Giovanni Vaccarini

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PROLOGO

UNA TIPOLOGIA ANARCHICA: LA PALAZZINA

VERSANTE ADRIATICO

IMPRINTING

Da anni i miei colleghi all’estero mi dicono: «Ma che succede all’architettura italiana? È dai tempi di Rossi e della Tendenza che non sappiamo più nulla di voi!».

Rimango sempre interdetto. Ma da un poco di tempo ho cominciato a pensare a questa crisi. «Ma non è vero – mi dicevo – noi abbiamo almeno una dozzina di architetti di grande valore. Ma com’è che anche questo amico così colto e importante non ne sa nulla?»

Non so come, ma una volta ebbi l’illuminazione. Non la conoscono la nuova architettura italiana perché la “narratività” è sbagliata. Loro pensano a un nuovo stile unitario perciò non capiscono il valore di questi nostri architetti. Bisogna sostituire alla narrazione antica (lo stile metafisico condito di “architettura cittadina” della buonanima di Marcello insieme alla passione pure ideologica per la Stalinallee) una diversa chiave interpretativa.

Il primo elemento di una nuova narrazione deve far comprendere che il valore non passa affatto per un nuovo stile.

Un linguaggio comune semplicemente non c’è in Italia. Tutto è cambiato e anche l’antica categoria dello stile è defunta insieme all’ideologia. Il fatto che non ci sia uno stile omogeneo è, invece che una debolezza, una forza di questa nuova condizione. Ma come faccio a dare forza al concetto?

A un certo punto ho avuto la seconda idea. Mi dissi: «Ma certo! Bisogna far capire l’Imprinting».

Da tre decenni ci penso. Deriva da una miscela. Da una parte c’è Konrad Lorenz. Ricordate quando il grande etologo coniò il termine? Illustrava il fatto che gli esseri viventi nei primi tempi della loro vita costruiscono dei luoghi mentali che costituiscono la loro presa di coscienza del mondo. Compì l’esperimento con le ochette orfane che si fecero convinte che lui, Konrad, fosse la loro madre e per tutta la loro vita si rapportarono con lui come la mamma. Questa scienza è. Ma pensai, secondo me noi animali umani facciamo di più. Creiamo questo Imprinting non solo con le persone ma anche con i luoghi.

I luoghi della nostra infanzia vengono a costituire un “paesaggio nativo” o meglio: «Dietro a tutte le nostre attività intenzionali, dietro al nostro mondo domestico, c’è questo paesaggio ideale creato durante l’infanzia. Esso attraversa la nostra memoria selettiva e autocensurata, come un mito ed un idillio di come le cose dovrebbero essere, il paradiso perduto da riconquistare», scrisse Colin Ward.

Allora mi domandai, ma vero è? E cominciai a fare delle verifiche, a lavorare sull’Italia e mi chiesi: «Qual è il paesaggio perduto di Terragni?».

Beh non è difficile, una volta così impastata la questione. È il cardo decumano del castrum romano. È l’astrazione razionale, il dominio delle regole umane sulla natura. E d’improvviso capii la Casa del Fascio. Questo prisma astratto che domina la vetta di Brunate che lo sovrasta. Vince il cardo decumano che vediamo dappertutto nella Casa del Fascio sul paesaggio. In Padania insomma permane l’Imprinting di quell’infanzia mitica del segno astratto di fondazione per riemergere, anche secoli dopo, nelle menti più sensibili. Aldo Rossi che dipingeva la Milano della periferia da ragazzo non poteva che essere lombardo.

Poi mi chiesi: «E al Sud che succede, la stessa cosa è?

