Tempo Suolo Energia nell’Antropocene, tre esempi di ricerca progettuale

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Indice

Premessa Tracciare i primi passi

Postilla

Brevi note sulla composizione del volume

Architettura e Antropocene

Aperture e Giravolte

Antropocene: brevi cenni sul dibattito scientifico

Dove siamo? Ambiente/Territorio/Paesaggio

Abitare le Apocalissi: il progetto alla fine del mondo

Cosa fare?

Tre esempi

TEMPO

Paesaggi dell’acqua e le tre piazze di Laterza

L’occasione. Il concorso di progettazione Europan 15: mettersi alla prova

I temi di concorso: le richieste di Europan

I temi di concorso: le esigenze del Comune di Laterza

Il sopralluogo e l’area di studio

Laterza e l’arco Ionico, storie di un paesaggio (di Margherita Erbani e Luca Petroni)

La “macchina idraulica”

Il progetto delle tre piazze

Riscontri, validazioni e prospettive

SUOLO

Make Roma, la città nuda e l’archivio dei possibili

L’occasione: la call di Open House e il pensiero critico

La genesi dell’opera: da intuizione a ipotesi

Mundus patet (di Edoardo Fabbri)

La costruzione dell’opera

Il plastico morfologico

L’archivio dei reperti e gli incontri

I sei carotaggi: esempi di scavo

Carotaggio 1 – Valle dell’Inferno (di Margherita Erbani)

Carotaggio 2 – Grotte di Salone (di Maria Pone)

Carotaggio 3 – Ponte Mammolo (di Luca Petroni)

Carotaggio 4 – Lago Bullicante (di Francesca Melissano)

Carotaggio 5 – Talpa Filippa (di Alberto Marzo)

Carotaggio 6 – Malagrotta (di Lorenzo Di Stefano)

Gli effetti di un’opera aperta

ENERGIA

Climactions, mitigazione e adattamento come cura per le città

L’occasione: il progetto CMM del Ministero della Salute

Mitigazione e Adattamento (di Matteo Staltari)

Responsabilità e contributi disciplinari

Il lavoro multidisciplinare del gruppo di ricerca di Roma Tre

Verso il progetto pilota

Il progetto per Piazza Mancini: complessità e variazioni

Tre scenari per Piazza Mancini (di Francesca Romana Cattaneo)

Le nuove traiettorie

Conclusioni

Camminare insieme

Bibliografia

Tracciare i primi passi

Premessa

Questo libro nasce con la volontà di condividere le prospettive di un percorso di ricerca che muove i suoi primi passi. E questo percorso appartiene a un movimento più ampio dentro cui si posiziona, con diverse posture, una buona parte della mia generazione; a questo movimento appartengono quelli che sanno di abitare nell’epoca dell’Antropocene (anche se non tutti apprezzano e condividono la scelta specifica del nome) e sanno cosa questo significhi; quelli che agiscono con la consapevolezza dell’insostenibile peso e dell’incontenibile spazio che occupiamo sul Mondo che ci ospita e con la convinzione che bisogna fare qualcosa. È un movimento eterogeneo, ricco di differenze e contrasti, che funziona con diversi ritmi e temporalità ed è tirato o spinto da diverse forze; ma chi vi appartiene rivolge lo sguardo nella medesima direzione, intravedendo un orizzonte vago, impreciso ma che è comune, che sembra bello, sembra desiderabile o meglio ancora, che sembra essere l’unico possibile.

Dunque è con questa postura che il percorso di ricerca, che questo libro aspira a introdurre, si muove nel campo disciplinare dell’architettura: la comunità scientifica degli architetti sempre più spesso, nei suoi dibattiti, dichiara la disciplina “in crisi”, sempre più spesso si scontra con la sua inefficacia, quando non con i suoi fallimenti; osserva la distanza, che sembra allargarsi sempre di più, tra ciò che il progetto di architettura tradizionalmente è, sa fare e fa, con quello che le condizioni della contemporaneità gli richiederebbero. E infatti “progetto” e “architettura” sono entrambi parte integrante di quella condizione che viene chiamata da alcuni multicrisi e che caratterizza l’epoca storica che stiamo attraversando.

Il progetto ha perso la sua funzione portante fondata su un’ipotesi di sviluppo infinito, ipotesi di cui sono diventati evidenti i limiti.

E l’architettura è chiamata a riformulare i propri principi, a ripensare alla propria relazione con la natura, con il tempo, con il potere, e a prestarsi a trasformazioni che spesso assumono nei suoi confronti la forma di un atto di accusa.

E la questione è particolarmente significativa per chi il progetto di architettura deve praticarlo non solo come risposta professionale a committenze definite ma come elemento fondante della didattica e della ricerca. In ambedue i casi c’è infatti una responsabilità aggiuntiva: non si scommette più solo sulla capacità di un architetto di risolvere un problema specifico ma sulla possibile utilità del sapere dell’architetto nella formazione delle nuove generazioni e nella materiale trasformazione dell’abitare il Mondo.

Per i giovani ricercatori e le giovani ricercatrici la sfida è particolarmente complessa: si rischia che le incertezze prodotte dalla condizione di crisi possano trasformarsi in un insieme di legacci che

Architettura e Antropocene

Il compito del pensiero ecologico è quello di spodestare l’essere umano dal suo piedistallo e di ricollocarlo sul suolo che gli è proprio: ovvero su un oggetto gigante chiamato Terra, situato a sua volta all’interno di una gigantesca entità chiamata biosfera.

