Luciano Pia

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IMPRINTING

LUCIANO PIA

Alberto Bologna

ANTONINO

SU LUCIANO PIA

IL LUNGO APPRENDISTATO

Un velista bricoleur

In cantiere

MONOLITI INTAGLIATI

Opera prima

Un elegante organismo

OSSATURE APERTE

Alberi con persone

Serbatoi tra alberi

MICROCOSMI

Nella muratura

Una casa per le bambole

La solitudine come metodo

IMPRINTING

Da anni i miei colleghi all’estero mi dicono: «Ma che succede all’architettura italiana? È dai tempi di Rossi e della Tendenza che non sappiamo più nulla di voi!».

Rimango sempre interdetto. Ma da un poco di tempo ho cominciato a pensare a questa crisi. «Ma non è vero – mi dicevo – noi abbiamo almeno una dozzina di architetti di grande valore. Ma com’è che anche questo amico così colto e importante non ne sa nulla?»

Non so come, ma una volta ebbi l’illuminazione. Non la conoscono la nuova architettura italiana perché la “narratività” è sbagliata. Loro pensano a un nuovo stile unitario perciò non capiscono il valore di questi nostri architetti. Bisogna sostituire alla narrazione antica (lo stile metafisico condito di “architettura cittadina” della buonanima di Marcello insieme alla passione pure ideologica per la Stalinallee) una diversa chiave interpretativa.

Il primo elemento di una nuova narrazione deve far comprendere che il valore non passa affatto per un nuovo stile.

Un linguaggio comune semplicemente non c’è in Italia. Tutto è cambiato e anche l’antica categoria dello stile è defunta insieme all’ideologia. Il fatto che non ci sia uno stile omogeneo è, invece che una debolezza, una forza di questa nuova condizione. Ma come faccio a dare forza al concetto?

A un certo punto ho avuto la seconda idea. Mi dissi: «Ma certo! Bisogna far capire l’Imprinting».

Da tre decenni ci penso. Deriva da una miscela. Da una parte c’è Konrad Lorenz. Ricordate quando il grande etologo coniò il termine? Illustrava il fatto che gli esseri viventi nei primi tempi della loro vita costruiscono dei luoghi mentali che costituiscono la loro presa di coscienza del mondo. Compì l’esperimento con le ochette orfane che si fecero convinte che lui, Konrad, fosse la loro madre e per tutta la loro vita si rapportarono con lui come la mamma. Questa scienza è. Ma pensai, secondo me noi animali umani facciamo di più. Creiamo questo Imprinting non solo con le persone ma anche con i luoghi.

I luoghi della nostra infanzia vengono a costituire un “paesaggio nativo” o meglio: «Dietro a tutte le nostre attività intenzionali, dietro al nostro mondo domestico, c’è questo paesaggio ideale creato durante l’infanzia. Esso attraversa la nostra memoria selettiva e autocensurata, come un mito ed un idillio di come le cose dovrebbero essere, il paradiso perduto da riconquistare», scrisse Colin Ward.

Ora mi domandai, ma vero è? E cominciai a fare delle verifiche. Comunicai a lavorare sull’Italia e mi chiesi: «Qual è il paesaggio perduto di Terragni?».

Beh non è difficile, una volta così impastata la questione. È il cardo decumano del castrum romano. È l’astrazione razionale, il dominio delle regole umane sulla natura. E d’improvviso capii la Casa del Fascio. Questo prisma astratto che domina la vetta di Brunate che lo sovrasta. Vince il cardo decumano che vediamo dappertutto nella Casa del Fascio sul paesaggio.

In Padania insomma permane l’Imprinting di quell’infanzia mitica del segno astratto di fondazione per riemergere, anche secoli dopo, nelle menti più sensibili. Aldo Rossi che dipingeva la Milano della periferia da ragazzo non poteva che essere lombardo.

Poi mi chiesi: «E al Sud che succede, la stessa cosa è?

Lo stesso Imprinting c’è?» No è diverso.

Lì il mondo come deve essere è quello dell’infanzia mitica greca. È l‘ara che si erge come inno al cielo e agli dei. È una architettura mono-materica dal chiaroscuro abbagliante che appunto ricorda la nascita della stele, dell’altare, del tempio in cima al monte. Il mio primo test fu con Pasquale Culotta. Non v’erano dubbi, era un’idea che con Pasquale funzionava a meraviglia, lo rivelava, lo interpretava, forniva le giuste chiavi di lettura della sua architetture a Cefalù e dintorni. E poi mi dissi: «E al centro di questo nostro paese, che succede? È romano?». No, non è romano questo è il bello: non è affatto romano, ma etrusco. L’infanzia perduta e sempre ricercata in questa regione d’Italia è quella dove l’architettura si dà come matrimonio con l’ambiente. Una terra vulcanica in cui si scava il tufo per fare i percorsi sacri nelle vie cave. È lì dove emerge una relazione sezionale tra architettura e natura.

