Domestico e antidomestico

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DOMESTICO E ANTI-DOMESTICO

Il progetto dell’intimità radicale

Filippo Lorenzo Balma

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Comitato scientifico

Edoardo Dotto (ICAR 17, Siracusa)

Nicola Flora (ICAR 16, Napoli)

Antonella Greco (ICAR 18, Roma)

Bruno Messina (ICAR 14, Siracusa)

Stefano Munarin (ICAR 21, Venezia)

Giorgio Peghin (ICAR 14, Cagliari)

I volumi pubblicati in questa collana vengono sottoposti a procedura di peer-review

ISBN 978-88-6242-857-6

Prima edizione Settembre 2023

© LetteraVentidue

© Filippo Lorenzo Balma

È vietata la riproduzione, anche parziale, effettuata con qualsiasi mezzo, compresa la fotocopia, anche ad uso interno o didattico.

Per la legge italiana la fotocopia è lecita solo per uso personale purché non danneggi l’autore. Quindi ogni fotocopia che eviti l’acquisto di un libro è illecita e minaccia la sopravvivenza di un modo di trasmettere la conoscenza. Chi fotocopia un libro, chi mette a disposizione i mezzi per fotocopiare, chi comunque favorisce questa pratica commette un furto e opera ai danni della cultura.

Book design: Stefano Perrotta

LetteraVentidue Edizioni S.r.l.

Via Luigi Spagna 50 P

96100 Siracusa

www.letteraventidue.com

DOMESTICO E ANTI-DOMESTICO

Il progetto dell’intimità radicale

INDICE

SELVATICO. RIPOLITICIZZARE IL SAPERE SULLO SPAZIO Antonio di Campli SPECCHI 11 A partire da un’immagine 14 Vertigini INTERNO 17 Stare dentro 25 Dai passage parigini all’atrio americano 33 Tra introversione e frammentazione 42 Città porose DOMESTICO 49 The colony of the little white man 59 Crisi familiari 65 Domesticità liquida 67 Lo spazio escludente OPACO 73 Heimlich/unheimlich 76 “La città e la città” 92 Per una città perturbante 98 Il progetto dello spazio opaco BIBLIOGRAFIA 06 10 16 48 72 120

SELVATICO

Ripoliticizzare il sapere sullo spazio

Le cose che si possono scrivere pensando, progettualmente, attorno al termine “selvatico” hanno poco a che fare con ciò che normalmente pensiamo attorno al ragionamento su politiche della sostenibilità, della bellezza, del vivere assieme pacificato e coeso.

Selvatico s’intende, parole e cose come corpo, progetto, comunità.

Cosa chiediamo, ancora, al progetto?

Vogliamo solo che sia lineare, ben disegnato e strutturato, centrato attorno a questioni chiare, che affronti lucidamente i problemi dell’abitare contemporaneo? E che presenti soluzioni, belle, sostenibili?

Che alluda a condizioni di abitare condiviso pacificato? Che smascheri errori o malintesi, che esprima messaggi di conforto? Questo pensiero attraversa l’inconscio collettivo della produzione progettuale contemporanea. È quasi una ricetta, potremmo dire.

O il progetto può essere un movimento verso un territorio selvatico?

E il progetto, è solo luogo di conforto, o è ancora forma di conoscenza, oggi?

Può essere entrambe le cose, non questo o quello, ma questo e quello?

La quest e la quiete.

Soprattutto, c’è una togetherness, una comunità di soggetti, di corpi, che desidera questo?

Cosa sappiamo col corpo? Che è il primo luogo del selvatico. Invecchia, si trasforma, perde sangue, crea corpi suoi, muore per corpi estranei.

Cerca anche la distruzione, se necessario.

Può essere persuaso? Forse.

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Amitav Gosh, nel suo saggio La grande cecità. Il cambiamento climatico e l’impensabile, scrive qualcosa di davvero impensabile: che una tigre, e ancora passi, ma Gosh si spinge oltre, che una tempesta, un cataclisma, ci guarda con intenzione. Questo è per noi impensabile, lo è e basta, o lo è ancora, e anche se non attribuiamo alla parola intenzione un senso umano.

Ma il selvatico, da dentro di noi, ci guarda in questo modo. Come qualcosa che è inventato da noi, in relazione a qualcosa che non lo è.

Ma a questo punto, che cosa sarebbe il selvatico? In architettura?

Nella ricerca progettuale? Negli studi urbani?

La parola ci dice due cose.

Il selvatico è infinito, nel senso di sconfinato. Non ha confini, o meglio noi non li conosciamo. È un luogo dove non ci siamo mai addentrati, e chi vi si è addentrato non ha fatto ritorno. Lo sappiamo. È l’inquietudine che prende guardando fuori, aprendo la porta che dà sul bosco.

In realtà, quei confini li conosciamo benissimo, solo non desideriamo attraversarli.