L’Antropocene è una lama affilata, penetrante, conficcata a fondo nella spina dorsale della civiltà contemporanea. Per il momento stiamo vivendo lo shock della sorpresa, poi ci sarà lo shock da dolore, infine, se non sarà troppo tardi, cominceremo a reagire. Reagire significa scegliere tra provare a camminare in qualche modo, zoppicando, oppure strisciare con le gambe ridotte a due appendici di carne. Il problema è che dobbiamo pensarci adesso, subito, perché dall’Antropocene non si torna indietro. Non è insomma una moda culturale passeggera, anche se qualcuno vorrebbe dipingerla così, non è una chiacchiera mediatica. È qualcosa che ha intaccato per sempre il nostro immaginario, è una trasformazione politica dei corpi e dei linguaggi, è uno spostamento del futuro in una zona invisibile che ha generato negazione, smarrimento, panico, rassegnazione. Una vera e propria faglia cognitiva, perché la gestione del disordine (forse la cosa più difficile da fare e che facciamo da più tempo sulla Terra) può fare davvero la differenza tra l’estinzione e la sopravvivenza. Quello che deve sopravvivere non è tanto la specie […] quello che deve sopravvivere è un’antropologia della donna e dell’uomo in cui ciò che va ridimensionata è la struttura gerarchica e di dominio della nostra specie. L’ecologia della coevoluzione deve reintegrare nel nostro orizzonte cognitivo, politico, tecnico e culturale – come già era in passato – tutte le forme di vita e di non-vita non-umane, sostituendo il sistema di predazione neolitico con forme prosociali radicalmente inclusive, un mutuo appoggio tra minerali, piante, animali e umani per rigenerare la Terra. Dal momento che probabilmente molto di tutto questo non accadrà, “sopravvivenza” dovrà significare la trasmissione di saperi e tecniche calibrate sui bisogni del futuro prossimo: acqua e riparo, gioco e memoria storica, trucchi narrativi e scienza degli scenari. Una specie di manuale che traghetti dal Tempo della Fine tutto ciò che potrebbe servire nel Mondo Nuovo.

“C’è un quadro di Klee che s’intitola Angelus Novus. Vi si trova un angelo che sembra in atto di allontanarsi da qualcosa su cui fissa lo sguardo. Ha gli occhi spalancati, la bocca aperta, le ali distese. L’angelo della storia deve avere questo aspetto. Ha il viso rivolto al passato. Dove ci appare una catena di eventi, egli vede una sola catastrofe, che accumula senza tregua rovine su rovine e le rovescia ai suoi piedi. Egli vorrebbe ben trattenersi, destare i morti e ricomporre l’infranto. Ma una tempesta spira dal paradiso, che si è impigliata nelle sue ali, ed è così forte che egli non può chiuderle. Questa tempesta lo spinge irresistibilmente nel futuro, a cui volge le spalle, mentre il cumulo delle rovine sale davanti a lui al cielo. Ciò che chiamiamo il progresso, è questa tempesta”1.

Non voglio abbracciare lo stanco “Angelo della storia” di Walter Benjamin, ma c’è qualcosa di giusto nella posizione che egli ha attribuito all’angelo: guarda indietro e non avanti. Contrariamente all’interpretazione di Benjamin, il Moderno, che come l’angelo è rivolto all’indietro, in realtà non vede la distruzione; egli la sta generando nel suo volo, si sta verificando dietro la sua schiena! È solo di recente che, con una improvvisa giravolta, una metanoia, egli si è reso conto di quale catastrofe il suo passaggio ha lasciato dietro di sé.

La crisi ecologica non è che la svolta improvvisa di colui che non aveva in realtà mai guardato verso il futuro, occupato com’era a districarsi da un passato orribile”2.

Aperture e giravolte

Questo è il nostro tempo, questo è il nostro spazio: siamo nell’era della crisi ecologica (e questo vuole letteralmente dire che abitiamo nell’epoca in cui ciò che è in crisi è il discorso o il pensiero sulla nostra casa) e facciamo conoscenza con Gaia3: «una nuova maniera di sperimentare lo “spazio”, attirando l’attenzione sul fatto che il nostro mondo, la Terra, da un lato divenuta improvvisamente piccola e fragile, dall’altro suscettibile e implacabile, ha assunto l’apparenza di una Potenza minacciosa che evoca le divinità indifferenti, imprevedibili e incomprensibili del nostro passato arcaico»4. Gaia è il nostro “nuovo” mondo, vivente e plurale ma non più armonioso ed equilibrato, «è un gigantesco accordo discordante, mutevole e contingente, un pasticcio di intenzionalità molteplici e distribuite tra tutti gli agenti»5 La potente immagine che Bruno Latour ci presenta, prendendo in prestito lo “stanco Angelo della Storia” di Benjamin, descrive il momento