Lo stesso Imprinting c’è?» No è diverso. Lì il mondo come deve essere è quello dell’infanzia mitica greca. È l‘ara che si erge come inno al cielo e agli dei. È una architettura mono-materica dal chiaroscuro abbagliante che appunto ricorda la nascita della stele, dell’altare, del tempio in cima al monte. Il mio primo test fu con Pasquale Culotta. Non v’erano dubbi, era un’idea che con Pasquale funzionava a meraviglia, lo rivelava, lo interpretava, forniva le giuste chiavi di lettura della sua architetture a Cefalù e dintorni.

E poi mi dissi: «E al centro di questo nostro paese, che succede? È romano?». No, non è romano questo è il bello: non è affatto romano, ma etrusco. L’infanzia perduta e sempre ricercata in questa regione d’Italia è quella dove l’architettura si dà come matrimonio con l’ambiente. Una terra vulcanica in cui si scava il tufo per fare i percorsi sacri nelle vie cave. È lì dove emerge una relazione sezionale tra architettura e natura.

Alessandro Anselmi fu il mio primo test. E naturalmente ancora altri con Piranesi, e il frammento, e la scena urbana. Funzionava. Almeno tre macro Imprinting esistono in Italia, al Nord vince la pianta e l’astrazione romana, al Sud vince il prospetto della Magna Grecia e al centro vince la sezione, potevo anche aggiungere ricordando un pezzo di Franco Purini su “Casabella” del gennaio del 1991. Fermiamoci qui. Avevo l’idea della narrazione nuova per disegnare una collana. Mi dissi voglio solo architetti italiani, affermati, maturi. Niente promesse. E voglio autori-critici di prim’ordine. O giovani che mi conoscono bene e che vogliono “imparare” ancora da me, oppure vecchi amici con cui ho lavorato alla Universale di architettura. Ricordate “gli architetti” con la Testo&immagine e Marsilio?

O la Rivoluzione Informatica in Architettura con Birkhäuser, Edilstampa e Testo & Immagine? All’estero devono capire che l’Italia è il paese dei mille paesaggi, e che questi paesaggi nativi operano dentro le personalità sensibili come enzimi del processo creativo. E che questo è tesoro unico, ed è la nostra particolarità, altro che linguaggio. Un continuo ripensamento, un rovello creativo, un perenne tradimento dello scontato e del facile.

Nessuno ha all’estero i nostri paesaggi, nessuno ha questa ricchezza e nessuno come i migliori architetti nostri può far sentire come ciò si trasformi in architettura di oggi con mille rimbalzi, mille negoziazioni, senza nessuna memoria nostalgica, senza nessun genius loci dato una volta per tutte. Ma ricreando e reinventando ogni volta. Nei sentieri antichi non si torna uguali a prima.

“Altre ali fuggiranno dalle paglie della cova | perché lungo il perire dei tempi | l’alba è nuova, è nuova” scrisse il poeta materano Rocco Scotellaro.

Capiremo così insieme perché Franciosini è umbro, Pujatti non può che essere friuliano, Peluffo genovese, Vaccarini abruzzese, Luciano Pia torinese, Zucchi, per la miseria, milanese e Gambardella, Song’e Napule è.

Ora, parlai del mio progetto con l’editore nella figura dell’architetto Francesco Trovato. Credo che ci mise 24 ore a dirmi di sì. Dopo dissi e come la chiamiamo «Architettura

e architetti contemporanei italiani?». «Ma quando mai! Imprinting la dobbiamo chiamare!», mi rispose. E adesso avevo nome e editore. Dopo dissi ma basta questo concetto ad inanellare le perle della collana? No una triade si deve fare mi dissi. Ed ecco il secondo elemento, “Il maestro“. Vuol dire che volenti o nolenti di architetti l’Italia di maestri ne ha tanti.