Il «pensiero selvaggio», dice Levi-Strauss, non mira ad alcun rendimento, a nessuna messa in valore, a nessuna performance. Selvatico non riguarda la produzione, la sostenibilità, la condivisione, la bellezza ma la generazione.

Il selvatico è sempre deciso da noi. Si crea nel momento in cui chiudiamo la porta di casa, definiamo un dentro e un fuori, e anche se non c’è una casa, anche se siamo nomadi o abitiamo ripari precari.

Ma la mente inizia a funzionare in quel taglio, e così facendo riapre la porta, si getta fuori, oltre, inizia a percorrere un sentiero sterrato, poi abbandona anche quel sentiero.

Viene da sé, che il selvatico sia un posto pericoloso.

Il pericolo può anche non prendere mai una forma, ma è implicito nell’assenza di confini, di mappe che, quando ci sono non riportano che elementi parziali. Mappe buone per un unico viaggio. Ma i viaggi sono infiniti e così il selvatico si trova a essere inesauribile, proprio perché non esiste, e siamo noi a crearlo. Ma se si smette di crearlo, Cosa accade? Che si desidera il giardino, che si desidera confortare attraverso il progetto.

È così? Immaginiamo diversamente la relazione. Il giardino, o l’orto addirittura, e fuori il bosco.

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Selvatico. Ripoliticizzare il sapere sullo spazio

DOMESTICO

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Domestico

1. The colony of the little white man

Il concetto di domesticità è in sé un paradosso. Nella modernità, in Occidente, la casa, intesa come rifugio, diviene dispositivo di individuazione di un’idea di famiglia molto più circoscritta rispetto a quella dei secoli precedenti. Ne diviene oggetto simbolico, luogo di rappresentanza, articolato secondo spazi e funzioni definite, di un’unita di corpi molto precisa: padre, madre, figli. Attraverso tappezzerie, cornici dorate e lampadari in cristallo, la nuova classe borghese ha perseguito un suo progetto politico e espresso una specifica forma di potere in cui le nozioni di domesticità e addomesticamento hanno implicitamente occultato forme di potere patriarcale2. L’invenzione della privacy ha in seguito sostenuto la ridefinizione dell’idea di spazio pubblico nel senso attuale. Il modello domestico ha radici lontane, quasi antropologiche, nei rapporti fra gli uomini e nelle strutture relazionali da essi create. La parola stessa domesticità non ne fa mistero3. Tuttavia, l’etimo aiuta a coglierne i significati, ma non le reali radici di questo concetto. Infatti, sebbene l’idea di domesticità in epoca antica alludesse a una serie di relazioni di gerarchia, queste perduravano già da tempo. Ma i romani con le loro domus non furono i primi, ma nemmeno gli ultimi ad avere a che fare con modelli domestici. È, soprattutto, a partire dall’Ottocento che il capitalismo avrebbe sfruttato la domesticità per l’accumulazione di capitale, la sua perpetuazione e l’imposizione di un vero e proprio ordine sociale, ancor’oggi diffuso. Cambiano i desideri del corpo nello spazio. Attraverso l’emergere dell’idea domestica della casa, la ricerca di stabilità, protezione, calore e intimità sono sfumati in moderni valori quali la separazione del lavoro, la privacy, il comfort e l’attenzione verso la famiglia4. Proprio la nozione di famiglia, di origine borghese, diventa il cardine attorno al quale si costruisce lo spazio domestico e, quindi, la casa, come oggi è conosciuta. La famiglia “moderna” non è, infatti, un’unità biologica naturale, bensì un prodotto della storia5. A partire dalla classe borghese, e successivamente anche fra la classe operaia, il sistema capitalista impose un modello di relazioni sociali chiuso, gerarchico e addomesticato, ponendo il nucleo famigliare come unità fondante: la colonna portante di un’intera sovrastruttura. Un modello di fatto patriarcale, che approfitta delle divisioni

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famiglia, condizionando il vivere occidentale, e non solo. La televisione e la fiction sono stati cruciali in questo senso30.

Nonostante le idilliache immagini che la cultura americana offre al mondo, le ombre del progetto capitalista e patriarcale ottocentesco non sono del tutto scomparse. Il sogno borghese viene portato a termine per mezzo di una omologazione culturale. Anche questa volta, la serialità delle case unifamiliari sono figlie di un pensiero capitalista che perdura grazie al mantenimento di un ordine sociale. Il nuovo interno continua a funzionare come strumento coercitivo e, allo stesso tempo, standardizza lo stile di vita, impedisce la generazione di diversità culturale31.