della presa di consapevolezza come prodotto da un’improvvisa giravolta, una “metanoia”, un cambio radicale di prospettiva: il Moderno, concentrato sull’orribile passato appena superato, è costretto a guardare per un attimo in avanti e si accorge che è il suo stesso passaggio, il suo volo, l’ampiezza esagerata della sua apertura alare, a produrre la distruzione che vede ai suoi piedi. La crisi ecologica rappresenta l’irresistibile richiamo ad abbandonare per un attimo la contemplazione del passato per guardare avanti e ciò che si presenta al nostro sguardo di “moderni” non sembra essere rassicurante. Sulla base di questa presa di consapevolezza si fonda la scelta sostanziale che siamo oggi chiamati a compiere e che ci domanda “in quale mondo vogliamo vivere?”: si tratta sostanzialmente di decidere da che parte stare nella «guerra di Gaia»6: restare Umani, Moderni imprigionati e atterriti da ciò che resta della «natura unificata e indifferente dell’Olocene»7, oppure imparare ad abitare come “Terreni nell’Antropocene”8, trasformandoci in quello che Danowski e De Castro chiamano “il popolo a venire” o “il popolo di Gaia”, abbandonando definitivamente l’idea di dominare la Terra, sfruttarla e modificarla a nostro piacimento e accettando di esservi invece legati da complessi, stratificati e non sempre pacifici concatenamenti. Gaia è il nostro spazio, Antropocene è il nostro tempo. Antropocene è termine ormai largamente diffuso nel dibattito scientifico e disseminato in quasi tutti gli ambiti disciplinari; è possibile persino dire che “crisi ecologica”, “riscaldamento globale” siano oggi il fondamento del “pensiero dominante” fuori dal quale sembra impossibile pensare e proporre qualsiasi forma di ragionamento o avanzamento del pensiero. Eppure, come vedremo, la portata delle implicazioni che l’introduzione di questo concetto espone – soprattutto dal punto di vista filosofico, sociale, economico e politico – sembra tutt’altro che definita e le questioni tutt’altro che risolte: il dibattito culturale sulla periodizzazione dell’Antropocene è aperto e controverso, sebbene moltissimi condividano l’idea che questo “passaggio epocale” sia un prodotto e un effetto diretto della modernità occidentale capitalista e coloniale. «La Costituzione Moderna, come descritta da Latour, si basa su quattro caratteristiche. Prima, la convinzione che la Natura abbia una dimensione superiore distinta dal tessuto della Società, mentre i premoderni credono in una connessione continua tra l’ordine naturale e quello sociale. Seconda, mentre la Natura è trascendente (al di fuori delle attività umane), la Società è immanente alle attività umane e possiede una dimensione intrinseca che rende i cittadini totalmente liberi di ricostruirla. Terza, viene mantenuta la separazione tra Natura e Società. Si afferma che la Società non abbia alcuna relazione con la Natura, o con il mondo degli oggetti. Quarta, l’idea di un Dio, come arbitro di questo dualismo, rende possibile confermare questi ordini separati»9

Il primo esempio che si riporta è un lavoro che ha avuto inizio nel 2019 quando, con il collettivo di progettazione e ricerca Archibloom*, abbiamo deciso di mettere alla prova in una sperimentazione progettuale alcuni temi di ricerca che avevamo cominciato a condividere. Come già accennato, il racconto dell’origine, dello sviluppo e dell’avanzamento di quest’esperienza prova a esplicitare uno dei modi in cui un programma di ricerca può trovare un campo di applicazione in un contesto con cui moltissimi giovani progettisti e ricercatori hanno occasione di confrontarsi.

Riprendendo lo schema tratteggiato nell’introduzione cerco dunque di mettere a fuoco le specificità di questa esperienza rispetto all’occasione in cui è stata sviluppata, al tipo di relazione tra ricerca e progetto che esplora e alle forme di validazione di cui è stata oggetto. Ma cerco anche di raccontare questo progetto attraverso una delle articolazioni tematiche del programma di ricerca che abbiamo chiamato “architettura nell’Antropocene”: la relazione, dalle rinnovate implicazioni, tra l’architettura e il tempo.

* Il collettivo era in origine composto da Margherita Erbani, Edoardo Fabbri, Francesca Melissano, Luca Petroni, Francesco Scillieri e me e, in un secondo momento, da Alberto Marzo.

L’occasione. Il concorso di progettazione Europan 15: mettersi alla prova

Decidere di misurarsi con un concorso di architettura è stata, per il collettivo di progettazione e ricerca Archibloom, una scelta precisa: ha rappresentato una prima vera occasione di confronto, un modo di mettere alla prova il senso di una ricerca orientata, legata a premesse e a valori definiti; un modo per provare che questa ricerca fosse in grado di dare risposte a richieste concrete; un modo per misurare la possibile distanza tra queste risposte e quelle date da altri, diversamente orientati; un modo per verificare se queste risposte potevano essere convincenti per coloro che avevano espresso le richieste, cioè per quelli che tradizionalmente vengono definiti committenti.

La scelta di partecipare nello specifico al concorso Europan, giunto alla sua 15° edizione, non è stata un caso: è dipesa innanzitutto dalla volontà di confrontarsi con la stratificata e complessa “committenza” con cui i progettisti si trovano a interagire nelle diverse fasi; ma è dipesa anche da alcune particolari caratteristiche di questo concorso: si tratta infatti di un concorso che ha ormai una storia significativa alle spalle, è dedicato ai giovani architetti, ha una dimensione europea ma si sviluppa fino a misurarsi con la dimensione locale, con una logica di progressivo approfondimento per sottotemi e, soprattutto, è attento alle differenti dimensioni processuali con cui un concorso di architettura può e deve fare i conti per produrre un’utilità collettiva.

EUROPAN, fondato nel 1988, è un programma europeo di concorsi, con cadenza biennale, rivolto a giovani architetti e progettisti di tutto il mondo e organizzato da una Federazione formata da circa 20 paesi europei. Un programma unico e consolidato che ha generato in quasi 30 anni di attività una riflessione costruttiva ed ha segnato una metodologia di pratiche atte a valorizzare il contributo che le giovani professionalità possono apportare alle trasformazioni urbane e ai modi di vita.