E ognuno di questi maestri, per gli architetti che sopra abbiamo nominato ad esempio, è punto di studio, di riferimento, di dialogo. Un dialogo da pari a pari, ma maestro è maestro e tale rimane. Possiamo capire mai Zucchi senza Caccia Dominioni, Pujatti senza Gino Valle, Peluffo senza De Carlo? Dobbiamo di nuovo far capire ai nostri amici d’oltralpe con chi ci hanno a che fare. Che ci abbiamo anche questa cosa, che hanno pure loro, certo, ma non la stessa proprio. Infine è mezza vita che lavoro non solo sui libri miei, ma soprattutto su quelli degli altri. E la mia fissazione è avere una scrittura “pertinente”, che parli della spazialità, della costruzione, dell’invenzione, dell’uso e delle difficoltà del fare – in Italia folli e al Sud pure di più. C’è bisogno di una scrittura che sia vicina “al come”, questo è il terzo elemento della triade.

Perché chi legge capisca – ed emuli se vuole – chi ha nel disegno a mano, nel Bim, nel plastico in creta o nel modellino in cartone riciclato, la chiave della sua casa-architettura.

Una chiave che apre il processo che poi ciascuno sviluppa con consulenti e collaboratori e a suo modo.

Una triade Imprinting-Maestro-Processo.

Ecco i tre fili che intrecciati tra loro tengono insieme i libri di questa collana.

ANTONINO SAGGIO

SU GIOVANNI VACCARINI

Vorrei segnalare subito al lettore una particolarità di questo volume. Il suo autore, Manuel Orazi, non è solo uno storico dell’architettura del Moderno, ma è contemporaneamente curatore della sezione di architettura della casa editrice

Quodlibet, fondata a Macerata da allievi di Giorgio Agamben oltre trent’anni or sono. In parole povere, Orazi è un concorrente di LetteraVentidue e di Francesco Trovato.

È del tutto lecito chiedersi, quindi, come io mi sono chiesto, perché mai sia accaduto un evento così particolare e raro.

La risposta naturalmente è semplicissima: Giovanni Vaccarini.

Infatti Vaccarini ha delle doti di misura, di equilibrio, di pacatezza che cementano delle importanti amicizie come appunto quella con Orazi.

Il fatto è che le doti della personalità si riversano quasi per osmosi dal temperamento alla sua architettura.

L’aggettivo che mi sembra giusto per Vaccarini persona e architetto è l’aggettivo limpido. Un’architettura quindi che è limpida con naturalezza e che sembra far riflettere quella luce del mare Adriatico lungo il qual il nostro architetto è nato, cresciuto e dove ha quasi sempre lavorato.

Guardate la sua palazzina a Giulianova (p. 38) in cui riprende il motivo della scalettatura in facciata del suo maestro ideale Luigi Moretti o la palazzina DeAmicis154 (p. 47) in cui sembra riflettere sulla Mediateca di Sendai di Toyo Ito o l’edificio a pagina 85 con il motivo dei cassetti svuotati e sovrapposti oppure il complesso SPG (p. 98) che si presenta anche come uno straordinario gesto di perizia costruttiva per gli standard italiani. All’inizio la limpidezza pare riferirsi ai materiali, ma invece risiede nella logica progettuale, nella successione chiara delle parti, delle funzioni. Guardate come riprova il suo cimitero a Ortona dove non c’è un pezzo trasparente: ma che decisione di impianto, che efficacia di ritmo, che sicurezza nell’adozione di un motivo decorativo. Scrive Orazi: «un impianto a pettine in cui i denti (i corpi di fabbrica) utilizzano, nel loro disporsi, un graticcio di allineamenti (un codice a barre) che dialoga con l’impianto del cimitero e il mare, un anello di congiunzione fra architettura e urbanistica».

Di norma chiediamo all’autore di rintracciare nel dialogo con l’architetto qualche elemento che legittimi il nome “Imprinting” della collana attraverso l’ipotesi che quel paesaggio si senta nelle opere di architettura.

In questo libro vi accorgerete che non si tratta di un cenno, ma al contrario di una appassionata disamina. Orazi ci ricorda storicamente quante persone hanno lavorato sulla consapevolezza che quella Città di latta come la chiamò Paolo Desideri, può incidere nella cultura e nell’architettura e come autori importanti se non relegati nell’alveo del provincialismo hanno creato ricerche che arricchiscono l’architettura, penso a Danilo Guerri e, prima di lui, ad Alfredo Lambertucci.