Alessandro Anselmi fu il mio primo test. E naturalmente ancora altri con Piranesi, e il frammento, e la scena urbana. Funzionava. Almeno tre macro Imprinting esistono in Italia, al Nord vince la pianta e l’astrazione romana, al Sud vince il prospetto della Magna Grecia e al centro vince la sezione, potevo anche aggiungere ricordando un pezzo di Franco Purini su “Casabella” del gennaio del 1991. Fermiamoci qui. Avevo l’idea della narrazione nuova per disegnare una collana. Mi dissi voglio solo architetti italiani, affermati, maturi. Niente promesse. E voglio autori-critici di prim’ordine. O giovani che mi conoscono bene e che vogliono “imparare” ancora da me, oppure vecchi amici con cui ho lavorato alla Universale di architettura. Ricordate “gli architetti” con la Testo&immagine e Marsilio?

O la Rivoluzione Informatica in Architettura con Birkhäuser, Edilstampa e Testo & Immagine? All’estero devono capire che l’Italia è paese dei mille paesaggi, e che questi paesaggi nativi operano dentro le personalità sensibili come enzimi del processo creativo. E che questo è tesoro unico, ed è la nostra particolarità, altro che linguaggio. Un continuo ripensamento, un rovello creativo, un perenne tradimento dello scontato e del facile.

Nessuno ha all’estero i nostri paesaggi, nessuno ha questa ricchezza e nessuno come i migliori architetti nostri può far sentire come ciò si trasformi in architettura di oggi con mille rimbalzi, mille negoziazioni, senza nessuna memoria nostalgica, senza nessun genius loci dato una volta per tutte. Ma ricreando e reinventando ogni volta. Nei sentieri antichi non si torna uguali a prima.

“Altre ali fuggiranno dalle paglie della cova | perché lungo il perire dei tempi | l’alba è nuova, è nuova” scrisse il poeta materano Rocco Scotellaro.

Capiremo così insieme perché Franciosini è umbro, Pujatti non può che essere friuliano, Peluffo genovese, Vaccarini abruzzese, Luciano Pia torinese, Zucchi, per la miseria, milanese e Gambardella, Song’e Napule è.

Ora, parlai del mio progetto con l’editore nella figura dell’architetto Francesco Trovato. Credo che ci mise 24 ore a dirmi di sì. Dopo dissi e come la chiamiamo «Architettura

e architetti contemporanei italiani?». «Ma quando mai! Imprinting la dobbiamo chiamare!», mi rispose. E adesso avevo nome e editore. Dopo dissi ma basta questo concetto ad inanellare le perle della collana? No una triade si deve fare mi dissi. Ed ecco il secondo elemento, “Il maestro“. Vuol dire che volenti o nolenti di architetti l’Italia di maestri ne ha tanti.

E ognuno di questi maestri, per gli architetti che sopra abbiamo nominato ad esempio, è punto di studio, di riferimento, di dialogo. Un dialogo da pari a pari, ma maestro è maestro e tale rimane. Possiamo capire mai Zucchi senza Caccia Dominioni, Pujatti senza Gino Valle, Peluffo senza De Carlo? Dobbiamo di nuovo far capire ai nostri amici d’oltralpe con chi ci hanno a che fare. Che ci abbiamo anche questa cosa, che hanno pure loro, certo, ma non la stessa proprio. Infine è mezza vita che lavoro non solo sui libri miei, ma soprattutto su quelli degli altri. E la mia fissazione è avere una scrittura “pertinente”, che parli della spazialità, della costruzione, dell’invenzione, dell’uso e delle difficoltà del fare – in Italia folli e al Sud pure di più. C’è bisogno di una scrittura che sia vicina “al come”, questo è il terzo elemento della triade.

Perché chi legge capisca – ed emuli se vuole – chi ha nel disegno a mano, nel Bim, nel plastico in creta o nel modellino in cartone riciclato, la chiave della sua casa-architettura.

Una chiave che apre il processo che poi ciascuno sviluppa con consulenti e collaboratori e a suo modo.