Oltre al concorso, EUROPAN opera attraverso workshop, eventi, procedure ad hoc e coinvolge rappresentanti del mondo dell’Architettura, delle Pubbliche Amministrazioni, dell’imprenditoria di settore, della ricerca.

L’interesse e l’originalità del concorso si ascrivono principalmente alla sua scala specifica “urbano-architettonica”.

Le città promotrici, attraverso i siti proposti, si interrogano sul modo di “fare città”, estendendo la propria ricerca da un piano esclusivamente funzionale ad un piano urbano, architettonico e sociale.

In quasi 30 anni di concorsi, EUROPAN ha contribuito alla elaborazione di ipotesi progettuali a scale differenti: pianificazione urbana, edilizia residenziale, spazi pubblici, recupero edilizio sia nel centro storico, che nelle aree industriali dismesse.

EUROPAN interviene spesso in quei casi dove le sorti dello sviluppo sono delicate, dove è necessario esplorare le ipotesi possibili prima di avviare programmi di realizzazione, dove la pianificazione ha creato problemi di degrado sociale, dove il problema del consumo del suolo si pone in maniera prevalente, dove non è possibile pensare di intervenire con una gara di progettazione senza un programma condiviso con tutti gli attori e con gli abitanti.

EUROPAN rappresenta, per le città e i cittadini:

• una risorsa di progetti e analisi di grande qualità, grazie alle Giurie qualificate dei vari paesi, e di elevata realizzabilità

• uno strumento di contatto, attraverso la rete di EUROPAN, i media e le pubblicazioni con un network europeo

• uno scambio di idee a scala locale, nazionale e internazionale

• un vivace stimolo dovuto all’energia dei giovani professionisti

• un’occasione per innescare altri processi di rigenerazione urbana1

I temi di concorso:

le richieste di

Europan

Nel proporre per il secondo anno di seguito il tema delle “città produttive”, la quindicesima edizione di EUROPAN introduce come specifico approfondimento: quello della transizione ecologica, intesa in modo molto ampio, come stimolo a cambiare il modo oppositivo con cui siamo stati abituati a pensare il rapporto tra uomo e natura, tra stili di vita e tecnologia, tra autorità e comunità. Non poche delle sollecitazioni poste come elementi fondanti del tema di concorso coincidono con le premesse e i principi di quel programma di ricerca collettivo a cui ho accennato in premessa: una condizione importante perché questa esperienza possa porsi come elemento significativo della verifica di un programma di ricerca che vede il progetto di architettura come uno degli strumenti di azione più significativi. La relativa genericità delle parole chiave: risorse, mobilità, equità e soprattutto lo schematismo delle tre possibili dimensioni di progetto (XL, L, S) sono giustificate dalla volontà di non circoscrivere eccessivamente il campo d’azione dei soggetti “locali” (le diverse città europee) che sulla base delle indicazioni di Europan Europa si candidano a diventare “siti di progetto” all’interno di una dimensione nazionale. Questi soggetti locali saranno quelli chiamati a identificare in concreto le aree e i temi di progetto da mettere a concorso.

Con Europan 15 prosegue il tema di Europan 14 – “Città produttive” – oggi considerato tra le questioni più complesse e cruciali da affrontare nei cambiamenti delle città europee. In questa sessione, Europan intende concentrarsi in modo più specifico sul tema della transizione ecologica legata a una visione della città produttiva per il futuro. La transizione produttiva in senso ecologico deve considerare le sinergie – piuttosto che

Laterza e l’arco Ionico, storie di un paesaggio

Laterza è un comune di circa 15000 abitanti, collocato nella parte occidentale della provincia di Taranto, quasi al confine con la Basilicata. Il territorio comunale si estende ai margini settentrionali dell’arco ionico tarantino sulla parte terminale dell’altopiano delle Murge che, pochi chilometri più a sud, scende a picco sulla piana costiera.

A dispetto della posizione periferica rispetto ai grandi centri urbani, questo territorio ha una forte connotazione dal punto di vista storico, morfologico e naturalistico.

L’arco ionico Tarantino ha un’estensione territoriale di 1.325,80 kmq che è compresa tra la valle dal fiume Bradano a ovest, le propaggini delle Murge a nord, e l’alto Salento a est.

La sua struttura morfologica attuale è il frutto della modellazione degli agenti atmosferici in combinazione alle oscillazioni del livello marino avvenute a partire dal Pleistocene medio-superiore che ad oggi fanno apparire il territorio dell’arco come un anfiteatro terrazzato che raggiunge i 400

metri slm. L’altopiano, su cui sorgono le piccole città dell’arco ionico (tra cui Laterza), è una vasta piattaforma carbonatica (un antico fondale marino) che presenta rocce calcaree di tre tipologie prevalenti: Calcari del Cretacico, depositi marini terrazzati e Calcari di Altamura. L’estesa massa rocciosa, oltre ad ospitare una circolazione idrica sotterranea, presenta una rete idrografica di superficie estremamente fitta che, tagliando a raggiera l’altopiano con delle strette e profonde fratture della coltre calcarea (le gravine), raggiunge il mare nel golfo di Taranto.

Queste peculiarità orografiche e geologiche si traducono in un paesaggio naturale estremamente complesso, eterogeneo e unico in Europa in cui si riconoscono tre scenari prevalenti che corrispondono ad altimetrie differenti: l’altopiano carsico, il canyon e la piana costiera. La compresenza di questi tre ecosistemi in una dimensione territoriale limitata genera una grande varietà biologica, unica nel suo genere.

