ogni lavoro, ricco di molteplici e sempre deste curiosità, in quella capacità d’imparar cose nuove, che abbiamo acquistata studiando le antiche» (Gaetano Salvemini). In questa «società dell’efficienza e della performance spinta è mortificata la società della disciplina, caratterizzata dal trovare soluzioni a bisogni primari, con spirito di sacrificio, con eroismo e per necessità (pretese limitate, aspirazioni contenute, finalità collettive e non solo individuali, diritti subordinati ai doveri). Tutto sostituito dalla società della produzione e della velocizzazione del tempo» (Umberto Galimberti).
Le soluzioni ci sono e gli esempi non mancano. Immagino e auspico il ritorno alla prima ispirazione che spinse a iscriversi alla Facoltà di Architettura (come avanti accennato) quando, carichi di idealità, tratteggiavamo il nostro mestiere come eroico. Il problema dei giovani è il presentismo condito a dismisura da autoreferenzialità: qualcosa che danneggia sommamente l’architettura.
La
città dei 15 minuti
Ho consegnato a Mario Panizza, non molto tempo fa, un mio contributo dedicato alla città della prossimità (altrettanto valida la dizione La città dei 15 minuti). Ecco una sintesi di questa possibilità nuova per la realtà urbana.
«Su un assunto concordano i recentissimi studi sulla città: impossibile considerare la città per parti specializzate. Anche se tale suddivisione ha permesso, durante un periodo di quasi 50 anni, d’indagare i fatti urbani nelle loro trasformazioni sociali, economiche, architettoniche. Ma ha anche impedito di analizzare, fino in fondo, le disuguaglianze che caratterizzano la società. Ci sono città, ovvero parti di città, in cui si evidenzia la crisi sociale data dall’aumento della distanza tra chi
Correttivi e proposte
Repertorio della fattibilità
15-16. Manoscritto di Alfredo Passeri per i testi di Vienna Rossa con, in rosso, le “correzioni/integrazioni” di Tafuri. Aggiunte significative a perfezionamento della descrizione delle soluzioni distributive con critiche specifiche al progetto.
Si noti anche la sua ricercata precisione nel riportare nomi, date, rimandi e connessioni.
17. Dedica di Tafuri apposta ne “La sfera e il labirinto”
L’utopia della città razionalista
Un sogno impossibile a causa dei costi altissimi di ferro, vetro e cemento armato, perfino per i tempi nei quali veniva immaginata: questa sarebbe stata la “nuova città razionalista”. L’Expo 1942 doveva essere l’occasione per espandere Roma secondo criteri urbanistici innovativi: la guerra e la cultura dominante del periodo (con la presenza di Marcello Piacentini arbitro delle decisioni) impedirono si portasse a compimento tale straordinaria soluzione. Come melanconicamente raccontò Pagano fu la più clamorosa delle “occasioni perdute”. Al suo posto una città di pietra, gradita alla classe dominante, efficace nell’immagine che il fascismo desiderava presentare.
Piacentini corregge Libera (e gli altri)
Negli archivi, oggi più che mai accessibili alla consultazione, è possibile reperire schizzi, soluzioni, idee che furono alla base di grandi progetti. È il caso dell’E42, una volta che la figura di Marcello Piacentini prese il sopravvento sugli altri incaricati del piano urbanistico (Luigi Piccinato, Giuseppe Pagano, Luigi Vietti, Ettore Rossi). Questo protagonista della scena architettonica del Novecento aveva in mente come orientare l’immagine di ogni singolo edificio dell’Esposizione, condizionando tutti i progettisti con le sue scelte. Qui viene documentato, attraverso i suoi schizzi, quanto peso ebbe su Adalberto Libera per il Palazzo dei Congressi. Che fu poi realizzato secondo i dettami piacentinaiani. Anche altri casi, come il Palazzo della Civiltà, fecero lo stesso percorso: dallo schizzo di Piacentini alla soluzione a firma di La Padula, Guerrini, Romano.