Una triade Imprinting-Maestro-Processo.

Ecco i tre fili che intrecciati tra loro tengono insieme i libri di questa collana.

ANTONINO SAGGIO SU LUCIANO PIA

Ho incontrato l’architetto Luciano Pia una dozzina di anni or sono a Torino. Devo la sua conoscenza all’amico Cesare Griffa, anche lui torinese e docente stimato al Politecnico. A quel tempo Griffa stava lavorando al libro Smart Creatures, nella collana “La Rivoluzione Informatica in Architettura”. Torino era la sede della casa editrice Testo&Immagine che sotto la direzione di Bruno Zevi mutò, almeno per un decennio, il contesto editoriale italiano dell’architettura. Cesare, architetto sperimentatore, ai tempi lavorava per l’appunto all’ibridazione tra natura e tecnologia informatica in un’idea in cui la stessa architettura poteva diventare progressivamente “vivente”. Come dire, il passo successivo di quanto di ben meraviglioso in questo libro vedremo. Mi disse: «Nino ti voglio far vedere un’opera significativa». Mi portò allora in questo edificio che si presentava sulla strada come un oggetto geometrico, serrato, con una fermezza particolare da tutti i lati. Ma entrati dentro, gli spazi si aprivano pur senza cambiare il loro carattere di riservatezza e di misura. Era un edificio disegnato per ospitare la Scuola di Biotecnologie dell’Università, che organizzava attorno a uno spazio aperto una serie di funzioni per gli studenti e il loro stare insieme. Ne fui colpito. Adesso dopo tanti anni penso che la sua funzione di Centro di ricerca per lo studio della Biotecnologia è il luogo ideale per far convergere costruzione-informatica-biologia proprio verso quell’architettura del vivente presentata nel libro di Cesare. Oggi è compiutamente realizzata in alcuni centri di ricerca universitaria. Per esempio a Stoccarda dove le facoltà di Medicina o di Biologia lavorano strettamente insieme all’architettura e all’Information Technology sotto la direzione di Achim Menges. Il giorno dopo, Cesare mi portò a conoscere l’architetto Luciano Pia. Andammo in un complesso per uffici che capii era anche la sede della impresa di costruzioni entro la quale l’architetto aveva creato una maniera tutta sua di lavorare: l’aveva certamente “imposta”, con gentilezza e fermezza.

Dopo poco arrivò Luciano Pia che pensai essere un quarantenne. Ebbi subito l’impressione di una persona luminosa, aperta, interessata a chi incontrava, tutt’altro che boriosa: una persona “simpatica”. Dopo poco Luciano Pia ci fece comprendere la sua modalità di lavoro, che era del tutto particolare. Progettava tutto, dal concept generale dell’edificio all’ultima vite e faceva tutto da solo. Ricordo più di una volta che sottolineò questo punto: «faccio tutto da solo» e, a riprova, tirò fuori rotoli e rotoli di disegni che nel caso specifico mostravano un edificio – il pionieristico 25 Verde – in quel momento in fase di ultimazione: un’interpretazione originale della casa-albero, molto forte dal punto di vista dell’immaginazione e sicuramente interessante come soluzione dell’integrazione del verde in città.

Luciano Pia diceva di fare tutto da solo, ma in realtà aveva un formidabile compagno di avventura intellettuale. Una specie di collega di cui egli negli anni aveva sempre più interrogato le potenzialità e i limiti come se fosse un compagno di ogni scalata. Si tratta del software MiniCAD, che fu tra i primissimi CAD del nuovo computer Mac e uscì nel 1985 quando i Mac erano a malapena di 1mega di memoria. Eppure già da piccolo MiniCAD era una promessa, aveva delle strutture che poi sviluppate e rafforzate ne fecero il potente VectorWorks. Questo ambiente di lavoro nelle mani e nell’immaginazione di Luciano Pia divenne l’esatto opposto di un software “limitativo”. Già alla metà degli anni Novanta aveva un sistema integrato di gestione delle informazioni (in seguito si chiamerà Building Information Modeling) che permetteva di avere un modello informatico non solo da cui ricavare qualunque vista necessaria allo studio e alla presentazione del progetto, ma anche i dati quantitativi a esso legati. E che soprattutto rimaneva “dinamico”, nel senso che le modifiche si riverberavano automaticamente sia nelle informazioni geometriche che in quelle di quantità.

Questo ambiente di lavoro permette a Pia di far fiorire la sua inventiva e il suo talento e, allo stesso tempo, di avere una solida piattaforma di confronto tanto con l’Amministrazione che con il Committente.