L’altopiano si presenta come una sconfinata distesa arida su cui i diversi usi del territorio formano un mosaico variegato di aree agricole, pascoli, e piccoli boschi di querce, tra cui il tipico Fragno (Quercus trojana). I canyon, sulle cui pendici frequentemente si affacciano i centri urbani, si presentano come complessi

ecosistemi; presentano una sezione caratteristica a “V” in cui, anche grazie ai fenomeni di inversione termica, intorno ai 200-300 m slm crescono, tra le innumerevoli specie vegetali, gli unici esemplari europei di Pini di Aleppo1. La zona costiera ha i caratteri di una piana distinta geomorfologicamente dal circondario: suoli sabbiosi e molto profondi che consentono lo sviluppo delle attività agricole intensive, intervallate dai corsi d’acqua che arrivano al Mar

Ionio e dalle canalizzazioni delle bonifiche agricole.

La Gravina di Laterza, che si estende per circa 24 chilometri e raggiunge una profondità superiore ai 200 m, ospita inoltre la nidificazione di una notevole varietà di volatili molto spesso endemici, come il Capovaccaio (Neophron percnopterus), un raro avvoltoio migratore.

In questo territorio i primi insediamenti, risalenti al neolitico, si collocano prevalentemente sull’altopiano calcarenitico in prossimità delle gravine.

In contemporanea ai primi usi abitativi si sviluppano i primi modelli di strutturazione che tendono prevalentemente a irreggimentare le acque in modo tale da riuscire a sfruttarle e preservarle senza che costituiscano un pericolo per le comunità; e a infrastrutturare il territorio dell’arco attraverso una fitta rete di percorsi. La maggior parte di questi tracciati

si sviluppa a partire dalle matrici dei “tratturi” che mettono in collegamento i diversi centri e assecondano i dislivelli del terreno, dalle cime dell’altopiano al fondovalle delle gravine. La rete stradale si sviluppa a partire dai tracciati di lunga percorrenza che si muovevano essenzialmente in direzione parallela alla via Appia (tratturo Martinese) da cui poi si diramano percorsi minori che connettono i centri abitati e i casali per le attività agricole e pastorali.

Questo sistema ha costituito nel corso della storia una intensa rete di scambio basata sulla mobilità territoriale su cui si attestano i principali centri orograficamente protetti e fortificati, la cui struttura urbana presenta caratteristiche simili: quasi tutte le unità edilizie sono prevalentemente costruite a partire da cellule ipogee che sono prodotto di erosioni naturali oppure di scavi antropici. Il centro storico di Laterza è un esempio estremamente caratteristico di questo tipo di struttura urbana: il suo nucleo più antico, aggettante sul profondo canyon, è compreso tra le due “lame” di acqua che confluiscono nella gravina. Nel corso della storia la roccia calcarea è stata scavata progressivamente e le abitazioni, le attività produttive, e i luoghi per i rituali si sono sviluppati oltre che in superficie anche nelle profonde cavità del terreno.

19. L’archivio dei reperti. Immagine presentata alla call for project per il festival “Change. Architecture. Cities. Life.”: elaborazione grafica a cura di Archibloom con Roberto De Crecchio e Lorenzo Di Stefano.

La genesi dell’opera: da intuizione a ipotesi

L’idea del plastico morfologico di Roma a grande scala nasce dall’intuizione di una persona del gruppo, (ispirata probabilmente da esperienze pregresse su cose “simili” che qualcuno di noi aveva sviluppato4 e che tutti avevamo trovato stimolanti) e si trasforma immediatamente in un assunto collettivo. Succede poche volte, e non sempre è una fortuna, che da una domanda generica nasca con immediatezza una risposta sufficientemente concreta. Probabilmente nel momento in cui bisogna decidere cosa fare, e c’è poco tempo, la potenzialità di un collettivo che ha condiviso esperienze di ricerca e che prova a pensare e a lavorare insieme, a partire da alcune dimensioni culturali stratificate, emerge e può diventare risolutiva. Fatto sta che questa prima idea che il gruppo producesse un’opera da esporre, e che quest’opera fosse un plastico del suolo di Roma, non è mai stata messa in discussione. Tutti sapevamo che dal plastico come “assunto” avremmo dovuto costruire il percorso che ci riconduceva alla ricerca e tutti sapevamo che la materiale costruzione collettiva di una “grande” opera come quella (perché il plastico doveva essere grande anche se non avevamo ancora deciso quanto grande) avrebbe sollevato molti problemi, e non solo di natura tecnica.

Quello che non sapevamo – nel settembre del 2019 non lo sapeva ancora nessuno – è che la pandemia avrebbe dato nuovi significati e aperto ulteriori interrogativi rispetto a quello che avevamo deciso di fare, oltre a dilatare il tempo che avremmo avuto a disposizione per provare a capire quello che avevamo fatto.

Torniamo per un momento sulle tre parole-chiave: plastico, suolo, Roma e sull’attinenza con l’occasione del Festival.

Il plastico. È un’opera da architetti ma tra le forme di comunicazione “esperta” è quella di più agevole comprensione per i non esperti. Si pensa a un tipo specifico di esposizione: intorno al plastico i visitatori potranno girarci; somiglierà a quei grandi plastici delle città che ogni tanto si trovano nei musei, ma nel nostro caso mancheranno le architetture e anche le infrastrutture: sarà molto più orizzontale, più compatto e più nudo. Il plastico sarà realizzato con sistemi di fabbricazione digitale e con un lavoro collettivo: sarà fatto di pezzi accostati e questi pezzi saranno dei moduli per sottolineare la natura teoricamente aperta dell’opera e tutti potranno immaginare come modificarlo. L’idea è che sulla sua estesa superficie si possano incrociare molti sguardi e l’obiettivo è comunque di non tagliarne fuori nessuno.