Ciò che il resto dell’Occidente ha ereditato dall’America è evidentemente un modello culturale e sociale. Evidentemente, non tutta l’Europa ha ripetuto il tipo della casa unifamiliare in modo così importante

Domestico e anti-domestico 60 Bed Room Bed Room Parents’ Bed Room Parents’ Bed Room Living Room Bed Room Bed Room Living Room Scullery Scullery w c Lobby w c Lobby Gallery 0 2,5 m
Henry Roberts, Plan of Model House for Four Families, 1851. In H. Evans, Translation from Drawing to Building. Ridisegno dell’autore
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come negli Stati Uniti, sicuramente per motivi storici e geografici. Non si tratta, quindi, di un’eredità architettonica, in senso stretto. Piuttosto, l’influenza anglosassone riguarda soprattutto il ruolo che assume la casa e la famiglia nelle nostre vite. È un ruolo che chiaramente mostra delle criticità e alimenta delle ingiustizie sociali, come la divisione sessuale. Che uniforma la concezione dello spazio tramite immagini estetizzate, immagini Pinterest. Da un lato, è quel modello che spinse nell’Ottocento il flâneur a cercare sé stesso altrove, in città. È la casa nata per accogliere che, però, tende a escludere. Dall’altro lato, l’interno domestico è lo spazio che, ancora oggi, ci dà consolazione. Forse perché è un modello troppo radicato nella nostra realtà.

Le contraddizioni vengono però a galla. La società cambia, diventa maggiormente cosciente della propria condizione, dei propri diritti. Cambiano anche gli stili di vita, le strutture relazionali, i desideri del

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0 2,5 m
John Wood the Younger, Cottages with Two Rooms, 1806. Serie di piante per cottage e abitazioni per la classe operaia. Winterthur Museum, Garden and Library, Winterthur. In Maudlin, Habitations of the labourer. Ridisegno dell’autore
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2.2.4. Interruzione III / Trincerone: la cortina-promenade

A partire dallo scalo Vanchiglia, si protrae una terza interruzione: il trincerone. Un lungo tratto di ferrovia dismesso che, come una trincea appunto, solca il quartiere di Barriera di Milano, separando il tessuto denso, storico, da quello più aperto, recente. Prosegue come un fiume, attraversato ogni tanto da qualche via che unisce le due borgate separate.

A questo corridoio è promessa la realizzazione della seconda linea della metropolitana.

Da un lato cortina, dall’altro promenade ecologica. Un lungo polmone verde divide la città e la fa respirare. Tuttavia, il suo potenziale non è ancora sfruttato a pieno. Incassato nel terreno, come il trincerino, il trincerone permette la proposizione di una nuova idea di interno: lungo, quasi infinito, fortemente introverso, ma disponibile alla coesistenza.

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2.2.5. Interruzione IV / Spina 4: la scucitura

All’estremità opposta del trincerone, troviamo l’area nota come spina 4, ovvero la quarta e ultima porzione (non realizzata) del progetto della spina centrale della città. L’ultimo PRG del 1995 prevedeva la realizzazione di un passante ferroviario, interrando la storica linea Torino-Milano; e un progetto di riqualifica delle aree limitrofe. Quest’area interrompe spazialmente la città dividendo i quartieri di Barriera di Milano (a Est) da Borgo Vittoria (a Ovest), nonché Torino dal suo intorno, vista la mancata realizzazione del collegamento all’autostrada. Ma allo stesso tempo interrompe le aspettative di un possibile ricongiungimento sociale fra parti di città da anni disunite. Dunque spina 4, più che ricongiungere, scuce, frammenta la città. Alterna spazi nascosti e introversi a spazi più aperti. Qui più che nelle altre interruzioni, è uno spazio indefinito, come indefinita è la sua identità. La vicinanza al confine comunale, ad aree agricole, la presenza di aree residenziale e industriali, alcune in uso, alcune dismesse, alcune riconvertite prefigurano un quadro incerto e inquieto.

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Opaco

— Hai notato come sta cambiando il quartiere ultimamente?

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Opaco
— Dici? A me sembra sempre lo stesso.
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— Ehi?! Pronto, pronto? Tutto bene, ci sei ancora?
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Opaco
* Tu-tu-tu… *

Questo libro indaga la nozione di domestico e le sue conseguenze nel progetto urbano e, più in generale, nella costruzione dei rapporti tra corpo e spazio all’interno della cultura occidentale. L’ipotesi sostenuta è che i sempre più diffusi fenomeni di interiorizzazione e domesticazione dello spazio urbano, esito del trionfo delle logiche neoliberali nei processi di trasformazione e rigenerazione urbana, diano luogo a condizioni ostili, in cui si produce conflitto tra differenze sociali, ecologiche, spaziali, che mettono in gioco la dimensione del corpo. Il domestico, come condizione socio-spaziale, è capace di influenzare la relazione a scale differenti, ridefinendo i confini tra interno ed esterno, tra privato e pubblico, ovvero tra corpo e spazio. In tal senso, vengono analizzati criticamente i concetti di interno e domestico, esplorando logiche alternative di pensiero, provando a rendere operative, dal punto di vista progettuale, le condizioni di opacità e perturbante. Alcune parti di Torino Nord vengono riconosciute come contesto fertile per esplorare la possibilità di tali condizioni.

9 788862 428576 € 15,00

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