Per questa ragione l’editore ha costruito un volume sui generis in questa collana con una vera messe di materiale che descrivono il tema dell’adriaticità spesso interpretata come caos o territorio spurio. Ma il bello è che il paesaggio nativo non è quello imposto da critici o teorici, ma è quello che ciascuno si costruisce. Nel caso di Vaccarini la sua architettura è lontana da mostri e “gomorre” e ci invita a cercare con lui la tenue luce adriatica sorreggendosi a un antico strumento dell’architetto: la tipologia.

Alla fine di tutto rimane quindi e anzi diventa ancora più forte l’architettura di Vaccarini che è saputa crescere e svilupparsi sempre di più in questi anni. Non credo di avere particolari meriti nell’aver individuato in lui già vent’anni fa uno dei maestri italiani, e che ho avuto voglia di trascorrere con lui giornate a Roma e soprattutto in Sicilia, e perché mi sono fatto carico di una ingiustizia che la sua figura a mia avviso subì. È da tanti anni che non mi è capitato più di pensare a un episodio. Nei primi anni duemila mi chiesero di scrivere un bilancio dell’architettura italiana e Vaccarini non c’era.

Mi arrivò una garbata lettera dello sconosciuto architetto di Giulianova che mi proponeva il suo lavoro. Aveva ragione lui e torto io. Nel 2005 “Costruire” mi chiese di scrivere un bilancio della nuova architettura italiana. Lo feci e individuai in lui un progettista molto promettente nella scena italiana. Anche per questo, tanti anni dopo, questo bellissimo libro mi rende particolarmente lieto.

PROLOGO

Nonostante il rinnovato interesse internazionale verso l’Adriatico e i suoi temi geopolitici, dai libri di Robert D. Kaplan agli ultimi numeri di “Limes”, le sue città e i suoi autori sono meno indagati, almeno nel campo dell’architettura con la sola eccezione di Venezia. Anche uno studioso sofisticato come Michele Costanzo – nato peraltro ad Ancona – ancora pochi anni or sono in un excursus sull’architettura del nuovo secolo [Costanzo 2020] escludeva l’Abruzzo così come prima di lui in genere tutti i manuali di storia dell’architettura hanno concesso appena qualche indicazione a Romagna, Marche, Puglia, Molise e Friuli Venezia Giulia. Molto lavoro resta da fare dunque sul piano della storicizzazione di questi territori, nonostante la riscoperta di tutta una serie di “professionisti colti” di provincia come in passato venivano chiamati con malcelato sarcasmo dagli accademici più engagé. E se un “professionista molto serio” è la definizione che Ludovico Quaroni usò per Giuseppe Vaccaro con Denise e Robert Scott Brown in cerca di lavoro nel lontano 1956, oggi possiamo usarla certamente anche per Giovanni Vaccarini che per estrazione geografica ha

lo svantaggio di essere cresciuto lontano dai grandi circuiti architettonici, dai musei e dalle riviste, eppure negli anni si è fatto strada semplicemente progettando e costruendo, infondendo la teoria nelle opere “con le proprie mani”. Nonostante l’omonimia con l’architetto siciliano settecentesco, Vaccarini ha un destino totalmente adriatico: nato a Orta Nova, nel 1966 in provincia di Foggia, è cresciuto a Giulianova e ha studiato a Pescara dove si è stabilito; ha vinto concorsi in Romagna e nelle Marche, oltre che in Abruzzo. Nonostante le sue esperienze formative lo abbiano portato in Canada, a Roma e in Svizzera, alla fine è tornato a casa. Questo saggio storico vuole offrire alcuni punti di riflessione, non è dunque una monografia bensì un saggio monografico in cui sono confluiti altri studi e temi convergenti dell’autore, lasciando ampio spazio ad altre letture e future categorizzazioni perché, come ha scritto Hugo von Hofmannsthal, «Il presente è vasto, il passato profondo; la vastità confonde, la profondità ricrea».