Il suolo. Lavorare sulla rappresentazione della sua tridimensionalità apre naturalmente il sapere dell’architetto alla connessione con altre forme

Make Roma, la città nuda e l’archivio dei possibili

SUOLO

Il secondo esempio segue il primo sia dal punto di vista cronologico (gli elaborati per il concorso Europan sono stati consegnati nel luglio 2019, questo progetto è stato avviato nel settembre 2019) che sul piano degli interessi di ricerca: ancora una volta, infatti, questo lavoro è a cura del collettivo di progettazione e ricerca Archibloom, in questa occasione arricchito da altri due componenti, due amici e colleghi architetti, Roberto De Crecchio e Lorenzo Di Stefano. E ancora una volta ha rappresentato un’occasione per mettere alla prova progettualmente alcuni temi del programma di ricerca che condividiamo e che proviamo collettivamente a sviluppare. Anche in questo caso, come si vedrà, il lavoro raccontato è evidentemente connesso alla cornice tematica dell’architettura ai tempi dell’Antropocene, ma rappresenta un’esperienza molto diversa dalla precedente sia perché nasce in un diverso contesto, sia perché rappresenta un altro tipo di relazione tra progetto e ricerca, sia perché è stata oggetto di altre forme di validazione. E poi, sul piano tematico, questo progetto prova a interrogarsi sulle nuove implicazioni che investono la relazione tra l’architettura e quello che potrebbe essere definito l’elemento paradigmatico su cui si fonda la proposta dell’Antropocene: il suolo.

28. L’archivio dei reperti: Carotaggio 2 –Grotte di Salone (a cura di Maria Pone).

Grotte di Salone

Attraversando le parti di città che si sviluppano intorno al GRA, può capitare di imbattersi in luoghi che sembrano fuori dal loro e dal nostro tempo, come fotografie di epoche lontane. Tra questi, nell’automobilista che percorre l’autostrada dei Parchi verso Roma, quasi all’altezza del GRA, suscitano particolare fascino e stupore le masse rocciose, decorate da liane e corone vegetali, su cui si arrampicano strane radici, che compongono il complesso delle cosiddette cave (o latomie) di Salone. Queste antiche cave di tufo rosso si sviluppano a poca distanza dagli argini dell’Aniene e si presentano come grandi pareti rocciose a strapiombo su piccoli specchi d’acqua. Chi riesce a penetrarvi scopre immensi ambienti prodotti da secoli di estrazione. L’origine dello sfruttamento delle cave risale al I secolo a.C. ad opera del celebre generale Lucio Licinio Lucullo. Il materiale estratto veniva caricato su zattere e percorrendo l’Aniene, veniva trasportato al centro e reso disponibile per la costruzione dei principali monumenti dell’Urbe, tra cui il Colosseo.

Si può supporre che le cave siano state usate come prigioni o rifugi ma anche, fino a tempi più recenti, come luoghi di raduno per riti e culti. Poiché era un territorio molto ricco di acqua, l’area in cui sorgono le latomie veniva sfruttata per attività agropastorali; a seguito delle invasioni barbariche e della caduta dell’Impero romano d’Occidente, dopo un periodo di abbandono, in quest’area sorse la domusculta di Santa Cecilia.

È molto probabile che il toponimo odierno derivi da un errore di trascrizione del nome originale, descritto in un catastale del 1553 in cui l’area è denominata “Casale detto Solone”. Si racconta infatti che il legislatore ateniese si recò in questi luoghi alla ricerca di tracce di un antico sito che doveva essere collegato alla scomparsa civiltà di Atlantide. In effetti, numerosi studiosi ipotizzano che le latomie fossero collegate a un sistema ipogeo molto più esteso che raggiungeva certamente anche l’altra sponda dell’Aniene.

Nel 1958, poi, le cave furono usate per girare alcune scene del film Ben Hur. Alla fine degli anni ’60 iniziarono i lavori di costruzione del tratto tra il GRA e Castel Madama dell’A24. I lavori stradali hanno provocato molti danni al sito e cancellato gran parte di quel complesso sistema di cunicoli che doveva muoversi tra le due sponde dell’Aniene.

Non solo. Hanno completamente isolato il luogo rendendolo totalmente inaccessibile. Il punto di osservazione privilegiato per vedere le cave oggi è proprio l’autostrada. Una visione “ad alta velocità”, fuggevole, incantata, fuori luogo nel panorama circostante. Nell’accedervi si percepisce la perturbante sensazione di trovarsi in un luogo non chiaramente leggibile, denso di violenti contrasti: tra ciò che si vede (un luogo selvatico che appare incontaminato, de-antropizzato) e ciò che si sente (le auto che sfrecciano, i clacson, …); tra passato e presente che sembrano essere compresenti; tra ciò che è reale (il laghetto per la pesca sportiva e la discarica abusiva) e ciò che è immaginario (una civiltà perduta che abitava i sottosuoli).

È come se la stratificazione del tempo non mostrasse uno sviluppo lineare, i frammenti si mescolano in modo che pare casuale e incomprensibile, fuori dai tradizionali schemi di lettura. Eppure… [28]

Maria Pone
31. L’archivio dei reperti: Carotaggio 5 –Talpa Filippa (a cura di Alberto Marzo).