Concorso Campidoglio due la Casa dei Cittadini - 2007
RESPONSABILI RAGGRUPPAMENTO DI PROGETTAZIONE:
SKIDMORE OWINGS & MERRILL LLP - GARY P. HANEY (SOM)
PAOLO MICALIZZI (Università “Roma Tre”) associato SOM ALFREDO PASSERI (Università “Roma Tre”) associato SOM – capogruppo
GRUPPO DI PROGETTAZIONE:
PETER J. MAGILL (SOM), ANTONIO CACCHIONE (BOVIS LEND LEASE), ADRIANO CARACCIOLO, ROBERTA CIACCIA, OTTAVIO CIALONE, CARLO M. CIAMPOLI (SOM), MARCELLO CIAMPOLI (strutture), NICOLA COLELLA (BOVIS LEND LEASE), FABIO FAIETA, MARCO FRASCAROLO (impianti), GIACOMO MARTINES, STEFANO EUGENIO MASTROMATTEO (BOVIS LEND LEASE), CHIARA MICALIZZI, DANIELE MICOZZI, CHARLES DONALD PEPPERS JR (SOM), VALENTINA PINI, AGNESE PIZZUTI, ROBERTA RINALDI, MARCO RUPERTO, KIM VAN HOLSBEKE (SOM), GONZALO CARBAJO (SOM), ALESSANDRO BEGHINI (SOM), ROGER FRECHETTE (SOM), HINA HAMEED (SOM), MAX HANEY (SOM), WILLIAM F. BAKER (SOM), CHUCK BESJAK (SOM), JEFF BOYER (SOM), PIERO ANTONILLI, ALESSANDRO MINATI, LAMBERTO GRUTTER, DAMIANO CANDELORO
Studio legale Ripa di Meana (Avv. Luca Scordino, Avv. Emanuele Li Puma)
88. Componenti del gruppo di progettazione SOM, Micalizzi, Passeri per Campidoglio Due (2007) 89-93. Schizzi di progetto per Campidoglio Due, gruppo SOM, Micalizzi, Passeri.
Il Flaminio, lo
Stadio della Lazio
Lo Stadio Flaminio deve essere lasciato alla sua intrinseca bellezza, senza essere affatto toccato. Certo, deve essere completamente restaurato (come un importante edificio storico) senza modificare l’ispirazione progettuale degli Autori. Insomma, per salvare il Flaminio è d’obbligo giustapporre nuovi spalti “non in tangenza ma con un evidente distacco”. In sommità di essi si può realizzare una selva di strutture artificiali con funzioni di coperture, di diverse altezze e dimensioni che hanno lo scopo di coprire tutti gli spalti e le zone contermini allo Stadio vero e proprio. Questa successione (permanenza dell’impianto originario dello Stadio di Nervi, giustapposizione di nuovi spalti e selva artificiale con funzione di copertura) permette di lasciare libera la visione del capolavoro di Nervi, di aggiungere nuove funzionalità e numero di posti (fino a 45.000-50.000), di coprire l’intero impianto senza deturpare né il paesaggio, né l’ambiante consolidato del quartiere Flaminio. Essenziale per il perfetto funzionamento di tale nuovo impianto è lo studio delle accessibilità e delle percorrenze (elaborato da Paolo Berdini).
P2
134. Sistemi di accessibilità e di percorrenze (a cura di Paolo Berdini). Prodromici a qualsiasi ipotesi d’intervento di restauro, ripristino, riuso del Flaminio sono il sistema dei mezzi di trasporto e, soprattutto, i nuovi parcheggi che potrebbero essere previsti “in elevazione” (nelle zone nel grafico opportunamente scelte e delimitate). Anche le linee tramviarie sono essenziali per una circolarità leggera dell’intero comparto
139-145. Schizzi di studio per la giustapposizione di nuovi spalti e per la copertura (Alfredo Passeri, Adriano Caracciolo, Andrea Guaricci)
146. Sezione volumetrica del Flaminio (che resta libero alla vista) con la giustapposizione dei nuovi spalti e con le coperture di alberature artificiali (Alfredo Passeri, Adriano Caracciolo, Andrea Guaricci)
Chi non legge non sa cosa succede, perché le idee talvolta si irrigidiscono, talvolta si assopiscono, talvolta come le stelle si spengono. La concentrazione, il silenzio, la solitudine sono essenziali. L’homo sapiens è capace di decodificare segni e di elaborare concetti astratti; l’homo videns non è portatore di pensiero ma fruitore d’immagini, con conseguente impoverimento della capacità di comprensione, ragionamento, giudizio critico. L’Architettura parlata assorbe e amplifica simili e diffusissime consuetudini. Il presente lavoro vuole essere il contraltare del vaniloquio senza logicità, incomprensibile. Trattando di stretta attualità, il libro L’Architettura parlata è come raccontare di un cantiere con i lavori in corso. Un certo numero di interventi si stanno portando avanti, alcuni molto lentamente, altri sono fermi, altri ancora non vedranno mai la luce. Sarebbe auspicabile registrare che il maggior numero di progetti vada in porto. Ma una buona dose di realismo non guasta e aiuta a non farsi troppe illusioni.
ISBN 978-88-6242-953-5 € 25 www.letteraventidue.com