LA LEZIONE DI PESCARA

«Una volta, da ordigno volante altissimo devi aver osservato l’insediamento che da Ancona si svolge in striscia edilizia litoranea e continua. In un battito di ciglia l’hai fotografata tutta fino a Pescara, comprese le nervature viarie, inclusi gli ispessimenti trasversali. Il tuo sguardo era preciso. Il referto che hai fornito lo dimostra, incontrovertibilmente. Poi, per anni, in ogni stagione, devi aver percorso l’autostrada, la ferrovia, la strada, a salire oppure a scendere. Dai molteplici aspetti scaturivano dei raggi che, attraverso l’occhio, colpivano la mente tua. Che ha rimandato talune illuminazioni. Indirettamente e blandamente mi raccomandavi di ripetere entrambe le esperienze. Ma, veramente, volare così in alto. Viaggiare in così tanti frangenti e così a lungo. Credi, suggerivi l’impossibile».

Vittorio Savi

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Cucinella, nuova sede del carnevale di Italo Rota) il resto della costa non brilla per grandi opere attuali se non per il progetto di una pista ciclabile adriatica continua, impossibile da realizzare sul Tirreno. Una felice eccezione è rappresentata da Giovanni Vaccarini che ha saputo coniugare suggestioni vernacolari, artistiche ed ecologiche riversandole nelle sue architetture tutte sparse lungo la costa: la centrale Powerban di Russi (Ravenna 2020), raro esempio di un edificio tecnico che sa donare una nuova forma alla necessità di convogliare processi energetici rinnovabili (legno, biomassa, fotovoltaico) con grandi benefici a livello di riorganizzazione territoriale; l’edificio residenziale Riviera 107 (Pescara 2022) è invece una sezione aperta sul mare, leggero e privo degli impianti novecenteschi (non ha contatori, energicamente autonomo) con una struttura mutuata dai trabocchi abruzzesi – macchine per la pesca marina sospese da esili strutture lignee – vale a dire aperta verso l’esterno e chiusa sul retro [Misino Trasi 1995]. D’Annunzio in Il trionfo della morte (1894), scritto nel Convento Michetti a Francavilla al Mare, ne descrive uno nei pressi di San Vito Chietino «come una strana macchina da pesca, tutta composta di tavole e travi, simile a un ragno colossale […] La macchina pareva vivere di una vita propria, aveva un’aria e un’effigie di corpo animato». Vaccarini resiste come sempre alla fascinazione di questa figura, evitando facili interpretazioni decostruttiviste, attuando di converso un sicuro controllo progettuale e costruttivo. Nonostante la metafora vernacolare, Riviera 107 è pur sempre di una palazzina, ovvero

figurazione delle profonde trasformazioni avvenute nella città: non è un “palazzo”, non avendone la mole né il ruolo urbano, ma non è nemmeno un piccolo edificio mono o bifamiliare, come appunto il villino. Si tratta di un ibrido, una deformazione che ha scardinato il consolidato rapporto tra tipologia edilizia e morfologia urbana proprio della città storica.