CAROTAGGIO 5

Talpa Filippa

«Per Filippa stanno avanzando in queste ore le procedure di interramento. Una maxi ruota d’acciaio pronta a trasformarsi in reperto archeologico accanto ai resti della Roma Antica. Il ‘pozzo di estrazione’ per uscire in superficie si trova in corrispondenza della nuova stazione Venezia ma non essendo ancora stato completato l’iter di approvazione e finanziamento del tratto, le macchine non possono proseguire il percorso». Tra le tante storie che il sottosuolo del centro di Roma può raccontare, una in particolare sembra rappresentare un piccolo ma efficacissimo compendio delle contraddizioni, della tragedia e della meraviglia che abitano da sempre questa città. Scavando poco più in là del Colosseo, proprio sotto quel che resta dei Fori Imperiali, si può trovare, a circa trentadue metri di profondità, una delle macchine escavatrici impiegate nel decennale cantiere della Metro C, ferma da più di un anno e interrata per motivi di sicurezza, tombata tra le vestigia di Roma antica perché troppo costosa da mantenere in attività mentre, in superficie, ci si districa tra iter burocratici, difficoltà, ritardi e rinvii. Filippa, così è stata soprannominata l’escavatrice, più di ogni cosa ci mette di fronte a quella peculiarità tutta romana di produrre continuamente rovine, anche e soprattutto nei suoi maldestri tentativi di modernizzazione. Una “maledizione” che sembra entrata nel senso comune, come si evince dai toni dei quotidiani che hanno riportato la notizia del triste destino di Filippa. Una “maledizione”, però, che è anche un dono, come ci ha mostrato il collettivo

Stalker nelle sue camminate Attraverso le Rovine del Contemporaneo. Guardando a questo scavo con la lente interpretativa dell’Antropocene, altri paradossi emergono, altre inedite possibilità.

Da un lato, sembra evidente come la città macchina, la città verticale (come quelle immaginate da Hilberseimer o come la New York ipotizzata da H.W. Corbett), a Roma non sia riuscita a tramutarsi che in poco più di un accenno, un’evocazione, sino al punto da apparire come accanimento anacronistico alla cui realizzazione nessuno crede più. Allo stesso tempo, con peculiarità tutta nostrana, la tragedia si tramuta in farsa, la macchina, resa inefficace, si umanizza, si trasforma con facilità in personaggio canonico della romanità. È così che Filippa, la povera escavatrice potenzialmente ancora in forze, è costretta (dal malcostume e dall’inerzia amministrativa), a immobilizzarsi. Ricoperta di terra perché non provochi ulteriori danni, in un equilibrio continuamente a rischio tra modernità e crisi, diviene essa stessa rovina tra le rovine. Vengono alla luce da questo scavo, di fianco a lei, una fantasmagoria di reperti delle epoche più disparate, veri o verosimili, simbolo di un’eterotopia millenaria e stratificata quale è il Foro Romano. Gli avanzi di un’ordinaria giornata da turista del XXI secolo, come un bastone da selfie, di fianco a ciò che resta dello Stagnum, piscina della Domus Aurea di Nerone su cui venne eretto, per cancellarne la memoria, il Colosseo; un tassello della Forma Urbis, un tempo esposta nel tempio della Pace, riportante stralci di quel piano della mobilità del PRG del 2003 di cui la Metro C è figlia. Il rocco di una delle colonne in vetroresina erette nel Tempio di Venere e Roma nel 2007, in occasione delle “Valentiniadi”, i festeggiamenti per i 45 anni della maison Valentino [31].

Climactions, mitigazione e adattamento

come cura per le città

ENERGIA

Il terzo esempio di sperimentazione progettuale nasce e si sviluppa in un contesto diverso: ancora nel 2019 un gruppo multidisciplinare interno al dipartimento di Architettura di Roma Tre (guidato dal professor Paolo Desideri*), viene coinvolto dal Dipartimento di Epidemiologia (DEP) della Regione Lazio per sviluppare parte delle attività previste da un progetto di ricerca finanziato dal Ministero della Salute. I temi del progetto riguardavano l’impatto degli effetti dei cambiamenti climatici sulla salute degli abitanti delle città. Evidentemente, confrontarsi con le sfide del cambiamento climatico, rappresentava un’ulteriore occasione per mettere alla prova e approfondire alcuni aspetti (forse tra i più rilevanti e urgenti) che appartengono al programma di ricerca tratteggiato nella prima parte del volume. Anche qui si proverà a evidenziare le specificità che hanno caratterizzato quest’esperienza, dal contesto in cui nasce e la particolare committenza che lo promuove, un’ulteriore articolazione possibile del rapporto tra ricerca e progetto e le sue forme di validazione. La declinazione tematica di questa esperienza riguarda ancora un altro aspetto fondamentale per chi si occupa di Antropocene, che si confronta con l’osservazione delle modalità e delle forme con cui rispondiamo alle nostre esigenze di comfort (normalmente fondate esclusivamente sullo sfruttamento delle risorse e su logiche estrattive) e che, come per il suolo, è una questione caratterizzante per la definizione della nuova epoca geologica: il tema dell’energia.

* Il gruppo di ricerca che nel tempo è stato coinvolto includeva: Gabriele Battista, Francesca Romana Cattaneo, Roberto D’Autilia, Emanuele De Lieto Vollaro, Giorgia De Pasquale, Alessandro Gabbianelli, Mauro Merlo, Luca Montuori, Enrico Nigris, Matteo Staltari.