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La mia conoscenza con Alberto Bologna, anche lui torinese, è più recente ma non credo di farmi un vanto particolare nel dire che subito individuai in lui i caratteri speciali di un autore e docente di spessore. Cominciammo quindi subito a pensare a un volume per questa collana, ma ci vollero tre o quattro iterazioni per individuare un architetto che potesse funzionare per entrambi. Finalmente un giorno Alberto mi disse: «Conosci Luciano Pia, ma forse non lo conosci…». Invece io saltai subito dalla sedia e dissi «Luciano Pia sì, assolutamente sì». Subito Alberto si mise al lavoro. Scoprì innanzitutto che esiste un forte Imprinting in Luciano Pia e che il suo “artigianato informatico” si radica nella sua storia familiare; scopre poi anche la lunga relazione con un maestro come Andrea Bruno. Bologna ci disvela la figura di Pia progetto per progetto con una rara commistione di precisione e sentimento. Un sentimento quasi nascosto tra le sue righe, ma che c’è. Sono stato entusiasta di aver capito molto meglio questo nostro architetto italiano, attraverso le sue pagine, sono stato ammirato dalle opere e dalla splendida messa in pagina della casa editrice e ho letto con grande piacere la sezione “Per Approfondire”, che nelle mani di Alberto Bologna diventa un grande strumento. Ricordo che quando ero giovane avevo un criterio: andare alle conferenze dell’IN/Arch del lunedì in particolare quando c’erano nomi che non conoscevo. Magari non andavo quando c’era James Stirling, ma andai quando c’era tal Paolo Soleri, o un tal Ralph Erskine, ricordo ancora queste scoperte luminose, incredibili che aprivano strade nuove.

Schizzo che illustra una delle prime ipotesi elaborate da Luciano Pia per definire l’impianto distributivo di 25 Verde: lo schema rivela come sia già presente l’idea (in seguito realizzata) di collocare le diverse unità immobiliari all’interno di tre maniche parallele alle vie cittadine, con affacci su spazi-filtro così da creare un distacco sia con la strada che con il giardino interno (ALP).

MONOLITI INTAGLIATI

Luciano Pia ricorre al calcestruzzo non solo in quanto materiale in grado di dare una forma scultorea ai suoi edifici o per le sue proprietà di definire superfici ornate: egli lo intende come vero e proprio mezzo esperienziale in grado di generare qualità spaziale nelle sue architetture. Dunque, un’analisi critica condotta in chiave progettuale dei suoi monoliti cementizi deve essere svolta a partire da un approccio che non può che derivare dalla lezione impartita da Steen Eiler Rasmussen, secondo cui «non è sufficiente vedere un’architettura; si deve farne esperienza». La materialità gioca quindi un ruolo primario nel quadro della cultura del progetto messa in campo da Pia, dalla quale non si può prescindere per comprenderne tanto gli impulsi creativi, i codici espressivi e i linguaggi compositivi adottati, quanto i più pragmatici esiti costruiti. D’altronde, come ha scritto

Antoine Picon «l'architettura è un'arte estremamente materiale» e, come conseguenza, «nel percorso che porta dal mero ordinamento della materia e dei materiali alla presa in considerazione della materialità, la disciplina architettonica si trova inesorabilmente a confrontarsi con la questione dell’espressione. […] Il linguaggio, infatti, rappresenta la forma più articolata di espressione, qualcosa come un seducente limite superiore dell’ambizione di rivolgersi agli esseri umani».

Corte d’ingresso principale al complesso: gli intagli operati sui fronti interni alle due maniche gemelle mettono in risalto la sezione a gradonata degli auditorium contenuti ai piani superiori e proteggono, al di sotto, i due teatri all’aperto (BG).

Sezione trasversale passante in corrispondenza della corte d’ingresso a sud-est e di quella a sudovest dove affacciano gli uffici e i locali destinati alle attività di ricerca (ALP).

Nelle pagine successive:

Vedute della corte a sud-ovest, protetta da una copertura in acciaio e vetro e caratterizzata, al centro, da un giardino che funge da luogo di incontro per i ricercatori. La distribuzione agli uffici collocati al primo piano avviene mediante passerelle, realizzate con una raffinata struttura in acciaio e caratterizzate da piani di calpestio in vetro traslucido (MM e BG).