Forse l’unico mezzo adatto per rappresentare compiutamente questo lungo paesaggio adriatico è la fotografia: dai maestri Mario Giacomelli, Luigi Ghirri, Guido Guidi, Massimo Vitali, Olivo Barbieri ai più giovani Michele Buda, Filippo Romano, Stefano Graziani, Allegra Martin, Riccardo Fregoso, Stefan Giftthaler,

De Signoribus,

Evelina
Giostra a Cupra Marittima (AP), 2023.
Giovanni Vaccarini, Uffici SPG, Ginevra, 2016 e Piano La Rade, Ginevra, 2017.

vedono lungo il Po o altri corsi d’acqua nella Pianura padana per un raggio complessivo di 70 km. In questo polo romagnolo trova sede anche un impianto a biogas alimentato da liquami zootecnici e un piccolo impianto fotovoltaico, di circa 1.000 mq, che contribuiscono alla produzione di energia pulita. Le linee guida dell’Unione Europea riguardo all’utilizzo di fonti rinnovabili nella produzione di energia elettrica segnano il traguardo da raggiungere per il 2020 al 20% e al 32% per il 2030. Attualmente l’energia prodotta da biomasse contribuisce al 10% di tutte le risorse di energia e rappresenta la quota più importante tra le energie rinnovabili, costituendone il 59%. Nel 2016 i maggiori consumatori in termini assoluti di bioelettricità sono stati la Germania, la Francia, l’Italia, la Svezia e il Regno Unito. L’Italia è anche tra le maggiori consumatrici di bioheat, insieme alla Germania, il Regno Unito, la Svezia e la Finlandia.

Le grandi superfici triangolari che coprono i volumi della caldaia e del camino sovvertendone le geometrie sono realizzate con strutture in acciaio sulle quali è posata una tessitura lignea a elementi paralleli. L’orditura delle scandole lignee segue però un pattern che cambia direzione a ogni faccia, offrendo così all’osservatore percezioni costantemente mutevoli in funzione del punto di osservazione, delle differenti ore del giorno o delle condizioni di luce.

Nella concezione di tale soluzione Giovanni Vaccarini ha fatto ricorso a una tecnica di camuffamento militare ispirata dall’arte cubista e sviluppata nel corso della Grande Guerra in ambito navale. Nota come Razzle Dazzle, tale tecnica di camouflage fu utilizzata originariamente per rendere difficile l’individuazione delle navi britanniche nonostante la loro mole. Consiste nella

Esempi di razzle dazzle, illusioni ottiche per camuffare navi militari durante la II Guerra mondiale.

pittura di una serie di righe e segni grafici che si interrompono e si fronteggiano definendo un motivo disarticolato che confonde la percezione e rende difficile da stimare distanza e grandezza dell’oggetto osservato. È una delle tante tecniche di guerra che sono state poi riusate per altri scopi civili anche in architettura [Cohen 2011].

«Il risultato è un plissé a pezzature triangolari che a ben vedere (e in ciò si vede l’efficacia della scelta di Vaccarini) non nasconde l’edificio ma lo amalgama fisicamente e per analogia con il territorio circostante. La stessa strategia del plissettato è poi utilizzata nella ciminiera. È evidente che l’architettura vitale e sghemba si trova bene in quello che potremmo considerare come un tema a metà tra l’industriale e il paesaggistico» [Mosco 2021, p. 113]. Secondo Valerio Paolo Mosco, Vaccarini e altri architetti italiani della sua generazione (Camillo Botticini, Stefano Pujatti, Park Associati e altri) tendono a somatizzare i segni del territorio nei propri progetti evitando citazioni o mimetismi troppo smaccati.

Nel caso di Vaccarini però emerge in particolare il suo interesse verso l’arte contemporanea. In Europa è molto raro che gallerie d’arte significative, nel Novecento, siano nate lontano dalle metropoli. Eppure a Pescara c’è stato un fermento di decine di galleristi negli ultimi decenni: Eugenio Riccitelli (galleria Ponterosso), Giuseppe Rosato (galleria Il Quadrivio), Enzo Niccoli (galleria Niccoli), Rocco Sambenedetto (galleria Il Modulo), Sandro Visca e Albano Paolinelli per la galleria Nuova Dimensione di Cesare Manzo e altri ancora. Ugo La Pietra è nato a Bussi sul Tirino, in provincia di Pescara dove per un breve periodo ha anche insegnato agli inizi della Facoltà

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