L’occasione: il progetto CMM del Ministero della Salute

Il Progetto Climactions (l’acronimo è frammentariamente ritagliato in un lungo titolo che recita così: Adattamento e mitigazione ai Cambiamenti CLIMAtici: intervenTI urbani per la promOzioNe della Salute) è un progetto finanziato dal Ministero della Salute nell’ambito del “Programma di attività del CCM – Centro nazionale per la prevenzione e il controllo delle malattie 2019”. Una parte intera del programma è destinato ai temi che riguardano la salute urbana legata ai cambiamenti climatici: il Ministero della Salute rileva, come ormai confermano numerosissime ricerche, una importante relazione causale tra l’aumento delle temperature e la salute pubblica della “popolazione urbana”.

“La salute e la qualità della vita dipendono in modo determinante dalle condizioni climatiche e dell’ambiente di vita e di lavoro, in particolare nelle aree urbane. L’aumento delle temperature e i sempre più frequenti eventi climatici estremi, come le ondate di calore, avranno significative ricadute sul benessere e la salute della popolazione residente nei centri urbani, soprattutto su specifici sottogruppi di popolazione a maggior rischio, come le persone anziane con patologie croniche. Le temperature elevate possono provocare impatti sulla salute in termini di incrementi di mortalità, di ricoveri in ospedale e di aumento degli accessi in pronto soccorso, ma anche impatti negativi sulle condizioni di socialità della popolazione residente nelle città, a causa della minore frequentazione di aree pubbliche e luoghi di incontro (“Isola di Solitudine Urbana”).

Una delle problematiche su cui si sta recentemente concentrando l’attenzione degli esperti di sanità pubblica e degli urbanisti, nella prospettiva di migliorare vivibilità e benessere dei cittadini, è il fenomeno dell’“Isola di Calore Urbano” (Urban Heat Island – UHI), che consiste in un significativo incremento della temperatura nell’ambito urbano rispetto alle aree rurali circostanti, dovuto soprattutto ai materiali che costituiscono le superfici urbane e il modello di pianificazione e uso del territorio, alle attività industriali, al traffico veicolare, agli impianti di riscaldamento e condizionamento, all’inquinamento atmosferico; alla scarsità di vegetazione nei centri urbani. È prevedibile un aumento nei prossimi anni dell’effetto di tale fenomeno, collegato direttamente al riscaldamento globale, in conseguenza del costante aumento della popolazione urbana. Appare, pertanto, opportuno promuovere la pianificazione dei centri urbani in maniera più verde e sostenibile e creare una sensibilità comune sui rischi conseguenti al fenomeno dell’Isola di calore Urbano e alle sue ricadute sulla vivibilità delle città e sul benessere dei cittadini”1

È utile notare qui la volontà di tenere insieme definizioni di carattere scientifico che identificano precisi oggetti di osservazione (l’Isola di Calore Urbano) con temi più generali che riguardano le “condizioni di socialità della popolazione” e la volontà di sottolineare che in futuro

andrà presumibilmente sempre peggio se non si promuovono logiche più “sostenibili” di pianificazione dei centri urbani. Rispetto al tema dell’adattamento ai cambiamenti climatici, la città merita insomma un discorso specifico; e il progetto Climactions sceglie di mettere al centro dell’attenzione proprio quello specifico fenomeno del microclima delle città, definito e studiato come “Isola di Calore Urbana”2. L’ICU, come si legge nel programma, descrive quella particolare condizione per cui le temperature misurate nelle aree urbane risultano significativamente superiori rispetto a quelle misurate nelle aree rurali circostanti. Negli ultimi decenni questa differenza di temperatura è arrivata a superare i 10°C. Se è vero, dunque, che la città è uno dei sistemi antropici con impatto maggiore sul cambiamento del clima, è vero anche che è il luogo in cui gli effetti di questo cambiamento si fanno sentire in modo più significativo, in forme più estreme, con impatti talvolta devastanti sulla salute degli abitanti.

Il coordinamento di CLIMACTIONS è affidato al Dipartimento di Epidemiologia della Regione Lazio: il programma viene sviluppato da 8 unità di ricerca (disposte in 6 diverse Regioni italiane): una di queste è il Dipartimento di Architettura dell’Università Roma Tre, coinvolta per dare corpo a uno dei più significativi aspetti innovativi del progetto: la collaborazione “tra epidemiologi, che offrono l’expertise e i metodi per valutare l’impatto sulla salute (tecniche GIS, HIA), ed urbanisti, che hanno la capacità di analizzare gli spazi urbani identificando le sottoaree più critiche a livello territoriale”3. Come vedremo più avanti, la dicitura “urbanisti” accoglierà un insieme di articolazioni disciplinari più ampio e il loro contributo non si limiterà alla identificazione di sottoaree critiche.

Finalità principale del programma è comunque:

fornire agli stakeholder locali un importante elemento per la promozione di misure di adattamento e mitigazione degli effetti delle ondate di calore in ambito urbano con evidenza di benefici per la salute e una maggiore vivibilità nel contesto urbano. Coerentemente con una recente revisione dell’OMS è sempre più chiaro che gli spazi verdi urbani hanno il potenziale di prevenire malattie croniche come diabete, malattie cardiovascolari e disturbi psichici. Pertanto disporre di indicatori di verde urbano integrati a dati di popolazione e di uso del suolo rappresenta uno strumento indispensabile per favorire un cambiamento culturale negli stakeholder che operano in ambito urbano che porti a contrastare in modo più efficace i rischi ambientali (come le aree a maggiore intensità del fenomeno isola di calore urbano), nonché una maggiore consapevolezza a livello della popolazione)4

Una articolazione che porta a inserire, tra le più importanti finalità del progetto:

ENERGIA Climactions, mitigazione e adattamento come cura per le città

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