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Veduta da corso Regina Margherita del grande intaglio che dà forma al basamento dell’edificio: il volume vetrato al piano terra è sovrastato da una lama orizzontale in calcestruzzo ad altezza variabile che raccorda la quota del primo piano dell’edificio confinante a sud-ovest con il suo corrispondente a sud-est (BG).

OSSATURE APERTE

Nella determinazione formale di quella che Jeremy Rifkin definirebbe come l’architettura della «terza rivoluzione industriale digitale verde», Luciano Pia declina l’ossatura strutturale quale dispositivo spaziale per il supporto di un apparato vegetale in grado d’interagire attivamente con chi abita o frequenta l’edificio: gli alberi contribuiscono infatti a migliorare le condizioni microclimatiche ed alimentano una generalizzata sensazione di benessere psico-fisico generato dalla percezione di vivere o lavorare immersi nella natura. Ma non solo: ossatura metallica e vegetazione diventano pure l’elemento compositivo dominante in grado di sancire in maniera diretta e fortemente riconoscibile l’immagine di edifici che, inesorabilmente, discendono da quella stessa visione dei Giardini di Babilonia evocata da Maarten van Heemskerck, successivamente divenuta icona dell’architettura contemporanea con la Prefettura Internazionale di Fukuoka di Emilio Ambasz. I pragmatici principi progettuali esibiti da Pia attraverso l’impiego di una componente vegetale intesa quale vero e proprio materiale costruttivo si pongono così in antitesi con quelle modaiole tendenze dalle quali pure lo stesso Ambasz mette in guardia: «l’uso improprio del verde si verifica quando viene utilizzato come maquillage per valorizzare edifici mediocri e avanzare la pretesa di alcuni architetti di aver prodotto un edificio verde ed ecologico».

inglobata dalla vegetazione rendendola, di fatto, non così chiaramente percepibile.

Osservandola col privilegio della retrospettiva, risulta palese come 25 Verde sia un’architettura che è stata in grado di andare oltre il provincialismo che tradizionalmente contraddistingue il più colto professionismo torinese degli ultimi decenni: infatti, passata la metà degli anni 2000 nemmeno l’eterogeneità degli approcci e degli esiti esibiti dai progetti realizzati (da studi nazionali ed internazionali) per accogliere le infrastrutture sportive per le Olimpiadi invernali del 2006 erano ancora riusciti a fare evolvere appieno il gusto, i linguaggi e, più in generale, la cosiddetta cultura del progetto, degli architetti più accreditati a livello locale dalla lezione impartita dalla precedente generazione dei loro maestri.

Prospetto su via Correggio (ALP).

Analizzata oggi, la migliore produzione architettonica di Torino e provincia di quegli anni risulta infatti ancora appiattita sul piano espressivo dall’applicazione ricorrente degli stilemi omologati da Gabetti e Isola e replicati, in continue varianti citazioniste, da un cenacolo piuttosto esteso di emuli. Dunque, escludendo il lavoro di Pia e di altri episodici sperimentalismi portati avanti da professionisti emergenti quali Vanja Frlan e Maarten Jansen, Raimondo Guidacci o Stefano Pujatti, a oltre quarant’anni di distanza dalla loro pubblicazione sul numero di aprile 1959 di The Architectural Review, le posizioni assunte da Reyner Banham nel suo saggio Neoliberty: the Italian Retreat from Modern Architecture trovavano, a Torino, una rinnovata validità ed attualità. All’epoca, infatti, la Città non aveva visto ancora il completamento di edifici iconici quali, per esempio, il

Dettagli dell’ossatura esterna in acciaio Corten: le cerniere statiche, le linee di saldatura, i bulloni in acciaio, i fazzoletti di rinforzo saldati tra le ali delle putrelle, così come gli elementi diagonali di controvento, alimentano quel senso di incontrollata imperfezione che caratterizza gli organismi vegetali che la medesima struttura integra al suo interno (BG).

Le architetture di Luciano Pia sono l’esito di processi di ricerca progettuale che portano a spazialità urbane iconiche, sempre inedite e inconsuete.

L’architetto torinese lavora da solo e, in maniera ogni volta differente, dà forma ai suoi edifici mettendo simultaneamente a sistema le istanze dettate dalla distribuzione, le qualità spaziali della struttura portante e le superfici che definiscono gli involucri. La sensibilità nell’impiego dei materiali e le sue doti da artigiano giocano pertanto un ruolo primario nel quadro di una distintiva cultura del progetto basata sulla costruzione dalla quale non si può prescindere per comprendere appieno gli impulsi creativi, i formalismi, i codici espressivi e i linguaggi compositivi adottati.

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